Piano Casa, la sanatoria è illegittima. Il giudizio insindacabile è quello della Corte costituzionale che ha preso in esame la legge regionale n. 6/2016 emanata dalla Campania. Con la sentenza n. 107/2017, infatti, il massimo organo di garanzia del nostro Paese ha bocciato senza appello il documento legislativo sul Piano Casa emanato dal Governatore De Luca: la norma sarebbe in contrasto con il Testo Unico dell’Edilizia. Il Piano Casa della Regione Campania è stato prorogato al 31 dicembre 2017, e dopo pochi mesi dalla proroga è arrivata una correzione alla normativa su ampliamenti, demolizioni e ricostruzioni. Si tratta della possibilità di ottenere il titolo abilitativo in sanatoria per gli interventi che sono stati realizzati senza permesso, ma che per le loro caratteristiche risultano conformi al Piano Casa. Questa possibilità è stata prevista dalla legge regionale n. 6/2016 (collegato alla legge di stabilità regionale) che ha introdotto anche altre modifiche. Una pronuncia, quella campana, che aveva già fatto storcere il naso al Governo, che nel giugno del 2016 aveva impugnato la legge eccessivamente “buonista”.
Ora, anche la Corte costituzionale riconosce i dubbi dell’Esecutivo: non può ritenersi fondato una normativa che trasforma in legale un intervento abusivo in quanto, nel frattempo, la giurisprudenza ha subito delle variazioni. Una sorta di “condono” che ha portato all’illegittimità costituzionale della legge campana. Anche perché il Testo unico dell’edilizia (D.P.R. n. 380/2001) prevede la doppia conformità degli interventi: per beneficiare della cosiddetta sanatoria, infatti, i lavori devono risultare conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento in cui sono stati realizzati e – naturalmente – in sintonia alla data di presentazione della domanda di regolarizzazione.
Come si evince dalla sentenza della Corte costituzionale, il Piano Casa iniziale originario (riferibile alla L.R. n. 19/2009) è stato più volte prorogato da leggi che hanno anche apportato modifiche o amplificato la portata delle deroghe. All’epoca dell’impugnativa, il Governo aveva fatto un esempio che è stato condiviso in pieno dalla Corte Costituzionale. La L.R. n. 16/2014 consentiva il recupero dei complessi produttivi dismessi, purché si mantenesse la destinazione ad attività produttive. La norma dichiarata illegittima, invece, ha reso conformi alla L.R. n. 19/2009 anche i lavori di recupero dopo i quali è avvenuto il cambio di destinazione d’uso. Una sanatoria giudicata inaccettabile e contraria al buon funzionamento della Pubblica Amministrazione.
«Cancellate una serie di norme e vincoli sulle aree protette, a cominciare da quella della costiera sorrentina e amalfitana. Consentiti incrementi di volumetrie persino nelle zone rosse a rischio Vesuvio se finalizzate alla stabilità e al risparmio energetico degli edifici». Il Fatto Quotidiano, 31 luglio 2014
La norma galeotta è contenuta nel comma 72 di un documento di 47 pagine, un maxi emendamento sul quale il governatore azzurro della Campania Stefano Caldoro ha posto la fiducia. Uno zibaldone di revisioni legislative faticoso a leggersi, portato in aula in maniera anomala sei mesi dopo al bilancio al quale era “collegato”, eppure liquidato in tempi record, che la maggioranza del consiglio regionale campano ha approvato a scatola chiusa e senza fiatare per evitare di andare a casa con un anno di anticipo. In questo modo e “con evidenti e spregiudicate finalità di campagna elettorale”, accusa il Pd, si è deciso di riaprire i termini del condono edilizio del 1985 e del 1994 in Campania, annullando la scadenza del 31 dicembre 2006 per sostituirla al 31 dicembre 2015, cancellando una serie di norme e vincoli sulle aree protette – a cominciare da quella della costiera sorrentina e amalfitana – e consentendo incrementi di volumetrie persino nelle zone rosse a rischio Vesuvio se finalizzate alla stabilità e al risparmio energetico degli edifici.
