Decrescita o diverso modello di sviluppo? Le contraddizioni del capitalismo, i ritardi della sinistra sulla questione ambientale, l'assuefazione a considerarci tutti consumatori. E le lungimiranti analisi dell'economista Georgescu-Rogen che già negli anni '70 rifletteva su guerra, demografia, stili di vita
La crescita del prodotto è lo strumento perseguito per il superamento della crisi. Una politica criticata dall' ambientalismo più qualificato. Tu che ne pensi?
Credo che come valore principale si dovrebbe pensare non tanto alla crescita, quanto a un diverso modello di sviluppo economico, rispettoso della natura. Tuttavia diffido della parola "decrescita", mi pare sia un errore dei sostenitori di questa tesi, peraltro preparati, agguerriti, intelligenti ... Non si tratta di decrescita, ma di adottare stili di vita diversi. Se ciò fosse tecnicamente concepibile, bisognerebbe però vedere se l'umanità è disposta ad aderire a un modello di questo genere: e questo è un problema politico.
Già, la gente ha assunto la crescita ormai come norma di vita.
Certo. Bisogna però ricordare che, per tutta la prima fase del capitalismo, la crescita è stata provvidenziale; e lo è ancora nei paesi poveri. Il superamento delle condizioni di miseria del primo capitalismo, durato in pratica tutto l'800, è stato un fatto straordinario. Quanto poi alla capacità di crescita attuale va detto che non tutto il mondo ne è capace. Alcuni paesi - Cina, India, Brasile - lo sono, e ovviamente aggravano le condizioni ambientali. Ma nel resto del mondo, il capitalismo non è nemmeno più capace di crescita.
Infatti. C'è questo doppio problema. La crescita - a parte la sua ricaduta negativa sull'ecosistema - sembra non funzionare più...
Una delle ragioni per le quali non funziona più è che negli ultimi trent'anni le modalità della crescita capitalistica hanno generato disoccupazione e disuguaglianze: i ricchi sono diventati più ricchi, i poveri più poveri ... E questo ha provocato la crisi attuale: se i redditi da lavoro sono bassi, è bassa la domanda effettiva, l'economia non cresce e i capitali si spostano sulla finanza, con i risultati che abbiamo visto.
Il capitalismo non tiene più ?
Credo proprio che lo si possa dire: lo si vede. E al fondo credo ci sia una questione su cui era stato molto chiaro Marx, quando scrive, nelle ultime pagine del III libro del Capitale, che il «processo lavorativo è soltanto un processo tra l'uomo e la natura». Se ci si riflette, qualsiasi processo produttivo, per quanto complesso, mediato da macchine, ecc., alla fine è un rapporto tra uomo e natura.
Da tempo mi domando come sia possibile che grandi economisti, imprenditori, politici (a Davos, Cernobbio, Capri...) discutano del futuro del mondo senza nemmeno nominare l'ambiente. Come se le merci che producono non fossero fatte di natura...
Un fatto che qualsiasi persona di buon senso dovrebbe considerare ... Nelle forme primitive di economia il rapporto tra uomo e natura attraverso il lavoro era immediato ed evidente; ma anche il lavoro moderno, tecnicamente più complesso, alla fine risulta essere un rapporto, seppure mediato, tra uomo e natura. Allora si può dire che tendenzialmente si genera un conflitto tra lo sviluppo materiale della produzione e la sua forma sociale; e che così come ci sono dei limiti al saggio di sfruttamento del lavoro, oltre il quale si danno crisi economiche, così esiste un limite al saggio di sfruttamento della natura, oltre il quale si danno crisi della stessa natura.
D'altronde questa sproporzione tra disponibilità di natura e uso della medesima è un fatto recente, che appartiene al capitalismo, ma è enormemente aumentata nel dopoguerra, con la società dei consumi.
Certamente. E su questo credo si debba riflettere partendo dal pensiero di Georgescu-Roegen, un grande economista poco noto; il quale ci ricorda che anche il processo produttivo è regolato dalle leggi della termodinamica, e che per la legge dell'entropia la materia è soggetta a una dissipazione irreversibile. Ciò significa che nel lungo periodo, ma non tanto lungo, la decrescita non sarà una scelta, ma un fatto di natura: la legge della termodinamica funziona per tutti. Da ciò Georgescu non trae però conclusioni catastrofiche. Sì domanda invece: si potrebbe fare qualcosa? La sua risposta è sì: e si articola in un programma bioeconomico minimale, formulato in otto punti. Il primo afferma che dovrebbe essere proibita non solo la guerra, ma anche la produzione di ogni strumento bellico. E non solo per ragioni morali, ma perché le forze produttive così liberate potrebbero essere impiegate al fine di consentire ai paesi sottosviluppati di raggiungere rapidamente gli standard di una vita buona. Perché un progetto di diverso sviluppo deve essere condiviso a livello universale, altrimenti non può funzionare. Inoltre - afferma Georgescu - la popolazione mondiale dovrebbe ridursi fino a renderne possibile la nutrizione mediante la sola agricoltura organica. Ma oggi la questione demografica non viene nemmeno posta ...
Anzi, si lamenta la denatalità, e quindi la caduta di consumi come carrozzelle, pannolini , ecc.
Ormai dell'umanità, di tutti noi, si parla non più come di lavoratori, ma solo come di consumatori. E anche a questo proposito bisogna tenere presente che anche quando (se mai giorno verrà) le energie rinnovabili saranno davvero convenienti e sicure, i risparmi che ne avremo saranno molto minori di quanto ci si promette. Ogni spreco di energia deve dunque essere evitato: mentre normalmente noi viviamo troppo al caldo d'inverno, troppo al freddo d'estate, spingiamo l'automobile a troppa velocità, usiamo troppe lampadine ... Il programma di Georgescu dice poi molto altro: dovremmo rinunciare ai troppi prodotti inutili; liberarci dalla moda di sostituire abiti, mobili, elettrodomestici, e quanto è ancora utile; i beni durevoli devono essere ancor più durevoli e perciò riparabili. L'ultimo punto è che dobbiamo liberarci dalla frenesia del fare, e capire che requisito importante per una buona vita è l'ozio. Ozio - aggiungo io - inteso come tempo libero liberato dall'ansia e impiegato in maniera intelligente. E su questo credo non si possa non convenire, per rinviare il momento del disordine e nel frattempo vivere una vita migliore. Però, domanda politica: siamo pronti, noi per primi, ma soprattutto i potenti della terra, a fare nostro il programma di Georgescu?
Questa era la domanda che ti volevo porre. Anche perché Georgescu-Roegen scriveva negli anni '70, quando ancora il consumo non si era ancora imposto come fattore primo di definizione della vita ...
Infatti. E la cosa interessante è che il programma di Georgescu richiama un famoso scritto di Keynes (del 1930): Le prospettive economiche per i nostri nipoti. Molti di questi punti lì c'erano già: guerra, problema demografico, stili di vita, tempo libero ... Due autori di grande statura che avevano precocemente colto il punto, insistendo sulla desiderabilità di altri stili di vita... Anche se Georgescu ragiona in maniera più direttamente funzionale alla difesa della natura. Rimane comunque la domanda: siamo pronti?
Nessuno è pronto, temo. Ma, passando a un altro argomento: le sinistre sono sempre state assenti riguardo al tema ambiente, e talora su posizioni nettamente ostili. In ciò contraddicendo la loro stessa funzione, perché per lo più sono i poveri a pagare inquinamento, alluvioni, desertificazioni, tossicità diffusa ... Eppoi perché, insomma, le sinistre sono nate contro il capitalismo: non toccherebbe a loro per prime occuparsi di un problema che proprio dal capitalismo deriva?
Questa tradizione non ambientalista delle sinistre è dipesa anche da uno scarso approfondimento di questi temi. Mentre curiosamente l' hanno fatto un paio di capitalisti illuminati. Io di solito diffido della definizione di "capitalisti illuminati", tuttavia due debbo ricordarli. Uno, il senatore Giovanni Agnelli, che nei primi anni trenta sosteneva la necessità di una riduzione dell'orario di lavoro, in dura polemica con un preoccupatissimo Luigi Einaudi. L'altro, Henry Ford con la sua politica di alti salari (che molto interessò Antonio Gramsci): i lavoratori devono essere ben pagati, affinché possano comperare le merci che essi stessi producono.
Un'iniziativa che in sintesi già prefigurava la società dei consumi...
Certamente. Ma la cosa interessante è che Kojève, il grande intellettuale studioso di Hegel, russo d'origine poi approdato in Francia, diceva che Ford era il Marx del XX secolo: per aver colto la contraddizione e il rischio di lavoratori che non potevano comperare ciò che essi stessi producevano. Un tema caro anche a Claudio Napoleoni, quando diceva che il lavoratore si trova davanti, come nemico, ciò che egli stesso ha prodotto. Ford non era mica un sant'uomo, era durissimo coi sindacati, ma da un punto di vista strettamente economico aveva colto il problema. D'altronde nemmeno Keynes voleva abbattere il capitalismo: voleva farlo funzionare meglio, anzi salvarlo, come dichiarava esplicitamente. Mentre molti parlavano di lui come di un bolscevico, a cominciare proprio da Einaudi. Ma per tornare alla tua domanda circa le sinistre di oggi, la mia risposta è in interrogativo: dove sono oggi le sinistre?
Queste tante piazze piene di gente, di giovani soprattutto, queste manifestazioni sempre più frequenti, molto spesso centrate proprio su problemi ecologici: acqua, nucleare, rifiuti, distruzione di parchi, cementificazione di litorali .... Non significa nulla tutto questo? Se ci pensi, questi tanti conflitti "minori", diciamo, sono tutti riconducibili alla radice capitalista. Un'analisi in qualche misura approfondita scopre che la radice è sempre l'impianto capitalistico. Queste sinistre, possibile che non se ne accorgano? Che non vedano che questa potrebbe essere una base da cui partire?
Tutto questo è però molto frammentato, manca la sintesi, quindi manca quella che potrebbe essere la base concettuale e ideale di un progetto di sinistra ... Certo, questo dovrebbe essere il compito della sinistra: portare a sintesi tutte le istanze nobili e progressiste ... Ma questa è una sensibilità che mi pare manchi alle sinistre ... L'unico che aveva provato a ragionare di queste cose, era stato Berlinguer con il suo discorso sull'austerità. Era un discorso molto alto, che toccava proprio i temi di cui abbiamo parlato; tanto alto che non era stato capito, e letto addirittura come un invito ai compagni a tirare la cinghia.
GIORGIO LUNGHINI
Laureato all'università Bocconi di Milano, Giorgio Lunghini ha diretto per un decennio l'Istituto di economia e in seguito il Dipartimento di economia politica e metodi quantitativi all'università di Pavia, dove inoltre ha fondato il Dottorato di economia politica. Lunghini è membro direttivo del periodico "Economia Politica" e della "Rivista di storia economica". È stato membro del consiglio degli esperti economici della Presidenza del consiglio durante il governo D'Alema, e vicepresidente della Società italiana degli economisti per il triennio 2001/2004.
I suoi campi di interesse riguardano la teoria del valore, del capitale e della distribuzione, della critica dell'economia politica, come anche della teoria della crescita e dell'occupazione.
Tra le sue pubblicazioni citiamo "Valori e prezzi" (1993); "L'età dello spreco. Disoccupazione e bisogni sociali" (1995); "Riproduzione, distribuzione e crisi (1996); "Sul capitalismo contemporaneo: i nuovi compiti dello stato", scritto con M. Aglietta (2001)
Qui uno scritto di Giorgio Lunghini in eddyburg
Nel suo articolo del 20 ottobre, Guido Viale risponde ad Asor Rosa (il manifesto del 16 ottobre) che la sua (di Viale) proposta (alla Fiom) di riconversione ecologica del sistema produttivo e del modello di consumo dominanti è, si, un'utopia, ma un'utopia concreta, ovvero un progetto radicalmente alternativo allo stato di cose esistente, ma praticabile. Per la prima volta - dice Viale - la questione ambientale si combina in modo incontestabile con quella dell'occupazione; e con essa del reddito, dei consumi e dell'equità sociale. Il lungo articolo di Viale si propone, con la meticolosità e puntualità che tutti gli riconoscono, di dimostrare questa affermazione. Finalmente, potremmo dire, la questione ambientale non è più questione riservata agli ambientalisti, esclusiva dei movimenti verdi, roba da intellettuali. Le sorti del pianeta - piuttosto malconce - e quelle del lavoro sono le due facce di una stessa medaglia. Il re è nudo; la strada di questo sviluppo è diventata oggettivamente impraticabile e la Fiat non può non prenderne atto. A chi venderebbe questi milioni di auto prodotte in Italia o in Polonia? A Roma, solo per fare un esempio, ci sono 750 automobili per ogni mille abitanti; ce ne potrebbero stare di più? E se mai si, con quale effetti sulla circolazione e sull'inquinamento?
Per chiudere il cerchio, alla catastrofe ormai non solo più annunciata ma dimostrata, si aggiunge a mio avviso una riflessione che riguarda l'università come uno dei luoghi privilegiati della ricerca e della formazione della classe dirigente. La riconversione ecologica del sistema produttivo, dice Viale (chiedo scusa della semplificazione dovuta a ragioni di spazio) richiede una nuova classe dirigente essendo quella attuale, sia di parte politica che industriale non all'altezza della missione posta. A Viale non sfugge che organizzare una nuova classe dirigente non è compito da poco né di breve durata, a dispetto del tempo che invece è poco. Essa, infatti (cito sempre Viale) ha bisogno di saperi, sia tecnici, sia sociali. È vero che tali risorse sono abbondantemente diffuse tra la popolazione (comitati, associazioni, movimenti, organismi dell'altra economia, ecc) che semmai avrebbero bisogno di legittimazione (finanziamenti da parte dei Municipi, Regioni). Ma non è proprio (non solo, ma certo anche) dalle università che dovrebbero svilupparsi parte di questi saperi? Ecco che allora tutta la retorica di questi giorni sulla proposta di legge Gelmini fa un gran tonfo in terra. In quella proposta di legge si parla di vaghi criteri di valutazione, di merito, di eccellenza ma mai si chiarisce rispetto a che cosa. A che cosa, appunto? Nessuno lo sa.
La proposta di Viale (per esempio il passaggio dalle "grandi opere" di ingegneria civile alla salvaguardia del territorio e alla ristrutturazione e messa in sicurezza di impianti di edifici, per non parlare delle questioni connesse ai saperi umanistici, ecc) consentirebbe di dare un senso e un significato vero alla riforma universitaria. Solo in questo modo l'accademia potrebbe recuperare se stessa, uscire dal suo protezionismo, parlare al paese, ritrovare il suo dna originario e modernizzarsi veramente. Studiare le forme concrete del nuovo modello, dall'agricoltura, alla produzione di macchine, ai trasporti, alla produzione di informazioni, saperi, culture sostenibili. La tendenza dei sistemi moderni è quella della frammentazione, caratteristica, dice Marcello Buiatti, dei sistemi rigidi in momenti di crisi.
La frammentazione agisce innanzitutto a livello sociale creando una aumento continuo dei conflitti ma è presente anche a livello concettuale perché è prevalsa una visione meccanica del Mondo che ce lo fa pensare come costituito di pezzi indipendenti che possono essere modificati a volontà ad uno ad uno e poi assemblati dagli esseri umani secondo i loro progetti. Per questo tendiamo ad affrontare solo pezzi della realtà, dimenticandoci delle connessioni dei suoi componenti Questo atteggiamento è presente a livello globale e ci porta in questo momento storico a considerare come non collegate le crisi che stiamo affrontando: ambiente, lavoro, scuola e università. Ciò rende frammentaria ed inefficace lo nostra risposta , che diventa facilmente governabile dai poteri forti mondiali che invece una visione di insieme, per quanto alienata e pericolosa per la nostra stessa sopravvivenza, la posseggono e sanno come muoversi.
L'ottavo Rapporto Quars verrà presentato il prossimo 16 dicembre alle ore 15.00 alla X Conferenza Nazionale di Statistica che si terrà a Roma presso Palazzo dei Congressi all'Eur (Piazza Kennedy 1, sala G - 1° piano). Parteciperanno alla presentazione del Quars-2010: Giulio Marcon, Portavoce di Sbilanciamoci!; Pasquale De Muro, Professore di "Economia dello sviluppo umano" all'Università degli Studi "Roma Tre". Saranno presenti i rappresentanti delle organizzazioni aderenti alla campagna Sbilanciamoci!.
Dall'introduzione all'VIII Rapporto Quars
di Elisabetta Segre
L’affermazione del Pil come cartina di tornasole per lo sviluppo di un paese risale al secondo dopoguerra, un momento storico in cui una crescita economica senza precedenti si traduceva in un aumento significativo degli standard di vita della popolazione. Nell’era del consumo di massa, l’accresciuta disponibilità di beni e servizi, dopo le privazioni sofferte durante la guerra, sembrava essere il traguardo di una vita felice, e il Pil simbolo e misura di un livello di benessere sempre maggiore. Anche il dibattito sui limiti del Pil e sulla distinzione tra crescita economica e i concetti di benessere e sviluppo viene però da lontano. Lo si potrebbe addirittura far risalire al momento stesso della invenzione del Pil da parte di Kuznet nel 1934, che presentando il nuovo indicatore al congresso americano, affermava “Il benessere di una nazione (…) non può essere facilmente desunto da un indice del reddito nazionale”. Un passaggio fondamentale avvenne, poi, esattamente 20 anni fa, quando Amartya Sen e l’Undp presentarono l’Indice di Sviluppo Umano che sanciva l’era della multidimensionalità dello sviluppo. L’Isu combinava allora e combina tuttora, solo con qualche lieve modifica, un insieme di indicatori relativi al reddito, alla salute e all’educazione nella creazione di un indicatore composito. La capacità che questo indicatore ha di “raccontare”, attraverso una misura sintetica, un’idea di sviluppo basata su una visione multidimensionale non ha eguali, soprattutto per l’importanza mediatica e la diffusione che l’Isu ha avuto in tutto il mondo. La classifica che ne scaturisce cattura sia l’attenzione dei media che quella del pubblico: sebbene non sia privo di criticità metodologiche, è innegabile che questo indicatore abbia aperto la strada a un dibattito molto acceso, offrendo lo spunto per la costruzione di ulteriori indicatori. Gli anni novanta hanno, infatti, visto proliferare nuovi indicatori sviluppati principalmente in ambito accademico.
Volendo sintetizzare in poche righe due decenni di dibattito e centinaia di indicatori sviluppati, si può dire che la ricerca si è articolata attorno a tre questioni principali. La prima, probabilmente la più importante, riguarda le variabili di cui tenere conto quando si decide di trovare una misura per il benessere, lo sviluppo, il progresso e la loro sostenibilità (può sembrare banale ma la scelta di variabili è strettamente connessa al modello sociale, economico e ambientale che si vuole rappresentare). La seconda questione ha natura metodologica e si chiede se sia necessario costruire un indicatore sintetico mediaticamente efficace (ovvero un indicatore che concentri tutta l’informazione in un solo numero come il Pil) o se sia invece più coerente rappresentare il fenomeno in termini disaggregati attraverso un set di indicatori.
La terza, infine, anch’essa di natura metodologica, ruota intorno alla scelta del metodo di eventuale aggregazione: se sia quindi più opportuno continuare lungo la scia del Pil, che usa i prezzi come pesi, misurando il progresso in termini “monetari” e correggendo il Pil secondo obbiettivi ampi di benessere, o sia necessario stabilire un sistema di pesi anch’esso alternativo tenendo conto di aspetti e indicatori non monetizzabili. Nel nuovo millennio il dibattito ha subito un’accelerazione, influenzando sempre di più il dibattito politico ed economico, grazie ad iniziative prestigiose come il Global Project “Measuring the Progress of Societies” dell’Ocse, la conferenza Beyond Gdp tenutasi nel 2007 al Parlamento europeo, la commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi “Measurement of Economic Performance and Social Progress” formata da 5 premi Nobel e numerosi altri accademici di fama internazionale, e la comunicazione dell’agosto 2009 in cui la Commissione europea ha illustrato cinque interventi chiave per integrare gli indicatori di progresso nei sistemi ufficiali di statistiche usati dalla politica. Oggi il dibattito si è allargato ulteriormente, dal G20 al primo ministro inglese Cameron, dall’Aspen Institute al presidente americano Obama, dal Corriere della Sera al New York Times.
La crisi finanziaria, poi, ha dato il colpo di grazia al paradigma della crescita. L’attenzione spasmodica alla creazione di valore, seppure solo finanziario, ha fatto perdere di vista alcuni fondamentali dell’economia che più del Pil significano benessere. È lo stesso rapporto Stiglitz a mettere in luce come si sarebbe potuto intervenire alla radice della crisi se si fosse prestata attenzione alla distribuzione del reddito, ai consumi delle famiglie, alla ricchezza, o anche a semplici aggregati macroeconomici già presenti in contabilità nazionale come il reddito disponibile delle famiglie. Dal 2000 quest’ultimo si è ridotto del 4% per il quintile più povero della popolazione a fronte di una crescita del 9% del Pil pro capite: ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri. Di fronte ad un sistema sempre più insostenibile dal punto di vista economico (le continue crisi finanziarie, la dipendenza dalla volatilità dei mercati), sociale (la crisi colpisce soprattutto le categorie più esposte: giovani, donne, precari, immigrati, lavoratori a basso reddito) ed ambientale (si guardi agli effetti dei cambiamenti climatici), ci si è accorti di aver preso male la mira, e che il Pil non era tutto.
Aggiustare il tiro vuol dire definire nuovi obiettivi e nuovi indicatori che ci dicano dove stiamo andando, vuol dire ridefinire le priorità e far sì che queste siano condivise. Esiste, però, una consapevolezza che accomuna tutti quelli che a vario titolo si occupano di misurare il benessere e la sostenibilità: anche se gli esperti dovessero mai accordarsi su una misura condivisa questo non sarebbe la garanzia di un passaggio a nuove politiche e a nuovi obiettivi. Non è quindi solo una questione di metodo ma anche e soprattutto una questione culturale e politica. Occorre quindi favorire il passaggio da una discussione prettamente tecnica ad un’azione di natura politico-culturale che abbia efficacia sulle scelte istituzionali, normative ed economiche. È necessario a tal fine costruire dei luoghi di confronto e discussione per arrivare a definire le priorità in un’ottica di benessere e per cercare di ottenere un maggiore impegno da parte delle istituzioni affinché le politiche, guidate da indicatori diversi, si prefiggano obiettivi diversi. Negli Stati Uniti tale luogo sembra formarsi attorno all’organizzazione State of the Usa.
In Italia per ora si è mossa -insieme ad altre iniziative- la campagna Sbilanciamoci che, consultando un ampio gruppo di rappresentanti della società civile, delle università e delle istituzioni ha redatto un documento dal titolo “Benessere e sostenibilità” (scaricabile da www.sbilanciamoci.org) che sollecita governo e istituzioni ad adottare un approccio rinnovato nell’uso degli indicatori economici, sociali e ambientali al fine di monitorare costantemente cosa succede nel paese in termini di benessere e sostenibilità. Il tavolo di lavoro promosso da Sbilanciamoci! non si propone in questa fase di definire l’elenco degli indicatori da utilizzare, ma attraverso proposte di carattere tecnico e di carattere culturale propone un percorso da seguire nei prossimi mesi per mettere le istituzioni in grado di affrontare la sfida del superamento del Pil rendendo espliciti gli obiettivi internazionali che dobbiamo raggiungere sul piano sociale e ambientale, dotando il bilancio dello stato di indicatori che monitorino gli effetti delle politiche, sviluppando una contabilità satellite ambientale, sociale e di genere, rafforzando la produzione di dati da parte dell’Istat, sensibilizzando i media e, infine, rilanciando un processo pubblico di coinvolgimento di tutti i principali attori del paese. Il documento prevede richieste specifiche rivolte al governo, al parlamento, agli enti locali e all’Istat tra cui: rafforzare il lavoro dell’Istat sugli indicatori di benessere, recepire in Italia le indicazioni della Commissione Stiglitz, far vedere la luce ad un Bilancio dello stato corredato da un set di indicatori sociali ed ambientali condivisi e oggetto di dibattito pubblico, varare finalmente la legge sulla contabilità ambientale. Sempre in quest’ottica di ridefinizione degli indicatori da utilizzare per indirizzare e monitorare le politiche, si inquadra il lavoro che la campagna Sbilanciamoci! realizza ormai da otto anni attraverso l’elaborazione del Quars (Qualità Regionale dello Sviluppo), un indicatore composito che misura la qualità dello sviluppo delle regioni italiane. Sbilanciamoci! ha deciso di proporre una definizione delle priorità attraverso un processo di consultazione della società civile italiana, ed in particolare delle organizzazioni aderenti alla campagna, che in questo modo forniscono le priorità attraverso la scelta del set di indicatori. Si tratta di indicazioni importanti legate ad alcuni temi fondamentali: l’ambiente e il welfare, i diritti civili e l’economia, il lavoro e la partecipazione. Il Quars, infine, rappresenta uno strumento utile per due ordini di ragioni. Innanzitutto perché permette al policy maker di monitorare e indirizzare lo sviluppo del territorio in un quadro di sostenibilità del benessere. In secondo luogo, l’approccio utilizzato rende il Quars uno strumento capace di catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica su una serie di temi fondamentali per il benessere di un territorio, ma che troppo spesso vengono messi in ombra da un approccio economicista.
Testo tratto dall'introduzione all'VIII Rapporto Quars, che sarà presentato a Roma il 16 dicembre
La ricchezza (vera) delle regioni
di Anna Villa
Nell'ottava edizione del Rapporto Quars, la classifica del benessere sostenibile. In testa il Trentino Alto Adige, scendono Lazio e Lombardia, restano i problemi del Sud. Il Rapporto sarà presentato il 16 dicembre a Roma alla Conferenza nazionale di Statistica.
