loader
menu
© 2025 Eddyburg

Dobbiamo un caloroso ringraziamento a Guido Viale. Mentre nessuno - anche tra i pochi che continuano a resistere - sembra intravedere un'alternativa a quella sorta di Tempi moderni in forma di contratto aziendale, proposto da Marchionne ai lavoratori di Pomigliano; mentre un gruppo di economisti di sinistra audacemente propone una tassazione a carico di rendite e capitali, ma al fine di assicurare forte ripresa e stabile sviluppo, quale unica garanzia di occupazione; Viale afferma che il "piano A" previsto per Pomigliano (cioè produrre e vendere in Europa 30 milioni di auto all'anno) è inattuabile: il mercato europeo non tirerà affatto come si vorrebbe e anche Marchionne lo sa. (il manifesto, 16 giugno, p. 1-10)

Il fatto è - spiega tranquillamente Viale - che «l'auto è un prodotto obsoleto, che nei paesi ad alta intensità automobilistica non può che perdere colpi: tirano per ora solo i paesi emergenti, fino a che il disastro ambientale, peraltro imminente, non li farà recedere anch'essi». E però «è ora di dimostrare che non è vero che non c'è alternativa. L'alternativa è la conversione ambientale del sistema produttivo - e dei nostri consumi - a partire dagli stabilimenti in crisi e dalle fabbriche di prodotti obsoleti e nocivi: tra i quali l'automobile occupa il secondo posto, dopo gli armamenti».

Troppo semplice? Semplicistico? Ma a volte è questo il modo migliore per imporre idee che soltanto qualche inascoltato temerario ha il coraggio di formulare. Alla sua maniera diretta e spiccia, Viale della crisi ecologica planetaria, e dell'urgenza di affrontarla e possibilmente risolverla, dice sostanzialmente tutto. A partire dai governi che «continuano a riempirsi la bocca con la parola crescita, e stanno riportandoci all'età della pietra»; che buttano miliardi «nel pozzo senza fondo delle rottamazioni», mentre orientano cospicui «flussi finanziari a cementificare il suolo, a rendere irrespirabile l'aria delle città e impraticabili le strade e le piazze, a riempirci di veleni rendendo sempre più sterili i suoli agricoli»; che insistono nel disattendere le direttive di Kyoto pagando di conseguenza cospicue penali.

Debbo dire però che, se questa denuncia di una situazione-limite, e però radicata su un fatto inoppugnabile e tremendo come l'incombente catastrofe ecologica, mi pare quanto mai utile, un po' meno mi convincono le soluzioni - alcune almeno - che Viale propone. Le fonti di energia rinnovabile come alternativa alle energie fossili, innanzitutto. Non perché non abbiano una loro valenza positiva, e non è un caso che siano nate in ambito ambientale, pensate come alternativa alle energie fossili non solo estremamente inquinanti, e infatti tra le cause prime del mutamento climatico, ma in via di rapido esaurimento. Non può però non sollevare interrogativi il fatto che la proposta con entusiasmo venga fatta propria e rilanciata dal sistema, ai fini di una green economy, capace di imporsi sui mercati come green business, con alta green competitivity, al fine della più robusta "green growth", ecc. Cioè per la continuità dell'attuale logica produttivistica, quella che Viale giustamente indica come causa prima del dissento ambientale. Non intendo negare l'utilità di queste nuove tecniche, ma credo che possano risultare davvero efficaci solo all'interno di una mutata logica produttiva, come quella che appunto Guido Viale auspica.

L'altra affermazione di Viale su cui ho qualche riserva, è che la conversione ecologica si costruisca dal basso, sul territorio: «fabbrica per fabbrica, campo per campo, quartiere per quartiere, città per città», come «il prodotto di mille iniziative dal basso». Non c'è dubbio che tutto ciò sia frutto di una sensibilità al pericolo ambiente ormai largamente presente a tutti i livelli, ma soprattutto forse proprio tra i ceti popolari; e questo certo può costituire l'humus più fertile per lo sviluppo di forze e politiche impegnate nella difesa dell'ambiente. Non so però se tutto ciò di per sé possa rappresentare la soluzione di un problema di portata planetaria. determinante per l'equilibrio di tutti i paesi, quale la sempre più terrificante crisi ecologica. Un mondo oggi definito e sostanzialmente governato dalla globalizzazione. Innanzitutto globalizzazione economica: conseguenza dell'evolversi e dilatarsi del capitalismo, che dovunque ha portato i suoi prodotti e i suoi modi di produzione. Ed è certo anche globalizzazione culturale, che il continuo potenziamento dei mezzi di comunicazione, la crescita del turismo di massa, la velocità dei sistemi di trasmissione microelettronica, rendono sempre più penetrante e determinante di modi e modelli di vita, e della loro omogeneizzazione. Non esiste però una globalizzazione politica: una mancanza di cui si avverte ormai urgente il bisogno, innanzitutto proprio ai fini della salvaguardia dell'equilibrio ecologico; quello almeno che ne rimane.

Compito immane, certo, ma forse non impossibile. Che potrebbe (dovrebbe?) far proprio anche quello che Viale indica come primo impegno di riconversione ecologica della produzione: cioè gli armamenti, cui dovrebbe seguire l'automobile. E proprio l'importanza strategica del tema "armamenti" esigerebbe una convergenza di consultazioni e delibere a livello planetario. Come dire, una sorta Bretton Woods del XXI secolo...

Utopia? In qualche modo sì. Ed è quello che sempre si rinfaccia a chiunque avanzi ipotesi del genere. La guerra è sempre esistita: questa è l'obiezione immediata. Ma è anche vero che la storia è fatta di cose che prima non c'erano, e di molte altre, durate per secoli e millenni, poi irrecuperabilmente finite. E poi: una crescita produttiva continua, senza limiti di tempo né di quantità, non è un'utopia? Una tremenda utopia negativa?

Resta tuttavia un altro interrogativo, di importanza cruciale: chi, quale soggetto politico o istituzionale, sarebbe oggi in grado di affrontare tale impegno e farsene carico? Secondo logica e storia, toccherebbe alle sinistre: le quali - anche se nessuno pare ricordarsene - sono nate per combattere il capitalismo. Ma è credibile che le sinistre attuali, quello che ne resta, trovino spinta sufficiente a recuperare quell'obiettivo? Basterebbe il coraggio di guardare la realtà, come suggerisce Viale, per concludere con lui: «Si tratta di dire, saper dire, che cosa si vuole»?

Non c'è alternativa. Questa sentenza apodittica di Margaret Thatcher per la quale è stato creato anche un acronimo (Tina: there is no alternative) è la silloge del cosiddetto «pensiero unico» che nel corso dell'ultimo trentennio ha accompagnato le dottrine più o meno «scientifiche» da cui sono state orientate, o con cui sono state giustificate, le scelte di volta in volta dettate dai detentori del potere economico: prima liberismo (a parole, con grande dispendio di diagrammi e formule matematiche, ma senza mai rinunciare agli aiuti di stato e alle pratiche monopolistiche); poi dirigismo e capitalismo di stato (per salvare banche, assicurazione e giganti dell'industria dai piedi d'argilla dal precipizio della crisi); per passare ora a un vero e proprio saccheggio, usando come fossero bancomat salari, pensioni, servizi sociali e «beni comuni», per saldare i debiti degli Stati messi in crisi dalle banche appena salvate. Così la ricetta che non contempla alternative oggi è libertà dell'impresa; che va messa al di sopra di sicurezza, libertà e dignità, ovviamente dei lavoratori, inopportunamente tutelate dall'art. 41 della Costituzione italiana.

A enunciarlo in forma programmatica è stato Berlusconi, subito ripreso dal ministro Tremonti e, a seguire, dall'autorità sulla concorrenza, che non ha mai mosso dito contro un monopolio. A tradurre in pratica quella ricetta attraverso un aut aut senza condizioni, subito salutato dagli applausi degli imprenditori giovani e meno giovani di Santa Margherita Ligure, è stato l'amministratore delegato della Fiat, il Valletta redivivo del nuovo secolo. Eccola. Limitazione drastica (e anticostituzionale, ma per questi signori la Costituzione va azzerata; e in fretta!) del diritto di sciopero e di quello di ammalarsi.

Una organizzazione del lavoro che sostituisce l'esattezza cronometrica del computer alla scienza approssimativa dei cronometristi (quelli che un tempo alla Fiat si chiamavano i «vaselina», perché si nascondevano dietro le colonne per spiare gli operai e tagliargli subito i tempi se solo acceleravano un poco per ricavarsi una piccola pausa per respirare). Una turnazione che azzera la vita familiare, subito sottoscritta da quei sindacalisti e ministri che due anni fa erano scesi in piazza per «difendere la famiglia»: la loro, o le loro, ovviamente. È un ricatto; ma non c'è alternativa. Gli operai non lo possono rifiutare e non lo rifiuteranno, anche se la Fiom, giustamente, non lo sottoscrive. L'alternativa è il licenziamento dei cinquemila dell'Alfasud - il «piano B» di Marchionne - e di altri diecimila lavoratori dell'indotto, in un territorio in cui l'unica vera alternativa al lavoro che non c'è è l'affiliazione alla camorra.

Per anni, a ripeterci «non c'è alternativa» sono stati banchieri centrali, politici di destra e sinistra, sindacalisti paragovernativi, professori universitari e soprattutto bancarottieri. Adesso, forse per la prima volta, a confermarlo con un referendum, sono chiamati i lavoratori stessi che di questo sopruso sono le vittime designate. Ecco la democrazia del pensiero unico: votate pure, tanto non c'è niente da scegliere.

Effettivamente, al piano Marchionne non c'è alternativa. Nessuno ci ha pensato; neanche quando il piano non era ancora stato reso pubblico. Nessuno ha lavorato per prepararla, anche quando la crisi dell'auto l'aveva ormai resa impellente. Nessuno ha mai pensato che sarebbe stato necessario averne una, anche se era chiaro da anni che prima o poi - più prima che poi - la campana sarebbe suonata: non solo per Termini Imerese, ma anche per Pomigliano.

Ma a che cosa non c'è alternativa? Al «piano A» di Marchionne. Un piano a cui solo se si è in malafede o dementi si può dar credito. Prevede che nel giro di quattro anni Fiat e Chrysler producano - e vendano - sei milioni di auto all'anno: 2,2 Chrysler, 3,8 Fiat, Alfa e Lancia: un raddoppio della produzione. In Italia, 1,4 milioni: più del doppio di oggi. La metà da esportare in Europa: in un mercato che già prima della crisi aveva un eccesso di capacità del 30-35 per cento; che dopo la sbornia degli incentivi alla rottamazione, è già crollato del 15 per cento (ma quello della Fiat del 30); e che si avvia verso un periodo di lunga e intensa deflazione.

Quello che Marchionne esige dagli operai, con il loro consenso, lo vuole subito. Ma quello che promette, al governo, ai sindacati, all'«opinione pubblica» e al paese, è invece subordinato alla «ripresa» del mercato, cioè alla condizione che in Europa tornino a vendersi sedici milioni di auto all'anno. Come dire: «il piano A» non si farà mai.

Non è una novità. Negli ultimi dieci anni, per non risalire più indietro nel tempo, di piani industriali la Fiat ne ha già sfornati sette; ogni volta indicando il numero di modelli, di veicoli, l'entità degli investimenti e la riduzione di manodopera previsti. Tranne l'ultimo punto, che era la vera posta in palio, degli obiettivi indicati non ne ha realizzato, ma neanche perseguito, nemmeno uno. Ma è un andazzo generale: se i programmi di rilancio enunciati da tutte le case automobilistiche europee andassero in porto (non è solo la Fiat a voler crescere come un ranocchio per non scomparire) nel giro di un quinquennio si dovrebbero produrre e vendere in Europa 30 milioni di auto all'anno: il doppio delle vendite pre-crisi. Un'autentica follia.

Dunque il «piano A» non è un piano e non si farà. L'alternativa in realtà c'è, ed è il «piano B». Se a chiudere non sarà Pomigliano, perché Marchionne riuscirà a farsi finanziare da banche e governo (che agli «errori» delle banche può sempre porre rimedio: con il denaro dei contribuenti) i 700 milioni di investimenti ipotizzati e a far funzionare l'impianto - cosa tutt'altro che scontata - a cadere sarà qualche altro stabilimento italiano: Cassino o Mirafiori. O, più probabilmente, tutti e tre. La spiegazione è già pronta: il mercato europeo non «tirerà» come si era previsto

Hai voglia! Il mercato europeo dell'auto è in irreversibile contrazione; l'auto è un prodotto obsoleto che nei paesi ad alta intensità automobilistica non può che perdere colpi: «tirano», per ora, solo i paesi emergenti - fino a che il disastro ambientale, peraltro imminente, non li farà recedere anch'essi - ma le vetture che si vendono là non sono certo quelle che si producono qui: né in Italia né in Polonia.

Anche se la cosa non inciderà sulle scelte dei prossimi mesi, è ora di dimostrare che non è vero che non c'è alternativa. L'alternativa è la conversione ambientale del sistema produttivo - e dei nostri consumi - a partire dagli stabilimenti in crisi e dalle fabbriche di prodotti obsoleti o nocivi, tra i quali l'automobile occupa il secondo posto, dopo gli armamenti. I settori in cui progettare, creare opportunità e investire non mancano: dalle fonti di energia rinnovabili all'efficienza energetica, dalla mobilità sostenibile all'agricoltura a chimica e chilometri zero, dal riassetto del territorio all'edilizia ecologica. Tutti settori che hanno un futuro certo, perché il petrolio costerà sempre più caro - e persino le emissioni a un certo punto verranno tassate - mentre le fonti rinnovabili costeranno sempre meno e l'inevitabile perdita di potenza di questa transizione dovrà essere compensata dall'efficienza nell'uso dell'energia. L'industria meccanica - come quella degli armamenti - può essere facilmente convertita alla produzione di pale e turbine eoliche e marine, di pannelli solari, di impianti di cogenerazione. Poi ci sono autobus, treni, tram e veicoli condivisi con cui sostituire le troppe auto, assetti idrogeologici da salvare invece di costruire nuove strade, case e città da riedificare - densificando l'abitato - dalle fondamenta.

Ma chi finanzierà tutto ciò? Se solo alle fonti rinnovabili fosse stato destinato il miliardo di euro che il governo italiano (peraltro uno dei più parsimoniosi in proposito) ha gettato nel pozzo senza fondo delle rottamazioni, ci saremmo probabilmente risparmiati i due o tre miliardi di penali che l'Italia dovrà pagare per aver mancato gli obiettivi di Kyoto. Ma anche senza incentivi, le fonti rinnovabili si sosterranno presto da sole e i flussi finanziari oggi instradati a cementare il suolo, a rendere irrespirabile l'aria delle città, impraticabili le strade e le piazze, a riempirci di veleni per rendere sempre più sterili i suoli agricoli, a sostenere un'industria delle costruzioni che vive di olimpiadi, expo, G8, ponti fasulli e montagne sventrate potranno utilmente essere indirizzati in altre direzioni. È ora di metterci tutti a fare i conti!

Ma chi potrà fare tutte queste cose? Non certo il governo. Né questo né - eventualmente - uno di quelli che abbiamo conosciuto in passato; e meno che mai la casta politica di qualsiasi parte. Continuano a riempirsi la bocca con la parola crescita e stanno riportandoci all'età della pietra.

La conversione ecologica si costruisce dal basso «sul territorio»: fabbrica per fabbrica, campo per campo, quartiere per quartiere, città per città. Chi ha detto che la programmazione debba essere appannaggio di un organismo statuale centralizzato e non il prodotto di mille iniziative dal basso? Chiamando per cominciare a confrontarsi in un rinnovato «spazio pubblico», senza settarismi e preclusioni, tutti coloro che nell'attuale situazione non hanno avvenire: gli operai delle fabbriche in crisi, i giovani senza lavoro, i comitati di cittadini in lotta contro gli scempi ambientali, le organizzazioni di chi sta già provando a imboccare strade alternative: dai gruppi di acquisto ai distretti di economia solidali. E poi brandelli di amministrazioni locali, di organizzazioni sindacali, di associazioni professionali e culturali, di imprenditoria ormai ridotta alla canna del gas (non ci sono solo i «giovani imprenditori» di Santa Margherita); e nuove leve disposte a intraprendere, e a confrontarsi con il mercato, in una prospettiva sociale e non solo di rapina.

Il tessuto sociale di oggi non è fatto di plebi ignoranti, ma è saturo di intelligenza, di competenze, di interessi, di saperi formali e informali, di inventiva che l'attuale sistema economico non sa e non vuole mettere a frutto.

Certo, all'inizio si può solo discutere e cominciare a progettare. Gli strumenti operativi, i capitali, l'organizzazione sono in mano di altri. Ma se non si comincia a dire, e a saper dire, che cosa si vuole, e in che modo e con chi si intende procedere, chi promuoverà mai le riconversioni produttive?

Parto dalla affermazione apparentemente paradossale contenuta in un bell´articolo di Mario Pirani (la Repubblica del 17 giugno) secondo la quale la marea nera del Golfo del Messico è assimilabile alla crisi finanziaria mondiale. Ambedue sono pulsioni di un capitalismo sregolato. Nel primo caso la sregolatezza consiste nell´uso ecologicamente ed economicamente dissennato di risorse scarse. Nel secondo, nel ricorso frenetico e altrettanto dissennato a risorse inesistenti: i risparmi delle generazioni future.

Nel primo caso il capitalismo si avvia a una crescita impossibile. Nel secondo, ad una altrettanto impossibile mercatizzazione del futuro. Quanto al primo, sono ormai sotto gli occhi di tutti le conseguenze: effetto serra, inquinamento, rifiuti. Il secondo è stato invece, fino a ieri, vantato come il più prodigioso successo storico del capitalismo.

Il vero successo storico del capitalismo era stata la realizzazione, nei primi decenni del dopoguerra, in Occidente, di un patto tra capitalismo e democrazia, un compromesso socialdemocratico in Europa e liberaldemocratico negli Stati Uniti, che associava la promessa della prosperità economica a quella di una crescente equità sociale.

Quel compromesso è stato spazzato via dalla liberazione dei movimenti di capitale. La globalizzazione, che ne è risultata, ha rovesciato i rapporti di forza tra i Governi e le Multinazionali, tra il capitale e il lavoro, tra la politica e l´economia. Ha generato un enorme e crescente squilibrio tra redditi di lavoro e redditi di capitale. Questo squilibrio avrebbe potuto resuscitare i conflitti rovinosi. dell´anteguerra. Furono evitati grazie a una «mossa del cavallo»: al ricorso massiccio e disinibito all´indebitamento. L´indebitamento spinse i consumi americani ben al di là dei limiti della produzione ignorando, grazie alla impunità del dollaro, il problema del disavanzo. L´indebitamento provocò la straordinaria espansione delle attività finanziarie fino al quadruplo del prodotto reale costituendo la base del nuovo super potere finanziario. La condizione di sostenibilità di questo colossale indebitamento era che il credito fosse continuamente rinnovato. Come l´economista Marc Bloch affermò, il capitalismo sembrava essere diventato il solo regime in cui i debiti non erano mai rimborsati. Illusione. Come le onde del mare, che si accavallano l´una sull´altra, anche le onde del debito erano destinate a infrangersi contro la riva. Alla fine del primo decennio del secolo, la più devastante crisi degli ultimi ottant´anni ha investito l´America propagandosi poi nel mondo.

Questa volta, la reazione è stata fulminea. Gli Stati hanno pagato i conti della crisi. L´indebitamento si è spostato dal privato al pubblico.

A differenza di quello privato, però, l´indebitamento pubblico viene subito a galla. E l´aspetto più grottesco è la sua denuncia da parte di coloro che ne sono stati beneficati. In queste condizioni si pone il problema di come disciplinare la finanza senza frenare la crescita. Frenare la finanza significa ridurre i debiti, il che è terribilmente difficile sia per lo Stato che deve fronteggiare la reazione politica ai tagli della spesa pubblica, sia per le imprese, una grande parte delle quali contano sul ricorso al credito per chiudere i conti. Ma soprattutto, frenare la finanza significa limitare drasticamente il potere delle banche di creare moneta, come hanno largamente fatto nelle più svariate e dissimulate forme. Finora nessuno ci ha neppure provato. E infine, se anche si riuscisse a ridurre l´indebitamento, dove trovare le risorse per finanziare gli investimenti necessari alla crescita? Temo che la scelta sarebbe quella tra rinunciarvi, accettando un lungo periodo di ristagno (vedi Giappone) o ricavare risorse dalla compressione dei redditi di lavoro e della spesa sociale. Non è ciò che minaccia di verificarsi in Europa?

Resta la prospettiva più improbabile: quella di riorientare l´economia verso uno sviluppo, come dice Pirani, «ragionevole e compatibile» ecologicamente e finanziariamente. Il che comporta grandi spostamenti nella attuale distribuzione di redditi rispetto a quella attuale, "paurosamente" squilibrata (vedi Scalfari su Repubblica del 23 giugno) e nella riallocazione delle risorse, tra beni privati e beni sociali. Ma anche, e soprattutto, un riorientamento etico. Certo, è possibile. Anzi, è necessario. Ma per chi ha passato tutta la vita a sostenere che questo è il vero problema, è difficile immaginare che il miracolo si compia nella parte che gli resta.

Lo slogan «da Pomigliano non si tocca a Pomigliano non si piega» è emerso dall'interno di una conricerca che un gruppo di giovani ricercatori del Crs sta conducendo da tempo in quella fabbrica insieme agli operai. Descrive l'arco di sviluppo della vicenda, fino all'esito a sorpresa del referendum: dalla difesa del posto di lavoro alla rivendicazione della dignità e della libertà del lavoratore. La posta in gioco infatti si è alzata. E chi l'ha alzata imprudentemente è stato l'intelligentissimo ed efficientissimo management Fiat, con una ben orchestrata manovra politica su una delicata situazione economica. Hanno commesso un errore. E una volta tanto hanno perso.

Non era solo Marchionne. E non ha perso solo lui. Mi sono chiesto: perché la questione Pomigliano è salita al centro dell'attenzione politica, primi titoli sui giornali, prima notizia nelle tv? Era forse morto per incidente sul lavoro un grappolo di operai, unico motivo di visibilità per queste sottopersone? No, semplicemente si tentava un colpo in fabbrica, in un pezzo di paese, per dire a tutti che cominciava una nuova età di rapporto tra impresa e lavoro - l'ormai famoso e incredibilmente supponente dopo Cristo - e che esemplificava brutalmente ed empiricamente l'intento più generale di rovesciare il dettato costituzionale del vetusto, avanti Cristo, art. I, Repubblica democratica fondata sul lavoro. Nell'impresa comando io, se volete lavorare queste sono le condizioni, non trattabili, dovete solo dire si o no, l'unico sindacato ammissibile è il sindacato di collaborazione, niente più, mai più, sindacato di conflitto. Il direttore del Sole24ore diceva: lì si gioca una partita del campionato del mondo nella globalizzazione, il fondatore di Repubblica sentenziava, come fa ormai profeticamente: non è un ricatto, è la pura realtà, e così via.

In verità il modello non era nuovo, celebrava un trentennale, anno 1980, sempre Fiat, stessi moduli, perfino la marcetta dei disponibili, e questa volta dei ricattati. Sotto il pullover sono rispuntati Valletta e Romiti, dei bei tempi Cinquanta e Ottanta. Qualcuno sa che a Nola c'è un reparto confino, dove vengono spediti gli insubordinati di Pomigliano? La Fabbrica che si intitola a Gianbattista Vico ripropone corsi e ricorsi.

La notizia qual è. E' che questa volta gli è andata male. E gli è andata male per il solo merito di quel 40% di operai che hanno detto: non ci stiamo. E per il solo altro merito di quella Fiom, che si voleva sconfiggere una volta per tutte, ultimo residuo di una conflittualità operaia, estrema espressione fuori tempo di quella novecentesca - e oggi dire novecentesca è come dire medioevale - lotta di classe.

Insomma, l'hanno voluta mettere sul piano simbolico e sul piano simbolico hanno rimediato una sconfitta. Guardate come arretrano i grandi organi di opinione: ma forse c'è ancora un problema lavoro, ma dunque c'è lavoro materiale e non solo immateriale, ci sono tute blu e non solo camici bianchi, c'è il salario e non solo partite Iva.

Eppure il punto da mettere in evidenza non è questo. Chi se ne importa di quello che dicono. Il fatto da cui bisognerebbe ripartire è questo nuovo livello di conflitto emerso nella vicenda, che loro hanno evocato e che quegli eroici «no» hanno rovesciato: da un lato ricchezza e potere dall'altro dignità e libertà. Da un lato l'arroganza di chi credeva di avere tutto nelle proprie mani, dall'altro chi ha rivendicato l'indisponibilità di alcune cose precise. Voi mettete 700 milioni e io vi dico che non mi vendo per questo, non metto a vostra disposizione la mia persona, rischio il lavoro ma tengo la testa alta e la schiena dritta. Una lezione. Non morale, ma politica. Viene da quel mondo. E apre una nuova frontiera a una sinistra moderna.

Non direi tanto lavoro e diritti. Direi di più lavoro e persona. Quel referendum in quel modo, sotto quelle condizioni, come ricatto sulla vita, sull'esistenza delle persone, non andava accettato. Era dovere di tutta la Cgil, era dovere di tutto il partito democratico, mettersi di traverso. Mi interessano qui meno gli sbreghi alla legalità, che pure c'erano, erano gravi e vanno ancora denunciati. Quel referendum era politicamente illegittimo. Era finalizzato a mettere gli operai contro la loro organizzazione e a mettere gli operai contro altri operai. Esito questo ancora presente, se dovessero emergere reali pericoli per l'occupazione. Adesso bisogna ricostruire una unità di lotta e costringere il padrone a trattare. La Fiat oggi è più debole e meno lucida, come si è visto dalle prime reazioni. E il governo non ha proprio niente da dire. Bisogna non aspettare, passare all'attacco, come sindacato generale e come partiti politici, proporre soluzioni e far cadere la discriminante anti-Fiom. E' il programma minimo.

Ma c'è un compito di più lungo periodo. La lezione va appresa. Il Pd ha preso sabato scorso una lodevole iniziativa: un'assemblea popolare contro la manovra governativa. Mi dicono sia riuscita molto bene, soprattutto nel discorso appassionato del segretario. Si poteva fare di più e meglio. In quella settimana, con rapida decisione, ad esempio, spostare il raduno dal Palalottomatica a Pomigliano. Senza tante parole, con un solo gesto, si sarebbe fatto capire che cos'è, e che cosa dovrebbe essere, un partito che si colloca in quello spazio fisico del Parlamento e del Paese. Non si trattava nemmeno di prendere posizione sul come votare, ma solo di stare lì, con gli operai del si e del no, a giocare la partita e non a vederla in tv. I giornali-guida del centro-sinistra li avrebbero colti in fallo al richiamo della foresta. I nativi sarebbero rimasti sconcertati, perché, immagino, la parola operai è come la parola compagni, qualcosa che non appartiene alla «loro» tradizione. Ma un popolo avrebbe respirato. E certo, non il popolo viola, che cercasi invano nei dintorni del problema Pomigliano. C'è da arrabbiarsi di fronte a certe mancate occasioni. E badate che questa rabbia cresce, è più diffusa di quanto si pensi. La sento arrivare su di me da varie parti. E solo per questo la esprimo. E non è un'istanza distruttiva, è un'energia positiva, nascosta nel fondo del paese, che bisogna far emergere, e farla parlare e parlare ad essa con le parole della politica, sottraendole le parole dell'antipolitica, con cui troppo spesso è costretta ad esprimersi. Occorre tornare a dirigere, a orientare, a indirizzare, per grandi segnali, in luoghi giusti e negli spazi che contano e che fanno veramente la differenza.

Il problema non è il Cavaliere, il problema è il Cavallo, e cioè questo modo d'essere che occupa le nostre vite e che osa sempre di più per avere un comando assoluto, modo d'essere di privilegi intoccabili, di poteri arroganti, di ingiustizie palesi, di sistema di leggi eterne, oggettive, dicono, nei cui confronti non c'è niente da fare se non piegarsi e obbedire. Ascoltateli questi «no» di Pomigliano: segnano il «che fare» per un'operazione forte di un grande partito a vocazione alternativa.

Nota. A proposito del fatto che il modello Marchionne non è nuovo si veda la lettera di Donato Belloni nella "Posta ricevuta"

La vicenda della Fiat di Pomigliano è andata come è andata. E io non voglio tornarci sopra: nelle condizioni date la posizione più saggia era quella di Bersani. Resta però in me un interrogativo di fondo e diventa dominante il bisogno di una riflessione capace di misurarsi con l’enorme novità di ciò che c’è dietro quella vicenda. Siamo arrivati a una sorta di sfida cruciale che investe il lavoro moderno, non solo italiano. Non è un problema sindacale. Io credo che sia il problema dell’uomo moderno e sul suo rapporto con l’economia.

Qualcosa che va oltre il vecchio conflitto novecentesco tra capitale e lavoro. Perciò mi appare tragica questa riduzione del lavoro a «residuo» su cui scaricare il peso di tutto, compreso il ladrocinio e l’evasione fiscale, ridurlo a precariato, a «mille mestieri » pur di sopravvivere. È la più grande contraddizione del nostro tempo, se alziamoun pochino la testa e comprendiamo che questo tempo chiede ben altro. Chiede il lavoro come fondamentale strumento di identità e di libertà degli uomini e di creazione delle società moderne (cosa che avvenne mica tanto tempo fa).

Insomma, il lavoro come civiltà all’ombra della quale l’uomo si è messo in grado di lavorare non come uno schiavo, di far libera impresa e di misurarsi con se stesso. Di creare il proprio futuro. Mi limito solo a ricordare che questo cammino è stato anche il fondamento etico, il presupposto che ha fatto del capitalismo occidentale un «ordine» in cui ricchi e poveri possono convivere: il mercato non come licenza di uccidere, ma come ciò che impedisce alla società umana di ridursi a una banda di lupi che si scannano tra loro. Insomma i diritti uguali, le regole.

