Un modello contro l’austerity per rilanciare la crescita
di Federico Rampini
New Deal o tagli di spesa? Non è solo in Europa che si scontrano la linea dell’austerity e quella della crescita. Il dibattito è iniziato ancora prima negli Stati Uniti. Lo innescò la maxi-manovra di spesa pubblica anti-recessiva (quasi 800 miliardi di dollari) che Barack Obama riuscì a far passare nel gennaio 2009, quando si era appena insediato alla Casa Bianca, la sua popolarità era ai massimi, e il Congresso aveva una maggioranza democratica. La riscossa degli avversari partì con il dibattito sulla riforma sanitaria, quando il Tea Party invase le piazze d’America accusando Obama di imporre il “socialismo” nella patria del libero mercato, e il partito repubblicano riconquistò la maggioranza alla Camera nel novembre 2010. Oggi la scelta tra New Deal e austerity è la posta in gioco della campagna elettorale, il 6 novembre scegliendo Obama oppure Mitt Romney gli americani voteranno per un presidente che incarna l’una o l’altra opzione. Due modelli di società: perfino più distanti qui in America di quanto siano diversi in Europa i programmi economici di François Hollande e Angela Merkel.
Almeno tre premi Nobel (Robert Solow, Paul Krugman, Joseph Stiglitz) più altri economisti autorevoli come Jeffrey Sachs e Robert Reich, invocano l’urgenza di un New Deal. È costante il riferimento con gli anni Trenta. Krugman non esita a definire la crisi attuale come una vera depressione, per l’immensa quantità di risorse inutilizzate (a cominciare dalla forza lavoro). Di conseguenza, torna attuale la lezione del grande economista inglese John Maynard Keynes: in situazioni come questa tocca allo Stato rilanciare la crescita, bisogna spingere sulla spesa pubblica (in deficit!) per colmare il vuoto di domanda privata (consumi e investimenti). Il New Deal di Franklin Delano Roosevelt fu questo: vasti programmi d’investimenti pubblici, a cominciare dalle grandi opere infrastrutturali, per dare lavoro ai disoccupati e supplire alla latitanza dell’iniziativa privata. Il New Deal fu anche un’altra cosa, complementare: raccogliendo esperimenti sbocciati in Europa (dalla previdenza di Bismarck in Germania alla società fabiana che prefigurò il laburismo inglese, alle socialdemocrazie nordiche), Roosevelt lanciò la costruzione di un Welfare State, che includeva pensioni pubbliche, digressisti
ritti dei lavoratori, una rete di sicurezza contro la povertà. Anche questa dimensione del New Deal – un patto sociale progressista – tornano di attualità oggi in un’America dove le diseguaglianze sono a livelli estremi, e i diritti sindacali sono stati limitati in molti settori.
Ancora un’analogia tra il presente e la Grande Depressione degli anni Trenta: la destra accusa un presidente democratico (Roosevelt, Obama) di soffocare la libertà americana imponendo lo statalismo e il socialismo; i conservatori premono per la rapida riduzione del debito attraverso
tagli feroci ai servizi pubblici e alla spesa sociale. 80 anni fa lo spauracchio usato nei comizi era l’Urss di Josif Stalin. Oggi invece è l’eurozona, che Romney descrive come una società sprovvista di ogni dinamismo perché oppressa dalle tasse e lobotomizzata dall’assistenzialismo. Una differenza notevole però c’è: mentre Roosevelt non esitava a circondarsi di consiglieri che erano socialisti, Obama se ne guarda bene. Il “keynesismo radicale” di Krugman e Stiglitz, pur essendo popolare nell’ala liberal del partito democratico e sui mass media pro-(New York Times, Msnbc) non ha diritto di cittadinanza a Washington. Nel dibattito politico quelle posizioni sono marginali. Gli equilibri politici al Congresso, sia oggi sia nella presumibile composizione post- elettorale, rendono improbabile un New Deal versione 2.0. A nulla servono i moniti di tanti esperti autorevoli, sul pericolo di “rifare un 1937”: cioè l’errore che Roosevelt commise quando cedette alle pressioni per un ritorno al rigore di bilancio, ridimensionò i grandi progetti del New Deal, e l’America ricadde nella recessione da cui sarebbe uscita solo con la seconda guerra mondiale. Oggi, proprio come nel 1937, il “partito dei tagli” non è soltanto repubblicano. Anche tra i democratici c’è una robusta corrente di moderati centristi – si rifanno alla Terza Via di Bill Clinton – i quali predicano moderazione nella spesa pubblica. Obama, pur avendo compiuto una sterzata a sinistra negli ultimi mesi della campagna elettorale, non può permettersi di proporre un vero New Deal. La prima ragione è la più ovvia: oggi il Welfare State esiste già, sia pure dimagrito dai salassi conservatori somministrati da Ronald Reagan in poi. La macchina della pubblica amministrazione è ben più grande e costosa rispetto ai tempi in cui Roosevelt la “costruiva” partendo da uno Stato minimo. La burocrazia e le tasse sono impopolari anche in una fascia di elettorato democratico. Riecheggiano nel dibattito americano posizioni che sono familiari agli europei. «Se il debito pubblico creasse lavoro, l’Italia con il suo debito-record dovrebbe avere da anni il pieno impiego », ha detto Mario Monti al festival La Repubblica delle Idee. «Se indebitarsi per crescere fosse virtuoso, allora non sarebbero esplose la bolla dei mutui subprime in America, e bolle immobiliari analoghe in Inghilterra, Spagna, Irlanda», dixit Angela Merkel. Perciò Obama è costretto a sforzi di innovazione: quando pensa al New Deal del XXI secolo, deve coniugarlo con le riforme del Welfare che tengano conto dello shock demografico, e deve pensare a strumenti di mobilitazione degli investimenti privati (nella Green Economy, nelle infrastrutture, nel digitale) che non comportino una dilatazione dell’intervento statale. Forse sta rifacendo un 1937? Per un New Deal più audace mancano i numeri al Congresso, e i consensi nella società.
IL Segreto di Roosevelt
di Guido Crainz
Quando Franklin Delano Roosevelt viene eletto Presidente degli Stati Uniti, nel novembre del 1932 – e ancor più quando si insedia alla Casa Bianca, nel marzo successivo – gli effetti devastanti della “grande crisi” del 1929 sono giunti all’estremo. In America, con il crollo della produzione e degli investimenti e la polverizzazione dei titoli azionari, con migliaia di fallimenti bancari e con tredici milioni di disoccupati (effetto anche delle scelte – tradizionali e del tutto inadeguate – del presidente uscente Edgar Hoover). E in Europa, dove lo scenario è reso ancora più cupo dall’ascesa del nazismo in Germania.
Roosevelt diventa dunque presidente in condizioni catastrofiche: «se c’è qualcosa da temere è la paura stessa », dice subito al Paese. E dà il segnale di una drastica inversione di tendenza con i primi “cento giorni”: così densi di provvedimenti, scrisse André Maurois, da «richiamare la narrazione biblica della creazione». Vi erano sullo sfondo le teorie economiche di John Maynard Keynes: «se Lei fallisse – scriveva a Roosevelt l’economista inglese – la scelta ragionevole risulterà gravemente pregiudicata in tutto il mondo». La “scelta ragionevole” aveva al centro una qualità nuova dell’intervento dello stato in economia e l’uso della spesa pubblica in funzione “anticiclica”:volto cioè a superare il ciclo economico sfavorevole rilanciando la domanda interna e il reciproco sostenersi di salari, consumi e profitti. Aveva al centro al tempo stesso l’avvio del welfare state, con l’introduzione della previdenza sociale. E con l’idea-forza che lo Stato non debba lasciare solo nessuno di fronte ai drammi del vivere. Di qui alcuni momenti centrali del New Deal rooseveltiano: l’assunzione nei corpi forestali di mezzo milione di giovani poveri; un intervento straordinario nella Valle del Tennessee che univa sistemazione idraulica dei terreni, sfruttamento delle risorse idroelettriche e sostegno agli agricoltori; il National Industry Recovery Act, che difendeva salari e libertà sindacali, e così via. Assieme a interventi sulle banche e sulla Borsa, misure fiscali progressive, garanzie ai piccoli risparmiatori e ai proprietari di casa minacciati dal pignoramento. Assieme alla scelta di far leva su un elemento decisivo: «con il miracoloso sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa – scriveva l’American Institute for Public Opinion fondato allora da George Gallup – per la prima volta nella storia ci dobbiamo confrontare con l’opinione pubblica come elemento determinante». La capacità di far leva su di essa per far rinascere la speranza fu uno dei punti di forza del New Deal, grazie anche alla scelta di Roosevelt di rivolgersi direttamente agli americani riducendo drasticamente la distanza fra la politica e il Paese: con quei toni e con quella capacità di dare risposte alle inquietudini che rendevano così efficaci i suoi colloqui radiofonici con la nazione, i “discorsi al caminetto”. E con il sostegno della parte più vitale della cultura americana, dal cinema alla letteratura. Così Roosevelt superò l’opposizione conservatrice dei potentati economici e della Corte Suprema, che annullò alcuni provvedimenti importanti, ed ottenne conferme elettorali eloquenti: e oggi giudichiamo il New Deal non solo per i suoi risultati nel breve periodo (decisivi, anche se non “miracolosi”) o per la sua proiezione nel futuro (che avrebbe cambiato sia l’economia che la politica) ma anche per la sua capacità di risollevare e trasformare un Paese restituendogli la fiducia in se stesso.
L’idea sbagliata dei tagli al bilancio.
Così rinasce il lavoro
Di Luciano Gallino
Di fronte a un’emergenza che si riassume in quattro milioni di disoccupati e altrettanti di precari, con una marcata tendenza al peggioramento, qualsiasi intervento in tema di occupazione dovrebbe presentare una serie di caratteristiche quali: creare in breve tempo il maggior numero di posti di lavoro; dare priorità alle fasce sociali più colpite, poiché un indicatore negativo che segna il 10 per cento per alcuni può toccare il doppio o il triplo per altri; privilegiare attività ad alta intensità di lavoro; indirizzare i nuovi occupati verso settori di pubblica utilità ed alta priorità, tipo, visto quel che succede, la messa in sicurezza antisismica degli edifici.
Gli interventi finora previsti in questo campo dal governo non presentano nessuna di tali caratteristiche. Dal lato della spesa si pensa ancora una volta a grandi opere, che richiedono anni prima di vedere assunto un solo lavoratore, e in ogni caso ne occupano assai pochi in rapporto al capitale fisso impiegato. Dal lato degli incentivi fiscali, tipo i 10.000 euro di sgravi promessi alle imprese per ogni giovane che assumono, si tratta di vetusti incentivi a pioggia: invece di piantare un albero qui e ora, si irrora un campo sterminato sperando che in futuro spunti non si sa dove qualcosa di simile a un albero.
Inoltre il governo ha peggiorato la situazione dell’occupazione, sia nel settore pubblico che nel privato, con i tagli ai bilanci che ha eseguito o sta predisponendo. Sembra predominare in esso, per non parlare dei commentatori che ogni giorno lo spronano in questo senso, l’idea che ogni forma di spesa pubblica sia un costo da contenere il più possibile. È un’idea iper-liberale, che i conservatori americani riassumono nella battuta “bisogna far morire di fame la bestia”, cioè lo stato. Fermo restando che ogni genere di spreco nella PA va combattuto, bisognerebbe recuperare la ovvia verità che gli stipendi pagati dallo stato, nonché gli acquisti di beni e servizi che effettua, sono tutti soldi che entrano nel circuito dell’economia al pari di ogni altra spesa, trasformandosi in domanda e occupazione. Per cui i tagli alla spesa pubblica sono in ultimo efficaci contributi alla crescita non del Pil, bensì della disoccupazione.
A fronte del predominio di questa idea nel governo e nei partiti che lo sostengono, ripetere che lo stato dovrebbe finalmente decidersi a operare come datore di lavoro di ultima istanza – come chi scrive prova a dire da tempo muovendo proprio dalle realizzazioni del New Deal rooseveltiano – sembra davvero una causa persa. Con un piccolo segno in controtendenza. Il ministro dell’Istruzione Profumo ha annunciato che il suo ministero intende avviare entro il 2012 le procedure per l’assunzione di 25.000 insegnanti, metà per concorso e il resto attingendo dalle graduatorie dei precari della scuola. Non è esattamente il New Deal, quando con il programma Federal Emergency Relief Act fu ridato un lavoro a 100.000 insegnanti disoccupati e al tempo stesso furono aiutati nel proseguire gli studi 2 milioni di studenti delle scuole superiori e dell’università. Ma è quanto meno un segno che in un settore vitale come l’istruzione, dove la spesa pubblica è assolutamente insostituibile, pena l’esclusione da esso di milioni di giovani, l’idea di tagliarla ancora perché i costi della macchina statale vanno sempre e comunque ridotti, è stata riposta nel cassetto. Dove si può sperare sia raggiunta presto da altre idee controproduttive intorno allo stesso tema.
Alla radice dell’esperienza del New deal di Roosvelt c’è una verità che il pensiero corrente dimentica. Proporre lo Stato come il soggetto che determina le scelte della produzione, e introdurre i bisogni collettivi come l’argomento e l’obiettivo del consumo significa indurre una trasformazione radicale (alla radice) del sistema economico-sociale nel qualie viviamo: il capitalismo. E' anche evidente che lo stesso termine di "crescita" ha un senso del tutto diverso dquello che ha assunto nel dibattito attuali.E’ certo questa la ragione di fondo per la quale tutte le proposte che vanno in questa direzione (dal “piano Di Vittorio del lontano 1947 fino alle recenti proposte nate anche nel nostro paese (Guido Viale e Luciano Gallino, per citare solo quelli più frequentemente ripresi da eddyburg)sono cadute nel vuoto: un vuoto non riempito dalle “sinistre” politiche e sociali, con l‘unica eccezione della Fiom.
Si veda in proposito, su eddyburg: l’ eddytoriale 144e il lavoro su eddyburg
Liberista nel mondo occidentale, si potrebbe dire che la politica fu costretta a spogliarsi progressivamente delle proprie competenze e dei propri strumenti regolamentativi delegandoli interamente al mercato, da tutti identificato come unica istituzione capace di garantire allocazioni efficienti e massimizzare il benessere sociale. Questo processo di spoliazione è stato attuato obbligando le autorità pubbliche a scrivere delle regole del gioco che tutelassero «i mercati» da ogni infiltrazione esterna - soprattutto quelle dello Stato - e che impedissero di alterarne il libero funzionamento. Si tratta di una ideologia che, nonostante la recente crisi, trova ancora pienamente corso in quasi tutti i maggiori consessi internazionali. Non c’è infatti documento ufficiale della Bce, dell’Ocse o della Commissione europea che non contenga fra le principali raccomandazioni un solenne richiamo alla necessità di una sempre maggiore liberalizzazione dei mercati – non solo quelli dei beni e dei servizi, ma anche quello del lavoro - per rilanciare la crescita e l’occupazione.
Si tratta di un equivoco che trova purtroppo terreno fertile soprattutto nel nostro Paese. Basti pensare che le misure per la sviluppo varate negli ultimi mesi dal governo sono state identificate quasi unicamente con il cosiddetto «pacchetto liberalizzazioni», quasi che un nuovo miracolo italiano potesse arrivare dallo sconto di pochi euro sul prezzo dell’aspirina o dalla possibilità di trovare un taxi libero con maggiore facilità. Il paradosso è che, mentre il nostro Paese è ancora bloccato a parlare delle sorti progressive del libero mercato, nella patria dell’ultraliberista Margaret Thatcher ci si inizia a muovere in direzione diametralmente opposta.
E lo si fa in un mercato – quello dell’energia elettrica – dove la furia liberalizzatrice della Lady di Ferro conseguì forse i maggiori successi per la rapidità con cui venne demolito il monopolio pubblico. Il 22 maggio scorso, sulla scorta delle indicazioni fornite da un Libro Bianco pubblicato alcuni mesi fa, il ministero per l’energia e il cambiamento climatico del governo guidato dal conservatore David Cameron ha mandato in pensione la storica liberalizzazione del sistema elettrico inglese avviata alla fine degli anni Ottanta. Gli ambiziosi obiettivi fissati dall’agenda Europa-2020 per il contenimento delle emissioni climalteranti e per l’adozione di fonti di energie rinnovabili, uniti alla consapevolezza che da qui a fine decennio oltre un quarto della potenza energetica installata nel Regno Unito dovrà essere sostituita per obsolescenza, ha fatto compiere al primo ministro inglese scelte assai poco scontate per un partito conservatore. A preoccupare il governo di Sua Maestà non sarebbero soltanto i futuri investimenti, ma anche una sempre più probabile distorsione dell’offerta di energia verso una sola fonte primaria.
L’intervento pubblico viene quindi descritto come necessario per correggere gli errati incentivi altrimenti forniti dal mercato. Come ha spiegato con invidiabile chiarezza il Segretario di Stato per l’energia Chris Huhne presentando il progetto di legge, «così come è oggi il mercato non è in grado di rispondere adeguatamente alle sfide della modernità». Per questo a partire dal 2013 saranno introdotte avanzate forme di programmazione, prezzi minimi garantiti, contratti differenziali e decisioni fortemente centralizzate. In pratica sarà il governo di Londra a decidere quali fonti andranno scelte, in quali quantità, dove dovranno essere localizzati gli impianti e quali saranno i costi massimi consentiti, i prezzi e la durata dei contratti. Anche volendo trascurare le motivazioni profonde che sorreggono il brusco cambiamento di rotta del governo britannico, che nella patria delle liberalizzazioni si riscopra l’esigenza di accompagnare il mercato con solidi interventi di politica economica e programmazione di lungo periodo dovrebbe quantomeno sollecitare qualche ripensamento anche nel nostro paese.
L’avversione ideologica a questo tipo di politiche – si parli di industria o di servizi - rischia di danneggiare sul nascere le possibilità di ripresa del nostro sistema economico nei prossimi anni. Ogni tanto bisognerebbe ricordare che il mercato raramente guarda lontano e che, per i lunghi orizzonti, c’è sempre bisogno della politica
A quanto mi consta, solo nella lingua italiana vi è distinzione terminologica in campo economico tra liberalismo e liberismo, risalente soprattutto a Croce. Alcuni difendono questa nostrana distinzione.
Francesco Meli
Caro Meli,
E ffettivamente la distinzione appartiene quasi esclusivamente alla lingua e alla cultura italiane. Quando il Corriere, negli scorsi mesi, ha pubblicato il lungo dibattito su questo tema fra Benedetto Croce e Luigi Einaudi, ho ricordato che la parola «liberismo» non ha corrispondenti nelle lingue dei principali Paesi occidentali. Il dizionario italo-inglese offre free trade, free enterprise; il dizionario italo-francese suggerisce libéralisme, vale a dire la stessa parola che traduce l'italiano liberalismo; il dizionario italo-tedesco propone freihandel(libero commercio), freie wirtschaft(libera economia). Altri, fra cui gli spagnoli, preferiscono parlare di liberalismo economico.
Per Benedetto Croce, tuttavia, la distinzione era necessaria perché consentiva di evitare confusione fra un concetto che appartiene alla sfera morale (liberalismo) e un concetto che appartiene alla sfera economica (liberismo). Mentre il primo definiva il trionfo della libertà, il secondo era per lui uno «schema astratto» (noi diremmo oggi una ideologia), vale a dire una ricetta con cui si vorrebbero risolvere, una volta per tutte, i problemi pratici che un governo liberale può invece essere costretto ad affrontare con formule e mezzi diversi. A queste affermazioni di Croce, Einaudi replicò pragmaticamente che l'economista non deve essere un ideologo e che possono esservi circostanze in cui certe soluzioni non liberiste (dazi protettivi, nazionalizzazione di servizi pubblici) possono essere convenienti.
Aggiunse, per meglio dimostrare la sua disponibilità al confronto, che possono esservi addirittura circostanze in cui il liberismo viene praticato da un governo assoluto e suscita critiche liberali, come accadde in Francia nell'ultima fase del Secondo Impero, prima della guerra franco-prussiana del 1870 (se fosse ancora con noi, Einaudi non mancherebbe di ricordare che anche la Cina comunista è economicamente liberale e politicamente illiberale). Ma Einaudi, a differenza di Croce, era profondamente convinto che tra libertà economica e libertà politica esistesse un nesso importante. Questo non significa, beninteso, che una economia liberale abbia l'effetto di produrre necessariamente un sistema politico liberale. Ma tra l'economia di mercato e un regime autoritario esistono contraddizioni che possono, in ultima analisi, mettere in discussione il funzionamento del sistema. Gli scandali cinesi degli ultimi tempi potrebbero esserne la conferma.
Non è vero, invece, che la parola e il concetto appartengano soltanto al pensiero di Benedetto Croce. Dal grande Dizionario di Salvatore Battaglia risulta che la parola liberismo fu utilizzata anche negli scritti di Alfredo Panzini, Riccardo Bacchelli, Antonio Gramsci, Piero Gobetti. Credo che la spiegazione di questa peculiarità italiana debba essere ricercata nella storia politica del Paese dopo l'Unità. Cavour fu certamente liberale e adottò negli anni del suo governo una politica economica ispirata dai principi delfree tradee dellaissez faire. Ma la Destra storica, pur continuando a definirsi liberale, giunse rapidamente alla conclusione che l'unificazione di un Paese, soprattutto se formato da sistemi e stadi di sviluppo molto diversi, esigesse un forte intervento dello Stato, principalmente nella costruzione e nella gestione delle infrastrutture.
Quando fu ministro dei Lavori pubblici, dal 1873 al 1876, Silvio Spaventa propose una legge per la nazionalizzazione della rete ferroviaria. La legge fu osteggiata dai liberisti toscani, interessati al finanziamento e al controllo di nuove linee, e la loro opposizione provocò la caduta della Destra storica. Spaventa era zio e tutore di Croce. Forse il filosofo napoletano, nella sua disputa con Einaudi, difendeva implicitamente la reputazione liberale del suo tutore.
Precisa e utile la nota di Sergio Romano, composta nell’ambito della cultura liberale italiana della quale l’autore partecipa. Per integrarla con una visione culturale diversa riporto alcune frasi dal mio Memorie di un urbanista, a proposito della traduzione italiana del titolo del libro di David Harvey, A Brief History of Neoliberalism, tradotto in italia col titoloBreve storia del Neoliberismo.
«In Europa i termini “liberalismo” e “liberismo” sono distinti e collegati. Entrambi si riferiscono a una concezione sostanzialmente conservatrice (di cui il primo esprime l’ideologia e la dottrina politica, il secondo la teoria e la pratica economiche), mentre negli Usa una posizione “liberal” è progressista. Come risulta invece dalla definizione di Harvey, il “neoliberalism” esprime un pensiero conservatore: da ciò probabilmente la traduzione dell’americano “neoliberalism” nell’italiano “neoliberismo”.