Sono passati vent’anni dalla prima edizione dell’Indice di Sviluppo Umano e otto dal primo rapporto Quars, anni in cui il paradigma della crescita è stato messo fortemente in discussione. Una diretta conseguenza della crisi del modello di sviluppo basato sulla crescita economica è stato l’insorgere di nuove questioni su parametri, modelli e indicatori per misurare il benessere, che ha dato vita negli anni a un dibattito molto vivace e a molti studi e ricerche, e si è assistito a un proliferare di indicatori alternativi al Prodotto interno lordo, sia nella forma di indicatori sintetici che in quella di vere estensioni del Pil. Il filo rosso che lega questi indicatori è quello di offrire una misura quantitativa che, al di là della crescita economica in senso stretto, tenga in considerazione gli aspetti sociali, ambientali e distributivi che rappresentano l’essenza del concetto della qualità dello sviluppo. Il Pil misura la ricchezza delle nazioni, è vero, ma non dà nessuna informazione sulla qualità sociale di un territorio, sulla sostenibilità ambientale, né sulla dimensione di equità e di ridistribuzione delle risorse. In questo contesto si inserisce il lavoro della campagna Sbilanciamoci! e la decisione di realizzare il Quars, un indicatore di benessere sostenibile. A differenza del Pil, il Quars tenta di coniugare diversi aspetti dello sviluppo al fine di ottenere una classifica delle regioni italiane che premi quelle in cui lo sviluppo economico è accompagnato a un elevato benessere, inteso come qualità ambientale e sociale.
Ambiente, Economia e Lavoro, Istruzione e Cultura, Diritti e Cittadinanza, Pari opportunità, Salute, Partecipazione: sono queste le dimensioni che definiscono il benessere sostenibile e misurano lo sviluppo di qualità secondo il Quars. Ed è dalla media semplice di questi sette macro indicatori che si ottiene la classifica finale delle regioni italiane, classifica che non favorisce una dimensione a scapito delle altre, ma attribuisce a tutte lo stesso valore e peso. È chiaro che questa scelta esplicita, ancora una volta, il modello che si vuole rappresentare, e attraverso di esso la traiettoria di sviluppo su cui i territori possono incamminarsi per incrementare il benessere in modo sostenibile.
Obiettivo del Quars, infatti, è non soltanto quello di offrire una fotografia del benessere che superi l’equazione ricchezza = benessere, ma anche monitorare e indirizzare lo sviluppo di un territorio in un quadro di sostenibilità del benessere, che includa aspetti di redistribuzione ed equità.
Le variabili che compongono il QUARS sono in tutto 41, raggruppate nelle 7 dimensioni
- Ambiente: valutazione dell’impatto ambientale che deriva dalle forme di produzione, distribuzione, consumo e buone prassi intraprese per mitigarne gli effetti negativi.
- Economia e Lavoro: condizioni lavorative e di reddito garantite dal sistema economico e dalle politiche redistributive eventualmente messe in atto.
- Diritti e Cittadinanza: servizi ed inclusione sociale di giovani, anziani, persone svantaggiate e migranti.
- Pari opportunità: assenza di barriere basate sul genere alla partecipazione alla vita economica, politica e sociale.
- Istruzione e Cultura: partecipazione al sistema scolastico, qualità del servizio, istruzione della popolazione, domanda e offerta culturale.
- Salute: qualità ed efficienza dei servizi sanitari, prossimità, prevenzione
- Partecipazione: partecipazione politica e sociale dei cittadini.
Nella classifica del Quars si distinguono nelle prime posizioni le regioni del Centro e del Nord (dove alcune regioni come il Veneto e la Lombardia evidenziano comunque difficoltà e lacune), mentre nella parte bassa seguono le regioni del Centro e del Mezzogiorno. Anche quest’anno la soglia dei valori positivi del Quars è al livello dell’undicesima posizione occupata dalla Liguria. Al di sotto di questa posizione si susseguono le regioni che ottengono risultati inferiori alla media. Questa soglia, ancora una volta, torna a marcare l’evidente divario tra le regioni settentrionali e quelle meridionali. Tuttavia si riscontra un ri-posizionamento delle regioni centrali: se Lazio e Abruzzo continuano nel loro ruolo di cuscinetto fra le due Italie, è evidente che l’Umbria, con un guadagno di ben 4 posizioni, ha compiuto un notevole progresso verso la qualità del benessere, avvicinandosi alle prime posizioni della classifica e attestandosi su un livello pari a quello di Marche e Veneto. Le piccole regioni, quindi, sembrano essere quelle in cui le diverse dimensioni del benessere stanno andando in una direzione di sostenibilità.
Anche quest’anno il Trentino Alto Adige si conferma alla prima posizione dell’indice grazie ai risultati eccellenti ottenuti in Ambiente, Economia e Lavoro, e Partecipazione, ed alle buone prestazioni nelle sezioni sui Diritti e Cittadinanza e sulle Pari Opportunità. Al secondo posto si posiziona l’Emilia Romagna, con risultati ben al di sopra della media per tutti i macro-indicatori, eccezion fatta per quello relativo all’Ambiente che si colloca leggermente al di sotto di essa. Recupera due posizioni rispetto allo scorso anno e si piazza al terzo posto la Toscana: una regione che eccelle nelle pari opportunità (sempre relativamente al contesto regionale), nella dimensione economica e nel livello d’istruzione, e raggiunge buoni risultati in termini di partecipazione e qualità ambientale. La Valle d’Aosta si colloca al quarto posto, perdendo di una posizione rispetto al 2009. Questa regione riconferma valori fra i più alti della penisola in Pari opportunità e Ambiente, e continua un percorso di miglioramento nei diversi macro-indicatori, avanzando soprattutto nella dimensione dei Diritti; al contrario si riscontra un andamento negativo nell’indice relativo alla Salute e, anche quest’anno, il peggiore risultato in Istruzione e cultura. Il Friuli Venezia Giulia perde una posizione collocandosi al quinto posto; la regione conferma ottimi risultati in Salute, Diritti e cittadinanza e Economia e lavoro, a fronte però di valori leggermente al di sotto della media in Ambiente e Pari opportunità. Umbria, Marche e Veneto seguono con praticamente lo stesso risultato in termini aggregati in cui si distinguono però situazioni differenziate: per l’Umbria, che ricordiamo ha fatto un salto di ben 4 posizioni nella classifica, sono punti di forza Salute, Istruzione e Pari opportunità, mentre sono leggermente critici i dati sulla qualità ambientale e sulla Partecipazione. Le Marche ottengono risultati particolarmente buoni in Pari opportunità e Diritti, mentre il macro-indicatore Ambiente è di pochissimo al di sotto della media; infine il Veneto si colloca molto bene negli indicatori relativi a Economia, Salute e Partecipazione ma a un livello al di sotto della media in Istruzione e Cultura. La Lombardia perde un posto nella classifica del Quars: dalla nona posizione in poi inizia quella zona grigia della classifica dove a risultati buoni o molto buoni, si alternano performance poco o molto inferiori alla media. Il caso del Piemonte è abbastanza particolare: questa regione ha perso tre posizioni nella classifica del Quars di quest’anno, tuttavia i risultati ottenuti sono positivi in tutte le dimensioni, a testimonianza di come pur restando una regione piuttosto equilibrata, il Piemonte abbia perso leggermente terreno rispetto alle altre regioni italiane. La Liguria chiude la tornata di regioni che ottengono un Quars positivo: anche in questa regione le performance negative devono essere attribuite alla componente ambientale, mentre Diritti e Salute sono le dimensioni in cui ottiene i migliori piazzamenti.
Apre la parte negativa della classifica l’Abruzzo con un risultato praticamente in media, dal momento che quattro dimensioni su sette si collocano al di sopra della media e il valore del Quars è prossimo allo zero. Il Lazio quest’anno perde una posizione: anche se si colloca ancora una volta al primo posto in Istruzione e cultura, si evidenzia il trend negativo riguardo a Salute, Diritti e cittadinanza, Ambiente e Pari opportunità, anche se quest’ultimo macro-indicatore è molto prossimo alla media. Sardegna, Molise e Basilicata seguono con valori pressoché analoghi: la performance di queste regioni è simile, con risultati in prevalenza negativi ma con qualche dato sopra la media. Nel caso della Sardegna e della Basilicata il macroindicatore Ambiente si colloca sopra la media complessiva, mentre per il Molise i dati positivi sono quelli relativi a Diritti e Cittadinanza e Istruzione e Cultura.
Il cluster di regioni che segue e chiude la classifica del Quars mette in luce per l’ennesima volta quanto sia necessario intervenire nei territori del mezzogiorno per migliorare il livello di benessere e sostenibilità. Le restanti regioni, Puglia, Calabria, Sicilia e Campania, presentano valori al di sotto della media in tutte le dimensioni del Quars, risultato che ormai si conferma da tempo, andando così ad occupare, nell’ordine, le ultime quattro posizioni dell’indice. Su 41 indicatori utilizzati per la costruzione del Quars 2010 sono pochissimi i casi in cui queste regioni mostrano delle performance positive nel panorama italiano.
[omissis]
Come già ribadito, il Quars è un indicatore finalizzato a mettere in evidenza l’insufficienza del livello di reddito (specialmente se misurato in termini di PIL pro capite) come unica misura del benessere e come base per descrivere il livello e la qualità di sviluppo di un territorio. Per Sbilanciamoci! la qualità dello sviluppo va oltre e considera altri indicatori: la ridistribuzione del reddito, la sostenibilità ambientale, i diritti del lavoro, la dimensione delle pari opportunità, i diritti di cittadinanza, la partecipazione… Mettendo a confronto il Quars con il PIL pro capite a livello regionale si evidenzia una differenza di performance particolarmente evidente per alcuni territori, in particolare Lazio e Lombardia registrano un calo rispettivamente di ben 8 posizioni e 6 posizioni, mentre guadagnano svariate posizioni in senso positivo le regioni del Centro, Umbria, Toscana e Marche, con una risalita rispettivamente di 6, 5 e 4 posizioni.
Alla luce di queste considerazioni, dunque, diventa importante sapere come la ricchezza economica viene utilizzata e indirizzata, quali politiche vengono sostenute dalla spesa pubblica e quale peso ed efficacia hanno una serie di interventi e di scelte che di per sé non possono essere misurate in termini puramente economici. Uscire dalla dittatura del Pil non è facile, eppure Sbilanciamoci! in questi anni ha elaborato uno strumento utile alla società civile, in quanto strumento di pressione politica, e ai policy maker, in quanto strumento di indirizzo e monitoraggio delle politiche. Ed è proprio sulle politiche che si giocherà la partita. Sapranno promuovere uno sviluppo capace di futuro?
L'effetto congiunto della globalizzazione, della crisi economica e dei cambiamenti climatici (tre processi interdipendenti) mette a rischio se non la sopravvivenza del nostro pianeta, certamente quella dell'umana convivenza. Stiamo entrando in un'epoca di grandi sconvolgimenti: ambientali, economici, geopolitici. Possono aprire la strada a immani catastrofi, al moltiplicarsi delle guerre, all'affermarsi di regimi sempre più autoritari, all'aggravarsi delle condizioni di vita di miliardi di esseri umani. Ma grandi sconvolgimenti comportano anche grandi cambiamenti: dentro i quali c'è spazio per prospettive che fino a pochi anni fa potevano sembrare utopiche. Per questo occorre tornare a pensare alla grande; osare imboccare vie nuove; confidando che quello che vogliamo noi stanno cercando di farlo, in condizioni e con modalità anche molto diverse, milioni e forse miliardi di altri come noi; e che le nostre strade potranno incontrarsi.
Trent'anni di predominio incontrastato del "pensiero unico" hanno rinchiuso le classi dominanti di tutto il mondo in un eterno presente, rendendole incapaci di qualsiasi elaborazione di ampio respiro. Verità e capacità di pensare il futuro sono rimaste appannaggio di chi si ribella allo stato di cose esistente.
Chi guarda al futuro dal punto di vista di un mondo diverso sa ormai, in termini generali, molte cose su come deve cambiare il mondo per sopravvivere e permettere a tutti di vivere meglio. Sono "cose" che riguardano l'energia (l'efficienza energetica e le fonti rinnovabili), l'agricoltura (biologica, multicolturale, multifunzionale) e la sovranità alimentare, il recupero integrale degli scarti e dei rifiuti, la salvaguardia del territorio. Sono tutte pratiche tendenzialmente a km0 (cioè che comportano un progressivo riavvicinamento di produzione e consumo), ciascuna delle quali ha una irrinunciabile dimensione sociale, orientata all'equità e all'accoglienza. Sappiamo di avere il pianeta Terra in prestito dalle generazioni future e di gestirne una parte (quella dove abitualmente viviamo) per conto di tutti. Non siamo, cioè, e non ci consideriamo, "padroni in casa nostra". Il nostro concetto di sovranità è differente: si chiama autonomia, autogoverno, condivisione.
Le pratiche dei movimenti cresciuti in questi anni sono sempre più declinazioni di questo approccio e di quei saperi in contesti locali, tra loro altamente differenziati; ma per il loro riferimento a un pensiero globale, quelle pratiche non corrono il rischio di cadere in un localismo corporativo senza respiro e senza sbocchi. Questa declinazione di un pensiero globale a livello locale è ovviamente più facile (o meno difficile) su questioni che riguardano l'assetto del territorio, perché la dimensione locale gli è intrinseca: non a caso è stata praticata per prima dagli urbanisti e ha investito soprattutto questioni come edilizia, gestione delle acque, dei rifiuti, della mobilità, delle colture, degli spazi pubblici.
Più difficile è questa declinazione quando essa riguarda i grandi flussi planetari di materiali, semilavorati e beni fisici che sono e restano l'essenza della produzione industriale. Per questo, intorno alla cosiddetta green economy, cioè alla riconversione ambientale dell'apparato produttivo permane una sostanziale ambivalenza. Molti dicono: «la green economy la sta già facendo, o si metterà presto a farla, il capitale; per salvaguardare i suoi profitti». Non è così. Anche se la fa, e quando la fa, il grande capitale di green economy ne fa poca: troppo poca; tanto è vero che non riesce a darsi regole che permettano di frenare la corsa del pianeta verso il baratro dei cambiamenti climatici. E la fa male; sfruttando quanto più può lavoratori e ambiente (l'esempio più perverso di questo approccio è forse quello degli agrocarburanti). Noi invece dobbiamo agire perché di green economy se ne faccia molta (e presto; prima che i guasti del pianeta diventino irreversibili) e bene: cioè affrontando i problemi nella loro dimensione sociale.
"Bene" vuol dire che il lavoro deve essere non oggetto di questa trasformazione, ma attore, insieme ad altri attori: quelli che concorrono a costituzione socialmente determinata di un territorio. Per questo il lavoro è la vera frontiera della conversione ecologica. Per molti questa è un'acquisizione recente: che il lavoro è un "bene comune" lo ha detto la Fiom, sotto l'incalzare della crisi occupazionale - e del ricatto di Pomigliano - e ne ha fatto il fulcro della manifestazione del 16 ottobre. E' un'affermazione impegnativa.
Ma che cos'è un bene comune? Penso che si debba rifuggire da qualsiasi classificazione che ne faccia un catalogo chiuso, definito una volta per sempre. Perché il confine che delimita l'area dei beni comuni è mobile; è il frutto di un contenzioso permanente - che a volte sfocia in lotta, altre volte in organizzazione e in progetto, e altre ancora in tutte e tre le cose - per sottrarre a una gestione privata valori d'uso suscettibili di essere condivisi. Ma il risultato di questo processo non è l'acquisizione o il reintegro del bene conteso nell'area della proprietà pubblica; anche se spesso, ma non sempre, questo è un passaggio ineludibile. Perché condivisione vuol dire partecipazione della collettività alla gestione del bene conteso: in forme che dipendono, sì, dalla sua natura e dalle sue dimensioni; ma anche, e soprattutto, dall'intensità dell'impegno della "cittadinanza attiva"; o di una sua parte. Per questo forse nessun bene sarà mai veramente "comune" fino in fondo; ovvero, ci sarà sempre la possibilità di rendere più intenso e profondo questo suo carattere.
Ora, affermare che il lavoro è un bene comune è una proposizione che riguarda certamente, e in primo luogo, la salvaguardia della dignità del lavoro e dei diritti che una società deve garantire ai lavoratori; ma significa anche, e soprattutto, che le modalità in cui il lavoro viene impiegato, le finalità di questo impiego e, conseguentemente, il prodotto stesso (bene o servizio) di quel lavoro sono questioni che possono, e dovrebbero, veder coinvolti innanzitutto i lavoratori stessi; ma anche tutta la comunità che insiste sul territorio con cui quel lavoro si intreccia: sia che ne dipenda per il reddito che esso genera, sia che ne sopporti il carico ambientale che esso comporta. Basta enunciare questo proposito per capire quanto siamo lontani - e quanto ci stiamo allontanando - da un mondo in cui il lavoro sia effettivamente un bene comune. Ma anche che l'inclusione del lavoro nel "catalogo" dei beni comuni è, come per tutti gli altri, un processo e non un'acquisizione definitiva; un work in progress che procede per tappe, per avanzate e arretramenti, e che probabilmente non avrà mai fine.
Ma è il lavoro, comunque, la vera frontiera della conversione ambientale dell'apparato produttivo e dei modelli di consumo. E' una frontiera su cui pochi di noi - di chi è impegnato in progetti e in lotte per la salvaguardia del territorio e della convivenza - si ritrovano a pieno titolo (diverso è il caso dei milioni di contadini e delle migliaia di comunità rurali impegnate a rivendicare e perseguire il proprio autogoverno).
E' facile - e per me sacrosanto - dire meno inquinamento, meno traffico, meno auto. Ma è difficile dirlo ai lavoratori di una fabbrica di automobili in crisi. Eppure è di qui che occorre passare. E lo si può fare solo prospettando, e sottoponendo alla loro verifica, al loro coinvolgimento, ai loro suggerimenti, una proposta alternativa.
L'importanza della vicenda della Fiat di Pomigliano è questa. Certo sono in gioco dignità del lavoro e salvaguardia dei diritti e della salute dei lavoratori: tutte cose senza le quali la democrazia scompare. Ma collocata tra la chiusura certa dello stabilimento di Termini Imerese e il depotenziamento altrettanto certo di quello di Mirafiori, e di fronte a un ricatto che dice "datemi tutto in cambio di niente; poi si vedrà", tutti hanno capito, anche se pochi hanno ammesso in modo esplicito - e non sempre per colpa loro; ma per le difficoltà connesse al trovarsi, più di altri, sulla "frontiera" del lavoro - che la partita che si gioca è molto più alta e non riguarda solo quali modelli e quante vetture ogni stabilimento debba produrre.
La vera questione è: ci saranno ancora in Italia fabbriche in grado di produrre automobili? E quante? E per quanto tempo? E se dovessero chiudere, come è stato prospettato, si possono sviluppare in Italia produzioni industriali che hanno più chance di successo? Magari perché rappresentano l'avvenire; perché non danneggiano l'ambiente; perché possono avvantaggiarsi di un mercato locale, senza costringere i lavoratori a competere con altri lavoratori, a suon di ribassi, in una gara senza sosta verso il sempre peggio? E come coinvolgere in una svolta del genere i lavoratori di quelle fabbriche e le comunità dei territori che ad esse fanno riferimento? (www.guidoviale.blogspot.it)
Vedi anche l'eddytoriale 144
Per i quindici-venti anni (1975-1995 circa) in cui il consenso con il discorso di Washington (*) dominato nel sistema-mondo, la povertà - che pure andava aumentando a passi da gigante - era una parola tabù. Ci avevano spiegato che l'unica cosa che contava era la crescita economica e che l'unica strada per arrivare alla crescita economica era quella del «mercato» la cui logica doveva prevalere senza interferenze da parte degli «statisti» - salvo naturalmente quelli del Fondo monetario internazionale (Fmi) e del tesoro statunitense.
Dalla Gran Bretagna la signora Thatcher aveva lanciato il suo famoso slogan: «Non c'è alternativa», col che intendeva dire che non c'era alternativa agli Stati Uniti e, immagino, al Regno Unito. I paesi derelitti del Sud del mondo dovevano abbandonare la loro ingenua speranza di decidere del proprio destino. Così facendo un giorno (ma chi poteva dire quando?) sarebbero stati premiati dalla crescita, altrimenti erano destinati - posso osare dirlo? - alla povertà.
Fondo monetario e morbillo
Ma i giorni di gloria del consenso con Washington sono ormai lontani e per gran parte dei paesi del Sud del mondo le cose non sono migliorate - anzi -, e la rivolta era nell'aria. I neo-zapatisti si sono sollevati nel Chiapas nel 1994. Nel 1999 a Seattle i movimenti sociali hanno portato a un impasse l'incontro dell'Organizzazione mondiale del commercio (impasse da cui non si è mai ripresa). E nel 2001 nasceva a Porto Alegre il World Social Forum, destinato a una rapida espansione.
Quando nel 1997 esplose la cosiddetta crisi asiatica, causando gravi danni economici nell'est e nel sud-est asiatico, ed estendendosi a Russia, Brasile e Argentina, il Fmi ha tirato fuori dalla tasca la sua lista di richieste standard da imporre a quei paesi se volevano aiuto. La Malesia, che ebbe il coraggio di dire no, fu il paese che di fatto ne uscì più velocemente. L'Argentina, ancora più audacemente, rispose che avrebbe pagato il 30% sul debito o non se ne faceva niente. Invece l'Indonesia si piegò e ben presto la lunga e apparentemente stabile dittatura di Suharto fu rovesciata da un'insurrezione popolare. Allora niente meno che Henry Kissinger se la prese col Fmi criticandone l'ottusità. Per il capitalismo mondiale e per gli Stati Uniti era più importante mantenere al potere un dittatore amico in Indonesia che non far rispettare a un paese il dettato di Washington. In una lettera aperta del 1998, Kissinger accusava l'Fmi di comportarsi «come un medico che si specializzi in morbillo e poi voglia curare ogni male con lo stesso farmaco».
Prima la Banca Mondiale e poi l'Fmi capirono la lezione: forzare i governi ad adottare le formule neo-liberali come politica (e come prezzo dell'aiuto finanziario quando il loro bilancio fa acqua) può produrre pessime conseguenze politiche. Dopotutto si scopre che delle alternative esistono: la gente si può sollevare.
Masse che non stanno al loro posto
Quando scoppiò la bolla successiva e il mondo entrò in quella che adesso viene chiamata la crisi finanziaria del 2007 o 2008, l'Fmi si fece ancora più comprensivo nei confronti di quelle spiacevoli masse che non sanno stare al loro posto e - ma guarda un po' - scoprì la «povertà». Anzi non solo scoprirono la povertà ma si attrezzarono per fornire programmi per «ridurre» il livello della povertà nel Sud del mondo.
Vale la pena di capire la loro logica.
L'Fmi pubblica una rivista patinata trimestrale dal nome Finance & Development. Non si rivolge agli economisti professionisti ma a un più vasto pubblico di politici, giornalisti e imprenditori. Il numero del settembre 2010 riporta un articolo di Rodney Ramcharan che dice tutto già dal titolo: «La disuguaglianza è insostenibile».
Rodney Ramcharan è un «senior economist» del dipartimento africano del Fmi. E ci spiega come - è questa la nuova linea dell'Fmi - le «politiche economiche che si limitano a concentrarsi sui tassi di crescita standard potrebbero essere pericolosamente ingenue». Nel Sud del mondo la forte disuguaglianza può «limitare gli investimenti nel capitale fisico e umano che favoriscono la crescita ed aumentare la tendenza a una ridistribuzione sostanzialmente inefficiente».
Storcere il braccio alle élite
Ma c'è di peggio: la forte disuguaglianza «dà voce ai ricchi in misura ben più larga che alla sua disomogenea maggioranza». E questo a sua volta «può distorcere ulteriormente la distribuzione del reddito e ossificare il sistema politico, portando a conseguenze ancor più gravi nel lungo periodo». Sembra che il Fmi abbia finalmente dato ascolto a Kissinger. Devono preoccuparsi, in particolare nei paesi dove la disuguaglianza è più marcata, delle masse straccione e anche delle élite che tendono a ritardare il «progresso» per mantenere il loro potere sul lavoro non specializzato.
Forse che l'Fmi è diventato il portavoce della sinistra mondiale? Non siamo così ingenui. Quello che vuole, e che vogliono anche i capitalisti più sofisticati di tutto il mondo, è un sistema più stabile in cui prevalgano i «loro» interessi di mercato. E questo richiede di storcere il braccio alle élite del Sud del mondo (e perfino a quelle del Nord del mondo) perché cedano un po' dei loro famigerati profitti investendoli nei programmi per la «povertà» in modo da calmare la massa sempre più oceanica dei poveri e smorzare le idee di rivolta.
Può darsi che sia troppo tardi perché una simile strategia funzioni. Le fluttuazioni caotiche sono immense. E «la disuguaglianza insostenibile» cresce di giorno in giorno. Ma l'Fmi e quelli di cui rappresenta gli interessi non smetteranno di provarci.
Traduzione di Maria Baiocchi. Copyright by Immanuel Wallerstein distributed by Agence Global
(*)Per comprendere che cos’è il “Washington consensus”, tradotto nell’articolo con l’espressione “consenso con il discorso di Washington”, vedi ad. es. qui su wikipedia - n.d.r
Il decennio in corso ha appiattito la politica dell'Unione Europea al potere dei centri finanziari e del sistema dell'euro gestito dalla Bce. L'Ue assomiglia sempre più agli Stati uniti, dove gruppi finanziari e militari di potere sono in grado di assumere la governance dell'intero sistema. La turbolenza finanziaria programmata e provocata da questi gruppi, un atto predatorio organizzato mirante all'espropriazione del risparmio delle persone, è stata una dimostrazione di arroganza che gli eventi successivi hanno pienamente confermato. Così come è stato confermato il loro controllo politico e finanziario sulle istituzioni degli Stati europei. Solo pochi mesi fa l'impressione che le istituzioni europee avrebbero fatto qualcosa per introdurre una maggiore trasparenza e un controllo dei centri e delle istituzioni finanziarie era molto diffusa. Ma queste impressioni si sono rivelate sbagliate. I responsabili della crisi sono divenuti presidenti e membri delle commissioni che dovrebbero controllare e riformare il sistema. E quando la Commissione europea si è decisa a parlare, alcune settimane fa, non è stato per istituire controlli e sanzioni sui centri finanziari e sulle cosiddette istituzioni di controllo della Banca centrale europea e delle banche centrali nazionali, ma per mettere vincoli più forti alle politiche economiche degli Stati membri ed ostacolare gli sforzi per ridurre i danni prodotti dalla crisi economica e sociale causata dalla speculazione finanziaria.