La delibera è passata con il voto di Fi e di quasi tutto il centrodestra, mentre il Pd e resto del centrosinistra hanno abbandonato l’aula per protesta con la speranza – risultata vana – di far mancare il numero legale. Dentro lo stesso zuppone, diluito in 243 commi, è passata una mini riforma elettorale che sembra scritta apposta per ostacolare le ambizioni del sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, il candidato in pectore del Pd per sbarrare il prossimo anno la strada al Caldoro-bis. L’incompatibilità dei primi cittadini campani viene infatti tramutata in ineleggibilità. De Luca, e gli altri sindaci che volessero aspirare ad entrare in consiglio regionale, dovranno dimettersi irrevocabilmente dalla carica di primo cittadino prima dell’accettazione della candidatura alle elezioni regionali. La norma finora in vigore consentiva di optare dopo il voto, e così fece De Luca nel 2010. Sconfitto da Caldoro, dopo qualche mese di doppio incarico preferì rimanere sindaco di Salerno e dimettersi da consigliere regionale. Viene inoltre alzata la soglia di sbarramento delle coalizioni dal 5% al 10%. Anche qui si odora il profumo di norma “anti personam”. In questo caso quella di Beppe Grillo e del suo M5S.
E così si rispolvera la vecchia tentazione di Forza Italia in Campania, che in prossimità di ogni appuntamento elettorale promette più cemento per tutti. Soprattutto se abusivo. Finora l’attenzione si era concentrata sulla riapertura del condono 2003, rimasto precluso alle 76.836 opere abusive censite in Campania dopo il 1994 a causa di una legge regionale voluta dall’allora Governatore Ds Antonio Bassolino che ha dichiarato insanabili gli immobili edificati senza licenze e in aree vincolate. I numerosi tentativi della pattuglia di parlamentari campani guidata dall’avvocato Carlo Sarro si sono infranti sui voti contrari della Lega Nord. Così per quegli abusi resta vigente il divieto di condono. Ma nel “collegato” della Campania si offre una seconda chance a chi riuscirà a dimostrare di aver compiuto l’abuso prima del 1994.
Il segretario campano Cgil, Franco Tavella, boccia il provvedimento senza se e senza ma: “Dà il via libera all’ulteriore cementificazione di un territorio già devastato”. E qualche mal di pancia ha attraversato anche il centrodestra. Carlo Aveta, consigliere eletto nella lista La Destra e organico alla maggioranza, ha votato contro: “E’ un atto illegittimo, il ‘collegato’ dovrebbe attenere solo a norme di natura finanziaria”.
Il Fatto Quotidiano, 13 settembre 2013
Se volete vedere, annusare, toccare con mano il più grande disastro ambientale della storia d’Italia dovete venire qui, a Giugliano, Napoli, Campania, terra di camorre, malapolitica e veleni. La gente ieri si passava di mano in mano la prima pagina de Il Mattino che ha pubblicato i risultati di una indagine dell’Istituto superiore di sanità. Tutti l’hanno letta, ma nessuno si è meravigliato. “Sappiamo da anni che il nostro destino è di morire avvelenati. Ci ha ucciso la camorra con il traffico della monnezza, i politici che prendevano i voti, ma anche lo Stato che ha trasformato questa nostra terra in una enorme Monnezza Valley”. Nino è ai cancelli della Resit, una delle discariche della vergogna, il regno dell’avvocato Cipriano Chianese, colletto bianco dei casalesi. Lì sotto c’è di tutto. “È peggio dell’Aids”, disse il pm dell’Antimafia di Napoli, Alessandro Milita, davanti ai parlamentari della commissione d’inchiesta sui rifiuti. Alle tre del pomeriggio davanti alla Resit ci sono ambientalisti, normali cittadini e preti come don Maurizio Patriciello, che da anni si batte contro camorra e monnezza e che tre giorni fa si è inginocchiato davanti al Papa. “Vai avanti così”, gli ha detto il Pontefice. E lui va avanti con questa umanità che non vuole crepare nella “terra dei fuochi”. L’analisi dell’Istituto superiore di Sanità è terribile. Tutta l’area che va da Giugliano a Villaricca fino al litorale Domiziano è inquinata, ma c’è una zona rossa dove ormai l’avvelenamento di suoli e acque ha raggiunto livelli di irrecuperabilità.