In particolare osservavo che, nell’ambito di una visione marxista, «Harvey vede nel “neoliberismo” (neoliberalism) non un nuovo “liberali- smo” (liberalism), ma una teoria economica che ha sostituito l’”embedded libe- ralism”, cioè quella forma di organizzazione economico-politica nella quale esisteva, accanto al mercato, una trama di restrizioni sociali e politiche e l’utilizzo di politiche fiscali e monetarie keynesiane che limitavano e orientavano la strategia economica e industriale, al fine di raggiungere la piena occupazione, la crescita economica e il benessere dei cittadini. Per Harvey il neoliberismo è una teoria di pratiche di politica economica piuttosto che una completa ideologia politica: più precisamente, è “un progetto di lotta di classe”. La mancanza di una dottrina apertamente dichiarata, di una ideologia (come erano anche il comunismo e il socialismo) lo rende più idoneo ad essere accettato e condiviso, perché apparentemente non schierato, neutrale.»
Il crollo in Borsa della quarta banca spagnola, Bankia (meno 29%), la corsa al ritiro dei conti correnti nelle sue agenzie (pubblicata da El Mundo, ma smentita dal governo), e il declassamento da parte di Moody’s del rating di 16 banche spagnole, praticamente di tutto il sistema finanziario iberico, comincia in queste assolate e polverose vie deserte a metà strada fra Toledo e Madrid. Cinque o sei anni fa, quando l’edilizia tirava, Francisco Hernando, detto Paco "el pocero", il più famoso, furbo e avventuroso, "palazzinaro" del paese, riuscì a raccogliere milioni di euro in prestito per il suo progetto. Una urbanizzazione da 60mila abitanti non troppo lontano dalla capitale per risultare appetibile ad una giovane classe media in fuga dai costi esorbitanti degli appartamenti in città. Angelica, la benzinaia, ride ancora. Se li ricorda quando arrivarono Paco e i suoi operai, quei poveracci a cui il "palazzinaro" non ha mai pagato neppure i contributi pensione e malattia, per trasformare i campi della Sierra dietro al suo distributore in una nuova città.
Era terreno agricolo ma bastò ungere un po’ il sindaco dell’epoca per costruirci giardini, piscine condominiali, qualche campetto da tennis, il rettangolo della pallacanestro e un piccolo stadio. Il tutto in mezzo a numerosi casermoni stile edilizia popolare, ma appena un po’ più chic, lungo i quali oggi non passeggia proprio nessuno. Le finestre, con le persiane di plastica rosse, sono tutte chiuse dal primo al settimo piano. La guardiola del portiere abbandonata, perfino l’ufficio vendite all’angolo del primo edificio è chiuso. Così per tutte le strade, a destra e a sinistra, un edificio dietro l’altro. Alcuni lavori sono stati lasciati a metà, quando s’è chiuso il rubinetto dei prestiti. Dopo gli ultimi due edifici e prima del laghetto ci sono le fondamenta già pronte per altri palazzi mai costruiti e molte strade non portano da nessuna parte, finiscono all’improvviso nei campi. Ai prezzi del 2007 un appartamento di 65mq da queste parti costava più di 200mila euro, oggi le banche che hanno messo i soldi e poi hanno espropriato "el pocero", finito nel frattempo in bancarotta, cercano di venderli a 60mila euro, o di affittarli per 400 al mese. Ma non c’è niente da fare. "El residencial Francisco Hernano", come recita la scritta all’ingresso dell’urbanizzazione, è spaventosamente vuoto. «In cinque anni avranno venduto forse un migliaio di appartamenti», dice Angelica, «e gli unici residenti che vedo io sono quelli che vengono qui a lamentarsi perché gli hanno rubato qualcosa».
In tutta la cintura intorno a Madrid ci sono villaggi nuovi e abbandonati come a Seseña. Adesso li chiamano "low cost" perché pur di vendere qualcosa le agenzie immobiliari delle banche fanno prezzi stracciati. Dopo la sbornia dei soldi facili per la speculazione edilizia, la crisi ha trascinato tutti nel baratro e in rosso per i prestiti ormai a fondo perduto ci sono i maggiori istituti di credito del paese. Nessuno escluso. In tutta la Spagna ci sono più di un milione di nuovi appartamenti invenduti e, sui bilanci delle banche, pesa ogni giorno di più la perdita di valore degli immobili senza proprietario. È il prossimo crac che genera gli incubi nei sonni del presidente del governo conservatore, Mariano Rajoy, e nel quale sono coinvolti tutti: Comuni, Regioni, politici di destra e di sinistra, a cominciare da Aznar, l’ex leader dei Popolari, che negli anni Novanta liberalizzò l’uso del suolo per lanciare l’ultima cementificazione delle coste spagnole. Anche nelle zone di villeggiatura il valore degli immobili crolla. È un segno dei tempi. Anche il turismo si contrae e d’altra parte da mesi la Spagna registra un calo nel totale della sua popolazione: le giovani coppie di diplomati e laureati senza lavoro lasciano il paese per cercare fortuna dall’altra parte dell’Atlantico.
La catastrofe del "ladrillo", il mattone, è la vera spina nel fianco dell’economia che rischia di rendere quasi automatico il contagio delle peste mediterranea, quella malattia che già soffia violenta fra Atene e Lisbona. La Spagna è in recessione da mesi e Rajoy non ha i soldi per salvare le banche. Finora il primo e unico intervento del governo, la nazionalizzazione di Bankia, è stato un disastro. Nell’incertezza generale ieri le azioni di Bankia hanno perso in Borsa il 29 per cento. Il governo nega che sia una conseguenza di un ritiro massiccio dei depositi ma il panico è in agguato e sorvola come un nugolo di corvi i segreti palazzi dei banchieri. L’altro fronte dell’emergenza sono i debiti contratti dalle Comunità autonome. Ieri l’agenzia americana Moody’s ha declassato anche i bonos sul debito emessi dalla Catalogna e da Murcia al livello dei titoli spazzatura, Junk bond. E tagliato il rating anche dell’Andalusia e dell’Estremadura. L’agenzia ritiene che nessuna di queste quattro grandi regioni spagnole riuscirà a raggiungere gli obiettivi di riduzione del deficit nel 2013 e che tutte, senza un intervento del governo centrale, rischiano di non poter onorare i loro debiti.
La flessibilità aumenta l'occupazione? Tagliare le spese dello Stato aiuta l'economia? La competitività valore assoluto? Tutte bugie. Un saggio di Luciano Gallino illustra le disastrose conseguenze economiche e sociali del neoliberismo, che ha elevato la disuguaglianza a ideale di sviluppo.
Il povero ragioniere Ugo Fantozzi, reduce da una delusione amorosa in ufficio, prese in mano le “letture maledette” del compagno Folagra, il rivoluzionario con la barba lunga e la sciarpa rossa emarginato da tutti. Mesi di studio, e all'improvviso, curvo sui libri accatastati in salotto, sbatté il pugno sul tavolo: «Ma allora mi han sempre preso per il culo!». Quasi come una rivelazione divina: Fantozzi aveva capito tutto.
Ecco, la lettura dell'ultimo lavoro di Luciano Gallino .La lotta di classe dopo la lotta di classe (intervista a cura di Paola Borgna, editori Laterza) può sortire lo stesso effetto. Anche in un pubblico colto, sobrio e moderatamente di sinistra. Perché smonta uno a uno i dogmi dell'idea, anzi dell'ideologia moderna liberista, così trasversale, così apparentemente intangibile, come se non ci fossero altri schemi possibili all'infuori. E Gallino lo fa mettendo in fila dati, studi, e non opinioni. Senza facili populismi, senza scorciatoie preconfezionate. Spiegando che la lotta di classe esiste, eccome. Solo che si è ribaltata: è il turbo capitalismo che ha ingranato la quarta contro le conquiste dei movimenti operai ottenute fino agli anni ’70. E i lavoratori sono sempre più divisi al loro interno, impegnati in un’altra lotta, quella tra poveri.
Un testo imprescindibile per capire dove stiamo andando, e seguendo quali (folli) logiche. Un testo che a sinistra dovrebbe – o potrebbe, chissà – diventare una sorta di bibbia laica. Era un'ottima occasione per parlarne direttamente col professore e sociologo piemontese.
Partendo dal tema del momento: dopo aver letto il libro sembra di capire che l'attacco all'articolo 18, ma anche semplici frasi come quella di Monti «le aziende non assumono perché non possono licenziare», siano in realtà parte di un disegno ben preciso: quella lotta di classe alla rovescia di cui parla nel libro. È così?
«Direi di sì. Si tratta di idee che circolano da decenni, che fanno parte della controffensiva iniziata a fine anni ’70 per superare le conquiste che i lavoratori avevano ottenuto a caro prezzo dalla fine della guerra. Riproposte oggi sembrano sempre più idee ricevute, piuttosto che analisi attinenti alla realtà. Dottrine neoliberiste imposte adesso con la forza, combattendo i sindacati, comprimendo i salari e tagliando le spese sociali».
Lei scrive: «La correlazione tra la flessibilità del lavoro – che tradotto significa libertà di licenziamento e insieme uso esteso di contratti di breve durata – e la creazione di posti di lavoro non è mai stata provata, se si guarda all’evidenza accumulatasi con i dati disponibili». Qui da mesi e mesi alla tv ci riempiono la testa col “modello danese”, poi quello tedesco... Ci fu la riforma Treu nel '96, poi quella Biagi, e ancora non sembra bastare. Allora forse la Cgil non dovrebbe firmare la riforma, anche se la clausola del reintegro venisse reintrodotta, perché è tutto l'impianto ad essere sbagliato...
«La Cgil è in una situazione molto difficile. Anche perché gran parte degli altri sindacati e dei media sono favorevoli a questa visione neoliberale. L’Ocse non è mai riuscita a provare l’esistenza di una correlazione tra flessibilità e maggiori posti di lavoro, e in alcune sue pubblicazioni arriva perfino ad ammetterlo. E anzi, c’è un aspetto paradossale: usando gli stessi indici dell’Ocse, si scopre che ad aumentare dovrebbe essere la rigidità, semmai. Perché dopo la riforma del 2003, che ha aumentato la cosiddetta flessibilità in Italia e che la rende superiore ad altri paesi come Francia, Germania e Inghilterra, i nostri indici occupazionali sono peggiorati».
La sinistra sembra giocare sempre in difesa. Passa per conservatrice. Che poi in effetti è vero, perché difende diritti acquisiti. Eppure il messaggio non passa, e se passa lo fa negativamente. “La vecchia sinistra, anti-moderna”. Il progresso sembra appannaggio di chi professa lo smantellamento del modello sociale. C'è un problema di comunicazione? Perché la sinistra ha così tante difficoltà a farsi capire da chi dovrebbe difendere?
«C’è un problema non grosso come una casa, ma come un grattacielo. Se a sinistra non c’è un partito di grande dimensioni che non difende il “Lavoro” significa che siamo davvero malmessi e che l’impresa diventa ancor più ardua. E poi la sinistra ha contro la maggior parte dei media e della classe politica, anche quella della “sinistra” stessa. Perché sono state introiettate quelle dottrine neoliberiste di cui prima. La lotta ideologica contro i sindacati per adesso ha vinto, culturalmente in primis. Basta vedere il calo degli iscritti al sindacato nei Paesi sviluppati. E questo ha inciso anche sulla partecipazione dei cittadini alla vita politica».
Verrebbe da dire che la fine delle ideologie è una grande bugia. Perché una è sicuramente rimasta, viva e vegeta....
«La fine delle ideologia è une delle più robuste e articolate ideologie in circolazione. È servita ad assicurare il dominio delle politiche economiche neoliberali, e anche la legittimazione di quelle politiche sul piano culturale e ideale. Gli slogan gli conosciamo bene: “ridurre la spesa pubblica”, “tagliare le imposte alle imprese e agli individui”, “occorre più flessibilità”, “meglio il lavoro temporaneo”, “il mercato deve guidare ogni immaginabile decisione, anche a livello locale”. Tutto questo ha avuto la meglio, anche nella cultura di una parte della sinistra. Conta poco che queste ricette siano sistematicamente sconfessate dalla realtà»
È interessante come il modello neoliberista abbia copiato da Gramsci la propria tendenza egemonica culturale. Lei lo ripete spesso. E poi spiega, e lo ha detto anche prima, come un pezzo di sinistra ne sia stata sedotta. Aggiungerei che alla sinistra hanno copiato anche l'internazionalismo, cioè la capacità di fare "gioco di squadra" a livello planetario. Come si fa a invertire la tendenza? Come si fa a imporre nuovamente una visione alternativa della società?
«È estremamente difficile. L’egemonia attuale è vincente sia sul piano della pratica, come lo vediamo ogni giorno, sia sul piano morale e culturale. L’austerità sta tagliando l’insieme delle condizioni di vita di milioni di persone, seminando recessione. E qui nasce un altro pericolo, cioè che politiche di questo genere fomentino l’estrema destra che urla contro la finanza, ma in modo assolutamente strumentale».
Il primo a parlare di “austerità” fu Enrico Berlinguer. Qualcuno, sempre a sinistra, ha ritirato fuori la cosa.
«Sì, ma erano altri tempi, altre situazioni, e quella parola usata dal segretario del Pci voleva dire un’altra cosa. Ora significa tagliare salari, posti di lavoro, spesa sociale e diritti. Allora era una critica al consumo [Più precisamente, il consumo opulento. Vedi in eddyburg L'austerità come leva di sviluppo - ndr]]. La crisi è nata anche per delle storture del modello produttivo. Non si può pensare di continuare a produrre sempre di più, all’infinito. Il progresso non consiste nell’avere cinque telefoni e tre automobili a famiglia, ma ha a che vedere con la qualità della vita, del tempo libero, del lavoro…»
Negli anni Settanta i giovani gridavano lo slogan "Lavorare meno, lavorare tutti". A un certo punto lei parla dei sindacati, e fa una critica a livello non solo europeo, ma mondiale: «Non si è sentito nessun sindacato, o gruppo di sindacati, europeo o americano, alzare la voce per dire che era inaudito che il salario orario minimo in Cina fosse di 75 centesimi di dollaro; e che è scandaloso che aziende europee e americane protestino perché quell’innalzamento da 65 a 75 centesimi non permette più loro di operare con profitto...». È sicuramente vero. Ma perché accade? Si è persa la solidarietà di classe? L'egoismo, l'interesse particolare, ha contagiato anche il sindacato? È questa l'ennesima vittoria del pensiero dominante?
«I sindacati hanno delle giustificazioni. La frammentazione delle attività produttive ha complicato l’attività sindacale. Un conto è avere un megafono per parlare a cinquemila operai tutti insieme, un conto è andarli a cercare in cinquanta fabbriche diverse con cento operai ciascuno. Però sì, a livello internazionale si è fatto poco. La necessità, adesso, è esportare diritti».
Il governo tecnico, anzi i governi tecnici in Europa, sono in realtà governi di destra. Lo chiarisce molto bene. Com'è possibile che il Pd lo sostenga e ne subisca il fascino anche per il futuro? Sembra un cerchio che si chiude. La dimostrazione che la sua analisi sul pensiero dominante è corretta.
«Concorrono diversi fattori. Un po’ perché la dottrina neoliberale, come dicevamo, ha fatto presa anche a sinistra. Poi c’è il timore di apparire agganciati a una storia di “vecchie ideologie”. C’è una questione di competenza: si è capito ben poco di perché è nata la crisi, sul come si è sviluppata, per colpa di chi o di cosa. E infine c’è un fattore di convenienza: l’Italia è in Europa, e in Europa si gioca con le regole del liberismo. Così qualcuno avrà pensato di far mettere la faccia ai “tecnici” rispetto alla richieste dolorose che Bruxelles richiedeva. Diciamo che può essere stato un grigio calcolo elettorale».
Lei cosa ne pensa dei No Debito? È possibile rifiutarsi di pagare?
«Il movimento non tiene conto dell’esistenza della Bce, che però non opera come una normale banca centrale: non può concedere prestiti, magari a basso tasso di interesse, agli stati membri o ad altre istituzioni. Questo perché il trattato di Maastricht lo proibisce. Abbiamo rinunciato alla sovranità monetaria entrando nella Ue, e quindi ci ritroviamo con una moneta straniera. Ecco, visto questo, non pagare il debito è impossibile. L’istanza è però moralmente valida, specie se si pensa alla dissennatezza del sistema finanziario, al fatto che i Paesi hanno speso 4,1 trilioni di euro per salvare le banche aumentando il proprio debito. Ma bisognerebbe chiedere subito una riforma del sistema finanziario. Sono stati fulminei a fare la riforma delle pensioni, a imporre diktat da occupazione militare alla Grecia, eppure da anni giace in un cassetto da anni una riforma di questo tipo. Per la quale dovremmo davvero batterci».
L’analisi del suo libro potrebbe diventare fondamentale per ridare fiato alla sinistra. Ho letto il "Manifesto per un soggetto politico nuovo", e mi sembra che il gruppo di intellettuali che l'ha redatto e firmato, tra cui lei, vada in quella direzione. Che reazioni ha avuto da parte dei partiti d’area?
«Ho l’impressione che siamo intorno a zero. Ma vorrei dire che non si tratta di buttare via i partiti, quanto di rinnovarli, saldando il ponte tra movimenti e organizzazioni politiche. Se i movimenti continuano a vedere i partiti come vecchie carrozze, e se i partiti vedono i movimenti come allegri ma inutili catalizzatori per le manifestazioni, il futuro non sarà certamente roseo».
Chiudo con una battuta. In chiusura lei scrive: «Con la caduta del socialismo reale è stato seppellito anche quel frammento di verità essenziale su cui era stata malaccortamente e colpevolmente innalzata la torreggiante megamacchina sociale che pretendeva di rappresentarlo. Quel frammento, che dopotutto sta alla base del movimento operaio da quando è cominciato, fin dall’inizio dell’Ottocento, era la ragione stessa della storia, o meglio la ragione che conferisce un senso alla storia. Era giusto che la torre cadesse, ma, cadendo, la torre ha sepolto tra le sue macerie anche quell’ultimo frammento che rappresentava la speranza di un rinnovamento della società intera. E questa è stata una perdita enorme». Lo sa che le daranno dello stalinista?
«È possibile e la cosa mi diverte anche. Perché cito dati ufficiali, molto spesso, del Congresso americano. Tutto questa significa che tra la realtà oggettiva delle cose e l’interpretazione che se ne dà c’è una distanza siderale. E ciò non depone certo a favore della maturità politica della nostra classe dirigente».
(4 aprile 2012)
La crisi è l'occasione per allargare lo sguardo a settori dell'economia e del sociale fuori del mercato, verso dimensioni del lavoro non mercantili, solidali, di cura e attenzione per i luoghi, le società e le persone. Alcuni libri recenti offrono coordinate preziose per saperne di più.
Il lavoro al centro delle iniziative del governo, e al centro dell’attenzione. Un percorso che va avanti nelle sedi politiche, in convegni, con commenti di esperti; e anche, ovvio, scontri e critiche, manifestazioni e scioperi. Una questione cruciale per proposte e ricerca di soluzioni. Sarebbe utile richiamare l’attenzione sulla parola, e la concezione, del lavoro, e sul fatto che sono rimasti fin qui fuori temi e prospettive che in fasi del passato (ugualmente segnate da “crisi”, “disoccupazione”, dall’urgenza di proposte e di politiche) erano stati parte del discorso pubblico e dell’agenda. Se certo ci troviamo oggi di fronte a dimensioni nuove, a processi che rendono il quadro più complicato che nel passato, due aspetti sarebbe bene metterli in luce: il primo, come siano ricorrenti fasi di malfunzionamento dell’economia, di “crisi”, appunto (su questo, una lettura che consiglierei è Il capitalismo occidentale del dopoguerra di Michael Kidron, Laterza, 1969). Dunque allargare la prospettiva, tener presenti i riferimenti a fasi del passato e alle diverse situazioni (in Europa e altrove). Ovvio che si può insistere su condizioni particolarmente complicate e gravi di questo momento storico. Ma quante volte gli umani sono riusciti a superare esperienze di drammatica difficoltà (e le tragedie delle guerre, non dimentichiamole). I “giovani” potrebbero forse ridimensionare le letture prevalenti che li segnano come una generazione segnata da un futuro senza speranze.
Un secondo aspetto del discorso pubblico (e anche “privato”) che penso utile richiamare è questo. Non è che si incontri spesso, in analisi e interventi, il riferimento a settori dell’economia e del sociale fuori del mercato (ai quali invece in passato si sono rivolti attenzione e approfondimenti): e il contributo rilevante che costituiscono per le risorse complessive . Negli anni settanta e ottanta si era avviato a livello europeo un filone importante di studi e di proposte che metteva in luce il valore delle risorse “non di mercato” per il benessere sociale, fino alla Dichiarazione di Amsterdam del 1997 “On the Social Quality of Europe”. Portando lo sguardo su questi processi e dimensioni si sono delineati, anche in rapporto a modifiche nelle procedure e regole nel mercato del lavoro (auspicate, viste come positive), possibili “scenari futuri”.
Avrebbe senso riprendere alcuni spunti da quelle analisi e proposte. Si ridefinisce il significato della stessa parola lavoro. Moltissimo è stato colto, e descritto, portando alla luce il contributo del “lavoro domestico” e del “lavoro di cura”; anche fare volontariato è lavorare (in molti casi con competenze e forme organizzative nuove, che vengono messe in luce: il 2012, ricordiamolo, è l’”anno europeo del volontariato”). E il 2011 è stato l’“anno dell’invecchiamento attivo”: anche in questa prospettiva sono stati portati all’attenzione – e potrebbero entrare nei dibattiti sul lavoro – aspetti che certo nel passato non erano immaginabili. Aggiungo: è “lavoro” l’impegno, e la necessità, del continuare ad imparare. Imparare richiede un lavorare a cui fin qui non si è rivolta attenzione. Il lifelong learning è una dimensione da approfondire.
È probabile che nei prossimi mesi li incontreremo, riferimenti e sollecitazioni che portino l’analisi oltre le categorie oggi prevalenti, e oltre i termini ricorrenti, quasi esclusivi: crescita e decrescita. Dunque: “economia plurale”, “economia non-di -mercato”, “economia sociale”, e molti altri. Non per profitto è il titolo del libro di Martha Nussbaum (uscito da poco nella collana Intersezioni del Mulino). Di “terzietà” parla Zamagni ( Il Terzo Settore nell’Italia Unita, di E. Rossi e S. Zamagni, un testo che ripercorre la storia dei centocinquant’anni in questa prospettiva). E ancora L’economia del noi di Roberta Carlini; l’“economia delle condivisioni”, “auto-mutuo aiuto”, solidarietà, impegno sociale. Esistono anche questi “pezzi” del nostro vivere, e sono risorse nella fase che stiamo vivendo. Sarebbe importante allargare lo sguardo: guardare ai costi e alle difficoltà, certo, ma anche ai processi di cambiamento e, forse, a prospettive in qualche misura positive.