Il bersaglio di queste nuove misure dell'Ue sono i sistemi europei di welfare, con la loro varietà di diritti sociali e del lavoro ereditati dal passato. La loro destabilizzazione fa seguito a quella attuata per le relazioni e le politiche industriali durante gli anni Ottanta e Novanta e a quella realizzata a partire dagli anni Sessanta per l'agricoltura europea. Il processo di delocalizzazione dell'industria europea, seguito dall'annullamento dei diritti sociali e del lavoro, costituiscono parte di questo scenario. Il ruolo di Washington e dei suoi istituti finanziari nella governance della globalizzazione ha trovato il suo partner europeo nell'alleanza tra Germania, Francia e Gran Bretagna all'interno dell'Ue.
Il modello sociale che si vuole imporre all'Europa è quello danese. L'industria danese è stata molto innovativa nella produzione di energia alternativa (eolica e solare). Come è avvenuto per l'industria automobilistica in altri paesi dell'Ue durante i decenni precedenti, lo stato e le istituzioni pubbliche hanno favorito questo innovativo settore con investimenti e infrastrutture. Tuttavia, la logica di investimento dei capitali privati è divenuta la stessa di qualsiasi altro settore for-profit. Non è orientata alla stabilità e crescita sostenibile ma a una sempre maggiore crescita indipendente dalle reali esigenze.
Il loro sogno sarebbe di fornire almeno un mulino a vento per ogni persona come è stato fatto con l'industria dell'automobile, dei telefoni cellulari, del telefono, ecc. Invece di essere un incentivo a ridurre l'energia consumata diviene esattamente il contrario. Il collasso ambientale che produrrà nei prossimi due decenni, quando tutte queste macchine diverranno obsolete e dovranno essere sostituite, non preoccupa ovviamente i produttori, esattamente come accade con l'industria automobilistica. Questo mostra che alla radice di queste politiche non ci sono scelte alternative di specializzazione (auto, auto elettriche o mulino a vento) o tendenze innovative, ma la cultura della globalizzazione e di un capitalismo predatore capitalista che ispira tali comportamenti. La Danimarca è uno dei migliori produttori europei di mulini a vento. Una delle società è Vestas, una società con grandi imprese in varie regioni della Danimarca e in altri paesi. Il 26 novembre l'impresa ha informato i lavoratori e l'opinione pubblica che, a causa di una ridotta crescita percentuale di questo settore in Europa, numerosi stabilimenti saranno chiusi. Circa 3000 lavoratori saranno licenziati. Le regioni coinvolte sono tra le meno sviluppate della Danimarca e fortemente dipendenti da questa impresa per la loro sopravvivenza economica. Si tratta di regioni (come Nakskov e Lolland Faster) che hanno incontrato gravi problemi durante la chiusura dei cantieri navali pochi decenni fa. Questa nuova industria aveva riportato speranze di stabilità, e lavori pubblici furono fatti per migliorare le infrastrutture e per la spedizione dei prodotti via mare.
(...) Le ragioni addotte per la chiusura di queste imprese sono che le aspettative di un grande salto avanti per il settore "verde" in Europa non si sono ancora verificate. Le aspettative sono state superiori alla realtà ed hanno influenzato la valutazione dei risultati di bilancio del terzo trimestre dell'anno. (...) All'inizio del 2010 questa grande impresa produttrice di mulini a vento ha scelto di mantenere una sostanziale sovracapacità produttiva in Europa, in attesa di un aumento della domanda nel corso del 2010 e 2011. (...) Questi sono i fatti, freddi come le reazioni delle persone coinvolte: lavoratori, sindacati e politici. È un vero peccato quanto accade, si è detto, meglio cercare lavoro altrove. Nessuna menzione particolare del problema e nessun conflitto di qualsiasi tipo è citato nei quotidiani di quei giorni. L'agenda politica era occupata da scandali politici di vario genere, dall'agitazione populista contro gli islamici, dal pericolo terrorista negli Stati Uniti, ecc. Sul mercato del lavoro nulla: la chiamano flexicurity.
Le reazioni sono state diverse in Gran Bretagna dove Vestas, un'impresa che è stata in grado di creare 21.000 posti di lavoro nel green jobs in tutto il mondo, è divenuta oggetto di critiche. Vestas e i suoi dirigenti si sono trovati improvvisamente nella poco familiare e spiacevole situazione di essere l'obiettivo di lavoratori esasperati, sindacati, politici ambientalisti che accusano la società di perseguire il profitto a scapito dei posti di lavoro. La fabbrica sull'isola di Wight britannica è stata occupata per protestare contro l'annunciata chiusura di un ramo dell'azienda con 525 dipendenti. «Riteniamo di essere stati trattati ingiustamente ed eliminati da una società il cui unico obiettivo è il profitto», ha dichiarato uno dei direttori locali dell'azienda al giornale The Guardian. I media, contrariamente a quanto accade in Danimarca, hanno seguito da vicino il conflitto e la polizia britannica si è rifiutata di interrompere l'occupazione degli stabilimenti.
Tuttavia in Gran Bretagna il problema è più complesso. Il ministro dell'ambiente Ed Milliband ha presentato un nuovo piano per il clima che prevede la creazione di 400 mila green jobs mediante la costruzione di almeno 7 mila mulini a vento. Ma l'opposizione delle autorità locali alla creazione di nuovi mulini a vento è molto diffusa. Il direttore generale di Vestas, Ditlev Engel, ha parlato di un problema dovuto alla diffusa attitudine «non nel mio giardino», problema che ha interrotto la possibilità di espansione del settore del paese. Il governo britannico sta cercando di sostenere le attività di Vestas, mentre la società sembra più orientata a lasciare il mercato britannico. I rappresentanti dei lavoratori sono contrari a dare più soldi alle imprese private e sostengono invece proposte di nazionalizzazione del settore.
I licenziamenti in un contesto di crescente disoccupazione e le gravi restrizioni delle finanze pubbliche pongono il problema delle nuove politiche per l'occupazione in una situazione di cambiamento della specializzazione e della distribuzione internazionale del lavoro. Con riferimento alla situazione negli Stati Uniti James K. Galbraith osserva che «il problema dei posti di lavoro ha praticamente nulla a che fare con la situazione dell'industria manifatturiera. In termini assoluti l'occupazione manifatturiera negli Stati Uniti non è aumentata dalla fine degli anni Cinquanta, nonostante il raddoppio della popolazione che si verificato da allora ad oggi, e la caduta in questo settore dal 2000 è stata precipitosa, tale da raggiungere meno del 9 percento dell'occupazione totale di oggi. La perdita di posti di lavoro nel settore manifatturiero è dovuta agli aumenti di produttività, alla concorrenza estera ed alla delocalizzazione, prima in Messico e poi in Cina. Nulla può essere fatto in merito e nulla sarà fatto. La creazione di posti di lavoro riguarda i servizi. Si tratta di trovare cose utili da fare per le persone, fornendo loro reddito ed alle imprese che li impiegano un equo profitto. Tuttavia, il ruolo dello scopo di lucro nella creazione di occupazione non dovrebbe essere sopravvalutato. Quasi il 17% dell'occupazione totale è fornita dal settore statale. Un'altra grande parte è nel settore no profit, alimentato da donazioni filantropiche, incentivato da deduzioni fiscali per iniziative di solidarietà, ecc».
Ma tutto questo ci introduce nel dibattito del nostro (italiano ed europeo) progetto di economia e di società destinato a soppiantare quello declinante del mercato capitalistico. Un discorso che merita di essere proseguito.
* Professore emerito all'università di Roskilde (Danimarca), dove insegna Economia internazionale dal '72. Dirige il Centro studi Federico Caffè
La modernità ha creato le condizioni affinché solo la sovranità nazionale o l'attività delle imprese private potessero gestire al meglio aria, acqua, terra, energia e conoscenza. Una visione meccanicista che nega il fatto che si tratta di diritti e bisogni individuali il cui riconoscimento e affermazione deve vedere la diretta gestione da parte della collettività
I bisogni di bene comune non producono profitti se il diritto non li rende artificialmente capaci di tali profitti. Infatti il bene comune offre servizi dati per scontati da chi ne beneficia e il suo valore si misura soltanto in termini di sostituzione quando esso non c'è più.
In un certo senso i servizi essenziali resi dai beni comuni sono simili al lavoro domestico che si nota solo quando non viene fatto. Per esempio, i servizi che le mangrovie o la barriera corallina offrono agli abitanti della costa non sono «apprezzati» perché spesso non sono neppure noti ai loro fruitori: in questo senso i desideri che essi soddisfano non sono «paganti». Quando gli italiani distrussero la barriera corallina in Somalia per consentire alle grandi navi da trasporto di attraccare a Mogadiscio per portar via il bottino coloniale, aprirono un varco per gli squali attratti in frotte dal sangue scaricato in mare dal locale macello. La spiaggia di Mogadiscio divenne uno dei posti più pericolosi del mondo per la balneazione. Per ricreare una barriera capace di trattenere gli squali lontano dalla riva ci vorrebbero moltissimi soldi e moltissima tecnologia. Solo nel momento della sostituzione si può avere un'idea (ancorché molto riduttiva e approssimativa) del valore del bene comune. Discorso analogo vale per le mangrovie, distrutte in gran parte per allevare i famigerati gamberetti: esse svolgevano un servizio inestimnabile per proteggere i villaggi della costa dalle onde di tsunami. Quanto costerebbe costruire artificialmente una simile barriera? La consapevolezza per il valore dei beni comuni può essere creata soltanto attravereso uno specifico investimento sul fronte della domanda lavorando sulla consapevolezza del nostro rapporto con il contesto in cui essi producono il loro servizi.
Nell'arena del marketing
I beni comuni sono entità di cui sussiste un bisogno pubblico e privato che non è pagante a causa di tale mancanza della consapevolezza. Proprio l'opposto della maggior parte delle merci prodotte dal capitalismo attuale di cui non susssiste alcun bisogno reale né pubblico né privato. Che bisogno c'è di un modello di automobili esteticamente diverso, di scarpe griffate, o dell'ennesimo telefonino? Di questi beni il bisogno pubblico sussiste soltanto nella misura in cui si accetti un'idea di crescita e di sviluppo totalmente quantitativa (produrre per produrre) ormai evidentemente insostenibile (proprio perché devastatrice dei beni comuni). Il bisogno privato degli stessi viene creato (inventato) lavorando sulla domanda attraverso uno specifico massiccio investimento anche culturale noto come marketing.
Il marketing infatti è volto a produrre desideri paganti volti all'accumulo o al consumo di beni privati socialmente inutili o dannosi sovente inventandone l'utilità proprio ai danni di beni comuni (si pensi alla pubblicità per l'acqua minerale che fa restar giovani e belli). Il marketing per lo svilupopo del settore pubblico, peraltro reso indispensabile alla stessa ipertrofia del settore privato (ad esempio le costruzioni di strade e i parcheggi per consentire la vendita di automobili) viene indicato dispregiativamente come propaganda.
Il superamento dell'atteggiamento riduzionista proprio dell'equazione fra settore pubblico e Stato offre prospettive non banali. Infatti, il noto ragionamento di Kenneth Galbraith secondo cui la crescita del settore privato (determinata dal marketing) rende necessaria una corrispondente crescita del pubblico (che avviene in modo insufficiente per mancanza di marketing) sconta la fondamentale analogia strutturale fra privato e pubblico interpretati con i tradizionali archetipi di proprietà privata e sovranità statale. La struttura fondamentale di entrambi questi archetipi è infatti il dominio gerarchicamente strutturato del soggetto (persona fisica o giuridica Stato persona) sull oggetto (bene privato territorio). L'opposizione riduzionista a somma zero fra pubblico e privato (più stato=meno mercato; più mercato=meno stato) è tuttavia culturale e politica piuttosto che strutturale perché «inventa» un'opposizione fra pubblico e privato che dal punto di vista strutturale non esiste. In effetti questa falsa opposizione fra due entità che condividono la stessa struttura di dominio esclusivo si colloca pienamente all'interno della logica riduzionista, individualizzante e soprattutto quantitativa propria del paradigma della modernità occidentale.
L'afasia dei riduzionisti
Il marketing del pubblico gerarchico e burocratico è in effetti propaganda nella misura in cui (come quello del privato) non introduce alcun aspetto relazionale (o dialogico) capace di produrre trasformazione qualitativa (sviluppo del capitale sociale?) del significante e del ricettore ma emette segnali solipsistici volti a stimolare una domanda di consumo in un soggetto passivo.
In realtà l'opposizione strutturale autentica è quella fra la logica riduzionistica e meccanicistica della modernità condivisa da proprietà privata e Stato e quella fenomenologica, relazionale, partecipativa e critica propria del «comune». Soltanto quest'ultima logica supera il riduzionismo cartesiano soggetto-oggetto ed il conseguente delirio storico della modernità che ha portato l'umano (soggetto astratto) a collocarsi al di fuori della natura, autoproclamandosi suo dominus. In questo diverso quadro, la consapevolezza del bene comune (e la conseguente trasformazione motivazionale del soggetto) non può essere prodotta dal marketing ma al contrario deve passare attraverso la logica dialettica del sapere critico. In altre parole, per raggiungere la consapevolezza del bene comune occorre una trasformazione del soggetto, una rivoluzione nei suoi apparati motivazionali, una visione del mondo autenticamente rivoluzionaria. Mentre la logica del marketing (o della propaganda) produce motivazioni allineate alla produzione di ideologia dominante riduttivista e incentrata sullo status quo, quella del sapere critico di base produce la trasformazione qualitativa essenziale per la stessa percezione dei beni comuni.
Tra natura e cultura
In definitiva l'investimento necessario per creare domanda di beni comuni (prima di tutto la percezione della loro esistenza e vulnerabilità) si chiama cultura critica ed è a sua volta un bene comune. È cioè la stessa contrapposizione strutturale soggettooggetto che deve smettere di fare i suoi danni epocali perchè ad essa è seguita, inevitabilmente, la mercificazione di entrambi. Il bene comune, a differenza del bene privato (cose) e di quello pubblico (demanio, patrimonio della Stato) non è un oggetto meccanico e non è riducibile in merce. Il bene comune è una relazione qualitativa. Noi non «abbiamo» un bene comune (un ecosistema, dell'acqua) ma in gran misura «siamo» il bene comune (siamo acqua, siamo parte di un ecosistema urbano o rurale). Ecco perché alcune delle tassonomie che cominciano ad emergere sui beni comuni quali per esempio quella fra beni comuni naturali (ambiente, acqua, aria pura) e beni comuni sociali (beni culturali, memoria storica, sapere) devono essere oggetto di riflesione critica approfondita e vanno maneggiate con consapevolezza. Esse veicolano in qualche modo la vecchia logica meccanicistica della separazione fra soggetto ed oggetto che rischia di produrre mercificazione. I beni comuni, la loro stessa percezione e la loro difesa passa necessariamente attraverso una piena posa in opera politica della rivoluzione epistemologica prodotta dalla fenomenologia e dalla sua critica dell'oggettività. Il soggetto è parte dell'oggetto (e viceversa). È per questo che i beni comuni sono legati inscindibilmente ai diritti fondamentalissimi, della persona, del gruppo, dell'ecosistema, della natura e in ultimo del pianeta vivo.
E arriviamo così ad un riepilogo sulla vera rivoluzione culturale necessaria per la declinazione del comune come categoria del politico e del giuridico. La separazione riduzionista fra soggetto ed oggetto tipica della tradizione cartesiana (e scientistica da Galileo in avanti) ha strutturato la filosofia dell'«avere» alle cui radici stanno gli appetiti acquisitivi primordiali che spiegano le origini ed il succeso storico della proprietà privata individuale e dello stato sovrano territoriale. Tanto la struttura del giuridico quanto quella del politico istituzionalizzano la logica dell'avere che è poi quella della concentrazione del potere. Esse hanno strutturato istituzionalmente l'idea dell'umano separato dal naturale e di una oggettiva res extensa separata dalla res cogitans: in altre parole di una realtà oggettiva separata dal suo interprete. È noto come la fenomenologia contesti radicalmente questi presupposti ma come tale critica non abbia ancora trovato una declinazione istituzionale. La cultura giuridica non è riuscita a proporre quindi assetti giuridici alternativi a quelli della modernità, rappresentati dal «regime di legalità» (rule of law) ossia dall'illusione che si possa essere governati da leggi (oggettive e ontologicamente esistenti di per sé) e non da uomini che comunque le interpretano introducendo l'inevitabile componente soggettiva.
Una relazione negata
Il comune è invece nozione che può comprendersi solo in autentica chiave fenomenologica ed olistica ed è quindi incompartibile con la logica riduzionistica dell'avere (e del potere). Si può rendere quest'idea con la locuzione «il comune siamo anche noi». Il comune non è solo un oggetto (un corso d'acqua, una foresta, un ghiacciaio) ma è anche una categoria dell'essere, del rispetto, dell'inclusione e della qualità. È una categoria relazionale fatta di rapporti fra individui, comunità, contesti ed ambiente. In altri termini il comune è categoria ecologica-qualitativa e non economico-quantitativa come proprietà e sovranità statale. Per questo il comune non è riducibile ad un diritto (categoria dell'avere: io ho un diritto) ma si collega inscindibilmente con la possibilità effettiva di soddisfazione di diritti fondamentali che è ad un tempo esperienza di soddisfazione soggettiva e di partecipazione oggettiva alla comunità ecologica. Nella logica del comune scopaiono le barriere fra soggetto ed oggetto e anche quelle fra natura e cultura. Un ambiente visto come bene comune non è un' entità statica ma è allo stesso tempo natura e cultura, fenomeno globale e locale, tradizione e futuro. In una parola il comune è civiltà: proprio come l' acqua che stiamo difendendo dalla primordiale logica del potere, della predazione e del saccheggio di cui invece si nutre il capitale.
Scaffale
Uno statuto giuridico
ancora tutto da sviluppare
Il presente scritto fa parte del volume La Società dei beni comuni a cura di Paolo Cacciari [edito da Ediesse e Carta], che sta per arrivare in edicola e che contiene numerosi importanti interventi. Una prima posa in opera del «bene comune» come genere alternativo rispetto alla proprietà privata e a quella pubblica si ritrova nei lavori della cosiddetta «Commisione Rodotà». Si vedano: Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica (a cura di U. Mattei, E. Reviglio e S.Rodotà, Il Mulino), I Beni pubblici. Dal governo democratico dell'economia alla riforma del codice civile (materiali editi dalla Academia Nazionale dei Lincei). Per un inquadramento ampio della tematica: Privato Pubblico Comune. Lezioni dalla Crisi Globale (volume collettivo curato da Laura Pennacchi per Ediesse). Infine, va segnalato l'importante contributo storico-comparativo di Filippo Valguarnera Accesso alla Natura fra ideologia e diritto (Giappichelli).
Un nuovo spettro si aggira sul mondo: la socializzazione dei beni comuni. Moltitudini inquiete stanno imparando a riconoscerli. Alcuni gruppi hanno cominciato a rivendicarne l'uso. Altri sperimentano già forme di gestione fuori mercato. Commons movment lo si trova tra le popolazioni indigene delle foreste dell'Amazzonia e nei Free Culture Forum ( digital commons) delle principali città europee, come è nelle innumerevoli vertenze contro il saccheggio del territorio e nei movimenti per una agricoltura contadina, nelle reti di economie solidali e nei gruppi che fanno cooperazione decentrata, nei movimenti per l'acqua pubblica e per la giustizia climatica. Rivendicano l'accesso alla conoscenza, la sovranità alimentare e non solo, l'autonomia nella gestione dei propri bisogni e dei propri desideri. I beni comuni sono stati sdoganati nel mondo scientifico dagli studi del primo premio Nobel donna per l'economia Elinor Ostrom. Sono entrati nelle Costituzioni nazionali grazie all'Ecuador di Evo Morales. Sono osservati e studiati da sociologi e politologi grazie al lavoro di Paul Hawken che ha creato un gigantesco database (www.wiserearth.org ) delle organizzazioni che se ne occupano. Da ultimo sono stati rilanciati da un convegno della fondazione Heinrich Böll Stiftung: " Costructing a Commons-Based Policy Platform", che si è svolto a Berlino i primi di novembre (materiali preparatori, documento finale reperibile nel loro sito e persino un piccolo cartone animato sta girando su: youtube.com/watch?v=WT6vbAu_UjI ) con il contributo anche di studiosi e attivisti italiani come Giovanna Ricoveri e Marco Berlinguer.
Cosa accomuna questi movimenti? La scoperta dell'esistenza di beni naturali, cognitivi, relazionali che sono di tutti e non appartengono a nessuno: res communes omnium. Beni speciali, doni del creato e lasciti delle generazioni precedenti di cui tutti necessitiamo e di cui tutti dobbiamo poter beneficiare. Elementi primari, basici. Scrive la fondazione Heinrich Böll: «I beni comuni sono la precondizione di tutti gli obiettivi sociali, inclusi quelli ambientali». Beni e servizi che nessuno può dire di aver prodotto in proprio e che quindi nessuno può arrogarsi il diritto di possedere, comprare, vendere, distruggere. Alcuni, gli ecosistem service, sono semplicemente indispensabili alla preservazione di ogni forma di vita: atmosfera, acqua, suolo fertile, energia, cicli trofici. Altri, i beni cognitivi, sono indispensabili a connettere le relazioni umane: lingue, codici, saperi, istituzioni sociali. Inoltre, vorrei sommessamente ricordare che il sole, l'aria, il territorio, le parole... non sono solo pannelli fotovoltaici, turbine, suolo edificabile, linguaggi tecnici per ottimizzare la produttività sociale, ma anche profumi, fragranze, paesaggi, creatività. Ingredienti anch'essi diversamente utili alla preservazione della salubrità mentale di ciascuno di noi.
Chi decide quali sono i beni comuni? L'attività stessa di commoning (come l'ha battezzata Peter Linebaugh), le pratiche di cittadinanza attiva ( Engin Isin), il fare comunanza, condividere conoscenze, risorse, servizi rendendoli accessibili a tutti. I beni comuni sono ciò che la società stessa sceglie di gestire collettivamente. I beni comuni hanno una essenza naturale ed una sociale. Oggi, da noi, è l'acqua. A dicembre a Cancun sarà di scena il clima. Nelle università e nei centri di ricerca è in gioco la libertà di ricerca. Nei territori colpiti dalla crisi economica è il lavoro (come ha ben scritto la Fiom sui manifesti della manifestazione del 16 ottobre). Pezzo dopo pezzo, momento per momento, i beni comuni sono i tasselli di una idea di società che si prende la libertà di pensare al dopo-crisi o, meglio, al dopo crisi di civiltà e di senso che stiamo vivendo.
Il riconoscimento, la rivendicazione e la gestione dei beni comuni rappresentano un rovesciamento dei criteri con cui siamo abituati a pensare il mondo. Dentro i parametri dei beni comuni natura e lavoro non sono più utilizzabili come "carburante" nei processi di produzione e di consumo, fattori da sacrificare all'imperativo della massima resa del capitale investito, ma come il fine stesso dello sforzo cooperativo sociale che deve essere mirato alla rigenerazione delle risorse naturali (preservandole il più a lungo possibile, adoperandosi per rallentare, non per incrementare, l'entropia naturale del sistema) e alla realizzazione della creatività umana, consentendo a ciascuno di apportare un contributo utile al proprio e all'altrui benessere. Niente di meno che una trasformazione delle relazioni sociali a partire da un cambio di modello dell'idealtipo umano assunto come riferimento da qualche secolo a questa parte: da egoista, individualista, proprietario a consapevole, cooperante.
Proviamo ad elencare alcuni capisaldi della società dei beni comuni. Essa richiede una salto nell'orientamento del diritto: gli oggetti naturali possono essere titolari di diritti legittimi indipendentemente dagli utilizzatori. Nemmeno lo Stato può essere considerato sopra le leggi che presiedono la conservazione della biosfera che costituisce un patrimonio non disponibile, inviolabile. A Cancun si parlerà della proposta di istituire un tribunale internazionale di giustizia climatica e ambientale. L'orizzonte del diritto tradizionale e della democrazia liberale verrà messo in discussione.
Un salto nelle concezioni filosofiche che regolano la scienza con la rinuncia al dominio assoluto dell'uomo padrone e signore sulla natura. La vita sulla terra non è frazionabile, serve una ricomposizione tra bios ed ethos. Le scienze cosiddette post-normali mettono in discussione il riduzionismo e il meccanicismo.
Una idea radicale di democrazia orizzontale, non gerarchica, in cui le comunità abbiano la libertà di disporre dei beni di riferimento a loro afferenti. Un'idea di democrazia che va oltre il concetto di sovranità e di proprietà. Nessun "interesse generale", nessuna "maggioranza", nessuna "superiore razionalità tecnica" può giustificare il dominio su altri, la distruzione di beni irriproducibili e insostituibili, unici, come lo siamo ognuno di noi.
Qualche tempo fa, rispondendo a Carla Ravaioli, Guido Rossi si lamentava: «Basta capitalismo. Ma con che cosa lo si sostituisce? Nessuno ha un'idea in testa» ( il manifesto 31.10.2010). Lo stesso concetto ha sviluppato Slavoj Zizek: «Siamo letteralmente sommersi da requisitorie contro gli orrori del capitalismo: giorno dopo giorno veniamo sommersi da inchieste giornalistiche, reportage televisivi e best-seller che ci raccontano di industriali che saccheggiano l'ambiente, di banchieri corrotti che si ingozzano di bonus esorbitanti mentre le loro casseforti pompano denaro pubblico, di fornitori di catene prêt-à-porter che fanno lavorare i bambini dodici ore al giorno. Eppure, per quanto taglienti queste critiche possano apparire, si smussano appena uscite dal loro fodero: mai infatti rimettono in discussione il quadro liberal-democratico all'interno del quale il capitalismo compie le sue rapine». ( Le Monde Diplomatique, novembre 2010). Ecco, seguire l'idea della gestione collettiva dei beni comuni può servire a costruire un progetto concreto dell'alternativa possibile.