Ecco perché mi colpisce molto il carico di stupidità che c’è dietro l’arroganza di certe lezioni di modernità che i vari Marchionne e Sacconi hanno rivolto agli operai di Pomigliano. Non discuto la necessità di disciplinare il lavoro di fabbrica, eliminare arretratezze e inefficienze. Ma dubito che una grande industria moderna possa resistere a lungo trattando gli operai (dopotutto persone e persone giovani, cittadini europei usciti dalle scuole medie) come degli «zombi» ai quali basta dire: ti licenzio se non fai la pipì prima di tre ore e per non più di «tot» minuti.

Non ignoro affatto che la mondializzazione sta avvenendo in forme tali per cui due secoli di conquiste di poche centinaia di operai occidentali (salari, diritti, Welfare) sono minacciate per la concorrenza di un paio di miliardi di nuovi operai del mondo in via di sviluppo pagati dieci volte meno e senza diritti e protezioni sociali. Ma ne stiamo misurando le conseguenze? Quelle più profonde, storiche, anche culturali. Non solo le conseguenze sulle condizioni del lavoro: quelle sul governo possibile del mondo mondializzato. So bene che stanno anche qui le ragioni profonde della crisi della sinistra e del suo vecchio pensiero classista. È difficile ripetere «proletari di tutto il mondo unitevi». Ma la storia cambia e la sinistra non può pensare solo il breve periodo.

Anche «lor signori» si devono porre qualche interrogativo per ciò che riguarda il futuro dell’ordine attuale, dal momento in cui vengono meno i vecchi presupposti etici e la tradizionale legittimazione storico-culturale della cosiddetta «economia sociale di mercato». Cito testualmente da una lettera al Foglio dell’ex ministro socialista Rino Formica che sembra ammonire i ministri attuali ex socialisti (Sacconi, Tremonti): «Dopo due secoli di lotte politiche, sociali e civili, una parte non trascurabile della sinistra scopre che va sciolto il patto tra diritti civili e diritti sociali. È questo un vero fatto storico. Pomigliano non è la vittoria dei riformisti sui massimalisti perché furono proprio i riformisti in polemica con i rivoluzionari a teorizzare il principio di inscindibilità tra conquiste di libertà e avanzamento sociale. Diciamolo con brutalità: è la vittoria dell’economia sulla politica».

Io voglio aggiungere con altrettanta «brutalità» che non si tratta dell’economia in astratto bensì dell’avvento di una nuova forma del capitalismo basata sul saccheggio dei risparmi (gli acquisti a credito) nonché delle risorse naturali e dei beni pubblici. Cioè di uno sfruttamento più ampio reso possibile dalla decisione di affidare alla finanza il governo della mondializzazione dando ad essa licenza di fare il denaro col denaro e di rompere il rapporto organico con la produzione.

La questione sociale, questa questione di cui da anni la sinistra si occupa poco se non per emendare la finanziaria di Tremonti è giunta davvero a una svolta. Però stiamo molto attenti a non sbagliare. Il cuore del conflitto non è più tra l’impresa e gli operai. E l’insieme del mondo dei produttori cioè delle persone che creano, pensano, lavorano e fanno impresa che sta subendo un inaudito sfruttamento. Ci sono le condizioni per alleanze più larghe.

L’economia di carta (l’alluvione dei titoli di credito) è arrivata a questo punto: ha raggiunto nel primo decennio di questo secolo, l’incredibile rapporto di quattro a uno rispetto al prodotto reale. Il che in pratica significa che spetta ai produttori sia delle merci che del capitale sociale (servizi, sicurezza, beni pubblici, ecc.) farsi, per dirla alla napoletana un «mazzo» tanto e stringere la cinta per garantire i profitti della rendita. È la vicenda degli operai di Pomigliano, la quale passa per la miseria dei cinesi e poi - un po’ meno - per quella dei polacchi. Finendo poi alla ricchezza strabiliante dei finanzieri. Con Marchionne «utile amico», ma subalterno.

Chissà se questa notte festeggerà la vittoria, Sergio Marchionne. Chissà se gli basterà il 70, o l'80 o se pretenderà il 90 per cento di sì per dire che la Panda si può fare a Pomigliano. Chissà se è vero che la Fiat vuole costruire automobili in quest'angolo reietto d'Italia, patria di ogni male, o se è solo alla ricerca di un capro espiatorio per dire: non possumus, noi avremmo voluto fare questo regalo al paese che da oltre un secolo ci dà da mangiare, ci sostiene e ci finanzia, ma ci sono quei residui novecenteschi della Fiom che si aggrappano al contratto, alla Costituzione e persino alla Carta di Nizza per mettere i bastoni tra le ruote del progresso. Dunque siamo costretti a far lavorare i polacchi, o i serbi, o chissachì perché tutti, tranne gli operai di Pomigliano, sono pronti a concedere più di quel che chiediamo. Se neanche Bersani, Scalfari e Epifani riescono a far firmare la Fiom in calce al fantastico testo che abbiamo scritto tra Torino e Detroit, vuol dire che non c'è niente da fare.

La Fiat ha scritto a tutti gli operai per convocarli al suo referendum. Prima li aveva chiamati con famiglie e fiaccole per far sfilare un popolo umiliato e senza alternative a Pomigliano. Come altri, chi servo chi umiliato, sfilarono trent'anni fa a Torino. A Romiti l'operazione riuscì meglio. I capi annotavano presenti e assenti, ma a Pomigliano erano di più i secondi. Hanno persino convocato in piazza novanta giovani già licenziati con la promessa di un futuro prospero. Hanno consegnato a casa di tutti i dipendenti un cd con la voce e la spiegazione del padrone, tutto per ottenere un plebiscito, sotto ricatto, o come si dice in una terra difficile come la Campania, sotto estorsione: se vuoi lavorare consegnami testa, braccia e diritti e io ti faccio il miracolo. San Gennaro scioglie il sangue, Marchionne scioglie diritti e democrazia.

Vuole l'umiliazione dell'«avversario», e con lui la vogliono il governo, la destra, un padronato come sempre pronto a saltare sul carro di chi sfonda la trincea nemica, per garantirsi gli stessi privilegi di Marchionne. Chi, dall'opposizione e dal fronte sindacale, dice che oggi bisogna scolare l'amaro calice ma sarà un'eccezione, o è una ruota di scorta Fiat o è meglio che cambi mestiere: nelle catene della Pomigliano di domani, in un futuro in cui il mercato dell'auto tornerà a implodere ci sarà tanto posto per i politici (disoccupati). Ieri a Pomigliano gli operai della Fiom dicevano che chi difende la Costituzione, ma solo fuori dai cancelli della fabbrica farà una brutta fine (anche meritata).

Marchionne pensa di poter vincere comunque. Con un plebiscito, una vittoria del terrore che sostituisce consenso e confronto. Con il licenziamento di tutti i dipendenti e la costituzione di una nuova società postdemocratica in cui assumere solo plebe. O addirittura annunciando che la Fiom ha deciso la chiusura di Pomigliano. Chi non capisce che l'attacco agli operai emette lo stesso fetore dell'attacco ai giudici e ai giornalisti ha già perso.

La globalizzazione ha prodotto un fenomeno nuovo nel mercato del lavoro, che gli economisti definiscono la corsa dei salari verso il basso. Grazie alla delocalizzazione la forza lavoro a disposizione del capitale occidentale si è raddoppiata. Dall’Est europeo fino al sud est asiatico, l’impresa ha così usufruito di salari decrescenti. Ciò significa che quello minimo percepito, ad esempio in Cina, è diventato un metro di comparazione internazionale. Si chiama «arbitraggio globale del lavoro», lo spostamento della produzione da un paese all’altro in base al costo del lavoro.

La corsa dei salari verso il basso ha messo in ghiacciaia il costo del lavoro in occidente, e spesso per evitare la delocalizzazione i sindacati hanno accettato condizioni monetarie che non coprivano l’aumento del costo della vita. Ciò significa che in termini reali, e cioè al netto dell’inflazione, oggi il salario medio dell’operaio occidentale è più basso che vent’anni fa.

Naturalmente non era questo l’obiettivo che ci si prefiggeva globalizzando. Il fenomeno ha messo in aperta concorrenza tutti i lavoratori senza però creare la rete di connessione tra i sindacati. I lavoratori della Fiat polacchi non hanno alcun collegamento con quelli di Pomigliano, e scoprono il potenziale trasferimento della fabbrica dai giornali. Ci troviamo quindi in presenza di una concorrenza sleale. A detta dei polacchi fino alla scorsa settimana il ministro dell’economia negava che la Fiat avesse intenzione di spostare la produzione in Polonia. Ma non basta. La Fiat ha ottenuto finanziamenti dalla Ue per produrre la Panda in Polonia, accordi che ora dovrà infrangere. È vero che queste cose non succedono da nessun altra parte al mondo, difficile infatti trovare un’impresa che per riportare la produzione in patria rompa accordi internazionali ed imponga ai lavoratori di abrogare la Costituzione per accettare condizioni di lavoro «a la cinese».

Molti si domanderanno se dietro questa strategia non ci sia un fine politico che nulla abbia a che vedere con la globalizzazione. In termini economici viene spontaneo domandarsi che senso ha trasferirsi da una fabbrica che funziona bene a Pomigliano. Forse dietro questo braccio di ferro ci sono problemi strutturali, di imprese che da decenni sopravvivono solo grazie all’abbattimento dei costi di produzione, problemi oggi pressanti. La corsa dei salari verso il basso sta infatti per raggiungere il traguardo, già in Cina le lotte operaie costringono l’impresa a farli gravitare, è solo questione di tempo ma anche nel resto del mondo succederà lo stesso. A quel punto sarà difficile per le imprese contenere le richieste di aumento dei salari reali e sociali.

È dunque possibile che in Italia si stiano svolgendo le prove generali di un braccio di ferro tra capitale e lavoro che potrebbe vedere riaccendersi le lotte operaie in occidente dovunque esista un’industria che produce solo grazie a condizioni particolari. Ed è anche probabile che ciò succeda perché sullo fondo c’è una crisi del debito sovrano, che equivale a dire che lo stato si trova nell’impossibilità di iniettare,come sempre, in queste industrie contante sotto forma di sovvenzioni.

Se questo è vero allora il problema è strutturale e non ha nulla a che vedere con la globalizzazione. In Germania o in Giappone operai e sindacati dell’auto non vengono messi alle strette come da noi, la Merkel non chiede l’abrogazione degli articoli costituzionali sul lavoro. Né in Germania e né in Giappone ci si lamenta della scarsa produttivita della manodopera, ma ricordiamolo in questi paesi le assunzioni non avvengono su sollecitazione politica. Tutti gli operai scrutatori di Pomigliano che durante le elezioni hanno preso il permesso hanno presentato regolare certificato con firma di politici. Domandiamolo a loro se erano veramente nei seggi non al sindacato. Se questa analisi è corretta allora alla radice del braccio di ferro non c’è la produttività ma politica, ed impresa e sindacato faranno bene a tenerlo presente.

Pierre Carniti e Loris Campetti, Un accordo da non firmare

Gianni Ferrara, La civiltà di Pomigliano

Alberto Lucarelli e Ugo Mattei, Marchionne anticipa il nuovo corso

Pierre Carniti:

«Un accordo da non firmare»

di Loris Campetti

Tutti commentano le vicende di Pomigliano e lanciano anatemi contro gli operai fannulloni. «Gente che non ha mai visto una fabbrica, o se l'ha vista, magari perché è di sua proprietà, non sa come lavora un operaio alla linea di montaggio. Io li manderei un anno a Pomigliano, alla catena». Sarebbe una bella rieducazione. Pierre Carniti non fa nomi, ma dalle tipologie che descrive ci permettiamo di interpretare il suo pensiero, assumendoci la responsabilità di eventuali errori: Veltroni, Sacconi, Marcegaglia... Questa non è un'intervista al prestigioso ex segretario della Cisl ma un colloquio, per noi un aiuto a leggere meglio nella forzatura messa in atto dall'Ad della Fiat, Sergio Marchionne.

Carniti non giudica chi ha preso il suo posto, né chi dirige i sindacati in un momento difficile come questo. È un fatto di stile. Dice però con franchezza quel che pensa. E alla domanda che gli rivolgiamo al termine del colloquio: tu avresti firmato quel testo scritto dalla Fiat?, risponde che «non è un accordo, né un contratto, semmai un protocollo imposto dall'azienda, prendere in toto o lasciare. Nessun sindacalista avrebbe dovuto firmarlo. Semmai avrei detto alla Fiat di chiedere direttamente ai lavoratori. Magari dicendo loro che la situazione è straordinaria, servono sacrifici, e ascoltare le loro risposte. Ma niente firma sindacale, né come sindacato avrei detto ai lavoratori cosa votare. In tanti anni di lavoro sindacale mi è capitato di fare accordi buoni e anche cattivi. Nei 1966, per esempio, firmai un contratto nazionale dei metalmeccanici che sembrava quello precedente, neanche il totale recupero dell'inflazione riuscimmo a strappare. La situazione era quel che era, ma almeno si contrattava. La procedura imposta oggi dalla Fiat per lo stabilimento di Pomigliano è veramente singolare, senza precedenti nel dopoguerra. Certo nel Ventennio succedeva anche di peggio».

Il punto di partenza di Carniti è che la decisione di Marchionne di investire un po' di soldi a Pomigliano è importante ma anche dovuta, perché «dopo aver annunciato la morte di Termini Imerese non poteva certo dire chiudo anche Pomigliano», con tutti i soldi presi dallo stato con la rottamazione. La Fiat si internazionalizza, il cuore produttivo si sposta altrove, «ma se abbatte la produzione in Italia se lo sogna il 30% di mercato casalingo». Seguendo la filosofia prevalente, Marchionne approfitta della crisi per liberarsi dei contratti nazionali. Il primo passo in questa direzione l'ha fatto il governo, «incoraggiando le imprese a regolare i rapporti di lavoro in sede aziendale», defiscalizzando gli aumenti contrattuali di secondo livello. Così si svuota il contratto nazionale. Mi sarei aspettato una reazione sindacale forte».

Si può discutere tutto, anche della validità, oggi, del contratto nazionale di lavoro. «Io vorrei che qualcuno mi convincesse che esistono alternative per difendere con altri sistemi coesione, solidarietà generale, eguaglianza di diritti. Io non le vedo, forse sono troppo vecchio e mi torna in mente una frasi del Manzoni: non sempre quel che viene dopo è progresso. Su questo - aggiunge Carniti - dovrebbero confrontarsi anche i sindacati, invece di beccarsi in concorrenza tra loro su chi è più realista e chi più radicale». Invece, ogni decisione o cambiamento del sistema di regole avviene altrove, con un governo segnato «dai leghisti che sognano le gabbie salariali. Ricordo che in paesi importanti e che crescono più di noi, come la Germania, il contratto nazionale ha un ruolo importantissimo».

Il punto, dunque, non è se Pomigliano debba chiudere o no, «la Fiat che per decenni ha vissuto con i finanziamenti pubblici non può permetterselo». La Fiat strumentalizza per giustificare «un cammino eccentrico. Usa esempi singolari, si lamenta perché dei lavoratori si mettono in malattia durante gli scioperi quando quei comportamenti fanno il gioco della Fiat che può così negare la riuscita degli scioperi. Dica la verità, il Lingotto, riconosca gli scioperi invece di tirare sui numeri. Oppure protesta perché in troppi, a ogni elezione, si assentano per fare i rappresentanti di lista. Ma che c'entrano i sindacati e i lavoratori? Esiste una legge dello stato, semmai chiedano alla politica di modificarla».

Sulla presunta incostituzionalità di alcune norme contenute nel diktat Fiat Carniti non si pronuncia, «non conosco abbastanza il testo ma quel che più mi preoccupa non è questo: se ci sono elementi che violano la Costituzione si individueranno le sedi opportune per invalidarle. E comunque Marchionne si illude, perché un sì dei lavoratori - persino un impegno a non ricorrere allo sciopero, o a non dire ahi prima di tre giorni quando ti schiacci un dito con il martello - estorto con il ricatto, è una vittoria di Pirro. Se si sopraffà l'interlocutore questo prima o poi esplode, non si governa con le sopraffazioni. Non c'è stata alcuna contrattazione sul testo, la Fiat ha portato un pacco non negoziabile, perciò non ha senso apporvi una firma sindacale». Meglio un confronto, anche conflittuale, le imposizioni producono solo rivolte. «Dovrebbe sapere Marchionne, abituato a trattare con i sindacati americani, che negli Usa, negli anni sindacalmente difficili, gli operai dell'auto mettevano i bulloni nei motori».

Alla domanda «ti aspettavi qualcosa di meglio da Marchionne?», Carniti precisa che il dirigente Fiat opera in condizioni difficili, con l'auto che batte in testa in tutto il mondo, una competizione dura e una capacità produttiva superiore alla domanda. Poi, aggiunge, è abituato negli Usa dove il sindacato dell'auto è uno e non sei o sette. «Immagino che abbia dato ascolto a dei consigliori che spiegano come la strada sia quella della rieducazione forzata dei lavoratori per battere l'anarchismo. Avrà ascoltato un po' di colleghi confindustriali che pretendono la cancellazione di qualsiasi forma di contrattazione collettiva», come la capa dei giovani imprenditori, «i figli dei papà confindustriali». Così Marchionne, incoraggiato dal contesto, si è gettato lancia in resta contro il contratto nazionale. Ma al suo posto, lo ripeto, non starei tranquillo del risultato».

La civiltà di Pomigliano

di Gianni Ferrara

Era del tutto evidente che il capitalismo globalizzato, il liberismo assoluto, il revisionismo storico, etico-politico ed istituzionale mirassero allo stesso obiettivo. Non era però scontato un impatto così sconvolgente, recessivo, distruttivo. Sconvolgente il tessuto sociale, recessivo della civiltà politica, distruttivo di un intero ordine giuridico: quello immediatamente connesso alla struttura della società, il diritto del lavoro. Ma il grado di recessione varia da nazione a nazione, a determinarlo in Italia è la barbarie del berlusconismo. Si è aggiunto, per rivelarne l'essenza più intima. Ha assunto un nome che resterà. Lo hanno detto ministri e opionion makers: Pomigliano.

Non sono soltanto i metalmeccanici che vi lavorano ad esserne colpiti. Ne sono le prime vittime, i primi degli esseri umani che saranno asserviti all'irrazionalità ed all'immoralità del capitalismo del XXI secolo, in Italia, in Europa. La tecnica dell'asservimento ha un nome, world class manifactoring. È scritto al punto 5 dell'accordo (?) che la Fiat impone a Pomigliano.

A cosa miri lo ha spiegato lucidamente Luciano Gallino: assicurare che nulla, proprio nulla del tempo di lavoro retribuito possa essere perduto dal padrone. Il che comporta il massimo di rendimento di ogni operazione, di ogni gesto, di ogni minuto, di ogni secondo. Quindi il massimo di assorbimento da parte del capitale del tempo di lavoro. Tante ore, tanti minuti, tanti secondi di sfruttamento. Comporta la riduzione di ciascun lavoratore, ciascuna lavoratrice a robot. Poiché il robot non ce la fa a sostituire l'essere umano, si deve ridurre l'essere umano a robot.

E non basta. Dal momento che il robot si permetterà, al termine di ogni turno, di ridiventare essere umano e potrebbe aspirare ad esercitare i diritti che due secoli di lotte del movimento operaio hanno conquistato per civilizzare la condizione umana, si vuole imporre all'essere umano di non esercitare questi diritti, a cominciare da quello di sciopero.

Gli si chiede di impegnarsi contrattualmente a rinunziarci. Nel mentre ci si appresta a sopprimere le fonti di tali diritti. A sostituire sia il contratto collettivo con tanti contratti individuali di adesione (alla volontà del datore di lavoro) sia le leggi, come lo statuto dei lavoratori con la farsa derisoria dello "statuto dei lavori". A modificare l'articolo 41 della Costituzione in modo da distorcerne il significato e la portata e sfumarne l'efficacia. A quanto si sa, immunizzando, a priori e come tale, l'iniziativa economica privata denominandola "responsabilità", chiunque la svolga e qualsiasi possa essere il campo di esercizio (se non finanziario).

Impedendo, quindi, che se ne possa precludere il carattere antisociale, ed anche prevenire quello criminale, visto che «gli interventi regolatori dello Stato, delle Regioni e degli Enti Locali» si dovrebbero limitare «al controllo ex post». Post mortem bianca, ad incidente sul lavoro avvenuto, a danni già prodotti alla salute, alla sicurezza, all'ambiente? Così appare. Si vuole evidentemente sancire in via assoluta la signoria dell'impresa capitalistica su ogni altra istituzione e sulla società intera.

Si motiva questa controriforma costituzionale adducendo la necessità prioritaria ed inderogabile della competitività. Della quale competitività è pur tempo di denunziare, senza esitazione, il significato reale ed occultato. Che è quello della compressione dei salari dei lavoratori di tutto il mondo fino a ridurli alla soglia minimale del salario percepito nel più depresso dei Paesi del mondo.

A Pomigliano è il lavoro umano, è la condizione umana, è la dignità umana, sono i diritti umani che subiscono un attacco senza precedenti. La loro difesa è quella stessa della civiltà umana, ovunque sia aggredita.

Marchionne anticipa il nuovo corso

di Alberto Lucarelli e Ugo Mattei

Ormai è tutto chiaro: c'è una evidente relazione funzionale, causa-effetto, molto stretta, tra il progetto di modifica dell'art. 41 della Costituzione e il surreale referendum Marchionne che così reciterebbe: «Sei favorevole all'ipotesi dell'accordo del 15 giugno 2010 sul progetto Futura Panda a Pomigliano?» Come è noto, il progetto Tremonti-Berlusconi è quello di aggredire e modificare l'art. 41 della Cost., inserendo un IV comma che consentirebbe all'attività di impresa di svolgere la propria attività senza controlli, salvo un poco chiaro controllo ex post. Occorre ricordare che l'art. 41 della Cost. non è un orpello, o una regola qualsiasi, ma una norma-principio alla quale sono riconducibili i diritti costituzionali dei lavoratori di cui agli artt. 35-40, nonché tutta la disciplina ordinaria in materia di lavoro. In maniera assolutamente eccentrica, ovvero inserendo un IV comma palesemente in contrasto con il II e il III, si violentano i principi fondamentali (precedentemente si era parlato di modificare l'art 1 Cost.), agendo all' interno del sistema, attraverso la sterilizzazione e l'annientamento dei rapporti economico-costituzionali (artt. 35 ss. Cost.); quei rapporti direttamente attuativi dell'art. 1 Cost. («La Repubblica fondata sul lavoro»), dell'art. 2 relativamente al principio di solidarietà, dell'art. 3, II comma, relativamente al principio di eguaglianza sostanziale.

L'impressione, spostando i controlli ex post, è che si voglia dare carta bianca alle strategie aziendali, anche quelle più aggressive e in contrasto con i limiti posti al capitale dalla effettiva garanzia dei diritti dei lavoratori. A serio rischio saranno il diritto all'equa retribuzione e a livelli di vita liberi e dignitosi, l'organizzazione del lavoro, le funzioni sindacali, il diritto di sciopero. Vi sarebbe inoltre il rischio concreto dell'introduzione, da parte dell'impresa, di controlli, ispezioni e perché no veri e propri tribunali speciali. Cosiddetti piani di ristrutturazione o conversione aziendale, in presenza di controlli ex post, non dovranno più assicurare modalità e condizioni di lavoro tali da garantire la sicurezza e la salute, l'apprendimento e il benessere. In sostanza, attraverso l'intervento sull'art. 41 Cost. si intende raggiungere la sospensione della regolamentazione e del controllo nel mercato del lavoro. Il lavoratore verrebbe collocato in un limbo, indifeso nella sua già naturale debolezza, ancora più bisognoso di tutela in una fase di acuta crisi economica.

Qual è allora il collegamento tra nuovo art. 41 e il piano Marchionne? È chiaro: il piano Marchionne per Pomigliano intende fare da apripista al nuovo modello di art. 41, ovvero alla deregolamentazione del mercato del lavoro, condizionando il rientro dalla Polonia della costruzione della nuova Panda a condizioni esasperate di lavoro (i diciotto turni) e a deroghe al contratto collettivo che mettono a rischio la libertà e dignità umana. Nello specifico il piano, supportato dal progetto di modifica dell'art. 41 Cost., contiene una serie di punti inaccettabili dal punto di vista della legittimità costituzionale, costituendo un vero e proprio vulnus a quei diritti fondamentali summenzionati. Si fa in particolare riferimento a: 1) 18 turni settimanali: impianti di produzione per 24 ore al giorno e 6 giorni alla settimana, compreso il sabato. Ricorso allo straordinario per 18esimo turno, per un massimo di 15 volte l'anno. 2) Straordinario: 120 ore annue di straordinario "comandate" (80 ore in più obbligatorie, dalle 40 attuali, che arrivano quindi a 15 sabato); 3) Pause: ridotte a 30 minuti (dagli attuali 40) e i 10 minuti in meno vengono monetizzati in 31 euro lordi al mese. Pausa mensa a fine turno; 4) Assenteismo e malattia: per assenze per malattia collegate a scioperi, manifestazioni esterne, "messa in libertà" o mancanza di fornitura, l'azienda non retribuisce i primi tre giorni; 5) Sanzioni: Il mancato rispetto degli impegni assunti nell'accordo aziendale, prevede sanzioni ai sindacati e ai singoli lavoratori; 6) Sciopero: non è proclamabile nei casi in cui l'azienda ha comandato lo straordinario per esigenze di avviamento, recuperi produttivi e punte di mercato.

L'eutanasia dell' art. 41 Cost., la dolce morte in prova, come vorrebbe il governo, non comporterebbe solo la cancellazione del welfare e dei diritti fondamentali ad esso riconducibili, ma dello Stato democratico tout court. Insomma, il referendum di Marchionne ha ad oggetto due secoli di lotta, sudore, sangue.

«L'Europa non ha anima», ha detto l'economista francese Jean Paul Fitoussi ieri al termine di una audizione in commissione Bilancio della Camera. E ha spiegato: «Il problema dell'Europa sta nel fatto che abbiamo creato una zona economica senz'anima, senza governo e senza democrazia vera: questo conduce a politiche sbagliate perché abbiamo solo un bene comune, la moneta, senza avere un governo. Anzi, al contrario, abbiamo competizione tra i Paesi dell'euro e questa si fa al ribasso ed è un dramma perché stiamo entrando in una situazione di deflazione». Quello che è accaduto ieri conferma la giustezza dell'analisi.

Vale la pena partire dal Consiglio d'Europa, massima espressione politica della Ue, che ieri doveva trovare una posizione comune sulla introduzione di una imposta sulle transazioni finanziarie e su una tassazione del sistema bancario. Provvedimenti da presentare al prossimo G20 di Toronto. È finita con un brutto compromesso. In particolare, la tassa sulle banche è un «optional», nel senso che gli stati dovrebbero in ordine sparso introdurre meccanismi di prelievo sulle istituzioni finanziarie per garantire una divisione degli oneri della crisi. Una crisi, vale la pena ricordarlo generata dalle stesse istituzioni finanziarie, ma che finora è stata pagata a piè di lista dalle finanze pubbliche, ovvero da tutti i cittadini. Creare un fondo finanziate dalle stesse banche era una idea niente affatto estremista, ma solo di buon senso. Ma il provvedimento vincolante per tutti non è passato, sembra a causa dell'atteggiamento intransigente della Gran Bretagna, uno dei paesi i cui cittadini hanno più sofferto per la crisi finanziaria e che ora soffriranno ancora di più per i tagli allo stato sociale e agli investimenti pubblici.

Fitoussi ha fatto un altra giusta affermazione quando dice che «stiamo entrando in una fase di deflazione». La conferma è arrivata ieri dal «Bollettino mensile» della Bce, che parla di un fase di crescita con «incremento moderato» a causa dei processi di «aggiustamento dei bilanci» e dalle «prospettive di debolezza del mercato del lavoro». Questo potrebbe portare nel prossimo anno a una crescita ancora più bassa di quella prevista per quest'anno e non per merito dei paesi europei, ma per il sostegno alla domanda che arriva dagli altri paesi. La Bce spiega anche che la crescita moderata nell'area dell'euro è causata da «perduranti tensioni in alcuni segmenti dei mercati finanziari» e da «un livello insolitamente elevato di incertezza». Normalmente, come sosteneva Lorenzo dei Medici, «del doman non v'è certezza», figuriamoci oggi che la percezione comune è di una profonda instabilità e di occupazione che non si trova.

Ci sono poi le «perduranti tensioni finanziarie». Questo dovrebbe obbligare la Ue e il G20 a varare manovre che mettano sotto controllo la speculazione, ma a parte il divieto di vendite allo scoperto varato dalla Merkel nulla è stato fatto non solo perché tra gli stati gli interessi confliggono. Nulla è stato fatto perché le banche sulla speculazione campano, come ci hanno spiegato i dati Usa apparsi alcuni giorni fa, ma ignorati dalla stampa italiana (con l'eccezione de il sole 24 ore e de il manifesto) indicano in oltre 210 mila miliardi di dollari le operazioni sui derivati nel 2009. Operazioni di carta che non danno plusvalore all'economia reale, ma sono in grado di destabilizzarla.

Siamo in una situazione di caos. Gli stati, consapevoli di vivere una fase tremenda, non trovano strumenti comuni per affrontarla con strumenti di controllo più stringenti, tasse anti speculazione e rilanciare gli investimenti pubblici. Perché questo contrasta con l'ideologia dominante. Ne è la prova un'affermazione della Bce che parla dell'importanza delle riforme strutturali. Per poi spiegare che la prima vera riforma è rendere il salario una variabile dipendente del capitale e richiedere «aggiustamenti», cioè diminuzioni a seconda dell'andamento della congiuntura e dell'occupazione. Diminuire i salari e aumentare lo sfruttamento per rilanciare l'economia non serve, soprattutto quando il comportamento diventa generalizzato e amplia lo spazio tra chi è ricco e chi no. D'altronde l'economia è una «triste scienza» che non pone al centro le persone

Se fossimo in una condizione di normalità, il dilemma che si trova di fronte oggi la Fiom a Pomigliano sarebbe risolto in partenza. Essa non può sottoscrivere l'accordo proposto da Marchionne per il semplice fatto che vi si chiede la liquidazione di diritti indisponibili. Diritti che nessun sindacato potrebbe «negoziare», per il semplice fatto che non gli appartengono. Diritti che nessuno, neppure i titolari diretti, può alienare, perché costitutivi di una civiltà giuridica che trascende le parti sociali e gli individui.