Se il deficit non è un peccato la rivoluzione copernicana dei nuovi economisti Usa - Galbraith junior: la crisi non si cura con l´austerity
NEW YORK - Le grandi crisi partoriscono grandi idee. Così fu dopo il crac del 1929 e la Depressione. Per uscirne, l´Occidente usò il pensiero di John Maynard Keynes, scoprì un ruolo nuovo per lo Stato nell´economia, inventò le politiche sociali del New Deal e la costruzione del moderno Welfare State. Oggi siamo daccapo. L´eurozona sprofonda nella sua seconda recessione in tre anni. Gli Stati Uniti malgrado la ripresa in atto pagano ancora i prezzi sociali elevatissimi della Grande Contrazione iniziata nel 2008 (almeno 15 milioni di disoccupati). Ma dall´America una nuova teoria s´impone all´attenzione. Si chiama Modern Monetary Theory, ha l´ambizione di essere la vera erede del pensiero di Keynes, adattato alle sfide del XXI secolo. Ha la certezza di poter trainare l´Occidente fuori da questa crisi. A patto che i governi si liberino di ideologie vetuste, inadeguate e distruttive. È una rivoluzione copernicana, il cui alfiere porta un cognome celebre: James K.Galbraith, docente di Public Policy all´università del Texas e consigliere "eretico" di Barack Obama. James K. Galbraith è figlio di uno dei più celebri economisti americani, quel John Kenneth Galbraith che fu grande studioso della Depressione e consulente di John Kennedy.
Il nuovo Verbo che sconvolge i dogmi degli economisti, assegna un ruolo benefico al deficit e al debito pubblico. È un attacco frontale all´ortodossia vigente. Sfida l´ideologia imperante in Europa, che i "rivoluzionari" della Modern Monetary Theory (o Mmt) considerano alla stregua di un vero oscurantismo. Quel che accade in questi giorni a Roma e Atene, l´austerity imposta dalla Germania, per i teorici della Mmt non è soltanto sbagliata nei tempi (è pro-ciclica: perché taglia potere d´acquisto nel bel mezzo di una recessione), ma è concettualmente assurda.
Un semplice esercizio mette a nudo quanto ci sia di "religioso" nella cosiddetta saggezza convenzionale degli economisti. Qualcuno ha provato a interrogare i tecnocrati del Fmi, della Commissione Ue e della Banca centrale europea, per capire da quali Tavole della Legge abbiano tratto alcuni numeri "magici". Perché il deficit pubblico nel Trattato di Maastricht non doveva superare il 3% del Pil? Perché nel nuovo patto fiscale dell´eurozona lo stesso limite è stato ridotto a 0,5% del Pil? Chi ha stabilito che il debito pubblico totale diventa insostenibile sotto una soglia del 60% oppure (a seconda delle fonti) del 120% del Pil? Quali prove empiriche stanno dietro l´imposizione di questa cabala di cifre? Le risposte dei tecnocrati sono evasive, o confuse.
La Teoria Monetaria Moderna fa a pezzi questa bardatura di vincoli calati dall´alto, la considera ciarpame ideologico. La sua affermazione più sconvolgente, ai fini pratici, è questa: non ci sono tetti razionali al deficit e al debito sostenibile da parte di uno Stato, perché le banche centrali hanno un potere illimitato di finanziare questi disavanzi stampando moneta. E non solo questo è possibile, ma soprattutto è necessario. La via della crescita, passa attraverso un rilancio di spese pubbliche in deficit, da finanziare usando la liquidità della banca centrale. Non certo alzando le tasse: non ora.
Se è così, stiamo sbagliando tutto. Proprio come il presidente americano Herbert Hoover sbagliò drammaticamente la risposta alla Grande Depressione, quando cercò di rimettere il bilancio in pareggio a colpi di tagli (stesso errore che fece Franklin Roosevelt nel 1937 con esiti nefasti). Il "nuovo Keynes" oggi non è un profeta isolato. Galbraith Jr. è solo il più celebre dei cognomi, ma la Mmt è una vera scuola di pensiero, ricca di cervelli e di think tank. Così come la destra reaganiana ebbe il suo pensatoio nell´Università di Chicago (dove regnava negli anni Settanta il Nobel dell´economia Milton Friedman), oggi l´equivalente "a sinistra" sono la University of Missouri a Kansas City, il Bard College nello Stato di New York, il Roosevelt Institute di Washington. Oltre a Galbraith Jr., tra gli esponenti più autorevoli di questa dottrina figura il "depositario" storico dell´eredità keynesiana, Lord Robert Skidelsky, grande economista inglese di origine russa nonché biografo di Keynes.
Fra gli altri teorici della Mmt ci sono Randall Wray, Stephanie Kelton, l´australiano Bill Mitchell. Non sono una corrente marginale; tra i loro "genitori" spirituali annoverano Joan Robinson e Hyman Minsky. Per quanto eterodossi, questi economisti sono riusciti a conquistarsi un accesso alla Casa Bianca. Barack Obama consultò Galbraith Jr. prima di mettere a punto la sua manovra di spesa pubblica pro-crescita, così come fece la democratica Nancy Pelosi quando era presidente della Camera. Ma la vera forza della nuova dottrina viene dai blog. The Daily Beast, New Deal 2.0, Naked Capitalism, Firedoglake, sono tra i blog che ospitano l´elaborazione del pensiero alternativo. Hanno conquistato milioni di lettori: è una conferma di quanto ci sia sete di terapie nuove, e quanto sia screditato il "pensiero unico".
La Teoria Monetaria Moderna è ben più radicale del pensiero "keynesiano di sinistra" al quale siamo abituati. Perfino due economisti noti nel mondo intero come l´ala radicale che critica Obama da sinistra, cioè i premi Nobel Paul Krugman e Joseph Stiglitz, vengono scavalcati dalla Mmt. Stephanie Kelton, la più giovane nella squadra, ha battezzato una nuova metafora… ornitologica. Da una parte ci sono i "falchi" del deficit: come Angela Merkel, le tecnocrazie (Fmi, Ue), e tutti quegli economisti schierati a destra con il partito repubblicano negli Stati Uniti, decisi a ridurre ferocemente le spese. Per loro vale la falsa equivalenza tra il bilancio di uno Stato e quello di una famiglia, che non deve vivere al di sopra dei propri mezzi: un paragone che non regge, una vera assurdità dalle conseguenze tragiche secondo la Mmt. Poi ci sono le "colombe" del deficit, i keynesiani come Krugman e Stiglitz. Questi ultimi contestano l´austerity perché la giudicano intempestiva (i tagli provocano recessione, la recessione peggiora i debiti), però hanno un punto in comune con i "falchi": anche loro pensano che a lungo andare il debito crea inflazione, soprattutto se finanziato stampando moneta, e quindi andrà ridotto appena possibile. Il terzo protagonista sono i "gufi" del deficit. Negli Stati Uniti come nell´antica Grecia il gufo è sinonimo di saggezza. I "gufi", la nuova scuola della Mmt, ritengono che il pericolo dell´inflazione sia inesistente. Secondo Galbraith Jr. «l´inflazione è un pericolo vero solo quando ci si avvicina al pieno impiego, e una situazione del genere si verificò in modo generalizzato nella prima guerra mondiale». Di certo non oggi.
Il deficit pubblico nello scenario odierno è soltanto benefico, a condizione che venga finanziato dalle banche centrali: comprando senza limiti i titoli di Stato emessi dai rispettivi governi. Ben più di quanto hanno iniziato a fare Ben Bernanke (Fed) e Mario Draghi (Bce), questa leva monetaria va usata in modo innovativo, spregiudicato: l´esatto contrario di quanto sta avvenendo in Europa.
Stiamo diventando la nuova terra di conquista della Cina. Non è purtroppo una provocazione, semmai l'avverarsi di profetiche previsioni dei nostri nonni che probabilmente avevano intuito come stava girando il mondo. Conseguenze di una globalizzazione lasciata alle pure regole del mercato, ma non quello finanziario, ecco la novità. La Cina, infatti, probabilmente ha imparato la lezione - a differenza nostra - del crack del 2007, e invece di continuare a comprarsi i debiti degli altri, gli Usa e oggi quelli Ue, ha scelto un'altra strategia, certificata e confermata oggi in un articolo del Sole24Ore: «piuttosto che comprare obbligazioni pubbliche - scrivono Gianluca di Donfrancesco e Luca Vinciguerra - la Cina preferisce intensificare lo shopping sugli scaffali dell'economia reale».
Come e perché? «La crisi dell'economia e delle finanze pubbliche di tanti Paesi dell'Eurozona facilita questo shopping, con gli Stati più indebitati impegnati in massicci piani di privatizzazioni per recuperare le risorse necessarie a rimettere sotto controllo i conti pubblici. Per questa via la Cina è riuscita a penetrare in uno dei settori strategici del Vecchio continente, quello dell'energia, con l'acquisizione di Energias de Portugal».
Va detto che Frau Merkel aveva chiesto e più volte auspicato che il Portogallo trovasse un partner europeo, ma anche per la cancelliera tedesca vale il vecchio adagio: è il mercato, bellezza. E i lusitani hanno venduto al miglior offerente. Questa politica del vendere i pezzi migliori della propria economia per rispettare una politica fatta solo di numeri e bilanci e all'insegna dell'austerità senza prospettiva mostra dunque subito la corda. Ed il brutto è che siamo solo all'inizio.
Scrive sempre il Sole: «Lisbona ha bisogno di far cassa in fretta per rispettare le clausole del piano di salvataggio da 78 miliardi promosso da Ue e Fmi. E soprattutto per non fare la fine della Grecia. Nel loro shopping, le aziende cinesi possono invece permettersi di largheggiare. Per Edp, la Three Gorges ha sborsato un prezzo del 53% superiore ai corsi di Borsa e ha inquadrato la proposta in un ampio piano di supporto all'economia portoghese che promette di arrivare a 8 miliardi di euro. Sbaragliata la concorrenza della tedesca E.on, che aveva a sua volta messo gli occhi su Edp. Prima ancora era stata Atene a cedere pezzi alla Cina. Nella primavera del 2010 il porto del Pireo è finito preda del colosso della logistica Cosco, con un'operazione da 3,3 miliardi».
E l'Italia del credibilissimo Monti? «All'inizio dell'anno, il 75% del gruppo Ferretti, la casa romagnola di imbarcazioni di lusso, è passata alla Shandon Heavy Industries, con un'operazione da 374 milioni». Per ora siamo all'acquisizione non nuova del "made in italy", un'altra operazione più piccola è quella per la De Tommaso di Rossignolo, ma se piove di quel che tuona potremmo ritrovarci a un'offerta per Enel oppure per Eni. Qualcuno dirà che è un bene, questo ci darà soldi per migliorare i nostri conti pubblici, peccato però che poi a quel punto il piano energetico nazionale ce lo farà Xi Jinping, e non solo a noi.
L'altra considerazione è che al netto di tutte le diseconomie o malfunzionamenti degli apparati pubblici e delle sue partecipazioni nelle grandi aziende del Paese, la cosa vale per l'Italia come per il resto dell'Ue; se la Cina investe proprio negli asset infrastrutturali e nelle industrie del Vecchio Continente invece che nei loro titoli di carta, queste devono offrir loro maggiori garanzie. Non sono, come dire, così da buttare come ci vogliono far credere e anzi potremmo dire, provocatoriamente ma nemmeno più di tanto, che anche questi sono beni comuni, come lo sono la solidarietà tra i Paesi dimenticata purtroppo come nel caso Grecia, come lo è il welfare faticosamente costruito negli anni e ora da cambiare ma in meglio. Tutti beni comuni, ribadiamo, che non sarebbe affatto opportuno vendere, meno che mai svendere, come invece siamo o saremo costretti a fare con le attuali asfittiche politiche di mero bilancio.
Non si tratta di avere una politica contraria alla globalizzazione, si tratta di non soccombere e di partecipare alla globalizzazione con un ruolo da protagonista e con un'idea di sviluppo diversa da quella perpetrata fino ad oggi. Se l'Africa è diventato il continente dove "comprarsi la terra" per coltivare, l'Europa rischia di diventare la terra dove comprare "gli asset energetici e le industrie" più all'avanguardia o almeno più affidabili e redditizie. Anche perché avere una fabbrica portoghese - per restare nell'esempio - è un conto, avere uno dei "maggiori produttori di energia elettrica europei ed uno dei più importanti gruppi industriali del Portogallo" è un altro. Significa avere in mano in parte anche le sorti di una nazione e dei suoi abitanti nelle proprie mani. E si dirà ancora: ma la Cina non ha alcun interesse a far crollare l'economia Ue. E infatti non la vuol far crollare, anzi, la vuol fare sopravvivere ma pro domo sua. Con buona pace delle democrazie tutte, prese a schiaffi dai mercati e fagocitate dal dirigismo cinese, "armonioso", of course.
A tre anni dalla crisi, quindi, sempre il Sole (di sabato scorso) ci erudisce sul fatto che l'economia finanziaria è di nuovo zeppa di quattrini e la domanda è se «questa liquidità riuscirà a far girare il motore dell'economia vera (non solo quello effimero della finanza), oppure le banche centrali stanno semplicemente gettando acqua in un lavandino ingorgato?». Per lo stesso Sole «una risposta è impossibile da dare oggi, perché l'effetto reale di politiche monetarie di questo tipo va valutato nel lungo termine. Ma in fondo è questo il vero paradosso: la liquidità abbonda, ma - per ora - non arriva a chi ne ha veramente bisogno». Non solo, l'Ue si sta avvitando con una politica economica fondata sull'austerità (non premiata peraltro neppure dalle società di rating, per quello che vale, vedi Moody's..) e figlia di ragioni elettorali che ne accorciano ancora di più il fiato.
C'è quindi il forte rischio che i nostri destini (e quelli della Grecia e del Portogallo...) non verranno decisi a Bruxelles o dai gemelli diversi Merkel-Sarkozy, ma da visite e incontri come quelli iniziati ieri negli Usa dal vice-presidente cinese, Xi Jinping, definita a Pechino «cruciale per far progredire il partenariato di cooperazione tra la Cina e gli Stati Uniti», un partenariato che sembra avere in palio anche l'egemonia su quello che poteva essere il "terzo incomodo", cioè l'Ue, come ha dimostrato anche la cronaca provincialistica e prona che molti giornali italiani hanno fatto della visita di Mario Monti a Barack Obama, praticamente ignorata come quella di un Paese minore dalla stampa Usa.
La Cina quindi si approfitta di una debolezza allarmante dell'Ue e, forse qualcuno ancora non lo sa, si sta persino comprando i nostri rifiuti, giusto per non farsi mancare niente. Non quelli indifferenziati, sia chiaro, quelli differenziati dalle nostre manine.
Nel frattempo vittime degli speculatori e delle loro macchine e algoritmi le materie prime hanno perso ogni contatto con l'economia reale, e le quotazioni di quelle alimentari - vittime di questo gioco al massacro - affamano gli ultimi del mondo. Questo è il capitalismo moderno e sicuramente, come dice l'ex ministro Vincezo Visco sull'Unità, siccome non si torna indietro e serve "innovazione", è un'analisi corretta individuare la "necessità di una gestione controllata delle economie". Ma, sul come, nessuno dà risposte. Le nostre sono da non economisti e le ribadiamo: un consiglio di sicurezza Onu per l'economia e la realizzazione di una no fly zone sulle commodity. Tuttavia migliori soluzioni vorremmo sentircele proporre da chi è demandato a farlo. Difficile, tuttavia, che accada quando il problema ci pare neppure venga posto...
Nel gennaio 2009, all´inaugurazione di un nuovo, sontuoso edificio della London School of Economics, la regina Elisabetta II si è rivolta all´intellighenzia del mondo economico, riunita per l´occasione, con una domanda tanto innocente quanto insidiosa – la stessa che il mondo intero si pone senza ricevere risposta: come mai nessuno di voi ci ha avvisati del rischio di tracollo dei mercati finanziari?
Di fatto, se è vero che le grandi banche e i loro manager non sono stati all´altezza, hanno fallito anche i teorici del rischio in campo economico. Nella tragicommedia rappresentata dal vivo su tutte le scene mondiali, in una successione di scompigli e trasformazioni che sembra non aver fine, i liberisti duri e puri hanno compiuto un percorso di conversione, dalla fede nel mercato alla fede nello Stato – e ritorno! Stanno chiedendo, anzi elemosinando la grazia di interventi statali: una prassi che pure hanno sempre condannato, finché è durata l´effervescenza dei profitti. Quando negli anni 1930, al tempo della prima crisi economica mondiale, Keynes tentò di decifrare i segreti dell´economia, il suo pensiero si soffermò sulla distinzione tra rischio e non conoscenza.
Così, a causa dell´emergenza, soggetti che prima erano lontani vengono messi in connessione e l´orizzonte si apre al sogno di scelte alternative alla "sovranità del mercato" Al di là dei messaggi negativi, il crollo economico mondiale costringe ad accantonare le pretese di autosufficienza di culture e sistemi di governo, rovesciando le priorità. Per Keynes le teorie dominanti erano mistificatorie e avrebbero portato alla catastrofe. Non si può vedere nel tracollo solo un deplorevole frutto del caso o un guasto. Il giudizio sulle istituzioni è drasticamente mutato: sono ormai entità sospette.
«Parlando di "conoscenza incerta" non mi limito a distinguere tra le cose che sappiamo con sicurezza e quelle solo probabili. Ad esempio, il gioco della roulette non è soggetto all´incertezza intesa in tal senso (...). Il significato che attribuisco a quest´espressione è lo stesso di quando diciamo di essere incerti su quali saranno, tra vent´anni, i rischi di una guerra europea, il prezzo del rame o il tasso di sconto (…). Per questioni del genere non esiste una base scientifica sulla quale fondare un qualsivoglia calcolo delle probabilità. Semplicemente, non ne sappiamo nulla». A conclusione di quanto sopra, Keynes riteneva mistificatorie le teorie economiche dominanti, che a suo parere avrebbero rischiato di provocare una catastrofe se applicate concretamente alla realtà mondiale.
Esattamente quello che è successo. L´inadeguatezza di ampi settori della scienza economica sta essenzialmente nel loro modo di rapportarsi a ciò che non sanno. La scienza economica del laissez-faire vive, pensa e conduce le proprie ricerche in una sfera ideale di rischi calcolabili, e semplicemente non vuol prendere atto che la sua marcia trionfale ha generato un mondo di incognite imprevedibili, con un potenziale di eventi catastrofici impossibili da arginare.
Quando il rischio è percepito come onnipresente, le reazioni possibili sono tre: l´ignoranza, l´apatia o la trasformazione. La prima è caratteristica della moderna economia del laissez-faire; la seconda si estrinseca nel nichilismo post-moderno; la terza costituisce il tema della mia teoria sulla «società mondiale del rischio» (Weltrisikogesellschaft(). In relazione al rapporto con la conoscenza e la non conoscenza nel mondo moderno, ho individuato due fasi: quella semplice (la prima), e una seconda fase riflessa. Nella prima fase si presuppone un futuro simile al presente, per cui si ritiene di poter gestire l´incertezza autogenerata grazie al perfezionamento dei modelli matematici di rischio, migliorando così sempre più i livelli di sicurezza dell´economia e della società.
La seconda fase, che paradossalmente è un effetto collaterale dei precedenti successi, deve confrontarsi con una serie di incognite incalcolabili, le quali annullano le basi stesse di un approccio razionale al rischio – attraverso il calcolo delle probabilità, gli insegnamenti desunti dall´esperienza di passati incidenti, l´applicazione dei modelli del presente a scenari futuri, i principi assicurativi). Da qui nasce il «capitalismo mondiale del rischio», che è votato al fallimento. Lo dimostra, tra l´altro, un semplice parametro economico: esso opera al di là di ogni possibile copertura assicurativa (privata). In questo senso le grandi banche presentano un´analogia con le centrali nucleari: i loro profitti sono privati, mentre i costi delle catastrofi potenziali o reali – di portata inimmaginabile - si scaricano sulle spalle dei contribuenti.
L´insipienza autoprodotta (manufactured non-knowing) dalla marcia trionfale globale della prima modernizzazione presenta quattro caratteristiche:
1) In un mondo globalmente interconnesso i suoi effetti, non solo economici ma anche sociali e politici, non sono ormai più arginabili. Perciò non si può più vedere nell´incombente tracollo dei mercati finanziari e dell´economia mondiale solo un deplorevole frutto del caso, o magari un guasto che in futuro si possa evitare, o almeno aggiustare con opportune riparazioni tecniche o perfezionamenti matematici - e non invece un fenomeno immanente al sistema del capitalismo mondiale del rischio.
2) In linea di principio, le conseguenze sono incalcolabili. Si cerca di migliorare il grado di razionalità delle decisioni in campo economico, rifiutando però di vedere che il diavolo non si nasconde nelle decisioni in quanto tali, bensì nelle loro conseguenze, potenzialmente catastrofiche.
3)Queste conseguenze non sono indennizzabili. Il sogno di sicurezza della prima modernizzazione non escludeva i danni (anche di vasta portata); ma proprio il verificarsi di incidenti rendeva possibile un processo di apprendimento su come affrontare le manufactured uncertainties – le incognite autoprodotte. Mentre oggi viviamo in un capitalismo mondiale del rischio sul quale incombono catastrofi tali da far apparire assurda qualunque ipotesi di risarcimento (assicurativo); e che dunque vanno prevenute con ogni mezzo, poiché metterebbero a repentaglio la sopravvivenza (economica) di tutti. Quando ci ritroveremo con un cambiamento climatico irreversibile, una catastrofe economica o la disintegrazione dell´euro, sarà ormai troppo tardi. A fronte di questo nuovo livello qualitativo di una minaccia che ci riguarda tutti, senza più limiti in senso sia economico che sociale e politico, la razionalità degli insegnamenti tratti dell´esperienza perde la sua validità; e a sostituirla subentra il principio di precauzione e prevenzione.
4) A dominare è oggi la non conoscenza, che si presenta in diverse sfumature: dall´«ancora non si sa» (quindi una condizione superabile grazie a un impegno scientifico più massiccio e qualitativamente migliore) all´ignoranza volutamente coltivata, passando per l´insipienza consapevole, fino all´«impossibilità di sapere». Al confronto anche l´ironia socratica – «so di non sapere nulla» - appare inoffensiva. Siamo costretti a muoverci e ad affermarci in un mondo ove non abbiamo idea di tutto ciò che ignoriamo; ed è proprio da qui che nascono pericoli dei quali non sappiamo neppure con certezza se esistano o meno! A questo punto svanisce anche il confine tra pubblico isterismo e responsabilità politica.
Prima della crisi finanziaria, gli esperti economici e politici asserivano di avere su tutto conoscenze precise e di tenere in mano la situazione. Ma all´improvviso, una volta esplosa la crisi finanziaria, non sapevano più nulla (senza però confessarlo in pubblico, e neppure a se stessi). E´ stata proprio la crisi dei mercati finanziari globali a porre drammaticamente davanti agli occhi dell´opinione pubblica la dinamica sociale e politica dell´insipienza.
L´interazione tra non conoscenza, fiducia e rischio ha un ruolo centrale nella dinamica politica: l´incapacità di sapere, pubblicamente esperita e riflessa, mette a repentaglio la «sicurezza ontologica», o in altri termini, la fiducia nelle istituzioni di base della società moderna, così come nella scienza, nell´economia e nella politica, che dovrebbero essere garanti di razionalità e sicurezza. Di conseguenza, il giudizio su queste istituzioni è drasticamente mutato: non più fiduciarie, ma entità sospette. Se prima erano viste come responsabili della gestione del rischio, oramai sono sospettate di esserne la fonte.