La terribile evoluzione della crisi politica, sempre più avulsa da qualsiasi contenuto materiale, sottolinea ancora di più la necessità che, almeno fuori dal palazzo, ci si confronti sulla crisi reale del paese. Guido Viale ha proposto alla Fiom di discutere concretamente della riconversione ecologica del sistema produttivo e del modello di consumo dominanti. Credo che proprio oggi il tema vada posto all'ordine del giorno delle lotte sociali e dei movimenti in corso. Non che questo terreno sia così agevole da praticare. È evidente, infatti, che la fuga della politica nell'astratto assoluto è anche frutto della sua incapacità di padroneggiare la crisi economica e sociale. Che si sta aggravando, in Europa in particolare, e che sta sommando assieme tre crisi. Una produttiva e di modello di sviluppo, cioè una stagnazione dell'economia che nei paesi occidentali è determinata proprio da una caduta della crescita delle tradizionali produzioni e prodotti. Una crisi sociale che è determinata da una crescente e sempre più drammatica disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza. Una crisi finanziaria e fiscale che si riflette sia nei debiti privati che in quelli pubblici.
Mentre la Cina e i paesi di nuova crescita, seppure a prezzi sociali e ambientali enormi, continuano lo sviluppo, l'Europa accumula assieme tutte le crisi. Per questo è molto più facile continuare a blaterare di "riforme" che in realtà nascondono controriforme sociali e ha buon spazio in Italia la filosofia reazionaria di Marchionne, che semplicemente propone di rilanciare il vecchio modello di sviluppo su basi produttive molto più ristrette e con una brutale selezione sociale. In Italia, e quasi sicuramente in Europa, una ripresa economica che assorba le contraddizioni e gli squilibri della crisi non ci sarà. Da qui il trionfo di ricette sociali brutali che, dalle privatizzazioni dell'acqua, della scuola e di tutti i beni comuni, alla distruzione dei contratti nazionali, alla messa in discussione di ciò che resta dello stato sociale, hanno come unico scopo quello di rimpicciolire la base sociale dell'attuale del modello di sviluppo. Il che conduce alla scelta folle di spingere la competitività e la produttività in funzione della crescita e dell'esportazione. Obiettivo logicamente assurdo se perseguito da tutti e socialmente devastante. Obiettivo che necessariamente impone un modello puramente autoritario nei rapporti di lavoro, come chiarisce Pomigliano. Anche le persecuzioni dei migranti, lo stato di polizia che ne garantisce il supersfruttamento fanno parte di questa drammatica reazione alla crisi.
In Italia, in particolare, il liberismo si propone così di selezionare un popolo fedele al proseguimento dell'attuale modello di sviluppo, nella piena consapevolezza che la crescita per tutti, anche nelle forme più distorte e ingiuste, non c'è e non ci sarà mai più.
Per questo la manifestazione del 16 ottobre e tutte le lotte sociali più radicali non trovano interlocutori veri sul piano dei programmi, nella politica italiana di oggi. Possono anche momentaneamente vincere, come Viale ha scritto per Terzigno, ma poi si trovano di fronte al muro di un sistema bloccato. La radicalità popolare ferma il regime liberista, ma poi esso riparte come prima. Il bullismo antisindacale di Marchionne serve a mascherare il fatto che la Fiat non tornerà mai più in Italia ai volumi produttivi del passato, che solo una produzione di nicchia sarà riservata al nostro paese, fondata su un numero ristretto di operai appositamente selezionati e disposti a tutto. La Newco, la nuova società che la Fiat vuole imporre a Pomigliano e probabilmente in tutto il gruppo, diventa un modello per tutta l'Italia. Ovunque si vuol passare a una newco sociale e produttiva che abbandona una parte del paese a sé stesso e seleziona sulla base del ricatto, della fedeltà e della disponibilità coloro che devono perpetuare il modello di sviluppo.
Tutte le lotte di resistenza, leva indispensabile per cambiare, oggi reclamano così un progetto economico sociale ecologico alternativo. Tutto si tiene, ma da dove partire allora? Io non credo che basti il ritorno alle economie locali che propone Guido Viale. Le lotte locali sull'ambiente, così come sui diritti, così come sul lavoro, scagliano immediatamente le comunità contro meccanismi e i poteri nazionali e sovranazionali. L'assoluta estraneità tra i due articoli comparsi su questo giornale a firma di Alberto Asor Rosa, il primo sulla crisi politica, il secondo sulle reti locali per la difesa del territorio e dell'ambiente, dimostra che oramai ovunque la scissione tra bisogni e realtà politica, si manifesta ovunque. Se l'obiettivo che ci diamo non è la pura sostituzione di Berlusconi con Marchionne o Montezemolo o simili, è evidente che l'arcipelago di lotte che oggi c'è in Italia e che si è ritrovato assieme il 16 ottobre a Roma con la Fiom, richiede una piattaforma unificante sociale e politica che è estranea, come sostiene anche Viale, alle attuali classi dirigenti. Una piattaforma che deve toccare le tasse, la finanza, la spesa pubblica, le politiche industriali, gli interventi pubblici nell'economia, la conoscenza, il pubblico e il privato, i diritti dei lavoratori, la distribuzione della ricchezza, la garanzia del reddito e di una reale parità dei diritti.
La riconversione ecologica dell'economia si intreccia con questo processo. Si possono produrre e comprare meno auto se si riduce l'orario di lavoro, se si lanciano programmi di investimento pubblico che costringano il sistema a consumare e a produrre trasporto pubblico al posto di quello privato. Questo richiede ingenti risorse che non possono che essere reperite portando via i soldi ai ricchi. Questione sociale e questione ecologica, diritti e uguaglianza, oggi sono strettamente e immediatamente connessi, non si tocca un pezzo della crisi senza essere coinvolti nella crisi di tutto il sistema. Non ci sono soluzioni riformiste alla crisi attuale, almeno nel significato che oggi questa parola ha assunto nella politica. La forza della reazione, il ritorno continuo di Berlusconi e del berlusconismo, derivano dal fatto che l'alternativa è o cambiamenti radicali o regressione e selezione sociale.
Per questo credo che si debba avere il coraggio di proporre un vero e proprio piano economico e sociale alternativo alle politiche correnti, che riproponga lo spirito, non i contenuti, del piano del lavoro della Cgil di Di Vittorio degli anni Cinquanta. La Fiom, che ha interpretato con il 16 ottobre un sentimento diffuso di tanta parte del paese, può forse proporsi di promuovere un'operazione più ambiziosa, quella della costruzione di tale piano, facendolo nascere dall'incontro tra i saperi liberi e l'esperienza dei movimenti. Vale la pena di provarci per costruire una piattaforma alternativa alla pura conservazione e restaurazione del sistema esistente. Una piattaforma che guidi i conflitti e rifiuti i patti sociali e selezioni una nuova classe dirigente per i prossimi anni. Questo per me significa costruire una vera alternativa a Berlusconi e al berlusconismo. Ma qui torniamo ancora alla crisi della politica, della sinistra e del sindacato italiano.
Abbiamo sostenuto la stessa tesi nell’ eddytoriale 144. La nostra speranza non è mal riposta, se l’attenzione al tema da parte della Cgil non si esaurisce e, anzi, conquista sempre più consensi
In un suo recente articolo (il manifesto, 7 novembre) Guido Viale ci invita a «cambiare dal basso». Provo a mettermi il più direttamente possibile sulla sua lunghezza d'onda. Da più di quattro anni dirigo, coordino, assisto (la varietà delle prestazioni dipende dai gusti e dalle circostanze) una singolare organizzazione, che si è denominata: Rete dei Comitati per la difesa del territorio (da due anni divenuta anche Associazione, regolarmente «registrata» come tale). Sulla singolarità di tale organizzazione conviene soffermarsi un momento, perché ne deriva tutto il resto del ragionamento.
La Rete nasce dalla scelta spontanea e volontaria di un certo numero di Comitati di base, legati a loro volta all'identità di alcune battaglie locali (locali, ma non necessariamente di limitate dimensioni: basti pensare a casi come il sottoattraversamento Tav di Firenze o l'Autostrada tirrenica), di federarsi stabilmente in una sorta di mappa organizzata delle esperienze e delle strategie. La costituzione della Rete ha favorito l'incontro dei Comitati con alcune volonterose forze intellettuali, che ne rappresentano al tempo stesso la struttura di servizio e un luogo di originale elaborazione strategica. I due momenti non sono minimamente dissociabili; e non si rapportano fra loro in una specie di nuova gerarchia del potere (spesso, infatti, l'elaborazione strategica nasce in corso d'opera all'interno anche di un singolo Comitato, magari particolarmente avvertito). La Rete dei Comitati, intesa e praticata in questa forma, è ciò che noi siamo abituati a definire «neoambientalismo italiano», per distinguerlo dall'esperienza storica (per carità, positivissima) di altre associazioni ambientaliste più centralizzate e gerarchizzate.
La Rete è nata ed diffusa prevalentemente in Toscana, ma ha agganci e rapporti con situazioni liguri, venete, umbre, marchigiane, romane, laziali. Dialoga con le altre Associazioni (Italia nostra, Legambiente, Wwf), di volta in volta incontrandosi e distinguendosi. Ha rapporti eccellenti con il Fai. Recentemente ha aperto un canale di confronto e di scambio con un altro movimento, diverso ma consimile, «Stop al consumo di territorio», presente a sua volta soprattutto in Piemonte e Lombardia (ma anche altrove). Ma esperienze di Comitati sono attive in Italia ovunque. Anzi, più esattamente, ce ne sono in giro centinaia, di dimensioni che vanno dal microscopico ai supermassimi (NoTav di Val di Susa). Confinano o talvolta s'integrano con altre esperienze analoghe (Forum dell'acqua); invadono autorevolmente il campo istituzionale (lista «Per un'altra città», ben insediata nel Consiglio comunale di Firenze).
Insomma, i Comitati per la difesa del territorio, variamente organizzati e coordinati, sono una forma nuova di concepire e vivere la democrazia italiana. Anche per il solo fatto di esserci, appunto. Ma qualche ragionamento ulteriore può essere fatto. Gli ostacoli al cambiamento dal basso - per tornare all'indicazione di Viale - sono, a giudicare dalle mia esperienza, variabili e molteplici, ma tre sempre e ovunque risaltano. Sono: 1) Il conflitto inesauribile e insanabile, piccolo o grande che sia, con i poteri forti dell'economia, della speculazione e dello sfruttamento, che si manifestano in mille modi, da quello dichiaratamente delinquenziale a quello puttanescamente istituzionale; 2) la debolezza della risposta ad parte di una larga parte dell'opinione pubblica, e della maggior parte dei grandi mezzi di uno stravolto e magari morente (ma tuttora micidiale) modello di sviluppo (ancora Viale); 3) la pressoché totale sordità nei confronti di queste tematiche da parte di tutte (ripeto per brevità: tutte, ma potrei anche specificare) le forze politiche di livello nazionale. Il primo dovrebbe essere il nemico naturale di ogni difesa del territorio, della conservazione dei beni culturali, più in generale di una buona qualità della vita. Gli altri due, invece, nemici occasionali, episodici e dunque potenzialmente recuperabili: ma come? Ma quando?
Perché questi due obiettivi, che sono decisivi, si concretizzino e si avvicinino, bisogna secondo noi (qui esprimo il parere collettivo della Rete) imprimere alla battaglia ambientale un'accelerazione sia culturale che politica (il binomio qui è meno formale che altrove). Tale battaglia ruota sempre di più intorno alla nozione di «bene comune» (mi permetto di richiamare a tal proposito un mio articolo apparso nel dicembre 2008 su la Repubblica): le eredità culturali e artistiche, l'ambiente, il paesaggio, vanno intesi alla lettera, al pari dell'aria e dell'acqua, come patrimonio inalienabile delle generazioni umane presenti e anche, o forse soprattutto, future (si vedano, anche, gli studi e le proposte legislative elaborati in varie fasi da Stefano Rodotà). Su questo fondamento, una volta acquisito e diffuso, si possono basare una nuova cultura e una nuova politica, intese anch'esse nel senso più vasto.
In una recente riunione (Roma, 6 novembre) del Consiglio scientifico di cui la Rete si è dotata e della sua Giunta (illustrati, l'uno e l'altra, dalla presenza di molti dei più prestigiosi studiosi e specialisti del settore), sono state assunte due iniziative che si muovono nel senso predetto. La prima è la convocazione di una Conferenza nazionale dei Comitati che si occupano ovunque di difesa del territorio: l'obiettivo potrebbe esser quello di creare, non una Rete nazionale, ma una Rete di Reti, coerentemente con lo spirito del neoambientalismo, che non prevede, né in loco né fuori, rapporti gerarchici di direzione. La seconda è l'avvio della preparazione d'un grande Convegno, anch'esso nazionale, tematizzato su quello che potremmo sinteticamente definire: «Il disastro Italia», nel quale convogliare, in termini sia analitici sia di denuncia sia di progettualità propositiva, la grande risorsa intellettuale dei Comitati, accompagnata e intrecciata con quella dei molti studiosi e specialisti che l'hanno accompagnata, e che speriamo sia destinata a rafforzarsi ancor di più nel prossimo futuro.
Crescere dal basso dunque si può, ma solo se si contestualizzano e si organizzano, su di un orizzonte strategico più vasto, gli innumerevoli focolai locali. Il «salto di scala» è necessario perché ognuno di essi acquisti forza, allargando intorno a sé il consenso popolare e premendo in maniera decisamente più autorevole sulle forze politiche, locali e nazionali: cambiandone anche, cammin facendo, la natura. Mentre si studiano i modi per far fuori il cadavere di Berlusconi, e al tempo stesso si aprono le grandi manovre per assicurare la perpetuazione indefinita del berlusconismo, potrebbe essere questa una delle strade più serie e responsabili per garantire, insieme con la salvezza imprescindibile del territorio italiano, anche un salto in avanti di tutta la nostra democrazia.
A proposito dell'argomento sviluppato da Asor Rosa e della sua proposta si vedano gli articoli, di Viale e di altri, nelle cartelle Invertire la rotta e Il capitalismo d’oggi, nonchè l’ Eddytoriale 144
Per chi guarda alla crisi in corso dal punto di vista di un mondo diverso alcune questioni già ampiamente dibattute in altre sedi possono essere date per scontate. Innanzitutto, se c'è o ci sarà una "ripresa" dalla crisi - il che è ancora da vedere - non sarà granché; dei tre principali indicatori con cui si misura l'andamento economico (Pil, profitti e occupazione), la ripresa potrà riguardare il Pil di alcuni paesi, i profitti di una parte, e una parte soltanto, delle imprese; ma sicuramente non riguarderà l'occupazione e i redditi da lavoro. Meno che mai possiamo pensare di andare incontro a una nuova fase di espansione economica, come quella dei cosiddetti "Trenta gloriosi" (1945-1975); per lo meno nella parte del mondo che ci riguarda. Investimenti e profitti sono ormai irreversibilmente disgiunti da occupazione e migliori condizioni di lavoro.
Il pianeta Terra è sull'orlo di un baratro dovuto all'eccessivo consumo di ambiente, sia dal lato del prelievo delle risorse che da quello dell'emissione di scarti, residui e rifiuti. Crisi economica e crisi ambientale sono indissolubilmente legate. Per questo, per garantire reddito e condizioni di vita e di lavoro dignitose a tutti è necessario un profondo cambiamento sia dei nostri modelli di consumo che dell'apparato produttivo che li sostiene. Consumi e struttura produttiva sono indissolubilmente legati: fonti energetiche rinnovabili, efficienza energetica, risparmio e riciclo di suolo e di risorse, mobilità sostenibile e agricoltura biologica, multiculturale, multifunzionale e a km0 sono i capisaldi del cambiamento necessario. Questo cambiamento impone una radicale inversione di paradigma nei processi economici, per sostituire alle economie di scala fondate su grandi impianti e grandi reti di controllo economico e finanziario (come il ciclo degli idrocarburi, dalla culla alla tomba) i principi del decentramento, della diffusione, della differenziazione territoriale, dell'integrazione attraverso un rapporto diretto, anche personale, tra produzione di beni o erogazione di servizi e consumo. L'esigenza di rilocalizzare e "territorializzare" produzioni e consumi riguarda ovviamente le risorse e i beni fisici (gli atomi) e non l'informazione e i saperi (i bit); ma questo corrisponde perfettamente al criterio guida di pensare globalmente e agire localmente.
Le attuali classi dirigenti, sia politiche (di maggioranza e di opposizione) che manageriali o imprenditoriali non sono attrezzate né sostanzialmente interessate a un cambiamento del genere. La crisi potrebbe sviluppare processi sia di compattazione autoritaria che di disgregazione del tessuto connettivo dell'economia e della società. In entrambi i casi, pericolosi per tutti. C'è pertanto bisogno di una diversa forza trainante, non solo per essere realizzare, ma anche solo per concepire e progettare nelle loro articolazioni qualsiasi trasformazione sostanziale.
Una forza del genere oggi non c'è, ma nel tessuto sociale di un pianeta globalizzato si sono andate sviluppando nel corso degli ultimi due decenni pratiche, esperienze, saperi e consapevolezze nuove, anche se prive di una "voce" commisurata alla loro consistenza o di collegamenti adeguati; sia per mancanza di risorse e di accesso ai media, sia, soprattutto, per le loro caratteristiche ancora in gran parte locali o settoriali. Ma per una riconversione di vasta portata non bastano la difesa, la rivendicazione e il conflitto; servono anche progettualità, valorizzazione dei saperi e delle competenze mobilitabili, aggregazione non solo dell'associazionismo, ma anche di imprenditorialità e di presenze istituzionali. Una aggregazione del genere delinea un perimetro variabile, ma essenziale, di una democrazia partecipativa - compatibile e per molto tempo destinata a convivere con le rappresentanze istituzionali tradizionali - le cui forme non potranno necessariamente essere simili dappertutto.
Ho evitato finora di nominare termini come decrescita, democrazia a Km0, conversione ecologica, socialismo, lotta di classe, partito e simili: parole che possono dividere. Cercando di porre l'accento su quello che unisce o può unire uno schieramento di idee, di pratiche e di organizzazioni più ampio possibile. Qui di seguito, invece, prendo posizione su questioni che possono non trovare più tutti d'accordo.
Innanzitutto ritengo che lo Stato e gli Stati siano la controparte e non gli agenti di una trasformazione come quella delineata, che non può essere governata o gestita, ma nemmeno progettata, dall'alto e in forma centralizzata. Tanto meno possono svolgere un ruolo del genere la finanza internazionale o gli organismi che la rappresentano a livello planetario o quelli in cui si articola il loro potere.
In secondo luogo, ritengo sacrosanta e irrinunciabile la difesa dell'occupazione e del reddito sui luoghi di lavoro, ma se si svolge senza mettere in discussione logica e tipologia dei beni e dei servizi prodotti, al di fuori di una prospettiva di riconversione della struttura produttiva e dei modelli di consumo vigenti, è una lotta perdente. Per esempio non porta a nulla chiedere che la Fiat produca più auto, che ne produca di più in Italia, che produca modelli a più alto valore aggiunto, cioè di lusso, che produca "auto ecologiche" (peraltro un ossimoro). Per questo ritengo fulcro della riconversione il passaggio dall'accesso individuale ai beni e ai servizi a forme sempre più spinte di consumo condiviso. Non si tratta di "collettivizzare" i consumi, ma di associarsi per migliorarne l'efficacia e ridurne i costi. Gli esempi a portata di mano sono i Gas (gruppi di acquisto solidale) che nel corso degli ultimi due anni si sono diffusi in modo esponenziale; quelli più promettenti sono l'associazionismo per gestire il risparmio energetico, installare impianti di energia rinnovabile o promuovere la mobilità flessibile. È un modello che può investire tutti i servizi pubblici locali: trasporti, energia, rifiuti, acque, manutenzione del territorio, welfare municipale. E poi cultura, spettacolo, istruzione, formazione professionale e permanente; ma anche riuso di beni dismessi o da dismettere, attraverso la promozione di una cultura e di una pratica della manutenzione.
Certamente c'è bisogno di un quadro programmatico generale, non solo di livello nazionale, ma anche internazionale. Ma in mancanza di soggetti e agenti in grado o disponibili a farsene carico - e comunque impossibilitati a realizzarlo nelle sue articolazioni territoriali - è a livello locale che si gioca la partita; oggi un disegno programmatico generale può nascere solo dal concorso di iniziative a carattere locale, ancorché concepite con un approccio e un pensiero globali. Per questo la salvaguardia o la riconquista di un ruolo fondamentale per i poteri locali - municipalità e i loro bracci operativi - assume una valenza strategica generale: cosa che la campagna contro la privatizzazione dell'acqua ha messo in evidenza.
Niente a che fare con il "federalismo" sbandierato dalla Lega. Non c'è mai stato tanto accentramento e tanta espropriazione dei poteri locali - dall'Ici alle decisioni sulla localizzazione degli impianti nucleari; dal sequestro dei fondi Fas al taglio dei trasferimenti e all'accentramento degli interventi straordinari nelle mani della Protezione civile, cioè della Presidenza del consiglio, cioè della "cricca" - come da quando la Lega è al governo. Ma la minaccia e l'ostacolo maggiori per qualsiasi prospettiva di cambiamento radicale dello stato di cose presente sono rappresentati dalla privatizzazione dei servizi pubblici locali, promossa e portata avanti sotto le false sembianze della loro "liberalizzazione". Non solo perché essa sostituisce il profitto alla valenza e alle finalità sociali dei "beni comuni". Ma soprattutto perché il divieto o la limitazione dell' in house providing, lungi dal promuovere l'efficienza dei servizi, innescano processi di aggregazione e finanziarizzazione delle gestioni; e con esse un progressivo e violento allontanamento dei poteri decisionali dal territorio di riferimento in attività che sono essenzialmente "servizi di prossimità", la cui efficacia dipende dal grado di controllo e di condizionamento - ma anche di partecipazione e di coinvolgimento - che l'utenza riesce a esercitare su di essi. La vicenda dei rifiuti urbani della Campania, la cui gestione era stata affidata nella sua interezza a una multinazionale estranea al territorio, dopo essere stata sottratta, con l'istituto del Commissario straordinario e con la militarizzazione del territorio, al già debole controllo delle rappresentanze istituzionali e della contestazione dal basso, è un caso da manuale. Come lo è la vicenda del sequestro del servizio idrico privatizzato in provincia di Latina.
Per questo la promozione di forme nuove di consumo condiviso - che vuol dire controllo o condizionamento sulle condizioni in cui il bene o il servizio vengono prodotti, distribuiti o erogati - è al tempo stesso via e risultato di una democrazia partecipata che coinvolga la cittadinanza attiva e la faccia crescere in numero e capacità di autogoverno: protagonisti ne dovrebbero diventare, secondo le modalità specifiche proprie di ciascun attore, i lavoratori e le loro organizzazioni, il volontariato e l'associazionismo di base, le amministrazioni locali o qualche loro segmento, le imprese sociali e quelle, anche private, soprattutto se a base locale, disponibili al cambiamento. La progettazione e la realizzazione di questo passaggio richiede comunque un confronto aperto tra tutti gli interlocutori potenziali; un confronto che nella maggior parte dei casi andrà imposto con la lotta; ma che in altri potrà essere favorito dal precipitare della crisi.
Le proposte maturate e già sperimentate in anni di riflessione e di pratiche in seno ai movimenti sono vincenti. In un confronto aperto e trasparente non possono che prevalere. Il che non significa che si impongano anche le soluzioni proposte: tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare.
Il neoliberismo divora le risorse della crescita. La politica si fa ancella della finanza. Le sinistre hanno capito ben poco della globalizzazione. E parlare di ambiente a una donna di Haiti è complicato. Ma la crisi ecologica è planetaria e il rilancio dell'economia mondiale la aggraverà
Luciano Gallino, come giudica le politiche seguite da quanti hanno responsabilità pubbliche (industriali, economisti, politici) al fine di superare la crisi. Politiche che di fatto si riassumono in rilancio di produzione e consumi, aumento del Pil, insomma crescita... Una linea che nessuno mette in discussione.
Gli interventi postcrisi sono l'esito di un processo di ristrutturazione dell'economia cominciato con Reagan e Thatcher nei primi anni anni 80, cui hanno contribuito anche governi europei guidati da socialisti: dopo aver fabbricato la crisi, tentano ora di porvi rimedio con metodi tipicamente neoliberali. Ma bisogna fare qualche distinzione. Gli Stati Uniti, motore primo del capitalismo finanziario, da cui è partita la crisi, stanno facendo una politica un po' più progressista dell' Europa: salvando le banche, ma anche contenendo la disoccupazione con forti interventi di stimolo, e destinando decine di miliardi a una politica ecologica. Con tutti i suoi limiti, si tratta pur sempre del primo segno di vita della politica nei confronti della finanza. Mentre la Ue, fedele alla strategia di Lisbona, sta andando in tutt'altra direzione.
Quello che lei mi dice conferma la totale disattenzione del mondo politico nei confronti della crisi ecologica planetaria, e che il rilancio dell'economia mondiale non può che aggravare. Come giudica tutto ciò?
Lo giudico un grosso pericolo. E' come essere su un aereo che sta andando dritto contro una montagna e in cabina non c'è nessuno...
Di recente il Global Footprint Network ha annunciato che è già stata consumata la quantità di natura da potersi usare quest'anno senza squilibrare ulteriormente l'ecosistema. E la data viene anticipata ogni anno... Ma nessuno ci fa caso: seguitano a invocare crescita, dimenticando che (a prescindere dall'aumento di catastrofi) alla crescita può mancare la materia prima...
Ha detto quasi tutto lei. Io ho finito di scrivere un libro sulla crisi come crisi di civiltà, in cui tra l'altro ricordo che l'impronta ecologica dell'economia globale occupa ormai un pianeta virgola tre. Se il Sud del mondo dovesse produrre come l'Occidente, in pochi anni di Terre ce ne vorrebbero due. I responsabili principali sono la fede neoliberale e le pratiche economiche che ne sono derivate. Le dottrine economiche del neoliberalismo parlano di foreste, di mari, di acque, di terreni, ecc. sotto un unico aspetto: la valorizzazione. Uno distrugge mille kmq di foreste pluviali in Indonesia o in Brasile e la considera un'opera di valorizzazione: qualcosa che pareva non servire a nulla diventa materiale da costruzione. Questa dottrina economica è affatto irrazionale, perché non calcola nei passivi la distruzione dei servizi che quella foresta - o quella palude, quell'agro, quel fiume - rendeva: un valore annuo che in media supera di due o tre volte il ricavo della cosiddetta valorizzazione. Con la differenza che quei servizi che erano durevoli sono scomparsi per sempre, mentre la valorizzazione avviene una volta sola.