Qui, tra pescheti e campi coltivati a ortaggi, c’è il monumento alla più grande vergogna italiana: il deposito di ecoballe. Sei milioni di tonnellate di involucri che pesano una tonnellata ognuno, pieni di rifiuti. Sono lì da anni impilate in piramidi alte decine di metri, erano i cosiddetti rifiuti trattati destinati all’inceneritore di Acerra. Balle, menzogne raccontate ai cittadini della Campania da tutti, politici di destra e di sinistra, prefetti e alti commissari. In quei grossi sacchi c’è di tutto e non possono essere inceneriti se non vengono trattati nuovamente. Altri soldi, altri miliardi. E un altro inceneritore che la Regione Campania ha deciso di costruire qui, a Giugliano, nella Monnezza Valley. Era la Campania felix, una volta, prima che gli abusi edilizi divorassero la campagna, prima della monnezza, prima della camorra e dei sindaci compromessi con i boss. Ora, scrive la Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti, “la catastrofe ambientale che è in atto costituisce un pericolo di portata storica, paragonabile soltanto alla peste settecentesca”.
Riferimenti
La Campania rischia una nuova cementificazione selvaggia. Mentre dal Lazio alla Lombardia, dal Molise alla Sicilia, un'ondata di scandali riconferma la degenerazione affaristico-clientelare del regionalismo, a Napoli la maggioranza di centro-destra che fa capo al governatore Stefano Caldoro e all'ex sottosegretario Nicola Cosentino (inquisito per camorra) ha tentato proprio oggi di varare una legge regionale che prevede l'abolizione delle più importanti norme per la difesa dell'ambiente e del paesaggio: con le nuove regole, basterebbe il via libera dei politici di un singolo comune per autorizzare, in deroga a tutte le leggi nazionali, nuove speculazioni edilizie perfino nelle aree più pericolose, come la zona rossa a rischio di eruzione che circonda il Vesuvio.
Contro questa deregulation del cemento in Campania si sono mobilitati i vertici nazionali di Italia Nostra, Fai, Legambiente e altre associazioni, con un documento unitario, mentre continua la raccolta di firme tra i cittadini in calce a un appello già sottoscritto da decine tra i più prestigiosi urbanisti e intellettuali italiani, come Settis, Salzano, De Lucia, Asor Rosa, Bevilacqua, Emiliani e molti altri.
L'approvazione della nuova legge, già saltata il 18 settembre, è stata rimessa in calendario a sorpresa nella seduta di oggi del consiglio regionale, dove è stata rinviata solo per problemi di tempo: la discussione infatti è stata interamente assorbita dal tema dei costi della politica, diventato scottante dopo le dimissioni della giunta Polverini e l'apertura di indagini anche in Campania.
Il varo della legge-scandalo sul paesaggio sembrava scongiurata dopo l'ultimo infortunio politico: l'assessore regionale all'urbanistica aveva parlato di un'intesa raggiunta con lo Stato, in particolare con i tecnici dei Beni Culturali, ma è stato platealmente sconfessato dal ministro Lorenzo Ornaghi, appoggiato anche dai colleghi Passera e Catania. Con una nota ufficiale, diffusa attraverso la direzione ai beni paesaggistici guidata da Gregorio Angelini, il ministro Ornaghi ha infatti contestato severamente il disegno di legge della Campania e ha avvertito la giunta regionale che, in caso di approvazione, le nuove norme verrebbero impugnate dal governo Monti davanti alla Corte Costituzionale.
Oltre ad autorizzare una specie di piano casa nella zona di massimo rischio attorno al Vesuvio, la nuova legge campana sul paesaggio prevede l'abolizione dei vincoli che hanno finora salvato dal cemento ciò che resta di territori fragili e bellissimi come la Costiera Amalfitana e autorizzerebbe nuove speculazioni edilizie perfino nelle zone archeologiche delle antiche città greche e romane come Elea (oggi Velia). "L'Espresso" aveva denunciato la pericolosità della nuova legge già con un articolo del 29 marzo scorso.
Oltre al Pd e alla sinistra, contro la nuova legge si è schierata anche una parte dell'Udc. Ma in Campania la maggioranza di centro-destra ha i numeri per approvarla, salvo ripensamenti, già al prossimo consiglio.
Sul sito dell'Espresso on line, è possibile lasciare commenti su questa vicenda, invitiamo i lettori di eddyburg a farlo.
L'appello delle Associazioni lo trovate qui.