Chi vedesse in questo un pessimismo millenarista neospengleriano non avrebbe compreso il punto che per me è cruciale: la distinzione tra la nozione di rischio e la catastrofe dev´essere ben chiara. Rischio non vuol dire catastrofe, ma proiezione del suo scenario nel presente, con l´obiettivo di evitarla. Il futuro di là da venire rimane fuori dalla nostra portata. Oggi non è più possibile costruire uno scenario del futuro desumendolo dal presente.
Dobbiamo «metterlo in scena», renderlo visibile prima che si materializzi. Il dramma della minaccia di un tracollo dell´economia mondiale si svolge quotidianamente davanti ai teleschermi nei tinelli di tutto il pianeta. Ma questa drammaturgia mediatica dei rischi catastrofici ha scatenato una mobilitazione, storicamente senza precedenti, dell´opinione pubblica mondiale, di movimenti sociali e di attori politici nazionali e internazionali.
Tutti si guardano intorno alla ricerca di un contropotere. Ma neppure affiggendo annunci del tipo «Chi l´ha visto?» avremo qualche probabilità di trovare il soggetto rivoluzionario. Ovviamente ci si sente meglio quando si ricorre a tutti i mezzi disponibili per fare appello alla ragione. Si potrebbe anche fondare da qualche parte un ennesimo centro di discussione («commissione etica») per la soluzione dei problemi mondiali. O tornare a ravvivare la speranza nel discernimento dei partiti politici.
Ma se alla fine tutto questo si rivelasse insufficiente per incitare a un´azione politica di contrasto, ci rimane una risorsa: la coscienza delle ripercussioni politiche della società mondiale del rischio. Ma oramai è la stessa incalcolabile portata dei rischi globali ad assumersi in proprio il ruolo finora svolto dai loro critici. La questione della crisi del capitalismo è onnipresente. Perciò si pone in maniera più pressante, e magari con qualche chance in più, il problema di indicare nuove vie, all´interno e persino in alternativa al capitalismo.
Non si avverte forse la necessità di una riforma ecologica e sociale della (o nella) seconda modernizzazione, ponendo al centro i valori e i problemi della giustizia e della sostenibilità? Oggi questo pubblico brainstorming è impersonato dal movimento Occupy Wall Street. Il diktat degli onnipresenti rischi finanziari ha impartito ai comuni cittadini qualcosa come un corso accelerato sulle contraddizioni del capitalismo globale; e l´impossibilità di sapere di esperti e politici è ormai condivisa dal pubblico, con crescente impazienza, davanti alla necessità di un deciso cambio di rotta, a livello sia nazionale che internazionale, nell´interazione tra economia, società e politica.
L´onnipresenza di incognite incontrollabili richiama una prevenzione di stato. E´ vero che il ritorno a un´economia statale di piano non è proponibile. Ma neppure si può ignorare che oggi, davanti al rischio di una nuova crisi economica mondiale di vasta portata, la «sovranità del mercato» rappresenta una minaccia esistenziale senza precedenti. In altri termini, quest´esperienza storica insegna che il progetto neoliberista – di riduzione dello Stato ai minimi termini – è fallito; e in controtendenza ad esso si fa sempre più forte il richiamo alla responsabilità statale, a fronte di un´economia mondiale che produce vortici di incertezza incontrollabili, mettendo a rischio la vita di tutti.
Da tutto questo, al di là dei messaggi negativi, emerge una buona notizia. L´egoismo, l´autonomia, l´autopoiesi, l´isolamento del sé rappresentano i concetti chiave attraverso i quali la società moderna descrive se stessa. Ora, la logica del rischio globale va intesa secondo il principio esattamente opposto, quello dell´apprendimento involontario. In un mondo di contrasti inconciliabili, in cui ciascuno gira intorno a se stesso, il rischio mondiale pone in primo piano l´imperativo, non voluto né intenzionale, della comunicazione.
Il rischio finanziario pubblicamente recepito costringe alla comunicazione soggetti che altrimenti non vorrebbero avere nulla a che fare gli uni con gli altri; e impone costi ed impegni a chi fa di tutto per evitarli – e non di rado ha dalla propria parte le leggi in vigore. In altri termini: la fusione globalizzata della non conoscenza e del rischio di sopravvivenza impone di accantonare la pretesa di autosufficienza di culture, lingue, esperti, religioni e sistemi politici, e cambia l´agenda nazionale e internazionale; ne rovescia le priorità, aprendo l´orizzonte al sogno di scelte alternative – come ad esempio la tassa sulle transazioni finanziarie, che ancora poco tempo fa passava per inapplicabile e ridicola.
Ma a questo punto, la hegeliana astuzia della ragione non è la sola ad avere una chance. Potrebbe averla anche uno scenario alla Carl Schmitt – l´emergenza assurta a normalità - favorendo la ripresa del nazionalismo e la xenofobia, chiaramente osservabili, e non solo nell´Eurozona. La possibilità che queste due dinamiche contrastanti – Hegel e Schmitt – possano unirsi tra loro trova conferma nel modo in cui Angela Merkel collega europeismo e nazionalismo, in base al modello di un euronazionalismo tedesco, da lei eretto a parametro del risanamento dell´Europa dalla «malattia greca».
Ma a parlare questo stesso linguaggio è anche la duplicità dei rapporti tra due potenze mondiali, gli Stati Uniti e la Cina. Gli Usa si sono lasciati ipotecare dalla Cina, che in quanto Paese finanziatore è profondamente coinvolta, con i suoi vitali interessi nazionali, nel superamento della crisi del debito di Washington. Così questi due Paesi sono al tempo stesso incatenati l´uno all´altro per la propria sopravvivenza economica, e rivali in lotta tra loro per la conquista del potere mondiale.
(Traduzione di Elisabetta Horvat) © Ulrich Beck, 2012
La combinazione di capitalismo e democrazia costituisce un compromesso tra proprietà dei mezzi privati di produzione e suffragio universale, per cui chi possiede i primi accetta istituzioni politiche nelle quali le decisioni sono l´aggregato di voti che hanno uguale peso. Il keynesianesimo ha dato i fondamenti ideologici e politici di questo compromesso, e lo ha fatto rispondendo alla crisi del 1929 che lasciò sul tappeto una disoccupazione tremenda. Il compromesso con l´esistente dottrina economica consistette nell´assegnare al pubblico un ruolo centrale poiché invece di assistere i poveri come aveva fatto nei decenni precedenti, li impiegava o promuoveva politiche sociali che creavano impiego. Questo comportò l´incremento della domanda e la ripresa dell´occupazione. Come ebbe a dire Léon Blum, una migliore distribuzione può rivitalizzare l´occupazione e nello stesso tempo soddisfare la giustizia sociale.
L´esito del compromesso tra democrazia e capitalismo fu che i poveri diventarono davvero i rappresentanti dell´interesse generale della società –la loro emancipazione bloccò le politiche restauratrici della classe che possedeva il potere economico. L´allargamento dei consumi privati aveva messo in moto il più importante investimento, quello sulla cittadinanza. La politica del doppio binario "piena occupazione e eguaglianza politica" fu la costituzione materiale delle costituzioni democratiche dalla fine della Seconda guerra mondiale. L´esito fu che l´allocazione delle risorse economiche – dal lavoro ai beni sociali e primari ai servizi– fu dominata dalle relazioni delle forze politiche. I partiti politici si incaricarono di gestire la politica, di essere rappresentanti delle forze sociali, le quali rinunciavano a fare da sole.
Quel tempo è finito. La combinazione tra democrazia e capitalismo è interrotta, il compromesso sospeso e le classi sono tornate a prendere nelle loro mani le decisioni, in particolare quella che ha il potere economico. Il declino dei partiti non ha solo fattori politici alla sua origine. La fase nella quale lo Stato si curava dell´emancipazione delle classi oppresse è chiusa. Ora è l´altra classe a gestire le relazioni pubbliche. Non c´è bisogno di scomodare Marx per registrare questi mutamenti. La diagnosi è alla portata del pubblico.
L´ideologia keynesiana poteva funzionare fino a quando l´accumulazione del capitale andava negli investimenti e nell´allargamento del consumo. Negli Anni 80 una nuova filosofia ha cominciato a prendere piede: politica di diminuzione delle tasse per consentire una nuova redistribuzione ma questa volta a favore dei profitti, con la giustificazione per gli elettori che ciò serviva a stimolare gli investimenti. Ma la riduzione delle tasse non ha liberato risorse per gli investimenti produttivi ma per quelli finanziari. Il tipo degli investimenti è quindi cambiato con il capitalismo della rendita finanziaria. Quale compromesso la democrazia potrà siglare con questo capitalismo?
A partire dagli Anni 80 l´accumulazione si è liberata dai lacci imposti dalla democrazia; l´accumulazione si è liberata dai vincoli dell´investimento imposti dalla filosofia della piena occupazione. La nuova destra ha preso corpo, quella che ha promosso piani di detassazione dei profitti, di abolizione dei controlli sull´impatto ambientale e sulle condizioni di lavoro (l´aumento degli incidenti sul lavoro non è accidentale), l´indebolimento dei sindacati e il loro riorientamento dalla contrattazione nazionale a quella aziendale. Questa fase, che è quella sulle cui conseguenze l´Europa si sta dibattendo in questi mesi, impersona a tutto tondo una nuova società, una mutazione della democrazia. Verso quale direzione?
Nel passato keynesiano, la rottura del compromesso per imporre la fine di politiche sociali si era servita di strategie anche violente: il colpo di Stato in Cile nel 1973 impose una svolta liberista radicale e immediata. È difficile pensare a qualcosa di simile oggi, nel nostro continente, benché la storia insegna a mai dire mai. Un altro cambiamento, forse meno indolore benché non assolutamente senza sofferenza, è quello che si sta profilando a chiare lettere in questi anni: la depoliticizzazione delle relazioni economiche.
La democrazia che aveva siglato il compromesso col capitalismo aveva rivendicato la natura politica di tutte le relazioni sociali, e i diritti civili bastavano a limitare il potere decisionale delle maggioranze. In questo modo la politica democratica entrava in tutte le pieghe della società ogni qualvolta si trattava di difendere l´eguale libertà dei cittadini. Con la fine di quel compromesso, la politica arretra progressivamente, e soprattutto fa giganti passi indietro nel mondo del lavoro e delle relazioni industriali. Il lavoro deve tornare a essere un bene solo economico, fuori dai lacci del diritto e della politica. La battaglia sull´articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ha questo significato.
Si ripete da più parti che questo articolo ha comunque poco impatto operando su aziende medio-grandi mentre l´Italia ha in maggioranza aziende medio-piccole o familiari. Allora perché? Perché, si dice, lo vogliono i mercati, gli investitori. È una decisione simbolica, un segnale. E perché i mercati hanno bisogno di questo tipo di segnale? La risposta si ricava da quanto detto fin qui: la regia della nuova democrazia non deve più essere la legge, il legislatore, lo Stato, ma il mercato. Perché una parte importante della sfera sociale deve tornare a essere privata, e quindi cacciare l´interferenza della politica. Il limite della "giusta causa" che l´articolo 18 impone, è un limite che segnala la priorità del pubblico sul privato: il datore di lavoro deve rendere conto della ragione della sua decisione di licenziare. Quell´articolo rispecchia quindi la filosofia del compromesso di democrazia e capitalismo, perché stabilisce la libertà dal dominio per tutti, dal non essere soggetti alla decisione altrui, senz´altra ragione che la volontà arbitraria di chi decide. Questo articolo è la conseguenza naturale dell´articolo 41 della Costituzione poiché impone una responsabilità di cittadinanza alla sfera degli interessi economici.
Valutando questa fase di restaurazione delle relazioni politiche tra le classi dovremmo farci questa domanda: che tipo di società sarà una società nella quale l´accumulazione è libera da ogni vincolo politico, da ogni limite di distribuzione, da ogni considerazione di impiego che non sia il profitto, da ogni responsabilità verso l´ambiente, la salute di chi lavora e di chi consuma? Siamo certi di voler vivere in una società di questo tipo?
La recessione, i guasti della finanza, la ricerca di alternative: ecco perché anche i teorici del sistema economico dominante lo mettono in discussione Cinque anni dopo il disastro del 2008 non ne siamo ancora usciti. Tramonta l´illusione di essere di fronte a un normale evento ciclico La concorrenza tra paesi rischia di incoraggiare una competizione verso il peggio, dove tutti si adeguano al livello più basso
Dal mercato alle diseguaglianze
la crisi di un modello globale
di Federico Rampini
Il capitalismo ha un deficit mortale: di autostima. La crisi di fiducia in se stesso traspare dai dibattiti che animano due dei più influenti media economico-finanziari. Il Financial Times e The Economist dedicano inchieste, dibattiti e analisi a un interrogativo esistenziale: quella che viviamo è una crisi "terminale" o è ancora curabile all´interno delle regole di un´economia di mercato? Ha più probabilità di sopravvivenza il capitalismo di Stato che governa i Bric, cioè Cina India Brasile Russia?
Martin Wolf, l´economista più autorevole del Financial Times, ammette che l´idea di una "estinzione" del capitalismo oggi ha ancora più peso di quanto ne avesse quattro anni fa nell´epicentro della recessione. «Nel 2009 – osserva Wolf – dedicavamo una serie di inchieste al futuro del capitalismo, oggi abbiamo cambiato il titolo e il dibattito ruota sul capitalismo in crisi». La ragione: cinque anni dopo il disastro sistemico del 2008, non ne siamo ancora usciti. Tramonta ogni illusione di avere a che fare con un normale evento ciclico, nella fisiologica "distruzione creatrice". Chiamando a raccolta i migliori intelletti del mondo angloamericano, il Financial Times conclude che per sopravvivere il capitalismo deve affrontare sette sfide. Sono sette temi familiari, in cima alle preoccupazioni dell´opinione pubblica, presenti nell´agenda dei governi e sugli schermi radar degli esperti.
Al primo posto c´è la questione sociale: lavoro e diseguaglianze. Questo capitalismo ha generato società sempre più ineguali e la sua capacità di creare occupazione declina paurosamente. Le cause sono state individuate in passato nella globalizzazione e nel progresso tecnologico; più di recente si è rafforzata la scuola di pensiero secondo cui le diseguaglianze sono "fabbricate" da un sistema politico dove le oligarchie esercitano un´influenza spropositata.
A questo sono collegati altri tre temi. La questione fiscale, che ieri Barack Obama ha messo al centro del suo discorso sullo Stato dell´Unione: il finanziamento della spesa pubblica si è spostato in modo anomalo sul lavoro dipendente, alleggerendo il capitale. Il dinamismo dell´economia di mercato necessita di profonde riforme fiscali, tanto più in una fase di shock demografico per l´arrivo all´età pensionabile delle generazioni più popolose.
Terza questione, il rapporto fra democrazia e denaro; non è solo politica ma anche economica, perché la deriva oligarchica è una "inefficienza" che distorce sistematicamente le decisioni collettive, vedi le lobby scatenate contro le riforme del governo Monti.
Quarto tema nell´elenco del Financial Times è la riforma del sistema finanziario, un cantiere ancora largamente bloccato nonostante lo shock del 2008. La finanza ha sempre avuto una tendenza degenerativa, analizzata dal grande economista Hyman Minsky: dall´arbitraggio delle opportunità si scivola verso la speculazione, da questa si precipita nella frode. È una storia antica ma le potenzialità distruttive sono amplificate dalla dimensione e interconnessione dei mercati finanziari moderni.
È impossibile aggredire le patologie del sistema bancario senza affrontare la questione della corporate governance (numero cinque): l´azienda moderna ha tradito i principi di responsabilità e di controllo, nel momento in cui l´élite manageriale si è affrancata dagli azionisti, per esempio fissando paghe sempre più stratosferiche e inappellabili.
Il problema numero sei è la questione dei "beni pubblici" in una economia globale: il mercato si è rivelato un meccanismo inadeguato a gestire beni universali ma scarsi come l´acqua, l´aria, le risorse naturali; la sicurezza o l´accesso all´istruzione.
Infine, la settima emergenza riguarda la gestione delle "macro-instabilità" e la concorrenza tra sistemi-paese. Il mercato rischia di incoraggiare una competizione al ribasso: in cui tutti i problemi elencati sopra (diseguaglianze, bassa tassazione dei capitali, saccheggio ambientale) si risolvono in una rincorsa del peggiore, verso il minimo comune denominatore. Ci sono però indicazioni contrarie: per esempio società fortemente egualitarie o meno ingiuste della media (Germania e paesi nordico-scandinavi) che si dimostrano competitive nella globalizzazione.
La questione della concorrenza tra sistemi è quella evocata dall´Economist nell´inchiesta sul ritorno del capitalismo di Stato. La Cina è un modello alternativo la cui forza contribuisce al crollo di autostima dell´Occidente. Anche India Brasile e d statalista ha sempre avuto fortuna nelle fasi di decollo iniziale (dalla Prussia al Giappone, all´Italia dell´Iri), poi con l´arrivo alla maturità le crepe del modello dirigista diventano evidenti. In passato però la crisi dei capitalismi di Stato si confrontava con la forza del paradigma "puro", quello americano: oggi invece anche nel cuore di questo modello originario il dubbio esistenziale ha messo radici.
Quell´avidità senza più freni
di Giorgio Ruffolo
Ogni regime che abbia una durata considerevole deve poggiare su una base di consenso sociale. Si può parlare di consenso passivo quando si manifesta nelle forme di una violenza repressa ma tollerata a causa della paura che suscita o del castigo divino che minaccia; e di consenso attivo quando procede da un sostegno convinto. Così è per il capitalismo: una formazione storica tanto dinamica e mutevole da chiedersi se le fasi che attraversa possano essere comprese in un concetto unitario.
Il capitalismo nasce da una transizione storica decisiva dai regimi sociali dell´antichità, caratterizzati da rapporti sociali garantiti dalla forza politica e militare a quelli della modernità contraddistinti sempre più dalle relazioni di mercato: una transizione che si compie lentamente nel medioevo. Quella transizione è per lungo tempo ostacolata, in Occidente, dalla morale cristiana, in quanto si fonda su passioni incompatibili con i suoi principi, come l´egoismo e l´avidità.
Questa resistenza è stata definitivamente vinta solo alle soglie della modernità dalla filosofia illuministica e liberale dell´utilitarismo. Fino a quel punto il "pregiudizio" cattolico che preclude al cammello di passare per la cruna di un ago getta sul mercante capitalista un´ombra di discredito.
Il paradosso utilitarista, introdotto da filosofi come Bentham nell´Inghilterra alla vigilia della rivoluzione industriale, permette al capitalismo di liberarsi di questo pregiudizio, fornendogli una preziosa legittimazione morale. Quel paradosso può essere compendiato nella sentenza del Mefistofele goethiano che presentandosi provocatoriamente come lo spirito della negazione, afferma di essere "una parte vivente di quella forza che perpetuamente pensa il male e fa il bene". A Faust che gli chiede "che dir vuole codesto gioco di strane parole" Mefistofele risponde evasivamente. Gli risponderanno invece gli economisti classici spiegando che il desiderio umano dell´arricchimento investito nella produzione competitiva si tradurrà in ricchezza per tutti, anche se in diversa misura per ciascuno. Dall´avidità può dunque nascere la prosperità.
Si possono muovere due obiezioni a questo ragionamento. La prima, avanzata da Keynes, più che un´obiezione morale è un rilievo pratico. Per superare la riprovazione etica – Keynes afferma – il successo del capitalismo deve essere talmente decisivo da essere inimmaginabile. Il rilievo non convince. Il successo del capitalismo è stato effettivamente vincente.
La seconda è più convincente. L´avidità è una passione incontrollabile. Anziché tradursi in un processo virtuoso di prosperità si può avvitare in un circolo vizioso di sistematico arricchimento. Fine a se stesso. E allora il tacito accordo che assicura la base del consenso necessario si rompe. È ciò che avvenne dopo la fine della prima guerra mondiale provocando una crisi che sfiorò la catastrofe. È ciò che rischia di avvenire ora se la crisi che ha quasi travolto il sistema finanziario dei paesi capitalistici sfocerà in una rovinosa recessione.
È possibile che il capitalismo superi anche questa crisi. Dopo tutto, come è stato detto, il capitalismo ha i secoli contati. Ma è anche possibile che non la supererà se resterà nel vortice del turbocapitalismo, o capitalismo finanziario, che lo ha travolto (Luttwak)
Ha bisogno di ricostituire un equilibrio soddisfacente tra finanza ed economia reale. Ha bisogno di ristabilire un equilibrio tra economia e politica. Ha bisogno di rinnovare quel compromesso storico con la democrazia che gli ha permesso di ritrovare le basi del consenso sociale nell´età dell´oro succeduta alla fine della seconda guerra mondiale.
I dubbi etici dei giovani americani
di Nicholas D. Kristof
Recentemente, parlando allo Swarthmore College, sono rimasto sorpreso da una domanda: per uno studente è immorale cercare lavoro in una banca? Il corollario di questa domanda, è questo: guadagnare milioni di dollari con il private equity è "antietico"?
No, a entrambe le domande.
Guardo con simpatia al movimento Occupy Wall Street, ma bisogna che ci rendiamo conto che la finanza non è il demonio. Le banche hanno dato un immenso contributo alla civiltà moderna: indirizzando il capitale sugli impieghi più efficienti hanno gettato le basi della rivoluzione industriale e della rivoluzione dell´informazione. Anche gli attacchi contro il private equity sono esagerati: non ha lo scopo di distruggere le aziende e raccoglierne le carcasse. L´obbiettivo è quello di acquisire aziende malgestite, renderle più efficienti (a volte licenziando la gente, ma spesso rivoluzionando il modello di impresa) e poi rivenderle realizzandoci un profitto. Questa è la natura dura e spietata del capitalismo.
Spero che i giovani che si dedicheranno alla finanza dimostrino giudizio, equilibrio e principi, invece di avidità e voglia di truccare le carte, come la generazione precedente. Così come i comunisti sono riusciti a distruggere il comunismo, i capitalisti stanno screditando il capitalismo.
Un sondaggio del Pew Research Center, a dicembre, ha scoperto che solo un americano su due reagisce positivamente alla parola capitalismo, contro un 40 per cento che reagisce negativamente. Nella fascia d´età fra i 18 e i 29 anni quelli che avevano una visione negativa del capitalismo erano più numerosi di quelli che ne avevano una visione positiva. Questi giovani americani vedono il socialismo in una luce più favorevole del capitalismo. In altre parole, i capitalisti arraffoni dell´America stanno trasformando i giovani americani in socialisti. Lo scetticismo dell´opinione pubblica è giustificato, a mio parere. Quasi tutte le grandi aziende hanno superpagato i loro amministratori delegati, compensando generosamente non solo i successi, ma anche i fallimenti. Le banche che hanno contribuito a provocare il disastro finanziario in cui ci troviamo sono riuscite a ottenere di essere salvate: hanno privatizzato i profitti e socializzato le perdite. Contemporaneamente, più di 4 milioni di famiglie si vedevano pignorare la casa. Banchieri e azionisti hanno trovato una rete di sicurezza a salvarli dalla caduta, le famiglie dei lavoratori no.