Ma questo comportamento non attiene alla natura stessa del capitale?
Del capitale senza regole e senza controlli. Ma ci sono stati dei periodi in cui il capitale era ragionevolmente regolato.
Forse perché, come dice Wallerstein, c'erano ancora degli spazi in cui fuggire... Il mondo non era antropizzato, sfruttato come ora.
Questo è indubbio. Oggi, al di fuori della società capitalistica mondiale, non c'è nessuno spazio. Ma ci sono anche altri fattori geopolitici da considerare. Tra il 1945 e il 1980 il capitalismo fu in qualche modo regolato. In diversi paesi europei gli orari di lavoro furono ridotti: in Francia si arrivò alle ferie di cinque settimane. Per molti motivi. Non ultima la presenza di una grande ombra a oriente, che induceva imprenditori, banchieri, politici, a muoversi con cautela. Finito ciò, s'è avuta la controffensiva, mirante a tagliare le conquiste sociali intervenute tra il '60 e l'80. E tutta la legislazione è stata modificata in modo da dare massimo spazio al capitalismo finanziario.
Secondo una politica totalmente identificata con l'economia neoliberista...
Certo, quella vincente. La politica neoliberale è a suo modo una politica totalitaria, persino con connotazioni fideistiche: lo stato deve essere ridotto ai minimi termini. Le strade verso la crisi ecologica globale sono state spianate a colpi di legge da una politica che ritiene prioritaria l'economia. Bisogna recuperare la capacità della politica di imporsi in qualche misura all'economia, in specie alla finanza. Certo con difficoltà enormi: questa realtà è stata messa in piedi già dalla fine degli anni '40.
Quando il problema ambiente ancora non si poneva...
Sì, allora la conquista del dominio dell'economia sulla politica si poneva in termini molto chiari. La globalizzazione è stata uno degli strumenti per costruire un dominio politico e ideologico non meno che economico. E finora è mancata la controffensiva. Soprattutto è scomparso il pensiero critico.
E in tutto ciò il problema ambiente è stato completamente rimosso...
Non direi che è stato rimosso. Gli economisti neoliberali, principali artefici del disastro, in realtà ne erano e ne sono benissimo consapevoli. Soltanto che, finché dura, ci vedono un'occasione di profitto.
Il moltiplicarsi di questi disastri, dovrebbe allarmare questi signori...
Perché mai dovrebbero allarmarsi... La cosa, pensano, capiterà ai pronipoti...
Sta già capitando anche a loro. Con il Golfo del Messico, ad esempio.
Sta di fatto che cercare di convincerli è del tutto inutile, perché la loro forma mentale, il modo in cui calcolano costi e benefici, è strutturato in quella direzione.
Lei mi conferma che l'economia è un sistema completamente autoreferenziale, che ignora la realtà...
Abbia pazienza, attendersi qualcosa di diverso da queste persone è irrazionale da parte nostra. Sono loro i costruttori di questo mondo, che dal loro punto di vista va benissimo. Uno come Warren Buffet, il primo o il secondo uomo più ricco del mondo, alcuni anni fa ha scritto ai suoi azionisti una lettera in cui diceva: «Io non so bene se esiste qualcosa come la lotta di classe, ma se esiste è chiaro che noi siamo i vincitori». Come fai a convincerli... Il problema è che qualcuno a sinistra dovrebbe muoversi, e non soltanto l'1 o il 2 per cento.
Infatti. Non sarebbe il momento per le sinistre di rendersi conto che sfruttamento del lavoro, disoccupazione, precarietà, salari inadeguati, orari insostenibili, sono parte integrante di questa realtà ? Già Marx diceva che la produzione è solo produzione per il capitale. E Napoleoni asseriva che la vita del capitale consiste essenzialmente nella crescita di sé stesso... Sono domande centrali, oggi più di ieri. Le sinistre non dovrebbero vedere l'insostenibilità di questa situazione? In fondo erano nate per battere il capitalismo, poi hanno scelto il riformismo. Forse oggi dovrebbero accorgersi che il riformismo non serve più... Sarebbe il momento buono....
Sì, ma il momento buono cominciava almeno trent'anni fa .....
Sono d'accordo, e non è cominciato... Ma serve continuare così?
Se lei mi chiede una diagnosi, le dico che le sinistre (tranne forse una quota minima della sinistra-sinistra) di quello che è successo nel mondo hanno finora capito ben poco. Perché non c'è nessuna analisi approfondita del processo di globalizzazione, che al tempo stesso è un progetto politico, economico e tecnologico. La globalizzazione per certi aspetti è stato un gigantesco progetto di politiche del lavoro, volte a portare la produzione il più possibile nei paesi dove non solo il lavoro costa meno, ma ci sono meno diritti, il problema ambiente quasi non esiste, i sindacati sono solo sulla carta o poco più. Analisi approfondite, a livello di partito, non ne abbiamo viste. Sono molto più avanti alcuni think tank liberal americani ...
Solo che poi nessuno, nemmeno autori di fama, pensa che si debba, o si possa, superare il capitalismo. Ad esempio Stiglitz, o Krugman: criticano le enormi disuguaglianze ... le condizioni tremende di certi paesi "in via di sviluppo"... Auspicano correzioni ai singoli problemi. Ma nessuno sembra supporre che il capitalismo possa avere una fine.
Senta, se mi mettessero davanti un bottone verde e uno rosso, e mi dicessero "Prema il bottone verde e il capitalismo scompare", io lo premo subito (magari dopo aver chiesto che cosa lo sostituisce). Credo tuttavia che -considerando le forze in campo e la schiacciante vittoria del neoliberismo - il massimo che oggi si possa realisticamente sperare sia un capitalismo ragionevolmente regolato. I rapporti oggi sono tali che appare già una smisurata ambizione tentare di regolare in modo pratico il capitalismo. Partendo dal terreno politico, perché è lì che bisogna intervenire.
Ma assumendo in tutta la sua portata lo squilibrio ecologico non sarebbe possibile proporre un discorso più radicale? E' un azzardo pensarlo?
E' un azzardo perché non ci sono le forze sociali. Perché il proletariato mondiale (2 miliardi e mezzo tre- miliardi di persone) nell'insieme si può anche considerare "una classe in sé". Però c'è un' enorme distanza da colmare perché diventi "una classe per sé". E ' difficile contribuire a colmare questa distanza con persone che vivono con meno di 2 dollari al giorno... Come si fa a parlare di problemi ambientali a una donna di Haiti che vede i figli morire di fame?
Però adesso in Pachistan c'è un milione e mezzo di persone in fuga dall' alluvione... Dei poveracci che il problema ambiente lo patiscono sulla propria pelle. Sono i poveri che scontano lo squilibrio dell'ecosistema... Non è proprio su questo che la sinistra potrebbe lavorare?
Sì. basta trovare dov'è questa sinistra. E bisognerebbe lavorare, sgobbare, fare un'analisi approfondita, resuscitare il pensiero critico... Ci hanno rinunciato quasi tutti. Ma è vero che la questione della disuguaglianza è tragicamente collegata all'ambiente. Anche se con quelli che non sanno cosa si mangia stasera, di ambiente è difficile discorrere.
Forse sarebbe necessario per un momento mettere da parte i problemi storici delle sinistre - lavoro, salario, casa ... - per affrontare questa aporia di una crescita produttiva illimitata in un mondo che illimitato non è. ... In questa chiave tutte le politiche tradizionali potrebbero essere riviste...
Lei con me sfonda non una porta aperta, ma un cancello. Però occorre considerare che ci troviamo di fronte a formazioni politiche che hanno drammaticamente perso la loro battaglia. D'altronde temo non basti l'esortazione, né la critica più dura. Il loro carattere sociale è stato formato in quel modo e non si può tagliare la testa al soggetto per cambiargliela. Bisogna trovare il modo di mostrargli altre cose, di insegnarli altre cose. Ma per questo mancano i think tank, mancano i politici. Ad esempio, una delle grandi questioni politiche di cui non si parla è che le enormi disuguaglianze esistenti nel mondo sono state un fattore importante sia della crisi finanziaria sia della crisi industriale, e non da ultimo della stessa crisi ecologica. La lotta alle disuguaglianze è la prima da combattere se si vuole che qualcuno ci segua anche sul terreno della politica ambientale.
Forse occorre considerare anche quello che a me pare uno dei guasti più profondi: cioè il fatto che il consumismo, l'identificazione col possesso di oggetti...e quindi la competitività, la corsa al reddito, siano causa di una corruzione mentale gravissima, che comporta poi anche la corruzione spicciola.....
Non c'è dubbio. Penso all'ultimo libro di Benjamin Barber "Consumati", che analizza l'infantilizzazione dei consumatori, addirittura il rimbecillimento, dei giovani soprattutto ma anche degli adulti. Io non parlerei però di corruzione o deformazione, userei termini come carattere sociale, come diceva Erich Fromm, per indicare un carattere molto diverso e magari opposto a quello che noi vorremmo.
E però la consapevolezza di una crisi non solo ecologica non più sopportabile, si va diffondendo, specie tra i giovani... E' gente che, magari duramente criticandole, astenendosi dal voto, fa però riferimento alle sinistre... Non sarebbe questa una base da cui partire?
Io sono scettico su posizioni di questo genere, sostenute peraltro da più d'un autore. A me sembrano una riedizione in piccolo della speranza nel soggetto rivoluzionario che sorge per forza propria. Certo esiste tra un certo numero di persone la consapevolezza del rischio ecologico, ma non basta. Occorre che questa consapevolezza entri nella politica, si faccia politica... e per questo ci vogliono le forze, ci vogliono dei voti, dei parlamentari... Mi pare che siamo ancora lontani da questi traguardi.
BIOGRAFIA
Dalla Olivetti di Ivrea
ai testi sull'Italia postindustriale
Nato a Torino nel 1927, Luciano Gallino è tra i sociologi del lavoro più autorevoli del paese, avendo contribuito, nel secondo dopoguerra, all'istituzionalizzazione della disciplina. Chiamato a Ivrea da Adriano Olivetti, che aveva incontrato a Torino nell'autunno del 1955, Gallino ha compiuto il proprio apprendistato sociologico tra il 1956 e il 1971, prima come collaboratore dell'Ufficio studi relazioni sociali costituito da Adriano Olivetti, il primo del suo genere in Italia; poi, nel periodo 1960-1971, come direttore del Servizio di ricerche sociologiche e di studi sull'organizzazione (SRSSO), che di quel primo ufficio fu una filiazione diretta. Tra il 1968 e il 1978 è stato direttore dell'Istituto di sociologia di Torino, una delle prime strutture di ricerca in questo ambito disciplinare costituite nell'università italiana. Tra gli ultimi libri pubblicati si possono ricordare: «La scomparsa dell'Italia industriale» nel 2003; «Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità» nel 2007; infine «Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l'economia» nel 2009.
Per uscire dalla crisi serve un aumento del potere d'acquisto dei salariati e lo sviluppo di settori produttivi che favoriscano la crescita dell'occupazione. In tutto il mondo sono state invece aiutate le banche, le società finanziarie e le grandi agenzie di mutui immobiliari, che hanno utilizzato a proprio esclusivo vantaggio gli aiuti ricevuti dallo Stato. La minaccia ai diritti politici, sociali e civili non viene solo da una attività finanziaria senza regole, ma dalla natura stessa del capitalismo, dove il potere è esercitato da chi ha più denaro
La crisi è sia finanziaria che «reale», ma non prospetta una fuoriuscita dal capitalismo. È piuttosto la crisi di una forma specifica di capitalismo, quello selvaggio e predatorio basato sulle rendite parassitarie e speculative. In questa intervista, nuova puntata della serie «Il capitalismo invecchia?», Duccio Cavalieri punta inoltre l'indice sulle soluzioni adottate, che, scegliendo di salvare le grandi imprese finanziarie, gli istituto di credito e le banche, puntano a riprodurre le stesse dinamiche che hanno portato proprio alla crisi.
Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del '29?
Si è trattato all'inizio di una crisi di natura finanziaria, provocata da un'eccessiva espansione del credito bancario e da un'incontrollata cartolarizzazione di quello in sofferenza. La crisi finanziaria si è poi trasformata in una crisi reale, caratterizzata da gravi difficoltà nel realizzo del valore della produzione. È emersa una serie di problemi strutturali irrisolti, aggravati da disinvolti metodi di gestione dei rischi finanziari e da discutibili criteri di governance di alcune grandi istituzioni finanziarie internazionali. Si deve quindi parlare non di crisi generale del modello storico del capitalismo, ma di crisi di uno specifico modello capitalistico di accumulazione e sviluppo: quello, finanziariamente instabile, del tardo-capitalismo selvaggio e predatorio, basato sulla ricerca di rendite parassitarie e speculative, più che su quella del profitto.
È stata una crisi diversa, in larga misura, da quella del '29, sia per la sua dimensione globale che per il carattere a un tempo sistemico (strutturale) e ciclico. Anche le misure adottate per contrastarla sono state diverse: non si sono adottate misure deflazionistiche, ma si sono allentati i cordoni del credito e si fatto ampio ricorso all'indebitamento pubblico (Keynes ha insegnato qualcosa anche ai neoliberisti ad oltranza). Si è così assistito a una profonda ristrutturazione del capitale finanziario, su base mondiale. Ma questo non ha portato a significativi cambiamenti nel modello capitalistico di sviluppo. Si è infatti puntato essenzialmente al sostegno e al ripristino di uno status quo assai insoddisfacente, anziché cogliere appieno una grande occasione di rinnovamento.
All'origine della crisi in corso si possono riconoscere i difetti di un sistema di intermediazione finanziaria che avrebbe dovuto tutelare il risparmio e garantire il suo regolare afflusso alle imprese a alle amministrazioni pubbliche, e che invece è stato utilizzato per concentrare il potere finanziario nelle mani di alcuni grandi gruppi privati, per compiere avventurose operazioni speculative e per consentire alle banche di affari di coprire con sotterfugi legali (la cosiddetta «finanza creativa») enormi buchi di bilancio.
La domanda da porsi è cosa bisogna fare per uscire da questa crisi e per evitare che essa finisca col riproporre superati modelli storici di statalismo (l'ottica dello Stato imprenditore e proprietario) e di dirigismo (lo Stato regolatore). La risposta è che si deve anzitutto sostenere la domanda, spostando l'accento dagli impieghi finanziari agli investimenti reali e ridistribuendo la ricchezza prodotta, dalle rendite e dagli interessi verso i salari e i profitti. La grande disuguaglianza dei redditi non è un prezzo necessario da pagare per il progresso economico. Si deve evitare che gli impieghi finanziari appaiano più profittevoli degli investimenti reali e si devono rendeSi re i mercati più contendibili, a cominciare da quello del lavoro. Senza ricorrere necessariamente a privatizzazioni dei servizi pubblici, ma operando un radicale ripensamento del rapporto tra Stato e mercato.
Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell'analisi economica - e della storia in generale?
L'eccessiva attenzione dedicata dagli economisti a un affinamento dei metodi analitici ha indotto una parte della letteratura economica a perdere di vista i contenuti reali della ricerca e ad astenersi dal coltivare una visione di sintesi. Questo è andato a scapito della dimensione sociale e politica degli studi economici e ha certamente concorso a ridurre la capacità di previsione corretta degli avvenimenti da parte di quegli economisti. Ma hanno giocato un ruolo anche altri fattori, a mio avviso più importanti. Come l'eccessiva fiducia riposta dagli economisti di formazione neoclassica nell'operare di meccanismi spontanei di riequilibrio del sistema e la loro sottovalutazione dell'entità delle risorse finanziarie e reali richieste per soddisfare la crescita impetuosa dei bisogni sociali in ogni parte del mondo. Studiosi di formazione eterodossa - come Hyman Minsky, Wynne Godley, Samir Amin e Nouriel Roubini - avevano correttamente previsto la gravità della crisi che si andava profilando all'orizzonte. Se i segnali di allarme da essi lanciati non sono valsi a indurre a una decisa azione le autorità responsabili della politica economica, a chi vogliamo addossare la colpa? Agli analisti economici, o a chi aveva in mano le redini del potere e non è intervenuto in tempo, preferendo assecondare gli sviluppi del mercato?
Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mina le basi stesse della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in la?
Non è tanto la deregolamentazione dell'attività finanziaria a costituire una minaccia per la democrazia quanto la natura stessa del capitalismo, un sistema economico in cui chi ha più denaro ha più potere da far valere su mercato. Non basta quindi disciplinare il mercato, così da garantire l'osservanza delle regole concorrenziali. La concorrenza, anche se per ipotesi fosse perfetta, e non lo è mai, non potrebbe assicurare un'allocazione socialmente ottimale delle risorse disponibili. Neppure nel senso assai limitato dell'ottimo paretiano, che trascura gli aspetti distributivi del problema. La politica economica non può tuttavia limitarsi a disciplinare il funzionamento del mercato. Ha dei compiti ben più vasti.
Molti ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull'asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al Washington Consensus, quanto al capitalismo di stato cinese? O c'è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l'Europa (con il sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
L'asse economico Washington-Pechino mi pare tutt'altro che stabilmente consolidato. È presumibile che esso sarà presto messo in crisi da un abbandono del dollaro come principale valuta internazionale e da una maggiore diversificazione degli strumenti di riserva. Il disavanzo esterno degli Usa non potrà quindi continuare a essere finanziato con l'emissione di dollari, con conseguente aumento incontrollabile della liquidità internazionale e dei movimenti speculativi di capitali a breve ( hot money). I paesi emergenti, che hanno ingenti riserve in dollari, a cominciare dalla Cina, hanno finora preferito reinvestire i loro crediti in dollari, piuttosto che correre il rischio di una riduzione degli acquisti americani e di una svalutazione del dollaro. Non appena essi smetteranno di finanziare in questo modo il crescente disavanzo estero degli Usa, il quadro economico internazionale cambierà radicalmente e occorrerà ripensare dalle basi l'organizzazione e il modus operandi del sistema finanziario internazionale.
L'Europa, se sarà sufficientemente unita, potrà continuare a svolgere un ruolo importante nell'assetto economico mondiale e a difendere un modello credibile di stato sociale. Diverso è il discorso per il sud del mondo, che si trova in condizioni assai peggiori, gravato com'è dal peso insopportabile dei debiti pregressi verso l'estero (un altro serio problema strutturale che attende soluzione).
L'attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e le pensioni): un intervento dal lato dell'offerta, anziché della domanda è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?
Ovviamente no. Si sarebbe dovuto e si dovrebbe intervenire su entrambi i lati del mercato, a sostegno sia della domanda solvibile, e in particolare del potere d'acquisto dei salariati (la ricetta keynesiana), sia di alcuni settori dell'offerta particolarmente importanti dal punto di vista dell'occupazione. In tutto il mondo si sono invece aiutate le banche, le grandi società finanziarie e le principali agenzie di mutui immobiliari, che hanno utilizzato a proprio esclusivo vantaggio gli aiuti ricevuti dallo Stato. È così emersa una scarsa disponibilità dei detentori di mezzi liquidi a spenderli, in modo da sostenere la domanda.
La quantità globale di moneta in circolazione è da ritenere più che adeguata rispetto al fabbisogno, anche perché in molti paesi il sistema finanziario è stato ampiamente ricapitalizzato con fondi pubblici. Ma la domanda di moneta si è scontrata con il comportamento socialmente poco responsabile degli intermediari del credito. I fondi conferiti al sistema bancario non si sono trasmessi in misura sufficiente all'economia reale, perché le banche, controllate dal capitale privato, hanno preferito impegnarsi in attività di speculazione finanziaria, considerate più redditizie rispetto al finanziamento della produzione e degli investimenti. Della stretta creditizia all'economia reale che ne è conseguita hanno risentito in primo luogo le imprese, molte delle quali sono state costrette a ridurre o a cessare la loro attività. A questo punto la crisi da finanziaria è diventata reale e si è scaricata sui lavoratori e sulle loro famiglie.
Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle forme e delle dimensioni dell'indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l'economia mondiale?
Un prezzo assai pesante, ma che sarà probabilmente temperato da un prevedibile aumento dell'inflazione, dovuto all'eccessiva espansione della liquidità operata dalle banche centrali. Questo stato di cose potrebbe portare a una riduzione dell'onere reale del debito pubblico pregresso gravante sulle generazioni future. L'obiettivo immediato, in questo campo, dovrebbe essere la stabilizzazione del rapporto tra il debito e il Prodotto interno lordo (Pil), mediante l'azzeramento del disavanzo primario tra le entrate e le spese pubbliche.
L'unica alternativa praticabile è il ricorso alla creazione di nuova base monetaria. Ma il contenimento del debito pubblico non può costituire l'obiettivo principale della politica economica di un paese. Va inteso piuttosto come uno dei vincoli da rispettare nel perseguimento di obiettivi macroeconomici più significativi. Il problema del «rientro» dalla crisi in corso è complesso: riguarda non solo la sostenibilità finanziaria del debito pubblico, ma anche quella sociale. Occorre tenere conto degli effetti redistributivi che l'indebitamento statale tende a determinare, sia tra le diverse generazioni, presenti e future, sia tra i percettori degli interessi che matureranno sul debito pubblico e i contribuenti che dovranno sostenerne l'onere.
Le interviste finora pubblicate sono: a Giorgio Lunghini il 18 novembre; a Catia Kaldari il 22 novembre; a Giacomo Becattini il 25 novembre; a Tito Boeri il 29 novembre; a Pierluigi Ciocca il 2 dicembre. Tutte anche su eddyburg, in questa cartella.
A conferire alla depressione degli anni Trenta l’aggettivo “grande” è stato il protezionismo. Per guadagnare competitività nei confronti degli altri paesi le nazioni hanno alzato le barriere doganali. Piuttosto che proteggere l’esportazione i dazi doganali l’hanno strangolata causando una contrazione del commercio internazionale. Si è così innescata una spirale depressiva senza precedenti. Ebbene oggi rischiamo di commettere lo stesso errore usando le monete per guadagnare competitività rispetto ai partner commerciali.
Al centro delle guerre monetarie troviamo la Cina la cui moneta si è sganciata dal dollaro soltanto lo scorso giugno. Ciò significa che per ben 5 anni il cambio con il biglietto verde è rimasto costante. Difficile stabilire di quanto il Revimi sia sottovalutato, in realtà poco importa poiché ciò che conta è la rapidità con la quale l’equilibrio tra le due monete potrà essere ripristinato. E la risposta è sicuramente non nel breve periodo dal momento che l’economia cinese non lo permette.
Le politiche di rivalutazione hanno bisogno di tempo per funzionare e la Cina moderna si trova in una situazione molto simile a quella del Giappone negli anni Cinquanta e Sessanta. Una buona fetta dell’industria è ancora rudimentale e produce con margini di profitto bassissimi, una rivalutazione improvvisa costringerebbe alla bancarotta molte piccole e medie imprese. Il processo di transizione verso un’industria più avanzata è però in atto, prova ne sia la delocalizzazione di molte produzioni cinesi in paesi come la Cambogia, a basso costo del lavoro, ma è lento. Esistono poi altri elementi che frenano la rivalutazione: i salari nazionali sono in aumento e quindi i margini di profitto ne risentono; l’ultimo piano quindicinale volge al termine ed il governo sta formulando quello nuovo, nessuna decisione importante viene mai presa in questo frangente.
Quali le decisioni future? Sicuramente Pechino si concentrerà sulla politica interna e canalizzerà gli investimenti sul mercato nazionale. La rivalutazione andrà di pari passo con il potenziamento dell’economia nazionale, seguirà il ritmo di crescita dell’economia nazionale non di quella internazionale, troppo lento per il mercato occidentale. Sarà quindi il dollaro a dover perdere quota per raggiungere un nuovo equilibrio, ed è esattamente quello che sta succedendo. Ma la svalutazione del dollaro, proprio perché si tratta della moneta di riferimento del sistema monetario, destabilizza tutto il sistema.
Da mesi le banche centrali riducono le riserve monetarie in dollari. I cinesi hanno acquistato obbligazioni spagnole e coreane, i giapponesi quelle indonesiane e così via. Alla maratona per acquistare titoli provenienti da economie emergenti e stabili partecipano anche i fondi sovrani e gli hedge fund che operano de facto come gestori di riserve monetarie. Paesi come il Brasile, con titoli aventi un rendimento del 10%, un’economia in crescita e un governo stabile sono presi d’assalto dagli investitori istituzionali. Ciò produce la rivalutazione delle monete nazionali e la conseguente perdita di competitività.
Nel 2009 il Real brasiliano è salito del 30% rispetto al dollaro. E questo nonostante il governo abbia imposto a distanza ravvicinata due tasse del2%sugli acquisti da parte degli stranieri e la banca centrale sia intervenuta sul mercato dei cambi ripetutamente vendendo la moneta nazionale.
Svizzera e Giappone si trovano in una situazione analoga,ma anche l’Australia ed il Canada sono vittime della fuga dal dollaro. Tutte queste monete si sono considerevolmente rivalutate. Il governo svizzero e quello giapponese hanno cercato di difendere la parità intervenendo sul mercato dei cambi vendendo moneta nazionale per un valore rispettivamente di 14 e 20 miliardi di dollari. Nel medio periodo la manovra non ha prodotto gli effetti sperati e sia lo Yen che il Franco Svizzero oggi valgono molto di più rispetto al dollaro che nove mesi fa. A farne le spese è naturalmente l’esportazione.
Australia e Canada, invece, proprio perché sono economie in fase di forte espansione grazie alle esportazioni di materie prime chiave - energia e metalli – hanno lasciato che la loro moneta si apprezzasse, ma l’industria nazionale ne paga le conseguenze.