Alcuni di quei diritti - come il fondamentale «diritto di sciopero» - sono sanciti costituzionalmente. Altri - come il pagamento dei primi tre giorni di malattia - sono garantiti dalla legislazione ordinaria. Altri infine - come la difesa del proprio tempo di vita da una gestione del tempo di lavoro drammaticamente soffocante e totalitaria -, fanno parte di un livello contrattuale nazionale impegnativo per tutti i contraenti. L'accettazione di un accordo aziendale che ne sacrificasse anche solo parzialmente l'operatività, significherebbe una dichiarazione di messa in mora e di inefficacia di quei tre livelli basilari del nostro assetto gius-lavoristico. Una grave lesione al modello giuridico, politico e sociale della modernità industriale.

Ma non ci troviamo in una condizione di normalità. La «dura legge» che Marchionne ha evocato non è né la Norma Costituzionale né la Legge ordinaria. È la legge di mercato, nella sua dimensione ferina del «primum vivere». Dell'«arrendersi o perire». Della darwiniana «lotta per la sopravvivenza», applicata alle imprese, agli uomini e ai territori. A Pomigliano è la verità della «globalizzazione» a materializzarsi nella forma più estrema del «prendere o lasciare», che travolge ogni principio giuridico, ogni regolazione nazionale e ogni accordo sancito.

Per questo diciamo che a Pomigliano quello che muore non è solo un modo di fare sindacato, ma è la nostra stessa modernità industriale, fatta di conflitto, negoziazione, regole e normative, a rischiare di dissolversi. E quello che si profila è un nuovo «stato di natura», in cui a contare è ormai solo la legge del più forte, momento per momento, occasione per occasione. Un mondo che non è solo post-socialista e post-novecentesco, ma che vede travolgere le stesse basi del più antico «stato liberale»: quello del costituzionalismo, dell'impero della Legge, dello Stato di diritto. Potrà apparire un caso, ma che nel medesimo tempo si allineino nel cielo del nostro paese - come in un'infausta congiunzione astrale - l'attacco di Berlusconi alla Costituzione, la legge-bavaglio dell'editoria e il «lodo Marchionne» (sbandierato da fior di ministri come «nuovo modello» di relazioni industriali), suona come un pessimo auspicio. E che a trainarci oltre quel confine sia uno come l'A.D. della Fiat, che non è un «fascista», che non veste l'orbace ma un maglioncino casual ed è stato a lungo un esempio di liberal progressista, non ci rassicura affatto. Anzi, ci spaventa di più.

Forse a Pomigliano, oggi, non c'è davvero altra alternativa che piegarsi al ricatto. Forse al voto gli operai presi dalla disperazione direbbero davvero sì a un accordo che li consegna a condizioni di lavoro servile, pur di mantenere un esile residuo di sopravvivenza produttiva. Forse, quello che incombe sulla Fiom è davvero un «dilemma mortale». Ma se almeno uno - uno! - tra i sindacati mantenesse pulite le proprie mani, e rifiutasse di sottoscrivere il pactum subiectionis che cancella tutti gli altri patti e ogni altra ragione, forse una testimonianza rimarrebbe, per tempi migliori, di un brandello di dignità e dunque di speranza.

In poche settimane, abbiamo assistito alla rivelazione da parte del primo ministro Papandreu del debito «reale» della Grecia, manipolato dal suo predecessore con l'aiuto di Goldmann Sachs; all'annuncio della possibilità che il suo Paese non ce la faccia a pagare i nuovi interessi sul debito, brutalmente moltiplicati; all'imposizione alla Grecia di un piano di austerità selvaggio, come contropartita del prestito europeo. Poi l'«abbassamento del voto» della Spagna e del Portogallo, la minaccia dell'implosione dell'euro, la creazione di un fondo di aiuto europeo di 750 miliardi (su richiesta, in particolare, degli Stati uniti). Infine, la decisione della Bce, in contraddizione con il suo statuto, di acquisire delle obbligazioni statali, e l'adozione di politiche di rigore in una decina di paesi. Ce n'est qu'un début, non è che l'inizio, poiché questi nuovi episodi di una crisi apertasi due anni fa con il crollo dei crediti immobiliari statunitensi ne prefigurano altri. Dimostrano che il rischio di crac persiste o addirittura aumenta, alimentato da una massa enorme di titoli «spazzatura», accumulata nel corso del decennio precedente grazie ai consumi a credito, alla trasformazione dei titoli dubbiosi e dei credit default swaps in prodotti finanziari, oggetto di speculazione a breve. Il tormentone dei crediti dubbiosi continua, e gli stati sono in affanno. La speculazione investe ormai le monete e il debito pubblico. L'euro rappresenta oggi l'anello debole di questa catena, e trascina l'Europa. Le conseguenze saranno devastanti.

I greci hanno ragione a rivoltarsi

Prima conseguenza della crisi e della «medicina» che le è stata applicata: la rabbia della popolazione greca. Hanno torto a rifiutare di assumersi le proprie responsabilità? Hanno ragione a denunciare una «punizione collettiva»? Indipendentemente dalle provocazioni criminali che l'hanno viziata, questa rabbia si giustifica per almeno tre motivi. L'imposizione dell'austerità è stata accompagnata da una stigmatizzazione delirante del popolo greco, considerato colpevole per la corruzione e le menzogne della sua classe politica, di cui (qui come altrove) approfittano ampiamente i più ricchi (in particolare sotto la forma dell'evasione fiscale). L'austerità, ancora una volta, è stata imposta rovesciando gli impegni elettorali del governo, al di fuori di qualsiasi dibattito democratico. Infine, abbiamo visto l'Europa applicare al suo interno non delle procedure di solidarietà, ma le regole leonine del Fondo monetario internazionale, che mirano a proteggere i crediti delle banche, mentre annunciano una prevedibile recessione senza fine per il paese. Gli economisti, su queste basi, concordano nel pronosticare un default certo del tesoro greco, un contagio della crisi e un'esplosione del tasso di disoccupazone, soprattutto se le stesse regole verranno applicate ad altri paesi virtualmente in fallimento stando alle «notazioni» del mercato, come reclamano ad alta voce i difensori dell' «ortodossia».

Una politica che occulta il suo volto

Nel «salvataggio» della moneta comune, di cui i greci sono stati le prime vittime (ma non saranno gli ultimi), le modalità che hanno prevalso finora (imposte, in particolare, dalla Germania) hanno messo in primo piano, come priorità, la generalizzazione del «rigore» di bilancio (inscritto nei trattati fondatori, ma nei fatti mai veramente applicato) e, ma solo in secondo luogo,la necessità di una «regolazione» - molto moderata - della speculazione e della libertà degli hedge funds (già evocata dopo la crisi dei subprimes e dei fallimenti bancari del 2008). Gli economisti neo-keynesiani aggiungono a queste esigenze dei passi avanti verso il «governo economico» europeo (in particolare l'unificazione delle politiche fiscali), o dei piani di investimento elaborati in comune: senza questo, affermano, l'esistenza stessa della moneta unica si rivelerà impossibile.

Si tratta, evidentemente, di proposte assolutamente politiche (e non tecniche). Sono alternative che i cittadini dovrebbero dibattere, poiché le conseguenze di queste scelte saranno irreversibili per la collettività. Ma il dibattito è falsato dalla dissimulazione di tre dati essenziali:

- la difesa di una moneta e la sua utilizzazione congiunturale (sostegno, svalutazione) comportano sia un assoggettamento delle politiche economiche e sociali all'onnipotenza dei mercati finanziari (con le loro «notazioni» che si auto-realizzano e i loro «verdetti» che non lasciano spazio a nessun appello), sia una crescita della capacità degli stati (e, più in generale, della potenza pubblica) a limitarne l'instabilità e a privilegiare gli interessi a lungo termine sui profitti speculativi. Una strada o un'altra, tertium non datur.

- con la scusa di una relativa armonizzazione delle istituzioni e di una garanzia di alcuni diritti fondamentali, la costruzione europea, nella sua forma attuale, con le forze che l'orientano, non ha smesso di favorire la divergenza delle economie nazionali, che in teoria avrebbe invece dovuto ravvicinare all'interno di una zona di prosperità condivisa: alcune economie ne dominano altre, sia in termini di parti di mercato, sia in termini di concentrazione bancaria, sia trasformandole in fornitori in subappalto. Gli interessi delle nazioni, se non quelli dei popoli, diventano contraddittori.

- il terzo pilastro di una politica keynesiana generatrice di fiducia, oltre la moneta e il fisco, cioè la politica sociale, la ricerca della piena occupazione e la crescita della domanda attraverso il consumo popolare, viene sistematicamente passato sotto silenzio, anche dai riformatori. E sicuramente viene fatto apposta.

Dove va la globalizzazione?

A cosa serve, d'altronde, riflettere e discutere sull'avvenire dell'Europa e della sua moneta (dalla quale alcuni grandi paesi si tengono alla larga: Gran Bretagna, Polonia, Svezia), se non si tiene conto delle tendenze reali della globalizzazione? Se la gestione politica della crisi finanziaria resta fuori portata per le popolazioni e i governi implicati, l'effetto sarà una formidabile accelerazione dei processi in corso. Di che cosa si tratta? In primo luogo, del passaggio da una forma di concorrenza a un'altra: dai capitalismi produttivi ai territori nazionali, dove ognuno, a colpi di esenzioni fiscali e di abbassamento del valore lavoro, tenta di attirare più capitali fluttuanti del vicino. E' più che evidente che l'avvenire politico, sociale e culturale dell'Europa in generale - e di ogni paese in particolare - dipende dal fatto di sapere se l'Europa costituisce un meccanismo di solidarietà e di difesa collettiva delle popolazioni contro il «rischio sistemico», oppure se, al contrario (con l'appoggio di alcuni stati, momentaneamente dominanti, e delle loro opinioni pubbliche) si tratta di un quadro giuridico per intensificare la concorrenza tra gli stati membri e tra i cittadini.

Inoltre, si tratta, più generalmente, del modo in cui la mondializzazione sta sconvolgendo la divisione del lavoro e la ripartizione dell'occupazione nel mondo: in questa ristrutturazione che sovverte nord e sud, ovest e est, una nuova crescita delle ineguaglianze e dell'esclusione in Europa, l'annientamento della classe media, la diminuzione dei lavori qualificati e delle attività produttive «non protette», dei diritti sociali, delle industrie culturali e dei servizi pubblici universali, sono per così dire già programmati. Le resistenze all'integrazione politica, con la scusa di difendere la sovranità nazionale, non possono che aggravare gli effetti nella maggior parte delle nazoni e precipitare il ritorno (già ben avviato) degli antagonismi etnici che l'Europa aveva preteso di oltrepassare definitivamente al suo interno. Ma inversamente è chiaro che non ci sarà un'integrazione europea «dall'alto», in virtù di un'ingiunzione burocratica, senza un progresso democratico in ogni paese e in tutto il continente.

Populismo: pericolo o risorsa?

E' la fine dell'Unione europea, di questa costruzione la cui storia era cominciata 50 anni fa sulla base di una vecchia utopia, ma le cui promesse non sarebbero state mantenute? Non bisogna aver paura di dirlo: sì, ineluttabilmente, a una più o meno breve scadenza e non senza qualche prevedibile violenta scossa, l'Europa è morta come progetto politico, a meno che non riesca a rifondarsi su nuove basi. Un'implosione abbandonerebbe ancora di più i popoli che la compongono oggi alle incertezze della globalizzazione, come sugheri in un torrente. Una rifondazione non garantisce nulla, ma dà qualche possibilità di esercitare una forza geopolitica, a proprio vantaggio e per quello degli altri, a condizione di osare affrontare le immense sfide di un federalismo di nuovo tipo. Si tratta della potenza pubblica comunitaria (distinta sia dallo stato che da una semplice «governance» di politici ed esperti), di eguaglianza tra le nazioni (il contrario dei nazionalismi reattivi, sia quello dei «forti» che quello dei «deboli») e di rinnovamento della democrazia nello spazio europeo (il contrario della «de-democratizzazione» attuale, favorita dal neo-liberismo e dallo «statalismo senza stato» delle amministrazioni europee, colonizzate dalla casta burocratica, che sono anche per buona parte all'origine della corruzione pubblica).

Da tempo avremmo dovuto ammettere questo fatto evidente: non ci saranno passi avanti verso il federalismo, in effetti oggi auspicabile, senza un passo avanti della democrazia al di là delle forme esistenti, in particolare con una intensificazione dell'intervento popolare nelle istituzioni sovranazionali. Significa che, per rovesciare il corso della storia, scuotere le abitudini di una costruzione ormai senza fiato, ci sia bisogno oggi di qualcosa che può essere definito un populismo europeo, un movimento convergente delle masse o un'insurrezione pacifica, attraverso la quale venga espressa contemporaneamente la rabbia delle vittime della crisi contro coloro che ne apporofittano (o la alimentano) e l'esigenza di un controllo «dal basso» sugli scambi tra finanza, mercati e politica degli stati? Sì, senza dubbio, perché non c'è altro nome per definire la politicizzazione del popolo, ma a condizione - se si vogliono scongiurare altre catastrofi - che vengano istituiti seri controlli costituzionali e che rinascano delle forze politiche su scala europea, in grado di far prevalere all'interno di questo populismo «post-nazionale» una cultura, un immaginario e degli ideali democratici intransigenti. C'è un rischio, ma è minore di quello di lasciare libero corso ai diversi nazionalismi.

Dov'è la sinistra europea?

Queste forze costituiscono ciò che tradizionalmente, nel continente, era chiamata la sinistra. Ma anch'essa è in stato di fallimento politico: a livello nazionale e internazionale. Nello spazio che ormai conta, che attraversa le frontiere, ha perso qualsiasi capacità di rappresentazione delle lotte sociali o di organizzazione di movimenti di emancipazione, in maggioranza si è allineata ai dogmi e ai ragionamenti del neo-liberismo. Di conseguenza, si è disintegrata dal punto di vista ideologico. Coloro che la incarnano sono soltanto gli spettatori e, in mancanza di seguito popolare, i commentatori impotenti di una crisi contro la quale non propongono nessuna risposta collettiva: niente dopo lo choc finanziario del 2008, niente dopo l'imposizione alla Grecia delle ricette dell'Fmi (peraltro vigorosamente denunciate in altri luoghi e in altri tempi), niente per «salvare l'euro» altrimenti che pesando sulle spalle dei lavoratori e dei consumatori, niente per rilanciare il dibattito sulle possibilità e gli obiettivi dell'Europa solidale.

Cosa succederà, in queste condizioni, quando entreremo nelle nuove fasi della crisi, che devono ancora intervenire? Quando le politiche nazionali sempre più securitarie si svuoteranno del loro contenuto (o del loro alibi) sociale? Ci saranno dei movimenti di protesta, senza dubbio, ma isolati, che potranno venire deviati verso la violenza o recuperati dalla xenofobia e il razzismo già galoppanti, destinati a produrre ancora maggiore impotenza e più disperazione. Tuttavia, la destra capitalista e nazionalista, benché non resti inattiva, è potenzialemente divisa tra strategie contraddittorie: lo si è visto a proposito dei deficit e dei piani di rilancio economico, lo vedremo ancora di più quando l'esistenza delle istituzioni europee sarà in gioco (come prefigura, probabilmente, l'evoluzione britannica). Ci sarebbe qui un'occasione da sfruttare, la possibilità di agire. Delineare e dibattere su cio' che potrebbe essere, su ciò che dovrebbe essere una politica anti-crisi su scala europea, democraticamente definita, che cammini sulle due gambe (del governo economico e della politica sociale), capace di eliminare la corruzione e di ridurre le ineguaglianze che l'alimentano, di ristrutturare il debito e di promuovere gli obiettivi comuni che giustificano i trasferimenti tra nazioni solidali le une con le altre. Sarebbe questa la funzione degli intellettuali progressisti europei, sia che si definiscano rivoluzionari o progressisti. Non ci sono scuse per tirarsi indietro.

(Traduzione di Anna Maria Merlo)

Amartya Sen è in Italia: vi trascorrerà alcuni giorni, per il riposo e per alcune conferenze. Il premio Nobel per l’economia gli venne attribuito nel 1998, per una «economia» pensata e ripensata alla luce di una necessità etica che dovrebbe coinvolgere gli uomini, il mondo intero, collocando l’indagine economica all’interno di una riflessione che fa perno su una nozione di diseguaglianza, analizzata a partire dalla eterogeneità degli esseri umani e dalla molteplicità dei parametri in base a cui può essere definita. Per questo, ragionando di sviluppo e di mercato, ma anche di libertà, democrazia, giustizia, di diritti (di diritti anche della «terra» e quindi in una d imensione ecologica), è diventato una bandiera, un beniamino, un riferimento di quanti hanno immaginato una alternativa al liberismo imperante, alla globalizzazione selvaggia, al depauperamento delle risorse, all’arricchimento di pochi e alla fame di molti. Una sintesi, anche di grande valore simbolico, della sua battaglia sta nell’invenzione (insieme con il collega pakistano Mahbub ul Haq e per conto delle Nazioni Unite) di un Pil (prodotto interno lordo) che rivoluziona quello tradizionale e che calcola la «ricchezza delle nazioni» non secondo riferimenti monetari o industriali, ma secondo altri parametri, come tasso di alfabetizzazione, grado di democrazia, possibilità di scolarizzazione, libertà di accesso ai media, qualità dell’assistenza sanitaria, attesa di vita, diffusione del benessere: si dice Hdi, indicatore di sviluppo umano (che non tutti però, mi precisa Sen, li include).

Il tema del suo ultimo libro, pubblicato da Mondadori, è la giustizia. Lo dice il titolo: «L’Idea di Giustizia». Ma lei è un economista e noi viviamo da tempo una pesante crisi economica. Come se ne esce? Imboccando un’altra strada rispetto a quella seguita fin qui? Abbandonando un modello di sviluppo, che è poi il modello capitalista?

«La crisi economica è grave. Le ragioni stanno certo nella cattiva politica, nella mano libera consentita alla speculazione finanziaria, nell’eccesso di fiducia nella forza regolatrice del mercato, comprimendo o addirittura osteggiando il ruolo delle pubbliche istituzioni. Diciamo che la prima responsabilità è stata degli Stati Uniti, con la complicità ovviamente di tutti gli altri paesi più ricchi. A questo punto per rimediare non c’è che una strada: incentivi e interventi pubblici, con le riforme istituzionali che possono favorirla. Pensando globalmente. Questo è un punto fermo. L’altro riguarda ancora il tema del mio libro: Giustizia e ingiustizie. Non possiamo ignorarlo, anche mentre la finanza va a rotoli, le borse crollano, la disoccupazione sale: non possiamo accettare soluzioni che per motivi di bilancio, per salvare il vecchio ordine, impongano nuove ingiustizie. Ad esempio, se è giusto tagliare il superfluo, si dovrebbe sempre considerare che politiche di estremo rigore rischiano di essere controproducenti laddove non assicurino i servizi pubblici essenziali ai cittadini. Ma soprattutto dobbiamo batterci contro quelle ingiustizie che già conosciamo, contro la povertà, contro le limitazioni della libertà, contro le censure alla democrazia, ovunque nel mondo, in Asia o in Africa, ma anche nei paesi industrializzati. Il benessere dell’universo mondo resta una questione di giustizia e le politiche economiche a sostegno della ripresa devono essere giudicate per quanto riescono a rafforzare quelle condizioni di libertà e di democrazia che sono autentica misura della qualità della vita per tutti e allo stesso tempo premessa del cammino che verrà».

Vediamo allora a questo suo libro, che si apre con una dedica a John Rawls, il filosofo statunitense morto otto anni fa. Basterebbe il suo primo saggio, del 1958, «Giustizia come equità». “La giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali”, ha scritto Rawls. Mi pare, professor Amartya Sen, che lei affronti il tema della giustizia da un altro punto di vista, cioè in funzione delle condizioni dell’esistenza umana, di una qualità della vita che a tutti dovrebbe essere garantita. Perché quel riferimento a Rawls?

«Il mio punto di vista sulla giustizia non è sempre esattamente compatibile con le conclusioni cui è giunto Rawls che ha comunque influenzato lo sviluppo del mio pensiero. Leggendolo, senza condividere molte delle sue affermazioni, mi ha stimolato a una ricerca personale. Per riassumere il lungo rapporto intellettuale che mi ha unito a Rawls, userei l’espressione ‘dialettica’. Credo che voi del l’Unità di dialettica ne capiate. Partendo dalle ragioni di disaccordo, sono riuscito a individuare il mio cammino per tentare di rispondere alla domanda fondamentale: che fare per contare su una giustizia migliore?».

E come le pare si possa rispondere a questa domanda. Esiste una misura della giustizia?

«Scrivendo questo libro, a proposito di un’idea di giustizia, mi sono innanzitutto preoccupato delle ingiustizie, perché solo risalendo dalle ingiustizie, dalla loro cancellazione, si può pensare a un passo verso una condizione più stabile e più equa dell’umanità».

Cioè, a una immagine teorica, direi ideale, della Giustizia, antepone una pratica di «ascolto» delle mille ingiustizie?

«Certo. Come infatti una società si può evolvere nel segno della giustizia? Può provarci, a condizione prima di tutto di una diagnosi delle ingiustizie. Su questo insisto: il primo compito è diagnosticare. Poi sulla base della conoscenza, di un consenso ragionato, di un esercizio intellettuale, attraverso cambiamenti politici, istituzionali, attraverso pure un cambiamento della mentalità diffusa, si può agire perché spariscano le situazioni di ingiustizia ».

Però le miserie del mondo, la fame, le morti sono lì a parlarci immediatamente. E in modo scandaloso …

«Le manifestazioni eclatanti, clamorose di ingiustizia sono infinite. Però mi interessava particolarmente stigmatizzare le forme più sottili dell’ingiustizia, ad esempio le tante forme di diseguaglianza tra gli uomini, lo squilibrio dei redditi piuttosto che la diversità delle opportunità. Sono questioni che toccano la sfera personale. Ciononostante condizionano il mondo. Certo: ingiustizia è morir di fame, è dover affrontare una carestia. Sono capitoli estremi dell’esistenza umana. Mentre si apre davanti ai nostri occhi un arcobaleno di situazioni, alcune delle quali non riusciamo a vedere nitidamente, come le tante forme di violenza, di limitazione delle libertà, di condizionamento fino alla tortura. Se vogliamo dare una risposta ad una domanda di giustizia, se vogliamo che quindi il genere umano, tutto, possa vivere bene, senza soffrire la fame, senza patire violenze, dobbiamo imparare a considerare le situazioni più manifeste (e morir di fame è tra le più gravi), ma anche quelle più occulte, che colpiscono comunque l’esistenza degli individui ».

Mi pare che lei, trattando di giustizia, si riferisca molto spesso a concetti di libertà e di eguaglianza. Potremmo aggiungere «fraternità», come‘legante’comunitario,e siamo ai tre principi della rivoluzione francese. Quale dei tre metterebbe in primo piano?

«Mi sembrano tre principi importanti allo stesso modo. La libertà consente all’uomo di agire alla luce della ragione che a ciascuno è data. L’uguaglianza, se siamo esseri umani, è garantire a tutti le medesime opportunità. La fraternità permette di stabilire di continuare relazioni reciproche chenon siano fondate sull’ostilità, che ci consentano quindi di sentirci vicendevolmente a nostro agio, di vivere vicini senza danneggiarci, di essere rispettati dai propri simili, di partecipare alla vita della comunità. Cercare di stabilire tra questi principi una classifica, mi sembra come tentare di dire che cosa sia preferibile tra i sensi, l’udito, la vista, il gusto. Valgono tutti e tre allo stesso modo e di nessuno dei tre vorrei privarmi. Finché non sei posto davanti al bivio, cioè a una scelta, non potrai mai immaginare la graduatoria».

L'icona è tratta da 3quarksdaily

Ma perché nel paese che ha avuto il più grande partito comunista e il più forte movimento operaio dell’Occidente, una cultura di sinistra egemone per almeno tre decenni, una delle manifestazioni più radicali e prolungate del «’68» e la maggiore proliferazione dei gruppi della sinistra radicale siamo poi caduti tanto in basso da diventare lo zimbello di tutta l’Europa, sia di destra che di sinistra?

Per alcuni, perché non sono stati elaborati quegli anticorpi che hanno permesso invece ad altri popoli e paesi di non venir travolti – o di venir travolti in misura minore – dall’ondata di demagogia e populismo che ha accompagnato gli sviluppi della globalizzazione nel corso degli ultimi due decenni; e che rischia di avere effetti ancora più deleteri con lo scoppio e il prolungarsi – a tempo indeterminato – della crisi economica. Per altri, perché la maggior parte delle risorse di quelle organizzazioni, o di una parte preponderante di esse, è stata per anni impegnata nel contenere, nel contrastare, nello screditare, assai più che nell’assecondare, le spinte sociali di cui pretendevano la rappresentanza; lasciando così liberi i germi della reazione di sviluppare indisturbati tutte le loro potenzialità; o addirittura alimentandoli. Forse le due tesi non sono così alternative come la loro contrapposta formulazione potrebbe far credere.

Nelle condizioni materiali che stanno alla base del regime berlusconiano c’è certamente un risvolto specificamente italiano; ma ce ne è anche uno, sicuramente più rilevante, di dimensioni planetarie, o comunque transnazionali. Entrambi sono il portato di una mutazione antropologica con cui occorre fare i conti. Anche se i suoi tratti sono complessi, la cifra di questa mutazione è riconducibile a quella «dittatura dell’ignoranza» che ha dato il titolo a un recente testo di Giancarlo Majorino [Tropea, 2010]. In Italia Silvio Berlusconi non ha «sdoganato» soltanto il fascismo, ancora largamente diffuso tra i ranghi dell’ex Alleanza nazionale, e anche altrove. Questo è stato, almeno in parte, un mero epifenomeno della politica.

Quello che Berlusconi ha veramente sdoganato è l’ignoranza; l’orgoglio di essere ignoranti; il disprezzo, questo sì di stampo fascista, per i saperi, qualsiasi sapere, e per i loro cultori; la pretesa di «fare» e saper fare anche senza conoscere e sapere; la convinzione, latente anche prima di lui nello spirito nazionale ma promossa a piene mani dal sentire di cui è espressione il suo regime, di essere migliori di tutti gli altri: in particolare di arabi, «negri», cinesi, slavi, ebrei, a seconda dei gusti. Oggi è del tutto normale per personaggi come Borghezio, Gentilini o Calderoli sentirsi e presentarsi come esemplari di un mondo e di una razza superiori; e considerare e trattare figure come Mandela, Evo Morales o Gandhi, e soprattutto i popoli che li hanno espressi, come esemplari di un universo subumano.

Questo sdoganamento dell’ignoranza, il cui strumento principale è stata in Italia la televisione, privata e di Stato - la peggiore del mondo; e non solo nei notiziari e nelle trasmissioni «politiche», quanto soprattutto nella pappa securitaria [fondata sulla propalazione della paura] e decerebrata rifilata quotidianamente al pubblico culturalmente più indifeso dalle trasmissioni di intrattenimento – si è innestato tuttavia su alcuni processi di fondo che attraversano il panorama mondiale da decenni.

Il primo è il passaggio epocale – uso questo termine abusato a ragion veduta, perché in questo caso lo ritengo appropriato – dalla cultura scritta dei libri, dei giornali e delle riviste alla cultura audiovisiva della televisione e di internet. Solo due o tre altri passaggi hanno avuto sulla storia umana un peso paragonabile: quello tra cultura orale e scrittura, quello dal manoscritto alla stampa e, forse, quello dalla lettura ad alta voce alla lettura mentale. In tutti e tre i casi, le modalità di trasmissione e comunicazione precedenti non sono state eliminate [ancora oggi si imparano a memoria canzoni e persino poesie; qualcuno scrive ancora a mano; molti leggono a voce più o meno sommessa]; ma soverchiate, sicuramente sì.

Se è vero che i «contenuti» veicolati su questi supporti possono essere gli stessi – ma in genere non lo sono – le modalità di trasmissione e di recepimento ne alterano radicalmente la portata. In fin dei conti il medium è il messaggio. Su questo punto non occorre insistere perché è stato ampiamente analizzato: la pagina scritta richiede attenzione, sforzo, riflessione, invita a costruire schemi e griglie per sistemare – e sistematizzare sulla base di un principio di coerenza – quanto appreso. L’audiovisivo è molto più volatile; consente – anche se non necessariamente impone – una ricezione più passiva; non comporta, se non in rari casi, uno sforzo di apprendimento e meno ancora di interpretazione o di «traduzione»; permette di passare da un tema all’altro – o addirittura da un universo all’altro – con la semplice pressione di un tasto; non si deposita, o si deposita solo flebilmente, nel costrutto mentale del recipiente; soprattutto si rinnova ogni giorno, cancellando o relegando nell’oblio quello che era stato detto o comunicato solo ieri.

L’espressione «cultura del palinsesto», che un tempo indicava il faticoso recupero di un supporto organico, raschiando la pelle di una capra per depositarvi sopra un nuovo testo a spese di quello cancellato - che magari era assai più importante e che a volte oggi riusciamo a recuperare con sofisticate tecnologie – ai giorni nostri sta a indicare che le informazioni, come le affermazioni, cambiano ogni giorno; che quello che viene detto o visto oggi può contraddire completamente quanto detto o visto ieri – o anche oggi stesso - senza bisogno di spiegazioni. Quello che si perde, soprattutto, è la tensione alla costruzione di un universo cognitivo coerente e unitario. Come è noto, Berlusconi è stato il più rapido a capire e ad appropriarsi di questo meccanismo.

In un ambiente del genere, l’unico modo per consolidare dei saperi è quello di legarli strettamente a un’attività pratica. Le cascate di parole e di immagini che ci investono attraverso i media audiovisivi difficilmente si depositano, e quando lo fanno si sovrappongono in strati tra loro impermeabili. Ma come la moneta cattiva scaccia quella buona, l’inflazione di informazioni e immagini prodotta dai media restringono progressivamente lo spazio riservato al testo scritto e meditato.