Negli ultimi anni, questo è certo, tutti i giovani che si sono lanciati nel mondo della finanza non l´hanno fatto per smania di riformare questo sistema truccato, ma per spremerlo fino all´ultima goccia. Nel 2007, alla vigilia della crisi finanziaria, il 47 per cento dei laureati di Harvard è andato a lavorare in società del settore finanziario: una colossale misallocation di capitale umano. Magari partono con buone intenzioni, ma poi tutti questi neolaureati finiscono per farsi prendere anche loro dalla smania dell´assalto alla diligenza.
Quando i finanzieri truccano il sistema dovrebbero ricordarsi dell´ammonimento di John Maynard Keynes: «L´uomo d´affari è tollerabile soltanto se è possibile riscontrare una qualche correlazione, anche approssimativa, fra i suoi guadagni e quello che le sue attività hanno apportato alla società».
Le banche e il private equity non sono il male e io non esorterei mai gli studenti del college a tenersene alla larga. Forse i giovani simpatizzanti socialisti di oggi, insieme a una sana regolamentazione e allo sdegno esplicito dell´opinione pubblica, contribuiranno a salvare il capitalismo dai suoi capitalisti corrotti.
(Traduzione di Fabio Galimberti). Copyright The New York Times- la Repubblica
Il pacchetto di liberalizzazioni del governo Monti va giudicato alla luce della prospettiva di una conversione ecologica. Confrontarlo con lo stato di cose presente non ha senso: quel pacchetto non ne costituisce alcuna reale alternativa (se non in senso peggiorativo) ed entrambi (il pacchetto e l'esistente) non sono sostenibili. Dunque, non si può restare fermi né tornare indietro. Quel pacchetto conferma però l'assoluta inconsistenza del liberismo nell'affrontare i problemi: sia nel cielo dell'alta finanza (il rischio default) che sulla terra della quotidianità: professioni, orari dei negozi, ruolo delle farmacie o organizzazione dei tassisti.
Cominciamo da questi ultimi. Ancora una volta l'impressione che dà il governo Monti è di non conoscere ciò di cui si occupa (ne ha già dato prova la prof. Fornero, che ha studiato per quarant'anni il sistema pensionistico ma si era dimenticata dello scivolo al prepensionamento, con decine di migliaia di persone che il governo lì per lì aveva lasciato sul lastrico).
Nessuno lo ha scritto, ma la prima misura di buon senso da adottare nei confronti dei tassisti è imporre il rilascio di scontrini fiscali emessi direttamente da un tassametro che funzioni come un registratore di cassa.
Ci aveva provato Prodi al termine del suo primo governo, provocando una rivolta. Ma è una misura civile: se tutti devono pagare le tasse in base al loro reddito, lo devono fare anche i tassisti. Così si accerta finalmente quanto guadagnano e si possono modulare su questi guadagni le tariffe amministrate: i loro redditi variano molto passando dalle città grandi a quelle medie e piccole; e negli ultimi due anni sono diminuiti fortemente per tutti (le aziende, principali clienti indiretti dei taxi, li rimborsano sempre meno ai loro dipendenti). Solo così, comunque, si possono affrontare in modo sensato tutti gli altri problemi.
Primo: che cosa vuol dire liberalizzazione? Già Adriano Sofri ha fatto notare sul Foglio che non può esserci una liberalizzazione della tariffa: non si può contrattare il prezzo di un passaggio per telefono né a bordo strada prima di salire sul mezzo. D'altronde, senza tariffe di riferimento - ma questo vale anche per medici, notai, avvocati, commercialisti - non si possono neanche chiedere sconti; si corre solo il rischio di essere fregati due volte. Al più si possono istituire taxi di prima, seconda e terza categoria (puliti e con aria condizionata i primi, sporchi, scassati e con la radio Roma-Lazio a pieno volume i secondi e i terzi), con tariffe differenziate, così come Montezemolo, e dietro di lui Trenitalia, ha deciso di reintrodurre la terza e la quarta classe nei treni.
Ma questo dividerebbe solo per due o per tre il parco macchine effettivamente disponibile, aumentando in misura corrispondente i tempi di attesa. Non è certo quello che si vuole ottenere.
Dunque la liberalizzazione non va perseguita dal lato delle tariffe, ma da quello dei costi. Poiché il costo del taxi incorpora quello della licenza - che è di circa 200 mila euro a Roma e Milano e, sembra, di 300 mila a Firenze, ma è sicuramente inferiore in molte altre città, fino a poche decine di migliaia di euro nella maggior parte dei casi - l'obiettivo è azzerare il balzello della licenza, riducendo di altrettanto il costo del servizio. Ma come?
Farle ricomprare ai Comuni a prezzo di mercato è impossibile (40 mila licenze per un prezzo medio di 70-80 mila euro per licenza fanno 3 miliardi!). La soluzione più spiccia è dichiararla illegittima - la compravendita delle licenze avviene "in nero" - espropriandone i detentori. Non manca chi abbia preso in considerazione questa soluzione: soprattutto tra coloro che si oppongono invece fieramente, in tutti gli altri campi, a una tassa patrimoniale (per loro). Ma un governo come quello di Monti non può farlo.
Quindi ha prodotto l'idea geniale di regalare a ogni taxista una seconda licenza, che questi può vendere - o noleggiare? - rifacendosi dell'esborso effettuato. Solo che se il numero dei taxi raddoppia, la concorrenza si fa selvaggia; gli incassi crollano, le nuove licenze non valgono più niente e i tassisti vanno in rovina e scompaiono.
A mano che non pretendano più di essere dei lavoratori autonomi, e accettino di diventare dipendenti di qualche grande società di taxi che - queste sì - potrebbero comprare a pacchi le loro licenze, mettendo al lavoro dei dipendenti pagati a cottimo; o, meglio, affittare giorno per giorno, come a New York, le loro licenze a dei disgraziati che, se non corrono come bestie per quattordici ore al giorno, non riescono a incassare quanto basta per affittare la licenza anche il giorno dopo.
A ben vedere l'obiettivo di tutte le liberalizzazioni di Monti è proprio questo: mettere l'impresa capitalistica fondata sul lavoro precario in concorrenza con il lavoro autonomo per spiazzare definitivamente quest'ultimo in nome della "modernizzazione". È lo stesso obiettivo che si prefigge con la liberalizzazione degli orari dei negozi: liquidare i negozi di vicinato gestiti in forma autonoma a favore dei supermercati e dei grandi magazzini aperti 24 ore su 24 perché basati sul lavoro precario, supersfruttato e sottopagato. Con la conseguente desertificazione non solo commerciale, ma anche generale, dei quartieri: privati, insieme al commercio, delle ragioni per frequentarne le strade.
Ma anche con la conseguenza non secondaria di desertificare, cioè mandare in rovina, tutti i fornitori di prossimità e di piccole dimensioni, a favore di fornitori esteri senza qualità; come si vede già oggi negli assortimenti offerti dalla grande distribuzione finita in mani francesi: Carrefour, Auchan, ecc. Ed è lo stesso obiettivo che il governo si propone con la liberalizzazione delle professioni, abolendo addirittura le tariffe di riferimento: con la conseguenza di privilegiare i grandi studi, in mano a vere e proprie imprese capitalistiche, che ingrassano a spese del lavoro precario e dei finti stage a cui vengono sottoposti i giovani senza protezioni familiari. Tanto, una volta sgomberato il campo dai fastidiosissimi lavoratori autonomi e/o liberi professionisti, le tariffe si possono rivedere al rialzo con accordi tra big player.
Ma, per tornare ai taxi, occorre ricordare che si tratta di un servizio pubblico locale, cioè un bene comune; che la sua riconversione ecologica richiede un orientamento alla mobilità sostenibile; e che questa è data da un'integrazione intermodale tra il servizio di massa (tram, pullman e metro) lungo le linee di forza degli spostamenti urbani, e mobilità dolce o flessibile (bicicletta, car pooling, car sharing e trasporto a domanda) a integrazione e alimentazione del trasporto di massa (con percorsi casa-fermata e viceversa). Il servizio di taxi è la principale forma di mobilità a domanda.
Certo ci vogliono tariffe più basse; percorsi più veloci su strade più sgombre; e più mezzi in circolazione. Ma non per lasciarli in attesa ai posteggi o in coda nel traffico di città congestionate; bensì per coprire, insieme alle altre soluzioni della mobilità sostenibile, il progressivo esautoramento della mobilità fondata sull'auto privata.
Per farlo occorre affiancare al servizio individuale di taxi quello condiviso. Sia in forme semplici: taxi incolonnati in corsie differenti, alle stazioni, agli ospedali e agli aeroporti, a seconda del settore di città che servono (e che partono solo quando sono pieni, o trascorso un certo tempo dopo la salita del primo passeggero); o che esibiscono su un grosso display la destinazione, in modo che altri passeggeri si possano aggiungere lungo la strada, condividendo il costo del passaggio. O in forme più complesse: taxi collettivi governati da un call center centrale che caricano passeggeri con origini, destinazioni e orari compatibili. Senza escludere, ovviamente, il potenziamento del taxi individuale.
Così si può contrattare a livello cittadino il graduale aumento delle licenze in corrispondenza di un aumento della domanda, misurata su una comprovata e consistente riduzione del numero di auto private in circolazione. Questa riduzione avverrà comunque; anzi, è già in corso: per la perdita del potere di acquisto della popolazione, che il prevedibile fallimento delle politiche economiche renderà esplosiva. Per questo il potenziamento del servizio taxi è strategico. Poi si dovrà compensare i tassisti per la perdita di valore delle loro licenze con sconti fiscali pluriennali tarati sui loro redditi effettivi, che finalmente saranno documentati.
Marx era convinto che lo Stato fosse l’agente del capitalismo. Non si aspettava che il capitalismo diventasse il giudice dello Stato.
Questa è la pretesa delle agenzie di rating che, travalicando la funzione tecnica di valutare i rischi dei singoli titoli, si sono auto attribuite il compito di giudicare l’affidabilità complessiva del debito pubblico dei governi. Una funzione decisamente politica. Svolta, peraltro, in modi tecnicamente assai contestabili: come risulta dai tanti attestati di ineccepibile solidità emessi dalle agenzie a "beneficio" dei risparmiatori su grandi banche d’investimento alla vigilia del loro clamoroso fallimento (per la storia: nel 2008 sette giganti "votati" con titoli lusinghieri dalle agenzie di rating, Aig, Bear Sterns, Citigroup, Countrywide Financial, Lehman Brothers, Merryl Lynch, Washington Mutual, collassavano con perdite di 107 miliardi di dollari, non gravanti sui loro dirigenti che nel frattempo – 2007-2008 – intascavano 450 milioni di dollari).
Da dove viene questa pretesa? Da dove l’indubbio peso che essa assume nel condizionare la condotta dei governi?
La risposta è semplice. L’autorità delle agenzie di rating deriva dalla loro natura di portavoce e portaordini di un mercato finanziario integrato, che si contrappone a un sistema politico diviso, determinando una condizione di rapporto di forza nettamente favorevole al primo.
Questa condizione ha la sua data di nascita ben precisa. È nata nei primi anni Ottanta del secolo scorso, quando le storiche decisioni di Thatcher e di Reagan liberarono i movimenti internazionali del capitale, disfrenando la sua potenza mondiale e sovvertendo i rapporti di forza tra capitale e lavoro e tra capitalismo e democrazia.
A Bretton Woods, quarant’anni prima, era stato instaurato un sistema mondiale che, mentre liberalizzava i movimenti delle merci, poneva limiti e ostacoli ai movimenti di capitale, riservando quindi un’ampia zona di autonomia alla politica dei governi nazionali e un ampio spazio ai movimenti operai. Questi limiti e questi ostacoli furono spazzati via.
La base di potere delle agenzie di rating sta dunque nell’integrazione del mercato finanziario internazionale cui si contrappone la frammentazione del potere politico mondiale. (I cantori liberali di quella "liberazione" potrebbero ri-leggere il monito di Davide Ricardo sui pericoli rappresentati dalla trasmigrazione da un paese all’altro del capitale, che non costituisce una merce avulsa dalla società ma una componente radicata della sua struttura).
Il divario di potenza tra economia e politica sul piano mondiale è tutto qui. E la risposta ovvia non sta certo nel ritorno alle economie nazionali protette, come nelle fantasie storiche della cosiddetta decrescita, ma, all’opposto, nella parallela integrazione in sistemi più ampi degli Stati: una risposta che ristabilirebbe un rapporto equilibrato tra capitalismo e democrazia.
L’Europa sta dando una risposta contraria e inefficiente.
Da un lato, quella britannica che vede nella City londinese un punto di riferimento centrale dell’organizzazione economica mondiale e ostacola con tutte le sue forze ogni passo verso l’unità europea. Dall’altro, la disperante assenza di visione della Germania e della sua riluttante Signora.
Una ricerca svizzera traccia il quadro delle relazioni tra grandi gruppi: meno di 150 multinazionali dettano le regole del mercato e strozzano la concorrenza: "Controllo sproporzionato, si rischiano ripercussioni disastrose". Unicredit nella top 50
Una cravatta il cui nodo è costituito da un nucleo piccolo ma solido di aziende che, dettando le regole, strozzano la concorrenza e gli Stati. Una rete di controllo di banche e multinazionali che tiene sotto scacco i mercati influenzandone la stabilità. E' l'immagine, colorita ma efficace, che emerge da una ricerca dell'Istituto Federale Svizzero di Tecnologia di Zurigo dal titolo "La rete globale del controllo societario" secondo cui 147 imprese nel mondo sono in grado di controllare il 40% di tutto il potere finanziario.
Lo studio, pubblicato da New Scientist, prende in esame le connessioni fra 43.060 multinazionali evidenziando un piccolo gruppo di 1.318 società transnazionali (la cui punta di diamante sono proprio le 147) che esercita un potere enorme, "sproporzionato" lo definiscono i relatori, sull'economia globale. Goldman Sachs, Barclays Bank e JPMorgan sono solo alcuni dei nomi delle corporation, quasi tutte finanziarie, che figurano ai primi 20 posti della "mappa del tesoro".
TABELLA - I primi 50 gruppi di controllo
Ma non si tratta della solita tesi complottistica utilizzata dagli analisti per spiegare il saliscendi di titoli che, più che seguire una logica, sembrano obbedire ai comandi della mano di un burattinaio. In questo caso ci troviamo di fronte ad un'analisi che non concede nulla alla speculazione e agli schemi ideologici, ma si basa esclusivamente su dati statistici. Lo studio, infatti, intreccia modelli matematici con un database delle aziende mondiali (Orbis 2007) ricostruendo reti di relazioni e partecipazione che costituiscono nodi di potere sui mercati globali, senza essere frutto di accordi sottobanco.
I tre autori (Stefania Vitali, James B. Glattfelder e Stefano Battiston) infatti hanno precisato che tali collegamenti tra compagnie, in una prima fase di crescita economica, possono risultare vantaggiosi per la stabilità dell'intero sistema. In tempi di crisi come quelli che stiamo attraversando, però, queste correlazioni potrebbero risultare molto pericolose perché, come in tutte le concentrazioni di potere, il collasso di una compagnia può avere ripercussioni disastrose sul resto dell'economia del pianeta.
"Quali sono le implicazioni per la stabilità mondiale?", si chiedono gli autori. "Si sa che le istituzioni costituiscono contratti finanziari, con diverse altre istituzioni. Questo permette loro di diversificare il rischio, ma, allo stesso tempo, li espone al contagio. In una situazione così interrelata, connotata da forti rapporti di proprietà, perciò il rischio di una contaminazione a catena è dietro l'angolo".
Per quanto riguarda l'Italia, oltre a Unicredito Italiano Spa tra i primi 50 gruppi di controllo, lo studio effettua uno screening della struttura del gruppo Benetton [nell’immagine qui sotto - n.d.r.] che mostra le diramazioni del controllo della capogruppo alle subsidiaries, alle consociate a livello internazionale.
La società di mercato come è comunemente intesa in Occidente, tradotta nel capitalismo liberale, basa la sua presa sulla "naturalità" delle relazioni socio-economiche che propone, e rappresenta la più evoluta forma che l'economia abbia mai conosciuto. Questo assunto - sbagliato, quantomeno arrogante, ma fortemente radicato - sta alla base delle difficoltà più grandi contro le quali si scontra l'esigenza impellente di una trasformazione del paradigma dominante (da noi imbastito, ma che ormai ci governa), per svoltare all'indirizzo della sostenibilità.
Per questo, guadagnare una prospettiva più ampia dalla quale osservare il nostro spaccato contemporaneo è un passo cruciale da compiere per lasciar intrappolate le riflessioni solo nella contingente emergenza data dalla crisi che ci troviamo ad affrontare. In questo percorso, la storia e l'antropologia sono armi ben affilate a nostra disposizione, con cui aprire una breccia nelle convinzioni pregiudiziali che ci impastano le mani e le menti. Ne parla a greenreport.it Cristiano Viglietti, antropologo del mondo antico e giovane docente all'università senese, fresco autore del volume Il limite del bisogno - antropologia economica di Roma arcaica.
Errore diffusissimo è quello di concepire il nostro modo di intendere l'economia come l'unico possibile, forse l'unico mai esistito. Da dove nasce questo difetto concettuale, e cosa invece spiegano la storia e l'antropologia?
«Dal punto di vista antropologico è un concetto aberrante, che in qualche modo annulla la diversità culturale. L'errore deriva dal filone dell'evoluzionismo presente nel pensiero moderno, e che trova espressione nella cosiddetta antropologia dell'età vittoriana di metà ottocento, mascherata da ideologia che supportava il colonialismo. Tale visione concepisce una scala evolutiva da un grado selvaggio ad uno evoluto dei rapporti socio-economici (che si realizza nella nostra economia liberale e moderna), mentre società diverse dalla nostra, storicamente o geograficamente, vengono dipinte come inferiori, esempi imperfetti dell'obiettivo a cui tendere.
«Tecnicamente, si parla di etnocentrismo, l'idea per cui il popolo a cui appartiene l'osservatore sia superiore agli altri. Questo è per noi un modo di giustificare la nostra pretesa di superiorità: ciò che è diverso non diventa fonte di dialogo o conoscenza, semplicemente non ci serve. È un aspetto fondamentale della cultura occidentale dal ‘700-‘800 ad oggi, ma negli ultimi decenni è possibile osservare come le persone stiano iniziando a pensare diversamente».
Come possono essere sintetizzati i modi di concepire l'economia e i rapporti socio economici della Roma arcaica?
«In soldoni, c'è l'idea che l'economia sia innanzitutto un fatto sociale. I comportamenti economici dunque non devono andar contro la conservazione della società. Nella Roma arcaica i principi fondamentali erano quelli di paupertas e parsimonia, legati tra loro al concetto fondamentale di modestia e moderatio, il senso della misura. L'avidità umana c'è sempre stata, non l'ha inventata certo Adam Smith; solo, nel mondo romano c'era coscienza che se prevale l'aspetto individualistico, la società si disfa. Per questo, certi comportamenti venivano sanzionati moralmente ma anche legalmente: gli scialacquatori del patrimonio perdevano diritti su questo, le leggi sull'usura erano molto rigide e neanche si potevano fare funerali troppo sfarzosi, come pure esistevano limiti alla possibilità di accumulare possedimenti terrieri, come nel caso delle leggi Licinie Sestie.
«Per il resto, la Roma arcaica aveva i suoi miti, come noi i nostri. Noi pensiamo all'homo oeconomicus, mentre i romani avevano il mito dell'agricoltura, per cui il cittadino più in armonia con gli altri e con gli dei era colui che coltivava la terra».
Quali modelli può offrire Roma arcaica per l'economia del mondo contemporaneo?
«Non sono un passatista, e non credo che sia necessario tornare a comportarci come i romani arcaici. Non avrebbe senso, era un mondo diverso, un diverso modo di pensare. Questa considerazione ci aiuta però a realizzare come il nostro sia un mondo relativo, che noi abbiamo messo in piedi e che noi possiamo cambiare.
Pensiamo di essere all'apice dell'evoluzione, ma non è così: il nostro è solo uno delle migliaia di modi per organizzare la nostra esistenza, con i suoi pregi e difetti. Per questo è utile confrontarci con le declinazioni assunte dall'economia nelle altre società: da questo punto di vista, da Roma arcaica possiamo sicuramente estrapolare come modello il tratto della misura che era presente».
Come intendevano i romani arcaici il concetto di "ricchezza"?
«Tramite espressioni interessanti, come quella del satis dives, ricco a sufficienza: qualcosa che sfugge completamente alla nostra cultura. Per noi, col presupposto-bufala del postulato di scarsità, i bisogni materiali sono infiniti, e la società migliore è quella che riesce a saziarne la maggio parte.
Per i romani arcaici vigeva invece la cognizione per cui, arrivati ad una certa soglia di ricchezza, questa è bastevole, e dunque rappresenta una soglia raggiungibile. Il sistema stesso in cui il romano viveva non lo incoraggiava ad accumulare la ricchezza per la ricchezza, dato che, ad esempio, raggiunta una certa soglia era possibile accedere alla prima fascia di censo, ed era inutile accumulare ulteriormente».
Eppure l'economia dell'impero romano (in un certo senso il primo "mondo globalizzato"), basata su conquiste militari, schiavi ed agricoltura, finì per imboccare una sorta di deficit entropico - "consumando" il proprio capitale, formato da terre produttive e popolazione agricola. Quali insegnamenti è possibile trarre dagli errori compiuti?
«La fine dell'impero romano è stata anticipata da una crisi di credibilità: verso chi lo governava, verso la moneta, verso gli atti politici. Dall'altra parte, si è trovato schiacciato dal peso crescente della pubblica amministrazione e dell'esercito, da quell'esosità in cui era caduta la finanza pubblica.
«Un insegnamento che sicuramente può essere tratto dalla Roma antica è però quello della presenza contemporanea di unità e rispetto della diversità, col quale governava l'immenso territorio conquistato, dove le città delle province venivano amministrate da magistrati locali, come pure erano presenti anche zecche locali che battevano moneta. Era una realtà estremamente complessa».
Come mai crede che proprio lo spirito del capitalismo sia riuscito ad avere una penetrazione così forte nei vari ambiti sociali e geografici della moderna umanità?
«Questa è la domanda con la D maiuscola. Se noi osserviamo storicamente i pensatori dai quali lo spirito del capitalismo fuoriesce, presentano tutti il tratto comune di aver ricevuto un'educazione prettamente puritana. Il puritanesimo promuoveva la repressione del desiderio, anche sessuale: vedo il pensiero capitalista una forma di reazione a questa repressione forzata, e che ha portato all'estremo opposto (anche nella sfera sessuale, dato il collegamento individuabile tra capitalismo e libertinismo).
«Il capitalismo comincia a nascere dalla fine del medioevo, da società che avevano fatto del pauperismo il loro punto focale, come reazione allo schiacciamento del desiderio e chi l'aveva imposto: il pensiero capitalistico è un'apertura all'infinito dei desideri. L'etica capitalistica ha dunque anche delle ottime ragioni storiche sulle quali si basa, non solo difetti. Adesso però c'è bisogno di ripensare quell'etica, e rimetterla al posto che le spetta nella storia, auspicabilmente non nel futuro».
