«I confini della libertà economica»: è questo il tema intrigante e ambivalente del Festival dell’Economia di Trento che si chiude domani. Dove la parola-chiave sembra appunto «confini» (fisici, etici, culturali): importante ieri ma ancor più oggi, dopo quest’ultima crisi (ancora in corso) provocata da una corrotta idea di libertà economica che ha aperto le porte alla speculazione e ai disastri attuali. Portando allo stesso tempo il capitalismo a conquistare un’egemonia (in senso gramsciano) ormai globale. E apparentemente inattaccabile. Ma cos’è questo neoliberismo imperante da trent’anni? Il termine e seguiamo l’analisi critica dell’inglese David Harvey in L’enigma del capitale si riferisce «ad un progetto di classe mascherato da una buona dose di retorica sulle libertà individuali, responsabilità personale e virtù della privatizzazione, del libero mercato e del libero scambio», progetto che ha legittimato politiche «mirate a ristabilire e a consolidare il potere della classe capitalista».
Delocalizzazioni, deregolamentazione, privatizzazioni, indebolimento e divisione del sindacato, ma anche rete e (aggiungiamo) società del divertimento: il «partito di Wall Street» ha conquistato il potere. Producendo quello che Harvey chiama il «connubio stato-finanza»: un’istituzione feudale «zeppa di intrighi e di passaggi segreti che esercita un potere totalmente antidemocratico». Che fare? Il capitalismo sopravviverà anche a questa crisi? I nuovi movimenti antagonisti nati magari fuori dalle fabbriche, tra i nuovi «indigenti» e i tanti «espropriati» saranno l’alternativa possibile e necessaria per modificare le «pratiche» economiche dominanti? E’ pensabile un «nuovo comunismo»? Oppure l’egemonia capitalista ha prodotto ormai irreversibilmente una società egoista, incattivita, iper-competitiva?
Già, la competitività. Una sorta di pandemia «che non risparmia non solo nessuna impresa, ma anche nessuna istituzione e nessun essere umano» scrive Luciano Gallino nella “Introduzione” a I paradossi della società competitiva di Alessandro Casiccia. Paradossi, perché la competizione tra i poveri e tra i lavoratori non esclude l’oligopolio per i ricchi. Perché questo suo essere un imperativo categorico dell’economia sta uccidendo ogni forma di socialità. Mentre dovrebbe essere evidente che la competizione è concetto ambivalente, che ha significati e usi diversi. Che non può essere usato indifferentemente per una scuola o un’impresa (e invece lo facciamo ogni giorno). Urgente sarebbe allora trovare dei criteri per stabilire se sia meglio il mercato o l’aiuto (e quale tipo di aiuto). Su quali siano ad esempio i modi migliori per diffondere istruzione e sanità. Esther Duflo, economista dello sviluppo ha utilizzato gli «studi controllati randomizzati» e in I numeri per agire prova a definire dei criteri per verificare sul campo l’efficacia dei diversi tipi di intervento contro la povertà, testati in India, in Africa e in Messico. Criteri simili forse a quelli che dovremmo applicare anche a noi paesi ricchi. E ai modi di organizzare il lavoro.
Lavoro che resta ancora fordista in senso classico. Che diventa immateriale ma per fasce limitate dell’economia. Che si fa indipendente in forme crescenti e con grandi capacità di «migrazione virtuale» grazie alla rete. A questo ultimo tipo di lavoro dedicano un saggio Sergio Bologna e Dario Banfi: Vita da freelance. Un «lavoro indipendente postfordista» dove importanti sono ancora i confini ma quelli (assai diversi) della «mobilità» e non più del mercato. Dove si produce una mutazione antropologica nei modi di fare e di pensare e dove anche l’individualismo si trasformerebbe e produrrebbe un «salto verso la coalizione, l’unione con altri colleghi, per affrontare insieme i problemi» per «vivere meglio più che per avere successo».
Ma dove porta questa logica della coalizione? E quanto è libera o libertaria la scelta del lavoro in-dipendente? Certo, il coworking chiede oggi non solo relazioni virtuali ma ancora fisiche. E questo è offerto ad esempio dalle pratiche di community, che permetterebbero di fare rete, gruppi di interesse, legami anche se deboli. Ma bastano (chiediamo) per fare coalizione – se non sindacato, anche se diverso dal passato - per difendere ruolo e posizionamento davanti ad un mercato che sempre più individualizza, precarizza, estrae valore dagli individui?
Più convincente sembra allora la tesi che Carlo Formenti oggi uno dei più intelligenti critici della realtà della rete espone nel suo ultimo Felici e sfruttati. E che ci riporta come critica del neoliberismo applicato alla rete alle riflessioni iniziali di Harvey a proposito della lotta del capitalismo contro il lavoro e i lavoratori. Sulla scia delle riflessioni svolte nel precedente Cybersoviet, Formenti ci presenta (tornando anche a Marx) una realtà molto diversa da quella offerta dalle retoriche del lavoro in rete. Dove non vi è solo lavoro di conoscenza, ma caduta dei redditi e sfruttamento, monopoli e insieme balcanizzazione del web, indipendenza ma anche collaborazione indotta. E taylorismo.
Dunque, un libro che associa indignazione verso un’economia del gratuito che è in realtà espropriazione e privatizzazione dei saperi personali e sociali e verso i retori della wikinomics e della condivisione, verso tecnologie digitali che non ci liberano dal lavoro ma accrescono all’ennesima potenza tempi e ritmi di lavoro. Producendo lavoratori ancor più individualizzati e ancor meno dotati di coscienza collettiva, che cercano al più vie di fuga personali. Rete dove il sogno libertario di una società post-capitalista si tramuta in network non sociali ma economici. Insomma, una lettura non retorica e non ideologica del capitalismo digitale. Che appunto lega il mondo della rete di Formenti con quello finanziario di Harvey. Nel nome della «indignazione» che entrambi ci suggeriscono di tornare a gridare.
L'immagine è una riproduzione del quadro di Marinus van Reymerswaele, "Il cambiavalute e sua moglie"
“Uno sviluppo fondato sull’incessante aumento dei redditi, dei beni e dei consumi individuali, da un lato non arriva a coprire le necessità di tutti, e dall’altro non soddisfa vaste parti della società che pur ne usufruiscono, perché è uno sviluppo che non migliora la qualità della vita.” Queste parole sono parte di un articolo pubblicato su l’Unità del 21 settembre 1981; titolo, “Con forza e con fiducia”; firma, Enrico Berlinguer. Un evidente antefatto del famoso discorso su “L’austerità”, peraltro – come noto – pochissimo apprezzato dalla base del Pci, già allora anch’essa sedotta dal produttivismo che a ritmi accelerati andava imponendosi nel mondo.
La posizione di Berlinguer si trovava d’altronde in sintonia con un ampio dibattito che sul finire degli anni Settanta era andato elaborando una severa critica di una realtà sociale sempre più orientata a identificarsi col binomio produzione/consumo. Ne erano partecipi grossi cervelli, quali Agnes Heller, Ralph Dahrendorf, Jaques Attali, Hanna Arendt, Ferenc Féher, Jurgen Habermas, ecc. che da prospettive diverse mettevano a fuoco le più gravi contraddizioni in atto: dalle disuguaglianze perduranti nonostante l’euforia produttivistica, al concetto stesso di “crescita” centrato su dimensioni puramente quantitative, dunque a un falso “progresso” fondato sulla moltiplicazione di merci e mercati; e tutti già ne indicavano il nesso con i “limiti dello sviluppo”, da un decennio denunciati dall’Mit e dal Club di Roma, di fronte alla sempre più preoccupante crisi ecologica. Un discorso ricco e profondo, fermo nell’auspicio di una possibile espressione dell’”umano” più vera e polivalente di quella che si trovavano a vivere.
Auspicio, ahimé, clamorosamente mancato. Più che mai, un trentennio dopo, la società è dominata, anzi definita dal binomio produzione/mercato, non solo nei suoi obiettivi espliciti e immediati, ma nella sua dimensione più profonda, nella sua stessa razionalità. Quella che (orchestrata dalla comunicazione di massa, orientata dal clamore pubblicitario, promossa praticamente senza eccezione dalla politica) è riuscita a sedurre per larghissima parte la popolazione del mondo, a indurne l’identificazione con oggetti da acquistare e velocemente scartare, per sostituirli con nuovi sempre più desiderabili: in una illusione di straripante abbondanza, certo prima o dopo alla portata di tutti…
Una rappresentazione che curiosamente non sembra scossa dal fatto che l’1% della popolazione mondiale detiene il 50% della ricchezza; che un sesto degli abitanti del globo è sottoalimentato, mentre circa il 40% del cibo prodotto in Occidente viene gettato; che (opinione di personaggi quali Keynes, Galbraith, Chomsky, ecc) ogni volta che il Pil non cresce a dovere è consuetudine inventare una nuova guerra; che, per soddisfare la nostra voglia di “cose”, stiamo “consumando” la Terra, e spingendo la crisi ecologica planetaria verso livelli forse senza ritorno.
Ma, accanto a una accertata maggioranza di umani che, impavidi, continuano a invocare più Pil, e a consumare di conseguenza, c’è però un numero non piccolo - e in deciso aumento - di persone che avvertono e soffrono la sempre più insostenibile gravità dello squilibrio ambientale; le quali, in mancanza di scelte politiche adeguate, vorrebbero intervenire utilmente, in modi anche alla portata dell’iniziativa individuale, e spesso pongono agli “esperti” interrogativi in proposito. L’operazione non è davvero facile, e certo di limitata efficacia rispetto alle dimensioni del problema, ma non inutile qualora trovi impegno adeguato. Provo a proporre un piccolo elenco di iniziative in questo senso praticabili.
Riscaldamento e refrigerazione si sono affermati ormai dovunque quali irrinunciabili correttivi della temperatura degli interni, senza dubbio di grande utilità, specie in quei giganteschi manufatti di cemento che sono gran parte di sempre più gigantesche metropoli. Stranamente però la capacità di regolare caldo e freddo ormai dovunque viene spinta al massimo, così da “produrre” estati a 16 -18° quando fuori si toccano e superano i 40°, e inverni a 25 -26° quando l’atmosfera esterna scende a 0° o molto sotto: di fatto non attenuando i disagi causati dai mutamenti stagionali, ma capovolgendoli, fino a soffrire caldo d’inverno e freddo d’estate; tra l’altro con conseguenze sanitarie negative, spesso non lievi.
Sono fatti che vorrebbero la lettura di sociologi, o meglio ancora di psicologi, per scorgervi forse atteggiamenti da “nouveaux riches”, identificazione con la propria capacità di consumo, ecc. E’ comunque certo che, al fine di un possibile contributo a minor dissipazione di “natura”, mantenere la temperatura degli interni – diciamo – a un minimo di 27-29° d’estate, e un massimo di 19-20° d’inverno, in tutto il mondo, significherebbe un enorme risparmio di energia. E certo anche maggior benessere. I grandi potentati del petrolio non sarebbero contenti. E forse nemmeno politici ed economisti, allarmati di un qualche calo del Pil. Ma appunto, questo ci conferma l’assurdo del nostro vivere; cui qualcuno, anzi per fortuna parecchi ormai, vorrebbero trovare dei correttivi.
Già una ventina d’anni fa André Gorz stigmatizzava la tendenza a programmare per una vita sempre più breve merci cosidette “durevoli” (automobili, elettrodomestici, mobilio, ecc.). Non produrre pezzi di ricambio era, ed è tuttora, il modo più sicuro per obbligare alla sostituzione dell’oggetto; ma l’induzione al consumo, in questo settore come in ogni altro, sempre più si vale di “novità” solo formali (il colore, il designe, l’inclusione di accessori minimi che nulla aggiungono alla funzione) ma pubblicizzate come imprescindibili. E’ una regola comune ormai a tutta la produzione, che però tocca livelli di delirio per computer, telefonini, macchine fotografiche, cineprese, e simili: più che mai qui affidandosi alla seduzione di nuovi accessori, in genere d’altronde non solo privi di reale utilità, ma quanto mai fragili, e dunque promessa di ulteriori acquisti. E anche tutto ciò può essere oggetto di utile riflessione, e di scelte conseguenti, per chi sia critico dell’iperconsumo dominante.
Non voglio soffermarmi sull’universo dei contenitori (buste, sacchi, sacchetti, scatole, astucci, di ogni foggia e dimensione, tutti puntualmente di plastica e pertanto votati all’eternità) che di tanto in tanto qualcuno propone di vietare, di regola inascoltato: benché certo ridurre l’uso, e quindi la produzione, di tutto ciò, sarebbe una bella ripulita del globo. Voglio piuttosto occuparmi un attimo di quella sconfinata fiera dell’inutile che è ormai l’abbigliamento, in particolare femminile: il quale (a prescindere da qualsiasi giudizio estetico) si pone come una delirante apoteosi dell’inutile. Ricami, merletti, nastri, frappe, fiocchi, catenine, lustrini, accostamenti bicolori o multicolori, impensate bizzarrìe di ogni sorta, che si affiancano incrociano sovrappongono indifferentemente su magliette, camicie, giacche, abiti da sera, vestaglie da camera, pigiami da notte, impermeabili, jeans, calze, scarpe…, in uno sterminato “di più” fine a se stesso, un’apoteosi del consumo per il consumo. O una sorta di barocco della disperazione; d’altronde operante per mille altri modi. Come giustificare ad esempio (e mi scuso per l’ineleganza del tema) la carta igienica decorata di fiori, racemi, farfalle, uccelletti, ecc., come accade ormai per la più parte di questa produzione? Considerando tra l’altro che, trattata a questo modo, la carta igienica non è più igienica, essendo l’inchiostro tipografico fortemente tossico…
Si potrebbe a lungo insistere in questa rassegna dell’”inutile-dannoso”; sterminata massa di prodotti, spesso destinati a passare direttamente dal supermercato alla discarica, illeggibili in qualsiasi funzione che non sia l’aumento del Pil. Riflettere su questi fatti può (forse) servire ai non pochi che, di fronte allo sfascio del mondo, si domandano se sia possibile fare qualcosa per contenerlo (almeno). Magari andando arileggere quei grandi pensatori cui accennavo sopra, che oltre un trentennio fa prevedevano, e temevano, ciò che noi stiamo vivendo.
«Pesa su tutto, secondo la definizione di Chomsky, il "senato virtuale" costituito da prestatori di fondi, investitori internazionali e agenzie di rating» - Negli ultimi decenni c'è stato un cospicuo spostamento, nella distribuzione del reddito dai salari ai profitti e alle rendite, che ha prodotto insufficienza di domanda effettiva e disoccupazione crescente
Rispetto all'intervista a Ciocca, apparsa sul manifesto di domenica 22 maggio aggiungeresti qualcosa? A quali aspetti daresti più importanza?
Sono d'accordo su tutto quanto ha scritto Pierluigi Ciocca, ma circa le cause della crisi attuale del capitalismo occidentale, versione italiana compresa, io insisto soprattutto sulla stretta e inscindibile interconnessione, in un sistema capitalistico, tra gli elementi reali e gli elementi monetari. Un sistema economico capitalistico potrebbe riprodursi senza crisi; ma se e soltanto se la distribuzione del prodotto sociale tra lavoratori, capitalisti e rentier fosse tale da non generare crisi di realizzazione, di «sovrapproduzione» rispetto alla capacità d'acquisto; e se e soltanto se moneta, banca e finanza fossero al servizio del processo di produzione e riproduzione del sistema, e non dessero invece luogo a sovraspeculazione e a crisi di tesaurizzazione.
Negli ultimi anni (decenni) si è invece avuto un cospicuo spostamento, nella distribuzione del reddito, dai salari ai profitti e alle rendite, e dunque si è determinata una insufficienza di domanda effettiva e una disoccupazione crescente. D'altra parte la finanza è diventata un gioco fine a se stesso. In condizioni normali la finanza è un gioco a somma zero: c'è chi guadagna e chi perde; ma quando essa assume le forme patologiche di una ingegneria finanziaria alla Frankestein, ci perdono tutti: anche e soprattutto quelli che non hanno partecipato al gioco.
Si tratta solo di una crisi economica? Non c'è anche un aspetto sociale e culturale? C'è un minor peso delle giovani generazioni indirizzate al lavoro o all'imprenditoria? Siamo un paese che invecchia?
Questo è un paese né per giovani né per vecchi, non soltanto per ragioni economiche, ma anche e talvolta soprattuto per ragioni sociali e culturali. Negli ultimi vent'anni il degrado culturale, nel nostro paese, è stato ancor più grave di quello economico ed è stato anche causa del degrado economico e sociale. Non sto a descriverlo, perché ci vorrebbe uno storico o uno scrittore di vaglia. In un paese civile la scuola è l'istituzione più importante. Le nostre scuole, di ogni ordine e grado, dalla scuola elementare alle università, erano motivo di vanto internazionale. Oggi, in generale - ovviamente ci sono delle eccezioni - sono in pessimo stato e grazie alle riforme in atto peggioreranno ancora. Per quanto riguarda l'Università, oggi si vorrebbe che l'università si trasformasse in una azienda al servizio delle imprese. Invece la riduzione dell'università a strumento mercantile non sarebbe affatto nell'interesse delle imprese; per non parlare della questione davvero importante, cioè della libertà della scienza. Nelle prospettive attuali della scienza e della tecnologia, e nelle condizioni attuali del lavoro, la cultura e le conoscenze richieste non sono affatto di tipo specialistico. Occorrono invece solide basi culturali, e l'unica cultura solida è una cultura critica.
C'è la globalizzazione, ma senza un potere dominante; la globalizzazione può diventare disordine? Quanto pesa in questa nostra crisi economica la crisi della politica e dello stato?
La globalizzazione è stato un tentativo ingenuo e fallimentare di contrastare la caduta tendenziale del saggio dei profitti, ma una strategia di beggar-my-neighbour, di rubamazzetto, non può durare a lungo. Infatti il suo esito, oggi come nel '29, è stato la crisi. La globalizzazione è in sé un processo di dis-ordine, nella misura in cui comporta la decadenza degli stati nazionali e la loro perdita di sovranità. I paesi europei avrebbero potuto contrastare questa conseguenza della globalizzazione conferendo all'Unione Europea un potere politico effettivo, ma ciò non hanno fatto e non hanno nessuna intenzione di fare.
Di qui quell'altra creatura minacciosa che è il «senato virtuale», secondo una definizione che N. Chomsky mutua da B. Eichengreen. Questo senato virtuale è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali che continuamente sottopongono a giudizio, anche per mezzo delle agenzie di rating, le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano «irrazionali» tali politiche - perché contrarie ai loro interessi - votano contro di esse con fughe di capitali, attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi (e in particolare delle varie forme di stato sociale). I governi democratici hanno dunque un doppio elettorato: i loro cittadini e il senato virtuale, che normalmente prevale.
Si parla di crisi finanziaria, ma c'è oggi anche una crisi del nostro sistema bancario? Mediobanca di Cuccia non c'è più e anche le grandi imprese di una volta sono tramontate.
Il sistema bancario italiano se la cava meglio di altri, per molte ragioni e non tutte positive. Qui si torna al ruolo della banca e della finanza. Se banca e finanza sono al servizio e di stimolo all'industria, il loro ruolo è essenziale e può dare un contributo importante a risolvere quel problema di crescita di cui parla Pierluigi Ciocca. Ma se non lo fa, e i «piani industriali» delle banche italiane non sono molto promettenti, quel problema di crescita si aggraverà. La struttura dimensionale delle imprese italiane, d'altra parte, è l'altra faccia dello stesso problema.
Il diminuito peso della classe operaia di fronte a un ceto medio (proprietario di abitazione) crescente è un ulteriore freno alla crescita economica?
Se la classe operaia è quella costituita dai lavoratori salariati, non sono del tutto sicuro che il suo peso sia diminuito: è che loro non lo sanno. Infatti lavoro salariato è oggi qualsiasi lavoro che in qualsiasi modo, direttamente o indirettamente, nella fabbrica o nella società, sia lavoro la cui quantità, qualità e remunerazione dipende dalle decisioni del capitale circa le proprie modalità economiche e politiche di riproduzione, e in particolare circa la scelta delle merci da produrre, delle tecniche di produzione e delle forme di organizzazione del lavoro. Questo è un problema, naturalmente, per le organizzazioni politiche e sindacali.
La crisi delle sinistre ha un peso negativo?
Io sono affezionato all'ultimo editoriale di Luigi Pintor: «La sinistra italiana che conosciamo è morta. Non lo ammettiamo perché si apre un vuoto che la vita politica quotidiana non ammette. Possiamo sempre consolarci con elezioni parziali o con una manifestazione rumorosa. Ma la sinistra rappresentativa è fuori scena».
Infatti a Milano i primi che si sono accorti della grave situazione economica e sociale, e che hanno sostenuto la prima vera novità nella politica italiana, sono stati un Alto Borghese e un Alto Prelato.
IL PROFILO
Giorgio Lunghini, nato a Ferrara nel 1938, è professore di economia e membro dell'Istituto universitario di Studi superiori di Pavia. Socio dell'Accademia dei Lincei, ha svolto la propria attività didattica presso l'Univerisità degli studi di Milano e di Pavia. Ha ricoperto il ruolo di consulente per il governo durante la presidenza del consiglio di Massimo D'Alema, e ha svolto il ruolo di presidente della Società Italiana degli economisti per il triennio 1977-1980. Ha ricevuto il premio Saint Vincent per il Dizionario di Economia Politica e per la Bollati Boringhieri ha curato raccolte di scritti di John Maynard Keynes e di Antonio Gramsci. Grande conoscitore del pensiero economico è autore di scritti in tema di storia e critica delle teorie economiche. Di teoria del valore, del capitale e della distribuzione.
Nel suo ultimo libro, Il grande saccheggio, lo storico Piero Bevilacqua traccia una diagnosi impietosa dei danni prodotti dal dominio capitalistico e suggerisce alcune proposte politiche immediate. Da parte sua Alain Deneault in Offshore evidenzia come i paradisi fiscali siano di fatto organismi sovrani, in cui il denaro «lavora» dentro gli stessi processi d'accumulazione del capitale su scala globale
Mentre l'economia globale passa da una crisi all'altra, la scienza economica ufficiale rifiuta di prendere coscienza delle radici dell'instabilità. Anche quando si vuole critica e, ad esempio, denuncia la speculazione finanziaria, non arriva a chiamare in causa gli squilibri nella distribuzione della ricchezza, determinati dalla logica intrinseca della produzione capitalistica e dal modello di accumulazione degli ultimi decenni. Nel tentativo di frenare la caduta dei profitti, le politiche neo-liberiste hanno sancito la ripresa del comando padronale sull'economia e hanno prodotto precarizzazione, disoccupazione di massa, allungamento della giornata lavorativa e compressione salariale; hanno inoltre intensificato, nel quadro di una concorrenza sempre più sfrenata, la corsa al deterioramento dell'ambiente.
Il capitalismo è entrato in una fase di «distruttività radicale»: questa la tesi centrale del Grande saccheggio (Laterza 2011, pp. XXXII-217, euro 16), l'ultimo saggio di Piero Bevilacqua, tra i più importanti storici italiani (curatore della Storia dell'agricoltura italiana, Marsilio 1989-1991, fondatore dell'Imes e della rivista «Meridiana»). L'autore, firma nota ai lettori di questo giornale, tenta un'analisi della situazione presente, globale e italiana, e la connette alla formulazione di proposte politiche immediate.
Macchine oligarchiche
Sul versante dell'analisi si insiste sull'attualità della lezione marxiana: le crisi sono elementi strutturali dell'economia capitalistica. Rispetto al quadro novecentesco siamo però in presenza di una novità storica: senza la resistenza del movimento operaio, il libero dominio del capitale regredisce alle forme di sfruttamento delle origini. Con esse non può ovviare alla crisi, ma solo riprodurla in forme ancor più laceranti, distruggendo ricchezza e polarizzando ulteriormente le società.