La scuola tradizionale e tutta la formazione scolastica odierna sono state le prime vittime di questo cambio di paradigma. Ancora quasi interamente affidate all’accumulo di parole scritte in quotidiana competizione con la marea di suoni, immagini e parole, gridate, sussurrate o cantate, provocata dai media. Ovvio che a scuola non si impari più nulla o quasi. Nessuno lo sa meglio degli insegnanti, anche quando ne danno la colpa ai ragazzi.

Il secondo processo a cui è riconducibile la dittatura dell’ignoranza è il fondamentalismo, non solo religioso - islamico, cristiano, giudaico o induista: ma sempre vissuto come fattore identitario, con effetti sanguinosi perseguiti in nome del bene contro il male – ma anche «razziale»: trasferendo magari dal piano biologico a quello culturale – in senso «antropologico» - la pretesa superiorità di un’etnia o di una nazione sull’altra. Il fondamentalismo è stato e viene alimentato soprattutto da una reazione identitaria e difensiva nei confronti dei processi di sradicamento, di perdita delle proprie certezze, di aumento dell’insicurezza indotti dalla globalizzazione.

Cresce in tutto il mondo il numero delle persone disposte a sostenere che nella Bibbia, nel Corano, nelle Upanishad o nel Vangelo - spesso senza conoscerne o senza nemmeno saperne leggere il testo - o in loro interpretazioni schematiche, dogmatiche o addirittura false, e comunque sempre autoritarie, è contenuto tutto quello che una persona giusta deve sapere; e pronte a negare qualsiasi evidenza, scientifica e non, che ne contraddica anche solo una singola sentenza.

Anche in questo caso il berlusconismo, questa volta anticipato dalla Lega, disinvoltamente passata dall’adorazione del dio Po, o Eridano, e dai riti celtici all’alleanza con Cristo re, ha saputo e potuto mettere a frutto la sostanza fondamentalmente razzista di questa chiusura culturale. Lo ha fatto con un’alleanza tra trono e altare configurata ad hoc per coprire reciprocamente le rispettive debolezze. Il risultato più feroce e grottesco di questo innesto sono le dissertazioni psudoscientifiche sullo statuto dell’embrione, sulla tempistica dell’estinzione della vita o sull’omosessualità. E lo sarà probabilmente ben presto anche l’imposizione del creazionismo, come già avviene in molte scuole degli Stati Uniti.

Il vuoto culturale indotto o favorito da questi due processi, cioè la dittatura dell’ignoranza e il fondamentalismo, convive con – o addirittura si qualifica come – una sorta di pragmatismo «di ordinanza», imposto dalla cosiddetta fine delle ideologie: in realtà di una sola ideologia, quella socialista, con la sua appendice comunista; che forse ideologia non era, bensì un insieme di saperi, seppur parziali e di parte, e certo irrigiditi da una codificazione autoritaria, e in questa forma sicuramente inadatti all’interpretazione del mondo attuale; ma la cui cancellazione ha lasciato dietro di sé solo macerie.

Perché le altre cosiddette «ideologie» dei due secoli scorsi non sono certo scomparse. Quella cattolica - la «dottrina sociale della chiesa» nelle varie formulazioni che hanno tenuto uniti molti partiti occidentali per più di un secolo – o genericamente cristiana, lungi dallo scomparire, è possentemente risorta negli ultimi decenni in forme più radicali, brutali e «ideologiche» sotto le vesti, appunto, di integralismo fondamentalista. E quella liberale, trasmutatasi in fondamentalismo liberista, ha ormai occupato tutta la scena planetaria sotto forma di «pensiero unico». Che altro non è che la forma più schematica e idiota di un «mercatismo» da tempo impegnato a identificare tutte le manifestazioni della vita umana, e a volte anche quelle della natura, con una sorta di totalitario «darwinismo sociale»: un meccanismo fondato sulla competizione e la selezione comandato dal gioco di un mercato concorrenziale che non è mai esistito e mai esisterà in quella forma. Se non negli scritti dottrinari di centinaia di migliaia di accademici che hanno fatto da scudo alla prassi dei rispettivi allievi.

I quali, come ha ben illustrato Naomi Klein in «Shock Economy» [Rizzoli, 2007), dalle istituzioni universitarie in cui sono stati allevati hanno finito per occupare tutti i gangli vitali degli organismi che governano i processi della globalizzazione economica: dalla Banca mondiale alla Wto, dal Fmi alla Commissione europea, fino a coinvolgere i vertici di quasi tutti gli Stati sia dell’Occidente che di quelli nati dalla dissoluzione dell’impero sovietico, e persino della Repubblica popolare cinese, che pure si dichiara ancora «comunista».

Proprio perché autentica ideologia, che non ha alcun riscontro non solo nella realtà dei processi economici [i «mercati» reali], ma nemmeno nella prassi di chi la professa solo per farne un paravento delle proprie scelte, il liberismo o «pensiero unico» può essere senz’altro identificato con la forma più dispiegata e diffusa di ignoranza: una forma, cioè, non solo di occultamento della verità, ma di orgoglio nel volerla ignorare. Mentre i suoi proseliti, di destra e di sinistra, o né di destra né di sinistra, non sono che sacerdoti di questa «dittatura dell’ignoranza».

Il riscontro più immediato di questo fenomeno – ma ce ne sono altri mille disponibili, basta osservare un’assemblea di Confindustria - lo troviamo nell’auditel: è il mercato pubblicitario, che riflette puntualmente indici di ascolto ampiamente determinati da chi controlla i media, a indirizzare la programmazione, cioè le «scelte culturali» dei palinsesti: cioè a far precipitare i contenuti delle trasmissioni televisive verso la decerebrazione totale. Il riscontro più massiccio e tangibile dello stesso fenomeno è invece il controllo totale del mercato, cioè della rendita fondiaria e della speculazione edilizia, sulla morfologia delle città e sulle forme dell’espansione urbana: in tutto il mondo. Cioè sulle basi materiali, fisiche, solide, che costituiscono l’infrastruttura della convivenza umana; con il loro portato di idiotismo abitativo, di brutalità sociale, di analfabetismo culturale e di bruttezza.

Per questi motivi il populismo autoritario e personalizzato - di cui Berlusconi è forse l’esponente maggiore nel mondo odierno, e sicuramente quello di maggiore successo, ma non certo l’unico - è la manifestazione più vistosa di una tendenza che si radica in questi due processi in atto, declinandoli in differenti versioni nazionali, regionali, locali, o anche etniche e religiose [anche la chiesa cattolica, da Wojtyla in poi - anzi, soprattutto con Wojtyla - è una tipica manifestazione di questo andazzo: populismo, autoritarismo, fondamentalismo e dittatura dell’ignoranza].

All’interno di questo meccanismo infernale la competizione politica si è ridotta a una corsa al peggio: vince chi riesce a falsare di più la realtà; a degradare di più contenuti e forme della comunicazione; a solleticare maggiormente gli istinti più bassi – e sempre latenti – dell’umanità; a farle rinunciare più tranquillamente alla propria dignità; a promuovere di più il servilismo [l’entourage di Berlusconi ne è sicuramente l’esempio più vistoso del mondo; ma, anche qui, la gerarchia cattolica non gli è da meno]. E’ un processo di cui siamo quotidianamente spettatori; ma spesso anche, volontariamente o no, sia attori che vittime. Il suo fondamento è noto, ed è stato battezzato con un acronimo: Tina [«There is no alternative»: non si può fare diversamente]. E’ la gabbia in cui si sono autoreclusi tutti quelli che accettano di competere nello stesso agone, sulla stessa arena. Ma individuare un’altra arena e promuovere un impegno collettivo in essa è, come ognun sa, tutt’altro che semplice.

In altra sede [«Prove di un mondo diverso», NdaPress, 2009] ho proposto una periodizzazione di questo processo per ricollocarlo in un tempo storico: primo passo – ma indispensabile - per prospettarne un possibile superamento: gli oltre sessant’anni che separano la crisi attuale dalla fine della seconda guerra mondiale possono essere divisi in due parti. La prima, i cosiddetti «trenta gloriosi», si sono svolti, bene o male, all’insegna della decolonizzazione; di una pretesa «competizione pacifica» tra Occidente e Comunismo [pur nel quadro della guerra fredda; e certo contrassegnata da orrori come i gulag, le dittature imposte con colpi di stato, i conflitti sanguinosi in Corea, in Vietnam, in Africa, in Medio oriente]; e soprattutto all’insegna dello «sviluppo» economico, della crescita dell’occupazione, dei livelli salariali, del welfare e del consumismo nei paesi «sviluppati»; della loro attesa in quelli via via decolonizzati.

La seconda parte del periodo ha visto l’inversione di tutti questi processi: il fallimento delle promesse della decolonizzazione; la fine dell’equilibrio bipolare e la moltiplicazione delle guerre locali; la contrazione dei redditi del lavoro e l’aumento di quelli del capitale, con il conseguente aumento stellare delle differenze sociali, tanto nel primo quanto nel secondo, nel terzo e nel quarto mondo; il crollo del welfare, l’esplosione del debito delle persone, delle imprese, delle economie, dei governi nazionali e locali, usato soprattutto per procrastinare una resa dei conti; la conseguente «finanziarizzazione» dell’economia mondiale.

Se a mettere in mora gli equilibri – meglio sarebbe dire gli squilibri – instaurati nel corso di questo secondo periodo è stata l’esplosione della crisi finanziaria, e poi economica, e in ultima analisi ambientale, a mettere in mora gli equilibri dei «trenta gloriosi» era sta l’esplosione del ’68: cioè dei movimenti sociali che a partire dalla metà degli anni sessanta, e per tutta la prima metà dei settanta, avevano attraversato quasi tutti i paesi, sia dell’Occidente che del «Terzo mondo» e del mondo comunista, muovendo dalle università per investire in modo più o meno profondo tutto l’assetto sociale.

I tratti costitutivi comuni a tutti quei movimenti, per lo meno nella loro fase iniziale, erano stati uno spirito di rivolta e una temperie antiautoritaria tesi all’affermazione della propria autonomia personale nell’ambito di un processo di crescita collettiva. Temperie e spirito che si erano poi propagati in tutti gli ambiti sociali: dalle fabbriche all’università, dalle scuole alle carceri, dai corpi militari all’amministrazione della giustizia, dai quartieri ai laboratori di ricerca: con il tentativo di disarticolare le linee di comando gerarchico – e non solo quelle del sistema di fabbrica – attraverso la messa in questione del proprio ruolo e dei propri compiti. Ma quei movimenti si erano poi arenati, sfrangiati e dissolti, non tanto sotto il peso della repressione [che pure in alcuni paesi era stata violenta], quanto per mancanza di punti di applicazione concreti, una volta venute meno le ragioni e le occasioni che li avevano suscitati, come la mobilitazione contro la guerra in Vietnam o la rigidità delle strutture dell’università, delle professioni e, dove ancora prevaleva come modo di produzione, della grande fabbrica fordista.

La «lunga marcia attraverso le istituzioni» propugnata dal leader degli studenti tedeschi Rudi Dutschke non aveva trovato a sua disposizione saperi adeguati a formulare e perseguire strade alternative a quelle di una contestazione ripetitiva, e a lungo andare sterile, degli assetti del potere costituito. Ed è qui che vanno cercate probabilmente anche le radici di un irrigidimento dottrinario di tanta parte del movimento che ha poi generato una proliferazioni di gruppi e sottogruppi in concorrenza tra loro; una «mania» che in molti paesi, tra cui l’Italia, si è poi protratta addirittura fino ai giorni nostri.

D’altronde, se fino ad allora il mondo accademico era stato dotto, ma chiuso di fronte all’evoluzione della società e alle istanze di autonomia delle persone, il ’68 aveva sì spalancato sul mondo reale le finestre delle discipline universitarie, ma senza saperne poi trarre delle indicazioni pratiche in grado di concretizzarsi in nuovi saperi. Così l’accademia era ben presto tornata a chiudersi su se stessa; e da allora non è stata più né aperta né dotta.

Il «pensiero unico» che ha guidato e in cui si è concretizzata la reazione al «grande disordine» di quegli anni aveva dunque potuto inserirsi proprio in quella debolezza dei movimenti del ‘68, affidando il perseguimento di un obiettivo analogo al loro – la realizzazione della propria autonomia individuale - non a un’azione collettiva e consapevole, ma ai meccanismi ciechi e automatici [o presunti tali] del mercato: affermazione e realizzazione personali sarebbero da allora dipesi dal funzionamento selettivo e falsamente«meritocratico» della competizione individuale.

Questo approccio è stato poi gradualmente e quasi inavvertitamente assimilato da tutta la società; soprattutto dopo che l’affievolirsi e il venir meno dell’«onda lunga» dei movimenti; e, in Italia, le conseguenze di un terrorismo, di Stato e dei gruppi armati, che ne aveva deviato la carica innovativa verso vicoli ancora più ciechi e tragici - ne avevano disperso i già fragili presidi culturali.

Oggi la situazione si è in qualche modo invertita rispetto a quegli anni: nei rapporti di forza, il mondo del lavoro ha perso l’autonomia e la forza che aveva conquistato in anni di lotte e di antagonismo nei confronti dei poteri forti del capitale, dei governi e delle grandi corporation. Queste ultime sono ormai organismi in larga parte sovranazionali, in grado sia di ricattare i governi nazionali che di assoldarne il personale [la corruzione è infatti diventata un elemento costitutivo dei «meccanismi di mercato» o, se vogliamo, del «modo di produzione»; e non solo in Italia]. Oggi esse appaiono – e sono - più forti che mai, nonostante la crisi; anzi, anche grazie alla crisi, che accresce la loro capacità di ricattare e sfruttare una massa sterminata di lavoratori, dipendenti e autonomi, manuali o intellettuali [il cosiddetto «cognitariato»], del nord e del sud del mondo, ma sempre più precari, dispersi su tutto il pianeta dai processi di delocalizzazione e sempre più esposti al ricatto che questi processi consentono di esercitare.

Ma dal punto di vista dei saperi, il grande capitale e gli establishment politici degli Stati – sia di maggioranza che di opposizione – e persino il mondo accademico più direttamente interconnesso con essi sono ormai imprigionati dentro la gabbia sempre più stretta del «pensiero unico»: cioè della loro ignoranza. Ne sono prigionieri perché per loro, allo stato di cose esistente «non c’è alternativa»: Tina.

In Italia questa perdita di conoscenze – e di capacità di conoscere – ci viene ribadita quasi ogni giorno dai rappresentanti dell’opposizione: «Non abbiamo saputo riconoscere e interpretare l’evoluzione della società» è ormai diventato un ritornello. Ma forse che i rappresentanti della maggioranza lo hanno saputo fare? Certo sono «al passo» con molte delle sue trasformazioni: anzi, a volte le anticipano e nel caso di quelle peggiori, come la rinata virulenza del razzismo, la competizione senza freni, il disprezzo per la conoscenza, l’ipocrisia e la truffa, le solleticano e le moltiplicano. Hanno «fiuto» si dice. Ma il fiuto è una facoltà che ti tiene legato a terra, impedisce di sollevare lo sguardo verso l’orizzonte, costringe a seguire tracce di itinerari già percorsi.

Ma di quali strumenti dispongono mai i membri dell’establishment di tutti i paesi del mondo, e del nostro in particolare, per fare fronte alla crisi ambientale, alla globalizzazione dell’economia, alla sua finanziarizzazione, alla dissoluzione dei legami sociali? Sia loro che l’opposizione non possono fare altro che rincorrere questi processi e cercare di adeguarvisi; perché «non c’è alternativa» [Tina]. Giocano con i numeri – e con il fuoco; e con la guerra; e con i disastri economici, e con la crisi ambientale – come stregoni: dividendosi i compiti. Alcuni sono addetti a esorcizzare i disastri: va tutto bene; altri a prospettare giorno per giorno soluzioni fasulle, il cui unico risvolto è il business ad esse connesso; altri, infine, a dare la caccia – una caccia spesso brutale – a qualche capro espiatorio: gli immigrati, la concorrenza cinese, il pubblico impiego e persino il ricorrente fantasma del ’68.

Di contro, nel corso di questi stessi anni, e in forma quasi carsica, è andata sviluppandosi, ad opera di una molteplicità di organismi, di movimenti, di studiosi indipendenti, di «imprenditori sociali», spesso collettivi, una serie di saperi autonomi che coprono quasi tutto l’arco dei problemi e dei settori decisivi per affrontare sia la crisi ambientale, tanto a livello globale che locale, sia la crisi occupazionale, la crisi alimentare, quella energetica, quella urbanistica, quella educativa. Si tratta di saperi direttamente legati a una prassi, o a verifiche pratiche dirette o già sperimentate altrove, o messe comunque alla prova in attività di disseminazione mirate e capillari. Per ora coinvolgono solo alcune minoranze più o meno diffuse, ancora insufficientemente collegate tra loro; soprattutto perché quei movimenti sono spesso monotematici e la ricomposizione di iniziative del genere è difficile e complessa.

Quarant’anni fa gli unici ambiti intorno a cui erano andati sviluppandosi saperi e pratiche alternative alle conoscenze egemoni erano la medicina – soprattutto per quanto riguarda le prevenzione sui luoghi di lavoro, anche grazie all’apporto di alcune organizzazioni sindacali – e, in misura più ridotta, e certo con esiti meno sostenibili, l’urbanistica.

Oggi i saperi che i movimenti degli anni più recenti hanno contribuito a costruire, o a consolidare attraverso una pratica diretta, o intorno a cui sono andati sviluppandosi nel corso degli anni, permettendo la formulazione e la condivisione di piattaforme rivendicative o programmatiche sempre più ampie e circostanziate, riguardano una vasta gamma di ambiti: innanzitutto le tecnologie e l’utilizzo delle fonti energetiche rinnovabili come alternativa a un sistema interamente dipendente dai combustibili fossili; l’efficienza energetica; l’edilizia ecocompatibile; l’urbanistica partecipata; l’agricoltura biologica; l’alimentazione e il ciclo agroalimentare nel suo insieme. E poi la gestione dei rifiuti [prevenzione e riciclo] per ridurre il consumo di risorse vergini, ma anche per interconnettere e sviluppare processi industriali su basi locali; la mobilità flessibile; la conservazione della biodiversità; la manutenzione del territorio e del patrimonio edilizio e soprattutto l’informatica open source e la condivisione di contenuti: un processo che nelle sue diverse espressioni coinvolge milioni di soggetti in tutto il mondo e consente circolazione e gestione di informazioni e idee in forme autonome.

In realtà sono tutti i saperi su cui sono cresciuti i nuovi movimenti a unire in forme inscindibili competenze tecniche specialistiche, più o meno largamente diffuse, con competenze gestionali che derivano da una pratica diretta. Ma si parla qui di competenze gestionali che riguardano beni comuni o procedure condivise, apprese ed eventualmente codificate in corso d’opera, nell’ambito di processi partecipativi che prevedono come loro pre-condizione l’impegno al confronto e alla collaborazione tra soggetti diversi, con interessi, valori e condizioni materiali diverse; e anche tra loro conflittuali.

Un «know how» del tutto estraneo alle pratiche e alle competenze della maggioranza delle amministrazioni locali, per non parlare delle società di servizi pubblici locali, pubbliche private o miste, che spesso coltivano il tema della «responsabilità sociale dell’impresa» o pubblicano i loro bilanci sociali in carta patinata solo per imbellettare il loro operato; ma che sono del tutto impreparate a misurarsi con processi collettivi di presa in carico di una gestione condivisa dei beni comuni oggi affidati alle loro amministrazioni. Conoscenze tecniche, conoscenza del territorio e competenze gestionali autonomamente acquisite, cioè capacità di autogoverno, o comunque di partecipazione tesa a accrescere o realizzare un controllo dal basso dei processi economici e delle scelte politiche, sono dunque indissolubilmente legati ai processi di partecipazione.

A differenza di quanto era successo quarant’anni fa, quando i movimenti si erano arenati soprattutto per l’incapacità di confrontarsi con la dimensione pratica dei problemi, oggi la forza dei movimenti risiede in primo luogo nella qualità dei saperi che hanno sviluppato o sulla cui diffusione sono cresciuti. Democrazia e partecipazione sono ormai inscindibili da conoscenza e saperi diffusi.

L’esempio più luminoso di questo accoppiamento ci è forse fornito dal movimento No Tav della Val di Susa: un movimento fondato su una larghissima partecipazione, che ha saputo rinnovarsi e resistere a una serie di attacchi concentrici per anni. E che ha polarizzato gli schieramenti a tal punto da spingere i signori delle tessere e delle leve di governo di Regione, Provincia e comune di Torino a imporre ai loro referenti locali di allearsi con i propri [pretesi] avversari politici, nel vano tentativo di mettere alle corde i protagonisti del movimento. Con l’esito, in termini elettorali, che tutti sappiamo: hanno consegnato alla Lega e a Berlusconi le chiavi della Regione, oggi; e probabilmente quelle della Provincia e della città, domani.

Che cosa dicono quei signori, e i loro corifei, per giustificare un’aberrazione del genere, perpetrata a spese di tutta la popolazione che avrebbero dovuto rappresentare? Dicono «non c’è alternativa» [Tina]. Tav è progresso, è industria, è finanza, è occupazione, è collegamento con l’Europa, è riduzione dell’impatto del trasporto. E si fermano lì. Non un’analisi dei flussi di merci presenti e futuri, che per tutti gli esperti di trasporto non richiedono assolutamente un investimento del genere. Non un’analisi costi benefici [anzi, una sì: dei professori Pennisi e Scandizzo, due luminari del settore, che manipolano dati di cui non espongono né fonti né procedure di elaborazione e ne ignorano altri ben più significativi]. Non la minima attenzione per le condizioni di vita di una popolazione che vorrebbero condannare a vivere dentro un cantiere, per di più altamente nocivo, per i prossimi quindici o vent’anni. E, soprattutto, la favola della riduzione dell’impatto del trasporto merci di una ferrovia pensata per trasportare solo passeggeri a 250 chilometri all’ora, pur essendo chiaro che il passaggio delle merci dal trasporto su gomma a quello su ferro o si fa – gradualmente – in tutto il paese, o non avverrà in nessuna sua tratta. E’ il trionfo dell’ignoranza.

Guardate ora la conoscenza diffusa che larga parte della popolazione della Val di Susa ha sviluppato nei confronti del progetto di Tav Torino-Lione, dei problemi relativi al trasporto e agli impatti ambientali, dei costi e dei benefici e soprattutto degli impatti sociali ad esso connessi. Una conoscenza su cui è stata costruita la forza del movimento. Se ne può ricavare un’idea navigando nei diversi siti web gestiti collettivamente dai comitati che animano il movimento e che sono aperti a una partecipazione corale di tutta la popolazione. Come in molte altre situazioni analoghe, la cosa che impressiona di più è la conoscenza, anche tecnica, dei problemi che essi dimostrano; la ricchezza della documentazione, anche di parte avversa, che espongono; l’onestà intellettuale nella gestione dell’informazione. Tutte risorse oggi del tutto inutilizzate da chi ha le leve del governo a qualsiasi livello. Ma tutte cose che fanno dire che democrazia e conoscenza costituiscono ormai un binomio inscindibile.

Quello che vale per la Val di Susa vale dappertutto. Democrazia e partecipazione vengono costruiti intorno o attraverso saperi che non possono prescindere da una conoscenza specifica del territorio: quella che solo chi ci vive e lavora può possedere. E che è indispensabile per mettere a punto progetti specifici di rientro nei parametri della sostenibilità ambientale, sociale ed economica, che sono necessariamente diversi da un territorio all’altro, come sono diverse le risorse fisiche e umane su cui contare, le opportunità da valorizzare, i problemi specifici da risolvere. Ma che proprio in questa differenziazione locale, all’interno di una visione globale, radicano la pratica di una autentica democrazia partecipata.

Un breve ricapitolazione storica.

Viale si pone e ci pone grandi, ma essenziali domande, di quelle che tutti noi ci facciamo da tempo, in interiore homine, direbbe Sant'Agostino, ma che non facciamo sistematicamente in pubblico. E a cui, soprattutto, non tentiamo di dare risposte che non siano frammentarie, impressionistiche e occasionali. Ma sono domande importanti, che costringono a guardare con impegno di analisi storica alle vicende italiane e internazionali degli ultimi decenni, ci spingono a comprendere come siamo arrivati sin qui. Interrogativi che in parte si sono già posti e dovrebbero continuare a porsi gli intellettuali di sinistra nei Paesi dell'Occidente. Certo, per rispondere in maniera circostanziata occorrerebbe un saggio , difficile da scrivere, perché dovrebbe coinvolgere non poche competenze. Ma i dibattiti sono utili, aprono problemi e influenzano poi le domande che si pongono gli storici nelle loro ricerche.

Noto, a questo proposito, come segno importante di presa di coscienza, che da qualche tempo si è cominciato a fare opera di ricapitolazione di come sono andate le cose nel trentennio neoliberale. L'ha fatto Serge Halimi, con Il grande balzo all'indietro (2006) David Harvey, con Breve storia del neoliberismo ( 2007 ) Naomi Klein, con Shock economy ( 2007 ) Angelo d'Orsi - l'unico storico di mestiere tra i menzionati - con 1989 (2009), per non dire dei contributi di analisi storica contenuti spesso nelle analisi di un sociologo come Luciano Gallino. E in Italia, non sono mancate le ricostruzioni di storia politica, come ad es. i vari saggi di Nicola Tranfaglia e soprattutto le analisi dedicate a Berlusconi e al berlusconismo. Ultimo il contributo di Antonio Gibelli, Come Berlusconi è passato alla storia( 2010) Incominciamo, dunque , a disporre di sufficiente documentazione per fare luce sulla nostra storia recente. Oggi possiamo cercare di rispondere alle domande che Viale si pone, con meno improvvisazione e molti materiali documentari a disposizione. E, pur nei limiti di una discussione, è possibile utilizzarli per fornire spiegazioni meno impressionistiche di alcuni anni fa.

Io vorrei svolgere delle considerazioni di carattere storico privilegiando due ambiti distinti di realtà, ma che sono poi fortemente legati tra di loro e le cui trasformazioni ci ci forniscono molte informazioni sulla situazione presente. Il primo riguarda l'iniziativa del capitale – vecchio lemma marxiano oggi significativamente dimenticato – il secondo ha a che fare con la morte e la trasfigurazione dei partiti di massa.

Vediamo, brevemente, che cosa sta al fondo delle trasformazioni che ci consegnano la situazione confusa e paradossale in cui viviamo. E' una pagina di storia che appare ormai chiara a tutti. A partire dagli anni '80, il capitale messo in difficoltà, limitato nella sua capacità di accumulazione da quasi due decenni di lotte e di conquiste operaie, spinge sul ceto politico di governo per riprendersi i margini di profitto che non riesce più a conseguire in fabbrica. La Thatcher e Ronald Reagan sono i leader che incarnano con maggiore coerenza ed energia questa esigenza di ripresa dello sviluppo capitalistico. I due modificano il sistema fiscale progressivo (Reagan opera il più grande taglio delle tasse della storia americana) liberalizzano i capitali, riducono le risorse per il welfare, emarginano i sindacati, ecc. Tutte cose note. Meno noto è il fatto - o , per lo meno, poco posto in rilievo - che tale operazione riesce a far leva su una accumulazione teorica e culturale vecchia di decenni, che in quegli anni comincia ad esprimere tutta la sua energia. Si tratta degli studi, ricerche, dibattiti - come ha mostrato ampiamente Serge Halimi - della Mont Pelerin Society, di economisti come Ludwig von Mises, Milton Friedman, teorici come Friederich von Hayeck, ecc. Tutto il bagaglio neoliberista, messo in soffitta dalla grande avanzata dei movimenti egalitari dei primi decenni della seconda metà del secolo, riemerge ora sia come supporto ideologico del capitale, ma anche come prospettiva di sviluppo, di emancipazione dell'intera società.

Quest'ultima notazione meriterebbe una riflessione apposita. Noi, infatti. ci siamo poco interrogati sulle ragioni del successo del messaggio neoliberista, che ha spadroneggiato sulla scena mondiale per un trentennio. E che ancora lancia proclami nonostante la montagna di disastri sotto cui la storia l'ha seppellito. Un successo anche elettorale, vale a dire il premio del consenso da parte dei cittadini elettori, soprattutto in USA e in Gran Bretagna. Halimi attribuisce la resistibile ascesa soprattutto alla incapacità di resistenza dei partiti storici della sinistra. E questa è certamente una parte della risposta, ma non la risposta. Una più ampia spiegazione, a mio avviso – pur nei limiti di queste note – consente di capire meglio le ragioni di una sconfitta e soprattutto le possibilità che oggi si aprono davanti a noi.

Io credo, infatti, che il neoliberismo si è affermato grazie alla sua capacità di presentarsi come un messaggio di liberazione, di avanzamento di civiltà. Esso è stato in grado di elaborare un nuovo racconto della modernità, di rilanciare aspettative di carattere universale. La libertà individuale combinata con la promessa di arricchimento ha costituito una miscela di potente suggestione ideologica. Ma il successo del neoliberismo è stato reso possibile da un insieme di circostanze che noi autocriticamente dovremmo oggi essere in grado di porre in luce con maggiore coraggio. Provo, per brevità ad elencarle: 1) La crescita del welfare negli anni '60 e '70 aveva creato una crisi fiscale dello Stato che ha finito col rendere sempre meno popolari le politiche keynesiane di piena occupazione e di redistribuzione della ricchezza. Qui, sul piano della teorica economica, la risposta più convincente e alla fine vittoriosa è apparsa quella neoliberista. La sinistra non ha avuto una propria risposta strategica dotata di pari forza. 2) La spinta egalitaria degli anni Sessanta e Settanta, si era esaurita, trasformata in corporativismo conservatore di gruppi, ceti, che difendevano alla fine anche tanti privilegi ammantati di conquiste sindacali. A questo proposito va detto che non si comprenderebbe il lungo consenso di cui, per esempio, ha goduto la Thatcher se non si comprende il risentimento popolare su cui essa ha potuto far leva denunciando posizioni di corporativismo sempre meno giustificabili. 3) In Germania e in Italia – Viale ne fa giustamente cenno per l'Italia - una parte dei movimenti è addirittura finita nel terrorismo, creando un danno di incalcolabile portata. 4) La spinta egalitaria non è stata in grado di elaborare una nuova visione generale delle sue ragioni e soprattutto non è stata in grado di realizzare una sintesi con le nuove culture emergenti dell'ambientalismo. Queste ultime, che pure hanno conosciuto momenti importanti di affermazione, sono rimaste come realtà “specialistiche”, di forte marchio identitario, ma incapaci di diventare l'asse di una nuova progettualità politica simile a quella dell'egalitarismo antiautaritario dei decenni precedenti. 5) L'URSS appariva ormai come un pachiderma autoritario privo di vita e di prospettive. Questa può apparire una notazione eccentrica, che poco abbia a che fare con il successo del neoliberismo.Al contrario, io credo che sia centrale. Già prima del suo crollo, l'URSS inviava messaggi devastanti per le sinistre sparse per il mondo. Negli anni di Brezeniev quel Paese non appariva in grado di far accedere con regolarità i cittadini ai beni di prima necessità, mentre le vetrine dei Paesi dell'Occidente straripavano di beni di lusso. Dal Paese del socialismo realizzato non era mai arrivato un contributo teorico e culturale degno di nota per la causa del sinistra internazionale. E in quegli anni si poteva registrare – come si espresse Mario Tronti – solo «l' encefalogramma piatto del materialismo dialettico». Vale a dire la vulgata ideologica del marxismo ridotto a catechismo scolastico. Ma in tanta inerzia e immobilità era racchiuso un insegnamento distruttivo per tutti noi. L'egalitarismo bolscevico, la socializzazione dei mezzi di produzione, vale a dire l'indicazione strategica fondamentale dell'alternativa al capitalismo, erano finiti in un cul de sac.