Si intitola “Norme in materia di tutela e valorizzazione del paesaggio in Campania”. Per il presidente della Regione, Stefano Caldoro, e per il suo assessore all’Urbanistica, Marcello Taglialatela, metterà ordine in un labirinto di leggi. Più pianificazione, meno vincoli. Ma per il fronte ambientalista è una sfacciata deregulation. Allenterà tutte le maglie che a fatica proteggono dal cemento la Costiera sorrentina e quella amalfitana. La zona rossa intorno al Vesuvio. E metterà a rischio paesaggi delicati, fortunate, mirabili sopravvivenze in una regione martoriata dall’abusivismo e da un’espansione edilizia che ha pochi paragoni in Europa.
Il provvedimento è in calendario per oggi in Consiglio regionale, dove si annuncia battaglia. Ma intanto partono gli esposti di tutte le associazioni (Italia Nostra, Legambiente, Wwf, Fai), si mobilita il web (Eddyburg) e, con un appello, personalità del mondo politico e culturale (da Salvatore Settis ad Alberto Asor Rosa, da Vezio De Lucia a Pierluigi Cervellati, da Piero Bevilacqua ad Andrea Emiliani). Persino il ministro Corrado Passera ha espresso, con una battuta, avversione nei confronti della legge. Rispetto al testo approvato dalla giunta nel marzo scorso, quello che approda in aula recepisce alcune istanze ambientaliste. Ma molte questioni restano irrisolte.
Per esempio l’indebolimento dei vincoli sulle zone ai bordi delle costiere sorrentina e amalfitana, finora protette da un Piano paesaggistico che risale alla metà degli anni Ottanta e che porta la firma di un maestro della pianificazione, Luigi Piccinato. Quel documento, frutto di un’elaborazione culturale che ora è materia di studio in alcune università, tutelava non solo i gioielli (Amalfi, Ravello, Sorrento, Sant’Agata…), ma anche il pendio che scende verso Nocera e Angri. Convinto, Piccinato, che proprio le aree meno pregiate potessero essere veicolo di manipolazioni, danneggiando l’unitarietà del sistema paesaggistico. L’assessore Taglialatela ribatte: «Non possiamo tutelare Nocera al pari di Amalfi».
Ma intanto, è la replica, quei pendii che si spingono fin quasi a mille metri, dentro il parco dei Monti Lattari, e che custodiscono terrazzamenti, monasteri e insediamenti archeologici, passeranno alla competenza dei Comuni, soggetti a molte pressioni, e perderanno un ombrello che finora li ha preservati dal diluvio cementizio scatenato sulla piana con l’assenso delle amministrazioni locali. E poi è come se si ribaltasse una gerarchia sempre rispettata fra un Piano paesaggistico, che tutela un’area vasta, e un Piano comunale, più specifico.
L’altro punto dolente è il Vesuvio, alle cui pendici è dilagata nei decenni un’urbanizzazione suicida. Dalle sette alle ottocentomila persone abitano in una zona a rischio eruzione, diventata un ammasso edilizio. Qui, sostituendo qualche parola in articoli di legge precedenti, tagliando e cucendo, la nuova norma consente praticamente di applicare il Piano casa. Mentre finora la legislazione, che risale al 2003, tendeva a bloccare ogni espansione e a favorire lo sgombero, anche con incentivi, di territori pericolosamente sovrappopolati, ora si consente di demolire e ricostruire. E persino di incrementare le volumetrie. Quindi di ristrutturare un abitato che invece si voleva diradare. L’inversione di tendenza è netta, denunciano gli ambientalisti.
Taglialatela ribatte su tutti i punti. Non ci sono aumenti di volumetria sotto il Vesuvio, assicura l’assessore. Né il cemento ha il via libera sui pendii che portano alla Costiera: «L’obiettivo è esattamente l’opposto e in tal senso ho mantenuto un costante confronto con l’Ufficio legislativo del ministero per i Beni culturali e la direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici». Ma proprio su questo punto una smentita all’assessore giunge da Gregorio Angelini, direttore dei beni culturali in Campania. Il quale avanza una serie di ben quattro osservazioni che non sono state accolte. «È improprio affermare», conclude Angelini, «che il testo presentato in Consiglio regionale sia stato condiviso con il ministero».
Sono anche altri i profili che allarmano le associazioni. Il fatto, per esempio, che nella legge si introduca una specie di compensazione ambientale se si danneggia un paesaggio. Chi commette un abuso, può sanarlo piantando qualche albero. È un provvedimento adottato in Europa, dicono alla Regione, per esempio nella zona della Ruhr, in Germania. Ma lì c’era un’area industriale che parzialmente viene riconvertita, ribattono gli ambientalisti. Il paesaggio campano mostra ancora eccellenze che non si possono svilire, incentivando di fatto pratiche abusive. Eccellenze che invece andrebbero sottoposte a un’opera di manutenzione di cui non c’è traccia nel provvedimento della Regione.