Lo spreco di risorse ne è lo specchio più eloquente: per citare solo due degli esempi ripresi nel volume, l'iperconsumo euro-americano colonizza l'immaginario infantile e genitoriale nel segno del disciplinamento consumistico (negli Stati Uniti la spesa trainata dai bambini è superiore all'enorme bilancio militare) e procede inesorabile sulla strada del degrado ambientale (cementificazione dei suoli, aumento del traffico e dell'inquinamento atmosferico, proliferazione di rifiuti). L'enorme capacità scientifica oggi disponibile per una diagnosi accurata dei danni prodotti dal dominio capitalistico è resa meno efficace dalla frammentazione del sapere, per la logica disciplinare imperante nelle università e, soprattutto, dall'incapacità delle dirigenze politiche di tenerne conto per prevenire esiti catastrofici. L'imprevidenza, per usare un eufemismo, della privatizzazione dell'acqua e dell'opzione nucleare offrono conferme evidenti a questi assunti.
Solo il conflitto di classe può porre dei limiti a una china pericolosa, sia sul piano delle lotte del lavoro che su quello politico. Arrivati a metà del libro, la diagnosi offerta da Bevilacqua sull'involuzione della sfera politica è tanto impietosa quanto era stata radicale la disamina del meccanismo capitalistico riassunta nelle pagine precedenti.
Macchine oligarchiche che riproducono un vero e proprio «ceto politico», i partiti odierni hanno conservato solo un flebile legame con progetti e programmi, e hanno così iniettato, giorno dopo giorno, dosi massicce di cinismo nella popolazione, sempre più consapevole della separatezza dei «politici» dalla vita quotidiana. Le «politiche della paura» producono ad arte sensazioni di insicurezza per conservare un legame - malato e intimamente autoritario - fra i rappresentanti e la base sociale che li sorregge con il voto. Separatezza e paura impediscono la formazione di risposte di classe alla crisi capitalistica e producono, con Benjamin, il regresso dei lavoratori a «massa» o «folla».
La logica del risentimento
L'Italia rappresenta un «caso esemplare» di (auto)cancellazione della sinistra politica e di diffusione nelle classi subalterne di culture del risentimento che favoriscono l'imbarbarimento politico (l'atteggiamento sulla guerra libica e sui profughi ne è solo la più recente manifestazione). Come negli anni Venti, l'Italia è ancora un laboratorio: «il capitale che si mangia la politica» ha trovato qui un'incarnazione perfetta nel fenomeno-Berlusconi. Perché? Bevilacqua recupera le pagine dei Quaderni gramsciani per ricordare al lettore la storica mancanza di egemonia delle classi dirigenti nazionali (varrebbe la pena ricordarlo, in tema di 150°), da cui la vocazione al particolarismo, alla violazione delle regole e all'eversione.
Si rifiuta qui l'invocazione di una pretesa «mutazione antropologica» degli italiani a spiegazione degli esiti politici prevalenti dal 1994. L'antropologia dell'Italia democristiana, ci ricorda l'autore, non era poi così diversa e, soprattutto, nella storia del Belpaese è esistita un'opposizione di massa di ben altra qualità etica e politica. Un'altra Italia tuttora viva, come dimostrano le mille resistenze, dalla denuncia della gestione dei rifiuti in Campania ai «no-tav» valsusini.
Come uscire dalla crisi e dalla politica che produce anti-politica? Innanzi tutto per Bevilacqua occorre opporre alla logica del risentimento quella della visibilità del conflitto di classe: i problemi sociali trovano le loro radici nella diseguaglianza e nello sfruttamento, che non sono fenomeni inevitabili e invarianti, ma sono legati a rapporti di forza che si formano nel cuore della produzione capitalistica. Il peggioramento delle condizioni materiali di vita, come i rischi di catastrofi ambientali, hanno precisi responsabili, poiché esiste una catena causale alle origini del loro prodursi. Riaffermarlo pubblicamente e costruire una politica fondata su questi assunti è la precondizione per invertire la rotta. Di questi tempi, ribadire esplicitamente che la politica si fonda sui processi sociali e deve tendere alla loro trasformazione fa del Grande saccheggio un libro prezioso.
Anche le forme della politica rappresentano però un problema. Le ragioni del cinismo dilagante in Italia, ma anche della difficile connessione e rappresentanza dei ricchi movimenti di base, stanno nella moderazione di quel che resta dei partiti di opposizione. La loro condotta quotidiana risponde alle stesse dinamiche del resto del «campo politico», nella distanza dai bisogni elementari della popolazione e nei contenuti troppo vicini a quelli degli avversari e dei gruppi economici dominanti.
Per di più, le esperienze di governo di «centro-sinistra» hanno aggravato la sfiducia popolare, poiché non hanno offerto miglioramenti palpabili, possibili solo nel quadro di una politica economica alternativa ai fondamenti delle linee neo-liberiste responsabili della distruzione sociale e ambientale. Bevilacqua sa bene che alla crisi di sistema si può rispondere solo con una radicale riduzione dell'orario, che redistribuisca il lavoro ed elimini la disoccupazione, fonte di miseria e di ricattabilità. Nell'immediato, tuttavia, oltre a sollecitare la ripresa dell'iniziativa da parte di un sindacato giudicato eccessivamente immobilista, ritiene più realistico immaginare un «piano del lavoro giovanile», incentrato sul recupero delle aree interne, nel segno dell'agricoltura, di piccole agro-manifatture, di artigianato teso al riciclo e alla riparazione, di politiche dei rifiuti, di energie alternative, di nuovi istituti di ricerca pubblica (sul modello delle francesi Maisons de science de l'homme).
Come imporlo alle classi dirigenti? Occorre prima di tutto restituire la politica ai cittadini, sgretolando la separatezza del ceto politico, attraverso il varo di provvedimenti specifici. Per citarne alcuni: un tetto alle spese elettorali, la riduzione di stipendi e privilegi parlamentari, il divieto del cumulo di cariche, il ritorno al sistema elettorale proporzionale. Giudicata impossibile l'auto-riforma del ceto politico, la proposta che chiude Il grande saccheggio è indirizzata in primo luogo ai movimenti: una nuova campagna referendaria (evidente è qui la lezione della recente mobilitazione per l'acqua e antinucleare), centrata sulla riforma della politica potrebbe configurare un salto di qualità nell'opposizione sociale, consentendo il superamento della frammentazione e la costruzione di uno sbocco politico. Vedremo nei prossimi mesi, prima e dopo il voto di giugno, se i destinatari raccoglieranno l'invito.
Apocalisse significa rivelazione. Che cosa ci rivela l'apocalisse scatenata dal maremoto che ha colpito la costa nordorientale del Giappone? Non o non solo - come sostengono più o meno tutti i media ufficiali - che la sicurezza (totale) non è mai raggiungibile e che anche la tecnologia, l'infrastruttura e l'organizzazione di un paese moderno ed efficiente non bastano a contenere i danni provocati dall'infinita potenza di una natura che si risveglia. Il fatto è, invece, che tecnologia, infrastrutture e organizzazione a volte - e per lo più - moltiplicano quei danni, com'è successo in Giappone, dove la cattiva gestione di una, o molte, centrali nucleari si è andata ad aggiungere ai danni dello tsunami.
Non è stato lo tsunami a frustrare anche le migliori intenzioni di governanti, manager, amministratori e comunicatori: l'apocalisse li ha trovati intenti a mentire spudoratamente su tutto, di ora in ora; cercando di nascondere a pezzi e bocconi un disastro che di ora in ora la realtà si incarica di svelare. È un'intera classe dirigente, non solo del nostro paese, ma dell'Europa, del Giappone, del mondo, che l'apocalisse coglie in flagrante mendacio, insegnandoci a non fidarci mai di nessuno di loro. Solo per fare un esempio, e il più "leggero": Angela Merkel corre ai ripari fermando tre, poi sette, poi forse nove centrali nucleari che solo fino a tre giorni fa aveva imposto di mantenere in funzione per altri vent'anni. Ma non erano nelle stesse condizioni di oggi anche tre giorni fa? E dunque: c'era da fidarsi allora? E c'è da fidarsi adesso?
Per chi non ha la possibilità o la voglia di sviluppare un pensiero critico e si lascia educare dai media, sono gli scienziati e i tecnici a poterci e doverci guidare lungo la frontiera dello sviluppo. I risultati di quella guida sono ora lì davanti ai nostri occhi. L'apocalisse ci rivela invece che sono gli artisti, con la loro sensibilità e il loro disinteresse, a instradarci verso la scoperta del futuro. Leggete Terra bruciata di James Ballard o, meglio ancora, La strada di Cormac McCarthy; o andate a vedere il film tratto da questo romanzo. Vi ritroverete immediatamente immersi in panorami che oggi le riprese televisive della costa nordorientale del Giappone ci mettono davanti agli occhi. E con McCarthy potrete rivivere anche il senso di abbandono, di terrore, di sconforto, di inanità che solo una irriducibile voglia di sopravvivere a qualunque costo e il fuoco di un legame affettivo indissolubile riesce a sconfiggere.
L'apocalisse ci rivela che la normalità - quella che ha contraddistinto la vita di molti di noi per molti degli anni passati, ma che non è stata certo vissuta dai miliardi di esseri umani che hanno fatto le spese del nostro "sviluppo" e del nostro finto "benessere" - è finita o sta per finire per sempre. È finita per il Giappone - e non solo per le popolazioni sommerse dallo tsunami - che ora deve fermare le sue fabbriche, sospendere le sue esportazioni, far viaggiare a singhiozzo i suoi treni, chiudere le pompe di benzina, spegnere le luci, bloccare tutti o quasi i suoi reattori nucleari; senza sapere con che cosa sostituirli e senza sapere se e quando potrà riprendersi da un colpo del genere (un destino simile a quello che potrebbe far piombare di colpo la Francia nelle condizioni di un paese "sottosviluppato" se solo le accadesse un incidente analogo). I tanti programmi di «rinascita del nucleare» varati negli ultimi anni - che sono la risposta più irresponsabile e criminale alla crisi economica mondiale - si rivelano una truffa: il tentativo di far credere che con l'atomo consumi, sviluppo ed "emersione" di paesi che annoverano miliardi di abitanti possano riprendere e continuare a crescere come prima. Tant'è che quei programmi stavano andando avanti - e forse verranno mantenuti ancora per un po' - soltanto nei paesi senza nemmeno la parvenza della democrazia (tra cui l'Italia). Ma adesso tutti, o quasi, si dovranno fermare.
Ma non saranno rose e fiori neanche per i paesi che viaggiano a petrolio, metano e carbone, come il nostro. Il Medio Oriente è in fiamme e se - o meglio, quando - crollerà il regno saudita, anche il petrolio arriverà con il contagocce. Soprattutto in Italia; ma anche in Europa. E allora addio sogni di gloria per l'industria automobilistica: non solo quelli di Marchionne (che sono un mero imbroglio), ma anche per quelli di tutta l'Europa. Per non parlare degli Stati Uniti: a giugno dovranno rinnovare una parte del loro debito, che è ben più serio e in bilico di quelli di tutti i paesi dell'Unione europea messi insieme; ma forse nessuno lo vorrà più comprare. Il che significa che un nuovo crack planetario è alle porte.
Insomma, niente sarà più come prima. Era già stato detto all'indomani dell'11 settembre; ma poi ciascuno ha continuato a fare quello che faceva prima. Comprese le guerre; compresa le speculazioni finanziarie e la reiterazione della crisi che essa si porta dietro; e che è stata invece trattata come «un incidente di percorso», da cui riprendere al più presto la strada di prima, discettando sui decimali di Pil che da un momento all'altro potrebbero invece precipitare di un quinto o di un terzo.
Quello che l'apocalisse dello tsunami in Giappone ci rivela è la "normalità" di domani. L'apocalisse è già tra noi, in quello che facciamo tutti i giorni e soprattutto in quello che non facciamo. Dobbiamo imparare ad attraversare e a vivere dentro un panorama devastato, dove niente o quasi funziona più: non solo per il crollo o il degrado delle sue strutture fisiche; o per l'intasamento della loro "capacità di carico"; ma anche e soprattutto per la manomissione delle linee di comando, per la paralisi delle strutture organizzate, per la dissoluzione dello spirito pubblico calpestato dalle menzogne e dall'ipocrisia di chi comanda.
Volenti o nolenti saremo obbligati a cambiare il nostro modo di pensare e dovremo studiare come riorganizzare le nostre vite in termini di una maggiore sobrietà; e in modo che non dipendano più dai grandi impianti, dalle grandi strutture, dalle grandi reti, dai grandi capitali, dalle grandi corporation che li controllano e dalle organizzazioni statali e sovrastatali che ne sono controllate: tutte cose che possono venir meno, o cambiare improvvisamente aspetto dall'oggi al domani.
Dobbiamo adoperarci per mettere a punto strumenti di autogoverno a livello territoriale, in un raggio di azione che sia alla portata di ciascuno, in modo da avvicinare le risorse fisiche alle sedi della loro trasformazione e queste ai mercati del loro consumo e alle vie del loro recupero: perché solo di lì si può partire per costruire delle reti sufficientemente ampie e flessibili che siano in grado di far fronte a una improvvisa crisi energetica, alle molte facce della crisi ambientale, a una nuova crisi finanziaria che è alle porte, al disfacimento del tessuto economico e alla crisi occupazionale che si aggrava di giorno in giorno; e persino a una crisi alimentare che potrebbe farsi improvvisamente sentire anche in un paese del "prospero" Occidente. Le fonti rinnovabili, l'efficienza e il risparmio energetici, il riciclo totale dei nostri scarti, un'agricoltura a chilometri zero, la salvaguardia e il riassetto del nostro territorio, ma soprattutto uno stile di vita più sobrio e restituito alla socievolezza sono i cardini e la base materiale di una svolta del genere. Va bene tutto ciò che va in questa direzione; anche le piccole cose. Va male tutto ciò che vi si oppone: soprattutto la rinuncia a un pensiero radicale.
Internet è la frontiera dove le regole della proprietà privata mostrano la loro violenza ordinatrice. Ma è anche il contesto nel quale le grandi imprese high-tech provano a piegare la comunicazione ai loro interessi. La restistenza a questo tentativo di espropriazione passa attraverso una concezione del comune che prenda congedo dal diritto privato e pubblico
Sempre più spesso si ripongono grandi speranze nella rete internet come luogo di emancipazione e «contro-egemonia». Intorno ad Internet, negli anni è stata costruita una vera e propria mitologia della rete come spazio pubblico, «luogo comune» informato al principio di uguaglianza, connessione, parità e libertà di accesso, spazio di creatività e condivisione libera. Le belle favole sono numerosissime e tutte vedono come protagonisti giovani geniali e creativi, capaci di idee (poi tradotte in servizi) che, in rapida successione nella corsa continua per la soddisfazione di sempre di nuovi bisogni, sono divenute l' arredo stesso del nostro mondo globale. Basterà pensare agli inventori oggi multimiliardari di Google o di Facebook. Ma gli eroi eponimi della rete sono anche altri e certamente questa rivoluzione del «comune globale» tocca pure aspetti meno commerciali o narcisistici. Sul piano politico, Wikileaks è divenuta icona della trasparenza.
Meno di cent'anni dopo che Lenin aveva denunciato la diplomazia dei trattati segreti pubblicando unilateralmente tutti quelli in cui era entrata la Russia zarista, ecco che Assange, che non ha neppure dovuto conquistare il Palazzo d'Inverno, ha potuto produrre, grazie al suo server blindato, altrettanto imbarazzo nelle Cancellerie di tutto il mondo. E poi abbiamo i movimenti per i beni comuni locali, resistenti di tutto il mondo, dagli zapatisti ai sem terra, dai NoTav alle lotte per l'università pubblica, sparsi in ogni continente e organizzati intorno ai più varii temi. Tutti questi gruppi, grazie a Internet, mettono in comune le proprie pratiche, condividono idee e strategie, insomma contribuiscono alla creazione di una cultura politica che coniuga aspetti locali con dimensioni planetarie.
Il mito della piazza globale
Sarebbe impossibile contestare il fatto che la Rete ha messo a disposizione spesso gratuita e quindi largamente democratizzato, una quantità di informazione assolutamente impensabile fino a poco tempo fa. Basterà pensare a Wikipedia che ha colmato il divario fra quei ragazzi le cui famiglie potevano permettersi un'enciclopedia e gli altri nella preparazione dei compiti e delle ricerche a casa. Non solo, ma essa non offre solo informazioni. In effetti Internet è pure luogo di pensiero critico che si articola nei moltissimi blog che da tutto il mondo offrono riflessioni e pensieri, talvolta intelligenti, dei loro instancabili autori. A questo si aggiungano siti come YouTube, che da qualche anno consentono la messa in rete e la condivisione di ogni sorta di immagine, con conseguenze ancora una volta non indifferenti pure sulla sfera politica.
Grazie ad Internet sono possibili operazioni che altrimenti sarebbero impensabili senza una poderosa organizzazione, quali per esempio portare per un giorno in piazza oltre un milione di persone, come è riuscito in Italia al cosiddetto «popolo viola» o al movimento delle donne. Sono questi alcuni dei possibili usi di Internet che l'hanno fatta celebrare come «piazza globale» e luogo di condivisione, facendo declinare dalla Rete alcuni degli aspetti più significativi dell'idea dei beni comuni.
Tuttavia, una valutazione di Internet nella prospettiva dei beni comuni consegna messaggi non univoci. Occorre innanzitutto sgombrare il campo da alcuni miti ad esso relativi che mi pare abbiano prodotto eccessivi entusiasmi circa la capacità del web di rompere con la logica tradizionale della modernità costruita sul binomio «proprietà privata-stato». Bisogna compiere uno sforzo di storicizzazione l'esperienze e lo sviluppo di Internet anche se la sua breve esistenza come fenomeno politicamente rilevante, e l'estrema velocità delle trasformazioni anche tecnologiche che la vedono protagonista non rende la cosa agevole perché si tratta sostanzialmente di storicizzare il presente. Quest'operazione consegna immagini di segno opposto rispetto alla mitologia della «piazza globale».
Consumatori e produttori
Sul piano storico, infatti, la grande diffusione di internet è coincisa in modo quasi perfetto con la «fine della storia», ed è stata sicuramente l'aspetto tecnologicamente più rilevante della nascita e dello sviluppo del cosiddetto capitalismo cognitivo. Internet infatti costituisce la grande infrastruttura globale capace di fondare quel particolare sistema di produzione di servizi fondato sullo sfruttamento del precariato intellettuale e sulla trasformazione dei cittadini in consumatori che caratterizza l'attuale fase di sviluppo capitalistico.
Inoltre, la diffusione di internet ha prodotto un'accelerazione talmente radicale nella trasmissione di informazioni anche complesse da averne prodotta una altrettanto impressionante nella finanziarizzazione dell'economia, creando le condizioni per il trasferimento di capitali ingentissimi in tempo reale da una piazza finanziaria all'altra (con relativa facilitazione della speculazione). Altre conseguenze problematiche si rinvengono nella sua capacità di sostituire la mano d'opera sul fronte dell'offerta dei servizi, scaricando lavoro sul fronte della domanda, quella appunto dei consumatori. Chi acquista un biglietto ferroviario via Internet svolge personalmente un lavoro che sarebbe altrimenti stato a carico dell'offerta (bigliettaio) o che comunque sarebbe stato intermediato da una persona fisica (agente di viaggio). Non solo quindi, come diceva Jean Baudrillard, il consumatore diviene sempre più qualcuno che paga per lavorare al servizio del capitale (nel caso dei libri su Amazon.com facendo autonomamente ricerca senza aiuto del venditore e perfino scrivendo piccole recensioni ad uso dei succesivi acquirenti) ma la tendenza alla riduzione dei posti di lavoro del capitalismo tecnologico-cognitivo è sotto gli occhi di tutti.
È chiaro che la globalizzazione e l'ampliamento dei mercati distributivi resi possibile dal Web produce una serie di effetti collaterali solitamente sottostimati che comunque presentano costi sociali non indifferenti. Non solo posti di lavoro persi ma anche tendenza alla spedizione da grande o grandissima distanza che inquina l'ambiente e si colloca in tendenza radicalmente opposta rispetto al modello «a Km 0» raccomandato dagli ambientalisti. Inoltre, Internet rende tutti dipendenti dalla tecnologia informatica e dalle grandi imprese delle telecomunicazioni che gestiscono l' accesso alla rete. Infatti l'accesso alla piazza è precluso a chi non ha un collegamento via cavo o celluare, cosa per nulla scontata in molti contesti disagiati.
Alla conquista del wi-fi
Anche nei paesi ricchi Internet è illusoriamente gratuito o poco costoso perché comunque costano tanto la tecnologia necessaria quanto l'accesso. Sebbene da quest'ultimo punto di vista si comincino a registrare sforzi pubblici volti a consentire l'accesso gratuito in molte città (spazi pubblici wi-fi), la necessità di utilizzare computers continuamente «allo stato dell'arte» (per non parlare di smartphones, iPad e altre tecnologie simili) produce comportamenti consumistici insostenibili sia dal punto di vista sociale che da quello ambientale. Dal primo punto di vista, la rapidissima evoluzione tecnologica obbliga a continui upgradings e la durata media di un computer è ormai inferiore a due anni. Dal punto di vista ecologico poi si sa che la costruzione e lo smaltimento dei computer e della tecnologia di acceso a Internet richiede un consumo del tutto insostenibile di minerali rari (saccheggiati in Africa e in altri contesti fragili) e di energie cosa che dovrebbe far riflettere bene quanti sostengono ecologica la sostituzione di libri e giornali cartacei con i cosiddetti ebooks.
Se si osserva il governo di Internet si vedrà come inclusione e condivisione siano ben lungi dalle motivazioni e dalle pratiche del suo governo attuale. Infatti, dopo una fase storica iniziale in cui la rete era effettivamente gestita dai suoi principali utenti e padri scientifici, interessati principalmente a svilupparla e a farla crescere, a partire dalla fine degli anni Novanta le cose sono cambiate radicalmente. Oggi la governance di internet è saldamnente in mano ai potenti interessi politici e privati che son stati capaci di adattare al capitalismo cognitivo la grande tenaglia che fin dalla modernità stritola i beni comuni.
I baroni dell'immateriale
Sono oggi gli Stati Uniti d'America ed i grandi latifondisti intellettuali che, come i robber barons fra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo, ne determinano le politiche, mantenendo così saldamente in pugno il controllo della rete. Un controllo che progressivamente ne stritola gli aspetti di bene comune come dimostra il fatto che oggi più della metà del traffico che circola sulla rete è costituito dalle cosiddette apps (le applicazioni) private alle quali si accede soltanto a pagamento. Infatti la guerra per il controllo di Internet, una volta che questo è diventata l'infrastruttura fondamentale del capitalismo cognitivo, è durata assai poco. Il governo degli Stati Uniti ha fatto pesantemente valere, anche con l'uso della minaccia penale, la «proprietà» della rete.
Nel territorio degli Stati Uniti si trovano infatti la maggioranza dei cosiddetti root servers cioè la quindicina di computers su cui fisicamente si fonda il Domain Name System, ossia il sistema di assegnazione degli indirizzi internet senza il cui continuo mantenimento la rete sarebbe inservibile come una megalopoli in cui le persone abitino senza indirizzo o come una grande biblioteca senza sistema di catalogazione libraria. Internet non sarebbe in alcun modo concepibile senza un potere di assegnazione degli indirizzi ed il controllo del livello base dell'indirizzazione conferisce un autentico potere di vita e di morte sulla fruibilità della rete per i suoi utenti. Tale potere di assegnazione, strettamente gerarchico in barba alla retorica della rete, trova la sua «norma fondamentale» nel Root Server A, la radice della piramide strettamente gerarchica ancorché invertita, che a sua volta si trova in territorio statunitense (ed è quindi controllato dal suo governo).
Oggi il centro decisionale della rete è un'altra corporation, nominalmente no profit, Icann (Internet Corporaton for Assigned Names and Numbers) che esercita il suo potere sulla Rete in forza di una convenzione con il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti. Tutti i governi del mondo (con l'eccezione di quello statunitense) hanno un ruolo di consulenza nelle decisioni del Consiglio di amministrazione di Icann, cosa che appare quanto meno ironica a fronte della retorica della rete come bene comune!