Dunque, riassumendo, in quegli anni i nostri numerosi e anche universali successi, tutta la nostra precedente storia, bloccata in un empasse strategico, appariva come un unico irrimediabile errore. E lo Stato, la leva fondamentale per la redistribuzione della ricchezza, si cominciò ad additarlo non più come la soluzione, ma per usare le parole di Reagan all'atto del suo insediamento , come «il problema».

Quel che accade ai partiti.

Dunque non si comprende il successo dell'ideologia neoliberista se non si rammenta questa temperie politica e culturale, ma anche se non si afferra l'orizzonte progettuale che esso è stato in grado di offrire in quella fase storica. Aggiungiamo, che, a cascata, l'iniziativa della destra ha conseguito successi su successi, ad esempio trascinandosi dietro la grande massa degli intellettuali organici del secondo Novecento: gli economisti. Questi nuovi ideologi della crescita non solo si sono moltiplicati a dismisura, si sono insediati in tutti i gangli di potere della società attuale( Governi, Banche, FMI,Banca Mondiale, Centri Studi, Università, ecc) ma hanno creato un nuovo dominio ideologico, quello che io chiamo l'aristotelismo economicistico della nostra epoca. Essi hanno elaborato ed imposto l'economia capitalistica come un principio di realtà, la crescita come condizione ineliminabile dell'avanzare della storia umana.

Nella congiuntura storica che abbiamo molto schematicamente tratteggiato, i partiti storici della sinistra si sono trovati intrappolati. Essi non solo non disponevano di nuove strumentazioni teoriche per rispondere alla sfida che avevano di fronte, ma addirittura si trovavano obiettivamente nella stessa traiettoria degli avversari. Non chiedevano i vecchi partiti comunisti, socialisti e socialdemocratici dell'Occidente lo sviluppo economico sempre più ampio per poter redistribuire la ricchezza? Ebbene, qual'era in quella fase la via migliore, la più efficace, quella di un potenziamento dello Stato sociale, che frenava l'economia e creava inflazione , o quello di liberare le forze produttive da lacci e lacciuoli per far riprendere la corsa dello sviluppo?

Il fatto che gli ex partiti operai e popolari abbiano a un certo punto fatto proprio il punto di vista e addirittura l'orizzonte strategico dell'avversario è infatti l'altro grande passaggio che spiega molte cose del presente. Risponde a molte delle domande che Viale formula. Dal momento che quei partiti non si pongono più il problema di rappresentare gli interessi della classe operaia, essi sono spinti a cercare il loro consenso un po' dappertutto, diventano, per dirla con le parole del politologo tedesco Otto Kircheimer, partiti pigliatutto. Da quel momento non serve più la militanza, il partito dotato di insediamento territoriale, faticoso da gestire. Serve un strumento agile, capace di lanciare continui messaggi pubblicitari rivolti indistintamente ai cittadini ridotti a elettori. Possibilmente guidato da un capo, che ha elevate capacità comunicative, nell'epoca in cui la TV è diventato il mezzo principe della lotta politica. In Italia Massimo D'Alema ha incarnato alla perfezione questa metamorfosi con risultati di fallimento che oggi dovrebbero far parte di un sereno e definitivo bilancio storico.

Se non riflettiamo bene su questa radicale trasformazione della politica, dei suoi mezzi, dei suoi linguaggi, delle sue simbologie ci perdiamo un tratto fondamentale della trasformazione culturale in cui siamo immersi. Come aveva lucidamente previsto Guy Debord, la politica è stata fagocitata nella società dello spettacolo. Spettacolo che è un settore dell'industria dell'intrattenimento, vale a dire un segmento del capitale. Dunque gli strumenti della rappresentanza sono finiti nel tritatutto dell'industria capitalistica.Gli strumenti della democrazia rappresentativa trasformati in ingranaggi della macchina economica. E in questo l'Italia diventa un caso da laboratorio: perché un capitalista, Berluscconi, un capitano d'industria della società dello spettacolo, diventa anche presidente del Consiglio. Il capitale che si mangia la politica e la subordina ai suoi voleri conosce una incarnazione personale potremmo dire perfetta.

Stentiamo a riconoscerlo: ma la politica, che aveva incarnato per decenni e per milioni di uomini, un modo di vivere e di interpretare il proprio tempo, un progetto di speranza collettiva è degradata a mera finzione spettacolare. Una stella polare che indicava una via e dava senso alla storia è stata cancellata dall'orizzonte. Va ricordato a questo proposito che il dilagare ossessivo dell'ideologia mercatistica, l'illusione di affidare al libero mercato la soluzione di tutti i problemi sociali, ha colpito al cuore una delle grandi conquiste della civiltà politica europea: la figura e la nozione di interesse generale. Nelle nuova vulgata questo è stato affidato allo spontaneo ricomporsi degli egoismi individuali, all' hobbesiano homo homini lupus, che si sarebbe ricomposto in una superiore armonia sociale grazie alla sua intrinseca logica competitiva. Si è trattato di una delle più colossali sciocchezze ideologiche circolate nel dibattito pubblico in tutta l'età contemporanea. Ma l'esaltazione degli interessi individuali, dell'egoismo del singolo come motore di progresso, che ha colpito ovunque lo spirito pubblico dei diversi Paesi e devastato la politica, in Italia ha avuto effetti particolarmente perversi. Nel nostro Paese, dove lo Stato-Nazione è non solo di recente formazione (come la Germania), ma soprattutto fragile per varie ragioni che qui non si possono spiegare, i grandi partiti di massa avevano surrogato la debole identità nazionale degli italiani. Risucchiati i partiti nella macchina dello sviluppo, nel giro di 10-15 anni, i nostri concittadini sono stati privati di gran parte degli antichi punti di riferimento. E nella confusione e nel risentimento generale l'individuazione di un capro espiatorio, la scoperta di un nemico – la massa dei disperati che si rifugiano nelle nostre città e campagne - può rappresentare perversamente, per molti, un segnale di orientamento e di senso. Non si comprende dunque la scadente qualità dello spirito pubblico che ha segnato tanti ambiti della vita italiana senza considerare queste trasformazioni.

Nuovi saperi e democrazia.

Abbiamo cercato di disegnare le origini capitalistiche dello stato presente. Ma oggi noi possiamo anche discorrere del seguito di una storia che è andata diversamente da come i suoi protagonisti si aspettavano. Credo che sia molto importante sistemare quanto è avvenuto nel quadro di un ciclo storico ormai concluso. E non c'è dubbio, a tale proposito, che la grande sfida neoliberista è definitivamente tramontata. E' terminata non solo per il tracollo economico e finanziario in cui quella politica ha trascinato il mondo intero. La crisi presente è solo la sanzione definitiva di un fallimento più generale e ormai inoccultabile. Com'è ormai noto, quella stagione non ha accresciuto i posti di lavoro, ma ha solo camuffato e nascosto una montante disoccupazione di massa con il lavoro precario. E a ha fatto ristagnare i redditi di ampie fasce di popolazione sia in Usa che in Europa. Dalla fine degli anni '80 le crisi finanziarie hanno costituito un vero e proprio “periodo sismico” delle società industriali, quale mai si era visto nei decenni e secoli precedenti. La politica dominante ha alimentato i consumi con l'indebitamento delle famiglie e ha messo le società di fronte a problemi prima sconosciuti: montagne di rifiuti che minacciano i centri abitati, inquinamento e distruzione dei territori, delle acque, delle coste, consumo distruttivo di risorse, prospettive di mutamenti apocalittici degli equilibri climatici. Ma forse soprattutto il più cocente dei fallimenti, che colpisce al cuore il pensiero neoliberista, è stato la minore crescita del Pil mondiale rispetto ai periodi precedenti. Tra il 1979 e il 2000 il tasso annuo di aumento è stato dello 0,9 contro il 3 del 1961-78 e il 3, 4 del 1950-60 (B. Milanovic, Worlds Apart . Measuring international and global iniequality, Princeton University Press, 2005). Quindi neppure scatenando tutte le forze, in piena libertà, il capitalismo è riuscito a creare più ricchezza rispetto ai periodi dominati da politiche keynesiane.

Occorre dunque soffermarsi su questa sconfitta storica. Perché essa costituisce una frattura incomponibile nel fortilizio dell'egemonia capitalistica e apre varchi nuovi alla progettualità alternativa della sinistra. Anche se il presente appare confuso e scorante occorre saper guardare sotto la superficie confusa della cronaca e cercare di intercettare le onde lunghe e sotterranee della storia. Per questo io dico, con assoluta convinzione, che T.I.N.A. non ha vinto. L'affermare che non ci sono alternative al dominio presente altro non è che l'ennesima incarnazione di una annunciata fine della storia. E sia per il mestiere che faccio, che per l 'esperienza condivisa con milioni di persone, so bene che chiunque abbia proclamato la fine della storia è stato sempre, di lì a poco, superbamente smentito dal corso della storia reale.

Si possono oggi elaborare prospettive che fanno capo a saperi nuovi, fondati su una visione olistica della realtà, capace – come insegna Edgard Morin- di guardare al mondo sociale e naturale come parte di una rete di equilibri complessi che si muovono insieme. Il capitale oggi dispone solo di mezzi di conoscenza strumentali, specialistici e votati al dominio e all'uso, ma la sua cultura fondamentale, l'economia, è ormai diventata una tecnologia della crescita. Nulla di più. Essa è ormai priva di pensiero. Nel campo della sinistra molto è nel frattempo fiorito e cresciuto. Esiste oggi una cultura diffusa, potenzialmente egemonica, ma frantumata e dispersa, impensabile solo 30 anni fa. E ovviamente diffusa su scala mondiale. Uno studioso che ha lavorato per anni, cercando di dare dimensioni al fenomeno, ha potuto constatare che sono decine di milioni le persone che nel mondo danno vita a movimenti per rivendicare diritti personali e ambientali. E si tratta di un fenomeno in costante espansione( P. Hawken, Moltitudine inarrestabile, Edizioni Ambiente, 2009). Questa incoraggiante scoperta apre ovviamente rilevanti problemi di coordinamento che rappresentano una delle grandi sfide e uno dei nuovi territori di impegno della sinistra.

Sono molto d'accordo con Viale sul fatto che oggi i movimenti mettano bene insieme – a differenza di quanto accadeva tempo fa – saperi specialistici e circostanziati con la partecipazione democratica. Essi costituiscono l'esatto contrario di ciò che sono diventati i partiti politici tradizionali: non solo chiuse oligarchie, ma gusci vuoti di ogni qualsivoglia cultura e sapere. Piccoli sopramondi che dialogano fra sé su temi che riguardano il loro potere nella società. Tali movimenti, a differenza dei gruppi ideologici degli anni '60, nascono su basi locali e naturalmente posseggono – come patrimonio di formazione e come aspirazione inespressa – un orizzonte generale. Ma il loro fuoco è molto concreto e riguarda ragione prevalentemente di naturale ambientale, ma anche la rivendicazione di diritti, che si innescano nei vari territori. Ora, di fronte a questo mondo in fermento, io credo che si pongano due problemi di prospettiva. Il primo riguarda non solo il collegamento organizzativo fra tante e disperse iniziative e gruppi. Occorrerebbe, almeno una volta l'anno, organizzare un'assise nazionale, convocare gli Stati Generali dei movimenti. E ciò al fine di elaborare l un orizzonte generale comune, obiettivi da perseguire insieme. Servono mete di medio periodo verso cui tendere e far muovere militanti e cittadini. Io credo che un obiettivo su cui lavorare sia quello della creazione di una vasta area di economia dei beni comuni in cui inserire in primo luogo il lavoro umano, risorse come l'acqua, l'energia, la terra fertile, la scuola e l'Università, la sanità, ecc. E qui servono elaborazioni e progetti concreti e praticabili da parte di chi ha le competenze in merito. Se noi riusciamo a rispondere ai disagi materiali, alla precarietà, allo sfruttamento di milioni di cittadini con indicazioni di mutamento possibile delle loro condizioni di vita, con il conflitto organizzato, noi li strappiamo dall'insicurezza che li butta in braccio al populismo mediatico, e alla politica razzista della Lega.

L'altro problema – più volte discusso – è che cosa fare dei partiti politici. Non bisogna dimenticare che essi costituiscono un terreno necessario di conflitto. Spesso la nostra limitata cultura democratica ci fa dimenticare che lo Stato, il quale prende decisioni del tutto lontane dai bisogni dei cittadini (ad esempio mandando l'esercito a combattere in Afganistan, o investendo miliardi di euro in nuovi armamenti ) altro non è che il ceto politico attivo in posti di potere. Sono nostri concittadini, da noi eletti, che prendono decisioni contro i nostri interessi, a favore di poteri economici e politici che li sostengono nella conservazione della loro posizione di privilegio. Possiamo tollerare più a lungo tutto questo ? Nei movimenti si pratica una democrazia diretta, partecipata. Ma la democrazia rappresentativa va alla deriva, sempre meno risponde agli interessi generali. Ci rifugiamo nelle realtà locali aspettando che accada qualcosa ?

Ora, io credo che i partiti senza vita che abbiamo di fronte costituiscano ormai una eredità inerte di un passato particolare. Un passato segnato da una fondamentale caratteristica storica dell'informazione: il suo essere un potere fortemente asimmetrico e disuguale. L'informazione, vale a dire la materia prima della democrazia moderna, è sempre stata una forma verticale di comunicazione. Dai giornali, alla radio alla TV – come ci ricordano gli studiosi dei media, da Castells a Rodotà - tutte le vecchie fonti di informazione cadevano e cadono su fruitori senza voce, consumatori passivi di notizie e messaggi.

Oggi la rete di Internet crea e diffonde una comunicazione di tipo nuovo, orizzontale, in cui tutti si è al tempo stesso creatori, fruitori e distributori di informazioni e conoscenza. I partiti con i loro capi, le loro strutture piramidali (piccolissime piramidi in verità) riflettono una vecchia organizzazione gerarchica destinata a essere travolta o comunque messa in crisi da internet. E qui si apre un varco nuovo in cui occorre cominciare a saggiare nuove potenzialità. Perché non c'è alcun dubbio: la democrazia rappresentativa durerà a lungo e occorre penetrare nel suo fortilizio se si vuole maneggiare anche «le leve di governo» cui allude Viale alla fine del suo intervento. Su questo la creatività politica dei movimenti deve fare un passo avanti. Occorre creare strutture di rete grazie alle quali il potere costruito dal basso condiziona non soltanto le amministrazioni periferiche, ma vuole contare dentro il cuore dello Stato.

Il regime illiberale della scarsità

di Benedetto Vecchi


Nel film di James Cameron Avatar nativi di Pandora si battono strenuamente per cacciare dal loro pianeta i mercenari al soldo di spregiudicate multinazionali che vogliono impossessarsi delle loro ricchezze naturali. Alla fine vinceranno la loro battaglia e i loro beni comuni saranno preservati. Un film è pur sempre un film, ma è significativo che Hollywood investa così tanti dollari in un'opera che, in un sottile gioco di allusioni, mette sul banco degli imputati i «ladri di energia» che hanno mosso la guerra per mettere sotto il loro controllo le fonti petrolifere di alcuni paesi arabi. Ma a ben vedere, l'opera di Cameron critica quel complicato processo che oltre, a legittimare l'espropriazione delle terre della foresta amazzonica, vuole ricondurre l'acqua e la salute al principio della scarsità, potente motore ideologico attraverso il quale il mercato è lo strumento ottimale per gestire risorse appunto scarse. È sicuramente segno dei tempi che gli Stati Uniti trasformino in un sofisticato prodotto della cultura di massa un ordine del discorso che interessava, solo fino a pochi anni fa, i movimenti sociali di opposizione alla globalizzazione liberista e qualche studioso, come il premio Nobel per l'economia nel 2009 Elinor Ostrom, autrice di un fortunato testo sulla gestione dei beni comuni che contesta la tesi sulla cosiddetta «tragedia dei commons», in base alla quale solo il mercato può garantire l'ottimale gestione della terra, dell'acqua, dell'energia.

D'altronde alla Casa Bianca è arrivato Barack Obama, sloggiando così il portavoce della lobby petrolifera con la promessa di un'inversione di rotta a quella «privatizzazione dello stato» così attentamente documentata da giornalisti militanti come Naomi Klein nel suo Shock Economy. Ma questa rinnovato interesse per i beni comuni apre la strada a un'analisi che dall'acqua e dalla terra può spostarsi su dimensioni meno tangibili delle società contemporanee, come appunto la salute, la formazione, la conoscenza. In questo caso, i paladini del libero mercato hanno un qualche problema per legittimare le enclosures di questi beni comuni. In primo luogo, il principio di scarsità non può essere applicato.

L'accesso, ad esempio, alla cura farmacologica di alcune malattie non pregiudica il fatto che quelle medicine possano essere facilmente replicate attingendo alla conoscenza tecnico-scientifica che è alla loro base. Anzi, più si studiano l'anatomia umana e i principi attivi di alcune sostanze si accresce la conoscenza, dando così vita a una sua applicazione per migliorare le medicine, oppure per produrre nuove prodotti. Lo stesso si può dire per la produzione culturale e informatica. La lettura di un testo filosofico o di un trattato sulla fisica quantistica non impedisce ad altri di farlo. E una volta compresi i concetti filosofici o scientifici può accadere che altri testi possano essere scritti, apportando significative elaborazioni di quell'accumulo di conoscenza presente nei libri studiati. Lo stesso si può dire per la visione di un film o per lo sviluppo di un software. In altri termini, la formazione, la salute, la conoscenza non sono beni scarsi, perché l'accesso ad esse non è mai esclusivo come può accadere per un terreno: a differenza dell'acqua e delle fonti energetiche, il loro uso da parte di qualcuno incrementa e non distrugge l'accumulo di sapere.

Il regime di scarsità viene però artificialmente introdotto attraverso il regime della proprietà intellettuale. I brevetti, il copyright e i marchi sono cioè gli strumenti giuridici per rendere scarsi beni che non lo sono. Allo stesso tempo, sono strumenti giuridici che favoriscono e poi legittimano la formazione di rendite di posizione e di monopolio appunto sulla produzione culturale e di manufatti «immateriali». La difesa dei beni comuni non riguarda solo l'acqua, la terra o la saluta, ma coinvolge altri ambiti della vita sociale è passa attraverso la critica e il superamento delle norme dominanti sulla proprietà intellettuale.

Quel diritto privato di saccheggiare i beni comuni

di Antonio Negri


La legge è stato lo strumento per difendere la proprietà privata. E se agli inizi della rivoluzione industriale era usata nei paesi europei e negli Stati Uniti, in seguito è intervenuta per legalizzare il saccheggio delle materie prime nel Sud del pianeta. Ora quello stesso dispositivo consente la privatizzazione dell'acqua, dei servizi sociali e della conoscenza

Finalmente un «libro arrabbiato» e «coraggioso» da parte d'un ottimo giurista e di un'antropologa di buona caratura (Ugo Mattei e Laura Nader, Il saccheggio. Regime di legalità e trasformazioni globali,Bruno Mondadori). La relazione fra pensiero giuridico ed apologia delle istituzioni dell'ordine, della proprietà e dello sfruttamento di rado viene messa in questione e quando avviene lo è dall'esterno del mondo giuridico e in nome di ideologie moralizzanti o politicamente desuete. Questo è invece un libro di critica del diritto dall'interno del diritto. «Con tutto quello che è stato scritto sulla dominazione imperialista e coloniale e sulla globalizzazione come manifestazione contemporanea di simili rapporti di potere fra l'Occidente opulento e il resto del mondo, colpisce la limitata attenzione dedicata al ruolo del diritto in questi processi. (...) Difficile non accorgersi che il diritto è stato ed è tuttora utilizzato per amministrare, sanzionare e soprattutto giustificare la conquista ed il saccheggio occidentale. Ed è proprio questo continuo e mai interrotto saccheggio che provoca - ben più delle ragioni legate a dinamiche corruttive interne ai paesi poveri con cui si tenta di colpevolizzare le vittime - la massiccia diseguaglianza globale. L'idea portante dell'autocelebrazione occidentale è legata a filo doppio a una certa concezione del diritto, quella che abbiamo reso in italiano, per sottolineare l'ambiguità, come regime di legalità (rule of law)». Il progetto del libro non sarà allora solo quello di demistificare la funzione del diritto nella sua figura neo-liberale (cioè di indicarne la potenza di copertura, falsificazione e neutralizzazione dei rapporti di dominio in generale) - bensì sarà soprattutto quello di destrutturarne le figure, criticandolo e dissolvendone la funzione dall'interno dei suoi movimenti. In che modo?

Fornitori di legittimità

In primo luogo mostrando che il regime di legalità non è una sovrastruttura dell'economia liberista ma una macchina che funziona all'interno di questa, che per il liberalismo organizza direttamente la produzione e i mercati. Ne consegue che, nel colonialismo e nell'imperialismo, il diritto non ha fatto altro che svolgere ed applicare la rule of law, non solo estendendo i campi di efficacia del diritto borghese nei paesi fuori dal centro di sviluppo, ma costituendo, su queste figure, la vita dei popoli allo scopo di dominarli.

Vi è probabilmente un certo luxemburghismo in questo approccio - fosse non tutto corretto dal punto di vista della critica dell'economica politica ma sacrosanto da quello etico-politico. In secondo luogo, una volta riconosciuta la genesi, i processi di destrutturazione critica devono saper riconoscere chi fa funzionare la macchina, chi ne sono i «fornitori di legittimità». Ecco dunque che ci troviamo di fronte a soggetti dominanti che utilizzano idealità supposte filosofiche e modernizzatrici, ipocrite costituzioni politiche ed in fine apparecchiature giuridiche funzionali che costituiscono i dispositivi di un materialissimo saccheggio delle ricchezze e dell'autonomia delle popolazioni dominate. Il diritto imperiale espande le figure del diritto coloniale, pretendendo nuova legittimazione in nome delle funzioni di globalizzazione. Che imbroglio!

A questo punto, in terzo luogo, il progetto di destrutturazione del diritto imperiale può rivolgersi verso l'interno dei paesi dai quali quel diritto è prodotto: per verificare un primo paradosso, e cioè che quel saccheggio del mondo intero, attuato attraverso figure giuridico-liberali, ora ritorna e deborda, all'interno dei paesi imperiali, imponendo lo smantellamento di quella legalità tradizionale che aveva permesso l'espansione e l'interno godimento dei sovrappiù imperialisti. Dopo aver tutto distrutto, il drago si mangia la coda.

Gli orti della resistenza

Come resistere a questi processi? Mattei e Nader sono, sul terreno politico, molto pessimisti. Il quadro che la globalizzazione ha fissato è, secondo loro, tragico. Anche le politiche della presidenza Obama - e la promessa di bloccare gli eccessi imperialisti bushani - sembrano loro perfettamente coerenti, nel bene o nel male, con il quadro fin qui delineato. Obama non può interrompere la macchina dell'imperialismo americano. A me sembra che i nostri autori vadano tuttavia, sul terreno giuridico, più a fondo di quanto facciano sul terreno politico; e che la loro analisi ripercorra quella medesima via che percorse la critica, da Evgeny Pashukanis, grande critico russo del diritto privato e pubblico in generale, su fino a Jacques Derrida, critico contemporaneo della sovranità. Quando Derrida destruttura le determinazioni di potere del regime capitalistico e ne conduce la critica fino ad estreme conclusioni, verifica l'affermazione di Pashukanis che, globalizzazione o meno, il diritto pubblico ed il diritto borghese in generale sono sempre e solamente figure dell'appropriazione privata e che il diritto è in realtà sempre l'autoriconoscimento e la potenza armata della società borghese.

Come avanzare, una volta stabiliti questi presupposti, sul terreno della proposta politica? Nella modernità si è sognato che, contro Hobbes e Locke, fosse possibile trovare nel pubblico, nello Stato, nel potere democratico un'alternativa allo «stato di natura» ed alle sue più violenti espressioni. Da un lato una frazione di gesuiti spagnoli, polemici contro la modernità, dall'altro, sul fronte del materialismo, Spinoza, lo pensarono nel Seicento: la passione del «bene comune» avrebbe dovuto costruire un terreno, un riparo, che ci salvasse dalla violenza dalla prima accumulazione originaria del capitalismo. Non ci riuscirono, quei bravi, poiché il capitalismo si affermò comunque, svilendo la religione a suo strumento di potere e chiudendo l'utopia materialista negli orti della resistenza. Così la costruzione di un nuovo diritto pubblico integrò la continuità del diritto privato. Ma oggi siamo arrivati ad un punto di rottura.

Lungi dal costituirsi in luoghi di assenza di diritto, il comune comincia a mostrarsi e può esser definito come una potenza costruita oltre il privato ed il pubblico, oltre il contratto e la sanzione statuale. Per non averlo compreso la sinistra socialista e quella comunista, in Europa e in tutto l'Occidente, sono fallite. Inoltre, da quando abbiamo cominciato a ragionare di e dentro il «postmoderno», non possiamo più semplicemente rimembrare e dar sfogo alle eroiche alternative costruite nel «moderno» attorno all'idea del «bene comune». Dobbiamo invece arrivare a porre questo problema in termini di totale discontinuità con l'idea di un'appropriazione individuale, privata o pubblica, di qualsiasi bene.

Il potere dei ricchi

Il comune diviene ora un progetto di gestione democratica, impiantata dell'espressione delle singolarità e della loro necessità di vivere e di produrre in maniera cooperativa. Il comune è una realtà già in parte costituita dall'attività umana nel postmoderno e, dall'altra parte, un progetto per costruire e ripartire tutto quello che l'attività produttiva costruisce. Perché tutto, essendo prodotto da tutti, appartiene a tutti. A questo punto l'ordine giuridico (e le sue istituzioni) dovrebbero essere predeterminate a questa finalità. Ma che fare per impedire che anche quest'ipotesi si riveli utopica?

«È necessario riconoscere che è impossibile trasformare in maniera significativa il regime di legalità imperiale in un regime di legalità popolare senza una profonda ristrutturazione dell'ambito politico. Per poter procedere in questo senso è tuttavia necessario demistificare alcuni tabù, tra cui quello della desiderabilià per se dell'esperienza storica fin qui conosciuta come regime di legalità». Così concludono Mattei e Nader: questo regime difende i ricchi, la loro appropriazione di gran parte delle ricchezze prodotte in questo mondo. I ricchi saccheggiano i poveri. Io credo che, ciò detto, la parola passi più che dal giurista al politico, dal giurista all'antropologo. L'esperienza di legalità: come farla oscillare verso una radicale trasformazione? Quali sono le condizioni materiali che possono permetterlo e dentro le quali il processo è in atto? Quali regimi dell'immaginazione e quali gli apparati di resistenza che romperanno, nell'animo delle moltitudini, l'idea della legalità ed imporranno il dovere della disobbedienza? Qual è il grado attuale di maturazione della demistificazione della legalità, nonché di generalizzazione della volontà di destrutturare questa ignobile realtà?

I politici sembrano del tutto ignari di queste questioni. Quando l'antropologia era una scienza della trasformazione e, nello stesso momento, un insieme di dispositivi atti a tirar le conseguenze dei suoi presupposti, la politica non serviva, bastavano i grandi movimenti delle moltitudini. L'Illuminismo fu questo.

FUOCHI DI APRILE

di Guglielmo Ragozzino

La macchia nera nel Golfo del Messico ha questo di particolare. Si tratta di un guasto causato dagli umani con conseguenze gravi sulla natura, sulle coste, sulle paludi, sul volo degli uccelli. Il fuoco che esce dal mare, con tutto il carico di sostanze inquinanti, inarrestabile, micidiale, è certamente opera dei più esperti e accreditati apprendisti stregoni del nuovo millennio: petrolieri, costruttori di isole in mezzo al mare, appaltatori di servizi per gli eserciti più potenti di sempre: Bp, Transocean, Halliburton. Deepwater Horizon, questo il nome dell'isola artificiale sprofondata nel mare, è l'esatto contrario del vulcano islandese, innocuo di fatto dal punto naturale, ma capace di precipitare nel disastro l'economia degli uomini, il sistema dei nostri voli in mezza Europa. Inutile parlare di contrappasso, di vendetta orgogliosa dell'uomo contro la natura: «sono capace anch'io, caro vulcano Eyjafjallajökul. Anzi so fare più danni di te». È certo invece che per la seconda volta nel mese si è mostrata la fragilità del nostro modello di sviluppo: una corsa ignorante, senza pause, senza riflessione, priva di protezione e di garanzie, sotto la spinta del profitto ad ogni costo.