Antropologicamente, è possibile individuare un connubio di fattori comuni che predispongono ad un cambiamento della mentalità socioeconomica, o si tratta di un processo casuale? Come si aspetta potremmo giungere ad una nuova e necessaria trasformazione culturale, verso un'economia sostenibile?
«No, non è un processo casuale. La trasformazione culturale è specchio della trasformazione umana, siamo perduti se non pensiamo questo. È l'azione umana che cambia le cose. Noi siamo allevati in una certa etica, con una mentalità imbevuta di economicismo in ogni ambito. Per questo è difficile pensare che in un battito d'ali cambi tutto, anche se il mondo moderno cambia davvero molto più velocemente rispetto al passato, e la pressione della crisi, sociale ed ecologica, può accelerare il tutto, nonostante siano ancora in atto resistenze fortissime in merito.
«Cerchiamo di trovare una cura alla crisi invocando la crescita, la cui ideologia ci ha invece portato dove siamo adesso. Se il Pil italiano dal 1961 è cresciuto del 300%, l'occupazione solo dello 0,2%. Da un lato l'evoluzionismo ci invita a pensare che la crescita ci salverà, dall'altro facciamo i conti col catastrofismo tipico dei giornali, e ci troviamo imbevuti da dogmi per cui sembra già scritto da qualche parte come il mondo andrà a finire, e che finirà male. Ma chi l'ha detto? L'uomo può agire e scrivere la propria storia. Decrescita è una parola sbagliata, se ne travisa il senso. Meglio sarebbe parlare di a-crescita o frugalità, ma anche queste non vanno poi così bene.
«Dobbiamo trovare la parola giusta, guidare pacificamente il cambiamento di una cultura che ci portiamo dietro come minimo dalla seconda rivoluzione industriale. Serve mettere in moto la volontà umana e, al momento, a naso, è una cosa che partirà dal basso e dai giovani, oppure non partirà, dato che per un cambiamento dall'alto siamo ancora in alto mare. È l'ideologia moderna che deve cambiare: non c'è bisogno di crescita, ma di equità e consapevolezza».
La giornata di Firenze, il 9 dicembre, organizzata su "La Rotta d'Europa" merita qualche riflessione più seria di quella che le abbiamo dedicato sabato scorso. Essa incrocia alcuni temi maggiori della vicenda delle sinistre negli ultimi anni, noi inclusi.
La prima è la valutazione della crisi: perché, da quando, da chi e come essa viene giocata. La chiamiamo "crisi del capitalismo": se con questo si vuol dire che è una crisi "nel capitalismo", va bene ma se sottintediamo che il capitalismo è in crisi non va bene affatto. Su questo c'è stata fra i convenuti una certa chiarezza. Il sistema attraversa le crisi senza perdere la sua egemonia se non si scontra con una soggettività alternativa, o rivoluzionaria, al suo livello. Oggi questa non c'è. È vero che il 99 per certo delle popolazioni è vittima di questa crisi, ma più di metà di questo 99 per cento non lo sa. E si tarda a individuare perché, nel rapporto di forze sociali, siamo tornati indietro di un secolo. E anche le più generose reazioni puntuali - operaie quando, come nel caso della Fiat, il lavoro è direttamente attaccato, o sui beni comuni che si vogliono sottomessi al profitto privato, o contro la corruzione - ma anche le più vaste e giovanili, del tipo "Indignatevi", sono destinate a essere travolte se non individuano chiaramente il meccanismo di dominio avversario.
Questo non è facile. Una delle carte vittoriosamente messe in campo dal capitale è la tesi di Fukujama che, con la caduta dei "socialismi reali", ai quali erano direttamente o indirettamente legate le organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio, si era alla "fine della storia". Naturalmente non è così, la storia non finisce. Ma è certo che il capitale ha reagito prima di noi alla crescita di un anticapitalismo diffuso culminato dalla fine dei colonialismi al '68, e la sua aggressività ha cambiato l'organizzazione del lavoro, mondializzato a sua immagine e somiglianza il pianeta, dilatato le inuguaglianze, ribaltato la cultura politica del secondo dopoguerra. E non solo: ha modificato i suoi equilibri interni, enfatizzando lo spazio della finanza rispetto alla cosiddetta "economa reale". Di qui il ridursi delle alternanze politiche fra destra populista e destra liberista, Berlusconi e Monti, con conseguenti devastazioni della libertà di uomini e donne come eravamo giunti a concepirla.
Non diversamente dalla crisi dei subprimes, quella europea viene dall'essere stata concepita l'Europa e la sua moneta in pieno liberismo, dunque monetarismo e priorità alla deflazione, nella paralisi delle sinistre. Che neppure hanno la forza di spiegare perché D'Alema e Bersani siano così velocemente succeduti al Pci dei suoi anni migliori, che cosa esso è stato realmente, che cosa è stata l'Urss se alla sua caduta non si è fatto strada nessun tentativo vero di socialismo e libertà. Non sono interrogativi retorici, o da trascurare, perché ne è venuta la incapacità di pensare qualsiasi alternativa, anche solo riformista, di sistema - ed è caduto ogni sforzo di analisi del modo di produzione, ogni soggettività di sinistra e cambiamento se non per frammenti, e perlopiù incomunicanti. Il dominio del capitale, finanziario e non, non ha più limiti, Marchionne ci sbeffeggia sulla Fiat "dopo Cristo", anticipando, come ha detto Landini, una linea generale di distruzione non solo di ogni comunismo ma di ogni riformismo, abbattendo quelli che consideravamo "diritti".
Su questa analisi i convenuti a Firenze sono stati d'accordo più o meno tutti. Ma le sue forme sono articolate, in parte oscure, in parte senza fondamento, difficili da cogliere: passato in secondo piano Berlusconi l'imbroglione, Monti l'onesto ci copre onestamente di lividi. Le sinistre storiche consenzienti o afone.
La seconda questione della quale si è discusso riguarda il che fare. Trenta anni fa, e forse meno, a una così violenta convulsione del sistema avremmo risposto con un tentativo di rovesciarlo o almeno condizionarlo fortemente. Adesso abbiamo accettato che distrugga non dico l'ideale di un rivoluzionamento, ma l'assai più modesto compromesso dei Trenta gloriosi. Le sinistre storiche si adeguano, i movimenti si indignano, classi intere, a cominciare dal lavoro salariato, già retrocesso in precariato, vanno alla rovina e i paesi con loro. La famosa solidarietà europea non si vede, ogni stato pensa ai casi suoi.
Si può fare altro che mettere un fermo al precipitare della distruzione? Questo "La Rotta d'Europa" lo ha tentato attivando attorno a sé un inaspettato ascolto, compresi alcuni padri fondatori della Unione Europea che stanno a disagio nella dominazione franco-tedesca, peraltro priva di qualsiasi legittimità. Non si tratta di improvvise conversioni: si tratta della constatazione che la linea liberista non solo è crudele, ma non riesce a mettere fine a questa rovina. I paesi, sotto le manovre delle agenzie di notazione, sono sempre più soggetti ai tassi usurai delle banche, in assoluta inuguaglianza, e dunque l'uno è contro l'altro e in indebitamento crescente. Ed è appena cominciata. Le nostre proposte sono, appunto, "riformiste": colpire la finanza con una tassazione forte, colpire gli alti patrimoni, reintrodurre un controllo dei capitali in direzione opposta alla formula tedesca, ridare fiato agli organsimi comunitari, ricondurre la Bce a quelli che dovrebbero essere i suoi fini, riformare un gruzzolo, oggi dovunque scomparso per la crescita. Crescita vuol dire occupazione, oggi dovunque in calo e sotto intollerabili attacchi salariali.
E qui si incontrano sia i limiti del rifomismo, sia le proteste dei verdi, i quali ci ricordano che crescita vuol dire fino ad ora demolire le risorse naturali e l'equilibrio del pianeta. Guido Viale propone di uscire dalla opposizione crescita-decrescita, scegliendo "sviluppo", che non significa solo né soprattutto aumento di beni e consumi materiali, che soffocano la natura e noi. Come? Con chi? Non ci si può nascondere che il dialogo è difficile, quando non chiuso, fra paesi terzi alla fame, paesi emergenti che ruggiscono di crescita, paesi che cominciano ad avere una consapevolezza del problema, e soprattutto enormi interessi contrastanti. Non senza che ciascuno rivendichi una sua "centralità", secondo tradizioni radicate e fatali.
Terzo, il problema delle forme politiche. Luigi Ferrajoli ha ricordato a Firenze l'analfabetismo economico dei giuristi, e io mi permetto di ricordare l'analfabetismo politico degli economisti, sia detto senza offesa per nessuno. In verità è assai poco chiaro il confine fra quelli che chiamiamo politica, diritto, economia. Le misure della Ue, riprese da Monti, sono "economiche" se economia si riduce a "contabilità di bilancio", ma sono "politiche" sotto quello dei rapporti fra le classi e le conseguenze sulla intera società.
I movimenti di opposizione, che si levano in contrasto con le inerti sinistre storiche, come gli "indignados" non sempre sono in grado di sapere dove vanno o vorrebbero andare. Arde fra noi la contesa fra "finalmente sono finiti i partiti" e la "difficoltà dei movimenti a coordinarsi e a durare". Alcune esperienze delle comunità locali rielaborano il dilemma nella dialettica/incontro fra gli uni e gli altri (Della Porta, Lucarelli). Preme la discussione fra democrazia rappresentativa, democrazia partecipata, democrazia diretta (nel riordino fatto da Ginsborg e Dogliani) e indirizzata alla riforma dei trattati europei, in direzione del tutto opposta a quella che ha alimentato l'ultima riunione di Bruxelles.
Il confronto fra noi e lo scontro con i poteri è aperto su tutti i fronti. Ed esige approfondimenti cui non siamo troppo avvezzi. Ma una strada a Firenze si delinea, le volontà e gli impegni ci sono. Che essi incrocino i maggiori problemi della nostra storia è evidente.
Com´è possibile che un caldo autunno americano, sul modello della primavera araba, distrugga il credo dell´Occidente, cioè la visione economica dell´american way? Com´è possibile che il grido "Occupy Wall Street" raggiunga e trascini nelle piazze non soltanto i ragazzi di altre città americane, ma anche quelli di Londra, Vancouver, Bruxelles, Roma, Francoforte e Tokio? I contestatori non sono andati soltanto a far sentire la loro voce contro una cattiva legge o a sostenere qualche causa particolare: sono scesi in piazza a protestare contro "il sistema". Ciò che fino a non molto tempo fa veniva chiamato "libera economia di mercato" e che ora ricomincia a essere chiamato "capitalismo" viene portato sul banco degli accusati e sottoposto a una critica radicale. Perché il mondo è improvvisamente disposto a prestare ascolto, quando Occupy Wall Street rivendica di parlare a nome del 99% dei travolti contro l´1% dei profittatori?
Sul sito web "WeAreThe99Percent" si possono leggere le esperienze personali di quel 99%: quelli che hanno perduto la casa nella crisi del settore immobiliare; quelli che costituiscono il nuovo precariato; quelli che non possono permettersi nessuna assicurazione contro le malattie; quelli che devono indebitarsi per poter studiare. Non i "superflui" (Zygmunt Bauman), non gli esclusi, non il proletariato, ma il centro della società protesta nelle pubbliche piazze. Questo delegittima e destabilizza "il sistema".
Certo, il rischio finanziario globale non è (ancora) una catastrofe finanziaria globale. Ma potrebbe diventarlo. Questo condizionale catastrofico è l´uragano abbattutosi nel mezzo delle istituzioni sociali e della vita quotidiana delle persone sotto forma di crisi finanziaria. È irregolare, non si muove sul terreno della costituzione e della democrazia, reca in sé la carica esplosiva di un fenomeno ancora in gran parte sconosciuto, anche se stentiamo ad ammetterlo, e che spazza via le nostre consuete coordinate orientative. Nello stesso tempo, in questo modo una sorta di comunità di destino diventa un´esperienza condivisa dal 99%. Ne possiamo cogliere il segno nei saliscendi repentini delle curve finanziarie, che con le loro montagne russe rendono immediatamente percepibile il legame tra i mondi. Se la Grecia affonda, è un nuovo segnale del fatto che la mia pensione in Germania non è più sicura? Cosa significa "bancarotta di Stato", per me? Chi avrebbe immaginato che proprio le banche, così altezzose, avrebbero chiesto aiuto agli Stati squattrinati e che questi Stati dalle casse cronicamente vuote avrebbero messo in un batter d´occhio somme astronomiche a disposizione delle cattedrali del capitalismo? Oggi tutti pensano più o meno così. Ma questo non significa che qualcuno lo capisca.
Questa anticipazione del rischio finanziario globale, che si fa sentire fin nei capillari della vita quotidiana, è una delle grandi forme di mobilitazione del XXI secolo. Infatti, questo genere di minaccia è ovunque percepito localmente come un evento cosmopolitico che produce un cortocircuito esistenziale tra la propria vita e la vita di tutti. Simili eventi collidono con la cornice concettuale e istituzionale entro cui abbiamo finora pensato la società e la politica, mettono in questione questa cornice dall´interno, ma nello stesso tempo chiamano in causa sfondi e presupposti culturali, economici e politici assai differenti; analogamente, la protesta globale si differenzia a livello locale.
Sotto il diktat dell´emergenza le persone fanno una specie di corso accelerato sulle contraddizioni del capitalismo finanziario nella società mondiale del rischio. I resoconti dei media fanno emergere la separazione radicale tra coloro che generano i rischi e ne traggono profitto e coloro che ne devono scontare le conseguenze.
Nel Paese del capitalismo da predoni, gli Stati Uniti, sta prendendo forma un movimento di critica del capitalismo - ancora una volta, si tratta di un evento imprevedibile. Abbiamo detto "follia" quando è crollato il muro di Berlino. Abbiamo detto "follia" quando, il 9 settembre del 2001, le Twin Towers di New York si sono disfatte nella polvere. E abbiamo detto "follia" quando, con il fallimento di Lehman Brothers, è scoppiata la crisi finanziaria globale. Cosa significa "follia"? Anzitutto una conversione spettacolare: banchieri e manager, i fondamentalisti del mercato per antonomasia, fanno appello allo Stato. I politici, come in Germania Angela Merkel e Peer Steinbrück, che fino a non molto tempo fa esaltavano il capitalismo deregolato, dal giorno alla notte cambiano opinione e bandiera, e diventano fautori di una sorta di socialismo di Stato per ricchi. E ovunque regna il non-sapere. Nessuno sa cosa sia e quali effetti possa realmente produrre la terapia prescritta nella vertigine degli zeri. Tutti noi - vale a dire il 99% - siamo parte di un esperimento economico in grande, che da un lato si muove nello spazio fittizio di un non-sapere più o meno inconfessato (si sa solo che, quali che siano i mezzi adottati e gli obiettivi perseguiti, bisogna impedire qualcosa che non deve in nessun modo accadere), ma, dall´altro, ha conseguenze durissime per tutti.
Si possono distinguere diverse forme di rivoluzione: colpo di Stato, lotta di classe, resistenza civile ecc. I pericoli finanziari globali non sono nulla di tutto ciò, ma incarnano in modo politicamente esplosivo gli errori del capitalismo finanziario neoliberista che è stato ritenuto valido fino a ieri e che, con la violenza del suo trionfo e della catastrofe ora incombente, esige la loro presa d´atto e la loro correzione. Essi sono una sorta di ritorno collettivo del rimosso: alla sicurezza di sé neoliberista vengono rinfacciati i suoi errori di partenza.
Le crisi finanziarie globali, che minacciano in tutto il mondo le condizioni di vita delle persone, producono un nuovo genere di politicizzazioni "involontarie". Qui sta il loro bello - in senso politico e intellettuale. Globalità significa che tutti sono colpiti da questi rischi, e tutti si ritengono colpiti. Non si può dire che ciò abbia già dato origine a un agire comunitario; sarebbe una conclusione affrettata. Ma c´è qualcosa come una coscienza della crisi, che si nutre del rischio e rappresenta proprio questo tipo di minaccia comune, un nuovo genere di destino comune. La società mondale del rischio - questo mostra il grido del "99%" - può acquisire una consapevolezza matura di sé in un impulso cosmopolitico. Ciò sarebbe possibile se si riuscisse a trasformare la dimostrazione oggettiva di condizioni che si rivolgono contro sé stesse in un impegno politico, in un movimento Occupy globale, nel quale i travolti, i frustrati e gli affascinati, ossia tendenzialmente tutti, scendono in piazza, virtualmente o effettivamente.
Ma da dove nasce la forza o l´impotenza del movimento Occupy? Non può trattarsi soltanto del fatto che perfino gli squali di Borsa si dichiarano solidali. Il rischio finanziario globale e le sue conseguenze politiche e sociali hanno tolto legittimità al capitalismo neoliberista. La conseguenza è che c´è un paradosso tra potere e legittimità. Grande potere e scarsa legittimità da parte del capitale e degli Stati, e scarso potere ed alta legittimità da parte di quelli che protestano in modo pittoresco. È uno squilibrio che il movimento Occupy potrebbe sfruttare per avanzare alcune richieste basilari - come ad esempio una tassa globale sulle transazioni finanziarie - nell´interesse correttamente inteso degli Stati nazionali e contro le loro ottusità. Per applicare questa "Robin Hood Tax" si dovrebbe dar vita in modo esemplare ad un´alleanza legittima e potente tra i movimenti di protesta globali e la politica nazional-statale. Quest´ultima potrebbe così compiere il salto quantico consistente nella capacità degli attori statali di agire in una dimensione trans-statale, cioè al di qua e al di là delle frontiere nazionali. Se questa esigenza viene espressa perfino dalla cancelliera federale tedesca Angela Merkel e dal presidente francese Sarkozy perlomeno nella forma di un bello slogan, allora si può senz´altro accreditare a questo obiettivo una possibilità di realizzazione.
In termini generali, nella consapevolezza globale del rischio, nell´anticipazione della catastrofe che occorre impedire ad ogni costo, si apre un nuovo spazio politico. Nell´alleanza tra i movimenti di protesta globali e la politica nazional-statale ora si potrebbe ottenere, alla lunga, che non sia l´economia a dominare la democrazia, ma sia, al contrario, la democrazia a dominare l´economia.
Contro la percezione - che sta diffondendosi rapidamente - di una mancanza di prospettive forse può aiutare la consapevolezza del fatto che i principali avversari dell´economia finanziaria globale non sono quelli che ora piantano le loro tende nelle pubbliche piazze di tutto il mondo, davanti alle cattedrali bancarie (per quanto importanti, anzi indispensabili siano le iniziative di questi contestatori); l´avversario più convincente e tenace dell´economia finanziaria globale è la stessa economia finanziaria globale.
(Traduzione di Carlo Sandrelli)
Le dichiarazioni del ministro Maurizio Sacconi circa la possibilità che creare tensioni sulla riforma del lavoro possa portare a nuove stagioni di attentati sono a dir poco avventate. Non vorremmo pensare che sia un modo per mettere a tacere qualsiasi critica.
Ma è quanto meno un modo per evitare che si parli della inettitudine del governo, di cui è parte, nel fare fronte con adeguate politiche dell’economia e del lavoro ai drammi sociali della crisi. Ciò che infatti lascia stupefatti, nei propositi governativi di accrescere la libertà di licenziamento, è che vi siano un ministro del Lavoro, un certo numero di accademici, quattro quinti dei media e molti politici, anche di centrosinistra, capaci di sostenere con tutta serietà che ciò è necessario perché i lavoratori godono di garanzie eccessive quanto a mantenimento del posto. Sono troppo garantiti. Il posto fisso di tanti occupati impedirebbe alle aziende di assumere perché in caso di crisi non li possono licenziare.
Qualcuno dovrebbe spiegare ai fautori del licenziamento facile che nel mondo reale delle imprese e del lavoro il posto fisso, ossia la sicurezza dell’occupazione, è sulla via del tramonto da oltre un decennio, e con la crisi è quasi scomparso. Oppure potrebbero prendere loro l’iniziativa, facendo una serie di conferenze in giro per l´Italia allo scopo di spiegare a migliaia di lavoratori, occupati da imprese in crisi, come mai le straordinarie garanzie dell’occupazione di cui godono per legge non consentono ai loro datori di lavoro di licenziarli, ma soltanto di dichiararli "esuberi". Un’etichetta che a rigore non è un licenziamento, ma quasi sempre porta allo stesso risultato: la perdita del lavoro, attraverso calvari più o meno lunghi che si chiamano cassa integrazione, piani di mobilità, prepensionamenti.
Avrebbero un lungo tour da fare, i fautori del licenziamento reso facile per far crescere le imprese e l´occupazione. Potrebbero cominciare da Pomigliano, dove Fiat assicura che per l´inizio del 2012 arriverà ad assumere almeno 1000 persone (purché, beninteso, non abbiano la tessera della Fiom); gli altri 4000 potranno godersi ancora per qualche mese il posto garantito dalla cassa integrazione (750 euro al mese). Dopo, chissà. Si dovrebbe poi visitare Mirafiori, dove i 5000 che saranno in cassa fino a metà del 2013 possono solo sperare che la targa di esuberi nel frattempo non cada anche su di loro. Il viaggio per spiegare ai lavoratori quanto siano garantiti, per cui occorre una nuova legge apposita al fine di ridurre le inaudite garanzie di cui godono, potrebbe quindi spingersi a Monfalcone a est ed a Sestri a ovest, luoghi dove Fincantieri ha annunciato 2.550 esuberi, o nei siti Alenia di Piemonte, Lazio e Campania, dove gli esuberi annunciati – da attuare mediante "accompagnamento alla pensione" – sono 2.200. Per arricchire il tour non guasterebbe una sosta nelle grandi piazze finanziarie, o a Roma presso l’Abi, visto che le banche hanno in programma 30.000 prepensionamenti obbligatori. E sempre a Roma i paladini del licenziamento all´americana – si chiama uno e gli si dice "sei fuori, ma hai mezz´ora per portar via le tue cose" – potrebbero fare una capatina al ministero dello Sviluppo Economico, chiedendo di dare un’occhiata alle tabelle che mostrano come i lavoratori a rischio di perdere il posto causa crisi delle imprese che le occupano siano intorno ai 75-80.000. Si tratta in molti casi di imprese medio-grandi, tipo Merloni (4.000 lavoratori a rischio), Eutelia, un caso di cui si è molto parlato (1.900), Natuzzi (1.350) e decine di altri. Facendo un po’ di somme, che richiederebbero di andare ben oltre i casi citati, i lavoratori supposti godere di un posto fisso, ma che a causa della crisi sono in questo momento in procinto di perderlo, sono centinaia di migliaia.
Dinanzi a simili realtà e al fatto che il governo sembri non tenerne minimamente conto, un’altra ipotesi potrebbe essere che tanto la lettera della Ue, quanto il fervore antilavorista del governo stesso, siano un mediocre gioco delle parti per dare a intendere agli investitori che l’una e l’altro sanno bene come mettere in atto programmi anticrisi davvero efficaci. Facendo finta di credere che il posto fisso esista ancora.