Nessuno si è chiesto che cosa sarebbe successo se a Mirafiori avessero vinto i no. Non è una domanda peregrina; in fin dei conti i sì hanno vinto per pochi voti. Se avessero vinto i no, Marchionne, i sindacati gialli (Cisl, Uil, Fismic e compagnia) e Sacconi (in rappresentanza di un governo che non esiste più) avrebbero subito uno smacco ancora maggiore; ma nei fatti non sarebbe successo niente di diverso da quello che accadrà. Con la vittoria dei sì gli operai andranno in Cig per almeno un anno. Quando, e se, Mirafiori riaprirà, la situazione in Italia e nel mondo potrebbe essere molto cambiata. Nel frattempo verranno costituite, a Pomigliano, a Mirafiori, e poi in tutti gli altri stabilimenti Fiat, tante nuove società (all'inglese, NewCo) che assumeranno con contratti individuali e vincolanti gli operai che serviranno. Alla Zastava (l'impianto serbo della Fiat) ne stanno scartando tantissimi. A Mirafiori, con un'età media di 48 anni, un terzo di donne e un terzo con ridotte capacità lavorative, a essere scartati saranno forse ancora di più. Poi cominceranno ad arrivare motori, trasmissioni e pianali prodotti negli Usa per essere assemblati con altre componenti di varia provenienza, trasformati in suv e Jeep (che è l'«archetipo» di tutti i suv) e rimandati indietro: fino a che l'«esportazione» dagli Usa in Italia di quei motori e pianali non avrà raggiunto un miliardo e mezzo di dollari, come da accordi presi tra Marchionne e Obama. Poi si vedrà: di sicuro cesserà quell'avanti e indietro di pezzi tra Detroit e Torino che non ha senso; e per Mirafiori bisognerà trovare una nuova produzione e, forse, un nuovo «accordo». Ma non è detto che ci si arrivi: il prezzo del petrolio è tornato a salire; il Medio Oriente (il serbatoio delle auto di Oriente e Occidente) è in fiamme; quei suv, che due anni fa Marchionne aveva escluso di poter produrre in Europa, potrebbero non trovare acquirenti neanche negli Usa. Se invece il «colpo grosso» di Marchionne sulla Chrysler andrà in porto, la direzione del nuovo gruppo unificato emigrerà negli Usa. Gli operai che hanno votato sì non si sono affatto assicurati il futuro.
E se avessero vinto i no? Marchionne avrebbe dovuto comunque «esportare» in Italia (e dove, se no?) motori e pianali per poi reimportarli montati; perché esportare dagli Usa vetture finite per un miliardo e mezzo di dollari gli è assai più difficile. E nemmeno avrebbe potuto montarli in uno stabilimento del Canada (come aveva minacciato), o del Messico (dove monta la 500); perché sono entrambi paesi del Nafta e le esportazioni verso quell'area non contano ai fini dell'obiettivo imposto da Obama.
L'investimento, poi, sarà lo stretto necessario (il cosiddetto «accordo» di Mirafiori non include nessun impegno su questo punto e Marchionne ha detto e ripetuto che tutto dipenderà da come andrà il mercato). Ma con due stabilimenti e 10.000 e più addetti in Cig per un anno, per Fiat la perdita di ulteriori quote di mercato in Europa è certa; e sarà sempre più improbabile arrivare a esportare dall'Italia un milione di vetture nel 2014, come previsto dal piano Fabbrica Italia, anche includendo i 250mila suv assemblati a Mirafiori e trasferiti a Detroit, che sono un po' un gioco delle tre carte. Lasciamo poi perdere gli altri 18 e rotti miliardi di investimenti previsti dal piano...
Ma che cosa sarà la Fiat nel 2014? Una serie di marchi governati da Detroit e tante società (NewCo) distinte quanti sono gli stabilimenti (o anche più: a Mirafiori ce ne sono già diversi); ciascuna delle quali avrà produzioni indipendenti. La Zastava produrrà auto Fiat, ma Mirafiori produrrà auto Chrysler e Alfa (se questo marchio non verrà venduto), mentre Fiat Poland lavorerà sia per Fiat che per Ford. Così, se «il mercato» lo richiederà, anche gli stabilimenti italiani ex Fiat potranno lavorare in tutto o in parte per la concorrenza. Insomma, quello che gli «accordi» di Pomigliano e di Mirafiori stabiliscono è che Fiat-Chrysler sarà una cosa e le NewCo, con gli operai legati al «loro» stabilimento da un contratto individuale, sono un'altra; e che ciascuna andrà per la sua strada: potrà essere chiusa, o venduta, o data in affitto, o lavorare «in conto terzi», senza che ciò abbia alcuna ripercussione sugli altri stabilimenti e sugli altri lavoratori dell'ex Fiat Group. Se gli operai delle imprese globali devono trasformarsi in truppe al comando dei rispettivi manager per fare la guerra agli operai di altre imprese e di altri manager globali, come dice Marchionne, questa guerra, in cui i lavoratori perderanno sempre e non vinceranno mai, non si svolgerà solo tra grandi competitor globali, ma anche tra le varie NewCo in cui si risolverà lo «spezzatino» della Fiat.
Sapevano queste cose gli operai di Mirafiori quando hanno votato? No. Qualcuno aveva cercato di spiegargliele? No (solo la Fiom, benemerita, aveva distribuito agli operai il testo del contratto che i sindacati gialli avevano firmato senza nemmeno convocarli in assemblea). Avrebbero votato allo stesso modo se fossero stati adeguatamente informati? Forse no: tutti quelli del sì pensavano e dicevano che almeno così avrebbero salvato il loro futuro. Eppure 150 economisti hanno sottoscritto un documento di dura critica dell'accordo e di sostegno alla Fiom. Se si fossero adoperati per mettere per tempo al corrente lavoratori e opinione pubblica di quel che bolliva in pentola, invece di lasciare campo libero a chi spiegava - e continua a ripetere - urbi et orbi che quell'accordo garantisce un futuro sicuro sia agli operai che al Gruppo, forse il referendum avrebbe avuto un esito diverso. Non è una recriminazione ma una proposta di lavorare in comune - a più stretto contatto con il mondo reale - rivolta a tutti gli interessati.
C'è un'alternativa a tutto questo? Sì; quella di abbandonare gradualmente le produzioni dove la competizione non è che una corsa a perdere - e l'industria dell'auto è oggi il settore dove questi effetti sono più vistosi e più gravidi di conseguenze - per imboccare una strada dove il rapporto con il mercato sia più diretto, concordato, meno aleatorio e meno esposto all'alternativa mors tua vita mea. La mobilità sostenibile, solo per fare un esempio (ma ce ne sono altri mille, e l'efficienza energetica o le fonti rinnovabili sono tra questi) non vuol dire solo produrre meno auto - e auto meno energivore, meno inquinanti, meno effimere, meno veloci, meno costose, da usare soprattutto in forme condivise - e più treni, più tram, più bus grandi e piccoli; vuol dire gestire in forme coordinate la domanda di spostamenti di merci e persone avvalendosi di tutte le opportunità offerte dalle tecnologie telematiche; e impiegando in servizi essenziali molto più personale di quanto ne richiedono i robot di una fabbrica semiautomatizzata. Ma è una scelta che non può ricadere solo sulle spalle degli operai di una fabbrica dal futuro incerto; e nemmeno su quelle di un sindacato; e meno che mai su quelle di un management che vede nella competizione senza limiti l'unica ragion d'essere del proprio ruolo e dei propri spropositati guadagni. È una scelta che deve fare capo - come ha detto Marco Revelli al seminario Fiom-Micromega di Torino - a un'intera comunità: e innanzitutto a quelle il cui destino dipende da quello dei lavoratori - giovani, anziani, occupati, disoccupati o precari - a cui accordi come quello di Mirafiori rubano il futuro. E «comunità», qui, non è una parola astratta: vuol dire amministrazioni locali, Comuni, Province, Università, Asl, ricerca, istituzioni culturali, associazioni, comitati, parrocchie, media, programmi elettorali: ciascuno deve chiedersi che cosa può fare per capirne di più, per informare se stesso e gli altri, per contribuire, con la propria esperienza diretta, il proprio bagaglio culturale, la propria professionalità, la propria etica, a un progetto condiviso. E' un compito comune perché per tutti - o quasi - il baratro è alle porte.
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Il Dow Jones può salire con le bolle speculative sulle materie prime, possono entusiasmare le vendite di Natale o le società leader come Apple, ma la piaga del mercato immobiliare resta insanata e insanabile
Il 25 gennaio, di fronte al Congresso e a 50 milioni di americani che lo ascoltavano, Barack Obama ha pronunciato un discorso di 6.958 parole nel quale ha parlato molto di posti di lavoro (33 volte), di scuola (16 volte), di futuro (16 volte) di energia pulita (9 volte). C'era però un vocabolo maledetto, una parola tabù assente dal suo discorso sullo Stato dell'Unione, come se il solo pronunciarla potesse peggiorare la situazione: «foreclosure», pignoramento della casa.
Lo stesso giorno in cui Barack Obama esortava gli americani a guardare con fiducia al futuro, a reagire come reagirono nel 1958, quando il lancio dello Sputnik sembrava dimostrare la superiorità dell'Unione Sovietica nella corsa allo spazio, in quelle stesse ore venivano diffusi i dati sui prezzi delle case, che sono ulteriormente scesi, dell'1% nelle 20 maggiori aree metropolitane degli Stati Uniti, mentre i pignoramenti di case per mutui non pagati regolarmente saranno nel 2011 più di due milioni, in aggiunta ai 2,8 milioni pendenti. Dal 2008 ad oggi circa tre milioni di famiglie americane hanno perso la casa, o sono sul punto di perderla, fra undici mesi altri 2 milioni saranno nelle stesse condizioni, portando il totale a 5 milioni.
«Il livello dei pignoramenti rimane da cinque a dieci volte più alto rispetto al normale nei mercati più colpiti, dove permangono profonde linee di frattura che potrebbero scatenare nuove ondate di pignoramenti nel 2011 e oltre. I pignoramenti si sono estesi nel 2010 perché la disoccupazione elevata ha fatto crescere i procedimenti del 72% nelle aree metropolitane, molte delle quali erano rimaste relativamente immuni dal maremoto iniziale di pignoramenti» dice James J. Saccacio, amministratore delegato di RealtyTrac, un'agenzia specializzata nel seguire le evoluzioni del mercato immobiliare americano.
Di fronte a una tragedia sociale di queste dimensioni, il presidente entrato in carica nel gennaio 2009 sull'onda di immense speranze avrebbe probabilmente dovuto dire qualcosa, fare un bilancio di ciò che l'amministrazione ha fatto in questi due anni, giustificare i fallimenti e annunciare la ricerca di nuove strade per affrontare il problema.
Le strizzatine d'occhio
Non solo Obama non lo ha fatto, ma la sua amministrazione manda ogni giorno strizzatine d'occhio a quello stesso mondo delle banche che è all'origine della catastrofe finanziaria del 2008, una «crisi evitabile», come spiega con abbondanza di dettagli il rapporto della commissione del Congresso incaricata di indagare sull'accaduto (il rapporto è stato pressoché ignorato dalla stampa se non nei suoi aspetti di polemica spicciola tra commissari democratici e commissari repubblicani). E la nomina di William Daley, ex sindaco di Chicago e alto dirigente di J. P. Morgan a capo di gabinetto dello stesso Obama appare, più che una strizzatina d'occhio alle banche, una resa senza condizioni.
Sul sito web della Casa Bianca sono elencati 29 temi politici su cui gli americani possono ottenere maggiori informazioni su ciò che Obama ha fatto e si propone di fare: si comincia con Civil Rights e si finisce con Women, passando dalle politiche per i reduci di guerra a quelle per le zone rurali. Quello che non c'è è la voce Housing, o sinonimi. La casa, il cuore del Sogno Americano e l'epicentro della crisi finanziaria, è stata semplicemente rimossa come problema.
La storia della crisi esplosa con il fallimento di Lehman Brothers nel 2008 è molto complessa e, non a caso, il Financial Crisis Inquiry Report ha avuto bisogno di 633 pagine per ricostruirla. Ma la storia di ciò che sta accadendo oggi sul mercato immobiliare degli Stati Uniti e su ciò che accadrà nei prossimi due anni è invece molto semplice. Proviamo a riassumerla in due battute: i prezzi delle case continueranno a scendere, o al massimo si stabilizzeranno al livello attuale, perché l'offerta supera ampiamente la domanda e perché i pignoramenti continueranno. Questo funzionerà da freno a mano per l'intera economia e manterrà probabilmente la disoccupazione al di sopra del 9%.
Perché l'offerta di case supera la domanda? Per due ragioni convergenti che, insieme, creano una spirale negativa. Sul lato dell'offerta: 3 o 4 milioni di case pignorate significano altrettante case messe sul mercato in sovrappiù rispetto al normale stock di appartamenti in vendita. Sul lato della domanda, la disoccupazione al 9,4% e la stagnazione dei salari di chi ancora un lavoro ce l'ha si traducono in una capacità di acquisto ridotta e in una estrema prudenza nell'indebitarsi, per l'incertezza sul futuro che angoscia le famiglie americane.
Queste due potenti forze che trascinano verso il basso il mercato immobiliare dovrebbero essere controbilanciate da forze economiche opposte generate da questa situazione: il calo dei prezzi dovrebbe riavvicinare offerta e domanda, mentre la politica di tassi vicini allo zero praticata dalla Federal Reserve dovrebbe facilitare l'accesso al credito delle famiglie e spingere chi può ottenere un mutuo attorno al 3% a fare il grande passo e decidersi all'acquisto.
In parte queste due forze hanno cominciato ad operare ma i dati ci dicono che sono ancora troppo deboli per invertire la tendenza, per una varietà di ragioni. Il calo dei prezzi non è generalizzato e uniforme ma concentrato in alcuni stati e città. Questo ha creato delle aree semiabbandonate in centri come Cleveland o Detroit, che già bene non stavano, facendo scomparire la prospettiva di una ripresa in tempi brevi o medi: chi vorrebbe andare ad abitare in quartieri infestati dalle gang, o che le amministrazioni comunali pensano seriamente di restituire all'agricoltura? Sono le case a basso costo ad essere le più penalizzate nella perdita di valore, in quanto destinate a una clientela che in questo momento non ha prospettive di migliorare la propria situazione: ad Atlanta il prezzo medio di una casa è tornato quello di 11 anni fa e gli appartamenti di fascia bassa costano oggi il 32% in meno di un anno fa. A Las Vegas l'11% delle abitazioni, una casa ogni nove, è in procinto di essere pignorata o è già stata restituita alla banca.
Arriveranno prezzi migliori?
In altre città, come Chicago, Seattle, Miami, Portland in Oregon, i potenziali acquirenti semplicemente pensano che non si sia ancora toccato il fondo e che nei prossimi mesi potranno spuntare prezzi migliori. Le vendite erano risalite fino a quando era rimasto in vigore un incentivo fiscale per i compratori che è scaduto nel maggio scorso e che oggi, con la Camera a maggioranza repubblicana, l'amministrazione Obama nemmeno osa riproporre. Da maggio in poi i prezzi sono tornati a scendere e non si vede cosa possa arrestare questa tendenza.
Il problema chiave sono i pignoramenti: nella fase più acuta della crisi le banche si sono gettate sulle case su cui vantavano un'ipoteca come avvoltoi, in molti casi senza neppure seguire le procedure previste dalla legge, talvolta falsificando i documenti. Negli ultimi mesi il ritmo si è un po' rallentato perché la magistratura ha iniziato a guardare più da vicino ai metodi di J. P. Morgan, U.S. Bancorp e Wells Fargo, in qualche caso annullando le vendite all'asta, come è accaduto in Massachusetts e in altri stati. Si tratta però di una goccia nel mare: quando Obama entrò in carica nel gennaio 2009 si impegnò a varare un programma di emergenza per permettere a chi era in arretrato con i pagamenti di restare nella casa e di negoziare con le banche creditrici migliori condizioni.
Purtroppo, dietro i blandi comunicati dell'amministrazione sta una triste realtà: il programma Making Home Affordable è stato un completo fallimento. Il Congressional Oversight Panel, nel suo rapporto del dicembre scorso, ha usato un linguaggio circospetto per non irritare la Casa Bianca ma la situazione è questa.
Mentre negli obiettivi il programma doveva raggiungere 4 milioni di famiglie, il rapporto del ministero del Tesoro diffuso pochi giorni fa fornisce il numero di «permanent modifications» delle condizioni del mutuo, cioè il numero di famiglie che hanno ottenuto una dilazione dei pagamenti, una riduzione della rata mensile o un interesse più basso: 521,630, poco più di mezzo milione. E il fatto che queste famiglie abbiano ottenuto un piccolo miglioramento della loro situazione grazie all'intervento del governo federale non garantisce affatto che riescano a salvare la loro casa dal sequestro: nei prossimi mesi le rate più basse o le dilazioni ottenute possono ugualmente rivelarsi troppo onerose per famiglie che spesso hanno a che fare con la disoccupazione, o con lavori che non pagano nemmeno quanto serve per fare la spesa settimanale al supermercato.
Tanti incentivi alle banche
Al di là delle ragioni tecniche (l'eccesso di scartoffie da compilare, condizioni troppo restrittive per essere ammessi agli aiuti) sta una questione fondamentale: l'amministrazione lo ha impostato come un programma di incentivi per le banche, non osando prendere misure più radicali anche a causa dell'ostruzionismo dei repubblicani in Congresso. Le banche, molto spesso, hanno ignorato le offerte, ritenendo di poter guadagnare di più pignorando la casa del debitore insolvente e rimettendola sul mercato.
Naturalmente, se questo comportamento poteva essere razionale per la singola banca, il fatto che tutte le banche facessero la stessa cosa ha fatto schizzare alle stelle il numero di pignoramenti, quindi il numero di unità immobiliari messe sul mercato, facendo scendere i prezzi delle case esistenti e rallentando la costruzione di nuove case: nel dicembre 2010 sono state vendute 329.000 unità immobiliari nuove, contro le 356.000 del dicembre 2009.
Si torna quindi al punto di partenza: il Dow Jones può salire allegramente seguendo le bolle speculative sulle materie prime, consolandosi con i modesti miglioramenti nelle vendite natalizie o entusiasmandosi per i risultati trimestrali di alcune aziende leader, come Apple, ma la piaga purulenta del mercato immobiliare resta lì, insanata e insanabile fino a che l'amministrazione Obama non si convincerà che occorre intervenire sul serio. Il che potrebbe anche essere impossibile perché i repubblicani hanno giurato di praticare un energico salasso all'economia americana nei prossimi mesi, riducendo le spese federali a qualsiasi costo. I singoli stati, nel frattempo, discutono di come potrebbero legalmente dichiarare bancarotta e licenziano pompieri, poliziotti, insegnanti e bibliotecari per tappare in qualche modo i buchi di bilancio.
Eric Hobsbawm ha 93 anni e, oggi, è diventato un autore di bestseller. Grazie al suo ultimo saggio su Marx, How to change the world: tales of Marx and Marxism, come cambiare il mondo. Ristudiando Marx. La lezione del celebre storico, appassionato di jazz, ha scalato le classifiche inglesi. Una sorpresa anche per lui che da anni vive ad Hampstead, a breve distanza dalla brughiera che confina con il cimitero di Highgate dove è sepolto Marx. Nel primo capitolo del suo libro scrive che Marx è «ancora un grande pensatore del nostro tempo». E che, paradossalmente, «sono stati i capitalisti a riscoprirlo e non i socialisti».
«Ci sono due ragioni che spiegano la sua importanza. Innanzitutto la fine del marxismo ufficiale dell´Unione Sovietica ha liberato Marx dall´identificazione con il leninismo e con i regimi leninisti. In questo modo è stato possibile recuperare il suo pensiero e quel che aveva da dire riguardo al mondo. Ma, soprattutto, il capitalismo globalizzato che si è sviluppato dagli anni 1990 era quello descritto da Marx nel Manifesto. Lo si è capito nella crisi del 1998: anno durissimo per l´economia globale nonché 150esimo anniversario di questo piccolo e sorprendente opuscolo. Ma, appunto, questa volta furono i capitalisti e non i socialisti a riscoprirlo. Forse i socialisti erano troppo imbarazzati per celebrare questo anniversario».
Quando ha capito che Marx era tornato?
«Fui contattato dal direttore della rivista che United Airlines pubblica per i suoi passeggeri, che sono quasi tutti uomini d´affari americani. Avevo scritto un articolo sul Manifesto: mi chiesero di poterlo pubblicare, erano interessati al dibattito. Qualche tempo dopo George Soros mi chiese che cosa pensavo di Marx. Lì per lì diedi una risposta ambigua. "Quell´uomo – disse Soros – scoprì 150 anni fa qualcosa sul capitalismo di cui dobbiamo tener conto oggi". Non c´è dubbio che Marx sia tornato al centro della scena».
Ci sono anche altri segnali?
«Ci sono anche quelli più frivoli, simboli di una moda. C´è stato un sondaggio della Bbc che l´ha eletto come il filosofo più grande. O il fatto che se digitate il suo nome su Google, tra gli intellettuali è superato soltanto da Darwin ed Einstein, ma viene prima di Adam Smith e Freud».
Nel libro cita il modello di un "capitalismo dal volto umano" che esisteva prima degli anni Reagan-Thatcher. Oggi c´è ancora?
«Queste tesi fanno parte della tradizione di molti paesi capitalisti, dalle socialdemocrazie riformiste alle dottrine sociali cristiane. I profitti economici devono essere uniti a misure che assicurino il benessere della popolazione, non fosse altro che per evitare pericoli sociali e politici creati da squilibri eccessivi. Queste idee nacquero come reazione allo sviluppo dei partiti laburisti e socialisti alla fine del diciannovesimo secolo e ancora adesso, per fortuna, distinguono l´Europa occidentale dagli Stati Uniti».
Quali sono i paesi in cui resistono?
«I paesi più piccoli che sono riusciti a crearsi nicchie relativamente sicure nell´economia globale possono combinare lo sviluppo delle imprese private con i servizi pubblici: penso all´Austria e alla Norvegia. Questi sistemi servono a ridistribuire il reddito sociale e per questo sono cuscinetti indispensabili».
Qual è stato l´effetto più evidente della globalizzazione?
«Ha privato gli Stati delle risorse per la distribuzione del benessere pubblico, a causa della de-industrializzazione e dello spostamento dell´economia mondiale verso l´Oriente. Fino al crollo del 2008 questo processo è stato accelerato e non governato. Con un indebolimento sistematico delle istituzioni pubbliche a spese di uno straordinario arricchimento privato».
Che cosa serve adesso?
«Intanto la modifica di alcuni rapporti. L´ostilità del neo-liberismo ai sindacati, incoraggiata da politiche sindacali miopi, è stato un elemento del disastro. Così il capitalismo dal volto umano è possibile, ma solo se i governi e i ricchi cominciano a preoccuparsi del problema».
Tra le sue suggestioni c´è quella di cominciare a «prendere Marx seriamente». Ma sostiene anche la necessità di "ricalibrarlo". Cosa significa?
«L´analisi fondamentale dello sviluppo storico fatta da Marx resta valida. Ma, quella che egli chiamava "la società borghese", non era e non poteva essere la fine del capitalismo. Era una fase temporanea, come lo sono state altre. Quello che resta vero è che si creano profonde ineguaglianze sociali e morali. Il socialismo, come lo intendeva Marx, e ancora di più il comunismo si sono dimostrati fallimentari. Eppure torna attuale la necessità di risolvere i problemi con azioni pianificate dai governi e dalle autorità pubbliche».
Ma l´idea di Stato, oggi, è completamente cambiata.
«Infatti. Per questo penso ad azioni di autorità globali sovranazionali. Può essere difficile da immaginare se non considerando accordi tra super Stati politicamente decisivi ma non si può lasciare tutto il potere alla finanza privata. I problemi sono evidenti a tutti, Marx ci ha offerto un metodo: il pubblico deve poter governare il cambiamento, le disuguaglianze devono essere ridotte dallo Stato».