Ma non basta. È stato in aprile, il primo aprile, che Barack Obama ha fatto lo scherzo di capovolgere la sua politica in tema di ricerca del petrolio off-shore, aprendo gran parte della costa orientale, dalla Florida al Delaware, alle esplorazioni di petrolio e di gas. Il presidente parlava in una base militare, a Andrews in Maryland e per assicurare agli ambientalisti che la sua prima scelta era sempre la riduzione dell'inquinamento - o forse la seconda scelta, essendo ormai la prima l'indipendenza energetica - ha concluso affermando di aver «ordinato 5.000 auto ibride per la flotta governativa».

Molti, sulla destra, hanno allora visto il presidente infine libero dalle fisime ecologiste; non sulle posizioni del «drill baby drill» di Sarah Palin, ma solo per un pudico ritegno. C'è chi ha suggerito l'esistenza di complicate alchimie tra legislazione ambientale e immigrazione, un dare e un avere tra un Senato infedele e una Camera già distratta dalle elezioni di novembre. Solo che di fronte alle future, scintillanti cinquemila auto ibride, ci sono sporchi e attualissimi i cinquemila barili di petrolio in mare, ogni giorno; quelli che spinti dalla corrente si avvicinano alle coste della Louisiana, cinque anni dopo l'uragano Katrina, per portarvi distruzioni e miseria. Ci sono 11 morti e feriti per la piattaforma affondata, indicibili disastri nel mare e sulla costa. Può darsi che adesso Obama ci ripensi, ma si è fatto tardi.

Sempre in aprile, il 27, dopo il disastro, le agenzie hanno pubblicato le cifre di Bp, il padrone di quel petrolio. Vendite del primo trimestre 73 miliardi di dollari, contro i 47 del 2009; utili degli azionisti 6,1 miliardi, contro i 2,6 dell'anno prima. La produzione ha raggiunto i 4.010 barili al giorno, mille in meno di quanto Bp perde ogni giorno per l'affondamento di Deepwater Horizon. Povera Bp! Faremo una colletta per lei.

PERICOLO greggio

LA LOUISIANA DICHIARA LO STATO D'EMERGENZA

di Marina Forti

Potrebbe arrivare già questa sera sulle coste della Louisiana, la marea nera provocata dal petrolio che sta sgorgando da un pozzo della British petroleum nel Golfo del Messico. E rappresenta ormai un disastro «di portata nazionale», ha detto ieri Janet Napolitano, capo del Dipartimento alla sicurezza interna (la «Homeland security»). Mentre il portavoce della casa Bianca Robert Gibbs ha detto che il presidente Barack Obama ieri ha cominciato il suo breefing quotidiano di intelligence con un aggiornamento sulla situazione.

La chiazza di petrolio aveva raggiunto ieri le dimensioni dell'intera pianura padana, con un fronte di oltre 160 chilometri. In alcuni punti è già a una trentina di chilometri dalla costa della Louisiana, vicino all'estuario del Mississippi: zona di stagni, isolette, zone protette marine e zone di allevamenti di ostriche e gamberi.

Quello che è peggio, il petrolio continua a sgorgare: e al ritmo di circa 5.000 barili di greggio al giorno, cinque volte più dei mille suggeriti dalle prime stime. L'ammiraglio Mary Landry, comandante della Guardia costiera degli Stati uniti (è lei che ha il comando delle operazioni federali per contenere il disastro) ha convocando la stampa mercoledì a tarda sera per annunciarlo. Le nuove stime, ha spiegato, risultano dalle osservazioni aeree sulla traiettoria della chiazza nera, la sua densità e altre variabili.

Tutto è cominciato con l'esplosione di una piattaforma petrolifera, il 20 aprile - 11 lavoratori sono stati presumibilmente uccisi, ma i loro corpi non sono stati ancora trovati. L'esplosione ha provocato un incendio e due giorni dopo i resti della piattaforma - la Deepwater Horizon, della società svizzera Transocean - sono affondati. Nel frattempo la tubatura che dalla piattaforma raggiungeva la bocca del pozzo petrolifero, a 1.500 metri di profondità, si è adagiata sul fondale: si pensava che il petrolio sgorgasse da un solo punto di rottura, ieri la Bp ha detto che altri due punti di perdita sono stati individuati, più vicini alla fonte.

Contenere il disastro è l'opera in cui ora sono impegnati la guardia costiera Usa e le due aziende coinvolte - Bp, che è responsabile (anche finanziariamente) della ripulitora, e Transocean. Mercoledì sera la Guardia costiera ha cominciato a condurre il primo «incendio controllato»: significa raccogliere il petrolio in una zona circondata da barriere ignifughe galleggianti, in modo che l'area sia delimitata e la densità del petrolio sia maggiore, e bruciarlo. Pare che l'operazione abbia avuto successo - gli esperti considerano «successo» se si brucia circa la metà del petrolio delimitato. Non è la soluzione definitiva, si può fare su aree limitate; e poi il 97% dell'attuale marea nera è costituta da un'emulsione di petrolio e acqua, su cui il fuoco non è una soluzione efficace.

L'incendio, insomma, «è uno degli strumenti» da usare, non l'unico, ha spiegato ieri l'ammiraglio Landry. E in questo momento si stanno usando un po' tutti i rimedi del caso. Bp ha mandato aerei e una trentina di navi a spruzzare solventi chimici. Aveva cercato di usare veicoli sottomarini telecomandati per andare a tappare il pozzo alla fonte, ma l'operazione per ora è fallita. Sta preparando delle cupole galleggiandi da piazzare sulla perdota, sul fondale, per poi raccogliere il greggio: ma è un'operazione finora mai tentata a quella profondità, e che richiederà almeno tre o quattro settimane. Transocean sta cercando di scavare un secondo pozzo «di sfogo» per prosiugare il primo. Ma questo richiederà ancora più tempo. Tony Hayward, capo esecutivo di Bp, l'ha definita ieri «la più ampia operazione di contenimento nella storia». Non è detto che basti. Il dipartimento alla difesa ha offerto di intervenire, se non bastassero i mezzi privati della Bp.

Intanto la marea nera si allarga. E sulle coste di Louisiana, Mississippi, Alabama e Florida, la Guardia costiera e le autorità locali stanno preparando migliaia di chilometri di barriere. Perché ormai è chiaro che il petrolio arriverà sulle coste: «Siamo qui un po' a pregare, un po' a incrociare le dita», diceva ieri il presidente dell'Associazione dei coltivatori di ostriche.

La Louisiana ha dichiarato ieri lo stato d'emergenza. Il computo dei danni non sarà lieve: e poiché questo è un tema a cui «i mercati» sono sensibili, ieri le azioni di Bp e di Transocean sono scese del 6% - dal giorno dell'esplosione hanno perso il 14% del valore.

La difesa della proprietà privata è sempre stata l'obiettivo prioritario dell'azione legislativa dello Stato. Solo durante l'esperienza del welfare state sono stati posti limiti al diritto proprietario, tornato ad essere la stella polare che orienta le scelte dei governi e delle organizzazioni internazionali

All'origine della modernità dominio individuale e sovranità dello Stato, entrambi strutture giuridiche indispensabili in quella fase dello sviluppo capitalistico, articolano fra loro un rapporto ambiguo. Da un lato la sovranità dello Stato moderno si configura come dominio sul territorio imitando quindi la proprietà assoluta (allodiale) fondiaria. Sovranità e proprietà privata assoluta divengono così alleate di ferro contro le strutture comunitarie intermedie fra l'individuo e lo Stato (famiglie allargate, gilde, comunità monastiche) e soprattutto contro i beni comuni (usi civici delle foreste, acque, fauna e flora allo stato libero, frutta e prodotti alimentari da raccolta negli spazi accessibili a tutti). Le enclosures inglesi con la conseguente violenza sul ceto contadino impoverito testimoniano l'efferatezza di tale alleanza. D'altra parte più domini sullo stesso territorio, cifra della proprietà feudale medievale, mal si conciliano con le mitologie della modernità (un solo sovrano assoluto), sicché proprietà privata e sovranità pubblica stentano a sviluppare un equilibrio. In Inghilterra, patria delle enclosueres, si articola la finzione giuridica per cui il Re è il solo proprietario assoluto dotato di «dominio eminente», mentre i proprietari terrieri si configurano come meri concessionari dotati di «dominio utile». La nozione di «demanio» che indica nella tradizione continentale (soprattutto francese: domain) l'oggetto della proprietà pubblica (demanio forestale, idrico, militare ecc. ecc.) non soltanto condivide con dominium l'origine etimologica (manus) ma indica un rapporto fra sovrano e beni che è addirittura qualcosa di più specifico della sovranità. Indica in altre parole un vero diritto di proprietà del Sovrano.

La sovranità limitata

Con il naturalismo giuridico olandese (diciassettesimo secolo), il dominio si libera di ogni rapporto con la giustizia distributiva tomistica che aveva mantenuto in vita qualche dimensione di dovere sociale in capo al proprietario privato. Con la modernità giuridica la proprietà privata si identifica unicamente nella dimensione del diritto. Il diritto proprietario di Gaio (il protagonista della nostra storia di violenza legale) si modella così sul potere fondamentale e naturalmente libero di disposizione del proprio corpo e di quanto, con l'uso o anche abuso di esso, egli riesce a estrarre da Gaia (la terra viva, vittima dell'attivismo irrefrenabile di Gaio). La proprietà assoluta di disporre, libera da ogni vincolo, si iscrive dunque fra i diritti naturali dell' uomo libero, ormai homo oeconomicus, monade soggettiva slegata da ogni legame relazionale diverso dallo scambio contrattuale.

Il diritto di proprietà trova nel legame con la libertà (di sfruttamento economico) la sua più forte legittimazione ed attrattiva. La libertà privata di avere ed accumulare senza limiti né doveri è l'essenza del capitalismo. Oggi si riportano con ammirazione le classifiche dei più ricchi del mondo e si considerano dettate da invidia sociale le preoccupazioni di quanti ritengono inaccettabile la diseguaglianza estrema che consegue all'accumulo illimitato dei ricchi. Questa libertà assoluta dell'individuo è da trecento anni l'essenza del diritto naturale di proprietà privata, concepito come pre-esistente alla sovranità statale. Qualsiasi limite imposto ad esso dal sovrano è conseguentemente concepito come eccezionale. Nell'ambito di quest'idea si colloca dunque la tensione formidabile (ed insieme il dualismo esaustivo) fra la proprietà privata e lo Stato, che fa della prima un limite invalicabile per lo Stato sovrano. La proprietà privata (archetipo del diritto soggettivo assoluto) è così scudo nei confronti del sovrano il quale ne riconosce il credito storico come istituzione fondamentale del primo capitalismo, garantendola attraverso la garanzia della riserva di legge e dell'indennizzo nei confronti dell'espropriazione per pubblica utilità. Come è noto, queste garanzie vengono codificate sul finire del diciottesimo secolo nella Costituzione Americana e nel «Code Civil» francese (1804) e si diffondono senza eccezioni nelle Costituzioni del mondo capitalista.

Interessante è osservare che simili garanzie non sono previste per la proprietà pubblica che strada facendo si articola su nuove tassonomie (demanio, patrimonio indisponibile, patrimonio disponibile ecc.) non sorrette da un principio ideologico forte e quindi lasciate al libero gioco della politica e prive di qualsiasi tutela costituzionale. In un certo senso i «diritti» dello Stato non sono declinati in quanto tali. Nella divisione fra privato e pubblico, a quest'ultimo restano sempre meglio teorizzati i doveri di cui il privato «libero» dotato di diritti smette di farsi carico.

La religione dello status

È soltanto con la seconda metà del diciannovesimo secolo che lo Stato sovrano prende coscienza che l'assoluta libertà proprietaria rende Gaio incompatibile con le necessità della convivenza sociale, perché egli inevitabilmente scarica sulla collettività (che lo Stato stesso rappresenta) costi sociali insopportabili. Lo Stato sovrano quindi prova a farsi carico dei doveri rifiutati da Gaio (proprietario libero ed egoista), attraverso la legislazione speciale spesso definita come legislazione sociale. Ciò avviene tuttavia quando ormai il capitalismo fondato sull'accumulo economico illimitato è fortissimo e la primazia economica internazionale si è spostata negli Stati Uniti, luogo in cui l'ideologia materialista dell'accumulo e della mancanza di vincoli sociali diversi dal contratto ha fatto raggiungere all'atomismo sociale uno status quasi-religioso.

La legislazione speciale limitativa della proprietà a fini sociali conferma i tratti eccezionali del dovere sociale di Gaio, e certamente non si fa carico di proteggere Gaia dando un prezzo ai servizi che essa continua a rendere allo sviluppo sotto forma di risorse naturali ed equilibri ecologici conferiti gratuitamente allo sfruttatore privato o pubblico. L'antropocentrismo non risparmia neppure i sistemi socialisti, che si concentrano infatti sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo e non di questi su Gaia. Lo sviluppo socialista finora realizzato, fondato su una sovranità statale a matrice proprietaria (capitalismo di Stato), non è meno spietato nei confronti di Gaia di quanto non lo sia quello occidentale.

Nel mondo capitalista il tentativo di limitare Gaio e di teorizzare la proprietà privata come obbligo sociale e non soltanto come diritto, che in nuce potrebbe rendere regola e non eccezione il limite, trova un parziale successo nella Costituzione di Weimar (1919) dove appare per la prima volta la locuzione «la proprietà obbliga». Tuttavia il dibattito sulla funzione sociale della proprietà che ne scaturì non riuscì a superare il dualismo riduzionista fra proprietà privata e sovranità statale che nel frattempo, pur nei limiti della tutela costituzionale della proprietà privata, il positivismo giuridico statalista, trionfante nelle concezioni autoritarie del potere diffusesi in Europa, aveva risolto a favore dello Stato.

In Italia, per esempio, con il Codice Civile del 1942 (ancora vigente) la proprietà è definitivamente scalzata dal piedestallo di diritto naturale preesistente allo Stato (il codice rinuncia a definirla) ma la dialettica fra proprietà privata e Stato non produce una teorizzazione avanzata della proprietà pubblica. Infatti il ruolo di quest'ultimo si limita a regolamentare, conformare e limitare i poteri del proprietario privato che si espandono appena cessa il limite, mentre la proprietà sovrana (dei beni demaniali) non ha vocazione espansiva perché il pubblico difficilmente è visto come portatore di diritti ma solo di doveri di azione (welfare) o di astensione (rispetto della proprietà privata). Il governo pubblico dell'economia infatti si articola su centinaia di enti pubblici (Iri, Eni, Efim, ecc.) governato a sua volta tramite un sistema di eccezioni alla regola, quella dell'impresa privata.

Il dualismo «proprietà- stato» si consolida così nella assegnazione di diritti (alla prima) e di doveri (al secondo). Si naturalizza così una dicotomia fra regola ed eccezione (il dovere è eccezionale e poco teorizzato per il privato; il diritto è eccezionale e sottoteorizzato per il pubblico) che in una concezione della proprietà strettamente individualizzata impedisce di cogliere gli aspetti relazionali ed i veri nessi che ne producono il valore. Tale visione profondamente radicata è prodromica alla privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite, esito a sua volta naturale dell'economia cosiddetta mista. Per l'ideologia liberale prontamente tornata dominante dopo la seconda guerra mondiale, lo Stato «toglie valore» alla proprietà privata regolamentandola o espropriandola. Non ci si avvede così che in realtà è lo Stato che «conferisce valore» alla proprietà privata garantendo l'ordine sociale (autoritario) che costringe chi non ha a rispettare chi ha troppo.

Le nuove enclosures

La rendita fondiaria assorbe così l'intero valore dei servizi di Gaia oltre a quello prodotto dalla pressione urbanistica esercitata da chi non ha e deve concentrarsi in città per vendere la sua forza lavoro (proprietà di se stesso). La rendita fondiaria è perciò «naturalmente» assorbita dal proprietario e soltanto in via eccezionale ed in rarissime fasi storiche (in Italia, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento) lo Stato interviene per redistribuirla fra chi non ha (come per l'equo canone) o al fine di dare un sollievo a Gaia (parchi pubblici). Risulta tuttavia evidente all'osservatore non offuscato dall'ideologia liberale dominante come il valore della rendita fondiaria sia in realtà un bene comune prodotto da uno sforzo di cooperazione sociale e dai servizi di Gaia che tuttavia la teoria della proprietà dominante assegna senza corrispettivo a Gaio, proprietario privato.

Il dualismo proprietà privata-stato, accompagnato dalla natura sottoteorizzata della proprietà pubblica come diritto meritevole di tutela e dalla mancanza assoluta di una teoria giuridica del bene comune, conferisce alla proprietà privata un vantaggio ideologico difficilmente colmabile. Infatti, secoli di assorbimento progressivo ed inesorabile del bene comune (sociale o naturale) rende la proprietà privata immensamente potente anche sul piano ideologico e presenta ogni tentativo pubblico di gestire il bene comune (che non appartiene di per se al proprietario privato) un'operazione fiscale, soggetta a limiti sempre più stringenti di fattibilità politica.

Questo fenomeno già non facile da scorgere per la rendita fondiaria diventa pressoché invisibile ma ancor più terribile nell'ambito di quella finanziaria governata della proprietà dematerializzata multinazionale che caratterizza la post-modernità. Beni comuni come la conoscenza, la biodiversità, l'aria, l'acqua e gli stessi codici di Gaia sono progressivamente espropriati a favore del privato senza alcuna garanzia. Solo una costituzione globale del bene comune, declinata in forme nuove potrebbe invertire la rotta. Occorre mettersi al lavoro prima che sia troppo tardi.

SCAFFALI

Il valore delle cose nello spazio legale

Il testo in questa pagina ripercorre temi discussi al Convegno «Beni Comuni e partecipazione politica», organizzato dalla rivista «European Alternatives» all'Università di Roma3 il 14 aprile. Oltre ai testi citati nelle scorse puntate di «Gaio&Gaia» (pubblicati il 5 Febbraio, 13 Marzo e il 2 Aprile), vanno segnali «Il valore delle cose e le illusioni del capitalismo» dello studioso indiano Raj Patel (Feltrinelli), «La conquista dello spazio giuridico» di Mariano Croce (Edizioni Scientifiche Italiane), «L'Europa del diritto» di Paolo Grossi (Laterza), «Gli spossessati. Proprietà, diritto dei poveri e beni comuni» di Daniel Bensaid (Ombre corte) e «Il Saccheggio» di Ugo Mattei e Laura Nader (Bruno Mondadori).

Copyright? Dai pirati agli squatter la proprietà è fuorilegge

Uno dei testi più significativi su come si siano definite, nel corso del tempo, forme di governo dei beni comuni e come quelle stesse forme hanno condizionato lo statuto della proprietà privata è sicuramente «Property Outlaws: How Squatters, Pirates, and Protesters Improve the Law of Ownership» di Eduardo M. Penalver e Sonia Katyal (Yale University Press). Un saggio che merita di essere letto (con la speranza che un editore italiano lo traduca) perché ricostruisce come le norme sulla proprietà privata siano state condizionate dalle esperienze sociali di condivisione dei beni comuni. Così, il ricordo del potere dirompente delle repubbliche corsare nate tra il XVI e il XVII secolo in alcuni zone degli attuali Stati Uniti ha determinato la definizioni di leggi a tutela della «terre comuni». Lo stesso si può dire per le occupazioni delle case che hanno portato al riconoscimento del diritto a non essere cacciati da stabili occupati. Ma anche come il rifiuto del copyright abbia portato alla definizione di norme per una gestione alternativa del diritto d'autore.

La crisi del capitalismo alimenta la crescita in Europa di un inquietante e autoritario populismo che ha in Silvio Berlusconi il maggiore interprete. Ma apre anche inediti spazi per una politica che tenda al suo superamento. Un'intervista con il filosofo sloveno in occasione dell'uscita del libro «Dalla tragedia alla farsa»

Slavoj Zizek è un torrente in piena difficile da incanalare quando parla. Inizia con estemporanee impressioni sulla vita in una città un po' metropoli un po' paesotto di provincia come è Roma e ci si ritrova, non si sa come, a Copenaghen e commentare i risultati del summit lì tenuto sul cambiamento climatico. L'intervista nasce dopo la lettura del suo nuovo libro - Dalla tragedia alla farsa, Ponte delle Grazie (pp. 205, euro 15) -, che poco o nulla concede però alla sua eclettica ricerca della provocazione sulle aporie del capitalismo contemporaneo. Scritto con stile sobrio, analizza il mondo dopo la crisi economica e la tendenza di molti governi a intervenire, attraverso il finanziamento dei debiti delle banche e delle grandi imprese finanziarie, per evitare ciò che solo fino a pochi anni fa sembrava il plot di un inimmaginabile film di fantascienza sul il crollo del capitalismo. Con il suo nuovo libro vuole tuttavia prendere le distanze dalle posizioni teoriche di molti studiosi marxisti che hanno sempre visto il neoliberismo come una parentesi che prima o poi sarebbe stata sostituita da una realtà sociale e politica più consona alle leggi economiche, concedendo così pochi spazi ai rentiers che si sono arricchiti con le follie speculative degli ultimi decenni. Per Zizek, il neoliberismo è stata invece una vera e propria controrivoluzione che ha cancellato la costituzione materiale e formale uscita dalla seconda guerra mondiale dove il capitalismo era sinonimo di democrazia rappresentativa. Agli inizi del terzo millennio, la controrivoluzione ha però finito il suo mandato, aprendo spazi a una politica radicale - Zizek, in sintonia con il filosofo francese Alain Badiou la chiama enfaticamente «ipotesi comunista» - che deve però avere il coraggio di sperimentare ordini del discorso comprensibili.

Il filosofo sloveno non chiude però gli occhi sul fatto che i segnali proveniente da tutta Europa danno in ascesa proprio a una destra populista che conquista consensi laddove i partiti socialdemocratici erano tradizionalmente forti, come in Olanda, Norvegia, Svezia. E ironico è anche con i democratici e radical statunitensi, che «negli Stati Uniti, dopo aver salutato l'elezione di Obama alla Casa Bianca come un evento divino, ora si dilettano a discutere se sia politicamente più incisivo Avatar di James Cameron o The Hurt Locker di Kathryn Bigelow».

In un suo articolo lei ha lanciato strali contro «Avatar», definendolo un film impolitico. Eppure nel film di Cameron ci sono forti richiami tanto alla guerra in Iraq o alla distruzione della foresta amazzonica: in entrambi i casi i cattivi sono le multinazionali.....

Il film di James Cameron è piacevole, divertente, un'opera innovativa dal punto di vista dell'uso delle tecnologie digitali. Non sono però convinto di quanto sostengono quei critici radicali che negli Stati Uniti sono chiamati l'ala marxista di Hollywood. Hanno scritto che Avatar mette in scena la lotta di classe e la lotta dei poveri contro i ricchi per autodeterminare la loro vita. C'è un pianeta, Pandora, che viene invaso da truppe mercenarie al soldo delle multinazionali per essere depredato delle sue risorse naturali, mettendo così in pericolo il millenario equilibrio che i viventi hanno stabilito con il lussureggiante ecosistema. Possiamo certo stabilire analogie con quanto le multinazionali e i paesi imperialisti fanno con la foresta amazzonica o con l'Iraq o con tutte quelle realtà dove sono ci sono fonti energetiche e materie prime fondamentali per la produzione della ricchezza. Nel film, gli aborigeni di Pandora, in nome di una visione olistica del rapporto con la natura, si oppongono al capitalismo, vincendo alla fine la loro battaglia. Ma la natura è un prodotto culturale che cambia con il mutare dei rapporti sociali.

Gli esseri umani hanno sempre attinto dalla natura i mezzi per vivere e riprodursi come specie. Ma così facendo, hanno trasformato la natura. Non è quindi tornando a un'idealizzata età dell'oro, come invece propone James Cameron, che si può sconfiggere il capitalismo. Avatar è pura fantasy, affascinante certo, ma sempre di fantasy si tratta.

Lei ha spesso sottolineato che il populismo sia una malattia del Politico. Non le sembra invece che il populismo, più che una malattia, sia la forma politica che meglio di altre si addice al capitalismo contemporaneo?

Fino a una manciata di anni fa veniva affermato che il capitalismo era sinonimo di democrazia nella sua forma liberale, fondata sulla tolleranza, il multiculturalismo e il politically correct. Ora, invece, assistiamo a forze o leaders politici che invocano la mobilitazione del popolo per combattere i nemici dello stile di vita moderno. Il filosofo argentino Ernesto Laclau ha analizzato a fondo la logica del populismo, sostenendo che ne esiste una variante di sinistra e una variante di destra. Compito del pensiero critico consisterebbe nell'evitarne la deriva a destra. Non sono d'accordo con questa posizione. In primo luogo, il populismo è sempre di destra. Inoltre il popolo è, come la natura, un'invenzione. Laclau ritiene che per farlo diventare realtà occorre immaginare un universale che racchiuda e superi le differenze al suo interno. Da qui la necessità di individuare un nemico che impedisce la costituzione del popolo. Non è un caso quindi che la forma compiuta del populismo sia l'antisemitismo, perché indica un nemico che vive tra noi. Lo stesso fanno i populisti contemporanei quando indicano nei migranti la quinta colonna tra noi.

D'accordo con lei che il populismo indirizza il conflitto verso nemici di comodo per occultare il regime di sfruttamento del capitalismo. Questo vuol dire che occupa uno spazio politico abbandonato, ad esempio, dalla sinistra. Come rioccupare dunque quello spazio?

Walter Benjamin ha scritto che il fascismo emerge laddove una rivoluzione è stata sconfitta. Un concetto che applicato alla realtà contemporanea spiega il fatto che il populismo emerge quando l'ipotesi comunista, che non coincide con il socialismo reale, è stata cancellata dalla discussione pubblica. Nel frattempo, nel tollerante capitalismo contemporaneo assistiamo a campagne mediatiche contro i migranti, perché attentano alla nostra sicurezza. Oppure siamo stati storditi da intellettuali che, come Bernard Henri-Levy, discettano a lungo sulla superiorità della civiltà occidentale e sul pericolo del rappresentato dal fondamentalismo islamico, qualificato come islamo-fascismo. Credo tuttavia che ci siano forti punti di contatto tra l'ideologia liberale e il populismo: entrambi sono pensieri politici che ritengono lo stile di vita capitalistico occidentale come l'unico mondo possibile. I liberali, in nome della superiorità della democrazia, i populisti in nome dell'unico stile di vita che il popolo si dà. Ci sono anche differenze. I liberali sono per imporre, anche con le armi, la democrazia e la tolleranza a chi democratico e tollerante non è; i populisti vogliono invece annichilire con forme soft di pulizia etnica le diversità culturali, sociali, di stile di vita. Può prevalere la democrazia liberale o il populismo a seconda delle specificità locale del capitalismo. Il populismo è quindi una delle forme politiche del capitalismo globale, ma non è l'unica. Anche se devo dire che il vostro Silvio Berlusconi, spesso giudicato come un guitto o un personaggio da operetta, è invece un leader politico da studiare con attenzione, perché cerca di coniugare democrazia liberale e populismo.

Silvio Berlusconi sta tuttavia accelerando una tendenza presente in tutto i sistemi politici democratici. Il suo operato punta infatti a modificare l'equilibrio dei poteri - legislativo, esecutivo, giudiziario - a vantaggio dell'esecutivo, in maniera tale che sia l'esecutivo sussuma sia il potere legislativo che quello giudiziario, ma senza cancellare i diritti civili e politici. Le elezioni sono considerate solo un sondaggio sull'operato dell'esecutivo. Se Berlusconi le perde, invoca allora la sovranità popolare da lui rappresentata. La forma politica che propone è sì una miscela tra democrazia e populismo, sebbene la sua idea di democrazia sia una democrazia postcostituzionale che fa dell'invenzione del popolo il suo tratto distintivo. Tutto ciò rende l'Italia, più che un paese anomalo, un inquietante laboratorio politico dove viene sviluppata una democrazia postcostituzionale. Da questo punto di vista, in Italia si sta costruendo il futuro dei sistemi politici occidentali...

Cosa intende per postcostituzionale?

Una democrazia che fa carta straccia della antica divisione e equilibrio tra potere esecutivo, legislativo e giuridico. Equilibrio dei poteri definito da tutte le costituzioni europee e dal «Bill of Rights» statunitense.....

In Europa tutto ciò è chiamato postdemocrazia. Certo, Silvio Berlusconi vuole superare la democrazia rappresentativa che abbiamo conosciuto nel capitalismo. Per questo è un leader politico che più di altri, penso al presidente francese Nicolas Sarkozy, ha una vision molto più chiara della posta in gioco nel capitalismo. Questo vuol dire che è più pericoloso di altri esponenti della destra europea o statunitense. Non ci troviamo quindi di fronte a un personaggio da operetta, che va a donne e promulga leggi ad personam. C'è anche questo. La tragedia presenta sempre momenti da operetta. C'è però tragedia quando si manifestano conflitti radicali, dove non c'è possibilità né di mediazione né di salvezza. Sarà quindi interessante vedere come evolverà la situazione italiana, che non rappresenta, e su questo sono d'accordo con lei, un'anomalia, ma un laboratorio politico il cui esisto condizionerà tantissimo il futuro politico dell'Europa. In Olanda, Svezia, Norvegia, Danimarca, Francia, Inghilterra ci sono infatti forze politiche populiste che raccolgono sempre più consensi elettorali grazie alle campagne antimigranti che conducono, ma non hanno quella radicalità che presenta la situazione italiana.

Detto questo non bisogna però sviluppare una visione apocalittica della realtà, Certo, c'è una guerra civile strisciante nelle società capitaliste; l'inquinamento ambientale ha raggiunto i livelli di guardia, la democrazia è ridotta a un simulacro, eppure non tutto è perso. Anzi come dimostra la recente crisi economica, quando tutto sembra perso si aprono spazi per un'azione politica radicale, che io chiamo comunista. Prendiamo il recente summit sull'ambiente tenuto nei mesi scorsi a Copenaghen. L'esito finale più che avere un esisto deludente è stato un disastro politico. Ci sono proposte, sconfitte nei lavori del summit, che indicano nella salvaguardia dell'ambiente una delle priorità per salvare il capitalismo. Potremmo pensare a un'alleanza tattica con chi le porta avanti. La crisi economica ha inoltre richiesto un'intervento dello stato per salvare dalla bancarotta imprese, banche e società finanziarie. Ma questo ha significato che il tabù sulla pericolosità dell'intervento regolativo dello stato è stato infranto. Questo potrebbe rafforzare i socialisti, cioè coloro che puntano a una redistribuzione del reddito e del potere. Non è la politica che io amo, ma apre spazi a proposte più radicali. In altri termini, ritorna forte l'idea comunista di trasformare la realtà. Ciò che propongo non è un mero esercizio di ottimismo della ragione, bensì la consapevolezza che ci sono forze e rapporti sociali che possono essere liberati dalla camicia di forza del capitalismo.