Ho scritto per il prossimo numero di «Gli asini» un articoletto che mi è venuto di getto sentendo guardando leggendo quel che accadeva in America e ahinoi anche in Italia, perfino con manifesti della nostra pseudo sinistra, e mi permetto di riproporlo qui con qualche modifica, dopo aver letto un altro articolo uscito proprio su queste pagine intitolato significativamente L’uomo dei sogni.
Mi ha colpito il pianto giovanile sul cadavere di Steve Jobs, che mi ha ricordato quello senile di qualche anno fa sul cadavere di Gianni Agnelli (muoiono anche i “grandi” e i “benefattori dell’umanità”, se Dio vuole!, grazie alla Natura e a quel prodotto del Capitale chiamato Cancro). Nel pianto dei giovani su Steve Jobs ho letto la stessa incoscienza. La stessa imbecillità? E se allora scandalizzava vedere come i vecchi operai piangessero il loro sfruttatore effetto del Cancro chiamato Televisione non scandalizza di meno vedere oggi dei giovani piangere uno degli artefici della loro alienazione dall’intelligenza del mondo e dalla possibilità di essere se stessi, coscienti, ragionanti, capaci di intervenire sul destino che la società degli Steve Jobs ha deciso per loro.
Il paradosso maggiore sarebbe constatare, come è assai probabile, che molti degli stupidi orfanelli di Steve Jobs siano anche molti dei manifestanti di queste settimane contro Wall Street e l’alta finanza manipolatrice e distruttrice l’un per cento della popolazione mondiale che campa alle spalle del 99 per cento, ha detto una rediviva e sensatissima Naomi Klein.
Si potrebbero accampare contro Jobs molte ragioni tradizionali di ripulsa, per esempio lo sfruttamento dei lavoratori cinesi, per esempio il costo dei suoi strumenti rispetto a quelli di altre case, per esempio l’ossessione del lucro su ogni cosa brevettata, per esempio l’adesione alla diabolica considerazione antica di certo puritanesimo americano che ha sempre visto nel successo economico di un individuo un segno divino (protestantesimo come anima del capitalismo, Weber dixit) con la ripetizione più attuale e post-moderna del mito del self-made man “dall’ago al milione”. Eccetera.
Ma quello che più colpisce nel lutto sconsiderato di questi giorni è che fossero i giovani a dimostrarlo con la stessa logica e le stesse manifestazioni che per un Elvis Presley, un James Dean e magari un Che Guevara o un’altra delle faccette stampate sulle loro canottiere (pardon, t-shirt), e però con una convinzione diversa e maggiore, che va oltre il banale discorso delle mode e del consumismo di miti più o meno fasulli, che periodicamente, regolarmente, attraversano le società giovanili americanizzate. Perché i giovani pensano di dovere davvero qualcosa a Steve Jobs, con la loro possibilità di usare i suoi strumenti e di ricavarne diletto, conoscenza e comunicazione con gli altri. Come se il diletto rendesse più intelligenti e padroni di sé, la conoscenza enciclopedica e l’immediatezza delle notizie fossero sinonimo di cultura viva, e la comunicazione mettesse davvero in relazione con l’altro e permettesse uno scambio, un’interazione, un’azione. Come se i “mezzi” diventassero il fine nel momento stesso in cui lo tradiscono e negano, in cui creano nuove dipendenze, nuove droghe della coscienza invece che quella comunicazione che ci veda solidali in progetti comuni di liberazione.
C’è poco da sperare in una gioventù così succube dei media, e oggi non soltanto del loro discorso ma dei suoi strumenti “democratizzati”, alla portata di (quasi) tutti. L’unico effetto davvero positivo che è possibile riconoscere ai nuovi mezzi messi sul mercato dal “titano” Jobs (Il titano fu il titolo di un mirabile e dimenticato romanzo di Theodore Dreiser sulla figura del Capitalista americano, e l’impalcatura della vicenda non è affatto cambiata da allora) è quello di aver ridotto sensibilmente, forse enormemente, l’impatto della televisione, ma così come i nuovi mezzi alla Jobs ne sono la continuazione, così il fatto di possedere un proprio apparecchio televisivo portatile con programmi più vari, con un diluvio di programmi, di avere una specie di televisione propria emittente-ricevente non è un segno certo di liberazione ma invece di nuova e sempre più capillare sudditanza. Sì, Jobs è un’altra incarnazione del Grande Fratello dimostrato e denunciato da Orwell. E insomma, c’è non molto di nuovo sotto il sole, a parte le malattie concrete della Terra.
Schiavi della macchina che pensa per noi, come sempre? Uominimacchina come, diceva Simone Weil, era nelle aspirazioni dell’umanità moderna e in modi più raffinati e più completi è dell’umanità post-moderna, con le sue avanguardie giovanili? Steve Jobs non è stato un benefattore dell’umanità, ma uno dei suoi più attuali e raffinati oppressori.
Il sistema che ha portato alla crisi è un “surrogato del capitalismo” fondato sull’ideologia del libero mercato. Le risposte che sono state date alla crisi hanno cambiato assai poco, il sistema resta fondamentalmente ingiusto. Ma ci sono politiche economiche che possono cambiare le cose, aumentare l’uguaglianza, l’occupazione e i salari
[Questo testo è apparso come prefazione al volume dell’Istituto Sindacale Europeo-ETUI Exiting from the crisis: towards a model of more equitable and sustainable growth (ETUI, 2011) scaricabile dal sito. Scritta prima del precipitare della crisi dell’estate, l’analisi di Stiglitz presenta le alternative di politica economica per affrontare la crisi]
Forme diverse di economia di mercato esistevano anche prima della crisi attuale, e ad esse erano associati differenti modelli di policy. Per molti aspetti il “modello nordico” – quello dei paesi del Nord Europa – è riuscito a ottenere nel lungo periodo risultati migliori rispetto ai modelli alternativi, incluso quello americano, e il dibattito di politica economica si è chiesto se il “modello nordico” potesse essere applicato a paesi con condizioni differenti: potrebbe funzionare anche altrove e portare ad alti livelli di innovazione per un lungo periodo di tempo?
La crisi ha messo in dubbio i punti di forza e di debolezza dei vari modelli, e i criteri con i quali valutiamo i quadri alternativi di policy. Alcuni paesi hanno resistito meglio di altri alla tempesta, altri hanno avuto gravi responsabilità nel crearla. Alcune politiche, a lungo difese dai mercati finanziari e dalle istituzioni finanziarie internazionali, hanno contribuito alla diffusione della crisi in tutto il mondo.
C’è stato un momento in cui ogni economista era diventato keynesiano e un altro in cui Alan Greenspan ha messo in dubbio la capacità dei mercati di autoregolarsi. Ora tutto questo è passato. I mercati finanziari stanno spingendo per un ritorno alle vecchie maniere e, visto l’elevato debito pubblico, per il consolidamento dei bilanci degli stati – il che quasi sempre significa tagliare i servizi essenziali per i lavoratori e le lavoratrici. In un mondo già segnato da alti livelli di disoccupazione, le politiche di austerità pretese dai mercati porteranno a livelli di disoccupazione anche maggiori; e questo, a sua volta, provocherà una pressione verso il basso sui salari. Ma i conservatori negli Usa hanno continuato con il loro ritornello: la colpa della crisi sarebbe del governo che ha facilitato l’acquisto della casa e che ha creato rigidità nei salari: se solo i lavoratori fossero “flessibili” nelle loro richieste salariali, potremmo rimettere il mondo al lavoro.
Ogni sistema economico deve essere giudicato in base alla sua capacità di garantire miglioramenti sostenibili di benessere al maggior numero di cittadini possibile: questo è il messaggio chiave della Commissione internazionale per la misurazione delle performance economiche e del progresso sociale. In anni recenti, il sistema economico americano non ha ottenuto buoni risultati, anche prima della crisi. La classe media americana ha visto il suo reddito ristagnare o diminuire. Oggi la maggior parte degli americani sta peggio di quanto non stesse un decennio fa – e il saldo non considera la crescente insicurezza dovuta al rischio di disoccupazione e di perdita della copertura sanitaria, viste le inadeguate protezioni sociali Usa.
La crescente disuguaglianza negli Usa e in molti altri paesi è legata – secondo una Commissione di esperti dell’Onu – all’insufficienza della domanda aggregata globale, che a sua volta è al centro della crisi attuale. In un certo senso, alle classi più povere degli Usa è stato detto di non preoccuparsi della diminuzione dei loro redditi, ma di mantenere i loro standard di vita prendendo a prestito del denaro. Questa politica ha funzionato nel breve periodo, ma era chiaramente insostenibile nel lungo. E sarà difficile ripristinare un robusto e sostenibile livello di consumi senza ridurre le disuguaglianze. Sfortunatamente, le pressioni verso il basso sui salari causate dalla disoccupazione ci portano su una strada opposta, uno degli aspetti che dimostrano che i mercati di per sè non sono stabili.
Per la stessa ragione, gli appelli a una maggiore flessibilità dei salari – che nascondono una riduzione dei salari per i più vulnerabili – finiranno per indebolire la domanda aggregata ed essere controproducenti. Queste richieste sono particolarmente insensate quando siamo di fronte ad una moltitudine di contratti di debito che non sono indicizzati. Salari più bassi renderanno più difficile per i lavoratori ripagare i loro debiti, aggravando il disagio sociale e aggravando l’agitazione di mercati finanziari già molto instabili.
Non sorprende che alcuni paesi con migliori sistemi di protezione sociale abbiano fatto meglio dei paesi che hanno sistemi inadeguati, anche quando hanno affrontato shock esterni decisamente più consistenti. Negli ultimi decenni le cosiddette riforme hanno avuto l’effetto involontario di indebolire gli stabilizzatori automatici dell’economia, diminuendo la sua capacità di recupero. La maggior parte dell’aumento del debito pubblico in molti paesi industrializzati all’indomani della crisi è il risultato del funzionamento di questi stabilizzatori automatici, e sarebbe un errore ridurli.
I conservatori sostengono che in questo momento i tagli alla spesa sono indispensabili, se gli Stati Uniti non vogliono ritrovarsi in una crisi analoga a quella di Grecia e Irlanda. L’Irlanda è andata incontro alla crisi soprattutto perché ha creduto nell’ortodossia del libero mercato: mercati finanziari senza controllo hanno portato ad un rigonfiamento del settore finanziario che ha messo a rischio l’intera economia; mentre i politici si vantavano della crescita (i cui benefici non erano diffusi uniformemente), hanno dato poca importanza ai rischi a cui stavano esponendo l’economia. La lezione fondamentale dell’esperienza irlandese – e di quella degli Usa – è che non è possibile basarsi su mercati incontrollati e autoregolamentati.
Il caso della Spagna fornisce una risposta a chi sostiene che tutto ciò che bisogna fare è rendere più rigidi i vincoli di Maastricht ed evitare che i governi possano aumentare i deficit pubblici. Prima della crisi, la Spagna era in surplus. Il governo spagnolo avevano riconosciuto che i mercati stavano producendo profonde distorsioni nell’economia, ma non ha avuto né il tempo né gli strumenti per intervenire: oggi la Spagna è in forte deficit, con il 20% di disoccupazione e il 40% di disoccupazione giovanile.
E’ singolare come economisti ragionevoli, quando viene assegnato loro il compito di ragionare sulle scelte politiche, perdano rapidamente i loro punti di riferimento. Quando guardano alla salute di un’impresa, considerano cash flow e bilancio, attività e passività. Ma quando passano ad analizzare i bilanci pubblici, si concentrano esclusivamente sulle passività. Non si può fare a meno di pensare che questa cecità sia di natura politica: riducendo il debito sperano di forzare (in tempi come questi) i tagli alla spesa sociale. C’è però una risposta economica più razionale: aumentare gli investimenti, anche se finanziati col debito, può migliorare la solidità complessiva di una nazione e anche ridurre il rapporto deficit/Pil nel medio termine. Per paesi come gli Stati Uniti, con investimenti che non vengono più realizzati da anni e con la possibilità di contrarre prestiti a tassi vicini allo zero, una politica di questo tipo avrebbe risultati positivi: le entrate fiscali aumenterebbero molto più degli interessi da pagare, portando a una riduzione del debito e un aumento del Pil. Con un numeratore inferiore e un denominatore più alto, la crescita economica diventa più sostenibile.
Queste sono politiche “a somma positiva”. Ci sono altre politiche che possono migliorare l’efficienza dell’economia e promuovere una crescita di lungo periodo. Costringere le imprese a pagare i costi che impongono all’ambiente significa eliminare un sussidio distorto, aumentando l’efficienza. Il benessere sociale è stato migliorato dall’introduzione della regolamentazione ambientale, che ha portato a un’aria più respirabile e un’acqua più sicura. Utilizzando incentivi di mercato – tassando le attività “cattive” invece delle “buone”, come il lavoro o i risparmi – è possibile generare reddito e allo stesso tempo aumentare l’efficienza. I titoli finanziari tossici americani hanno inquinato l’economia globale e imposto costi enormi sulle spalle di altri. Esiste un’ampia gamma di imposte sul settore finanziario – compresa la tassa sulle transazioni finanziarie – che potrebbero generare un ammontare considerevole di entrate fiscali e magari portare anche a un’economia più stabile. Allo stesso modo, tasse sui derivati del petrolio e sulle attività che provocano emissioni di carbonio potrebbero incrementare l’efficienza energetica dell’economia, fornendo al tempo stesso le risorse necessarie per ridurre il deficit pubblico.
Infine, ci sono politiche che comportano pesanti trade-off , in cui non tutti hanno benefici nel breve periodo. Se il consolidamento fiscale ci dev’essere, questo non dovrebbe pesare sulle spalle di chi ha sofferto per il malfunzionamento del sistema durante l’ultimo quarto di secolo, ma piuttosto sulle spalle di chi ha beneficiato di questo sistema. Negli Stati Uniti, per esempio, con circa un quarto dell’intero reddito nazionale che appartiene all’1% più ricco della popolazione, moderati incrementi delle tasse sul reddito, sui guadagni in conto capitale e sul patrimonio potrebbero portare grandi entrate fiscali senza compromettere lo standard di vita. Anche una piccola tassa sulle transazioni finanziarie potrebbe far recuperare grandi risorse.
Il sistema economico è governato da un insieme di regole. Ogni insieme di regole favorisce alcuni giocatori alle spese di altri. E le regole influiscono sul funzionamento dell’intero sistema. Negli ultimi trent’anni, abbiamo cambiato molte regole in modo frammentario, sotto l’influenza di un’ideologia per la quale le regole migliori erano quelle che interferivano il meno possibile con i mercati. Questo, almeno, era ciò che sostenevano i loro difensori. Ma, nella pratica, il loro programma è stato ben diverso. La deregolamentazione, infatti, non ha portato a meno, ma a più interventi sul mercato: c’è stata una minore interferenza negli anni precedenti alla crisi, ma molti più interventi nel periodo successivo. Tutto ciò era prevedibile ed era stato previsto. Ciò che i sostenitori del cosiddetto “libero mercato” stavano creando era un sistema che ho chiamato un “surrogato del capitalismo”, il cui elemento essenziale è la socializzazione delle perdite e la privatizzazione dei guadagni. Questo “surrogato del capitalismo” è strettamente legato al capitalismo delle grandi imprese promosso da Bush e da Reagan. In alcuni casi non c’è trasparenza su chi finisce per pagare i regali fatti alle imprese: alla fine, naturalmente, a pagare sono i cittadini – come consumatori o contribuenti – spesso in modi che non sono facili da riconoscere, per esempio, attraverso la tassazione o l’aumento dei prezzi dei beni acquistati.
Alcune delle modifiche alla legislazione durante gli anni di Bush hanno colpito le persone più vulnerabili. Le norme che hanno reso la vita più difficile alle persone più indebitate – insieme alla mancanza di limiti ai tassi da usura che le banche potevano applicare – hanno reintrodotto negli Stati Uniti vincoli di servitù. Questo ha permesso alle banche di essere più avventate nel concedere prestiti, sapendo che esse avevano una maggiore possibilità di vederseli restituiti, con interessi, non importa quanto oltraggioso fosse il contratto. Si poteva sperare che scrupoli morali potessero prevenire il verificarsi di queste diffuse pratiche predatorie, ma l’avidità ha trionfato; con i regolatori del mercato che andavano a braccetto con le banche o erano accecati dall’ideologia del libero mercato, non c’è stato alcun controllo su tali pratiche abusive. Le banche avevano scoperto che c’era del denaro alla base della piramide sociale e hanno creato tecniche, e un sistema legale, per farlo muovere verso l’alto. Nessuno, guardando a ciò che è accaduto, direbbe che queste transazioni “volontarie” ma spesso ingannevoli hanno accresciuto il benessere di quelli che stavano alla base della piramide. Alla fine, a farne le spese è stato tutto il sistema mondiale.
Quattro anni dopo l’esplosione della bolla speculativa americana sul mercato mobiliare, che ha trascinato nel baratro l’economia globale, il prezzo di questi misfatti non è ancora stato pagato del tutto. La produzione rimane ben al di sotto del suo potenziale in molti paesi industrializzati, con perdite misurate nell’ordine di migliaia di miliardi di dollari. A queste vanno sommate le perdite dovute alla cattiva allocazione del capitale da parte del settore finanziario e alla cattiva gestione del rischio prima della crisi. A parte i periodi di guerra, nessun governo è stato mai responsabile di perdite cosi ingenti come quelle causate dalla condotta del settore finanziario. E tuttavia, quattro anni dopo, le regole del gioco, le regolamentazioni che il governo impone alle banche, devono ancora essere cambiate. Gli incentivi al rischio e alla speculazione di breve periodo rimangono; il problema dell’azzardo morale posto dalle banche “troppo grandi per fallire” si è aggravato, non si è ridotto. In alcune aree ci sono stati miglioramenti, ma anche in questi casi le leggi rimangono piene di esenzioni ed eccezioni, basate non su ragioni economiche ma sul bruto potere delle lobby.
Ogni società si fonda su un senso di coesione sociale e di fiducia, sul senso di equità. Non dovremmo sottovalutare le conseguenze che la crisi – e il modo in cui è stata affrontata – hanno avuto nello spezzare il contratto sociale e tutti quegli elementi che garantiscono il corretto funzionamento di una società. Che i banchieri abbiano perso la fiducia dei loro clienti è ovvio; una banca che aveva attuato pratiche ingannevoli ha semplicemente sostenuto che prendere precauzioni era responsabilità di altri; le banche di cui ci si possa fidare appartengono chiaramente al passato. La disuguaglianza viene di solito giustificata con il fatto che chi è pagato molto ha reso un maggiore contributo alla società, di cui tutti beneficiamo. Ma quando chi paga le tasse finanzia i bonus dell’ordine di milioni di dollari che vanno ai banchieri – che sono stati responsabili di perdite dell’ordine di miliardi di dollari per le loro aziende, e dell’ordine di migliaia di miliardi per la società – tutto questo non ha più alcun senso. Quando un esponente dell’amministrazione Obama ha annunciato il “doppio standard” – i lavoratori dovevano riscrivere i loro contratti per rendere le imprese dell’auto più competitive, ma i contratti dei banchieri erano sacrosanti e non potevano essere rivisti – anche questo ha mostrato che il sistema è fondamentalmente ingiusto, e che il governo, piuttosto che correggere le iniquità, vuole mantenerle.
Quel che è peggio, ai cittadini è stato chiesto di subire politiche di austerità, maggiore disoccupazione e tagli ai servizi pubblici per pagare i debiti provocati dal comportamento della finanza e in parte per proteggere gli azionisti e i possessori di titoli delle banche.
Un’economia non può funzionare senza la fiducia, e quando le banche insistono a voler tornare ai comportamenti di prima della crisi i cittadini sono giustamente scettici. La fiducia non tornerà fino a quando non saranno introdotte regole buone e rigide, fino a quando non verrà ristabilito un nuovo senso di equilibrio. Il settore finanziario dovrebbe servire l’economia – non viceversa. Abbiamo confuso i fini con i mezzi.
Oggi abbiamo le stesse risorse – in termini di capitale umano e fisico – che avevamo prima della crisi. Non c’è ragione per cui dovremmo aggiungere agli errori che ha fatto la finanza nella cattiva allocazione del capitale prima della crisi, l’ulteriore errore di sottoutilizzare le risorse della società dopo la crisi. La tecnologia moderna ha la capacità di accrescere il benessere di tutti i cittadini – e tuttavia in molti paesi – Stati Uniti inclusi – abbiamo creato un’economia in cui la maggior parte dei cittadini peggiora la propria condizione anno dopo anno. Possiamo anche vantarci dell’aumento del Pil, ma cosa c’è di buono se quest’incremento non si trasforma in benefici per i comuni cittadini? Se la crescita economica non porta a più ampi miglioramenti del benessere? O se questi incrementi sono effimeri e non sostenibili sia dal punto di vista economico che ambientale?
Le sfide che i governi, le nostre società e le nostre economie devono affrontare sono enormi. Forse non siamo più sull’orlo del baratro in cui eravamo nell’autunno del 2008, ma non siamo ancora fuori dai guai. Anche se profitti, bonus e crescita sono tornati, non potremo cantare vittoria fino a quando la disoccupazione non sarà tornata ai livelli di prima della crisi, e fino a quando i redditi reali dei lavoratori non saranno aumentati e non avranno recuperato le perdite subite in questi anni. Possiamo farcela – ma solo se sapremo correggere gli errori del passato, cambiare direzione e tenere bene a mente quali sono i veri obiettivi per i quali dobbiamo batterci.
Traduzione di Silvio Majorino. L’elenco dei 50 scritti apparsi nell’ambito della serie "La rotta d’Europa” è qui su Sbilanciamoci.info
NON sappiamo ancora se i manifestanti del movimento Occupy Wall Streetimprimeranno una svolta all'America. Di certo, le proteste hanno provocato una reazione incredibilmente isterica da parte di Wall Street, dei super ricchi in generale. E di quei politici ed esperti che servono fedelmente gli interessi di quell'un per cento più facoltoso.
Questa reazione ci dice qualcosa di importante,e cioè che gli estremisti che minacciano i valori americani sono quelli che Franklin Delano Roosevelt definiva i monarchici economici ("economic royalists") non la gente che si accampaa Zuccotti Park. Si consideri, innanzi tutto, come i politici repubblicani abbiano raffigurato queste piccole, anche se crescenti dimostrazioni, che hanno comportato qualche scontro con la polizia - scontri dovuti, pare, a reazioni esagerate della polizia stessa - ma nulla che si possa definire una sommossa.
Non c'è stato nulla, finora, di paragonabile al comportamento delle folle raccolte dal Tea Party nell'estate del 2009. Ciò nonostante, Eric Cantor, leader della maggioranza alla Camera, ha denunciato degli «assalti» e «la contrapposizione di americani contro americani». Sono intervenuti nel dibattito anche i candidati alla presidenza del partito repubblicano, il cosiddetto Grand Old Party, con Mitt Romney che accusa i manifestanti di dichiarare una «guerra di classe», mentre Herman Cain li definisce «antiamericani». Il mio preferito, comunque, è il senatore Rand Paul che, per qualche motivo, teme che i manifestanti cominceranno a impossessarsi degli iPads, perché credono che i ricchi non se li meritino.