Quali sono i problemi principali?
«La crescita della popolazione e della produzione. Badate: non sono problemi in sé, ma lo diventano per il catastrofico impatto che in queste condizioni hanno sull´ambiente. In più se il centro di gravità del mondo si sposta dai vecchi imperi industriali a quelli emergenti si creano nuove instabilità e pericoli».
Di che tipo?
«Le vecchie economie occidentali ora in declino perdono il loro livello di vita e quelle emergenti sognano di raggiungere i livelli di vita dell´Occidente. Questo provoca una doppia pressione: su chi sta vedendo tramontare il suo status e su chi fa di tutto per accrescerlo. È questo che sta mettendo in crisi l´idea di sviluppo».
Ma come si può essere marxisti oggi?
«Non possiamo ritornare all´Ottocento, è evidente. Non possiamo mettere a rischio, neppure per un momento, il progresso intellettuale e le conquiste, politiche, sociali e di libertà, ottenute negli ultimi due secoli dagli uomini e dalle donne. Ma dobbiamo cercare un nuovo equilibrio tra pubblico e privato, tra l´idea di sviluppo e la sua sostenibilità in questo nostro mondo. Per questo nostro mondo».
Il referendum di Mirafiori è stato un esempio importante di resistenza operaia a un diktat imposto in nome della globalizzazione. Lo sciopero di oggi indetto dalla Fiom sarà una prima, difficile, verifica di un confronto che investe ormai tutto il paese. L'elaborazione a cui il seminario di Uniticontrolacrisi ha dato inizio vuole essere sia un contributo alla definizione di una alternativa concreta alle imposizioni di una competitività globale e senza sbocco che sta portando il mondo verso il baratro, sia l'inizio di un collegamento operativo tra le principali componenti che hanno dato vita all'incontro: la Fiom, in rappresentanza del mondo del lavoro che resiste e rivendica salvaguardia e sviluppo dei diritti del lavoro; il movimento di studenti e ricercatori, che oggi è la parte più organizzata di un esercito precari o di giovani a cui è stato rubato il futuro, ma che racchiude tutte le potenzialità di un collegamento tra quella resistenza e il mondo dei saperi tecnici, scientifici e sociali; i centri sociali, in rappresentanza dell'universo di coloro che precari lo sono già e che su questo hanno creato forme autonome di aggregazione sul territorio. Di qui nasce il dibattito su beni comuni e riconversione del sistema produttivo e dei modelli di consumo.
L'aggressione alle condizioni e ai diritti dei lavoratori della Fiat e delle maestranze di molte altre aziende è il modo in cui vengono fatti pagare al mondo del lavoro i costi della crisi, i vincoli della globalizzazione e della sua competizione sfrenata; nel caso specifico, quella dell'industria automobilistica. Perciò anche la risposta - la difesa a oltranza dei diritti e la tutela della salute e della vivibilità degli ambienti di lavoro - non può essere disgiunta dalla ricerca di modelli di consumo e da un'organizzazione della produzione alternativi a quelli attuali - nel caso dell'industria dell'auto, da modelli di mobilità sostenibile - non più fondati su una competizione che intende arruolare le maestranze di un'azienda in una guerra permanente, e sempre perdente, contro quelle di tutte le altre aziende; bensì su rapporti di cooperazione in cui che cosa, come, dove e per chi produrre possano essere scelte condivise.
La ricerca di questa alternativa deve misurarsi però con la crisi ambientale e con i rischi imposti dall'attuale sistema di produzione e consumo: cosa che nei governi, nell'imprenditoria o nella finanza, sia nazionali che globali, non trova alcun ascolto.
Molti dei beni e degli stili di vita - sia di chi vi ha accesso che di chi soltanto vi aspira - come molte delle attuali produzioni dovranno prima o poi essere dismesse; meglio farlo prima, in forma graduale e concertata, che poi, in forme improvvise, catastrofiche, e sotto l'incalzare della crisi economica e di quella ambientale. Non si deve temere di individuare, ovviamente attraverso il più ampio dibattito, i consumi e le produzioni insostenibili; né di dirlo apertamente, anche quando ciò sembra mettere in discussione la temporanea collocazione e la provvisoria sicurezza di chi è impegnato in quelle produzioni o di chi considera irrinunciabili quei consumi. Il problema è coinvolgere questi soggetti in un percorso concreto e condiviso verso condizioni, lavori e stili di vita più liberi e sicuri. Viceversa, per sostituire alla devastazione dell'ambiente, della convivenza e della salute pratiche più sostenibili dovranno essere promosse e incentivate altre forme di consumo, altre scelte produttive, altre modalità di cooperazione: sia all'interno di uno stesso impianto che tra aziende, enti o territori diversi. Non si tratta di fantasie; sono già oggi oggetto di pratiche, sperimentazioni, ricerche cui non viene data la visibilità dovuta.
L'intensificazione dello sfruttamento e la compressione dei diritti dei lavoratori, sia alla Fiat che in altre aziende grandi, medie o piccole, avvicina la condizione dei lavoratori a tempo indeterminato - i cosiddetti "garantiti" - all'esercito dei precari e dei giovani a cui né scuola né mondo del lavoro offrono più un futuro. La ricerca di una via di uscita è ormai un obiettivo e un compito comune. Si aggiunga che per trent'anni il "pensiero unico" che ha guidato e giustificato una globalizzazione predatoria e autoritaria ha potuto colonizzare le menti di milioni e forse miliardi di persone sulla base dell'assunto che a governare sia il mondo che l'esistenza di ciascuno devono essere gli interessi privati. Perché privato vuol dire efficiente e ciò che non è privato non può che essere statale e inefficiente: sottratto al "libero" gioco di un mercato ormai controllato da poche centrali della finanza internazionale, per essere predato dalle burocrazie o dalle cosche degli Stati. Promotori e artefici della conversione ambientale devono lasciarsi dietro le spalle la falsa alternativa tra privato e statale, imboccando il percorso difficile e graduale - perché fondato su una sperimentazione continua - verso la condivisione dei beni comuni; beni e attività da sottrarre al controllo sia degli interessi privati che delle diverse articolazioni del potere statale, per promuoverne la gestione in forme trasparenti di autogoverno.
Gli ambiti a cui fa riferimento questa prospettiva sono due: il primo è costituito da esperienze di lotta e organizzazione già in corso, con obiettivi chiari e definiti - anche se suscettibili di continui approfondimenti e ampliamenti - e che hanno accumulato grandi patrimoni di buone pratiche, di legami sociali, di saperi pratici e teorici, come le lotta della Val di Susa, il comitato No Dal Molin, la campagna contro la privatizzazione dei servizi idrici, le mobilitazioni dei pendolari, molte lotte contro gestioni o progetti scellerati nel campo dei rifiuti, molte iniziative per il controllo di scuole, nidi, attività culturali, servizi sanitari. Ma anche molte esperienze "molecolari" come quella dei Gas, gruppi di acquisto solidale, suscettibili di un'enorme espansione sia numerica - già in corso - che tematica: sono infiniti gli acquisti solidali che possono essere gestiti, a partire da quelli energetico.
Il secondo ambito è dato da quei movimenti che si impongono sulla scena sociale con la loro urgenza, anche se la formulazione di obiettivi e strategie, quand'anche circostanziata, è lungi dall'aver esaurito le loro potenzialità: innanzitutto la resistenza dei lavoratori della Fiat e le lotte di tutte le aziende in crisi o sottoposte a processi di ridimensionamento, ristrutturazione o delocalizzazione; poi il movimento degli studenti, dei ricercatori e di quei docenti che hanno solidarizzato con loro; infine le prime, embrionali, mobilitazioni dei lavoratori migranti e le iniziative di coloro che promuovono per loro accoglienza e sostegno.
Lungo il percorso di cui lo sciopero di oggi costituisce una prima importantissima tappa, non solo i soggetti che fanno capo a Uniticontrolacrisi, ma tutti coloro che avvertono l'urgenza di difendere, insieme ai diritti del lavoro, i cardini della vita democratica e la necessità di politiche orientate alla sostenibilità, possono riconoscersi in un'agenda comune. I suoi punti cardine sono l'aggregazione di soggetti e componenti diverse, con storie e culture differenti, con obiettivi e prospettive per ora scollegate; lo sviluppo congiunto di progetti condivisi: dagli ambiti più semplici, ma irrinunciabili, quali informazione e sensibilizzazione delle persone e delle reti che ciascuno è in grado di raggiungere, a quelli più complessi, quali la messa a punto di rivendicazioni, di nuove pratiche, o di iniziative di autorganizzazione sul modello dei Gas e dei centri sociali.
Fondamentale in questa congiuntura sociale è la combinazione delle pratiche di lotta o di autorganizzazione con i saperi che il movimento universitario, il mondo della ricerca e quello della cultura possono mobilitare e mettere a disposizione degli altri movimenti, in modo che il tema della conversione ambientale diventi il centro di un nuovo sentire, contrapposto al "pensiero unico" e in grado di sgomberare il campo dai residui con cui, in misura maggiore o minore, esso continua a intasare le menti di ciascuno di noi. Ma, soprattutto, in modo da promuovere, partendo dall'università, una vera riforma dei saperi: che investa non solo l'organizzazione del mondo accademico, l'entità e le fonti del suo finanziamento, ma soprattutto i contenuti della cultura che in esso si elabora e si trasmette. Questo nuovo rapporto tra lotte, movimenti e saperi potrà dare forma, in ogni ambito territoriale o settoriale raggiungibile, a istituti di consolidamento e di autogestione delle nuove aggregazioni; cioè a embrionali organi di autogoverno dei beni comuni.
Mirafiori torna nell'ombra, dopo essere stata, per alcune settimane, sotto la luce dei riflettori. Via le gigantesche paraboliche dei network televisivi, sparita la siepe di telecamere che facevano muro al cambio turno, più niente giornalisti. Vista da qui, dai piazzali di nuovo deserti e grigi, prima che un lungo anno di cassa integrazione, come prevede l'accordo, la reimmerga nel silenzio, è difficile pensare che proprio qui - in questo apparente reperto di archeologia industriale fordista - si è giocato, ancora una volta, un "cambio del tempo". Una di quelle svolte che periodizzano e scandiscono le epoche. Eppure è così.
Più passano i giorni, più si posa la polvere mediatica dell'evento, e più si mostra il suo carattere esemplare. E cioè il fatto che nel breve percorso tra Pomigliano e Torino, tra l'estate e l'inverno di questo 2010 di passioni tristi, è emerso il profilo della nuova natura del conflitto sociale: il suo essere sempre di meno contrapposizione localizzata tra i fattori fondamentali della produzione - tra capitale e lavoro, appunto, come teoria e pratica novecentesche ci avevano insegnato - e sempre di più tensione dirompente e tendenzialmente devastante, tra flussi e luoghi. Tra le dinamiche di un capitale mobile, liquido, ubiquo dentro le derive lunghe dei flussi finanziari e un lavoro inchiodato - potremmo dire "imprigionato" - nella coriacea materialità dei propri luoghi, delle proprie fabbriche, dei propri insediamenti produttivi. In questo sta, appunto, l'abissale dislivello di forza tra Marchionne - il "signore dei flussi", l'uomo della finanza, l'anima immateriale della ricchezza, quello che muove tra Torino e Detroit senza mai atterrare in alcun luogo, pronto a brindare là se perde qua - e i suoi operai, i 5.500 di Mirafiori, ostaggi dei propri mutui, delle proprie famiglie, dei propri corpi cui si chiede di sottomettersi alla nuova metrica del lavoro, quella che ragiona in termini di centomillesimi di ora. In questo sta l'essenza "epocale" di quell'inaccettabile aut aut, che se accettato ci mette di fronte a un orizzonte fino a oggi inimmaginabile.
Non è un "caso eccezionale". L'anomalia di un momento, cui seguirà il ritorno alla normalità. O la bizzarria di un padrone fattosi, per sopravvivere, americano. È la realtà, divenuta conclamata, del nuovo paradigma produttivo. È il mondo col quale ci dovremo misurare d'ora in poi. Riflette la misura dei suoi, mutati, rapporti di forza. Dei suoi, abnormi, criteri di giudizio.
È l'essenza tradotta in termini sociali e conflittuali - cioè finalmente dispiegata - di quello che finora chiamavamo, senza coglierne tutte le implicazioni, globalizzazione. Parola, non per nulla, usata come una clava per piegare le resistenze, per convincere dell'ineluttabilità della resa, per teorizzare l'irresistibile marcia della modernità dietro quell'ultimatum. Ed è appunto alla luce di ciò che occorrerebbe, per un verso - da parte di tutti, non solo di noi che abbiamo fatto il tifo per la Fiom - riconoscere la grandezza di quegli oltre 2.200 operai che hanno saputo, nonostante tutto, nonostante quella abissale sproporzione di forze, dire di no. E dicendo di no, mostrare a tutti che «si può». E, per altro verso, tentare alcune elementari precisazioni e repliche su quello stesso concetto di globalizzazione che pare divenuta l'unica, operativa, costrittiva e dogmatica "costituzione materiale" del nostro tempo.
Per esempio: ci è stato detto che nell'«epoca della globalizzazione le macchine si fanno così». Che l'ad Marchionne non fa che tradurre in Italiano un codice universale del "pianeta auto". Con la rotazione su tre turni per 5 o, a scelta sua, 6 giorni settimanali (sabato compreso) oppure su due turni di 10 ore aumentabili ulteriormente con il ricorso allo straordinario (obbligatorio), con le pause ridotte all'osso dei bisogni fisiologici, e magari la mensa a fine turno, dopo otto ore filate di lavoro. Hanno aggiunto che dappertutto i lavoratori fanno sacrifici, "per competere", a cominciare dagli operai tedeschi. Non ci dicono che quelli della Volkswagen, per prendere i più rappresentativi, hanno accettato sì, fin dal 2006, di sacrificarsi sull'orario, ma passando da una settimana lavorativa di quattro giorni a una di cinque (dalle 28 ore stabilite fin dal 1993 a 33, prima, e ultimamente a 35, non di più). Che hanno ceduto, certo, sulle pause, ma per "scendere" a una pausa di 5 minuti per ogni ora di lavoro. Che hanno fatto sacrifici salariali, ma per ottenere, dopo il "taglio", remunerazioni lorde che vanno dai 2.800 ai 3.500 euro mensili (tra il 30 e il 60% superiori a quelle italiane, con un costo della vita del tutto paragonabile o addirittura più favorevole). Nella globalizzazione, le auto non si fanno ovunque nello stesso modo.
Ci è stato detto - dallo stesso Marchionne - che qui si trattava di scegliere se stare nel primo (votando sì) o nel secondo mondo (votando no). Bisogna sapere che se venisse applicato questo accordo, e se si diffondesse, le condizioni di lavoro italiane sarebbero omologate a quelle del cerchio periferico del sistema economico europeo, cadrebbero nel suo girone esterno, con Polonia, Turchia, Grecia, lontano dal nucleo centrale che sta sull'asse Germania, Francia, Olanda... Che è questo il certificato di appartenenza al "secondo mondo".
È stato detto che non c'erano alternative. Che davvero non restava che «arrendersi o perire», di fronte alla indiscutibilità dell'ultimatum dell'amministratore delegato della Fiat. L'ha detto soprattutto la politica, dal ministro Sacconi al candidato in pectore a sindaco di Torino Fassino: quegli stessi che dall'alto dei propri seggi di "rappresentanti" e di "decisori pubblici" hanno scaricato la responsabilità di quella scelta "mortale" - di quella decisione da cui dipendeva il destino di quei lavoratori ma anche di quel territorio - sulle loro fragili spalle (limitandosi a invitarli ad un sì che era una resa). Senza accorgersi di quale infamia fosse, quella diserzione pilatesca. Quel chiamarsi fuori da una responsabilità che non poteva che essere collettiva e pubblica. Ma anche - e forse soprattutto - senza cogliere il carattere di suicidio che, con quel sottrarsi, la politica compiva. Senza mostrare di percepire, neppure lontanamente, i compiti nuovi - e per certi versi le nuove chances - che l'inedita forma del conflitto post-moderno come tensione tra flussi e luoghi offre ad essa. All'azione collettiva "di territorio".
Perché, fin dal primo profilarsi del confronto aperto da Marchionne, il sindaco di Torino, il presidente della regione, gli organi di rappresentanza "locale" (dunque, dei luoghi), non hanno aperto una "vertenza di territorio" nei confronti dei signori del flussi? Ci si riempie continuamente la bocca, a proposito e a sproposito, del termine territorio, fino a farlo diventare quasi impronunciabile. Perché per una volta non hanno fatto sentire la voce del territorio? Non hanno messo sul tappeto le sue esigenze e le sue risorse? Non hanno tentato di sparigliare i giochi? Di renderli a "somma positiva"? Di riequilibrare i poteri in gioco?
Saranno sempre più questi gli scenari del futuro. I lavoratori, da soli, non ce la potranno fare. Potranno dare, come a Pomigliano, come a Mirafiori, straordinarie dimostrazioni di dignità. Potranno mostrare a tutti che si può tenere alta la testa: e in questi giorni se ne sono viste tante, di persone, camminare con la testa alta, dopo quel no. Ma senza l'intervento di una società pronta a difendere la propria coesione, i diritti dei propri cittadini, la validità delle proprie regole, i valori della propria comunità - senza questo ruolo nuovo che potrebbe restituire alla politica il suo onore perduto - la "furia del dileguare" dei flussi è destinata a piegarli. E allora, davvero, finiremmo per essere piegati tutti.
La rivolta comune
di Loris Campetti
Il 16 ottobre nasce “Uniti contro la crisi” in piazza San Giovanni al fianco delle tute blu, il 17 si interroga all'assemblea della Sapienza, il 14 dicembre si cimenta di nuovo con la piazza degli studenti, il 28 gennaio farà le prove generali nello sciopero generale e un po' generalizzato della Fiom. Nel mezzo, due giorni di seminario in corso di svolgimento a Marghera, tutti ospiti del Centro sociale Rivolta.
Cos'è “Uniti contro la crisi”? Non è e non vuol essere un'organizzazione né una sommatoria di sigle o movimenti. Pensare di federare tutte le isole non cementificate dal pensiero unico, ciascuna con la sua bandierina e la sua identità mummificata in un tempo indistinto, non porterebbe da nessuna parte. Al centro del suo agire, “Uniti contro la crisi”, che nasce dal rifiuto dell'ossificazione dei due tempi, pensiero e azione, c'è la crisi di sistema e la pretesa del capitalismo di uscirne con le stesse regole e persino le stesse persone che l'hanno scatenata. Allora come fanno a costruire insieme una nuova storia i metalmeccanici della Fiom con gli studenti, i precari della conoscenza con gli attivisti dei movimenti sorti in difesa dei beni comuni, dell'ambiente, del territorio? Cosa scriveranno di condiviso gli operai dell'auto con chi si batte per un diverso, ribaltato modello di sviluppo? È la domanda formulata in lingue e toni diversi dai mille, millecinquecento avventurosi, giovani e giovanissimi studenti, operai, ricercatori, intellettuali che si alternano tra sedute plenarie e workshop al Rivolta.
Il metodo è merito, e si chiama democrazia. A Mirafiori dove gli operai alla catena di montaggio hanno fatto lezione di dignità, come all'università, nella cultura come nelle battaglie per l'acqua pubblica. O nell'informazione. L'attacco alla democrazia, che sia portato avanti da Marchionne o da Sacconi, dai Tremonti o dai Bondi di turno, mira allo stesso scopo: ridurre alla subalternità e all'obbedienza le persone singole e gli aggregati sociali cancellandone soggettività e diritti. Se le notti di Berlusconi pongono un problema di moralità, i giorni e le notti alla catena di Pomigliano e le stock option di Marchionne, non pongono forse lo stesso problema? E non è forse un problema di democrazia, prima ancora che morale?
Riaprire un confronto a tutto campo sul presente e il futuro tra diversi, resi più simili da un presente e un futuro precario è possibile soltanto se chiunque voglia entrare in questa storia è disposto ad appendere al chiodo le sue presunte appartenenze usate come armi improprie. Senza rese, ma confrontando le antiche certezze con i processi reali. Dentro un centro sociale del nordest, esempio di efficienza e organizzazione, di ospitalità e di lavoro liberato dal profitto, Luca Casarini ha il coraggio di liberarsi di un elemento identitario come «il lavoro immateriale», che «non esiste, semmai la merce può essere immateriale, mai il lavoro». E chi come il segretario della Fiom Maurizio Landini è figlio di una storia sindacale novecentesca che ha sempre concepito il lavoro come unica ragione e condizione del reddito, nell'analisi dei processi reali, con la precarizzazione globale che divide i soggetti e unifica al ribasso le condizioni materiali, dentro un processo di redistribuzione della ricchezza che toglie ai poveri per dare ai ricchi, trova ragionevole l'obiettivo del reddito di cittadinanza.
Questo è il metodo di confronto che vive dentro “Uniti contro la crisi”, in un seminario fondativo che trova le sue radici nel lavoro: una nuova storia, con molti capitoli da scrivere ma con la certezza che la crisi democratica e delle forme tradizionali della politica fa pulizia della scissione tra lotte sociali e mediazione politica, nessuna delega è più immaginabile, e in questo senso analisi e azione - e rappresentanza - debbono camminare insieme. Sostenuti dalla passione che anima le giornate di Marghera e dalla consapevolezza dei limiti di un pensiero critico che deve mettere in connessione gambe e testa, se vuole liberarsi del pensiero unico. Il confronto è partito, con un metodo che ricorda i momenti migliori delle giornate di Genova pur tenendone ben presenti i limiti e le derive. I no di Pomigliano e Mirafiori aiutano, e indicano il cammino.
BENI COMUNI
Lavoro e ambiente, l'incontro tra i due «grandi sfruttati»
di Ugo Mattei
Intorno al workshop «Democrazia e beni comuni: tra crisi ecologica e riconversione produttiva per un nuovo modello di sviluppo» si è articolata a Marghera una ricca discussione che ha tratto spunto da due relazioni introduttive affidate a Beppe Caccia e Guido Viale. I lavori hanno prodotto un'ottima sintesi nella dialettica fra la dimensione teorica e quella pratica del percorso che sui beni comuni si sta compiendo in Italia. La principale novità politica emersa a Marghera si riscontra nel superamento dello storico conflitto fra ambientalismo e movimento sindacale, un conflitto che da almeno trent'anni ha impedito alla ricetta rosso-verde di conquistare un'egemonia politica. Infatti, a partire dai primi classici dell'ambientalismo militante, basti pensare alla «Primavera Silenziosa» di Raquel Carson , la convivenza in occidente fra le esigenze del lavoro e quelle dell'ambiente è stata piuttosto difficile. Nel discorso dominante, le esigenze della tutela ambientale sono interpretate come limitative dell'attività di impresa, sicché in un paradigma che pone al centro la crescita quantitativa, il lavoro non poteva che schierarsi con quest'ultima propro contro l'ambiente. Le trasformazioni globali dei processi produttivi sembrano strutturare a livello globale proprio quel conflitto, nella misura in cui il capitale, nella sua corsa a margini di profitto sempre più alti sceglie come luoghi dell'investimento proprio quelle piazze in cui la protezione ambientale è più debole. Con l'emigrazione del capitale cresce il tasso di disoccupazione e cresce quindi, anche al centro ed in semiperiferia, la pressione per ridurre i limiti allo sfruttamento della natura e del lavoro.
In Italia la consapevolezza di questa dinamica è stata acquisita con brutalità inusitata proprio a partire dalla ristrutturazione del rapporto fra capitale e lavoro tentata dalla Fiat a Pomigliano e poi a Mirafiori. Forse inaspettatamente questo drammatico episodio, oltre a produrre un appiattimento dei sindacati collaborazionisti sulla visione egemonica dominante ha prodotto un fenomeno controegemonico nella decisione della Fiom di resistere intorno alla piattaforma del lavoro come «bene comune». Ed è stata dunque proprio questa nuova fondamentale nozione teorica, ancora nebulosa nei suoi contorni, ma già capace di fondare un discorso ed un linguaggio comune alle più diverse esperienze di lotta, ad aver creato il terreno di incontro fra lavoro ed ambiente, i due «grandi sfruttati» del modello di sviluppo dominante.