Toni Negri e Michael Hardt pensano che accentuando le caratteristiche del capitalismo postmoderno si creino le condizioni per il governo del comune, cioè del comunismo grazie a quelle che definisco le virtù prometeiche della moltitudine. Più realisticamente penso che occorre organizzare le forze sociali oppresse per un'azione praticabile nel presente e nell'immediato futuro.

Lei scrive, in sintonia con Alain Badiou, che il comunismo è un'idea eterna. Una politica «comunista» deve tuttavia ancorarsi a un'analisi dei rapporti sociali di produzione e delle forme che essi assumono in una contingenza storica. Si può essere d'accordo o in dissenso con le tesi di Negri e Hardt sul capitalismo cognitivo, ma i loro scritti segnalano proprio questa necessità. Altrimenti, il comunismo diventa una teologia politica, non crede?

Non credo che, come fanno Hardt e Negri, che con lo sviluppo capitalista le forze produttive entrino, prima o poi, in rotta di collisione con i rapporti sociali di produzione. Occorre infatti agire politicamente affinché ciò accada. È questa l'eredità di Lenin che non potrà mai essere cancellata. Usciamo però fuori dai sacri testi e guardiamo al capitalismo reale. Esiste certo uno strato di forza-lavoro cognitiva, ma anche . chi continua a lavorare in fabbrica e chi, come i migranti, sono ridotti in una condizione di sottomissione servile nel processo lavorativo. Per non gettare nella discarica della storia questi «esclusi» o «marginali», serve cioè una forte immaginazione politica per ricomporre e unire i diversi strati della forza-lavoro. La teologia è sempre affascinante, ma quando dico che l'idea comunista è eterna mi riferisco al fatto che è una costante della storia umana la tensione a superare le condizioni di illibertà e sfruttamento. Per questo, il comunismo torna sempre, anche quando tutto faceva prevedere che fosse rimasto definitivamente sepolto sotto le macerie del socialismo reale.

Si veda anche l'anticipazione del libro http://eddyburg.it/article/articleview/14882/0/131/.

Continua la storia conflittuale di un uomo paradigmatico, il dominatore Gaio, con il principio femminile che egli vuole sottomettere, Gaia, ossia la terra viva, da qualche milione di anni habitat dell'animale umano. Da Cartesio a Darwin, è una storia di sopraffazioni, dove vige la legge del più forte

Con Cartesio, il rapporto fra l'uomo (chiamiamolo Gaio) e la natura (chiamiamola Gaia), viene ridotto alla separazione ontologica fra soggetto e oggetto che si declina giuridicamente nell'idea del dominio assoluto. Il soggetto-uomo-maschio domina l'oggetto-natura-femmina. Bacone detta il metodo. Newton descrive con precisione le leggi meccaniche e immutabili che governano Gaia e produce risultati tecnologici spettacolari. La scienza vede Gaia come una macchina, un aggregato di particelle precisamente misurabili che la compongono. L'orologio meccanico diviene metafora della natura oggetto meccanico, scomponibile, conoscibile e prevedibile in ogni suo aspetto.

Fra il quindicesimo e il diciassettesimo secolo, con questo armamentario culturale sempre più dominante Gaio si pone alla scoperta dei nuovi mondi che si appresta a conquistare. Il solo strumento giuridico-concettuale che Gaio ha a disposizione e che si mostra sufficientemente potente per governare la nuova realtà è il dominio. E sul modello del dominio egli elabora le sue istituzioni a partire da quella fondativa del nuovo ordine del capitalismo nascente: la sovranità dello Stato moderno.

Da San Tomaso a Savigny

I giuristi naturalisti della scuola spagnola che adattano allo studio del diritto il grande edificio costituito dalla Summa di San Tomaso, medievali e non moderni, non riducono i propri orizzonti intellettuali al rapporto di dominio e al dualismo soggetto-oggetto. Il diritto per loro, influentissimi fra il quindicesimo e sedicesimo secolo, discende ancora da un legislatore supremo, divino che va interrogato per sapere come organizzare una società giusta. Gaio non è ancora legislatore. Gli strumenti a disposizione per costruire una buona società restano le due idee fondamentali trasmesse da Aristotele ai tomisti: la giustizia distributiva e quella commutativa. Per San Tomaso la prima pertiene al tutto, all'insieme, all'armonico ed organico funzionamento di una società. La seconda pertiene alle parti, soggetti proprietari che entrano in rapporto di scambio contrattuale semplice: do ut des.

La giustizia distributiva non è la semplice risultante sul piano della società dell'aggregato delle sue parti, individui proprietari i cui rapporti sono governati dalla giustizia commutativa che si esprime nei prezzi. La giustizia sociale non è un'idea riducibile alla somma algebrica di quella contrattuale. Già sappiamo che il riduzionismo cartesiano meccanicistico e scientistico non sa confrontarsi con le differenze qualitative ma è a suo agio soltanto con la quantificazione. Esso è perciò a disagio con la giustizia distributiva. È per questo che quando il diritto naturale sposta il suo baricentro a nord nel diciasettesimo secolo, la giustizia distributiva viene accantonata dai giuristi per almeno tre secoli.

Gaio, che ora riveste i panni del giusnaturalista olandese Grotius, trova il diritto di ragione in se stesso, nella sua capacità scientifica: non deve più interrogare il divino. Gaio si sente ora più bravo di Dio nel fare le leggi. La legge di Gaio presuppone una tabula rasa da colmare con regole logicamente dedotte dal dominium: per far fronte all'esigenza di dominare il mare, tabula rasa per eccellenza, nasce il diritto internazionale. Il modello del dominio assoluto aveva già accompagnato, da Jean Bodin a Hobbes, la nascita della statualità declinata come proprietà sul territorio. E il diritto internazionale costruisce un rapporto fra stati sovrani-proprietari dove non c'è posto per la giustizia distributiva ma al più per quella commutativa fondata sul contratto (trattato).

L'antropocentrismo e il riduzionismo di Gaio raggiungono l'apogeo: il sovrano è il soggetto; il territorio l'oggetto; la ragione detta le regole che sono quelle dello scambio fra proprietari, quantificabile con il sistema dei prezzi. Con l'illuminismo fra l'individuo e lo Stato non c'è posto per nulla: corporazioni, gilde, famiglie allargate, ordini monastici, comunità, ogni luogo in cui limiti e obbligazioni non consentono a Gaio la più completa autonomia «qui e adesso» divengono nemici della modernità.

È Jean Domat, un giurista amico di Blaise Pascal, e come quest'ultimo attivo nel circolo logico di Port Royal, ad assumersi il compito di tracciare l'intero ordine giuridico civilistico seguendo le regole della ragione proprietaria. E le sue regole troveranno accoglienza piena nel Code Civil di Napoleone (1804) tuttora vigente che descrive un mondo di proprietari assoluti e liberi limitati soltanto dagli uguali diritti degli altri proprietari o dallo Stato sovrano. Un mondo giuridico in cui Gaio non è parte dell'ambiente che lo circonda. Gaia è codificata come un oggetto di proprietà privata o di sovranità pubblica produttiva, meccanica, una macchina, un corpo inanimato. Un oggetto che crea sviluppo tramite la possibilità di essere meccanicamente sfruttato e trasformato nell'interesse del sovrano pubblico (lo stato) o privato (il proprietario).

Con Leibniz fra i filosofi e Christian Wolff fra i giuristi si fa un ulteriore passo «avanti» cercando di ridurre l'ordine sociale proprietario a matematica, per replicare quello stesso ordine scientifico che consente a Gaio i suoi prodigiosi successi nello sfruttamento di Gaia. Il tentativo non riesce perché fra i giuristi il romanticismo e lo storicismo, ancorché motivati da scopi in larga misura reazionari, riusciranno a prendere il sopravvento nella Germania del diciannovesimo secolo.

Gaia trova così i suoi primi difensori nelle rime del poeta Blake, che attacca Newton criticandone la grettezza e l'incapacità di coglierne gli aspetti non quantificabili, gli aromi, la bellezza, i mirabili equilibri che oggi chiamiamo ecologici.... Fra i giuristi, paradossalmente in nome della romanità, sarà il grande Federico Carlo Von Savigny, protagonista indiscusso del secolo decimonono, a contestare l'universalismo insito nell' astrazione cartesiana tipica del giusnaturalismo razionalista francese e tedesco e a proporre una concezone del diritto come «spirito del popolo» in quanto tale variabile da comunità a comunità. Savigny, attivo in una Germania ancora non unificata, contesterà altresì, in nome della necessaria flessibilità e adattabilità del diritto, l'opportunità di una codificazione insistendo sulla natura sapienziale e non politica dell'ordine giuridico. A dispetto di queste premesse, la visione della proprietà in Savigny resterà quanto mai assolutistica e la giustizia distributiva non troverà nel suo magistero alcuna redenzione. Anche per Savigny l'ordine giuridico finisce per essere ridotto a rapporto fra individui in cui i servizi di Gaia, le risorse naturali (acqua aria legname, minerali, fauna...) e gli ecosistemi (foreste, laghi, mare...) sono presi in considerazione solo come oggetti liberamente appropriabili da soggetti sovrani (siano essi privati o pubblici).

Da Adam Smith a Herbert Spencer

Occorrerà aspettare l'inizio del ventesimo secolo perché i semi della filosofia del diritto hegeliana, presenti in Savigny, diano i propri (limitati) frutti pratici. Infatti, il libero saccheggio di Gaia caratterizzante il primo capitalismo cominciava a produrre danni sociali visibili che imponevano allo Stato il tentativo di porvi rimedio. Le masse povere e diseredate accatastate vicino alle industrie provocavano problemi igienici per le città (oltre che rischi per l'ordine costituito). La proprietà privata, libera di produrre inquinando, rendeva irrespirabile l'aria e provocava la morte di tutti i pesci nei fiumi. I minori sfruttati resero necessarie le prime limitazioni dell'orario di lavoro. I più avanzati giuristi teorici del periodo, da Von Gierke in Germania a Duguit in Francia, nell'ambito di teorie sociali del diritto, cominciarono a rendersi conto che nel diritto il sistema (ordinamento giuridico) non poteva ridursi all'aggregato delle sue parti (diritti di proprietà) lasciate liberi di contrarre privatamente. Il legame fra Stato e proprietà privata, seppur da sempre alleanza infida, entra in crisi.

La teoria economica della mano invisibile, resa celebre cent'anni prima da Adam Smith, trovava nella realtà sociale una smentita evidente: evidenziata proprio dai primi visibili sintomi della sofferenza di Gaia e dei più deboli fra i suoi abitanti umani che, lungi dall' essere soggetti erano a loro volta oggetto di dominio. I fondamenti del liberalismo nel diritto e nell'economia e con essi la visione riduzionistica e meccanicistica dominante incontrarono una critica teorica decisiva che aveva alle sue radici l'idea hegeliana per cui il tutto non è mero aggregato delle parti. Critiche fondate su questa stessa idea incominciava a incontrare pure la visione meccanicistica newtoniana nelle scienze naturali. Lo studio dei campi elettromagnetici legato al nome di Faraday mostrava inequivocabilmente come le leggi fondamentali della meccanica non potevano spiegare appieno il funzionamento più intimo di Gaia. La metafora meccanicistica dell'orologio venne ulteriormente messa in crisi dall'apparire sulla scena dell'evoluzionismo di Darwin. La vita, Gaia stessa, è governata da un processo di mutazione che non è meccanico e ripetitivo ma che al contrario mostra nascita, crescita e estinzione. Gaia non può essere ridotta a un oggetto meccanico.

Tuttavia, in un contesto occidentale ormai dominato dalle strutture tecnologiche e giuridiche del capitalismo, Darwin - lungi dal porsi accanto a Gaia per limitare il delirio antropocentrico di Gaio - paradossalmente doveva sortire l'effetto opposto. L'evoluzionismo si pose con Herbert Spencer al servizio di nuovi progetti reazionari di dominazione di Gaio sulla natura, e del più forte sul più debole. La stagione del darwinismo sociale evoca ancor oggi i tratti sinistri della legge del più forte.

Mutazioni globali, un sentiero di lettura

Sui temi trattati in questa pagina sono giù usciti due precedenti articoli dello stesso autore, Ugo Mattei, sul manifesto del 14 febbraio («Beni comuni») e del 13 marzo (« La legge di Gaia»). Ancora di Ugo Mattei (insieme a Laura Nader) è appena uscito per le edizioni Bruno Mondadori «Il saccheggio. Regime di legalità e trasformazioni globali». Per un ulteriore approfondimento, si può consigliare la lettura del saggio di Fritjof Capra «La scienza universale. Arte e natura nel genio di Leonardo» (Bur Rizzoli 2009), e ancora di Capra, «The Turning Point» (Bantam paperback 1984); «The Web of Life» (Anchor paperback, 1997). Da leggere anche «Dopo il Leviatano. Individuo e comunità» di Giacomo Marramao (Bollati Boringhieri 2000) e «Law and the Rise of Capitalism» di Michael E. Tigar (Monthly Review Press 1977). Si veda infine il film del 1990 «Mindwalk» di Bernt Amadeus Capra, con protagonista Liv Ullman, nel quale la metafora dell'orologio è mirabilmente approfondita.

Il rapporto degli umani con l'ambiente è sempre stato segnato da una concezione meccanicista della vita e dall'appropriazione delle risorse naturali, ignorando la necessità di garantire la loro riproduzione. E il diritto ha sempre legittimato queste azioni predatorie attraverso l'istituto della proprietà privata

Protagonista maschile di questa storia è Gaio, misterioso autore giuridico romano, vissuto oltre 2000 anni fa è autore di un volumetto di «Istituzioni», forse un Bignami per aspiranti avvocati, la cui struttura fondamentale costituisce l'ossatura della concezione occidentale del diritto privato. Un lascito dell'antichità romana che tutt'oggi fonda, a livello globale, la concezione dominante della stessa «giuridicità». Gaio rappresenta in tutta la sua assolutezza la concezione romana del «dominio», come spazio di potere individuale formalizzato ed illimitato sulle cose.

Il dominio romano non è aperto a tutti. È limitato al pater familias. Il padre-padrone ha dominio assoluto sui suoi beni, siano essi animati o inanimati. Come il proprietario oggi può liberamente distruggere un proprio bene (o uccidere un proprio coniglio) così il dominus aveva poteri illimitati sui suoi beni, inclusa la proprietà fondiaria, e diritto di vita e di morte su schiavi, figli e moglie. Per chi scrive, Gaio non è visto come un personaggio storico. È invece il modello antropologico presupposto dall'ordine giuridico individualistico occidentale, così come giunto, attraverso una lunga ed avventurosa storia, fino alla nostra modernità. Gaio è qui l'individuo occidentale dotato di diritti di proprietà privata, esito odierno del processo trasformativo che chiamiamo progresso.

Un mito millenario

Oggi Gaio guida un'automobile, ha una casa in proprietà, abita in città, vive solo o in una famiglia nucleare, comunica con il cellulare, guarda la televisione, ha diritto di voto e può comprarsi beni di consumo per soddisfare ogni suo desiderio. Gaio è dotato di diritti che formalizzano la sua potestà di avere. Oggi la proprietà privata di Gaio non si estende agli schiavi e la sua sposa gli è formalmente pari.

Protagonista femminile è Gaia, la terra viva, un luogo che da qualche milione di anni ospita l'umano. Gaia, da molto più tempo è luogo della vita, un aggregato complesso di ecosistemi, di nessi, di comunità, di reti, di relazioni, di cooperazione e di conflitto, di gerarchia, di trasformazioni lente e di rivoluzioni improvvise. I miti su Gaia sono complessi ed affascinanti, e variano attraverso le culture.

Complessa e affascinante è pure la storia della relazione di Gaio con Gaia. Oggi il giovane Gaio studia, a partire dalla scuola primaria, l'evoluzione della vita sulla terra. Darwin domina (per ora) la sua percezione e di lì ricava il senso del progresso e della crescita. Gli antenati di Gaio sono nati in Africa. Gaia offrì loro cibo sotto forma di frutti e di cacciagione. Poi Gaio imparò ad addomesticare gli animali, per trarne cibo e vestiario; sucessivamente, diecimila anni fa circa, Gaio capì che Gaia poteva essere indotta a produrre più cibo di quanto ne avrebbe spontaneamente offerto. Intuito il nesso causale fra seminagione e raccolto, Gaio divenne sedentario. Gli antenati di Gaio inventarono presto un diritto al possesso esclusivo, noto come proprietà.

La proprietà serviva per remunerare gli sforzi nella caccia, nell'allevamento e nella seminagione. Bisognava definire perciò chi era dentro e chi fuori. Bisognava evitare che il raccolto venisse rubato da chi non aveva faticato per dissodare il terreno. Un'ampia letteratura apologetica della proprietà privata si basa anche oggi su questo suo nesso morale con il lavoro agricolo.

Poi, neppure trecento anni fa, Gaio inventò le macchine e fece la rivoluzione industriale: poteva adesso produrre beni di massa traendo l'energia per farlo dalle viscere di Gaia. Erano passati circa 10.000 anni dalla rivoluzione agricola. Quando la rivoluzione industriale avvenne, gli scritti del Gaio storico erano stati riscoperti da circa settecento anni (dopo esser stati perduti nei secoli bui) in una biblioteca presso Pisa e la proprietà privata era pienamente formalizata e fu l'assetto istituzionale che la rese possibile. Gaio divenne padrone delle miniere, fu industriale e capitalista. Oggi di rivoluzione Gaio ne ha fatta un'altra: usa il computer e la sua maggior ricchezza prescinde da ogni contatto con un bene materiale. Il più ricco ed ammirato è il finanziere, non più l'industriale taylorista.

Fra la comparsa dell'uomo su Gaia e la rivoluzione agricola la distanza è in milioni di anni. Fra la rivoluzione agraria e quella indistriale siamo alle migliaia. Fra la rivoluzione industriale e quella informatica di oggi, siamo alle poche centinaia di anni. Questa impressionante accelerazione storica esalta Gaio e gli fa vivere un senso di onnipotenza. Mentre guida il suo SUV super-tecnologico (e magari promosso come ecologico) egli si compiace che i suoi figli di cinque anni sappiano adattarsi meglio di quelli di quattordici alla progressione geometrica della tecnologia.

Ma quale relazione lega Gaio a Gaia? In molte culture Gaia è vista come madre. Pacha mama, la madre terra. Ma Gaio non riconosce questo rapporto. Per lui Gaia è un oggetto, anzi l' oggetto per antonomasia del suo dominium. Prima della strutturazione giuridica del rapporto di dominio (il cosiddetto dominio quiritario) avvenuta nell'ultima parte del primo millennio avanti Cristo, Gaia è già una «condanna» per Gaio. La Bibbia racconta che vi è stato scacciato per il peccato della sua donna. Un Dio maschio caccia Gaio dall'Eden e lo lancia fra le braccia di una nuova femmina, Gaia appunto, con cui sarà condannato a convivere. Gaia diviene moglie di Gaio? Come si è sviluppato il matrimonio? Per molto tempo le cose funzionarono bene.

L'ossessione del possesso

Gaio osserva Gaia, la corteggia, cerca di comprenderla, forse se ne è innamorato. Sa di essere intimamente legato a lei, sa che la sua stessa vita dipende dal buon rapporto che riesce ad avere con la sua sposa. Adatta a lei i suoi comportamenti, la carezza e ne trae godimento. Cerca di rispettarne le amicizie, gli spazi vitali di cui Gaia ha bisogno. Gaia è comunitaria per sua natura è fatta di nessi ed è nella comunità ecologica che gode e prospera, bellissima. Gaio per molto tempo ne condivide i gusti. Ama la comunità. Il suo orizzonte è costituito dal gruppo, dalla relazione, dalla cooperazione indispensabile per convivere insieme a Gaia. Ma Gaio sviluppa presto l'ossessione per il dentro e per il fuori. Inventa i confini. Inventa la guerra. Spesso trascura Gaia per ingaggiare nuovi conflitti, lontano dal suo villaggio dove abandona le sue donne dedite alla cura del gruppo, alla ricerca dell' acqua e alla coltivazione di Gaia.

Ben presto Gaio comincia ad annoiarsi del suo essere insieme a Gaia. Vuole possederne le ricchezze, vuole avere. Gaio scopre che per avere occorre escludere. Esclude le donne, simili nell'indole a Gaia, le riduce ad oggetto e ne rivendica la proprietà. Esclude i diversi, gli schiavi, i devianti. Anche su di loro esercita il dominio. Gaio organizza il lavoro dei suoi sottoposti, e con quel lavoro trasforma Gaia. La quantifica e ne desidera sempre di più, lanciandosi alla conquista guerriera di nuovi spazi e colonie. Il suo impero si espande e con esso le sue ricchezze ed il suo delirio di onnipotenza. Nei nuovi luoghi trova nuove comunità. Comunità che rispettano Gaia come una madre, come un'amica o come una sposa che vivono con lei in equilibrio armonioso; che ne rispettano e ammirano le qualità. Gaio non sopporta queste amicizie di Gaia e le distrugge, saccheggiandone le ricchezze. Le qualità non si misurano, e quello che a Gaio interessa di più è misurare, quantificare il valore delle sue ricchezze per creare organizzazioni sempre più ricche e potenti capaci di un dominio assoluto che ora lui chiama «sovranità» e che modella sulla proprietà assoluta ed individuale di un territorio.

La scienza della qualità

Gaio ama il piacere ma lo considera un lusso, un luogo dell'estetica. Il piacere generato dalla qualità, uno stato dell'essere, non lo aiuta ad accumulare ed avere sempre ed ancora di più. Perciò Gaio distingue tra arte e scienza. La prima si fonda sulla qualità, sulla relazione e sulla comunità spirituale fra artista, opera e fruitore. La seconda soltanto sulla quantità. La scienza di Leonardo, una scienza della qualità, è così dimenticata: il protoscienziato sarà Galileo colui che esclude la qualità ed il «non misurabile» (estetica, odori, sapori, armonie) dal mondo della rilevanza scientifica. Gaio inventa la manifattura e la produzione in serie. Inventa macchine prodigiose fondate su leggi assolute ed immutabili che impara a scoprire e misurare con precisione. Gaia gli offre l'energia per farlo, dalle sue viscere esce prima il carbone e poi il petrolio. Gaio diventa sempre più ricco e copre d'onori chi gli ha consentito di diventarlo. Newton, nella Londra del suo tempo, aveva status di superstar. Gaia ama la bellezza e l'armonia. La sua essenza è nell' ecosistema, un insieme di relazioni mutualistiche in cui il tutto non è una semplice somma delle parti. Gaio pone al centro se stesso. Promuove la sua visione egocentrica. Inventa l' umanesimo. Scopre che Gaia che non è più il centro dell'universo. Reagisce a ciò ponendovi se stesso.

Con Cartesio l'io pensante, Gaio si emancipa dalla matreria di cui rifiuta al contempo l'essenza animata. Gaio si emancipa perfino dal suo corpo, dal suo essere persona. Adesso conta solamente per quello che ha. È soggetto astratto, dominus borghese, dotato di poteri illimitati su Gaia di cui rifiuta l'identità viva riducendola ad una macchina. Per lui Gaia è governata da leggi meccaniche, simili a quelle a tutela della sua proprietà privata di cui la forza della sovranità esige il rispetto a pena di supplizi e galere.

Gaia deve svelarsi interamente ai suoi occhi, deve confessargli tutti i segreti di sé, proprio quelli che possono renderlo ancora più ricco e potente. Gaia è adesso prigioniera, e come i prigionieri deve essere torturata per estorcerne la verità: Come e dove posso trovare nuove ricchezze, nuove conoscenze, nuovo potere? Gaio prende le vesti di Francesco Bacone, onnipotente e crudele Cancelliere di sua maestà, ad un tempo grande giurista e grande scienziato. è Bacone a teorizzare l'inquisizione nell' Inghilterra della Magna Charta. È Bacone ad insegnare il metodo scientifico per interrogare spietatamente Gaia al fine ultimo di trasformarla e svilupparla. Gaio, al contempo estende la sua immagine alle sue donne: se capaci di avere avranno diritto alla parità formale.

Ma Gaia è sposa sfruttata, dominata e violentata col diritto e con la scienza. Rimarrà inerte? Qualcuno si ergerà a sua difesa?

Anticipiamo un brano tratto dal nuovo libro di Zizek Dalla tragedia alla farsa. Ideologia della crisi e superamento del capitalismo edito da Ponte alle Grazie in libreria in questi giorni

Dodici anni prima dell´11 settembre, il 9 novembre del 1989, è caduto il Muro di Berlino. Questo evento sembrò annunciare l´inizio dei «felici anni Novanta», l´utopia di Francis Fukuyama della «fine della storia», la fede che la democrazia liberale avesse vinto in linea di principio, che l´avvento di una comunità liberale globale stesse aspettando appena dietro l´angolo, e che l´ostacolo a questo lieto fine hollywoodiano fosse meramente empirico e contingente (sacche locali di resistenza i cui leader non avevano ancora colto che il loro tempo era finito). L´11 settembre, invece, ha simboleggiato la fine del periodo clintoniano e avviato un´era in cui nuovi muri sembrano emergere dappertutto: tra Israele e Cisgiordania, lungo il confine messicano, ma anche all´interno degli stessi stati-nazione.

In un articolo su Newsweek, Emily Flynn Vencat e Ginanne Brownell riferiscono come oggi, «il fenomeno del "per soli membri" si sta espandendo fino a diventare un intero modus vivendi, includendo ogni cosa, dalle condizioni bancarie private alle cliniche sanitarie solo su invito (...), coloro che hanno i soldi stanno progressivamente rinchiudendo la loro intera vita dietro portoni sbarrati. Piuttosto che partecipare a grandi eventi mediatici, organizzano concerti privati, sfilate di moda ed esposizioni d´arte a casa propria. Vanno a fare shopping after-hours e la classe e la disponibilità economica dei loro vicini (e potenziali amici) viene rigorosamente controllata».

Una nuova classe globale sta così emergendo «con, ad esempio, un passaporto indiano, un castello in Scozia, un pied-à-terre a Manhattan e un´isola privata ai Caraibi». Il paradosso è che i membri di questa classe globale «cenano in privato, fanno shopping in privato, fruiscono arte in privato, ogni cosa è privata, privata, privata». Si stanno creando un ambiente vitale proprio per risolvere il proprio angoscioso dilemma ermeneutico; come afferma Todd Mullay: «le famiglie ricche non possono "iniziare a fare inviti alla gente e aspettarsi che questa capisca cosa voglia dire avere 300 milioni di dollari"».

Allora quali sono i loro contatti con il mondo esterno? Sono di due tipi: affari e beneficenza (protezione dell´ambiente, lotta contro le malattie, mecenatismo ecc.). Questi cittadini globali vivono la loro vita per lo più nella natura incontaminata - facendo trekking in Patagonia o nuotando nell´acqua trasparente delle loro isole private. Non si può fare a meno di notare che una delle caratteristiche di fondo dell´atteggiamento di questi ultraricchi che vivono nelle loro torri d´avorio è la paura: paura della vita sociale esterna in sé. Le priorità maggiori degli ultrahigh-net-worth individuals sono quindi di minimizzare i rischi di sicurezza - malattie, esposizione alle minacce di crimine violento, e così via.

Nella Cina contemporanea, il nuovo ricco si è costruito delle comunità isolate modellate sull´immagine idealizzata delle «tipiche» città occidentali; vicino a Shanghai, ad esempio, esiste una replica «reale» di una piccola cittadina inglese, compresa una via principale con pub, una chiesa anglicana, un supermercato Sainsbury ecc.: l´intera area è isolata da ciò che la circonda da una cupola invisibile, ma non meno reale. Non esiste più una gerarchia tra gruppi sociali che vivono nella stessa nazione, coloro che risiedono in questa città vivono in un universo per il quale, all´interno del suo immaginario ideologico, il mondo circostante di «classe inferiore» semplicemente non esiste. Questi «cittadini globali» che vivono in aree isolate, non rappresentano forse il vero polo opposto di coloro che vivono negli slum e delle altre «macchie bianche» della sfera pubblica? In effetti essi rappresentano le due facce della stessa medaglia, i due estremi della nuova divisione di classe.

La città che incarna meglio questa divisione è San Paolo, nel Brasile di Lula, che ospita 250 eliporti nell´area del suo centro città. Per isolarsi dal pericolo di mescolarsi con la gente ordinaria, il ricco di San Paolo preferisce usare gli elicotteri, sicché, dando uno sguardo all´orizzonte della città, ci si sente veramente come se ci si trovasse in una megalopoli futurista del genere descritto in film come Blade Runner o Il quinto elemento, con la gente comune che sciama per strade pericolose in basso, mentre il ricco volteggia in giro a un livello più alto, nell´aria.

Sembra così che l´utopia degli anni Novanta di Fukuyama debba morire due volte, dal momento che il crollo dell´utopia politica liberal-democratica dell´11 settembre non ha colpito l´utopia economica del mercato capitalista globale; se il collasso finanziario del 2008 ha un significato storico, allora, è come segno della fine della faccia economica del sogno di Fukuyama. Il che ci riporta alla parafrasi marxiana di Hegel: bisogna ricordare che, nella sua introduzione a una nuova edizione del Diciotto Brumaio negli anni Sessanta, Herbert Marcuse aggiunse un ulteriore giro di vite: a volte, la ripetizione in guisa di farsa può essere più terrificante della tragedia originale.

In un famoso scontro all´università di Salamanca nel 1936, Miguel de Unamuno lanciò una frecciata ai franchisti: Venceréis, pero no convenceréis («Vincerete, ma non convincerete»). È tutto qui quello che oggi la sinistra può dire al capitalismo globale trionfante? La sinistra è predestinata a continuare a giocare il ruolo di coloro che, al contrario, convincono ma nondimeno continuano a perdere (e sono particolarmente convincenti nello spiegare retroattivamente le ragioni del proprio fallimento)? Il nostro compito è scoprire come fare un passo in avanti. La nostra undicesima tesi dovrebbe essere: nelle nostre società, la sinistra critica finora è riuscita solo a sporcare coloro che stanno al potere, mentre il punto reale è castrarli...