Alla radice del caos monetario odierno c’è uno squilibrio del commercio internazionale vecchio di almeno un decennio. La Cina ha un surplus monetario generato dalle esportazioni, ecco perché le si chiede di rivalutare. Negli ultimi 10 anni questo squilibrio è stato funzionale al sistema, lo si è usato per acquistare buoni del tesoro americani ed occidentali. Dall’altra parte dell’equazione troviamo una condizione deficitaria occidentale cronica dai tempi della crisi del .COM del 2001, quando gli indici di borsa hanno toccato il fondo. La scoppio di quella bolla non ha però prodotto una ristrutturazione dei flussi commerciali e di capitale, ad evitarla è stata la politica dei tassi bassi perseguita da Greenspan che ha creato una competitività fittizia nelle nostre economie: ci ha permesso di usare il debito come un bene. Ed infatti dal 2001 gran parte della crescita in occidente proviene dal settore finanziario, invece di investire nell’economia reale abbiamo investito in quella finanziaria, indebitandoci. E quando questa è crollata siamo piombati nel caos.
Come uscirne? La percentuale di ricchezza liquida è aumentata in modo sproporzionale rispetto a quella investita nell’economia reale, ma il mercato è ormai fortemente illiquido.
Pochi sono gli sbocchi e questo crea volatilità sul mercato dei cambi dove i volumi di scambio giornalieri sono da ormai da capogiro: 900 miliardi di dollari, pari a quasi il 3% dell’economia mondiale. I fondi sovrani, banche centrali come quella Cinese e gli hedge funds devono spendere parte della loro ricchezza, magari aiutando il mondo a riprendersi dalla recessione. Ma nel lungo periodo ci vorrà un nuovo sistema monetario bilanciato da un paniere di monete, tra le quali sicuramente il Revimi.
Onu, proposta shock di Sarkozy
"Tassiamo i movimenti finanziari"
Federico Rampini
NEW YORK - 5.317.280. È il numero delle donne morte per gravidanza da quando fu adottato nel 2000 l´Obiettivo Millennio: il piano con cui i paesi membri delle Nazioni Unite s´impegnavano a debellare, tra l´altro, la mortalità al parto. Ieri all´apertura del summit Onu per fare il punto sul Millennio ci ha pensato Amnesty International a ricordare i numeri di un fallimento: ha installato un "orologio della morte" nel cuore di Manhattan a Times Square, con un quadrante dove il bilancio delle vittime continua a salire. «Mancano almeno 120 miliardi di dollari - ha detto il segretario generale dell´Onu Ban Ki-moon aprendo la conferenza - per raggiungere entro il 2015 gli otto obiettivi del Millenio». Tutti mirati a sradicare la fame, la miseria estrema, l´analfabetismo dei bambini, le malattie più mortali come Aids e malaria.
I fondi promessi dieci anni fa sono stati versati solo in parte ai paesi più poveri. Ci si è messa anche la grande crisi economica del 2008-2009, a rendere i paesi ricchi più avari negli aiuti. «Non risanate i vostri conti pubblici a spese dei più poveri», ha invocato Ban Ki-moon davanti ai 140 leader mondiali riuniti al Palazzo di Vetro.
Ma l´intervento dirompente della prima giornata è stato quello di Nicolas Sarkozy. Raccogliendo l´invito del segretario generale, Sarkozy ha annunciato un aumento del 20% degli aiuti francesi e soprattutto ha rilanciato le sue proposte di "finanza innovativa". A cominciare dalla tassa sulle transazioni finanziarie mondiali, per pagare gli aiuti allo sviluppo. «La finanza opera ormai su scala globale - ha detto il presidente francese - e quindi perché non dovrebbe partecipare alla stabilizzazione dell´economia globale? Visto che tutti i paesi sviluppati sono in deficit, dobbiamo trovare nuove fonti di finanziamento. La tassa sulle operazioni finanziarie può alimentare la lotta contro la povertà, il sostegno all´istruzione, le cure contro le grandi pandemie». Sarkozy ha promesso che porterà avanti l´idea della tassa sulla finanza globale quando l´anno prossimo la Francia avrà la presidenza di turno del G8 e del G20. Con lui si è schierato il premier spagnolo José Luis Zapatero, che in alternativa ha proposto anche di rendere universale la tassa sui biglietti aerei, già varata dalla stessa Francia. La proposta di Sarkozy raccoglie consensi anche tra i governi della Germania, del Brasile e della Norvegia. È una variante della Tobin Tax, la cui utilità viene sostenuta anche per altri obiettivi: servirebbe a penalizzare le operazioni puramente speculative, e a riequilibrare la pressione fiscale che oggi nel mondo intero è eccessivamente concentrata sui redditi da lavoro anziché sulle rendite dei capitali. Ma la tassa sulle transazioni finanziarie ha sempre incontrato ostacoli insormontabili nell´opposizione dei paesi che hanno le piazze finanziarie più attive del pianeta, Stati Uniti e Gran Bretagna.
Sul bilancio del piano del Millennio, ormai giunto ai due terzi del cammino, è stato severo il presidente della Banca mondiale Robert Zoellick: ha ricordato che «solo nel 2010 altri 65 milioni di uomini e donne sono finiti sotto la soglia della povertà estrema», misurata a meno di 1,25 dollari al giorno. Il direttore del Fmi, Dominique Strauss-Kahn, ha detto che «la crisi economica ha penalizzato in tanti modi i paesi più poveri, non solo riducendo gli aiuti, ma anche perché è stata preceduta da una crisi energetica e alimentare».
Il Millennium Goal nel 2000 si era prefissato di ridurre della metà la povertà estrema, di assicurare un´istruzione elementare a tutti i bambini del mondo, di ridurre la mortalità infantile dei due terzi e quella delle madri al parto dei tre quarti. Il numero di persone senza accesso all´acqua potabile dovrebbe essere dimezzato. Il tutto entro il 2015. Obiettivi che oggi sembrano difficilmente raggiungibili, visto che i paesi ricchi hanno sempre disatteso le loro promesse in termini di finanziamenti. Qualche notizia positiva c´è. L´ong inglese Overseas Development Institute ha messo in luce le eccezioni in Africa: il Ghana ha ridotto la popolazione che soffre per fame dal 34 al 9%, il Benin è tra le dieci nazioni che hanno fatto i progressi più consistenti nell´istruzione. La tre giorni sul Millennio sarà conclusa da Barack Obama domani. Le accuse dall´emisfero Sud sono già cominciate, con il presidente boliviano Evo Morales che ha denunciato «il saccheggio sistematico delle risorse naturali nei paesi più poveri».
Italia, tante promesse e pochi contributi
di Carlo Petrini
Ormai è prassi: per dirsi soddisfatti del risultato di un summit internazionale, i Paesi partecipanti se ne devono sempre uscire con una dichiarazione di buoni intenti, la più ambiziosa e politically correct possibile. FAO, G8 e quant´altro, ci siamo abituati come fosse una nenia. Oggi, com´è giusto che sia, si fa un gran parlare del summit delle Nazioni Unite sugli Obiettivi del Millennio di New York. Un incontro multilaterale che almeno ha il pregio di essere prima di tutto una verifica rispetto a un impegno importante, dichiarato 10 anni fa: eliminare la povertà estrema entro il 2015.
La Dichiarazione del Millennio del 2000 stabilì un programma preciso su cui lavorare, tempi da rispettare, chi e come avrebbe dovuto fare il lavoro. Guardando i dati, si può dire che in 10 anni alcuni progressi ci sono stati - e questo emergerà dal summit - ma oltre a rilanciare bisognerà anche fare attenzione a chi si prenderà il merito di quanto fatto fin´ora. La vera novità del 2000 fu che gli 8 Obiettivi vennero affidati principalmente ai Paesi poveri: 7 a loro e uno solo a quelli ricchi. Insomma chi aveva il problema era incaricato di risolverlo nel nome della diversità, secondo piani precisi, gestendo le risorse messe a disposizione da altri. Molti Paesi negli anni si sono rivelati virtuosi: Mozambico, Ghana, Ruanda e Tanzania per esempio, nonostante l´Africa resti il continente più in ritardo. Anche in Asia si sono fatti passi importanti, però c´è chi non ha fatto la sua parte, e anche in modo clamoroso.
Il punto otto ci fa riflettere, e arrabbiare. Si chiama "partenariato globale per lo sviluppo" ed è la promessa dei Paesi più ricchi, tra cui l´Italia naturalmente, di destinare entro il 2015 lo 0,7% del proprio Pil in "Aiuto pubblico allo Sviluppo". Il Pil non misurerà la felicità, ma in questo caso ci aiuta a misurare l´impegno dei nostri governi su quelle che dovrebbero essere le loro priorità. Svezia, Norvegia, Lussemburgo, Danimarca, Olanda e Belgio hanno già superato lo 0,7%. Gran Bretagna, Francia, Spagna e Germania ci stanno lavorando. Gli altri molto meno, tanto che la media è soltanto dello 0,31%. Tra l´altro, ieri Sarkozy in apertura ha rilanciato con forza l´idea rivoluzionaria di una tassa globale sulle transazioni finanziarie. E l´Italia? No, non siamo gli ultimi come da buoni maligni e disfattisti avrete già pensato. Siamo penultimi, prima della Corea del Sud. Siamo allo 0,1%.
Si direbbe quasi che siamo i campioni nel fare promesse e non mantenerle, oppure nel giochino di rifare sempre la stessa promessa a ogni summit, che sembra il preferito dei ricchi. Nel 2005, durante il G8, ci siamo impegnati per lo Sviluppo in Africa. Dopo quattro anni abbiamo raggiunto soltanto il 3% di quanto promesso. E ciò che è stato detto dopo il G8 dell´Aquila? È innegabile che siamo di fronte a una palese mancanza, speriamo non dettata da una precisa strategia politica. La Fao ci comunica che dopo continui aumenti, il numero degli affamati e dei denutriti quest´anno finalmente è sceso sotto il miliardo. Forse hanno iniziato a fare meglio il loro dovere, ma c´è poco da rallegrarsi perché restano oltre 900 milioni le persone in drammatica difficoltà, una cifra scandalosa. Inoltre sono già piovute critiche da parte del mondo religioso e laico impegnato sul campo: spesso queste cifre sono figlie di congiunture internazionali, non fotografano realmente il problema. Una dichiarazione siffatta una settimana prima del summit di New York suona tanto come un voler mettere le mani avanti.
Dove si è potuto intervenire con la formula della partnership prevista dalle Nazioni Unite nel 2000, invece, le cose sembrano aver funzionato di più, sembra la strada giusta. Ora, di fronte al mondo, l´Italia come giustifica la sua indifferenza?
Ci risponderanno - se prima non daranno la colpa all´avversario politico di turno - che viviamo in tempi di crisi e che nel 2000 non si poteva prevedere cosa ci è piovuto tra capo e collo negli ultimi anni. Nonostante questo però c´è stato chi il suo dovere l´ha fatto, anche in anticipo rispetto ai patti. Forse i nostri grandi statisti non sono in grado di comprendere che un mondo in cui si è sconfitta la povertà è un mondo migliore, in cui tutti trarrebbero giovamento. Meno migrazioni, per esempio. Che bello spot sarebbero per la Lega, così preoccupata di chi attraversa i nostri confini, gli aiuti umanitari di Governo, se fossero reali. È desolante leggere le cronache politiche italiane, delle nostre beghe da cortile, mentre a New York si parla di risolvere il problema della povertà estrema.
In Italia la più attiva è sempre la società civile. C´è la campagna della Coalizione Italiana contro la Povertà, cui hanno aderito in tanti, che proprio in questi giorni promuove l´adesione alla Campagna "Stand Up! Take Action!" sugli Obiettivi del Millennio. L´anno scorso aderirono 173 milioni di persone nel mondo e più di 800.000 mila in Italia: un italiano su settanta. La società civile lo vuole, ma i Governi sembrano sordi, e sempre dalla parte dei ricchi. Per esempio, come fanno le Nazioni Unite a tollerare che oggi nel mondo siano in atto speculazioni finanziarie sulle materie prime alimentari? Ci sono fondi finanziari internazionali che con una sola operazione sono in grado di accaparrarsi intere percentuali della produzione mondiale di grano, riso o mais e di bloccarle nei magazzini. Sono operazioni che andrebbero vietate, controllate e poi punite a livello internazionale, perché si tratta di speculazioni che se a noi poi costano l´aumento di qualche centesimo per un chilo di pasta, per intere popolazioni invece rappresentano la fame. Proprio in Mozambico, uno Stato che s´è distinto nell´impegno verso gli Obiettivi del Millennio, nei giorni scorsi sono scoppiate rivolte per il pane. Un buon lavoro di anni può essere vanificato con un clic per una transazione finanziaria.
Gli Obiettivi del Millennio, in materia di lotta alla fame e alla povertà, possono essere mantenuti e ampiamente superati. Siamo la prima generazione mondiale che ha tutti i mezzi per farcela. Si può davvero fare tanto con poco, mentre l´Italia non fa niente.
Il nuovo millennio non sarà né americano né europeo. Una previsione che un piccolo esercito di studiosi di geopolitica e di economia era pronto a sottoscrivere da molti anni. A ingrossare le loro fila ci ha pensato la crisi dell'economia globale, facendo diventare questa previsione un luogo comune, buone per spiegare i successi di realtà nazionali o di città stato asiatiche come l'India, la Cina, Singapore, Malaysia, Indocina e Macao. Al di là della evidenza empirica che la crisi economica ha colpito più duramente gli Stati Uniti o il vecchio continente che non i paesi asiatici, il pensiero critico sta però ancora cercando di sviluppare una spiegazione plausibile del perché paesi considerati fino a dieci, venti anni «sottosviluppati» siano diventati la locomotiva che traina l'economia mondiale. Nelle pagine conclusive di Adam Smith a Pechino (Feltrinelli) Giovanni Arrighi invitava a non lasciarsi trascinare dai facili entusiasmi nell'indicare la Cina come lo Stato-nazione che rubava lo scettro agli Stati Uniti lo scettro di unica superpotenza politica e economica nel mondo. L'economista italiano ricordava, a ragione, che per diventare superpotenza un paese deve avere non sola la potenza militare conseguente al ruolo che esercita, ma di avere la capacità di condizionare le scelte e le decisioni prese tanto dai singoli stati nazionali che dalle istituzioni preposte alla governance della globalizzazione.
Dalla periferia al centro dell'impero
La Cina, scriveva Arrighi, non poteva essere considerata né un paese capitalista, ma neppure socialista. Semmai andavano riprese criticamente le tesi di Adam Smith sull'economia di mercato che contempla non una indistinta e sfuggente mano invisibile, ma un forte interventismo nei campi dei diritti civili, politici e nella legislazione del lavoro per garantire la prosperità economica, aiutando cosi molti paesi cosiddetti sottosviluppati a sfuggire al destino di ripercorrere il sentiero già battuto, e fallimentare, del cosiddetto neoliberismo o quello altrettanto fallimentare del socialismo reale.
L'economista italiano considerava il suo libro come l'inizio di una ricerca ancora tutta da svolgere e che la sua morte ha interrotto, proprio quando è iniziata una vivace discussione internazionale sulle implicazioni teoriche delle sue tesi. Tra i protagonisti della riflessione attorno alla «natura» dello sviluppo capitalistico che ha caratterizzato molti paesi asiatico c'è sicuramente Kalyan Sanyal, economista indiano che ha scritto un importante saggio - Ripensare lo sviluppo capitalistico, la casa Usher, pp. 254, euro 19,50 - che, oltre a dialogare con le tesi di Giovanni Arrighi, ripercorre criticamente il quarantennale dibattito in ambito marxista sul rapporto tra i paesi del centro e quelli alla periferia dell'economia capitalistica mondiale.
Kalyan Sanyal dichiara sin dalle prime pagine la sua insoddisfazione rispetto alle analisi di Immanuel Wallerstein, Andre Gunder Frank e Samir Amin, i quali hanno in passato sostenuto che i paesi usciti dal lungo inverno colonialista avrebbero colmato la distanza con i paesi industrialmente sviluppati per uscirà dalle condizioni di minorità e di arretratezza economica che li connotava. Per Sanyal, invece, non esiste una unica traiettoria per giungere alla agognata meta di una società industrialmente sviluppata, sebbene plasmata sul modello europeo o statunitense. Anzi, proprio, la storia recente indiana, e per estensione di quella cinese, indica che è possibile abbinare uno sviluppo capitalistico a forme politiche e sociali radicalmente differenti rispetto a quelle europee o statunitensi. Dunque le concezioni che vedono un'uscita obbligata dal sottosviluppo sono errate. Con passione e una nutrita rassegna della più che quarantennale bibliografia sullo sviluppo capitalistico, l'economista indiano si propone l'obiettivo di sviluppare una critica dell'economia postcoloniale che caratterizza società che mantengono caratteristiche dei paesi cosiddetti sviluppati sviluppate - una ampia percentuale della popolazione che vive in condizioni di povertà e un numero limitato di lavoratori salariati - e una capacità di sviluppare settori produttivi fortemente integrati nell'economia globale capitalista. Per fare questo, Sanyal riprende gli scritti di Karl Marx sull'accumulazione originaria cercando di fonderli con l'analisi di Michel Foucault sulla «governamentalità».
È noto che Marx ha variamente inteso l'accumulazione originaria, considerato lo sviluppo capitalistico all'interno di una cancellazione degli elementi precapitalistici da parte di rapporti sociali congeniali a un regime economico fondato sul lavoro salariato. L'accumulazione originaria era cioè propedeutica affinché si compisse il passaggio dal capitale mercantile alla riproduzione allargata del capitalismo fondata sul lavoro salariato.
L'indispensabile povertà
Periodo feroce, violento, quello dell'accumulazione originaria, come d'altronde gli storici hanno documentato, ma comunque limitato nel tempo. Per Sanyal, invece, l'accumulazione originaria è un dispositivo sempre vigente. Nell'economia politica postcoloniale gli elementi precapitalistici devono essere mantenuti perché «funzionali» alla forma specifica di capitalismo affermatasi nei paesi cosiddetti sottosviluppati come l'India. In parte perché lo sviluppo economico non riesce a garantire la piena occupazione. Da qui la persistenza di una diffusa povertà in quei paesi. Ma anche perché l'economia «informale» - piccolo artigianato, piccolo commercio, produzione di merci senza far ricorso al lavoro salariato - svolge un ruolo politico, cioè di stabilità delle società. È questo mantenimento politico di un ampio settore economico e sociale non coinvolto nello sviluppo capitalistico che garantisce lo sviluppo capitalistico nei settori «di punta» dell'economia mondiale. Da qui, il ruolo fondamentale dei movimenti sociali contro la povertà e delle forme di produzione non capitalistica visti dall'economista indiano come critica immanente dell'economia politica postcoloniale. E sulla prima parte il consenso è d'obbligo, sulla seconda parte della sua proposta politica ci sarebbe molto da discutere.
Il saggio di Kalyan Sanyal mostra la sua capacità interpretativa proprio sottolineando il ruolo «pastorale» dello stato nei paesi usciti dal colonialismo e diventati nodi fondamentali nelle rete produttive globali che avvolgono il pianeta. Ma a differenza di quando hanno sostenuto, ad esempio, Toni Negri e Michael Hardt nel saggio Impero nel capitalismo globale l'esterno continua a sussistere perché funzionale proprio allo sviluppo capitalistico.
Dalla terra alla conoscenza
L'analisi di Sanyal non è però convincente laddove non affronta il fatto che l'accumulazione originaria si basa anche sull'estensione dell'istituto della proprietà privata e del lavoro salariato a tutti gli aspetti della vita sociale. E si può tranquillamente affermare che il dispositivo dell'accumulazione originaria è vigente anche nei paesi europei o negli Stati Uniti, proprio perché le enclosures o il lavoro salariato viene esteso a settori finora «esterne» dalla produzione capitalistica. L'affermazione del regime della proprietà privata alla conoscenza, al sapere e la diffusione di forme di lavoro salariato a questi settori possono essere meglio comprese proprio usando l'accumulazione originaria non come momento transitorio ma come suo elemento costante dello sviluppo capitalistico. Il saggio di Sanyal rivela la sua capacità analitica nell'evidenziare il ruolo «pastorale» dello stato nello sviluppo economico di molti paesi asiatici, europei e statunitensi, nonostante la retorica neoliberista consideri lo stato un residuo passivo del lungo secolo novecentesco. Retorica che torna ne Il miracolo, un saggio scritto dall'economista statunitense Micahel Schuman (Marco Tropea, pp. 413, euro 23).
In una malcelata apologia dei regimi politici autoritari come quello malaysiano, di Singapore o nell'ammirazione di imprenditori giapponesi, coreani, Schuman sottolinea che la scelta del libero mercato è stata fondamentale per fermare la possibilità che in tutti i paesi del sud-est asiatico si affermassero regimi filo-sovietici o filo-cinesi. Certo, a prezzo di politiche antisindacali, di repressioni ferocissime (la messa morte di centinaia di migliaia di comunisti in Indonesia occupa lo spazio di due righe) e di assenza di libertà, ma l'economista statunitense ripropone sempre il mantra che alla fine la democrazia trionfa sempre quando l'economia è prospera e le imprese hanno mano libera.
La Cina, l'India, l'Indonesia, il Giappone, la Corea del Sud presentano però un'anomalia che Schuman non riesce però a cancellare man mano che la sua ricostruzione storica procede. Sono tutti paesi dove il libero mercato ha avuto nello Stato un robusto e indiscutibile supporter. Da questo punto di vista è interessante mettere a confronto questo libro con quello della giornalista cino-americana Leslie T. Chung Operaie (Adelphi, pp. euro 24. Ne ha scritto su queste pagine Nicoletta Pesaro il 14 Luglio 2010). E se Schuman ritiene che la Cina è entrata nel club che conta solo perché qualche illuminato di PeChino ha deciso di lasciati liberi gli spiriti animali del mercato, la giornalista fa parlare le protagoniste del suo reportage - una specie di «NoLogo» politically correct - dove l'ombra dello stato si allunga su tutto ciò che le imprese decidono di fare, creando le condizione sociali, giuridiche e politiche di uno sviluppo capitalistico, tanto veloce quando pervasivo.
In nome della modernizzazione
Le operaie di Leslie T. Chung vogliono affrancarsi dalla vita di villaggio, vogliono costruire una vita confacente a desideri, bisogni che la società «socialista» considerava tabù: ma la loro individualizzata «pratica dell'obiettivo» non sarebbe però pensabile senza il decisivo apporto «pastorale» dello stato socialista. Per quanto interessante, il saggio di Michael Schuman sceglie sempre di aggirare gli scogli che la retorica del libero mercato non ha contemplato nella sua vision totalizzante della vita in società. E i nodi investono sempre la forma specifica di un capitalismo che ha saputo adattarsi a situazioni locali, facendo diventare punti di forza ciò che inizialmente poteva presentarsi come debolezza.
La presenza di una povertà diffusa è indispensabile per consentire il decollo di settori produttivi fondamentali nell'economia mondiale. Il distretto di Bangalore non sarebbe mai diventato uno dei centri nevralgici dell'high-tech se lo stato indiano non avesse considerato l'istruzione come un obiettivo strategico dell'India dopo l'indipendenza, aprendo così le porte delle università a milioni di indiani. Allo stesso tempo, la persistenza dell'economia di sussistenza è stata fondamentale perché lo sviluppo capitalistico non può più garantire la piena occupazione. E gli esempi potrebbero continuare a lungo.
In altri termini, l'analisi delle società asiatiche costringe il pensiero critico a riprendere sentieri interrotti, come il rapporto spesso conflittuale tra diritti sociali e sviluppo capitalistico; la democrazia come potenza degli eguali e non come rappresentazione degli interessi di una generica società civile. La nozione, infine, di lavoro salariato, che non coincide con la sua forma contrattuale europea o statunitense. L'Asia che emerge in questi anni di globalizzazione pone di nuovo nell'agenda il nodo, certo ancora da sciogliere, di come superare quel regno della necessità che ci consegna a una radicale assenza di libertà.
Per Marchionne, per la Marcegaglia e per molti altri che hanno frequentato il meeting di Comunione e liberazione la lotta di classe è un residuo di un passato da superare, così come lo è la conflittualità sindacale o la lotta «tra operai e padroni». Così si capisce meglio dove mirassero le tante polemiche fuori tempo massimo contro il '68 e la sua cultura distruttiva. Però, come giustamente ha fatto notare Adriano Sofri sulla sua piccola posta, la frase «basta lotta tra padroni e operai» prende una sfumatura diversa a seconda che a pronunciarla sia un operaio oppure un padrone. In effetti per tutti costoro quello che è o va superato è la lotta degli operai contro i padroni, o dei lavoratori contro le imprese e i loro imprenditori, perché l'altra, quella dei padroni contro gli operai è in pieno corso e va a gonfie vele. Come altro si può intendere, infatti, la situazione di quelle migliaia di lavoratori lasciati sul lastrico da padroni, spesso bancarottieri, che si sono impossessati di un'impresa per distruggerla o ridimensionarla grazie ai meccanismi messi in campo dalla finanza internazionale? O le delocalizzazioni fatte per liberarsi di una manodopera troppo costosa? O la diffusione del lavoro precario che distrugge qualsiasi possibilità di costruirsi una vita e un futuro? O la tesi di Tremonti, secondo cui la normativa sulla sicurezza sul lavoro (L. 626) è ormai insostenibile per le imprese, nonostante le morti sul lavoro ufficialmente accertate siano più di mille all'anno, e altrettante, e forse più, siano non accertate, perché morti «bianche» provocate dal lavoro «nero»?