I beni comuni, infatti, non sono mera categoria merceologica ma momenti concreti di consapevolezza politica capace di emergere soltanto nella lotta. Una lotta appunto volta al raggiungimento di un nuovo modello di sviluppo, capace di marginalizzare la dimensione avidamente quantitativa a favore di una visione qualitativa fondata sulla giustizia ecologica e sulle necessità di riconversione tanto produttiva quanto, soprattutto, culturale. Infatti, sebbene il modello di sviluppo globale dominante continui a essere proposto con protervia irresponsabile attraverso tutto l'occidente (ed imposto al Sud), è oggi chiaro alle avanguardie di tutto il mondo che ad esso bisogna far dichiarare fallimento per la salvezza stessa del nostro pianeta. Per farlo, occorre tuttavia che la riconversione del nostro modello di sviluppo, fondata sulla centralità dei beni comuni, sia capace di raggiungere egemonia a livello globale, trasformandosi in una nuova ideologia, fondata sull'emancipazione dell'ecologia dall'economia. Una sfida epocale, drammaticamente urgente, che richiede la capacità di ridurre ad unità e porre in comunicazione fra loro l'insieme variegatissimo delle pratiche di coloro che lottano per un mondo più bello e più giusto. A Marghera tale processo di recupero dell'egemonia sembra essere partito con il piede giusto.
Aldo Carra (Il manifesto del 18 gennaio) è riuscito a sintetizzare in tre questioni i problemi che «la sinistra deve discutere per non restare abbarbicata dentro il vecchio modello di sviluppo», peraltro sempre più inceppato a causa delle sue contraddizioni interne: a) quali settori economici possono trainare la riconversione degli apparati produttivi; b) quali relazioni devono instaurarsi tra i diversi livelli di governo: locali, nazionali, globali; c) quali soggetti possono guidare la trasformazione sociale. Carra ci chiede di farlo senza cadere nel vecchio mito della «programmazione» e senza pensare di voler insegnare il mestiere ai padroni.
Provo a dare delle risposte secche.
1 )Non si tratta, a mio avviso, "solo" di scegliere la bicicletta all'automobile, la verdura all'hamburger, il sole al nucleare, il riciclo all'usa e getta... ma di applicare un principio guida trasversale ad ogni «settore merceologico» e prescrivere delle specifiche tecniche concretamente misurabili (con nuovi indicatori che vadano oltre il pil): la decrescita dei flussi di energia e di materie prime impegnati nei cicli produttivi e di consumo.
2) Oggi vi sono 500 società multinazionali che controllano il 52% del Pil mondiale. Una concentrazione di potere gigantesca, terrificante, pericolosissima. Una piccola casta di cosmocrati (i Chief Executive Officier e gli Ad delle conglomerate) tengono i scacco non solo l'economia e la finanza, ma gli stati. Innescare un processo di de-globalizzare dell'economia, di decentralizzazione, di ri-territorializzazione e di trasferimento dei poteri al basso, diventa quindi l'imperativo principale per la difesa di qualsiasi idea di democrazia.
3) I soggetti che possono essere interessati ad un simile progetto di cambiamento di modello e di sistema sono: il terzo dell'umanità che ancora cerca di coltivare la terra, resiste all'espropriazione del suolo e dell'acqua, ai pirati del germoplasma, alla industrializzazione dell'agricoltura per l'esportazione, ecc. Insomma, i popoli indigeni che abbiamo trovato ai controvertici di Cancun sulla giustizia climatica; un altro terzo dell'umanità lo incontreremo al Social Foruma di Dakau, emarginato e accatastato negli inferni degli slums, delle bidonville, nelle banlieue... delle megalopoli, immenso esercito di riserva da cui vengono attinti i moderni schiavi industriali per le fabbriche del mondo;
un altro sesto dell'umanità siamo noi, l'esercito crescente dei salariati svalorizzati, perché precarizzati, robotizzati, impoveriti. Rimane un sesto che pensa di cavarsela costruendosi attorno muri e traendo le proprie ricchezze dalle bische delle Borse. Anche loro dovremmo riuscire a convincere che ci sono modi meno pericolosi per vivere.
A tutti i «modernizzatori» che hanno salutato il referendum di Mirafiori come l'ingresso delle relazioni industriali italiane nella «modernità» va ricordato che la Modernità, o «Età moderna», è iniziata nel 1492 con la scoperta dell'America. A quel tempo, nella Modernità, l'Italia delle Signorie era già entrata. Nei secoli successivi ha avuto alti e bassi (attualmente sta sicuramente attraversando un basso); ma se il 14 gennaio 2011 dovesse diventare una data storica, starebbe a segnare non l'entrata ma l'uscita del paese dalla Modernità: per ripiombare in un nuovo Medioevo; oppure, per instaurare una forma nuova di «feudalesimo aziendale». Perché?
Non mi soffermo sulla limitazione del diritto di sciopero - accordata dal nuovo contratto - che ogni lavoratore dovrà poi sottoscrivere individualmente; né sulla abolizione della rappresentanza elettiva a favore di una gestione dei contenziosi affidata ai sindacati firmatari (trasformati così in missi dominici: ovvero, agenti del padrone); temi già ampiamente trattati da altri. Ma che cosa succederà in produzione?
Gli operai verranno messi in cassa integrazione, prima ordinaria, poi straordinaria, motivata da un «evento improvviso e imprevisto» (così il contratto; che però prevede «l'imprevisto» con assoluta certezza) e finanziata con fondi Inps attinti dalla «gestione speciale» dei lavoratori precari (che in questo modo verranno scorticati delle loro già irrisorie pensioni) e da contributi statali aggiuntivi (alla faccia della rinuncia della Fiat agli aiuti di Stato). Nel frattempo - oltre un anno - i lavoratori verranno convocati uno a uno per la firma del contratto individuale per vincolarli indissolubilmente ai termini dell'accordo. E per essere selezionati. Molti verranno scartati per una ragione o un'altra. È quello che Fiat sta già facendo con gli operai della Zastava, nonostante i generosi aiuti della Bei e del governo serbo. Marchionne sa bene che maestranze con un'età media di 48 anni (nel 2012), per il 30% composte da donne, e per un altro 30% certificate Rcl (ridotte capacità lavorative) non possono reggere i ritmi di lavoro previsti dall'accordo. Poi verrà costituita la NewCo - sembra che si chiamerà Mirafiori Plant - ristrutturando gli impianti con fondi Chrysler e Fiat (il famoso miliardo: ma chi sa quanto sarà poi effettivamente speso?). A febbraio 2012, se tutto «va bene», comincerà la produzione. Di che cosa?
Di Suv (che modernità!) con marchio Chrysler e Alfa, assemblati su pianali e con motori prodotti negli Usa, e poi rispediti negli Usa per essere venduti, mercato permettendo: anche con nuovi motori, i suv restano pur sempre i veicoli più energivori, quelli che avevano mandato a picco la produzione dei tre big di Detroit nel 2008; e il petrolio sta risalendo verso i cento dollari al barile. Ma che senso ha questo andarivieni tra Italia e Usa, quando persino lo stabilimento di Termini Imerese era stato giudicato improduttivo perché troppo lontano dai fornitori di componenti? Il senso è che tra le condizioni poste da Obama per consentire la scalata di Marchionne alla Chrysler c'è quella di esportare dagli Usa, e fuori dall'ambito Nafta (Canada e Messico), prodotti per almeno 1,5 mld di dollari. Dunque, pianali e motori trasferiti da Detroit a Torino (cioè da Chrysler a Fiat Plant: due società differenti anche se controllate dallo stesso management) dovranno concorrere nella misura maggiore possibile al raggiungimento dell'obiettivo. Ovvio che l'esportazione di componenti verrà sovrafatturata (lo ha già prospettato anche Massimo Mucchetti sul Corsera) e i margini di Mirafiori ridotti all'osso (o erosi completamente per giustificare successivi ridimensionamenti o la chiusura dello stabilimento); con tanti saluti per coloro che dalla produzione di nuovi modelli a più alto valore aggiunto - cioè più grandi, più complicati, più lussuosi, più spreconi, per soli ricchi - si aspettano la rimessa in sesto del Gruppo. Ma quale Gruppo?
L'accordo di Mirafiori, dopo quello di Pomigliano, dopo la dismissione di Termini Imerese, dopo lo spin-off di Fiat Industrial - la separazione dall'auto di Cnh e Iveco, i settori più redditizi rimasti in mano agli Agnelli - e in attesa di nuovi accordi anche per Cassino e Termoli (Melfi, cioè Sata, sta già per conto suo), prelude alla dissoluzione di Fiat Group. Intanto va notato che: a) Mirafiori - «nocciolo storico» del gruppo - non produrrà più macchine Fiat e diventerà una «fabbrica cacciavite» che lavora per altri; b) Pomigliano eredita le produzioni e l'organizzazione della fabbrica polacca di Tychy, che è di Fiat ma lavora anche per Ford e che, in attesa di chiarimenti, lavorerà sempre di più per altri; c) Magneti Marelli è in vendita; d) Maserati, Alfa, Lancia e Ferrari sono oggi, con l'eccezione dell'ultima, soprattutto marchi: che possono essere venduti come «marchi senza fabbrica», così come Tychy e Mirafiori sono o possono diventare «fabbriche senza marchio». E poi?
Poi la crisi è tutt'altro che superata. Le finanze di tre quarti dei paesi dell'Ue sono a rischio. I consumi ristagnano. Il mercato europeo dell'auto (a differenza di quelli Usa e asiatico) non dà segni di ripresa. A livello mondiale la capacità produttiva è di 100 milioni di veicoli all'anno mentre la domanda è stata di 60 milioni (sarà forse di 70 quest'anno). C'è un eccesso di capacità non solo in Europa e negli Usa, ma anche in Giappone, Cina e Corea, i cui produttori sono pronti a scalare la classifica delle vendite in Europa. Qualcuno si è chiesto quali siano i vantaggi competitivi con cui Marchionne conta di vendere ogni anno in Europa un milione in più di vetture fabbricate in Italia. Cioè di portare via almeno un milione di vendite annuali a Volkswagen, senza perdere colpi di fronte a Daimler e Kia-Yundai, in piena ascesa, o a Reanult-Nissan e Toyota, molto più solide, per non parlare dello sbarco in Europa dei produttori cinesi.
Alcuni oggi si chiedono che chance può avere una competitività ottenuta strizzando ancor più gli operai, il cui costo incide per non più del 7% sul prezzo finale del veicolo. Molti meno si sono chiesti che senso ha paragonare i 100 o 80 veicoli annui per addetto prodotti da Fiat in Polonia o in Brasile con i 30 degli stabilimenti italiani. A parte la differente complessità dei modelli e il differente confine tra fornitura esterna e fasi internalizzate, come si fa a paragonare la produttività di fabbriche che lavorano a pieno ritmo con quella di impianti dove le giornate di cassa sono più di quelle lavorate? La verità è che se Marchionne vuole vendere, o affittare, o dare in uso ad altri i suoi impianti, ciascuno dei quali farà capo a una diversa società, il valore aggiunto di una manodopera messa alle corde è molto maggiore di quello degli impianti dello stabilimento che li impiega. Ma le due cose sono indisgiungibili. È questo il feudalesimo aziendale a cui ci sta portando l'accordo di Mirafiori; quello che fa degli operai i nuovi «servi della gleba» dell'impresa globalizzata.
Marchionne e i suoi azionisti se riescono a portare a termine la scalata a Chrysler possono anche permettersi di mandare a fondo i lavoratori della Fiat, dopo averli legati con un accordo capestro ai loro rispettivi stabilimenti. Ne ricaveranno un aumento di utili e stock option. Ma chi vive del suo lavoro non può farlo. Però il futuro degli impianti, del knowhow e del lavoro che oggi fanno ancora capo a Fiat o al suo indotto non riposa più sull'industria dell'auto. I settori che hanno un avvenire sono quelli che conducono verso la sostenibilità: rinnovabili, efficienza energetica, ecoedilizia, riassetto del territorio, mobilità flessibile, agricoltura e alimentazione biologiche. Il tutto - tendenzialmente - a rifiuti e a km zero.
Ma la conversione ecologica dell'apparato produttivo e dei nostri consumi avrà ancora bisogno per un tempo per ora indefinibile di industria, economie di scala, grandi flussi di materiali, grandi impianti (il contrario dei chilometri zero) e di lavoratori impegnati, seppure in maniera più creativa e intelligente, su di essi. Sono temi ineludibili. Ma chi può mai lavorare a una prospettiva del genere?
Gli accordi capestro della Fiat avvicinano quello che un tempo era l'esercito dei «garantiti» alla condizione di un sempre più diffuso precariato. Mentre i temi e i modi in cui è andata crescendo la lotta contro la distruzione di scuola, università, ricerca e cultura fa di quel movimento, composto da precari attuali (ricercatori e studenti che lavorano per mantenersi agli studi) e futuri (milioni di giovani a cui è stato rubato il futuro), il segmento più organizzato dell'oceano del precariato italiano.
La domanda di saperi che non servano a costruire operatori, tecnici, insegnanti e ricercatori asserviti a datori di lavoro estemporanei o a imprese ed enti fantasma, dove nessuno avrà mai la sicurezza di un reddito né la possibilità di realizzare le proprie potenzialità, non traduce solo il rigetto della riforma Gelmini e la critica pratica delle forme e dei modi in cui la trasmissione dei saperi viene organizzata e finanziata. Esprime soprattutto la rivendicazione - che può farsi proposta, pratica attiva, percorso di realizzazione - di una riforma della ricerca e dei saperi che investa i contenuti della conoscenza, le sue le finalità, la frantumazione dei saperi in tanti ambiti disciplinari privati di qualsiasi consapevolezza. Per questo il tema centrale di ogni possibile riforma di scuola, università, saperi, cultura dovrebbe essere la conversione ecologica: una prospettiva che richiede l'integrazione di conoscenze sociali, tecniche, giuridiche, economiche, storiche con pratiche fondate sul confronto e la lotta, ma anche sulla capacità di fare proposta e di promuovere organizzazione. Pratiche che possono trovare punti di riferimento e di applicazione concreti nelle lotte dei precari, dei lavoratori delle fabbriche in crisi, dell'opposizione esplicita o soffocata (come i «sì» di Mirafiori) all'avvento del nuovo feudalesimo aziendale.
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Un impoverimento psicologico, culturale, comportamentale, sociale si è verificato proprio a causa dell’arricchimento stesso, e dei modi in cui si è andato realizzando. Se l’umanità insiste su questa via, un grave impoverimento, non solo culturale e psicologico, ci aspetta.
Dire impoverimento significa – come riflesso immediato – parlare della crisi e delle sue conseguenze obbligate: disoccupazione, precarietà, redditi più bassi, con tutto ciò che ne consegue: rinuncia a quanto non sia strettamente necessario, depressione da obbligata inattività, o magari doppio lavoro, straordinari, ecc. per compensare l’inattività di un familiare, e pertanto conflitti all’interno stesso delle famiglie, possibili ricadute indesiderate su rapporti personali, ecc.
Il tutto inevitabilmente in un confronto negativo con la precedente condizione di affluenza: e cioè complessiva facilità di vita, crescente accesso a consumi non necessari ma via via impostisi come tali, svago vacanze viaggi per tutti divenuti diritto e regola, sempre più frequente sostituzione di oggetti con modelli più recenti (cellulare, motorino, auto, elettrodomestici, abiti, ecc.), il bisogno del nuovo inavvertitamente assimilato dalla cultura dominante e facile da soddisfare grazie alla maggiore disponibilità, esistenze largamente prevedibili in un percorso senza traumi, ecc.
E però un confronto più attento tra la realtà attuale e quella che nessuno ancora pochi anni fa riteneva a rischio, può significare anche altro; e consentire non certo l’elogio della crisi e delle sue durezze, ma forse il distacco di una riflessione più ampia e meditata, e magari la capacità di analizzare senza riserve, e valutare a pieno, il senso e la qualità reale di quella società che la crisi sta mettendo a rischio e che strenuamente si tenta di recuperare.
Si tratta innanzitutto di una società che per larghe maggioranze ha significato arricchimento. Non per tutti però. Minoranze in povertà spesso durissime, disuguaglianze clamorose non sono mai mancate: non solo tra paesi “sviluppati” e “sud mondo”, ciò che, chissà perché, si dà per scontato e in qualche modo “normale”, ma anche in paesi dove per i più lo spreco è la regola e in qualche modo perfino un dovere. Questo si tende a dimenticarlo, e già di per sé costituisce un dato negativo.
Consumo come identita
Ma non voglio parlare della povertà dei poveri. Già se n’è ampiamente detto. E sono realtà che non si possono dimenticare, ma che forse sarebbe più facile combattere, e forse anche superare, andando alle radici stesse e alle tante diverse forme della povertà. Mi riferisco a quell’impoverimento diffuso, che riguarda anche i ricchi: impoverimento di tutt’altro genere dalla povertà che solitamente indichiamo con questa parola, anzi determinato dagli stessi meccanismi che inducono l’arricchimento materiale: cioè aumento di reddito, e di conseguenza aumento di consumi.
Di questo credo sia bene cercare, possibilmente riuscire a individuare, le cause profonde e determinanti. Il capitalismo, cioè la forma economica oggi dominante in tutto il mondo, si fonda sull’accumulazione di plusvalore, che si realizza mediante una continua crescita esponenziale della produzione di merci. Questa, che è la regola fondante del nostro sistema produttivo, ha trovato il suo momento di massimo slancio nel periodo di circa un trentennio, successivo alla seconda guerra mondiale (les trente glorieuses, come dicono i francesi) caratterizzato dall’euforia della ricostruzione postbellica, durante il quale la crescita produttiva nella forma dell’accumulazione capitalistica ha oggettivamente significato un progressivo, notevole miglioramento delle condizioni delle classi lavoratrici: è in questo periodo che nasce lo “stato sociale”, con una serie di doveri della pubblica amministrazione nei confronti dei cittadini, dalla scolarizzazione di massa, all’assistenza sanitaria, al pensionamento per tutti, ecc. ; è a partire da questi anni che la crescita di produzione e consumo comporta uno “sviluppo delle forze produttive”, come si diceva, in virtù del quale pareva degna di fede l’attesa di un futuro sempre più prospero per tutti.
Al tempo stesso, in conseguenza di questi fatti, si andava producendo una decisiva profonda trasformazione dell’intera collettività, che non a caso proprio allora venne definita “società dei consumi”. E’ un fenomeno che in qualche modo trova il suo antefatto più significativo in un particolare momento della strategia industriale americana, di cui il genio di Gramsci colse e sottolineò l’importanza: quando cioè Henry Ford aumentò spontaneamente il salario dei suoi operai perché – disse – potessero comperare le sue automobili. In realtà proprio questo era il meccanismo: più reddito in grado di sostenere maggior consumo, capace cioè di assorbire una produzione sostenuta da un inarrestabile progresso tecnologico e pertanto in vertiginosa crescita.
Nello stesso periodo trovavano potenziamento qualitativo e esplosiva diffusione i mezzi di comunicazione di massa, cioè radio e soprattutto televisione, destinati a imporsi rapidamente come presenze imprescindibili nella vita di tutti, e come strumenti decisivi della sua qualità, in particolare in quanto mezzi di diffusione della pubblicità: uno strumento che (al di là della sua, peraltro imprescindibile funzione promozionale di merci, e quindi di induzione al consumo) si è andata imponendo come potente fabbrica di mode e modelli, addirittura come principale agenzia di cultura di massa.
Sono questi gli antefatti decisivi delle dinamiche economiche e comportamentali che definiscono la qualità umana più diffusa nella società attuale: la quale (per buona parte almeno) mentre da un lato si arricchisce, dall’altro fatalmente si impoverisce, fino a smarrire alcune delle migliori dimensioni tipiche della stessa natura umana e premesse della sua storia. E non potrebbe essere altrimenti in un mondo in cui (soprattutto a partire dall’89, con la caduta del muro di Berlino) si è andata progressivamente determinando la preminenza assoluta dell’economico su ogni altra dimensione; in tal modo praticamente cancellando la funzione e il peso della politica, via via sempre più a rimorchio del mercato. Il quale a sua volta, via via che assumeva dimensioni planetarie, puntava sull’estremo incrudelirsi di dinamiche concorrenziali, di fatto trasformate in una sorta di vera e propria guerra, dove solo la morte dell’avversario può garantire sopravvivenza: in obbedienza a comportamenti e scelte che fatalmente finiscono per segnare in misura decisiva anche spazi e rapporti di tutt’altra natura. Fino a determinare la qualità della società intera, ivi comprese le scelte di vita degli individui e i loro rapporti con gli altri.
In questo orizzonte infatti, in cui la dilatazione dei mercati, la quantità del prodotto, la crescita del Pil, a prescindere dai loro contenuti, s’impongono come il fine unico e indiscusso dell’agire sociale, reddito e consumo individuali non possono non essere vissuti come elementi primari di definizione della qualità e al limite dell’identità stessa della persona. Tanto più che innegabilmente tutto ciò, nel mondo occidentale, ha comportato un reale miglioramento delle condizioni materiali di ampie fasce di lavoratori, e in genere delle classi medio-basse.
Ma se l’acquisire, possedere, consumare, s’impongono quali obiettivi prioritari, o addirittura unici e imprescindibili, di ogni vita, così come la pubblicità implicitamente ma inesorabilmente suggerisce, e come i mezzi di comunicazione - quasi tutti - passivamente ribadiscono; se non bere quel determinato aperitivo è decisamente squalificante negli ambienti “che contano”; se non raggiungere almeno una volta un certo luogo di vacanza significa “valere” assai meno di chi abitualmente lo frequenta; se non avere una data automobile equivale a non esistere; se il consumo insomma mette in gioco la stessa identità della persona, anzi si impone come elemento decisivo di ogni identità, per le maggioranze diventa inevitabile seguirne l’invito: tanto più in una realtà come quella attuale, in cui la velocità del mutamento sociale e culturale di per sé rende incerta e difficoltosa la definizione e la difesa di un’identità sufficientemente solida.
Se poi competitività, rivalità, aggressività, prevaricazione, sono l’unico mezzo per riuscire in tutto ciò, e solo a questo modo ottenere, comperare, possedere l’oggetto del desiderio, diviene addirittura “normale”, assumere e praticare comportamenti ad esso conformi. E non importa se sono comportamenti al limite dell’illecito, o decisamente illeciti: non è un caso appunto che assai di frequente le cronache parlino di furti, pestaggi, perfino omicidi, a causa di un motorino, un cellulare ultimo modello, un giubbotto firmato, e simili; fatti tutt’altro che insoliti specie tra i giovani, cioè i soggetti psicologicamente più fragili.
Certo, si tratta di eventi-limite, e però indubbiamente indicativi di come l’artificiosa creazione della domanda - fondata sull’induzione sistematica di desideri, comportamenti, scelte di vita, funzionali a quella crescita oggi divenuta una sorta di vangelo- sia capace di deformare le coscienze, non di rado fino al limite del codice penale. E non è un caso che la corruzione sia oggi talmente diffusa, in ogni ambiente e a tutti i livelli, da essere considerata ormai un peccato veniale, qualcosa che appartiene alla normalità: così fan tutti…
Impoverimento è il tema di questo incontro. Non è impoverimento tutto ciò, cui vado sommariamente accennando? Un impoverimento - psicologico, culturale, comportamentale, sociale - che, paradossalmente, si è verificato non solo insieme all’arricchimento materiale, ma a causa dell’arricchimento stesso, e dei modi in cui si è andato realizzando. Cioè in sostanza in conseguenza del fatto che tra le due dimensioni fondanti del nostro esistere (quelle di cui già Engels parlava ne “L’origine della famiglia”, distinguendo tra “produzione delle merci” e “produzione degli uomini”) sia oggi la produzione delle merci ad imporsi non solo come indiscusso valore prioritario, ma come termine di riferimento e misura dell’agire collettivo, tendente all’assimilazione, e al limite all’identificazione tra “produzione degli uomini” e “produzione delle merci”.