Michael Bloomberg, sindaco di New York e gigante della finanza a pieno titolo, è stato un po' più moderato. Pur accusando anche lui i manifestanti di voler «portar via il posto a chi lavora in questa città», una dichiarazione che non ha nulla a che vedere con i reali obiettivi del movimento. E se vi è capitato di sentire i mezzibusti della CNBC, gli avrete sentito dire che i manifestanti si sono «scatenati» e che sono «allineati con Lenin».
Per capire tutto questo, bisogna rendersi conto che fa parte di una sindrome più ampia, nella quale gli americani ricchi, che beneficiano ampiamente di un sistema truccato a loro favore, reagiscono in modo isterico contro chiunque metta in evidenza quanto sia truccato questo sistema.
L'anno scorso, probabilmente lo ricorderete, alcuni baroni della finanza si infuriarono per alcune critiche molto miti fatte dal presidente Obama. Accusarono Obama di essere quasi un socialista perché appoggiava la cosiddetta legge Volcker, che voleva semplicemente impedire alle banche sostenute da garanzie federali di intraprendere speculazioni rischiose. E riguardo alla proposta di metter fine a una scappatoia che permette a molti di loro di pagare delle tasse bassissime, Stephen Schwarzman, presidente del Gruppo Blackstone, ha reagito paragonandola all'invasione nazista della Polonia.
Poi c'è la campagna diffamatoria contro Elizabeth Warren, una riformatrice del sistema finanziario che si candida al senato per il Massachusetts. Recentemente, un suo video su YouTube, in cui spiegava in molto eloquente e comprensibile a tutti perché si debbano tassare i ricchi, ha fatto il giro del web. Non diceva nulla di radicale: era solo una moderna versione della famosa definizione di Oliver Wendell Holmes, secondo la quale «le tasse sono ciò che paghiamo per vivere in una società civile».
Ma se dessimo ascolto ai paladini della ricchezza, dovremmo pensare che la Warren sia la reincarnazione di Lev Trotsky. George Will ha dichiarato che ha un «programma collettivista» e che crede che «l'individualismo sia una chimera». Rush Limbaugh l'ha definita, invece, «un parassita che odia il proprio ospite e che vuole distruggerlo mentre gli succhia il sangue».
Ma che sta succedendo? La risposta, di sicuro, è che i Masters of the Universe di Wall Street capiscono, nel profondo del loro cuore, quanto sia moralmente indifendibile la loro posizione. Non sono John Galt; non sono nemmeno Steve Jobs. Sono gente che è diventata ricca trafficando con complessi schemi finanziari che, lungi dal portare evidenti benefici economici agli americani, hanno contribuito a gettarci in una crisi i cui contraccolpi continuano a devastare la vita di decine di milioni di loro concittadini.
Non hanno ancora pagato nulla. Le loro istituzioni sono state salvate dalla bancarotta dai contribuenti, con poche conseguenze per loro. Continuano a beneficiare di garanzie federali esplicite ed implicite - fondamentalmente, siamo ancora in una partita in cui loro fanno testa e vincono, mentre i contribuenti fanno croce e perdono. E beneficiano anche di scappatoie fiscali grazie alle quali, spesso, gente che ha redditi multimilionari paga meno tasse delle famiglie della classe media.
Questo trattamento speciale non sopporta un'analisi approfondita e, perciò, secondo loro, non ci deve essere nessuna analisi approfondita. Chiunque metta in evidenza ciò che è ovvio, per quanto possa farlo in modo calmo e moderato, deve essere demonizzato e cacciato via. Infatti, più una critica è ragionevole e moderata, più chi la porta dovrà essere immediatamente demonizzato, come dimostra il disperato tentativo di infangare Elizabeth Warren.
Chi sono, dunque, gli antiamericani? Non i manifestanti, che cercano semplicemente di far sentire la propria voce. No, i veri estremisti, qui, sono gli oligarchi americani, che vogliono soffocare qualsiasi critica sulle fonti della loro ricchezza.
(© 2011 New York Times News Service.
Senza Unione politica in Europa, al governo ci troviamo la finanza. Le sue forme patologiche producono crisi e danneggiano tutti. Servirebbe una redistribuzione, la fine delle rendite e nuova domanda pubblica. Invece ci troviamo con il solito errore della politica dei due tempi
Che cos’è che ti colpisce di più della crisi attuale dell’Europa? L’immutabilità del paradigma liberista? L’intoccabilità della finanza? L’incapacità politica?
Colpiscono tutte e tre le cose, che però vanno ridefinite. È davvero liberista la politica economica europea, una politica economica in verità imposta da un solo paese, la Germania? In che senso la finanza è intoccabile, se non nel senso che essa finanza è al governo e che dunque la politica è impotente? La finanza è al governo perché l’Unione Europea, non essendo una unione politica, è indifesa nei confronti di quello che Chomski, riprendendo Eichengreen, chiama il “senato virtuale”.
Questo senato virtuale è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali che continuamente sottopongono a giudizio, anche per mezzo delle agenzie di rating, le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano ”irrazionali” tali politiche – perché contrarie ai loro interessi – votano contro di esse con fughe di capitali, attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi (e in particolare delle varie forme di stato sociale). I governi democratici hanno dunque un doppio elettorato: i loro cittadini e il senato virtuale, che normalmente prevale.
Ma ciò che colpisce di più è la straordinaria occasione storica che l’Europa ha mancato, nonostante le risorse naturali, economiche, umane e culturali di cui dispone: l’occasione di diventare una Unione democratica e giusta, ricca e indipendente.
La costruzione europea si è fondata su mercati e monete. C’era un’alternativa?
Il modello c’era, era quello prefigurato dai grandi federalisti italiani. Scriveva Ernesto Rossi, nel 1953: “Una tesi degli “esperti” [una tesi sostenuta dall’allora presidente della Confindustria, Angelo Costa] è che non è necessario costituire un’autorità politica sovranazionale incaricata della unificazione del mercato europeo. L’unione economica, secondo loro, può essere anche raggiunta con trattati che, conservando integra la sovranità degli Stati nazionali, aboliscano i contingenti alle importazioni, riducano la protezione doganale, regolino la convertibilità delle monete. Solo quando avremo così costruite le mura maestre dell’edifico europeo – essi dicono – potremo metterci sopra il tetto di un governo federale.”
Questa, infatti, fu la strada intrapresa, ma – avvertiva Rossi – “la verità è che, a questo modo, non si costruisce un bel niente: soltanto l’unificazione politica ci può dare la garanzia che il processo di unificazione economica sarà un processo irreversibile”. Si può forse tornare indietro e ricominciare da capo?
La finanza internazionale ha avuto un’espansione straordinaria. Che cosa è cambiato nel funzionamento del capitalismo?
Un sistema economico capitalistico – un’economia monetaria di produzione, nel linguaggio di Keynes – è impensabile senza moneta, senza banche e senza finanza, dunque nella struttura del sistema gli elementi reali e gli elementi monetari sono strettamente interconnessi. Tra elementi reali ed elementi monetari c’è però una gerarchia, nel senso che un sistema economico capitalistico potrebbe riprodursi senza crisi, per usare il linguaggio di Marx, soltanto se la distribuzione del prodotto sociale fosse tale da non generare crisi di realizzazione, di ‘sovrapproduzione’ (di sovrapproduzione relativa: rispetto alla capacità d’acquisto, non rispetto ai bisogni); e soltanto se moneta, banca e finanza fossero soltanto funzionali al processo di produzione e riproduzione del sistema, e non dessero invece luogo a sovraspeculazione e a crisi di tesaurizzazione.
Nel linguaggio di Keynes, non si darebbero crisi se la domanda effettiva, per consumi e per investimenti, e la domanda di moneta per il motivo speculativo fossero tali – by accident or design – da assicurare un equilibrio di piena occupazione. Ora è improbabile che questo caso si dia automaticamente, di qui la necessità sistematica di un disegno di politica economica. In breve: il sistema capitalistico – il ‘mercato’ – non è capace di autoregolarsi.
Negli ultimi anni (decenni) si è avuto un cospicuo spostamento, nella distribuzione del reddito, dai salari ai profitti e alle rendite finanziarie, e dunque si è determinata un’insufficienza di domanda effettiva e una disoccupazione crescente. D'altra parte la finanza è diventata un gioco fine a se stesso. In condizioni normali la finanza è un gioco a somma zero: c’è chi guadagna e chi perde; ma quando essa assume le forme patologiche di una ingegneria finanziaria alla Frankestein, ci perdono tutti: anche e soprattutto quelli che non hanno partecipato al gioco. Tuttavia non è con delle regole e con delle prediche che lo strapotere della finanza può essere ridimensionato.
Quali sono le politiche alternative che servirebbero all’Europa per uscire dall’impasse?
Sarebbe stato necessario dotare l’Unione dello strumento fiscale, e dubito che ciò sia possibile fare oggi. Un’Unione economica dotata soltanto dello strumento monetario, e la cui filosofia monetaria – dettata dalla memoria tedesca della repubblica di Weimar – ha come unico obiettivo il controllo dell’inflazione, è costituzionalmente incapace di incidere sulle determinanti reali della crisi in atto: l’incapacità a provvedere la piena occupazione e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi.
Una buona ricetta, liberale, l’aveva proposta Keynes: redistribuzione della ricchezza e del reddito, eutanasia del rentier, e una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento. Ma Keynes, come si sa, era una Cassandra. A riproporre oggi quella ricetta si verrebbe bollati come bolscevichi.
E in Italia che cosa si potrebbe fare?
Temo che sia troppo tardi per fare qualcosa di risolutivo. Un errore madornale di tutti i governi è stato quello di ricorrere a una politica dei due tempi: prima il risanamento, poi la crescita. Una politica dei due tempi non può realizzare nessuno dei due obiettivi: basterebbe studiare un po’ di teoria e storia della politica economica per saperlo.
Neppure il documento della Bce del 5 agosto era arrivato a imporre la svendita delle proprietà pubbliche. A questo misfatto ci pensa Giulio Tremonti senza suggeritori. Forse perché è molto esperto in materia. Sono infatti anni che tenta di svendere il patrimonio dello Stato, prima con le cartolarizzazioni, poi con le alienazioni e con la “valorizzazione immobiliare”. Sarà ora di fare un po’ di conti in tasca ad un simile genio, perché tutto il suo ragionamento fa presa perché sottintende che la collettività guadagna qualcosa dalla svendita mentre è vero il contrario. Il caso dell’alienazione della sede del Ministero dell’Economia dell’Eur è esemplare.
La vicenda parte nel 2001. Già in quell’epoca in tutta Roma esistevano numerose sedi distaccate che non trovavano collocazione negli edifici di proprietà. Il ministro doveva dunque sapere che ogni anni lui stesso pagava centinaia di migliaia di euro per affitti alla proprietà immobiliare.
Invece di pianificare un acquisto sufficiente a far risparmiare soldi, vende la sede dell’Eur per consentire una squallida operazione immobiliare. Così le tre torri vengono avviate alla demolizione. Fecero in tempo ad abbattere tutte le murature perimetrali, perché le proteste bloccarono lo scempio ed ora sono ancora in piedi le strutture di cemento armato.
C’era un piccolo problema che il geniale staff del geniale ministro non aveva calcolato. Gli edifici erano pieni di fannulloni che lavoravano. Ed ecco la soluzione: un bel regalo alla proprietà immobiliare. Vengono presi in affitto due edifici nella zona della Cristoforo Colombo, duemila metri quadrati circa ciascuno, tra loro distanti altre un chilometro (con le disfunzioni operative che si possono immaginare!). Fatti i conti paghiamo da molti anni oltre due milioni di euro all’anno.
E questo sarebbe Quintino Sella! Ha ragione Mattei sul Manifesto di ieri: questo governo non può vendere nulla perché le proprietà appartengono ai cittadini. Certo ci vorrebbe un sistema di informazione e una forza nel Parlamento in grado di lanciare l’allarme. Per la stampa è presto detto. Un grande proprietario immobiliare, Francesco Gaetano Caltagirone, possiede anche il quotidiano Messaggero. Il Tempo è di proprietà di un altro immobiliarista. La stampa romana plaude dunque entusiasta alla vendita. E in Italia siamo pieni di Gazzette di Parma che hanno fatto il tifo per una cricca come quella appena andata a casa.
Più difficile fornire una spiegazione sull’atteggiamento dell’opposizione. Forse qualche motivazione si può rintracciare nel fatto che alcuni anni fa l’amministrazione di “centrosinistra” della provincia di Roma ha svenduto tutti i gioielli di famiglia. Così fan tutti.
Ci accorgiamo solo ora di aver commesso un errore. Non è completamente vero che Tremonti opera in piena autonomia. Qualche disinteressato suggerimento arriva. Quella stessa Confindustria che ha fatto trionfare il berlusconismo, alza la voce nelle sue ultime ore di vita per riuscire a portare a casa l’argenteria. Il documento per salvare l’Italia (si chiama così) mette le mani sul piatto: bisogna vendere. Anzi con una prosa vagamente risorgimentale afferma che occorre limitare “l’enorme perimetro della manomorta pubblica sull’economia italiana”.
Manomorta? Quando mai. E’ molto vispa quella mano e ci vuol rubare il futuro.
La crescita (che non c'è e, dove c'era, svanisce) è trattata sempre più come un obbligo. Ma quella di cui si parla è solo una crescita contabile (del Pil), finalizzata a riequilibrare i rapporti tra deficit - e debito - e Pil con un aumento del denominatore (Pil) e non solo con una riduzione dei numeratori (deficit e debito). Il tutto soprattutto per «rassicurare i mercati». Dalla crescita ci si attende anche un aumento dei redditi tassabili (non tutti i redditi lo sono, o lo sono nella stessa misura: alcuni, per legge; altri, per violazione della legge) e, quindi, delle entrate dello Stato, rendendo più facile il pareggio di bilancio (assurto al rango di obbligo costituzionale) e, forse, anche una riduzione del debito (anch'essa resa obbligatoria dal cosiddetto patto euro-plus). Tuttavia meno spesa e più entrate non bastano a garantire il pareggio; non è detto che l'avanzo primario programmato (il surplus delle entrate sulle spese) sia compatibile con l'andamento dei tassi. Così gli interessi si accumulano in nuovo debito, una spirale, in contesti di deflazione come questo, senza fine.
La Grecia è da tempo in stato fallimentare (default): la sua economia non potrà più crescere per decenni; meno che mai in misura sufficiente ad azzerare il deficit o ripagare anche solo in parte il debito. Perché, allora, economisti e statisti non ne prendono atto? In parte perché non sanno che fare (era una sopravvenienza prevedibile, ma mai presa in considerazione); in parte per rapinarla; pensioni, salari, posti di lavoro, servizi pubblici, isole, riserve auree: tutto quello di cui ci si può appropriare (privatizzandolo) va preso prima di ammettere l'irreversibilità della situazione. La posizione dell'Italia non è molto diversa anche se il suo tessuto industriale è più robusto: una crescita sufficiente a pareggiare i conti non arriverà più; soprattutto strangolando così la sua economia. Ma qui i beni da saccheggiare - in barba ai risultati dei referendum - sono più succosi, mentre una presa d'atto del fallimento farebbe saltare, insieme all'euro, anche l'Unione europea. Per questo il gioco è destinato a durare più a lungo. Se però un governo ne prendesse atto, annunciando un default concordato - e selettivo: per colpire meno i piccoli risparmiatori - l'Europa correrebbe ai ripari e gli eurobond salterebbero fuori dall'oggi al domani. Ma così, dicono gli economisti, si blocca il circuito bancario e si arresta tutto il processo economico.
Certo le cose non sarebbero facili; ma non lo sono, per i più, neanche ora. Però il circuito bancario si era già bloccato dopo il fallimento Lehman Brothers, e sono intervenuti gli Stati nazionalizzando di fatto, per un po', le banche. Succederebbe di nuovo; e anche senza uscire dall'Euro, perché a intervenire dovrebbe essere la Bce.
Quella spirale del debito non è una novità: nella seconda metà del secolo scorso quasi tutti i paesi del Sud del mondo si sono indebitati per promuovere una crescita (allora si chiamava "sviluppo") che non è mai venuta. Poi, non potendo ripagare il servizio del debito, sono stati tutti presi sotto tutela dal Fmi, che ha loro imposto privatizzazioni e riduzioni di spesa analoghe a quelle imposte oggi dalla Bce e dal Fmi ai paesi cosiddetti Piigs: con la conseguenza di avvitare sempre più la spirale del debito. La letterina (segreta) che la Bce ha spedito al governo italiano per dirgli che cosa deve fare quei paesi la conoscono bene: ne hanno ricevute a bizzeffe, e sono andati sempre peggio. Viceversa, le economie cosiddette emergenti sono quelle che avevano scelto di non indebitarsi, o che ne sono uscite con un default: cioè decidendo di non pagare - in parte - il loro debito.
La crescita di cui parlano gli economisti - e di cui blaterano tanti politici - è la ripresa, accelerata, del meccanismo che ha governato il mondo occidentale nella seconda metà del secolo scorso e che oggi torna a operare, tra l'invidia generale, nei paesi cosiddetti emergenti (i quali hanno ritmi di sviluppo accelerati solo perché sono partiti da zero, o quasi); mentre da noi quel meccanismo è ormai irripetibile anche in paesi considerati locomotive del mondo. Vorrebbero tornare a moltiplicare la produzione di automobili, di elettrodomestici, di gadget elettronici, in mercati ormai saturi e gravati da eccesso di capacità (vedi il fiasco di Marchionne); di moda e di articoli di lusso in un mondo in cui i ricchi non sanno più che cosa comprare perché hanno già tutto e di più (mentre le produzioni a basso costo sono state delocalizzate in paesi emergenti; per cui ogni eventuale, quanto improbabile, aumento dei redditi da lavoro non avrebbe comunque conseguenze sull'occupazione in Occidente); di turismo in ambienti naturali sempre più degradati e - soprattutto: questa dovrebbe essere la "molla" della ripresa - di Grandi opere. Si tratta di un modello di impresa fondato su finanziamenti pubblici (spesso contrabbandati come finanza di progetto); su catene senza fine di subappalti (con conseguente corruzione, evasione fiscale, caporalato e mafia: non sono guai solo italiani); guasti irreversibili ai territori; inganni e violenze sulle popolazioni locali per imporre l'opera per poi, alla fine dei lavori, destinare all'abbandono territori e tessuti sociali degradati. Il Tav in Val di Susa ne è il paradigma. Per la protezione dell'ambiente, invece, niente. Dicono che per favorire il ritorno alla crescita va - temporaneamente - sospesa. Così si succedono i summit mondiali che non decidono niente, mentre il pianeta corre verso il collasso. Per l'equità - tra paesi ricchi e paesi poveri; tra ricchi e poveri di uno stesso paese; tra l'oggi e le generazioni future - meno ancora.
La crescita per fare fronte al debito non riguarda quindi né l'occupazione (c'è da tempo un disaccoppiamento tra occupazione e aumento del Pil, dei fatturati e dei profitti); né la qualità del lavoro (è sempre più precario in tutto il mondo e si investe sempre meno in formazione); né i redditi da lavoro diretti o differiti (le pensioni); né il benessere delle comunità, messo sotto scacco dal degrado ambientale, dal taglio dei servizi e del welfare, dall'aumento delle persone disoccupate, scoraggiate o emarginate (sospinte sempre più numerose sotto la soglia della povertà); né dalla distruzione della socialità e della socievolezza. Infine, la crescita affidata ai meccanismi di mercato aborre dalle politiche industriali; e se le propone o le invoca, è solo per dare una spinta - con incentivi, sgravi fiscali, tassi di interesse sotto zero o investimenti pubblici in Grandi opere - a un meccanismo che poi dovrebbe andare avanti da sé: non ci sono obiettivi generali da perseguire, perché deve essere il mercato a selezionare quelli che corrispondono alle propensioni del consumatore (esaltato come sovrano quanto più viene soggiogato dai meccanismi della pubblicità e della moda); non ci sono problemi di governance - intesa come composizione degli interessi e partecipazione dei lavoratori e delle comunità alla gestione delle attività che si svolgono su un territorio - perché è l'impresa che deve avere il controllo assoluto su di esse (come sostiene Marchionne tra gli applausi generali). Le privatizzazioni sono la traduzione di questa logica: il trasferimento della sovranità da quel che resta degli istituti della democrazia rappresentativa al dispotismo di imprese sempre più grandi, potenti, centralizzate, lontane dai territori e dalle comunità. Anche questa è una spirale senza fine: più si smantella quanto di pubblico, condiviso, egualitario è stato conquistato negli anni, più si imputa la mancanza di risultati al fatto che non si è ancora smantellato abbastanza. Il liberismo è un dogma senza possibilità di verifiche praticato da una setta incapace di tornare sui suoi passi.
Per far fronte alla crisi - che è innanzitutto crisi delle condizioni di vità della maggioranza della popolazione - valorizzando le risorse che territori, comunità e singoli sono in grado di mettere in campo - ci vuole invece una vera politica economica e industriale; che oggi non può che essere un programma di riconversione ecologica di consumi e produzioni, tra loro strettamente interconnessi. Non c'è spazio - né ambientale, né economico, né sociale - per rilanciare i consumi individuali: generazione ed efficienza energetiche, mobilità sostenibile, agricoltura e alimentazione a km0, cura del territorio, circolazione dei saperi e dell'informazione (e non della patonza) non possono che essere imprese condivise, portate avanti congiuntamente dai lavoratori, dalle loro organizzazioni, dalle iniziative comunitarie, dalle amministrazioni locali, dalle imprese legate o che intendono legarsi a un territorio di riferimento (rime tra le quali, i servizi pubblici locali: non a caso sotto attavvo). Le produzioni che hanno un avvenire, e per questo anche un mercato vero, sono quelle che corrispondono a questi orientamenti; ad esse dovrebbero essere riservate tutte le risorse finanziarie impiantistiche, tecniche e soprattutto umane che è possibile mobilitare. Questo è anche un preciso indirizzo di governance per prendere in carico la conversione ecologica. Sostituire un'economia fondata sul consumo individuale e compulsivo con un sistema orientato al consumo condiviso (che non vuol dire collettivo o omologato: la condivisione esige attenzione per le differenze e per la loro realizzazione) non può essere programmata in modo verticistico; né gestita con i meccanismi autoritari delle Grandi opere. La conversione ecologica è un processo decentrato, diffuso, differenziato sulla base delle esigenze e delle risorse di ogni territorio, integrato e coordinato da reti di rapporti consensuali, basato sulla valorizzazione di tutti i saperi disponibili. Una politica economica e industriale che si ponga questi obiettivi può anche affrontare, in modo selettivo e programmato, l'azzardo di un default: per non destinare più le risorse disponibili al pozzo senza fondo del debito pubblico. Ma certo questo richiede l'esautoramento di gran parte delle attuali classi dirigenti (e di molti economisti). L'alternativa non è dunque tra crescita e decrescita, ma tra cose da fare e cose da non fare più.
Sull'argomento, oltre a numerosi articoli raccolti in questa cartella, vedi anche i materiali della Scuola di eddyburg 2011