L'appello delle Associazioni lo trovate qui
«Blocchiamo l'ultimo assalto al territorio della Campania. Salviamo la Costiera Sorrentino-Amalfitana». Urbanisti, storici dell'arte, agronomi ed ambientalisti lanciano un appello a Napolitano, a Monti ed al ministro dei Beni Culturali, Ornaghi, affinché scongiurino l'approvazione del disegno di legge «Norme in materia di tutela e valorizzazione del paesaggio in Campania», che sarà discusso il 18 settembre in consiglio regionale. Firme note e prestigiose, quelle dei sottoscrittori. Eccone alcuni: lo storico della letteratura Alberto Asor Rosa; gli urbanisti Vezio De Lucia, Sauro Turroni, Paolo Berdini, Pierluigi Cervellati; l'archeologo Salvatore Settis, per 11 anni direttore della Scuola Normale di Pisa; lo storico Piero Bevilacqua; la fondatrice di Italia Nostra Desideria Pasolini dall'Onda. Ci sono il Wwf, Legambiente, Italia Nostra. Ancora, aderiscono Rita Paris, direttrice del Museo Archeologico Nazionale di Palazzo Massimo; lo storico dell'arte Andrea Emiliani; Gino Famiglietti, direttore regionale del ministero per i Beni Ambientali e Culturali; Carlo Iannello, presidente della commissione urbanistica del consiglio comunale di Napoli; l'agronomo Antonio di Gennaro.
Una chiamata agli scudi che coincide, tra l'altro, con l'appello lanciato dal presidente del consiglio Monti, durante la presentazione, insieme al ministro delle Politiche agricole Mario Catania, del «ddl quadro» in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo. «Negli ultimi 40 anni —ha detto il premier — è stata cementificata un'area pari all'estensione di Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna. Un fenomeno di proporzioni sempre più preoccupanti, che ha provocato molteplici effetti negativi: sul paesaggio, sulla produzione agricola, sull'assetto idrogeologico». Ma torniamo all'appello contro il provvedimento varato dalla giunta Caldoro su proposta dell'assessore Taglialatela. Secondo i promotori della sottoscrizione, «ha contenuti chiaramente eversivi». Sono 15 articoli in tutto; quello maggiormente incriminato è l'ultimo: «Abrogazioni e modifiche legislative». Cassa o modifica norme preesistenti. «In particolare — denuncia Vezio De Lucia — sottrae alla regolamentazione del Put, il piano urbanistico territoriale della penisola sorrentino amalfitana, la fascia pedemontana della costiera». Cosa questo significhi, quali conseguenze determinerà sul paesaggio. Lo spiega l'agronomo di Gennaro. Premette: «Parliamo di vari Comuni, tra i quali Santa Maria la Carità, le due Nocera, Angri, Cava dei Tirreni.
Siamo nei primi versanti dei Monti Lattari, in un territorio cerniera la cui tutela è essenziale anche ai fini della conservazione della fascia considerata più pregiata, da Vico Equense ad Amalfi. Non a caso furono inseriti nel Put, quanto il consiglio regionale approvò quella legge, nel 1987». Prosegue: «Scorporando quei territori dal Put, se ne affida la pianificazione ai singoli Comuni. In tal modo, in assenza del Piano paesaggistico previsto dal codice dei beni culturali e del paesaggio, nei territori in questione acquisterà direttamente efficacia il nefasto regime derogatorio del piano casa della Campania». Dunque, secondo i sottoscrittori dell'appello, il provvedimento varato dalla giunta, se sarà approvato in consiglio la prossima settimana, aprirà le porte al cemento fin sui crinali dei Lattari, la catena montuosa che corona la penisola sorrentino-amalfitana. «Una zona tra l'altro — sottolinea di Gennaro — ad elevato rischio idrogeologico». A rischio, secondo l'urbanista, Giuseppe Guida, anche alcune aree della costiera propriamente detta, da Vico Equense fin oltre Amalfi. Dice, infatti: «Si stralcia dal piano urbanistico la zona 7 di tali Comuni».