Impoverimento
Non è impoverimento il fatto che la dimensione economica - in pratica la quantità - invada, e per gran parte determini anche quelle espressioni dell’attività umana che, per loro natura e di conseguenza per tradizione, ne sono state sempre rimaste immuni: come l’arte, la musica, la letteratura, la filosofia, i prodotti insomma più nobili e più esclusivi della nostra specie? I quali viceversa oggi, sempre più spesso, vengono risucchiati e inglobati nel gran circo - mediatico e non - dell’industria culturale, di cui la quantità, ancora una volta, è misura di valore; e spesso tutto ciò in qualche modo s’impone necessariamente, salvo l’insuccesso e al limite l’inesistenza.
Oggi - in questo campo come in ogni altro - c’è troppo di tutto: troppo anche delle iniziative più felici e delle loro migliori realizzazioni. Oggi ci sono troppi libri, troppe riviste, troppi dibattiti, troppi convegni, troppe mostre, troppi film, troppi concerti, troppi festival, troppe pubbliche letture, troppi “eventi”, come ormai vengono chiamate anche operazioni di puro mercato… E, se è vero che ciò non impedisce grandi meritati successi nei casi in cui qualità e attenzione pubblicistica si incontrano, non è raro il silenzio in casi di operazioni più che meritevoli. Ma ciò che a me pare innegabile è la complessiva dequalificazione derivante soprattutto dalla stessa quantità di un’ attività culturale complessivamente sempre meno degna di questo nome.
Così come il turismo di massa è una pessima caricatura di ciò che “il viaggio” è stato storicamente, ed era ancora alcuni decenni fa: scoperta di dimensioni esistenziali lontanissime dalla nostra, panorami impensabili, cresciuti nell’ambito e ad opera di civiltà a noi sconosciute. Oggi il viaggio, anche in terre lontane e mai visitate, significa assai spesso l’incontro con tante piccole e meno piccole Manhattan, con abiti di Lanvin e scarpe di Gucci, e pizza, Fast food, Coca-Cola, e così via… Tutto questo è impoverimento, individuale e sociale. Non credo lo si possa negare. E di nessun fondamento sono gli argomenti di chi vorrebbe accusare come antisociale e aristocraticamente snobistico un discorso di questo tipo: il turismo di massa ha distrutto l’anima delle grandi città d’arte, e non mi pare proprio che queste distratte comitive di persone che vi si aggirano ne traggano reali vantaggi: la quantità, logica portante del mercato, non è mai stata, né mai sarà coniugabile con la qualità.
Ma un altro fatto va annoverato tra le più pericolose manifestazioni di quell’ “impoverimento da quantità”, o se volete “impoverimento da arricchimento”, che è tema di questo incontro: il fatto cioè che proprio la quantità della produzione in crescita esponenziale, regola portante del capitalismo (proprio quella “crescita” che ad ogni momento, in ogni luogo e occasione, viene invocata come imprescindibile politica per il superamento della crisi, e dell’impoverimento che ne deriva), la quantità, ripeto, è la causa principale della crisi ecologica planetaria. Crisi che – come immagino sappiate, o almeno abbiate sentito dire – rappresenta la minaccia più grave per il futuro dell’umanità; e già ha provocato sciagure immani un po’ dovunque nel mondo.
I conti della natura
Forse può essere utile riandare le vicende di questo tipo (le più gravi almeno) verificatesi l’estate scorsa. Tutti immagino ricordiate la gigantesca polivalente catastrofe del Golfo del Messico, scoppiata in aprile e di fatto tuttora irrisolta. Seguì un maggio con “Laila”, il primo ciclone indiano (23 morti e più di 70mila profughi), e con una serie di alluvioni in Polonia, Ungheria, Serbia, Repubblica Ceca (almeno 9 morti, perdite per miliardi di euro); abbiamo avuto poi un giugno con 152 morti e oltre 100 mila dispersi in Guatemala, Honduras e Salvador, oltre a una gravissima siccità in Niger e Mali; e un luglio con una prima alluvione in Cina (123 morti o dispersi) e un’ondata di freddo polare sul cono sud dell’America Latina.
L’agosto portò temperature oltre i 50° in Russia (e incendi devastanti, giornate irrespirabili, perdite calcolate sui 15 miliardi di dollari, centrali atomiche a rischio e di nuovo l’incubo di Chernobil); e poco dopo fu la catastrofe Pakistana, gigantesca onda di piena che ha percorso l’intero bacino dell’Indo da nord a sud, ha sommerso un terzo del territorio nazionale, distrutto raccolti per 1 miliardo di dollari, ucciso 1600 persone, costretto 20 milioni a sfollare. Nello stesso periodo un’altra inondazione colpiva la contea cinese di Zhoku, in 24 ore causando oltre 700 morti.
D’altronde l’agosto non si è limitato a colpire il cosiddetto Sud del mondo, da sempre soggetto a tutte le maledizioni: un super-monsone ha allarmato l’Europa, con una corrente d’aria fredda penetrata nel nord del nostro continente, facendo soffrire prima l’Inghilterra, poi Francia, Nord Italia, Sicilia, Medio Oriente. Mentre una corrente di aria calda dal Sud Mediterraneo saliva verso nord, raggiungeva Repubblica Ceca e Russia:15 morti. Parlare di “impoverimento” è davvero inadeguato, ma non c’è dubbio che - oltre i lutti, le malattie, le devastazioni - tutti questi popoli, già prima non proprio in condizioni floridissime, si ritrovino ora molto più poveri.
E ciò continuerà ad accadere, anche a prescindere da catastrofi eccezionali. Basta che l’umanità insista nei consueti livelli di consumo. Proprio il 17 agosto scorso (ancora agosto!) il “Global Footprint Network” (nota organizzazione americana di ricerca ambientale) ha pubblicato, come ogni anno, lo stato dei “conti della natura”. I quali ci dicevano che, il 21 agosto, con un mese di anticipo rispetto allo scorso anno, l’umanità avrebbe esaurito tutte le risorse che la natura le aveva destinato come “riserva” da cui attingere nel 2010: sia per soddisfare i propri bisogni di sopravvivenza, sia per alimentare la produzione di ogni sorta, anzi - come la nostra economia vorrebbe - la crescita di ogni produzione.
Dal 21 agosto stiamo dunque consumando il “capitale” naturale. Ed è una netta rottura rispetto alla storia della specie umana, da sempre avvezza a un consumo di risorse inferiore a quello che il pianeta era in grado di rigenerare, e pertanto continuare a fornire. Da circa tre decenni abbiamo superato la soglia critica, ogni anno anticipandone la data: e - come commentano gli autori della ricerca - “la Natura sta per toglierci la fiducia”. Se l’umanità insiste su questa via, un grave impoverimento, molto concreto oltre che culturale, psicologico e comportamentale, ci aspetta.
Rischio di collasso
Occorre dire che di tutto ciò i responsabili delle nostre sorti - politici, economisti, grandi imprenditori - non sembrano in alcun modo preoccupati. L’ambiente, tema da tutti loro a lungo ignorato, oggi si pone al massimo come una sorta di variabile marginale, di cui si è costretti ad occuparsi quando ci colpisce direttamente, e inevitabilmente ci si trova a confrontarsi con una emergenza, ma che abitualmente viene accantonato, o al massimo ridotto a qualche provvedimento di piccolo riformismo: mentre la crescita produttiva, ormai da tutta la comunità scientifica indicata come la causa prima del dissesto ecologico, rimane l’obiettivo primo delle loro scelte.
Una politica di cui – come ho cercato di dire – è inevitabile conseguenza non solo l’impoverimento della qualità sociale, ma il rischio di collasso dell’intero ecosistema terrestre, con conseguenze che non vogliamo nemmeno provare a immaginare.
Testo della relazione svolta il 25 settembre 2010 al convegno organizza to dall'Associazione Itinerari e Incontri a Monte Giove, dedicato a «L'età dell' impoverimento».
Lavoro E Territorio/1
LA VERA RISORSA È LA SOCIETÀ CIVILE LOCALE
di Alberto Castagnola
È ormai evidente che una vasta porzione del movimento espresso dalla società civile italiana rifiuta nei tempi brevi i riferimenti alle scadenze elettorali e alle strutture partitiche; si punta invece ad un protagonismo attento e responsabile di centri di pressione politica costituiti da persone e gruppi di base, da campagne nazionali e comitati locali, da associazioni di scopo o da organismi rappresentanti di interessi prima sociali e poi economici. Se si adotta questo punto di vista, il panorama italiano descritto dal Censis, così depresso e demotivato, si trasforma in una società pulsante di attività, in un pullulare di iniziative creative e ricche di valori, in un continuo emergere di obiettivi realisticamente raggiungibili e di proposte costruttive osteggiate solo dai centri di potere economico che caratterizzano il sistema dominante e che trovano spesso sostegno nelle istituzioni e in alcune forze politiche.
Cosa manca quindi perché questo futuro così sentito e desiderato cominci a influire sui cambiamenti di portata sociale e sia riconosciuto come patrimonio comune di un paese capace di democrazia reale? Siamo infatti piuttosto convinti che questi protagonismi esistano già, ma non sono ancora riconosciuti, valutati, valorizzati e imitati, mentre prevalgono ancora spontaneismi poco efficaci, confusioni di piani di analisi e di operatività, eccessive semplicità di approccio ai problemi.
Facciamo quindi un primo tentativo di individuazione dei protagonisti già emersi e che dovrebbero essere moltiplicati in tempi brevi. È in tentativi di questo genere che il concetto di "territorio", tanto spesso richiamato nelle analisi di movimento, acquista concretezza e significatività e perde di astrattezza e senso di irrealtà. Elencare i nuovi protagonisti è relativamente facile: giunte comunali che si impegnano nella difesa del loro ambiente, comitati che si oppongono a opere pubbliche inutili o dannose, gruppi di base che lottano contro inceneritori, discariche o urbanizzazioni selvagge, gruppi di cittadini che impongono raccolte differenziate e pubblicizzazioni di beni comuni, famiglie che comprano direttamente dagli agricoltori o che scelgono prodotti biologici evitando gli eccessivi consumismi imposti dai supermercati, persone che si sottraggono ai processi di urbanizzazione forzata e tornano a rivitalizzare comuni abbandonati e terre eccessivamente sfruttate, iniziative di recupero di tradizioni culturali in via di sparizione, e la lista è certamente da completare.
Ogni volta che si mappano le risorse di un territorio circoscritto le sorprese sono infinite e la varietà delle culture all'opera emerge in tutta la sua ricchezza. Tuttavia, non si può trascurare il fatto che le singole esperienze possono essere accostate e confrontate ma non sommate a formare un sistema unico in via di affermazione. È infatti ancora abbastanza raro che le realtà più significative e vivaci vengano subito imitate in altri contesti e si diffondano a macchia d'olio; che i coordinamenti di realtà omogenee lavorino per la gemmazione e la moltiplicazione di entità analoghe in territori più lontani; che le reti nascenti organizzino subito delle mobilitazioni a scala territoriale maggiore; che famiglie e persone siano coscienti di essere i promotori di un futuro complessivo; che un diffuso senso di responsabilità porti a spingere perché in altri luoghi si inneschino meccanismo analoghi a quelli in corso.
Lavoro e Territorio/2
UN NUOVO MODO DI STARE AL MONDO PARLIAMONE
di Vittorio Sartogo
Il grande Galbraith, nel suo aureo libretto l'economia della truffa, sosteneva che le multinazionali, avendo bisogno di un ceto burocratico di direzione ma volendo evitare il discredito in cui versa questo termine, lo hanno chiamato management. Insomma, una piccola innocente truffa per mascherare la realtà di un potere manageriale e finanziario "potenzialmente tirannico", con la dominante determinazione di rafforzare solo se stesso. Lo certifica la vicenda delle stock options legate ai titoli Fiat: nel momento in cui l'azienda perde ulteriori quote di mercato, volano le prebende del management.
Nel seminario del Circolo romano del manifesto, il prossimo 22 gennaio, si argomenterà sul tunnel senza uscita sostenibile cui sta conducendo il volere «stare nel mondo», perché solo in questo mondo vi sarebbe la possibilità di salvare posti di lavoro. Stare, invece, "fuori dal mondo", ovvero in un altro mondo possibile, secondo un'antica formula, implica quel cambio di paradigma che molti auspicano, che vive in tantissime esperienze e lotte. Nella convinzione, come sosteneva Khun, il padre del concetto, che non si tratta soltanto di avere nuove idee, quanto piuttosto un nuovo punto di vista, un differente modo di affrontare i problemi in grado di modificare le concezioni delle persone. Insisteva tuttavia Khun a dire che «la decisione di rigettare un paradigma è sempre simultaneamente la decisione di accettarne un altro». Ed è per questo che la constatazione che l'attuale modo di produzione ed esasperato consumo sta producendo conflitti e iniziative che puntano su di una economia che valorizzi le opportunità che offre il territorio. Il paradigma del territorio appunto, o della riconversione ecologica dell'economia, secondo il quale si tratta di riconoscere quanto di positivo e alternativo va profilandosi nella concretezza di specifiche situazioni, per condurlo ad essere elemento portante di un salto di civiltà.
Ciò merita tuttavia un serio approfondimento in quanto: 1 - il territorio è una dimensione non neutra, essendo a sua volta un prodotto del capitale che lo plasma in funzione dei propri vantaggi; 2 - di conseguenza vi è una spinta inerziale che rende molto impervio cambiare comportamenti consolidati, cosicché la stessa capacità di autorganizzazione della società presenta difficoltà molto forti se non riesce a collegarsi alla comprensione delle tendenze di fondo; 3 - non è sufficiente muoversi dal basso, vista la scomparsa dell'opposizione politica e la drammatica inservibilità di gran parte delle sue proposte, poiché resta il problema della intermediazione politica per l'organizzazione dei settori strategici e della stessa regolazione statale e sovrastatale.
D'altra parte, una nuova economia, nuove politiche comportano una modifica sociale profonda e non possono essere ridotte ad elementi tecnici. La green economy e la cooperazione, per esempio, possono produrre altrettanti disastri se si riducono all'uso di nuove tecnologie lasciando immutata la flessibilità del lavoro come assicurazione dai rischi di investimento e la produzione in funzione di consumi tendenzialmente crescenti. Il punto politico essenziale da affrontare torna prepotentemente ad essere quello dei soggetti che scelgono, del predominio della democrazia nella guida delle scelte di politica economica. Elemento in conflitto insanabile con il pensiero dominante e con quello corrente.
La globalizzazione è un boomerang. Ieri le nostre aziende lo lanciavano entusiaste verso le delocalizzazioni cinesi o est-europee, oggi torna indietro e si schianta sulla testa dei lavoratori italiani. Un prezzo l’avevano già pagato allora, perdendo il posto a favore di operai stranieri. Ora fanno il bis, con il ricatto ormai dentro casa: questa è la nuova offerta, prendere o lasciare. Peccato, osserva Ulrich Beck, uno dei massimi sociologi viventi, che questa alternativa brutale sia il viatico per la futura irrilevanza della nostra industria. Perché più si tagliano i diritti, più si riduce l’identificazione del dipendente con il datore di lavoro. E, in ultimo, si deprimono produttività e creatività, le uniche armi sensate che ci restano per competere con i Paesi emergenti. Teorizzando la «società del rischio» lo studioso tedesco è stato tra i primi a metterci in guardia contro l’illusione che i problemi distanti non ci toccassero. Gli chiediamo quindi, adesso che è toccata a Pomigliano e poi a Mirafiori, come il caso Fiat e i suoi apparentemente inesorabili aut aut ci aiutino a ragionare intorno alla crescente separazione tra capitale e democrazia.
Già alla fine degli anni ‘80 scriveva che i rischi globali sono i nostri rischi. Oggi la globalizzazione entra nelle nostre fabbriche e ne cambia le regole. Possiamo resistere? E come?
«Quello della Fiat è un ottimo esempio di come la globalizzazione può essere usata come nuovo gioco di potere per cambiare le regole del potere. Assistiamo infatti all’emancipazione dell’economia dai vincoli nazionali e democratici. Gli stati del XIX secolo avevano prodotto istituzioni per ridurre i danni che il capitalismo industriale poteva provocare. Il matrimonio di allora tra potere e politica sta però finendo in divorzio. Il potere è sempre meno democratico, meno legale, più informale, parzialmente trasferito a un capitale sempre più mobile e al mercato finanziario. E in parte agli individui, che dovrebbero tutelarsi da soli».
A giudicare da come stanno andando le cose, non sembra facilissimo difendersi da soli...
«Certo che non lo è. Mi viene in mente un caso simile accaduto in Germania. Nel 2001 la Volkswagen voleva che i suoi operai lavorassero più a lungo, per una paga minore e con meno diritti. O accettavano di entrare in una newco apposita, oppure avrebbero spostato quella parte di produzione in Slovacchia o in India. Tutti, dai sindacati al cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder, la giudicarono un’idea meravigliosa. E si congratularono poi per aver evitato quell’emorragia verso l’estero. Vedo però una differenza importante. Dentro Vw c’è un consiglio internazionale di lavoratori da interpellare ogni volta che l’azienda prova a delocalizzare in Paesi dove il costo del lavoro è più basso. Un contropotere al management che, pur agendo all’interno della legge, è sempre meno legittimato rispetto alla comunità nazionale che lo esprime».
In Risikogesellschaft lei immaginava una società cosmopolita come «nesso globale di responsabilità in cui gli individui, e non solo i loro rappresentanti, potranno partecipare direttamente alle decisioni politiche». Qui però assistiamo all’opposto. I lavoratori non hanno alcuna voce in capitolo. Poca o punto anche i politici. È questo il futuro delle relazioni tra capitale e diritti?
«Devo ammettere che è un buon contro esempio al mio ottimismo di allora. Credo ancora che gli individui, ad esempio i consumatori con una coscienza politica, siano un gigante dormiente. Se si mettono insieme, se si organizzano, la loro decisione di comprare o non comprare qualcosa può valere quasi più di un voto. La stessa azione coordinata si può pensare per i lavoratori. Su scala internazionale c’è una competizione di sistemi economici e molti fanno notare come quello cinese sia più efficiente di quello occidentale. Ma lo è a scapito della democrazia. Bisogna inventare altri modelli».
L’occidente si vanta di esportare la democrazia, quando serve anche in punta di baionetta. Perché non esportiamo anche la democrazia nel mercato del lavoro che caratterizzava la nostra civiltà?
«La democraticità del capitale non si gioca più all’interno di una nazione. Questa domanda dovrebbe girarla all’Unione Europea. Uno dei motivi per cui la Ue ha così tanti problemi a essere accettata dalla popolazione è che si occupa solo del mercato, da una prospettiva neoliberale. Se iniziasse a pensare a come garantire una sicurezza sociale ai lavoratori degli stati membri, la sua reputazione ne gioverebbe».
Lei conosce l’obiezione dei manager: per rimanere competitivi bisogna rinunciare a qualche diritto. La convince?
«È un argomento immanente, buono solo in limitati contesti. Pensando invece ai lavori a più alta qualificazione, quelli su cui possiamo ancora essere competitivi, più si tagliano i diritti più si riduce l’identificazione del dipendente con l’azienda. E con essa la flessibilità e la creatività che servono per prosperare. Alla fine, ridefinendo Stato e sindacati in una dimensione transnazionale, anche le aziende si accorgerebbero che democrazia e produttività sono due lati della stessa medaglia».
Intanto però assistiamo alla svalutazione del lavoro, inteso solo come contropartita di un salario. Prima era anche altro, ovvero uno strumento di dignità e di libertà. Cos’è andato storto?
«Forse possiamo recuperare da Marx l’idea di internazionalizzazione della classe operaia. Ma se vogliamo reinventare la politica del lavoro all’alba del XXI secolo dobbiamo renderci conto che viviamo in un mondo policentrico e tentare nuove alleanze: tra lavoratori e consumatori, tra stati, riorganizzando la Ue. Ciò che manca in questo dibattito è una sinistra non nostalgica del vecchio welfare state nazionale ma aperta a diventare la controparte dell’attuale capitale transnazionale».
Per il momento da noi chi critica questo smottamento nei diritti viene etichettato come conservatore, come qualcuno che rema contro il progresso. È così?
«No, direi che è vero il contrario. Negli ultimi 10-20 anni le politiche neoliberali sono state presentate come il progresso ma adesso ci si rende conto che sono categorie zombie. Ci avevano promesso «più mercato, meno poveri», ed è accaduto l’opposto. Lo stesso con la crisi finanziaria. La visione neoliberale che anche l’Europa ha adottato ha fallito su tutta la linea. Dovremmo provare a superarla con una visione social-democratica. Magari con un’aggiunta ambientalista. E, ovviamente, transnazionale».
La globalizzazione si regge sulla delocalizzazione verso Paesi più economici. Così le aziende risparmiano e si arricchiscono. Ma perché parte di quei profitti non viene ridistribuita, secondo un principio di vasi comunicanti, anche tra i lavoratori dei Paesi in cui quelle aziende hanno sede?
«In primo luogo perché le compagnie sono sempre più globalizzate anche al loro interno. BP, oggi, non vuol dire più British Petroleum ma Beyond Petroleum. Ovvero una multinazionale che paga le tasse in Svizzera e opera in numerosissimi stati. È difficile dunque dire qual è la reale sede di quella compagnia. In secondo luogo perché la ridistribuzione della ricchezza è stata compito degli stati nazionali. Solo un’Unione europea più ambiziosa, con un bilancio e tasse comuni, potrebbe attaccare questo problema. Ma sinché a Bruxelles regnerà l’ideologia neoliberale, resterà l’ennesima possibilità non colta».
La vicenda della Fiat di Pomigliano d'Arco, con l'imprevedibile voto dei suoi operai che respingeva il ricatto sul lavoro in nome della tutela della sua dignità, ha aperto un proficuo dibattito nella sinistra sociale e politica. Il seminario del 22 gennaio prossimo a Roma rappresenta una occasione da non lasciar cadere. Mi riferisco in particolare alla risposta critica di Rossana Rossanda ad una proposta di Guido Viale di riconversione ambientale dell'industria apparsa sul manifesto. Il tema era: la tutela dell'occupazione è un bene che viene prima di ogni altro o no?
L'altro tema posto nelle vicende di Pomigliano e di Mirafiori è il rapporto tra lavoro e diritti. Fino a che punto la necessità del lavoro deve mortificarne la dignità? Il metodo Marchionne salva il lavoro, come pontificano i cosiddetti riformisti, oppure lo riduce ad una moderna forma di schiavitù?
La Fiom il 16 ottobre ha convocato a Roma una grande manifestazione sotto la parola d'ordine «il lavoro è un bene comune» per dire che esso deve essere difeso senza essere immiserito e schiavizzato. Ma per essere considerato un bene comune il lavoro deve testimoniare anche la sua utilità sociale. Edoardo Salzano su Eddyburg ha posto tale questione in termini corretti: «Il lavoro è necessario all'uomo solo perché riceve in cambio una retribuzione che gli consente di sopravvivere e vivere, oppure il significato del lavoro, la sua utilità e necessità per l'uomo (e per la società) ha un'altra e più profonda (più radicale) ragione? [...] Esso peraltro, per poter essere erogato e socialmente utilizzato, ha bisogno di un riconoscimento di utilità sociale al quale corrisponda l'assegnazione al lavoratore di una quota di reddito commisurata alle sue esigenze».
Ne consegue che conciliare la funzione sociale del lavoro con il suo essere anche un mezzo di riproduzione sociale che soddisfi bisogni vitali per gli individui, implica un cambio di paradigma dell'attuale modello di sviluppo, fondare una economia alternativa e sostenibile, diversa da quella imposta dalla globalizzazione, spesso estranea e lontana dai bisogni della società.