L'accondiscendenza politica e sindacale verso il primato assoluto dell'impresa - che è l'ideologia sottostante a queste prese di posizione - ha impregnato talmente il sentire comune che nell'affrontare questi temi i loro corifei non si rendono nemmeno più conto di quel che dicono. Sentite Marchionne al meeting di Rimini: «Non credo sia onesto usare il diritto di pochi per piegare il diritto di molti». Pensa di parlare di tre degli operai che ha fatto licenziare per rappresaglia contro la Fiom, ma la stessa frase potrebbe essere letta in un altro modo. Quali sono «i diritti di pochi»? Non sono forse quelli dei padroni della fabbrica? O, meglio, degli azionisti di riferimento (gli altri sono «parco buoi») e dei manager che si sono scelti e che guadagnano, tutti quanti, milioni di euro all'anno: 3-400 volte di più dei «molti» che lavorano per loro. E chi sono quei «molti» i cui diritti vengono «piegati» dai «pochi»: quelli che un picchetto o un'assemblea in fabbrica ha magari dissuaso dal cedere al ricatto dell'azienda? O quelli «piegati» a dire di sì in un referendum sotto la minaccia di perdere per sempre il loro posto di lavoro? E ancora (è sempre Marchionne che parla): «La dignità e i diritti non possono essere patrimonio esclusivo di tre persone. Sono valori che vanno difesi e riconosciuti a tutti». Certo la dignità e i diritti di alcuni «tre», per esempio Marchionne, Elkann e Montezemolo, oppure Tremonti, Sacconi e la Sig.ra Marcegaglia, non sembrano messi in discussione. Ma che dire di migliaia di lavoratori posti di fronte al diktat di accettare condizioni di lavoro inaccettabili, contrarie alla loro dignità (ma si è mai vista la «pausa mensa» a fine turno, dopo otto ore di lavoro quasi senza pause? E perché non li si lascia andare a mangiare a casa loro? Perché siano pronti per il lavoro straordinario) e contrari ai loro diritti (quello, sacrosanto di garantirsi un brandello di vita familiare libera da turni e straordinari; o quello di scioperare). Questa storia della fine della lotta tra operai e padroni, con cui i vincenti di oggi si riempiono la bocca trattando i diritti dei perdenti come carta straccia, ricorda da vicino la storia della «fine delle ideologie». In realtà, a scomparire dai radar è stata solo l'ideologia socialista, con le sue varianti anarchica e comunista. Le altre, quella liberale, trasformata in liberismo e in «pensiero unico» è più viva che mai (anche se è più che mai un morto che cammina). E la dottrina della chiesa, trasformata in fondamentalismo cattolico («diritto alla vita» contro i diritti di chi vive), anche.
NAPOLI. La fame e la malnutrizione continuano a essere uno dei grandi problemi irrisolti del mondo. Alla fine del secolo scorso le Nazioni Unite avevano indicato come obiettivo di dimezzare entro il 2015 il numero di persone che nel 1990 non avevano accesso a una quantità sufficiente di cibo, passando da 800 a 400 milioni.
Non solo siamo ancora lontani dal traguardo, me ce ne stiamo allontanando. Già alla fine dello scorso anno la Fao, l'agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di agricoltura e alimentazione, aveva documentato che a causa della crisi finanziaria mondiale e delle forti perturbazioni nel prezzo delle derrate alimentari, tra il 2008 e il 2010 il numero di persone malnutrite era aumentato di circa 200 milioni di unità: passando da circa 8000 a oltre 1.000 milioni di persone. E tutto questo in un mondo che produce più cibo di quanto ne consumi.
Si era detto: è una drammatica - anzi, tragica - conseguenza della crisi. Non appena terminerà la burrasca e l'economia mondiale tornerà in acque tranquille il numero di persone che non hanno accesso a una quantità sufficiente di cibo ritornerà a diminuire.
Purtroppo, a dirci che l'asserzione è infondata ecco che è arrivato, nelle scorse settimane, The millennium development goals report 2010, il nuovo rapporto delle Nazioni Unite sullo "stato di avanzamento" degli Obiettivi del Millennio. Non perché è sbagliata la previsione di quanto accadrà in futuro, ma perché è sbagliata il dato del passato.
Anche prima della crisi, infatti, mentre l'economia del mondo cresceva al ritmo del 4 o 5% l'anno, mentre le persone in povertà estrema diminuivano da 1,8 a 1,4 miliardi, il numero delle persone malnutrite nei PVS non è diminuito affatto. Né in valore assoluto, né in termini percentuali.
In termini assoluti, dagli 817 milioni in media del triennio 1990/1992 si è infatti prima scesi a 805 milioni nel triennio 2000/2002 per risalire a 830 milioni del triennio 2005/2007.
In termini relativi, si è passati da quasi il 20% della popolazione residente nei paesi in via di sviluppo nel 1990 al 15% circa nel 2000, ma poi si è rimesti inchiodati a questa percentuale fino al 2007, prima di risalire al 18% e oltre nel 2009.
Questi numeri ci dicono che la malnutrizione è una variabile abbastanza indipendente rispetto alla crescita economica. E che sarebbe illusorio pensare che, in maniera automatica, non appena l'economia mondiale ritornerà a crescere il numero degli affamati diminuirà. In realtà occorre non solo una maggiore presenza dell'economia, ma anche e soprattutto una maggiore presenza della politica. Che deve trovare il modo di superare la cecità del mercato e ridistribuire meglio le risorse alimentari prodotte.
Lo scorso dicembre, al Cop15 di Copenhagen, tutti i governi del mondo si erano trovati d'accordo nel riconoscere la gravità della minaccia climatica che incombe sul pianeta e la necessità di adottare misure drastiche e urgenti per farvi fronte. Ma quanto a trovare un accordo che ripartisse tra i diversi paesi l'onere delle misure da adottare, o anche solo decidere misure unilaterali che indicassero agli altri la strada da seguire, il fallimento è stato totale. Perché?
Ha pesato innanzitutto la collusione con l'industria, o il suo condizionamento; e non solo di quella direttamente legata a estrazione, trasporto, lavorazione e distribuzione degli idrocarburi. Quell'industria è in grado di coinvolgere nelle sue iniziative lobbistiche tutti o quasi gli altri settori portanti dell'economia: finanza, automotive, costruzioni, agroalimentare, chimica, ecc.
Ma ha pesato molto di più sull'establishment sia politico che finanziario e industriale l'assenza di una visione strategica dei processi in corso. Il liberismo, la tesi fantasiosa che il mercato trovi da sé, o al massimo con qualche «aiutino», il rimedio ai danni che affliggono il pianeta e i suoi abitanti, inchioda i suoi fautori a un eterno presente senza passato né futuro; fermo, in politica, al giorno per giorno; in economia, alle «trimestrali»; nelle consorterie accademiche, alle lotte di potere: rendendo tutti incapaci di un approccio prospettico.
Ma il vero problema è un altro: affrontare i cambiamenti climatici richiede una conversione radicale del sistema produttivo, dell'impiantistica, dei consumi e degli stili di vita intorno a cui si sono consolidate abitudini e aspirazioni della maggior parte della popolazione mondiale. Non si tratta solo di definire obiettivi che cozzano con i miti produttivistici, consumistici e occupazionali dell'oggi (di questo, chi più e chi meno, sono capaci tutti). Il fatto è che una conversione ambientale di produzioni e consumi non può essere gestita con i tradizionali strumenti di governo: in particolare, con quelli messi in campo per far fronte alla crisi in corso: le politiche di bilancio per salvare le banche; gli incentivi al consumo per salvare l'industria dell'auto; le «grandi opere», nella speranza che rimettano in moto l'economia.
L'economia dei combustibili fossili, quella che ci ha portato alla situazione attuale e che ci sta trascinando verso un disastro irreversibile, è fondata sui grandi impianti: campi petroliferi e miniere, oleodotti, flotte di petroliere e navi carboniere, grandi raffinerie, grandi impianti di generazione, grandi reti di distribuzione dell'elettricità e dei combustibili. Gran parte dell'apparato produttivo mondiale, dall'agroalimentare alle costruzioni, dalla farmaceutica all'auto, è commisurata a queste dimensioni, anche se il modello non è più il grande combinat fordista, ma la rete, che scarica rischi e costi su strutture decentrate, delocalizzate, e spesso evanescenti. Per gestire questi grandi impianti e queste grandi reti ci vogliono grandi società, grandi piramidi aziendali, grandi strutture di supporto tecnico, legale, pubblicitario e lobbistico, grandi risorse finanziarie: tanto grandi che i governi non riescono più a controllarle e hanno delegato le proprie prerogative - persino, in sostanza, quella di «battere moneta», cioè di decidere quanto denaro deve circolare nel mondo - alla finanza internazionale e alle multinazionali; o a organismi internazionali, dalla Banca mondiale al Fmi, dal Wto alla Commissione europea, ancora più esposte dei governi nazionali al lavorio delle lobby.
Un enorme spreco di risorse
Per funzionare la green economy - qualsiasi cosa si intenda con questo termine - deve adottare uno schema opposto. Catturare l'energia del sole, del vento, delle onde marine, della biomassa senza devastare il territorio e mettere alla fame gli umani richiede un'impiantistica distribuita, decentrata, articolata sul territorio in base ai carichi da coprire e alla disponibilità delle risorse locali.
È vero che gran parte degli investimenti nel fotovoltaico, nell'eolico o nelle biomasse, dalla generazione elettrica con olio di palma ai biocombustibili con mais e canna da zucchero, sono stati fatti da gruppi più o meno grandi e più o meno legali (vedi P3 e Vigorito nell'eolico), deviando dalle loro finalità costitutive gli incentivi destinati alle fonti rinnovabili: in Italia i più generosi del mondo. Ed è vero anche che sono in programma interventi di vastissime proporzioni, come il progetto Desertech, finalizzati a mantenere il controllo degli approvvigionamenti energetici nelle mani di grandi fornitori - esattamente come si tenta di fare con il nucleare, spacciato, a prescindere dai rischi e dai costi astronomici, per energia «verde». Ma è anche vero che quegli interventi non sono che l'applicazione di una logica vecchia e centralistica a soluzioni nuove e distribuite; e che, anche se realizzati, non saranno mai in grado di supplire ai fabbisogni di una società energivora come quella attuale; né diminuiranno la dipendenza dall'estero e le guerre per garantire gli approvvigionamenti energetici.
Perché il complemento irrinunciabile di una transizione dai combustibili fossili alle fonti rinnovabili è la promozione dell'efficienza energetica, che richiede interventi ancora più decentrati e articolati caso per caso: l'individuazione e l'eliminazione degli sprechi, la coibentazione degli edifici, l'introduzione di nuove tecnologie nelle apparecchiature domestiche e industriali.
Decentrata e articolata sulle caratteristiche specifiche di ogni territorio dovrà essere anche la mobilità sostenibile: fondata sulla condivisione dei veicoli - sia nel trasporto di massa che in quello personalizzato, a domanda - che dovrà sostituire l'enorme spreco di risorse (di spazio, di suolo, di materiali, di combustibile, di tempo perso negli ingorghi, di occasioni di incontro) comportato dall'attuale sistema fondato sulla motorizzazione individuale di massa.
La sovranità alimentare
Costitutivamente decentrati e articolati saranno anche gli altri due pilastri della conversione ecologica: la tutela del suolo e dei suoi assetti idrogeologici e, in primissimo luogo, il recupero della sovranità alimentare in tutti i territori del primo, del secondo, del terzo e del quarto mondo: che vuol dire agricoltura di prossimità, multiculturale e multifunzionale, fondata su una gestione cooperativa di piccole unità produttive scientificamente e tecnicamente aggiornate, in rapporto quanto più diretto con l'industria di trasformazione e i consumatori finali. Lo stesso dovrà accadere, mano a mano che si andranno esaurendo le vene minerarie oggi saccheggiate senza ritegno né preveggenza, quando il ricorso al riciclo di scarti e rifiuti sarà la principale fonte di approvvigionamento di materiali (con tanti saluti per gli inceneritori vecchi e nuovi). Non si tratta di utopie ma di scelte cui prima o poi (più prima che poi) tutti i governi e le industrie del mondo dovranno forzatamente adeguarsi. Di comune accordo o, più probabilmente, in ordine sparso: con un aumento esponenziale del caos e dei conflitti. Chi ci arriva prima starà meglio. Ma chi può guidare questa transizione?
Con poche e parziali eccezioni, un intero ceto politico - quello che non parla mai di questi problemi; e se ne parla non ne sa comunque niente; e se ne sa qualcosa non fa niente per adeguarsi - è destinato a soccombere e sparire di fronte alle esigenze del secolo. Ma sta dando prova di inadeguatezza anche gran parte dell'imprenditoria, sia che sia associata o succube dei grandi gruppi finanziari che governano il mondo, sia che sia impregnata di una cultura che non sa guardare al di là delle convenienze immediate (meno tasse e più evasione; meno salario e più disciplina; meno ambiente e più speculazione, ecc.); come se la produttività, che in Italia è da tempo in calo, dipendesse dall'aggancio ai salari e non da investimenti, ricerca, formazione, cioè dalla cultura di un intero paese e, in ultima analisi, dalla capacità di imboccare con convinzione la strada di una vera riconversione ecologica.
L'insostenibile programma Fiat
Per progettare e guidare un processo del genere ci vuole una classe dirigente nuova, composta da imprenditori innovatori, da amministratori più colti e attenti alla evoluzione dei tempi, da un associazionismo consapevole in grado di valorizzare la grande quantità di saperi diffusi, sia di carattere tecnico che «relazionale», sia basati sulla consapevolezza generale dei problemi che su conoscenze specifiche del territorio in cui si vive e lavora; quelli che la maggioranza delle imprese non sa più mettere al lavoro.
Un'imprenditoria del genere può ancora nascere: sia tra le aziende messe alle strette dalla crisi, sia come espressione organizzata di istanze della società civile; nuovi amministratori pubblici possono diventare interlocutori credibili se quelli inetti verranno messi alle corde, anche a prescindere dai processi elettorali che li selezionano oggi; l'associazionismo e il sindacalismo di base dovranno riorganizzarsi su nuove basi: non per attenuare quella conflittualità verso lo stato di cose presente che è la molla di ogni trasformazione sociale, ma per ampliare il proprio ruolo valorizzando le competenze sia generali che specialistiche a cui possono attingere. Lo comprovano vicende come quelle recenti della Fiat, che mettono all'ordine del giorno non solo la necessità di resistere ai diktat del management, ma anche e soprattutto la capacità di indicare e sviluppare i termini di una riconversione produttiva. Nessuno però sembra chiedersi quanto e per quanto tempo sia sostenibile un programma produttivo come quello della Fiat. Ma perché nasca una classe dirigente consapevole, articolata e diffusa sul territorio, in grado valorizzarne le risorse naturali, storiche e umane, disposta ad accettare e a trarre vantaggio dagli inevitabili conflitti, è necessario innanzitutto creare delle sedi, aprire degli «spazi pubblici» dove possa svilupparsi un confronto diretto tra le diverse posizioni in gioco.
postilla
Parole di grande sapienza e saggezza. Ma il problema non è solo come produrre, è anche che cosa e per che cosa . Fino a quando continueremo a batterci per mitigare i problemi derivanti da questo modello di consumi, e non ci decideremo a pensare che è questo modello di consumi che va modificato? Eppure, il libro di Galbraith sulla società opulenta è lì da più di quarant’anni, e la riflessione è proseguita.
L’altro problema, anch’esso non irrilevante, è chi comanda. Finchè l’economia (e questa economia) comanda la politica, le speranze della green economy sono leggere.
Fa piacere a tutti quelli che fanno il mio mestiere poter dire ogni tanto: «l’avevo scritto prima di tutti» anche se molte volte ci sbagliamo nelle previsioni e nei giudizi. E allora: quando Marchionne annunciò che la Fiat aveva conquistato il controllo della Chrysler, gran parte della stampa magnificò quell’operazione come un’offensiva in grande stile della società torinese per proporsi come uno dei quattro o cinque gruppi automobilistici mondiali che sarebbero sopravvissuti nell’economia globale. Io scrissi invece che l’operazione di Marchionne era puramente difensiva. La Fiat stava affondando; aggrappata alla Chrysler sarebbe sopravvissuta, sia pure con connotati industriali e territoriali completamente diversi.
Ma perché proprio la Chrysler e non invece la Peugeot e magari la General Motors che sembrava anch’essa sull’orlo del disastro?
La Peugeot non si poneva il problema di sopravvivenza planetaria e non stava affatto affondando; quanto alla GM, aveva un programma di rilancio che infatti è andato a buon fine con l’aiuto dei fondi messi a sua disposizione dal governo Usa.
Chrysler era completamente decotta e il governo americano non l’avrebbe rifinanziata, l’avrebbe lasciata fallire. L’arrivo della Fiat e del piano industriale di Marchionne la salvò, Obama decise il rifinanziamento e in questo modo tenne a galla Chrysler e indirettamente la stessa Fiat. Il capolavoro di Marchionne è stato questo. Ma poi arrivarono allo stesso pettine altri nodi.
Massimo Giannini, trattando ieri questo stesso tema, ha scritto che la questione di Pomigliano è stata una «provocazione» di Marchionne per saggiare la risposta dei sindacati. L’errore dei sindacati (Cisl e Uil) - ha scritto - è stato di pensare che la provocazione riguardasse soltanto Pomigliano; invece no, riguardava l’assetto di tutto il gruppo Fiat a cominciare dal Lingotto. In effetti è così.
È vero che nell’accordo firmato con Cisl e Uil la Fiat ha preso l’impegno che le nuove regole non saranno applicabili in nessuno degli altri suoi stabilimenti in Italia; Marchionne infatti non ne applicherà ma semplicemente trasferirà in Serbia l’attuale lavoro previsto per Mirafiori.
Ma perché in Serbia? La differenza di costo salariale tra la Serbia e Torino è molto forte ma la componente salariale non pesa più dell’8 per cento sul prodotto finale. La ragione del trasferimento dunque non è questa; la ragione sta nel fatto che lo stabilimento Fiat in Serbia sarà pagato per tre quarti dall’Unione europea e per il resto da incentivi fiscali del governo di Belgrado. Quello stabilimento non costa nulla alla Fiat; per di più la sua gestione è vantaggiosa e genera utili. Perché Marchionne dovrebbe rinunciarvi?
Quanto al governo italiano, non ha assolutamente nulla da dare alla Fiat. L’azionista della società torinese non ha soldi per nuovi investimenti automobilistici; tanto meno ne ha il governo Berlusconi-Tremonti. Quindi liberi tutti, checché ne pensino Chiamparino e la Regione Piemonte a guida leghista. Bossi vuole il federalismo, della Fiat non gliene frega niente. Il tavolo aperto dal ministro Sacconi per mercoledì prossimo si limiterà ad auspicare qualche dettaglio; sotto l’auspicio niente.
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Tutto questo era prevedibile ed infatti era stato previsto. Come era stata prevista la mossa fondamentale di scorporare l’automobile dalla Fiat e quindi dal gruppo Agnelli. In gergo borsistico quest’operazione è stata chiamata «spin off», un termine che richiama in qualche modo lo "spinnaker", la vela di prua che viene alzata quando il vento soffia da poppa. Se quel vento è forte la barca vola sulle onde. Infatti la Borsa ha accolto con molto favore lo scorporo. Il significato strategico è chiaro a tutti: gli azionisti del gruppo e «in primis» la famiglia Agnelli, vogliono disfarsi dell’automobile. Lo «spin off» serve appunto a questo: predisporre la vendita dell’automobile ex Fiat a chi vorrà comprarlo. Nel frattempo preparare la fusione con la Chrysler. La Fiat resta a Torino, ma senza più l’auto. Questa è la prospettiva del futuro prossimo.
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Fin qui abbiamo considerato la questione Fiat misurandola su tre dimensioni successive: Pomigliano, Lingotto, scorporo dell’auto.
Ma c’è una quarta dimensione ancora più importante e ancora più globale. Ne scrissi due mesi fa e non l’ho chiamata «provocazione» ma «apripista». Il caso Pomigliano cioè, e ciò che ne sta seguendo, funziona da caso «apripista» per un’infinità di operazioni analoghe che possono coinvolgere l’intero apparato industriale italiano, soprattutto quello delle imprese medio-piccole e piccole, quelle che occupano tra i 300 e i 20 dipendenti e che rappresentano il vero ed unico tessuto industriale italiano soprattutto nel nord della Lombardia, nel Triveneto, nell’Emilia-Romagna, nelle Marche, in Puglia, in Campania, nel Lazio.
Queste imprese esportano nell’euro e fuori dall’euro. Avevano registrato una grave crisi nel 2007-2008, poi si sono riprese, aiutate dalla svalutazione dell’euro, dal lavoro nero e precario e dal lassismo fiscale.
Non sappiamo quanto reggeranno all’«austerity» di Tremonti e alla ripresa dell’euro nei confronti del dollaro. Il rischio è che adottino anch’esse la delocalizzazione di cui Pomigliano ha funzionato come apripista.
Nelle imprese medio-piccole e piccole il sindacato è molto più debole che nelle grandi e grandissime. Quindi il problema non è di disciplinare il sindacato, ma di disciplinare direttamente i dipendenti. La minaccia della delocalizzazione servirà a questo e sarà estremamente difficile resistervi.
Andiamo dunque verso un rapido azzeramento delle conquiste sindacali e dell’economia sociale di mercato degli anni Sessanta fino all’inizio di questo secolo?
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Io temo di sì. Temo che la direzione di marcia sia proprio quella ed ho cercato di definirla parlando della legge chimico-fisica dei vasi comunicanti. In ogni sistema globalmente comunicante il liquido tende a disporsi in tutti i punti del sistema allo stesso livello, obbedendo all’azione della pressione atmosferica.
In un’economia globale questo meccanismo funziona per tutte le grandezze economiche e sociali: il tasso di interesse, il tasso di efficienza degli investimenti, il prezzo delle merci, le condizioni di lavoro.
Tutte queste grandezze tendono allo stesso livello, il che significa che i paesi opulenti dovranno perdere una parte della loro opulenza mentre i paesi emergenti tenderanno a migliorare il proprio standard di benessere. La prima tendenza sarà più rapida della seconda. Al termine del processo il livello di benessere risulterà il medesimo in tutte le parti, fatte salve le imperfezioni concrete rispetto al modello teorico.
La Fiat ha fatto da apripista. Marchionne disse all’inizio di questa vicenda che lui ragionava e operava nell’epoca «dopo Cristo» e non in quella «ante Cristo». Purtroppo il «dopo Cristo» è appena cominciato.
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C’è un modo per compensare la perdita di benessere che il «dopo Cristo» comporta per i ceti deboli che abitano paesi opulenti?
Certo che sì, un modo c’è ed è il seguente: far funzionare il sistema dei vasi comunicanti non solo tra paese e paese, ma anche all’interno dei singoli paesi. L’Italia è certamente un paese ricco. Anzi fa parte dei paesi opulenti del mondo, che sono in prevalenza in America del nord e nella vecchia Europa. Ma l’Italia è anche un paese dove esistono sacche di povertà evidenti (e non soltanto nel Sud) e dislivelli intollerabili nella scala dei redditi e dei patrimoni individuali.
Tra l’Italia dei ceti benestanti e quella dei ceti poveri e miserabili il sistema dei vasi comunicanti è bloccato, non funziona. Il benessere prodotto non viene redistribuito, rifluisce su se stesso e alimenta il circuito perverso e regressivo dell’arricchimento dei più ricchi e dell’impoverimento dei poveri.
Una politica che volesse perseguire il bene comune dovrebbe dunque smantellare il circuito perverso e far funzionare il circuito virtuoso. Attraverso una riforma fiscale che sbloccasse il meccanismo e redistribuisse il benessere. E poiché la mente e lo stomaco dei ceti poveri e medi reclamano un meccanismo meno iniquo dell’attuale, la riforma del fisco può e deve essere anticipata da misure specifiche di pronta attuazione, stabilite dalla concertazione tra governo e parti sociali che funzionò egregiamente tra il 1993 e il 2006, finché fu abolita con un tratto di penna all’inizio di questa legislatura.
Le opposizioni dovrebbero a mio avviso concentrarsi su questo programma. Bersani ne ha parlato recentemente, ma le opposizioni dovrebbero convergere su un programma concreto con questo orientamento per uscire da una situazione caratterizzata da vergognosi privilegi e diseguaglianze. Si parla molto di riforme. Questa delle ingiustizie sociali da combattere è la madre delle riforme. Perciò mi domando: che cosa aspettate? Che la casa vi crolli addosso?
Quattro anni fa, settembre 2006, Sergio Marchionne dichiarava prima in un discorso all’Unione Industriale di Torino, poi in un’intervista a questo giornale, che «il costo del lavoro rappresenta il 7-8 per cento» «e dunque – aggiungeva – è inutile picchiare su chi sta alla linea di montaggio pensando di risolvere i problemi». Per contro ieri annuncia che, tutto sommato, ritiene necessario picchiare proprio su chi sta alla linea. E le ragioni per farlo sembrano primariamente connesse al costo del lavoro. In questo caso i destinatari diretti del messaggio non sono i lavoratori di Pomigliano, ma quelli di Mirafiori, visto che un nuovo modello di auto che doveva venir prodotto nello stabilimento torinese sarà invece prodotto in Serbia. Una decisione che, se non è un de profundis per Mirafiori, poco ci manca.
In verità l’ad Fiat ha usato parole un po’ diverse. Ha detto che in Italia i sindacati mancano di serietà. L’azienda non può assumere rischi non necessari per realizzare i suoi progetti nel nostro paese. Fiat deve essere in grado di produrre macchine senza incorrere in interruzioni dell’attività. Qualche minuto in rete basta però per venire a sapere che il salario medio dei lavoratori serbi del settore auto si aggira sui 400 euro al mese. Ed è improbabile che tale costo sia accresciuto da consistenti contributi destinati al servizio sanitario e alla pensione, come avviene da noi grazie alle conquiste sociali di due generazioni fa. Andare in Serbia, piuttosto che restare a Mirafiori, significa quindi giocare il destino di nostri lavoratori la cui prestazione assicurava finora un livello di vita decente a sé stessi ed alla famiglia, anche per il futuro, contro lavoratori di un paese che a quel livello di vita e a quel futuro avrebbero pure loro diritto, ma per il momento se li possono soltanto sognare.
Se questa sorta di grande balzo all’indietro è ciò che Marchionne intende per modernizzazione delle relazioni industriali in Italia, vengono un paio di dubbi. Non diversamente dal 2006, il costo del lavoro in un’industria altamente automatizzata come l’auto rappresenta il 7-8 per cento del costo complessivo di fabbricazione. Portando la produzione da Mirafiori a Kragijevac, dove il costo del lavoro è meno della metà, la Fiat può quindi pensare di risparmiare al massimo tre o quattro punti sul costo totale. Ma se intende affrontare tutti i problemi sociali, sindacali e politici che dalla sua decisione deriverebbero per conseguire un risparmio così limitato, ciò significa che le sue previsioni di espansione produttiva, di vendite e di bilancio sono assai meno rosee di quelle che lo stesso amministratore delegato ha dato a intendere nei mesi scorsi. E questo dubbio ne alimenta un altro: che il vero obbiettivo non sia la riduzione del costo del lavoro, sebbene questo appaia evidente, bensì la realizzazione di una fabbrica dove regnano ordine, disciplina, acquiescenza assoluta agli ordini dei capi. Dove, in altre parole, il sindacato non solo assume vesti moderne, ma semplicemente non esiste, o non fiata. Magari ci verrà detto ancora una volta che questo è un obbiettivo che la globalizzazione impone. Può essere, anche se le pretese di quest’ultima cominciano ad apparire esagerate. Quel che è certo è che si tratta di un preoccupante indicatore politico.