L'estrapolazione dalla tutela del Put di ampie fasce di territorio che finora ricadono in esso, peraltro, non è l'unico punto critico che Settis, De Lucia, Asor Rosa e gli altri promotori dell'appello individuano nel testo. Suscita enormi preoccupazioni, infatti, sempre all'articolo 15, la modifica di alcune previsioni normative introdotte con la legge regionale numero 21 del 10 dicembre 2003, istitutiva del piano strategico del rischio Vesuvio. Il provvedimento della giunta Caldoro restringe infatti i divieti. Non si proibisce più tout court ogni incremento dell'edificazione, ma ci si limita a vietare la «nuova edificazione». Insomma, via libera agli ampliamenti di quello che c'è già, anche grazie al piano casa ed in assoluta contro-tendenza col proposito di decongestionare la zona rossa. Altro articolo controverso il numero 7, che introduce le compensazioni ambientali. «In sostanza — dice l'ex presidente del parco delle colline metropolitane, Agostino Di Lorenzo — chi ha costruito abusivamente evita di abbattere piantando un po' di verde in un'altra zona. Si distorce uno strumento applicato con bel altro rigore in altri paesi e si garantisce l'impunità a chi abbia costruito al di fuori delle norme». Ce n'è quanto basta,insomma, per mettere in allarme chi ha a cuore il paesaggio ed il territorio.
La prima precauzione nell’analisi delle politiche pubbliche è quella di diffidare delle etichette: i titoli dei provvedimenti servono spesso più a camuffare che a svelare; tra gli obiettivi espliciti e quelli realmente perseguiti può correre a volte una bella differenza. È così per il disegno di legge regionale sul paesaggio che, dopo il via libera in commissione, approda in consiglio regionale in vista della sua definitiva approvazione, complice magari l’inevitabile disattenzione agostana.
Il fatto è che questo disegno di legge — spesso impropriamente definito in alcuni articoli di stampa come il “nuovo piano paesaggistico” — con il paesaggio e con le procedure previste dal relativo codice, non c’entra proprio niente. È vero invece che esso contiene robusti aspetti di incostituzionalità, che condurranno con tutta probabilità alla sua impugnazione da parte del ministero per i Beni e le attività culturali. Piuttosto, liberato dell’involucro propagandistico, il provvedimento può essere considerato come l’ultima puntata dell’infinita telenovela del “piano casa”, la polpetta avvelenata che il governo Berlusconi ha propinato alle 20 regioni italiane.
Il ragionamento è più o meno questo: per far ripartire l’economia occorre dar fiato all’edilizia, e questo è possibile solo sgombrando il campo da controlli e procedure autorizzative, disboscando energicamente la selva di vincoli, recidendo lacci e lacciuoli che frenano l’iniziativa. È proprio quello che si provvede a fare con il disegno di legge sul paesaggio, il cui esito certo, per ora, è il drastico allentamento dei vincoli precauzionali, a partire proprio dalla zona rossa del Vesuvio, e da territori di importanza strategica compresi nel Piano urbanistico territoriale della Penisola sorrentino-amalfitana.
Tanta audacia è controbilanciata dall’introduzione di sofisticati strumenti di contabilità e compensazione ambientale, già difficili da applicare nell’austera Germania, dove pure sono stati escogitati, con la differenza che lì non ci sono 60 mila alloggi illegali con sentenza di abbattimento, né centinaia di migliaia di pratiche inevase di sanatoria, perché a quelle latitudini il fenomeno dell’abusivismo edilizio semplicemente non esiste.
Appaiono quindi più che giustificate le perplessità sollevate da Aldo De Chiara, un’autorità in materia, sull’opportunità di abbassare la guardia proprio in contesti tanto delicati, a elevata patologia urbanistica, ma la sensazione è quella di una cambiale elettorale giunta inesorabilmente a scadenza.
Resta da capire quanto sia fondato l’assunto che è alla base della legislazione emergenziale del “piano casa”, e per far questo basta girare lo sguardo a occidente, ai nostri cugini spagnoli, che un’esperienza simile l’hanno vissuta su vasta scala, con la lunga deregulation urbanistica di Aznar e Zapatero. Il risultato è che l’economia spagnola, con un rapporto debito/pil intorno al 70 per cento, molto inferiore al nostro, sta morendo a causa dell’esposizione delle banche nei confronti del settore immobiliare, con spettrali città di nuovo impianto invendute, le sofferenze sui mutui, gli sfratti, gli indignados in strada.