Ma come possiamo riuscirci? È necessario imparare dai fallimenti della politica della sinistra nel ventesimo secolo. Il compito non è praticare la castrazione nell´apice di uno scontro diretto, ma minare coloro che stanno al potere con un lavoro ideologico-critico paziente, in modo tale che, sebbene siano ancora al potere, ci si accorga improvvisamente che i potenti si ritrovano a parlare con voci innaturalmente acute. Negli anni Sessanta, Lacan chiamò il periodico della sua scuola, che fu pubblicato in maniera irregolare per un breve periodo, Scilicet. Il messaggio non era il significato oggi predominante della parola («cioè», «ossia», «vale a dire»), ma letteralmente: «è permesso sapere». (Sapere cosa? Ciò che la Scuola freudiana di Parigi pensa dell´inconscio...) Oggi, il nostro messaggio dovrebbe essere lo stesso: è permesso sapere e impegnarsi pienamente nel comunismo, agire nuovamente in piena fedeltà all´idea comunista. La permissività liberale è dell´ordine del videlicet - è permesso vedere - ma la fascinazione per l´oscenità che ci è consentito osservare ci impedisce di sapere cos´è ciò che vediamo.

Morale della storia: il tempo del ricatto moralistico liberal-democratico è finito. Non dobbiamo più continuare a giustificarci; mentre loro farebbero meglio a iniziare a farlo presto.

Nella aspra contesa tra valore d'uso e valore di scambio è quest'ultimo ad avere avuto la meglio. La società di mercato non riesce tuttavia ad avere la meglio su principii antichi tanto quanto è antica la presenza degli umani nel nostro pianeta: la reciprocità, la condivisione, la gratuità nelle relazioni interpersonali, la tendenza a cooperare per raggiungere un obiettivo. È attorno a questa antropologia ottimista della natura umana che sono cresciuti movimenti sociali segnati da una «politica vivente» che entra in rotta di collisione con l'ideologia del libero mercato, mentre cerca di sviluppare esperienze sociali e produttive senza attendere nessun sole dell'avvenire.

Raj Patel è uno studioso figlio del nostro tempo. Nato in Inghilterra da madre keniota e padre delle isole Fiji si è trasferito negli Stati Uniti per terminare gli studi universitari per poi insegnare nello Zimbawe, Sudafrica e Stati Uniti. Il filo rosso con cui ha tessuto la sua biografia intellettuale è rappresentato dalla partecipazione ai movimenti sociali attraverso cui legge il conflitto tra valore d'uso e valore di scambio. Ha infatti seguito con interesse l'esperienza di Via Campesina, le lotte per l'abitare nelle township sudafricane, la costituzione dei sindacati autonomi da quelli ufficiali in Cina, il conflitto dei raccoglitori di frutta nella Sun Belt degli Stati Uniti per ottenere condizioni di vita e di lavoro «dignitosi».

La lettura che dà della globalizzazione, contenuta nel suo ultimo libro Il valore delle cose (Feltrinelli, pp. 236, euro 16,50), ha un andamento epico che lo porta a non cogliere alcune contraddizioni, aporie, limiti che contraddistinguono i movimenti sociali, ma è comunque un saggio che illustra la loro capacità di sviluppare una autonomia dal potere costituito e, al contempo, la loro diffusione, come un virus, nelle società del mercato, creando così i presupposti di una più radicale trasformazione. Come questa possa accadere, cioè quali forme politiche, organizzative, quali proposte di organizzazione sociale e dell'economia mettere in campo per una fuoriuscita dalla società di mercato, sono quesiti a cui Patel non vuol rispondere, perché tocca ai protagonisti di quella «politica vivente» a cui il saggio è dedicato.

Nel suo libro, lei parla della sindrome di Anton che porta a una rappresentazione errata della realtà come una possibile cornice per contestualizzare le politiche economiche neoliberiste....

Parlo della sindrome di Anton come una metafora dello strano legame di dipendenza che tutti noi abbiamo con il capitalismo. Il nome viene da un medico, Anton Babinski, che la usò per indicare un disordine neurologico che può colpire un essere umano dopo un forte trauma al cervello. Si manifesta attraverso allucinazioni; oppure il «malato» si convince così intensamente di una cosa anche se quella non esiste. Ci sono cartelle cliniche che raccontano come uomini o donne descrivono minuziosamente un villaggio fuori dalla finestra delle loro case che non esiste; oppure lo considerano nuovo anche se è lì da decenni. Le persone che hanno questo disturbo neurologico conducono una vita di sofferenza: dimenticano il trauma che ha scatenato l'insorgere della sindrome e devono continuamente fare i conti con la distanza che intercorre tra la realtà e la rappresentazione. Uso questa metafora per ricostruire la storia dell'adesione ai sistemi di valori del capitalismo. Milioni di donne e uomini vivono in una realtà distante dalla rappresentazione distorta che ne hanno.

Prendiamo, ad esempio, il fatto che nel capitalismo la centralità del valore di scambio ha cancellato il valore d'uso di un bene o di una merce. La sindrome di Anton ha una mirabile capacità di spiegare perché una economia di mercato, orientata al profitto, continui a incontrare il consenso nonostante alcune innegabili irrazionalità e ingiustizie che la contraddistinguono. Potremmo dire che gran parte dell'umanità soffre di questa sindrome, laddove scambia l'economia di mercato come il migliore dei mondi possibili. È, appunto, come quel paziente che descriveva minuziosamente e con animo partecipe del ridente e ameno villaggio costruito fuori dalla sua finestra: peccato che quel villaggio non esisteva.

Per il pensiero neoliberale, l'homo oeconomicus è l'astrazione che indica come le radici della società stiano nell'individuo inteso come un essere razionale che cerca di massimizzare i suoi interessi. Nel suo libro, invece, lei oppone la riflessione di Karl Polany attorno alla centralità della reciprocità, dello stare insieme e della cooperazione per garantire la stabilità del legame sociale. Ma come possono le relazioni sociali funzionare da limite all'ideologia neoliberale incentrata sulla figura dell'homo oeconomicus?

L'homo oeconomicus è una creatura del diciannovesimo secolo, uno strumento inventato da John Stuart Mill per, parole sue, «dare una veste scientifica alle scienze sociali». Gli economisti di quel secolo erano eccitati dalle scoperte della fisica, in particolar modo dall'idea che gli atomi interagivano tra di loro perché governati da alcune leggi fisiche. Ma la cosa più importante è che vollero applicare le leggi della fisica alla realtà sociale per così spiegare i comportamenti dei singoli. Erano cioè convinti che esisteva una analogia tra come un atomo interagiva con altri atomi e come interagivano gli esseri umani tra di loro. Sebbene Stuart Mill alla fine della sua vita proponesse una visione più egualitaria nella distribuzione delle risorse, delle ricchezze e proponesse eguali chances di partenza per tutti, la concezione dominante dell'homo oeconomicus ha ormai rotto ogni steccato in cui, nel passato, era stato rinchiuso dagli stessi teorici liberali. Più che uno strumento da usare per spiegare il mondo, è diventato un deus ex machina che deve modellare i nostri comportamenti in esso.

Il Nobel per l'economia Gary Becker, ad esempio, sostiene che il mondo funziona come un immenso mercato dove gli uomini e le donne mettono in campo strategie tese a massimizzare i loro interessi. Le conclusioni politiche a cui potremmo giungere in base a questo modello potrebbero essere molto bizzarre. Becker e altri economisti e filosofi neoliberali hanno teorizzato aste per mettere in vendita i diritti di cittadinanza o una specie di tombola dove vengono estratti a sorte i diritti individuali. Sono posizioni sconclusionate, ma è in base a queste bizzarrie che il neoliberismo ha costruito la sua egemonia, riuscendo a cancellare e relegare sullo sfondo della memoria collettiva la centralità delle relazioni sociali basate sul dono, la reciprocità, la condivisione nel nostro vivere in società.

Lei scrive che ogni uomo o donna ha il «diritto ad avere diritti». Può spiegare questo concetto?

Viviamo in un mondo dove il libero mercato è sinonimo di libertà. Il filosofo canadese Jerry Cohen ha proposto un piccolo esperimento mentale per farci comprendere in che rapporto è il lavoro salariato con l'idea di libertà insita nel concetto di libero mercato. Cohen ha proposto di immaginare di vivere in un mondo dove un uomo o una donna ricevano piccoli tagliandi al momento della loro nascita. Ogni tagliando corrisponde a un diritto: diritto a visitare la mamma ammalata, a passare per una strada, a vivere in un determinato luogo o città, a mangiare una bistecca, a un'assistenza medica in caso di malattia o incidente. Non sei però obbligato a fare ciò che è scritto sui tagliandi, che stabiliscono i limiti della tua libertà. Ma se tu cerchi di fare qualcosa che non è contemplato tra i diritti possibili, interviene la legge per impedirtelo. I tagliandi stabiliscono cioè la mappa delle tue libertà. Più tagliandi hai, maggiore è la tua libertà. Il denaro ha la stessa funzione dei tagliandi: ti consente cioè di acquistare la tua libertà. Ma che società è quella che ti costringe ad acquistare una assicurazione sanitaria, pasti e una casa decenti, la sicurezza a essere curato in caso di un incidente sul lavoro, o a comprare una protezione nel caso di un licenziamento? Una società dove, se non hai denaro, non sei un uomo, o una donna, libera. In sintesi, nel capitalismo il denaro è il diritto ad avere diritti. Nel libro, quando scrivo di avere il «diritto ad avere diritti» mi riferisco invece a quei movimenti sociali che lottano affinché il denaro non sia più l'unità di misura della libertà.

Lei cita Via Campesina, i movimenti urbani per il diritto alla casa o quello sindacale autonomo in Cina per introdurre il tema della «politica vivente», argomento molto dibattuto in Europa. Mi sembra, però, che la sua interpretazione differisca da quella che molti teorici neoliberali danno. Può spiegare cosa intende per «politica vivente»?

Sebbene il libro sia stato scritto ben prima della crisi economica, sono sempre stato interessato alle soluzioni proposte e sperimentate dai movimenti da lei citati. Uno degli elementi che ho ritrovato in tutte le esperienze che ho seguito è che sono movimenti interessati non solo a coinvolgere la popolazione, ma ad apprendere conoscenza dai processi sociali in cui hanno preso forma e si sono sviluppati. Dalle università popolari nate negli slum del Sudafrica all'Università dei poveri negli Stati Uniti alla parola d'ordine zapatista «imparare camminando», la politica che queste realtà perseguono è sempre una politica che apprende dalla realtà in cui si sviluppano conflitti e lotte sociali. Non è cioè una politica «preformattata», bensì «vivente».

La concezione di «politica vivente» a cui mi riferisco è quella che ho appreso da un uomo sudafricano, S'Bu Zikode, che lavora nell'industria petrolifera. Le sue parole la riassumono meglio di quanto riuscirei a fare io: «La politica vivente non richiede una formale educazione scolastica; è una politica che nasce nella vita di ogni giorno e in ciò che quotidianamente facciamo per cambiarla. È una politica che ognuno di noi comprende. È una politica che chiede di avere l'acqua quando non l'abbiamo, che chiede di avere energia elettrica per illuminare le nostre case e le strade dove viviamo, che chiede di non morire di fame. Non ha bisogno di grande teorie per essere spiegata, perché è comprensibile a tutti. Non è complicato capirlo per chi ha gli stessi problemi».

Chi è Raj Patel (nell'icona una sua immagine)

Incontro con l'economista egiziano, il cui ultimo libro ribadisce la ricerca di alternative per il superamento del capitalismo, considerato «una parentesi storica». Intanto, i processi migratori configurano un futuro di bidonville planetarie

“Memorie di un marxista indipendente”: così recita il sottotitolo del più recente libro autobiografico dell'economista egiziano Samir Amin, A Life Looking Forward (Zed Books, 2006), che ha dedicato buona parte della sua vita di studioso e militante alla ricerca di alternative per il superamento della parentesi storica del capitalismo. E che anche nel suo ultimo libro tradotto in italiano, La crisi. Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi? (Punto Rosso, pp. 208, euro 13), continua a rivendicare la necessità di appellarsi all'utopia critica e di «partire da Marx, senza fermarsi a lui», per capire e trasformare il mondo. Nonostante l'obsolescenza del capitalismo e il fallimento del modello neo-liberista - «un apartheid a livello globale» - Samir Amin è però consapevole degli ostacoli che si oppongono alla «lunga transizione al socialismo» che propone. Dopotutto, scrive nel suo ultimo libro, la crisi «non è il prodotto di una fiammata di lotte sociali», ma delle contraddizioni interne al sistema di accumulazione del capitale. E «l'iniziativa rimane comunque nelle mani del capitale». Anche perché, come spiega al manifesto, a distanza di dieci anni dal primo World Social Forum «i movimenti restano terribilmente frammentati e deboli: si difendono dagli attacchi del capitalismo degli oligopoli finanziarizzati, ma non elaborano efficaci strategie politiche e d'azione. Scontando ancora quella illusione naïf secondo cui sarebbe possibile cambiare il mondo senza prendere il potere». Per Amin, invece, è solo riconoscendo «l'ineludibilità della questione del rapporto tra potere e trasformazione» che sarà possibile costruire la «convergenza nella diversità delle lotte» per l'emancipazione degli individui.

Con la crisi economico-finanziaria ci si interroga nuovamente sui limiti della globalizzazione neoliberista e, più in generale, sui limiti del capitalismo. Ci spiega in che senso, come scrive in «The World We Wish to See», «lo sviluppo mondiale del capitalismo è sempre stato polarizzante», e l'imperialismo rappresenta non «una fase del capitalismo, ma la caratteristica permanente della sua espansione globale»?

All'inizio ho adottato la tesi di Lenin, secondo la quale il capitalismo dei monopoli costituisce una nuova fase nella storia del capitalismo, annunciata alla fine del diciannovesimo secolo, e il capitalismo è diventato una forma di imperialismo soltanto a partire da quella data. In seguito, però, ho finito per elaborare l'idea del carattere originariamente polarizzante - dunque in qualche modo imperialista - del capitalismo sin dalle sue origini. Ritengo infatti che l'accumulazione su scala mondiale sia sempre stata, in modo non esclusivo ma prevalente, una accumulazione per esproprio. Un esproprio che non riguarda soltanto l'«accumulazione primitiva» analizzata da Marx e riferita alle origini del capitalismo, ma che è un tratto permanente nella storia del capitalismo storico realmente esistente, a partire dall'epoca mercantilista. Quel lungo periodo di transizione in cui il ruolo centrale nella mondializzazione, organizzata intorno alla conquista delle Americhe e alla tratta dei neri, assume la forma evidente e indiscutibile dell'accumulazione per esproprio. Questa accumulazione si dispiega poi lungo tutto il corso del diciannovesimo secolo, e si radicalizza con la formazione dei monopoli, che favoriscono l'esportazione di capitale su una scala molto più ampia, «installando» segmenti del sistema capitalista mondializzato nelle colonie «d'oltremare», nelle semi-colonie, nelle colonie dell'America latina. D'altronde, che la polarizzazione sia immanente allo sviluppo mondializzato del capitalismo, accompagnandolo sin dalle origini, lo dimostra un semplice dato: fino al 1820 circa il prodotto interno lordo pro capite della Cina era superiore a quello, medio, dell'Europa avanzata. Tra il 1820 e il 1900, si passa invece da un rapporto 1 a 1 a un rapporto 1 a 20, e dal 1900 al 2000 da 1 a 20 a 1 a 50.

Già in «Oltre il capitalismo senile» lei scriveva che, proprio a causa del suo «tallone d'Achille» - la dimensione finanziaria - il sistema capitalistico stesse preparando «una imminente catastrofe finanziaria». Ora l'imminenza è realtà: cosa intende quando sostiene che quella attuale è «la crisi del capitalismo imperialistico degli oligopoli», organicamente legati alla finanziarizzazione del sistema?

Proseguendo una direzione di ricerca inaugurata dal libro di Sweezy e Baran del 1966, Monopoly Capital - la prima formulazione coerente della trasformazione qualitativa del capitalismo avvenuta alla fine del diciannovesimo secolo con l'istituzione dei monopoli - ho individuato l'impatto di due grandi ondate nel processo di monopolizzazione: la prima ha inizio alla fine del diciannovesimo secolo e si estende fino al 1945, la seconda comincia negli anni Settanta del secolo scorso, e, dunque, non coincide affatto con la crisi finanziaria del 2008. In questa seconda ondata, il grado di monopolizzazione assume un rilievo senza paragoni. Il che mi porta a ritenere che quello contemporaneo sia un capitalismo degli oligopoli generalizzati, mondializzati e finanziarizzati. Oligopoli generalizzati perché controllano l'economia nel suo complesso (oltre che l'ambito politico e culturale), perfino quei settori non direttamente monopolizzati. E mondializzati anche per effetto delle politiche liberali e neoliberiste degli anni Ottanta, Novanta e Duemila. Ora, per quanto riguarda la finanziarizzazione, anche da «sinistra» buona parte delle analisi sul sistema finanziario tendono a separare la finanziarizzazione, artificiale e negativa, dal buon capitalismo produttivo. Non è così: i due aspetti vanno di pari passo. Gli oligopoli sono finanziarizzati proprio nel senso che non c'è da una parte un settore finanziarizzato, quello delle banche, delle assicurazioni, dei fondi pensioni, e dall'altra un sano settore produttivo. Piuttosto, sono gli stessi oligopoli a essere proprietari delle grandi imprese produttive e, allo stesso tempo, delle grandi istituzioni finanziarie. E a loro volta questi oligopoli hanno bisogno dell'espansione finanziaria per assicurarsi il dominio sull'economia e sull'intera società. La «sovrapposizione», come sosteneva già Baran, è totale. E ha radici in un sistema che conduce di per sé alla stagnazione relativa, particolarmente marcata a partire dal 1970, quando nei paesi della Triade imperialista (Usa, Europa, Giappone) si è verificata una drastica riduzione dei tassi di profitto, di crescita e investimento. È questa stagnazione - una eccedenza di surplus rispetto alla possibilità di espansione del capitale per ampliare e incrementare gli investimenti produttivi - a alimentare le bolle finanziarie. Che non sono il prodotto di derive o deregolamentazione, ma un'esigenza immanente al sistema capitalistico contemporaneo: la finanziarizzazione è l'unica maniera a disposizione dei capitalisti degli oligopoli generalizzati e mondializzati per superare la tendenza profonda e intrinseca alla stagnazione. Per questo sono convinto che non ci resti, come alternativa, se non uscire da questo capitalismo in crisi. O, più modestamente, di iniziare a imboccare l'uscita, verso un altro modello di sviluppo, la cui fisionomia ancora non è chiara, e per la cui definizione serviranno altri cinquanta, cento anni.

In un suo recente saggio, «A critique of the Stiglitz report», lei afferma che una mondializzazione negoziata passa per lo «sganciamento», per la costruzione di un'economia nazionale autocentrata ma non autarchica. Una economia che - scrive in «A Life Looking Forward» - «incontrerebbe seri ostacoli se non fosse rinforzata da forme di integrazione regionale capaci di accrescerne l'effetto positivo». Come combinare strategie di sganciamento dal sistema globale con la costruzione di blocchi regionali?

Non esistono alternative praticabili allo sviluppo autocentrato, che subordini le relazioni esterne alle esigenze di trasformazione interna, le più progressiste possibili. Non si tratta di semplice autarchia, ma del capovolgimento della logica attuale: anziché adeguarsi, anziché piegarsi alle tendenze dominanti su scala mondiale, occorre operare affinché siano tali tendenze ad adeguarsi alle esigenze interne. Questo è il senso che attribuisco alle iniziative indipendenti da parte dei paesi del Sud del mondo. Le ragioni per farlo sono evidenti nella maggior parte dei casi. Forse non per i tre nuovi giganti economici: Cina, India e Brasile, che, ciascuno per sé, possono contare su un peso equivalente a quello di una grande regione, e che per questo sembrerebbero non avere bisogno di affidarsi ad accordi sottoregionali e inter-regionali. Eppure, anche questi paesi accusano dei deficit, basti pensare alla scarsità delle risorse naturali, energetiche in primo luogo, di cui hanno bisogno. E questo vale a maggior ragione per le altre regioni, per i paesi del sud-est asiatico, del mondo arabo, dell'Africa subsahariana, dell'America latina spagnola. In tutti questi casi, gli accordi sottoregionali servono a istituire, in via negoziata, forme di complementarietà, che si articolino su più piani. Per esempio quello delle tecnologie: oggi i paesi del Sud sono in grado - non tutti allo stesso modo - di sviluppare capacità tecnologica senza dover necessariamente sottomettersi al protezionismo del diritto industriale promosso dall'organizzazione mondiale del commercio. Lo stesso dovrebbe accadere per le infrastrutture, per l'individuazione di strategie di complementarietà industriale, a partire dalle industrie di base, ovviamente, ma anche per le industrie del grande consumo, per l'accesso alle risorse naturali.

A proposito di risorse naturali: lei sostiene che, «lungi dall'essere risolta, la 'questione agraria' è più che mai al cuore delle sfide che l'umanità dovrà affrontare nel ventesimo secolo». Perché ritiene che il capitalismo, «per sua stessa natura, è incapace di risolverla», e perché crede che sappia offrire soltanto la prospettiva di un pianeta di bidonville?

L'accumulazione per esproprio che caratterizza il capitalismo storico, quello che all'inizio del diciannovesimo secolo è andato cristallizzandosi intorno al triangolo Londra-Amsterdam-Parigi, non riguarda soltanto i popoli delle Americhe, ma anche i contadini europei. Il modello è quello delle enclosures della Gran Bretagna, l'esproprio dei contadini inglesi e irlandesi, che hanno subìto, per primi in Europa, una forma di appropriazione privata della terra, poi generalizzata sul continente europeo. Questo modello storico avrebbe avuto conseguenze esplosive se non fosse stato accompagnato da quell'enorme «apparato di sicurezza» e «valvola di sfogo» costituita dal sistema delle migrazioni verso le Americhe: i processi migratori hanno permesso all'Europa di costruire altrove un'altra Europa, altrettanto, se non più importante in termini di popolazione di quella del continente. Ma se consideriamo gli altri continenti, l'Asia, l'Africa, l'America latina, dove oggi vive il settantacinque per cento della popolazione mondiale, di cui una metà contadina, ci rendiamo conto che questo sistema è inaccettabile e inefficace. Come dimostra la recente nascita di un pianeta di bidonville: i contadini espulsi dalle terre non possono venire «assorbiti» dai meccanismi della moderna industrializzazione, e non possono ricorrere in modo massiccio alle migrazioni. La soluzione alla questione agraria proposta dal modello capitalista richiederebbe che si concedessero all'Asia, all'Africa, all'America Latina, almeno altre quattro Americhe.

Nel mese di agosto del 2009 il re saudita Abdullah ha festeggiato il primo raccolto di riso realizzato in Etiopia. E al riso seguiranno orzo e grano. Cresciuta in mezzo al deserto come tutti gli Stati del Golfo, l’Arabia Saudita ha scelto di risolvere il problema del cibo accaparrandosi terre coltivabili sull’altra sponda del Mar Rosso, nel Corno d’Africa: in Paesi come l’Etiopia, con 10 milioni di affamati, o come il Sudan, che non riesce a uscire dall’immensa tragedia del Darfur. È un fenomeno nuovo (iniziato circa 15 mesi fa) e ancora poco studiato (anche perché la maggior parte degli accordi è segreta): è il diabolico furto di terra e cibo al continente più affamato e povero del mondo.

Milioni di ettari in Etiopia, Ghana, Mali, Sudan e Madagascar sono stati ceduti in concessione per venti, trenta, novant’anni alla Cina, all’India, alla Corea, in cambio di vaghe promesse di investimenti. Seul possiede già 2,3 milioni di ettari, Pechino ne ha comprati 2,1, l’Arabia Saudita 1,6, gli Emirati Arabi 1,3.

I protagonisti e anche questa è una novità – sono i governi: da una parte ci sono Paesi che hanno soldi e bisogno di terra. Dall’altra governi poverissimi – e spesso corrotti – che, in cambio di un po’ di denaro, tecnologia e qualche infrastruttura, mettono a disposizione senza indugio il bene più prezioso di un continente ancora prevalentemente agricolo: la terra.

D’altra parte quasi nessun contadino africano può provare di possedere un terreno. Il diritto formale di proprietà (o di affitto) riguarda dal 2 al 10% delle terre. Nella maggioranza dei casi ci si affida a norme tradizionali, riconosciute localmente, ma non dagli accordi internazionali. E così terre abitate, coltivate e usate come pascolo da generazioni sono considerate inutilizzate.

C’è chi si porta da casa anche la manodopera, come la Cina, che ormai dal 2000 sta incentivando l’emigrazione in Africa come soluzione al problema demografico. Nel loro nuovo far west, 800 mila cinesi gestiscono imprese, costruiscono ferrovie, strade, dighe, si appropriano delle materie prime (petrolio, minerali, legno) e piazzano prodotti a buon mercato. Accanto ai governi, ci sono gli investitori privati: dopo la crisi finanziaria, molti hanno iniziato a guardare a beni di investimento più tangibili: il settore in cima alla lista è la terra (cibo e biocarburanti). Non a caso, nell’agosto del 2009, a New York, si è svolta la prima conferenza del commercio mondiale di terre coltivabili...

Che cosa succede nelle terre africane quando arrivano gli investitori stranieri? Si passa dall’agricoltura tradizionale – basata sulla diversità, sulle varietà locali, sulle comunità – all’agroindustria: che significa monocolture destinate all’esportazione (riso, soia, olio di palma per biocarburanti...) e ricorso massiccio alla chimica (fertilizzanti e pesticidi). Quando i terreni saranno completamente impoveriti, gli investitori stranieri potranno facilmente spostarsi da un’altra parte. Una formula vecchia, che riporta indietro di cinquant’anni, alla cosiddetta "rivoluzione verde", avviata negli anni Sessanta con i soldi della Fondazione Ford, della Fondazione Rockefeller e della Banca Mondiale per aumentare la produzione di cibo nei Paesi poveri, puntando su tecnologia e monocolture.

Le prove del completo fallimento di questa strategia sono incontrovertibili. Un dato su tutti: nel 1970 i sottoalimentati in Africa erano 80 milioni. Dieci anni dopo questo numero è raddoppiato, per raggiungere i 250 milioni di persone nel 2009.

Eppure, in nome della sicurezza alimentare, si sta cercando di rilanciarla con il programma Agra (acronimo di "Alliance for a Green Revolution in Africa", ovvero "alleanza per una rivoluzione verde"). Uno dei suoi prodotti simbolo è il riso Nerica ("New Rice for Africa", "nuovo riso per l’Africa"). Un riso che dà alte rese solo se coltivato con tecniche industriali e sostanze chimiche. I semi (venduti in esclusiva da pochissime aziende che fanno soldi a palate) devono essere riacquistati ogni anno. Un sistema impraticabile per i piccoli contadini di Paesi come il Mali o la Liberia, che possiedono e si tramandano da generazioni decine di ecotipi tradizionali di riso. Chi c’è dietro questa strategia? I soliti nomi – la Fondazione Rockefeller, la Banca Mondiale, l’Usaid (l’agenzia per lo sviluppo internazionale degli Stati Uniti) – e poi un nuovo, potentissimo protagonista: Bill Gates, che ha deciso di dedicarsi alla solidarietà...

Il riso è solo un esempio: Agra sta promuovendo decine di varietà selezionate e brevettate (nuove varietà di cassava, sorgo, mais...); le aziende sementiere nascono come funghi; i contadini ricevono pacchetti di sementi e fertilizzanti (gratis per un anno, scontati per altri tre o quattro anni). E i prodotti tradizionali, che hanno nutrito generazioni di contadini africani, scompaiono.

Nel 1960 – all’alba della decolonizzazione – i Paesi africani producevano cibo a sufficienza per il consumo domestico, anzi riuscivano addirittura a esportare. Oggi, invece, sono costretti a importare la maggior parte degli alimenti. A Sandaga, il più grande mercato alimentare nell’Africa occidentale (nel cuore di Dakar) si possono comprare frutta e ortaggi portoghesi, spagnoli, italiani, greci a metà del prezzo degli equivalenti locali. E questo vale per tutti i prodotti: dalle ali di pollo degli allevamenti industriali europei al cotone americano al riso tailandese. L’agro-industria occidentale, grazie a giganteschi sussidi pubblici, piazza le proprie eccedenze sottocosto sui mercati poveri, rovinando i contadini locali.

In mare la situazione non è meno grave. Le flotte di Europa, Cina, Giappone e Russia devastano i litorali africani, comprando le licenze di pesca dai governi locali e pescando in modo indiscriminato. E così si disgregano le comunità costiere (in Africa vivono di piccola pesca nove milioni di persone): i pescatori si trasformano in operai per le fabbriche del pesce (gestite da compagnie straniere) e spesso sono costretti a vendere le barche a prezzi stracciati ai passeurs di esseri umani. Su queste piccole barche – inadatte alla navigazione in alto mare – ogni anno muoiono migliaia di disperati in cerca di una vita migliore.

Insomma, non possiamo fare altro che sottoscrivere le parole del sociologo Jean Ziegler: «Da una parte si organizza la fame in Africa, dall’altra si criminalizzano i rifugiati della fame». E quelle di Thomas Sankara, rivoluzionario e capo del governo del Burkina Faso per qualche anno, prima di essere ucciso nel 1987, in un agguato organizzato dall’attuale presidente: «Bisogna restituire l’Africa agli africani».

Postilla

Vendere la terra di tutti per qualche promessa di strade e “sviluppo” che, seppure mantenuta, favorisce pochi. Lo fanno in Africa i governi corrotti, a favore dei più ricchi. Ma non è quello che fanno i nostri governanti locali quando inseriscono nei piani urbanistici grandi operazioni immobiliari finalizzate solo allo “sviluppo del territorio” (cioè alla sua cementificazione)? L’Africa è una tragedia della civiltà nordatlantica provocata lontana dai suoi confini, ma è anche la metafora di ciò che accade da noi.

© 2025 Eddyburg