Devo una risposta a Carla Ravaioli che sul manifesto dell'8 luglio («Caro Viale, non fare un passo indietro») mi accusa di soprassedere alle premesse di quanto vado da tempo sostenendo, cioè la necessità di una «conversione ecologica» dell'apparato produttivo (e del relativo modello di consumi), cosa particolarmente evidente, tra l'altro, nelle industrie e negli impianti di produzione che non hanno avvenire perché senza più mercato.
Le premesse da me «dimenticate» - se ho capito bene - riguardano il fatto che l'insostenibilità degli attuali sistemi di produzione e modelli di consumo è intrinseca al capitalismo e che quella riconversione è possibile solo con il superamento della società capitalistica. Non è un'accusa nuova. Rivolta sia a me che ad altri, ricorre spesso nei dibattiti sulla crisi o sull'ambiente a cui mi capita di partecipare.
Quell'accusa è fondata: se l'auspicio di una conversione ecologica, senza ulteriori specificazioni riferite a fatti o contesti circostanziati che aiutino a definirne o precisarne contenuti o percorsi è una banalità, il rimando al «superamento del capitalismo» come condizione della sua realizzazione, senza entrare nel merito delle situazioni in cui si manifestano le criticità (quelle che una volta si chiamavano le «contraddizioni»), lo è ancor di più; e io, come altri, cerco di evitare sia l'una che l'altra. Cerco cioè di non avallare enunciati come quelli che sia Francesco Forte che Carla Ravaioli mi attribuiscono, secondo cui «il capitalismo è un imbroglio e l'economia di mercato una mistificazione». Sarà anche vero, ma con pensieri come questi non si va lontano.
Perché ricondurre tutto al «capitalismo» dà a molti una falsa sicurezza e a volte addirittura un senso di superiorità: la convinzione di «saperla lunga»; così «lunga» che non vale la pena entrare nel merito di problemi particolari. Invece «ne sappiamo» sempre troppo poco; e quello che sappiamo lo dobbiamo per lo più ai contributi di studiosi o militanti che si sono confrontati con situazioni specifiche e circostanziate, anche se la forza del loro pensiero o della loro prassi deriva dalla capacità di inquadrare quei problemi in un approccio generale: agire localmente e pensare globalmente.
Ma un vero e proprio vuoto di pensiero - e di prassi - fa capolino nell'allusione, sempre più vaga, al «superamento del capitalismo». Che cos'è? Una volta si diceva socialismo, comunismo, dittatura del proletariato, rivoluzione. Oggi quelle parole nessuno - o quasi - osa più pronunciarle: non perché manchi il coraggio, come pensa Carla Ravaioli; ma perché non sappiamo più che cosa vogliano dire; o se lo sappiamo, o pensiamo di saperlo, non lo vogliamo più. Uno Stato che pianifichi produzioni e consumi, e magari anche le nostre vite e la nostra morte, non lo desidera più nessuno. Molto spesso, dietro l'invocazione di un maggiore intervento dello Stato, di questo Stato, qui e ora, si nasconde solo la pigrizia mentale di chi ha comunque avallato le briglie sciolte al mercati, perché «non c'è alternativa». Il che probabilmente sta alla base della dismissione di quella che per tutto il secolo scorso era stata la «sinistra».
La società di domani va pensata e costruita giorno per giorno, per tentativi ed errori, senza grandi modelli reali, o immaginari, a cui far riferimento; attrezzandosi, per quanto è possibile, per far fronte a passaggi drammatici e rotture improvvise. Qualcuno dice «decrescita» ed è sicuramente un'idea sensata: i limiti del pianeta, come ci ricorda Carla Ravaioli, sono incontestabili. Ma quando, di fronte alle otto «erre», di Latouche si prospettano problemi concreti, o percorsi da individuare e intraprendere, la sensazione che se ne trae è quella di un vuoto pneumatico. Se è una battaglia culturale - che ovviamente ha anche dei risvolti pratici - contro il feticcio della crescita, ben venga; forse andrebbe condotta con più modestia, cercando di fare i conti con i molti problemi a cui nessuno di noi sa ancora dare una risposta.
A ricondurre però a un denominatore comune molto del pensiero, della prassi e delle lotte più radicali e incisive degli ultimi anni è probabilmente la rivendicazione di una gestione condivisa, o partecipata, o per lo meno negoziata, dei beni comuni: sia che si tratti di impedirne una appropriazione privata; sia che si tratti di rendere disponibile a tutti beni, materiali o immateriali, che sono già da tempo sottoposti a un regime proprietario; in entrambi i casi, aprendo le porte o imboccando la strada di una gestione che non è né dello Stato né «del mercato»; bensì il perno della ricostituzione di uno «spazio pubblico» che è la sede costitutiva della politica intesa come autogoverno.
La conversione ecologica è interamente affidata a itinerari del genere. Ma la distanza che separa questi sforzi e questi percorsi dall'ideale di una società equa e sostenibile e dalla capacità di condizionare o destituire le sedi da cui oggi si esercita il potere è, com'è ovvio, e con qualche eccezione importante e istruttiva, ancora molto grande. E non può essere colmata solo a parole.
Ha ragione Viale: “La società di domani va pensata e costruita giorno per giorno, per tentativi ed errori”. Ma credo che sia impossibile farlo se non si riesce, contemporaneamente, a costruire un modello di riferimento. Ciò certamente non significa “preparare menu per le cucine dell’avvenire”, ma configurare i lineamenti di una società umanamente accettabile, e sottratta al dominio delle leggi dell’economia capitalistica. Procedere in questa direzione richiede uno sforzo teorico profondo, costantemente mirato a una solida costellazione di principi; ma richiede anche una costante attenzione critica a quanto oggi nella società si muove controtendenza, nella direzione della ricerca e e della sperimentazione di modi diversi di coniugare bisogni, lavoro, natura e società: un modo diverso – s’intende – da quello capitalistico, il quale deforma i bisogni, distrugge lavoro e natura, disgrega la società. Credo che questa sia la premessa da cui partire,
Mi sembra che la discussione tra Viale e Ravaioli si svolga attorno a questo nodo. L’auspicio è che essa prosegua, e altri ne allarghino i confini. Continueremo a seguire con attenzione i luoghi ove essa si svolge.
«L'auto è un prodotto obsoleto, che nei paesi ad alta intensità automobilistica non può che perdere colpi: 'tirano' per ora solo i paesi emergenti, fino a che il disastro ambientale, peraltro imminente, non li farà recedere anch'essi». Così ha scritto Guido Viale sul manifesto il 15 giugno scorso. Buttando all'aria tutte le «verità» di cui è intessuto il discorso del potere economico, universalmente diffuso nella «vulgata». Parlando di governi che sprecano miliardi «a cementificare il suolo, a rendere irrespirabile l'aria delle città e impraticabili strade e piazze, a riempirci di veleni rendendo sempre più sterili i suoli agricoli» e a sostenere «un'industria delle costruzioni che vive di Olimpiadi, expo, ponti fasulli e montagne sventrate»; che «continuano a riempirsi la bocca con la parola crescita, e stanno riportandoci all'età della pietra».
Con lucida rabbia affermando che l'alternativa a Marchionne esiste, ed è una decisa conversione ambientale di produzione e consumi, «a partire dagli stabilimenti in crisi e dalle fabbriche di prodotti obsoleti e nocivi: tra i quali l'automobile occupa il secondo posto, dopo gli armamenti». Ponendo i presupposti (come già notavo sul manifesto del 20 giugno) di un discorso capace di affrontare in tutta la sua terrificante magnitudine la crisi sociale e ecologica che scuote la Terra.
Ciò che d'altronde trova conferma nell'ampiezza e nella durezza della reazione prontamente opposta al discorso di Viale da numerosi e importanti organi di informazione. Condotta peraltro con argomenti che (a parte le banalità e talora le volgarità) mostrano non solo la sconfortante pochezza delle posizioni comuni anche ad «esperti» di larga fama, e la sostanziale assenza di ipotesi alternative a una realtà sociale e ambientale sempre più insostenibile, ma la deliberata mancanza di volontà, o forse la paura, di guardare senza veli questa realtà e metterla in causa: in una sorta di rimozione collettiva, di fuga dalla magnitudine di un problema apparentemente irresolubile, e soprattutto tale da rimettere in causa le «verità» come tali imperanti.
Debbo dire però che nemmeno la risposta di Viale (il manifesto 23 giugno) mi convince, anzi mi pare in qualche misura un arretramento rispetto alle posizioni coraggiosamente sostenute nel primo intervento. Come se l'autore fosse spaventato dall'azzardo del suo stesso discorso, e disposto a rispondere a quanti lo attaccano scendendo sul loro terreno. Cioè sulle consuete posizioni di una critica tutta interna alla logica invalsa: la quale non si sogna di mettere in causa la corsa obbligata alla crescita produttiva nella sua sostanziale insensatezza (il Pianeta Terra, come da sempre ripete l'ambientalismo più qualificato, non è dilatabile a nostro piacere, e ha ormai raggiunto livelli di «antropizzazione» oltre cui c'è solo catastrofe), ma si limita a discuterla in base alla capacità ricettiva dei mercati, e a quantificarla sulle previsioni della «ripresa», dei piani aziendali, della domanda dai paesi emergenti, ecc.
Viale si esercita infatti nel considerare quali settori produttivi sia preferibile conservare in Italia e quali trasferire in paesi terzi; nel calcolare il possibile aumento di produttività degli stabilimenti italiani; nell'indicare, tra le cause di scarsa efficienza, degrado complessivo del territorio, corruzione diffusa, immondizie inesorabilmente in accumulo, sfacelo amministrativo, ecc. Tutte cose vere ma che non mettono causa l'impianto complessivo dell'economia mondiale, e la sua insostenibilità presente e futura, come il primo intervento sembrava promettere, e in buona parte già abbozzava. Quella radicalità che accusava il crescente deterioramento degli ecosistemi insieme alla «irreversibile contrazione del mercato dell'auto», e apertamente auspicava la «conversione ambientale del sistema produttivo», in questa prospettiva citando l'automobile e gli armamenti - collocando anzi gli armamenti per primi - come «prodotti obsoleti o nocivi»: tutto ciò sembra, al momento almeno, dimenticato. Resta la citazione della green economy, ma senza tentativi di approfondimento della materia, che pure ne avrebbe gran bisogno.
Quando poi qualcuno gli attribuisce la convinzione che «il capitalismo è un imbroglio e l'economia di mercato una mistificazione», Viale risponde: «Magari lo penso, ma non l'ho certo scritto e non sta tra le premesse del mio discorso». Parole stranamente contraddittorie, che però in qualche modo a me pare descrivano in sintesi scelte e comportamenti di larga parte della migliore sinistra d'oggi. Fatta di persone per la maggioranza senza partito, ma consapevoli dell'attuale insostenibilità sociale e fisica del sistema industriale capitalistico; le quali però fuggono dalla loro stessa consapevolezza per dedicarsi a impegni parziali, ancorché di forte rilievo: vedi la grande battaglia contro la privatizzazione dell'acqua, e la resistenza alla Tav, al Ponte sullo Stretto, al Dal Molin, e il sostegno esterno alle lotte operaie di Pomigliano o Termini Imerese, ecc..
Sono tutte azioni di grande rilievo e di alto valore civile, di cui però sempre - per valorizzarne il senso autenticamente rivoluzionario - andrebbe ricordata la causa prima, puntualmente riconducibile al sistema economico e sociale dominante. Per fare un solo esempio: l'acqua pulita oggi è scarsa, non perché sia diminuita di quantità dai tempi in cui era un bene di tutti, abbondante e gratuito, ma perché oggi è usata massicciamente, e fortemente inquinata, dalla produzione industriale (basti pensare all'industrializzazione dell'agricoltura, basata su irrigazione continua e uso sistematico e massiccio di pesticidi, o ai continui sversamenti di petrolio e altre sostanze tossiche anche in acque dolci, come è accaduto di recente nel Po). Sottrarre la distribuzione dell'acqua al privato è certo sacrosanto (anch'io ho firmato), ma non basterà a salvare dalla sete intere popolazioni del Sud del mondo.
Per questo, poiché Viale si dice convinto che «il capitalismo è un imbroglio e l'economia di mercato una mistificazione», come gli viene attribuito da uno dei suoi critici, forse non dovrebbe dimenticare questa sua convinzione, ma usarla (magari riformulandola in termini più congrui, diversi dal linguaggio di Francesco Forte) come elemento centrale del discorso relativo a Pomigliano o a qualsiasi altro conflitto di ordine industriale, e dunque sociale. E dovrebbe usarla di regola, come premessa illuminante di ogni proposta o intervento che riguardino decenti rapporti sociali o provvedimenti destinati ad arginare seriamente la distruzione dell' ecosistema.
Questo non accade nemmeno nell'ultimo articolo, dal titolo «Così si riconverte Pomigliano» (1 luglio) in cui Viale si impegna a delineare un dettagliato programma di «progressiva e graduale riterritorializzazione», indicata come «conversione ambientale dei settori vitali del sistema economico»: un obiettivo - afferma - largamente condiviso nel settore agroalimentare, secondo il quale dovrebbe essere restituita «sovranità alimentare a tutti i paesi». Il discorso ha indubbiamente una sua suggestione di recupero di culture perdute oltre che di migliore qualità attuale, ma non è facile vedere in che modo possa garantire una «mobilità sostenibile» con servizi di trasporto condivisi, ecc., in una società che dedica massimo impegno al continuo lancio di nuove auto; o come possa assicurare un uso ecologicamente corretto delle energie rinnovabili, dato l'abuso, oggi divenuto regola, di queste tecniche nate per sostituire le energie più inquinanti, e non - come di fatto accade - per sommarsi ad esse allo stesso fine di incontrollato produttivismo (con conseguente degrado); quando (a Copenhagen lo si diceva senza riserve e su tutti i toni) i grandi potentati economici ne stanno facendo il nuovo motore di industria e trasporto su scala planetaria, e liberamente parlano di green business, green competitivity, green power, green growth, all'interno di una dimensione operativa puntualmente fedele a una logica quantitativa, davvero difficile da leggere in chiave ecologica.
Tra l'altro Viale sembra aver dimenticato, al momento almeno, quell'azzardo di grande intelligenza che lo aveva indotto a collocare sullo stesso piano, e obbedienti alla stessa ragione, produzione di armi e produzione di automobili. Un grosso discorso, secondo me capace di conseguenze cariche di significato. Un discorso da non abbandonare.
Il Foglio di sabato scorso ha dedicato un'intera pagina a commentare un mio articolo sulla crisi della Fiat di Pomigliano corredando il servizio con il pugno di Lotta Continua, il gruppo in cui ho militato negli anni settanta e che si è dissolto 34 anni fa. Troppa grazia. La cosa ha offerto a molti miei critici l'occasione per dare la stura ai più triti stereotipi sugli anni 70 e sull'ambientalismo, quasi non avessero mai letto o sentito parlare prima di green economy o di riconversioni produttive. Per Stefano Cingolani: «in certe assemblee gauchiste c'era chi si alzava proponendo che la Fiat fornisse brandine agli ospedali». Che assemblee avrà mai frequentato Cingolani in quegli anni? Non certo l'assemblea operai-studenti di Mirafiori, dove si parlava di cose molto serie, che hanno fatto la storia del paese. Scrive Sergio Soave: «Viale ripropone la tesi dell'imminente crollo del capitalismo». Ma quando mai? E riassume il mio pensiero così: «una nuova sintesi di deindustrializzazione e mangiatori di fragoline di bosco». Francesco Forte mi attribuisce «la teoria per cui il capitalismo è un imbroglio e l'economia di mercato una mistificazione». Magari lo penso; ma non l'ho certo scritto e non sta tra le premesse del mio discorso. Analogamente Gianni Riotta, sul Sole24ore, mi accusa di «dare del venduto a Cisl e Uil e quasi tutta la Cgil», e addirittura, al premio Nobel Paul Krugman, per aver scritto che per dar credito al piano della Fiat per Pomigliano bisogna essere in malafede o dementi. Sul dementi mi attengo al giudizio degli interessati. Ma si può essere in malafede senza essere venduti. Basta dar credito senza dare spiegazioni a cose che non lo meritano. E' quello che fa Riotta e, con lui, quasi tutti i sostenitori del piano Marchionne: non si chiedono se il piano è credibile. Su questo punto diamo la parola al Foglio.
Scrive Ernest Ferrari: «D'accordo, il piano di sviluppo targato Marchionne è irrealizzabile». Risponde Bruno Manghi: «Quella di Marchionne è una scommessa che nessuno può prevedere con certezza come finirà». Ammette Riccardo Ruggeri, uno che conosce la Fiat «dall'interno»: «Sui sei milioni di macchine Viale non ha tutti i torti». E aggiunge: «Magari tra non molto Marchionne chiederà altri sacrifici, perché il mercato non tira. Marchionne l'ha fatto capire più di una volta». Poi precisa: «ho paura che stia tornando la moda dei volumi (di vendite)piuttosto che dei talenti...anche alla Volkswagen hanno sposato la teoria dei volumi; ma ci hanno messo 15 anni, investendo una montagna di soldi». «Insomma, c'è aria di bluff?» chiede l'intervistatore. E lui risponde: «Marchionne fa quel che può».
Anche Cingolani si chiede: «Chi può garantire che le auto non restino sui piazzali? E quanto costeranno i modelli sfornati dalle catene di montaggio?» Domande senza risposta. Cingolani le affronta con un suo personale «piano B»; questo sì, datato agli anni '70: quando i cosiddetti paesi emergenti adottavano le tecnologie abbandonate dai paesi più industrializzati, e questi passavano a produzioni a più alto valore aggiunto (Era la teoria di Hirschmann delle "anatre volanti", che si alzano in volo in ordine, una dietro l'altra). Ma oggi Cina, India e Brasile hanno, sì, costi del lavoro e ambientali più bassi; ma anche livelli tecnologici paragonabili ai nostri e capacità di ricerca e sviluppo superiori (anche perché da noi scuola e ricerca sono state gettate alle ortiche). Inoltre, senza impianti di assemblaggio a portata di mano, l'innovazione tecnologica e organizzativa non ha verifiche. Quindi, perché il distretto automobilistico torinese possa mantenere i suoi atout in campo motoristico e dello styling, una parte del montaggio dovrà comunque restare in Italia. Ma non è detto che tocchi a Pomigliano. Nell'assemblaggio, più che altrove, a contare sono i costi. Lo conferma Michele Magno: «La sorte dello stabilimento campano è legata a un drastico abbassamento dei costi». L'unico a non nutrire dubbi sul piano Marchionne è Francesco Forte. E sapete perché? Perché «il piano è stato valutato positivamente dalle banche e dalla borsa»: due istituzioni che hanno raggiunto la credibilità più bassa della loro storia.
Fatto sta che, se è improbabile riuscire a vendere sei milioni di auto all'anno (un raddoppio della produzione) sui mercati di un'industria sovradimensionata e oggetto di una feroce concorrenza non solo tra gruppi industriali, ma anche tra Stati, l'aumento della produzione in Italia da 600mila a 1,4 milioni di vetture è ancora più improbabile; soprattutto perché questa produzione dovrebbe per due terzi essere smerciata in Europa. Le sorti di Pomigliano sono legate a questi obiettivi. Qualcuno ha provato a spiegare come raggiungerli? O si vuole far credere che l'unico vero problema è l'abnorme tasso di assenteismo e che un maggiore impegno contro di esso rimetterebbe le cose a posto?
Persino Riotta introduce qualche variabile in più. Oltre all'assenteismo, scrive «per giocare nella Coppa del mondo del lavoro» bisogna fare i conti con «clientele, performance scadenti, familismo amorale, raccomandazioni». A cui io aggiungerei doppio e triplo lavoro (ma non sarà un problema di salari insufficienti?), degrado del territorio, monnezza (da non dimenticare), sfacelo amministrativo, corruzione, collusioni politiche, camorra. Tutti problemi che non si sono certo fermati ai cancelli della fabbrica, ma che sono ben presenti al suo interno. Nel management più ancora che tra le maestranze. Pensare di isolare la fabbrica dal territorio e di risolvere i suoi problemi con la disciplina del lavoro è utopia vana e crudele.
Nel 1968 la Fiat pensò di inquadrare con una disciplina di ferro 15mila nuovi assunti, messi al lavoro a Mirafiori tutti d'un colpo, senza preoccuparsi di che cosa sarebbe successo fuori della fabbrica: nel tessuto urbano di una città che tra l'altro era "sua", ma dove per i nuovi assunti non c'era nemmeno un posto per dormire. Ne nacque una lotta che ha sconvolto gli stabilimenti del gruppo per i successivi dodici anni. Adesso si pretende di mettere in riga, con un accordo sui turni e i ritmi di lavoro e con i limiti posti al diritto di scioperare e ammalarsi, uno stabilimento industriale i cui problemi nascono soprattutto dal degrado del tessuto sociale circostante. Non dice niente, per esempio, il fatto che a presidiare il gazebo installato a sostegno dell'accordo ci fosse il sottosegretario Cosentino, incriminato per camorra, ma "immunizzato" dal Pdl?
Nessuno, prima di Prodi, aveva ancora fatto notare che la "rieducazione" degli operai di Pomigliano - per usare il termine carcerario che ben si adatta al modo in cui l'establishment italiano, politico, sindacale, imprenditoriale e giornalistico, sta affrontando il loro futuro - è già stata tentata due anni fa: con la sospensione dell'attività lavorativa, l'invio forzato di tutte le maestranze a un corso di formazione, il riadeguamento degli impianti, la rimessa a nuovo dei capannoni. Senza risultati.
Chi può credere, allora, che Marchionne voglia ritentare l'esperimento, investendoci sopra 700 milioni? Rischiando anche di mettere in crisi i suoi rapporti con il partner polacco, che in questa fase è uno dei pochi atout a sua disposizione? Non è forse più sensato ritenere, o almeno ipotizzare, che Marchionne voglia sbarazzarsi di Pomigliano, oltre che di Termini Imerese; e non potendo farlo senza mettere in crisi i suoi rapporti con governo, opposizione, sindacati e maestranze - magari provocando anche una rivolta tra la popolazione - cerchi solo il modo per farne ricadere su altri la responsabilità? Se non sarà l'esito del referendum (verosimilmente non lo sarà) sarà la Fiom. Se non sarà la Fiom sarà l'iniziativa di base; o il "disordine" del territorio; o i contenziosi in tribunale; o un ricorso alla Corte Costituzionale. O, più semplicemente, il prossimo aggiornamento sulla situazione dei mercati. Intanto, a segnare un punto, è stata la politica antioperaia di tutto il governo.
Sembra però che la conversione ambientale dello stabilimento di Pomigliano, o di altre fabbriche in crisi, urti contro la centralità della produzione automobilistica (una volta la centralità era della classe operaia, ma i tempi sono cambiati). «E' indubbio - scrive Michele Magno - che il settore automobilistico, pur maturo sul piano merceologico e tecnologico, continui a incarnare lo spirito del tempo»; perché «continua a svolgere un ruolo cruciale sia nella formazione del Pil, sia nella dinamica occupazionale»; e perché «il cuore delle innovazioni organizzative...continua a pulsare qui».
Nessuno però ha proposto di chiudere il settore automobilistico dall'oggi al domani. Basterebbe non strafare con i volumi, come raccomanda anche Ruggero. E non gravare un gruppo già provato con un peso che probabilmente non può sostenere. «E' in gioco - continua Magno - il futuro di quel che resta della classe operaia meridionale». D'accordo. Ma, proprio per questo, non sarebbe bene pensare a delle alternative per uno stabilimento così a rischio?
Per verificare se è vero che l'azienda vorrebbe sbarazzarsi di Pomigliano bisognerebbe poterla mettere di fronte a una alternativa praticabile, esigendo impegni precisi a garanzia del processo di conversione. Non certo di assumerne la gestione, per la quale vanno comunque individuati soggetti, attori e culture aziendali differenti. Bensì la cessione degli impianti e il finanziamento della transizione. Ma oggi un'alternativa del genere non c'è. Nessuno ci ha pensato; e nessuno sembra neanche in grado o disposto a pensarci; anche se l'adozione di un'alternativa praticabile converrebbe sicuramente sia alla Fiat, che ai lavoratori, che al paese. E anche al pianeta.
Ma nessuno potrebbe mai pensare di avviare la riconversione di uno stabilimento industriale alla green economy con una semplice stretta della disciplina di fabbrica, come molti pensano - e sperano - che si possa fare invece trasferendo la Panda a Pomigliano. Perché una conversione produttiva di quella portata e con quelle finalità è proprio l'opposto di quell'idea "larvatamente autoritaria" di chi dice «Farò io il vostro bene» pensando di poter «pianificare le svolte dello sviluppo», come sostiene Bruno Manghi sul Foglio e Riotta ripete sul suo giornale.
Infatti, se non si può pensare di cambiare una fabbrica solo con la disciplina, occorre passare attraverso la mobilitazione delle forze sane del territorio, una discussione sulle ragioni della conversione, un coinvolgimento delle risorse intellettuali delle comunità interessate. Per poi procedere a verifiche di mercato, a progettazioni di massima, e alle battaglie per impegnare i diversi livelli del governo locale e nazionale. Sono cose che non si preparano né in un giorno né in un anno; c'erano però da anni molti motivi per cominciare a lavorarci. Ma non è mai troppo tardi. Perché se il piano Marchionne è un bluff, bisognerebbe evitare di ritrovarsi nella situazione di Termini Imerese, dove ogni giorno si escogitano altri bluff con il solo scopo di «tener buoni» gli operai lasciati sul lastrico.