Come si costruisce un'altra economia alternativa, e soprattutto con quali soggetti? Che ruolo si devono assumere, in particolare, il mondo del lavoro e le loro organizzazioni sociali? Se il lavoro è un bene comune, non può eludere le domande che non hanno trovato ancora risposte adeguate e convincenti nel movimento sindacale: cosa, come, dove e per chi produrre? Il lavoro può affermare la sua utilità e responsabilità verso la società e le comunità locali, solo pensandosi ed agendo come lavoro non alienato, come produttore consapevole che crea l'economia e non ne rimane succube. Solo il lavoro che si libera della sua subalternità al primato dell'economia e rifiuta la condizione di sottoprodotto passivo dell'organizzazione aziendale del profitto può ri-proporsi come soggetto della trasformazione e come forza produttiva al servizio del bene comune e di una economia sostenibile e validata socialmente.
Ciò richiede una forte innovazione nel movimento sindacale (penso alla Cgil) che deve innanzitutto uscire dal recinto della rappresentanza fordista e dalle gabbie delle compatibilità della globalizzazione, per proporsi come rappresentanza sociale di tutti i lavori, riscoprendo e valorizzando la dimensione territoriale e confederale del suo agire, superando a questo livello la separazione tra lavoro e non lavoro, tra lavoro tutelato e lavoro precario, tra lavoro formale e informale, tra produzione e consumo, e pensando a forme di nuova democrazia economica come spazio pubblico partecipato, attuando l'articolo 46 della Cost. al fine di esercitare un controllo democratico e sociale sui fini della produzione, sulla qualità dello sviluppo, sulla responsabilità sociale dell'impresa. Si tratta di ripensare lo sviluppo e la crescita nella dimensione territoriale, con produzioni e mercati alternativi a quelli globali. Le camere del lavoro possono diventare protagoniste di questo processo favorendo l'apertura di cantieri o laboratori territoriali per progettare la qualità urbana, produrre accordi con la contrattazione territoriale a sostegno dei diritti di cittadinanza, promuovere i beni comuni e sostenere lo sviluppo locale. Sarebbe l'occasione per la Cgil per proporsi come soggetto unificatore a livello sociale del grave disagio di cui soffre il mondo del lavoro e del rifiuto ad un destino di precarietà da parte delle nuove generazioni. È un caso che, dopo tanti anni, giovani, studenti e lavoratori oggi si cercano nel fuoco del conflitto e dello scontro sociale?
Ci sarà pur una ragione per cui la totalità dell'establishment italiano, dal Foglio della ex coppia Berlusconi-Veronica a Pietro Ichino - quel che resta della componente pensante di un partito ormai decerebrato) - converge nel chiamare «modernizzazione» il diktat di Marchionne («o così, o si chiude»). Che per gli operai di Mirafiori (età media, 48 anni; ridotte capacità lavorative - provocate dal lavoro alle linee - 1500 su 5200; molte donne) vuol dire: 18 turni; tre pause di dieci minuti per soddisfare - in coda - i bisogni fisiologici (a quell'età la prostata comincia a pesare; e nessuno lo sa meglio dell'establishment italiano, ormai alla grande sopra i 60); mensa anche a fine turno (otto ore di lavoro senza mangiare); 120 ore di straordinario obbligatorio, divieto di ammalarsi in prossimità delle feste, più - è un altro discorso, ma non meno importante - divieto di sciopero per chi non accetta e «rappresentanti» degli operai scelti tra, e da, chi è d'accordo con il padrone. Mentre «converge», l'establishment nel chiamare invece «conservazione» - o anche «reazione»; così Giovanni Sartori sul Corriere dell'8 gennaio - la scelta di opporsi a questo massacro. Nessuno di quei sostenitori della modernità si è però chiesto se il progetto «Fabbrica Italia» della Fiat, nel cui nome viene imposto questa nuova disciplina del lavoro, ha qualche probabilità di essere realizzato.
Vediamo. Nessuno - tranne Massimo Mucchetti - ha rilevato che i 20 miliardi dell'investimento investimento non sono in bilancio e non si sa da dove verranno. Nessuno può né deve sapere a chi e che cosa saranno destinati. Per ora le promesse sono 1.700 milioni di «investimenti» per due fabbriche, 10.700 lavoratori e tre nuovi «modelli» di auto, per una produzione complessiva di circa mezzo milione di vetture all'anno. Fanno, poco più di 150mila euro per addetto e, supponendo che un modello resti in produzione circa tre anni, poco più di mille euro per vettura (calcolando una media, tra Suv, Alfa e Panda, di 20mila euro a vettura, il 5 per cento del loro prezzo). Se una parte dei nuovi impianti, come è ovvio, servirà anche per i modelli successivi, l'investimento per vettura è ancor meno. Non gran che.
Nessuno - o quasi - si è chiesto quante possibilità ha Marchionne di vendere in Europa un milione all'anno in più delle vetture che promette di produrre in Italia. Di fronte a un mercato di sostituzione, nella migliore delle ipotesi, stagnante, vuol dire sottrarre almeno un milione di vendite alla Volkswagen o alle imprese francesi ben sostenute dal loro governo. Difficile crederci proprio ora che Fiat perde colpi e quote di mercato sia in Italia che in Europa. Per riuscire a piazzare mezzo milione all'anno di Alfa (vetture, non marchio), è già stato detto che dovrà venderle sulla Luna. Che le quotazioni della Fiat crescano è solo il segno che la Borsa è ormai una bisca fatta per pelare il «risparmiatore». Nessuno - nemmeno Giovanni Sartori, che pure «aveva previsto tutto» ed è molto in ansia per le sorti del pianeta - si è veramente chiesto che futuro abbia, tra picco del petrolio, contenimento delle emissioni e misure anticongestione e inquinamento, l'industria dell'automobile in Europa e nel mondo. Eppure il tema meriterebbe qualche riflessione. In Europa c'è già un eccesso di capacità produttiva del 30-40 per cento; negli Stati Uniti anche: Il sole24ore del 6 gennaio ci informa che "nei prossimi cinque anni" anche in Cina - la nuova frontiera del mercato automobilistico mondiale - ci sarà una sovracapacità produttiva del 20 per cento.
Per il momento - la Repubblica, 7 gennaio - apprendiamo che «Pechino soffoca tra i gas» (e per ingorghi e congestione); tanto che sono stati contingentati e sottoposti a un sorteggio i permessi di circolazione. E qualche tempo fa una coda di cento chilometri alle porte di Pechino si è sciolta dopo un mese. Non sono buone notizie per l'industria automobilistica. Ma anche il governo della «locomotiva del mondo» comincia a pensare ai suoi guai «La desertificazione è il problema ecologico più grave del paese» ha affermato Liu Tuo, capo dell'ufficio cinese per il controllo della desertificazione (il manifesto, 6 gennaio). Niente a che fare con la produzione e la messa in circolazione di 17 milioni di auto, aggiuntive, non sostitutive, in un anno?
La conclusione è chiara: la «modernizzazione» al sostegno della quale è sceso in campo, con spirito militante, tutto l'establishment italiano, è questa: una corsa verso il basso delle condizioni di chi lavora, facendo delle maestranze di ogni fabbrica una truppa in guerra contro le maestranze della concorrenza (sono peggiorate molto anche quelle degli operai tedeschi e francesi, nonostante i salari più alti: basta considerare l'aumento delle malattie professionali) e, come premio per tanti sacrifici, la desertificazione del pianeta Terra.
Se questa è la «modernizzazione» - e che altro, se no? - diventa anche chiaro che cosa significa opporsi alla sua sostanza e alle sue conseguenze.
Non la «conservazione» dell'esistente - sarebbe troppo comodo - come sostengono i fautori delle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione, ma la progettazione, la rivendicazione e la realizzazione di un mondo totalmente altro, dove la condivisione sostituisce la competizione e la cura dei beni comuni sostituisce la corsa all'appropriazione privata di tutto e di tutti: il che ovviamente non è questione di un giorno o di un anno - e in parte nemmeno di uno o due decenni - né di una semplice dichiarazione di intenti, per quanto articolata e documentata possa essere.
Quel mondo va costruito pezzo per pezzo. A partire quasi da zero. Ma sapendo che nel mondo una «moltitudine inarrestabile» composta da migliaia di comunità e da milioni e forse miliardi di esseri umani), ciascuno a modo suo, cioè secondo le condizioni specifiche in cui si trova a operare e a cooperare con il suo prossimo, aspira e già lavora in questa stessa direzione. Nello stesso numero citato de il Sole24ore, un articolo dal titolo "Tra gli operai, un sì per il futuro" (ma il testo dice esattamente l'opposto) registra una condanna unanime del nuovo accordo (nessuno lo considera, come fa invece l'establishment, un passo avanti); ma tutti piegano la testa dicendo che non c'è alternativa. «Però - sostiene un quadro della Fiom - la posta in palio è il lavoro, e chi si fa blandire dalle sirene degli estremismi e dalle ideologie sbaglia strada». «O sa - aggiunge - di avere qualche alternativa pronta».
Il problema è proprio questo. Non ci sono «alternative pronte». Quindi bisogna approntarle e non è un lavoro da poco. Ma ormai, che l'alternativa è la conversione ecologica del sistema industriale e innanzitutto, per il suo peso, il suo ruolo e le sue devastazioni, dell'industria automobilistica - che non vuol dire automobili ecologiche, che è un ossimoro, ma mobilità sostenibile - lo ha capito anche la Fiom. La «modernizzazione» di Marchionne sta cambiando a passi forzati il ruolo dei sindacati. Quelli firmatari hanno scelto per sé la funzione di guardiani del regime di fabbrica: che era quella dei sindacati «sovietici» ed è quella dei sindacati della Cina «comunista».
Cambia anche il ruolo dei sindacati che non rinunciano alla difesa dei lavoratori e al conflitto. Che per mantenere la sua indipendenza deve cercare sostegno e offrire una prospettiva anche a chi si batte fuori delle fabbriche Così il raggruppamento Uniti contro la crisi, a cui aderiscono anche molti membri della Fiom, ha convocato per il 22 e il 23 a Marghera un primo seminario per discuterne e affrontare il problema della riconversione. È un progetto che intende coinvolgere la totalità dei movimenti ambientalisti, gran parte dei comitati e dei collettivi che si sono battuti in questi anni per «un altro mondo possibile». E, soprattutto, un movimento degli studenti, dei ricercatori e dei docenti schierati contro la distruzione della scuola, dell'università, della ricerca e della cultura imposta dal governo, che su questi temi può trovare il terreno più fertile per dare continuità e respiro strategico al proprio impegno (www.guidoviale.blogspot.com).
Negli ultimi mesi molti contributi apparsi su questo giornale hanno sottolineato la centralità del «territorio» nel definire politiche e strategie alternative in grado di contrastare le logiche del mercato e di recuperare una consapevolezza sociale delle loro terribili conseguenze sulla vita individuale e collettiva. La prospettiva culturale da cui partire guarda al territorio come bene comune. Su questo paradigma sono ormai numerosi i contributi di riflessione, ma anche le iniziative concrete, che tendono a connettere questioni specificamente «locali» a strategie di livello globale: la lotta contro la privatizzazione dell'acqua ne è un esempio significativo.
Considerare il territorio come bene comune comporta dare nuova centralità alle relazioni di prossimità tra società e risorse locali, ricostruire matrici identitarie, mettere in primo piano il valore costitutivo, etico dei rapporti sociali e della solidarietà, riaffermare una cultura della sfera pubblica. E, da qui, sedimentare una progettualità collettiva che assuma la cura del territorio come obiettivo centrale.
Che vuol dire “cura del territorio”
Cura del territorio vuol dire molte cose, in concreto. Vuol dire guarire. Vuol dire avere cura. Vuol dire fare in modo che.
Guarire comporta mitigare i rischi ambientali che l'incuria e l'indifferenza degli ultimi decenni hanno prodotto. Rischi legati alle disastrose condizioni idrogeologiche; agli attuali modi di produzione nell'agricoltura, nelle attività industriali e artigianali e nel «gigante terziario»; alle criticità ambientali dei luoghi di vita, in particolare nelle città ma anche nelle «campagne urbanizzate» e nei contesti insediativi marginali.
Avere cura significa agire con costanza per mantenere i luoghi in condizioni accettabili dal punto di vista ambientale, funzionale, estetico.
Il terzo significato, fare in modo che, guarda al futuro, al «progetto di territorio».
Pongo a questo punto una questione delicata: che ruolo possono avere, per la cura del territorio, gli «strumenti formali» di pianificazione e di programmazione oggi disponibili? Io credo ancora nella loro utilità. Un loro «uso sociale», che si basi sulla progressiva ridefinizione e sedimentazione «cosciente» di una cultura del territorio, sulla consapevolezza delle relazioni reciproche tra società locali e risorse, sull'autodeterminazione delle società insediate, può contrastare con efficacia le strategie messe in campo, fuori e dentro i contesti locali, dai soggetti potenti. Per questo, ritengo fondamentali tre linee di azione.
Tre linee d’azione
per l’uso degli strumenti di pianificazione
Prima linea di azione: utilizzare al meglio gli strumenti disponibili. Occorre considerare con grande attenzione l'ampio e complesso quadro di strumenti di pianificazione e di programmazione agibili a tutte le scale, da quella del quartiere a quella nazionale. Sono però convinto che sia necessario dare assoluta centralità alla pianificazione «canonica», cioè agli strumenti che le leggi affidano alle istituzioni territoriali per la gestione dei loro ambiti di competenza: mi riferisco alle Regioni, alle Province, ai Comuni. Ognuno di questi tre livelli offre specifiche potenzialità.
L'istituzione regionale è quella con maggiori capacità di manovra economica; la pianificazione regionale appare dunque la sede più adatta a produrre strategie operative in grado di correlare sfera territoriale e sfera economica. Le Province, istituzioni oggi traballanti e di incerto destino, per il loro carattere di «vicinanza» con il territorio possono, attraverso i loro Piani Territoriali, definire obiettivi e orientamenti di breve/medio termine fortemente connessi con i caratteri delle risorse e delle società locali. I Comuni hanno, per norma, il compito di definire le dinamiche di insediamento e le modalità di uso del suolo; attraverso la pianificazione comunale si può contribuire a far prevalere le esigenze di benessere della società insediata rispetto alle tensioni speculative. Ed è a questo livello che trova maggior forza l'istanza del suolo come bene comune; un'istanza che a mio avviso dovrebbe costituire un nodo centrale nel dibattito sui «destini» dell'urbanistica e, più in generale, sui nuovi paradigmi per una società consapevole e autodeterminata.
Seconda linea d'azione: dare centralità al sistema economico/produttivo. Un progetto di territorio non deve affrontare solo i temi dell'organizzazione fisica, funzionale e ambientale; questi devono esser coniugati con stringenti istanze di organizzazione economico/produttiva. Il nodo cruciale sta nel definire obiettivi, strategie e azioni che riguardano i modi del «produrre» (in senso lato) e le loro relazioni con la società insediata. Ciò va fatto considerando al contempo la sfera locale e quella globale. Obiettivo di fondo è scardinare una visione consolidata del territorio stesso come «oggetto di mercato», per cui tutto ciò che lo costituisce (persone, suolo, manufatti, funzioni) viene considerato come merce utile a produrre rendite e profitti.
Terza linea di azione: costituire contesti locali di progettazione sociale. Un progetto di territorio «formalizzato» non può essere delegato all'istituzione, ma deve scaturire da una dialettica sociale. È nell'ambito della società insediata che devono emergere istanze e pressioni in grado di innescare il processo di confronto. I «poteri forti» legati alla rendita, alla speculazione e alla sfera produttiva godono di una presenza e di una capacità di influenza ormai radicate in ogni contesto e ad ogni scala. Al contrario, le associazioni di prossimità, i comitati che si costituiscono su specifiche questioni, le stesse espressioni locali dei partiti, nonostante la tendenza a costruire «reti» mostrano ancora serie difficoltà di incidenza reale. È necessario allora agire, soprattutto nei contesti locali, per un progressivo rafforzamento di queste «istanze deboli»; per questo, giocano a mio avviso un ruolo primario la capacità di diffondere e condividere le informazioni, la capacità di costruire luoghi (virtuali ma soprattutto reali) di incontro, la capacità di individuare questioni territoriali in grado di stimolare gli individui ad uscire dall'isolamento favorito dall'involuzione delle relazioni sociali.
È un percorso lungo e irto di difficoltà, ma obbligato se si vuole produrre progettazione sociale.
La prima ragione della nostra indignazione nasce dall'assenza, nella lotta politica italiana, di un interesse sui diritti democratici dei lavoratori e delle lavoratrici. Così come nei meccanismi elettorali i cittadini sono stati privati del diritto di scegliere chi eleggere, allo stesso modo ma assai più gravemente ancora un lavoratore e una lavoratrice non hanno il diritto di decidere, con il proprio voto su opzioni diverse, di accordi sindacali che decidono del loro reddito, delle loro condizioni di lavoro e dei loro diritti nel luogo di lavoro. Pensiamo ad accordi che non mettano in discussione diritti indisponibili. Parliamo, nel caso degli accordi sindacali, di un diritto individuale esercitato in forme collettive. Un diritto della persona che lavora che non può essere sostituito dalle dinamiche dentro e tra le organizzazioni sindacali e datoriali, pur necessarie e indispensabili. Di tutto ciò c'è una flebile traccia nella discussione politica; noi riteniamo che questa debba essere una delle discriminanti che strutturano le scelte di campo nell'impegno politico e civile. La crescente importanza nella vita di ogni cittadino delle scelte operate nel campo economico dovrebbe portare a un rafforzamento dei meccanismi di controllo pubblico e di bilanciamento del potere economico; senza tali meccanismi, infatti, è più elevata la probabilità, come stiamo sperimentando, di patire pesanti conseguenze individuali e collettive.
La seconda ragione della nostra indignazione, quindi, è lo sforzo continuo di larga parte della politica italiana di ridimensionare la piena libertà di esercizio del conflitto sociale. Le società democratiche considerano il conflitto sociale, sia quello tra capitale e lavoro sia i movimenti della società civile su questioni riguardanti i beni comuni e il pubblico interesse, come l'essenza stessa del loro carattere democratico. Solo attraverso un pieno dispiegarsi, nell'ambito dei diritti costituzionali, di tali conflitti si controbilanciano i potentati economici, si alimenta la discussione pubblica, si controlla l'esercizio del potere politico. Non vi può essere, in una società democratica, un interesse di parte, quello delle imprese, superiore a ogni altro interesse e a ogni altra ragione: i diritti, quindi, sia quelli individuali sia quelli collettivi, non possono essere subordinati all'interesse della singola impresa o del sistema delle imprese o ai superiori interessi dello Stato. La presunta superiore razionalità delle scelte puramente economiche e delle tecniche manageriali è evaporata nella grande crisi.
L'idea, cara al governo, assieme a Confindustria e Fiat, di una società basata sulla sostituzione del conflitto sociale con l'attribuzione a un sistema corporativo di bilanciamenti tra le organizzazioni sindacali e imprenditoriali, sotto l'egida governativa, del potere di prendere, solo in forme consensuali, ogni decisione rilevante sui temi del lavoro, comprese le attuali prestazioni dello stato sociale, è di per sé un incubo autoritario.
Siamo stupefatti, ancor prima che indignati, dal fatto che su tali scenari, concretizzatisi in decisioni concrete già prese o in corso di realizzazione attraverso leggi e accordi sindacali, non si eserciti, con rilevanti eccezioni quali la manifestazione del 16 ottobre, una assunzione di responsabilità che coinvolga il numero più alto possibile di forze sociali, politiche e culturali per combattere, fermare e rovesciare questa deriva autoritaria.
Ci indigna infine la continua riduzione del lavoro, in tutte le sue forme, a una condizione che ne nega la possibilità di espressione e di realizzazione di sé.
La precarizzazione, l'individualizzazione del rapporto di lavoro, l'aziendalizzazione della regolazione sociale del lavoro in una nazione in cui la stragrande maggioranza lavora in imprese con meno di dieci dipendenti, lo smantellamento della legislazione di tutela dell'ambiente di lavoro, la crescente difficoltà, a seguito del cosiddetto "collegato lavoro" approvato dalle camere, a potere adire la giustizia ordinaria da parte del lavoratore sono i tasselli materiali di questo processo di spoliazione della dignità di chi lavora. Da ultimo si vuole sostituire allo Statuto dei diritti dei lavoratori uno statuto dei lavori; la trasformazione linguistica è di per sé auto esplicativa e a essa corrisponde il contenuto. Il passaggio dai portatori di diritti, i lavoratori che possono esigerli, ai luoghi, i lavori, delinea un processo di astrazione/alienazione dove viene meno l'affettività dei diritti stessi.
Come è possibile che di fronte alla distruzione sistematica di un secolo di conquiste di civiltà sui temi del lavoro non vi sia una risposta all'altezza della sfida?
Bisogna ridare centralità politica al lavoro. Riportare il lavoro, il mondo del lavoro, al centro dell'agenda politica: nell'azione di governo, nei programmi dei partiti, nella battaglia delle idee. Questa è oggi la via maestra per la rigenerazione della politica stessa e per un progetto di liberazione della vita pubblica dalle derive, dalla decadenza, dalla volgarizzazione e dall'autoreferenzialità che attualmente gravemente la segnano. La dignità della persona che lavora diventi la stella polare di orientamento per ogni decisione individuale e collettiva.
Per queste ragioni abbiamo deciso di costituire un'associazione che si propone di suscitare nella società, nella politica, nella cultura, una riflessione e un'azione adeguata con l'intento di sostenere tutte le forze che sappiano muoversi con coerenza su questo terreno.
Fausto Bertinotti, Sergio Cofferati, Gianni Ferrara, Luciano Gallino, Francesco Garibaldo, Paolo Nerozzi, Stefano Rodotà, Rossana Rossanda, Aldo Tortorella, Mario Tronti
Qui potete raggiugere il contratto Mirafiori, da
Nel suo editoriale su La Repubblica del 19.12.2010 Eugenio Scalfari ci informa sull'esistenza di una Cupola finanziaria che gestisce le principali speculazioni mondiali. La sua fonte è il New York Times, che conferma quanto aveva già letto in Marx tempo prima. Da qui alcune sue deduzioni - di Eugenio Scalfari s'intende - sulle quali è bene soffermarsi. La prima, sulla quale concordo, è che le speculazioni non riguardano solo singoli faccendieri e neanche gli Hedge Fund, ma un sistema organizzato il cui cervello è costituito dalle maggiori nove banche mondiali. È vero, come sostiene, che è contro queste ultime che si è appuntata la critica della sinistra per decenni sfociata nella richiesta della nota Tobin Tax. Una visione miope che evade l'ampiezza del problema e che purtroppo resta comune sia agli amici che agli sciocchi. Che la finanzia mondiale costituisca oggi un sistema di potere globale è stato ampiamente descritto negli ultimi 10 anni da numerosi studi e autori. Basti ricordare il bel testo di J. Perkins - Confessioni di un sicario dell'economia - che illustra come la rete di esperti e di centri di studio internazionali falsifichino i dati economici dei singoli paesi per spingerli ad indebitarsi e poi provocarne una crisi che mette i governi e l'economia nelle loro mani. Processi che hanno modificato i rapporti di potere nei paesi capitalistici. Ne dà conto per gli Stati Uniti James K. Galbraith (The Predator State, 2008), che spiega molto bene come il governo di Bush fu costituito da ministri ed esperti proprietari o rappresentanti delle principali industrie energetiche e dell'industria militare sostenuti dai centri finanziari come la Goldman Sachs, e simili. Una struttura di potere che continua intatta con la nuova presidenza Obama. Siamo, quindi, non in presenza di speculatori ma della trasformazione dell'economia capitalistica da una economia di produzione in un sistema basato sulla rendita e lo sfruttamento delle altrui risorse. Una scissione definitiva tra capitalismo e mercato che per gestire questo potere rioccupa lo spazio della politica.
La seconda osservazione di Scalfari è che la Cupola italiana esiste ma è piccola e provinciale. Concordo ma per ragioni diverse dalle sue. Il «provincialismo» è dato dal fatto che la finanza e il potere dei grandi gruppi globali non è ancora riuscito a penetrare fortemente nel tessuto economico del nostro e di alcuni altri paesi dell'Europa del Sud. Cioè mentre Stati Uniti e i paesi dell'Europa occidentale sono dentro il sistema della «Triade» (la vera Cupola di cui parla Scalfari) l'Italia riesce ancora a difendersi sia con parte della sua economia per nostra fortuna non globalizzata sia per una maggiore autonomia del sistema politico. Ma la pressione è certamente forte. I ricorrenti conflitti tra governo e Banca d'Italia, questa sì occupata dai poteri della «Triade», sono noti. I tentativi di mettere il paese in riga con il sistema della globalizzazione sono sempre stati attuati insediando «governi tecnici» per neutralizzare la politica ed espropriando i cittadini oltre che della loro sovranità dei loro redditi. Un tentativo oggi di nuovo in atto e credo che Scalfari farebbe bene a difendere l'Italia dai «governi tecnici» che si cerca di creare con l'aiuto di Fini, Amato e i noti personaggi dell'antipolitica invece che prendersela con Moffa o la Chiesa Romana.
La terza osservazione riguarda l'Euro, minacciato secondo Scalfari, dai poteri della Cupola. È vero il contrario. L'euro fu introdotto con il sostegno dei centri finanziari della Triade spiegando ai governi ed agli scettici che doveva costituire l'ombrello a difesa della diversità dei sistemi produttivi e sociali europei. Non tutti hanno creduto alla favola, ovviamente. Come dimostrano gli ultimi atti della Commissione a proposito del Piano di stabilità, di fronte alla speculazione finanziaria e alla grave crisi sociale e economica da questa prodotta non si interviene con misure di controllo sui centri finanziari ma ponendo vincoli ai governi nazionali ed ai bilanci pubblici, impedendo iniziative rivolte a limitare i danni della speculazione finanziaria sui sistemi produttivi locali, sull'occupazione e sui sistemi di welfare europeo. Questo accompagnato da misure della Bce che fanno di questa lo strumento di equilibrio a favore dell'economia tedesca e delle speculazioni finanziarie dei centri finanziari di Londra e Francoforte. La Germania sta facendo passare come una politica di suoi aiuti ed impegno ai paesi colpiti dalla crisi quello che in realtà è un modo di far pagare agli europei ed ai cittadini di Grecia e Irlanda le speculazioni finanziarie delle banche tedesche verso questi paesi, e le misure di rigidità di bilancio e di tagli ai settori sociali con il mantenimento del livello delle spese militari di questi paesi per garntire forniture dalle industrie tedesche.
Ultima considerazione: le cose non stanno come sostiene Scalfari; non è la Cupola che vuole dividere l'euro, ma il contrario. L'euro, dall'essere l'ombrello protettivo dei paesi europei, si è trasformato nella sua camicia di forza saldamente protetta, anche in questo caso, dal ricorso all'autonomia della Bce. Autonomia dai governi e dai cittadini e non dai centri finanziari che ne occupano le posizioni di potere. I paesi che sono restati fuori dell'euro proteggono la loro autonomia di intervento politico sia rispetto alle proprie Banche centrali che da quella europea. Parlo della Danimarca, della Svezia e della Gran Bretagna. Se l'euro è divenuto la moneta tedesca e dei centri finanziari globali è ovvio che altri paesi europei, a difesa dei propri sistemi produttivi e delle loro scelte di società, si diano una propria moneta a questi corrispondente. D'altronde lo stesso Scalfari esprime tutto il suo pessimismo nella possibilità di trasformare l'Euro e l'Ue in qualcosa di diverso. La ripresa economica e produttiva da tutti richiesta è possibile solo se si restituisce ai governi ed ai cittadini la sovranità sulle politiche economiche e si riporti il sistema monetario dentro queste scelte. Non si può pensare che ogni stato esca oggi singolarmente dall'euro ma l'unico modo per evitarlo è che l'Europa ritrovi una sua dimensione confederale a livello istituzionale e monetario. L''istituzione di una moneta sud-Europea (Francia, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo) è l'unica via di uscita positiva dalla crisi attuale se si vuole impedire la frammentazione totale dell'Ue.
Nell'articolo pubblicato su il manifesto del 17 novembre (Il neoambientalismo italiano) Alberto Asor Rosa riprende una riflessione di Guido Viale ( il manifesto del 7 novembre) in merito ai modi del cambiamento (nella produzione, nel modello di sviluppo) - che per Viale non possono che partire "dal basso" - svolgendo alcune considerazioni in ordine agli ostacoli che a tale cambiamento si oppongono. Oggi assistiamo a una crescente diffusione mediatica delle nuove tecnologie non inquinanti come: solare, eolico, fotovoltaico, che va nella direzione di una sorta di vero e proprio nuovo business. L'impressione è che lo sviluppo - questo malsviluppo - rimane una variabile indipendente da realizzare semmai non più attraverso l'uso dei fossili, ma delle energie alternative. Lungo questa strada è mia opinione che non si produce alcun nuovo e vero cambiamento, ma solo una correzione di rotta che, prima o poi, tornerebbe ad essere ortogonale all'ambiente. E infatti a Viale non sfugge il fatto che la produzione di energie alternative dovrebbe avvenire in concomitanza di una nuova classe dirigente e il loro utilizzo in modo diffuso a livello di singoli e comunità, fino a produrre un cambiamento anche antropologico degli stili di vita e dei comportamenti individuali. Del resto lo stesso problema si presenta per lo smaltimento dei rifiuti: è ormai noto che la raccolta differenziata non è solo una opzione tecnica, ma, prima ancora, culturale e antropologica (facendo raccolta differenziata ci si rende conto di ciò che scartiamo e come viviamo). L'attuale modello di consumi e di stili di vita (almeno oggi nel mondo occidentale) non è sostenibile neppure se si sostituisse tutta l'energia fossile consumata con energia pulita. Inoltre le fonti energetiche rinnovabili non basterebbero mai (almeno oggi) a rimpiazzare l'attuale fabbisogno energetico. E allora?
Ecco che subentra la centralità della questione culturale. Consumare meno e meglio, o diversamente, è la ricetta del futuro. In questa prospettiva, l'uso di fonti energetiche rinnovabili costituirebbe, come nel caso della raccolta differenziata, di innescare una «rivoluzione culturale» il cui obiettivo diventa quello dell'abbandono dell'attuale modello di sviluppo verso stili di vita più sobri e in armonia con l'ambiente. Ma questa operazione, appunto, è tanto più efficace quanto più scelta consapevole delle comunità insediate (vedi l'esempio delle «mamme vulcaniche» di Terzigno). Sempre in questa prospettiva il ruolo virtuoso del territorio diventa strategico: da supporto fisico inerte produttore di rendite parassitarie a luogo dell'abitare, territorio di comunità, luogo esso stesso di produzione. Ma veniamo all'articolo citato; Asor Rosa sostiene che esistono tre ostacoli al cambiamento dal basso e che di questi tre il primo: «il conflitto inesauribile e insanabile (...) con i poteri forti dell'economia, della speculazione e dello sfruttamento» costituisce, rispetto agli altri due (l'ideologia dello sviluppo e l'assenza delle forze politiche sulla questione ambientale) il nemico naturale di ogni difesa del territorio, essendo gli altri due «invece, nemici occasionali, episodici e dunque parzialmente recuperabili». Ebbene io penso, pur condividendo la tesi di Asor Rosa, che se il primo degli ostacoli citati costituisce una resistenza tenacissima al cambiamento anche il secondo ostacolo da lui citato (che per semplicità chiamo l'ideologia dello sviluppo), rappresenta un nemico altrettanto tenace del primo. Siamo davvero convinti che l'ideologia dello sviluppo, di questo sviluppo, sia giunta a capolinea? Paradossalmente, a me sembra, che la presunta fine di questo modello sia più nei fatti che nelle idee delle persone. E infatti molte delle calamità disastrose in Italia e fuori dal paese testimoniano che oggettivamente questo modello di sviluppo produce ormai un altissimo livello di aggressività nei confronti dell'ambiente, tale da mettere a repentaglio gli ecosistemi naturali di supporto alla vita.
Tuttavia dal punto di vista culturale (e ancor più politico) siamo così imbevuti di questa ideologia da far fatica a pensare che possano esistere modi diversi di benessere. Implicitamente funziona una sorta di automatismo antropologico secondo cui abbandonare questa strada significherebbe regredire nel passato del sottosviluppo. Le idee e le abitudini (ancorché sbagliate e destituite di fondamento) sono tenaci a morire (proprio come il berlusconismo) e tendono a persistere anche quando ormai sono mutate le condizioni che le hanno prodotte, se nel frattempo non si affermano nuove idee e nuove abitudini più convincenti e più adeguate al cambiamento.
Sto parlando, per intenderci, di quella cosa chiamata da Gregory Bateson «ecologia delle idee». Bateson soleva dire che se vogliamo raggiungere un fine, diciamo così, ecologico allora anche i mezzi che utilizziamo per raggiungere questo fine devono essere altrettanto ecologici. Molti dei nostri comportamenti di sinistra peccano di questo vizio, una sorta di scissione (antiecologica) tra pensiero ed azione ogni qualvolta, ad esempio, che un'amministrazione (di sinistra) ritiene (e decide di conseguenza) che fare grandi opere, celebrare grandi eventi, far diventare le nostre città come Barcellona o Parigi o Dubai, sia un segno di modernizzazione. Tutto questo per dire che nel grande convegno annunciato (e benvenuto nel panorama italiano) da Asor Rosa sul tema «disastro Italia», sarebbe forse opportuno lasciare lo spazio e l'opportunità per parlare anche del disastro conseguente alle nostre idee antiecologiche (non meno dannose dei combustibili fossili) che pure albergano nella sinistra. Idee come: competizione, efficacia, efficienza, modernismo, innovazione, velocità (alta velocità)... e la lista sarebbe assai lunga a volerla stendere.
La globalizzazione è in mano alle corporations. È in crisi questa società il cui unico scopo è crescere economicamente. E il capitalismo non esce dal binomio crescita-profitto. Urge una «rivoluzione», un nuovo modello di sviluppo. Ma la sinistra tutta, dopo l'89, ha smesso di pensare e di proporre una alternativa
Ripresa, rilancio della produzione, aumento del Pil, crescita... Questi sono gli strumenti insistentemente indicati da economisti, governanti, industriali, politici, per il superamento della crisi. Che ne pensa?
Il mio parere è molto preciso. Ritengo che ci sia veramente un errore di fondo nello scopo finale di tutte le politiche, che è quello del progresso economico. Come ha appena detto lei, gli economisti non pensano ad altro: aumentare produzione e produttività, a tutti i costi. Così quella che era la molla fondamentale del capitalismo, il progresso economico, è diventata molla fondamentale di tutti i sistemi; e al capitalismo di mercato si è aggiunto il capitalismo di stato. Vedi la Cina: dove accadono esattamente le stesse cose di sempre, a detrimento dei più deboli. Mentre dovunque quelli che Bobbio chiamava «diritti di seconda e terza generazione», con questa accelerazione del progresso economico a tutti i costi, vengono selvaggiamente conculcati. Come dice Robert Reich nel suo Supercapitalismo, «è stata sostituita la tutela dei diritti dei cittadini con la tutela dei consumatori». Ormai lo scopo è quello di creare sempre più benefici per i consumatori a scapito dei tradizionali diritti al posto di lavoro, alla sicurezza sul lavoro, alla pensione. Noti che lo sviluppo economico come fondamento dell'attività umana è presente anche nell'ultima enciclica di Ratzinger; in cui si sostiene che la globalizzazione serve a un progresso economico che poi si diffonde tra tutti i popoli. Che non è vero. E non è vero che - come si dice - sono scomparse le ideologie. Di fatto se n'è creata una nuova, che ha ucciso tutte le altre.
E questo inseguimento forsennato della crescita continua mentre la crisi ecologica (conseguenza proprio di un produttivismo insostenibile, per quantità e qualità) sta toccando livelli di rischio difficilmente reversibili, come afferma l'intera comunità scientifica. Possibile che personaggi di tutto rispetto - potentissimi manager, grandi industriali, economisti di fama mondiale, ignorino tutto ciò?
Il fatto è che appunto il problema prioritario rimane sempre quello della crescita e dello sviluppo economico, a cui tutto il resto viene sacrificato. E, attenzione, vengono sacrificate non solo le questioni di cui parlava lei, ma anche problemi come la fame nel mondo. Che dal 2007 si fa sempre più grave: ora si parla di un miliardo di persone sottoalimentate; e nessuno se ne occupa. Veramente l'ideologia dello sviluppo economico cancella qualunque problema che riguardi qualità della vita e diritti umani, mentre crea guerre senza senso... Si crea una società di cui l'unico scopo è il dovere di crescere economicamente: d'altronde in base a parametri del tutto sballati, come il Pil, che non considerano affatto la qualità della vita.
Ma, anche dando per scontato che questi signori siano del tutto disinteressati al sociale, di che cosa credono siano fatti automobili, computer, cellulari, grattacieli, armi... Non gli passa par la testa che sono «fatti» di natura e che se la natura va in malora la stessa cosa capita alla loro produzione?
No, non gli viene in mente. E le spiego perché. Perché è un problema che riguarda il futuro, mentre il presente è quello della crescita, del profitto immediato...
E però anche questo viene messo a rischio dagli eventi più recenti. Quella del Golfo del Messico è una catastrofe economica quanto ambientale.
Non c'è dubbio. Anche su questo sono d'accordo. Quando arriva la catastrofe poi se ne accorgono. E allora che fanno? Insistono sugli stessi schemi che hanno provocato la catastrofe: non hanno altro in testa. La letteratura apocalittica descrive tutto questo. Alcuni libri del genere mi hanno spaventato. Come Portando Clausewitx all'estremo di René Girard, il quale dice: «il riscaldamento climatico del pianeta e l'aumento della violenza sono due fenomeni assolutamente legati». E questa confusione di naturale e artificiale è forse il messaggio più forte contenuto in questi testi apocalittici. Martin Rees, grande astronomo di Cambridge, con Our final Century (Il nostro secolo finale), dubita che la razza umana riesca a sopravvivere al secolo in corso, proprio perché sta distruggendo il pianeta. E cose simili le dice anche Posner nel suo libro Catastrofe: con una popolazione mondiale che, secondo i calcoli, nel 2050 ammonterà a più di 9 miliardi di individui, ci saranno tremendi rischi di carestia: la terra non può dare più di quello che ha.
E queste cose si sanno. Ci sono anche economisti che criticano in qualche misura il capitalismo, ad esempio le grandi disuguaglianze sociali, la distanza tra lo stipendio di un manager e il salario di un operaio... Però nessuno pensa di rimettere in discussione il sistema, sperano di poterlo emendare...
Perché l'ideologia non lo permette. È una fede. Questi sono dei talebani, non può farli cambiare...
Ma il guaio è che questa sorta di riconoscimento del capitalismo come un dato di fatto immodificabile, sembrano ormai condividerlo anche a sinistra...
Certo, perché hanno scelto il riformismo, ormai quella è l'ideologia che ha vinto. Ed è un'ideologia che sta prendendo piede anche nelle religioni: non a caso ho citato l'ultima enciclica di Ratzinger.
Perché poi pensano che la crescita possa dare benessere a tutti quanti. Ma ormai è dimostrato che questo non accade. Se l'1% della popolazione del mondo detiene il 50% del prodotto...
Certo. Ma lei dimentica un'altra cosa. Che il 51%, e oramai anche più, della ricchezza mondiale è nelle mani delle grandi corporations, e a condurre l'economia non sono più gli stati: gli stati non contano più niente. Quindi chi comanda? Le grandi imprese. Hanno in mano la maggiore ricchezza del pianeta: devono sopravvivere e comandare. E allora... Guardi cosa succede alla delocalizzazione delle industrie che, pur di sopravvivere fanno di tutto, sconquassano le economie e i diritti e non gliene importa niente... L'arretramento della politica è dovuto proprio a questo fatto: che l'economia ha conquistato un predominio assoluto.
A questo punto le sinistre, che seppure faticosamente continuano a esistere, non dovrebbero considerare questa realtà, rifletterci su? Magari ricordando errori del passato; come il fatto che, per paura della disoccupazione tecnologica, il progresso l'hanno regalato al capitalismo: mentre la minaccia della crescita senza lavoro avrebbe potuto essere usata per ripensare l'intero rapporto tra produzione e vita... Ma hanno lasciato tutto in mano al capitale.
Dopotutto il progresso l'ha inventato lui... e se l'è tenuto ben stretto...
Be' per la verità l'ha inventato la scienza....
La quale è comandata dalla stessa ideologia...
Anche perché hanno bisogno di finanziamenti.... Però all'origine delle grandi trasformazioni tecnologiche c'è il pensiero di uno scienziato...
Non si può dimenticare comunque che non mancano intellettuali che discutono di queste cose... Amartya Sen ad esempio dice che non si può ridurre la democrazia al voto... che occorre una democrazia di larga discussione. E arriva a sostenere che con la discussione si eviterebbero le catastrofi naturali.
Le catastrofi naturali - come Lei ha detto con tutta chiarezza - non si evitano finché il prodotto continua a crescere. Perciò mi stupisco che neanche i pochi consapevoli della gravità della situazione ecologica, non trovino il coraggio di dire: basta crescere. Cioè basta capitalismo.
Basta capitalismo. Ma con che cosa lo si sostituisce? Nessuno ha un'idea in testa. Questa è la verità.
Eppure forse oggi non sarebbe impossibile farsela venire. La globalizzazione è un fatto che nessuno più nega. E certo esiste una globalizzazione economica ... e una globalizzazione culturale operata dai mezzi di comunicazione di massa... Ma non esiste una globalizzazione politica.
E non esiste una globalizzazione giuridica tra l'altro. Questa è a grande differenza con la globalizzazione di tipo medioevale, regolata dalla famosa Lex mercatoria, una legge elaborata dai mercanti, non da un singolo stato: e per suo mezzo il commercio funzionava. Adesso le grandi imprese lavorano tra di loro. Non c'è più una norma giuridica che ne disciplini i comportamenti: nei confronti della fame nel mondo, dello sfruttamento delle classi più povere, del lavoro minorile, della sicurezza sul lavoro che secondo Tremonti è un lusso. E ovviamente nemmeno nei confronti del pianeta.
E questo non si deve anche al fatto che una volta le sinistre facevano opposizione, e ora non la fanno più? O quanto meno la fanno solo riguardo ad alcune situazioni; le quali d'altronde non possono essere risolte a prescindere dal contesto generale. Come si diceva, la globalizzazione è una realtà governata dal grande capitale. Ma nessuno tenta di regolarla, e nemmeno di capirla. Sinistre comprese.
Ma la ragione c'è. Le sinistre hanno continuato a ragionare fino a quando esisteva il comunismo, che costituiva un'ideologia contrapposta a quella del capitalismo, e in qualche modo proponeva delle soluzioni alternative. Dopo la caduta del muro di Berlino cambia tutto. Questa è la verità. La politica sparisce, l'economia ha il sopravvento e s'impone come politica. Le sinistre accantonano il marxismo.
Dunque una sinistra organizzata di qualche peso non esiste. Però (pongo anche a Lei una domanda rivolta ai precedenti intervistati) esiste una massa di movimenti, di piccole e grosse aggregazioni di base, che in complesso, sebbene separatamente, vanno denunciando le peggio iniquità e assurdità del nostro mondo, tutte in pratica riconducibili alla logica del capitale. Pacifismo, femminismo, ambientalismo, colti magari in un solo aspetto dei singoli problemi (acqua, nucleare, Afghanistan, donne violentate, precariato giovanile, ecc. ecc.): non crede rappresentino in complesso quella che potrebbe essere la base per un grande rilancio di un'opposizione valida? Ma le sinistre non ci provano nemmeno...
Non ci provano perché manca l'ideologia unificatrice. Il marxismo è nato quando il capitalismo da mercantile è diventato industriale, e Carlo Marx ha elaborato un'ideologia completamente nuova. In questi anni, analogamente, si è verificata una nuova rivoluzione, la rivoluzione finanziaria. Contro la quale occorrerebbe una nuova ideologia. Il brasiliano Unger, filosofo del diritto di Harvard, in un libro molto bello, Democrazia ad alta energia, dice che, invece di garantire quella finta libertà contrattuale che sta alla base della rivoluzione finanziaria, occorrerebbe un'autorità mondiale capace di imporre nuove regole, e creare così le basi di una struttura diversa, a dimensione globale.
Ecco, non le pare che le sinistre dovrebbero pensare qualcosa del genere, magari sollecitando un incontro tra i non pochi intellettuali di valore che hanno trattato la materia ... Io da tempo penso a una Bretton Woods del XXI secolo...
Ma non basta più. Vuole la mia opinione? Rischiando l'accusa di leninismo? Bisogna fare la rivoluzione. La rivoluzione russa è quella che ha cambiato l'ideologia del capitalismo industriale. Qui se non c'è una rivoluzione vera cosa si fa?
Se lei parla di rivoluzione, tutti pensano subito ai cannoni... secondo il modello storico...
Che non è più possibile, ovviamente...
Appunto. Per questo parlavo di Bretton Woods, nel senso che occorrerebbe una iniziativa a livello mondiale, con l'autorità di imporre questi problemi, che sono noti ma non vengono affrontati.
Sì, la cosa dovrebbe partire dalle Nazioni Unite, l'ho scritto più volte...
Perché l'Onu dopotutto alcuni tentativi seri li ha fatti. A proposito di ambiente, sulla fine del secolo scorso ha promosso un paio di grossi convegni, molto più efficaci dei tanti che sono seguiti... E più volte, nei suoi Rapporti sullo sviluppo umano, ha preso posizione contro il consumismo, contro il Pil come misura di benessere, contro la guerra come soluzione dei problemi... E Ban Ki Moon si è spinto fino ad auspicare un contenimento del Pil...
Be' sì. In fondo, dopo la dichiarazione dei diritti dell'Assemblea generale dell'Onu del '48, qualcosa è accaduto: come dopo la dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789. Solo qualcosa di simile potrebbe cambiare la situazione: una rivoluzione di tipo mondiale, organizzata dalle Nazioni Unite, in cui si ridefiniscano i veri diritti, i principi per una vita diversa da quella voluta dal potere economico, e quindi una vita orientata dalla politica e non dall'economia. Poi mi accuseranno di essere un utopista... Però io credo che l'utopia sia decisamente meglio dell'apocalisse: che è l'alternativa che ci aspetta.
BIOGRAFIA
Guido Rossi è stato ordinario di diritto commerciale nelle Università di Trieste, Ca' Foscari di Venezia, Pavia e Milano, ed Emerito nell'Università L. Bocconi, poi docente di Filosofia del Diritto nell'Università Vita-Salute San Raffaele. Presidente della Consob dall'81 all'82, eletto senatore per la Sinistra Indipendente nella X Legislatura (1987- 1992), ha promosso le legislazioni antitrust, sulle Opa e sull'insider trading. Nell'89 ha sovrinteso ad operazioni finanziarie come l'acquisizione del Credito Bergamasco da parte del Crédit Lyonnais. È stato alla presidenza Ferfin-Montedison, e in seguito una prima volta alla guida della Telecom Italia. Ha tutelato per un anno gli interessi della banca olandese Abn Amro. Nel maggio 2006 è diventato, in seguito a «Calciopoli», commissario straordinario della Federazione Calcio. Vi rimarrà solo tre mesi. Il 15 settembre 2006, dopo le dimissioni di Marco Tronchetti Provera, viene nominato di nuovo presidente di Telecom Italia, incarico che lascerà nell'aprile 2007. Nel 2008 è consulente della Fiat nel tentativo di rilanciare la società in crisi. È direttore della Rivista delle Società dal 1975. È autore di diversi volumi tra i quali «Trasparenze e vergogna. Le società e la borsa», Il Saggiatore, 1982; «Il ratto del Sabine», Adelphi, «Il conflitto epidemico», Adelphi; «Capitalismo opaco» (con Federico Rampini), Laterza, 2005; «Il gioco delle regole», Adelphi, 2006, «Il mercato d'azzardo», Adelphi, 2008; «Perché filosofia», Editrice San Raffaele, 2008.