Perseverare anche da noi su questa strada è spiegabile solo con una salda fiducia nel metodo omeopatico: la speranza cioè che la malattia possa essere curata continuando a somministrare al paziente la stessa tossina che l’ha provocata.
«La parola d’ordine sarà pianificare a volumetria zero». Con questa asserzione, opportunamente vaga e che ricorda il "rifiuti zero" che fino a qualche anno fa ci si vantava di poter raggiungere, la Regione Campania si è presentata ieri al Forum PA di Roma, con una tavola rotonda dal titolo "Pianificazione paesaggistica e tutela dell´ambiente", presenti il presidente Caldoro e gli assessori Taglialatela e Trombetti.
Su un altro fronte, quello da sempre impegnato nella proposizione di modelli di sviluppo alternativi e sostenibili, si replica con un perentorio «consumo di suolo zero», quello alla base del recente Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Caserta, terra di cronache di cemento, di mafie e di rifiuti, elaborato da Vezio De Lucia e da un gruppo di giovani urbanisti che con lui hanno condiviso questa esperienza.
In casi come questi si può anche essere ottimisti, ma basta osservare la realtà, le politiche pubbliche che continuano a prodursi contro il territorio e che del territorio fanno preda, il quadro economico emergenziale dove gli enti pubblici sono collocati, la qualità generale della classe dirigente, per notare come i fatti concreti purtroppo vadano in un´altra direzione.
Gli ultimi dati elaborati dalla Svimez sui Comuni italiani, ad esempio, sono chiari: dei Comuni finiti in dissesto finanziario dal 1989 al 2011 il 79 per cento è al Sud. In Campania, circa due milioni di persone ne hanno subito le conseguenze. La Regione, nonostante gli annunci governativi dei vari "Piani per il Sud", soffre di una lentezza dei trasferimenti e di una crisi strutturale di risorse finanziarie che ne riduce i margini di manovra, limitandoli al mantenimento della sovradimensionata macchina burocratico-amministrativa. Su questo sfondo di generale debolezza degli enti pubblici, è il paesaggio a emergere sempre di più come comodo arnese economico-finanziario da utilizzare per garantire una sorta di equilibrio nel breve periodo, cedendo in diverse forme alle pressioni dei privati, pronti a far tintinnare la moneta urbanistica (quando non di altro tipo) e proporsi come investitori per progetti di tipo "pubblico".
Utilizzando la fase di emergenza, la Regione, le Province, i Comuni, facilitati anche da alcuni provvedimenti governativi, stanno mettendo in gioco le proprie aree di pregio, innescando una trasformazione del territorio al di fuori di qualsiasi pianificazione e modalità di controllo degli esiti. Un processo eminentemente irrazionale che avvantaggia il privato e che spesso, a fronte di un´impostazione predatoria, non produce nemmeno l´atteso ritorno in termini di risorse pubbliche. Le modalità di intervento in tal senso sono diverse, molte non codificate e di tipo locale, tuttavia ci sono alcuni dispositivi che per la loro dimensione appaiono più critici. Tra questi il Piano Casa, i cui effetti, con un ritardo di tipo strategico, si stanno per abbattere sui territori di pregio o dal precario equilibrio urbanistico, con le prime congrue richieste di espansioni e riconversioni residenziali a Napoli, nel Cilento, nell´area domizia, in Penisola Sorrentina.
A Roma, invece, i rappresentanti della Regione hanno raccontato di un disegno di legge che si intitola "Norme in materia di tutela e valorizzazione del paesaggio", ma che non prevede l´introduzione nemmeno di un solo vincolo o norma di tutela paesaggistica. Quattordici dei quindici articoli di cui è composto il dl (ora in discussione in commissione) infatti invocano generici principi di tutela, citano a più riprese la Convenzione europea del Paesaggio e sostengono con fermezza il principio della sostenibilità. Fino all´articolo 15, che si occupa, in maniera molto più concreta, dell´abrogazione di decine di vincoli paesaggistici, invertendo il senso del titolo stesso della legge. Sull´ultimo bollettino della Regione Campania, tanto per continuare, è stata pubblicata una leggina di due soli articoli che altera, a spese ovviamente dei beni pubblici, il regime di concessione delle aree demaniali. Ai titolari degli stabilimenti viene estesa la concessione all´intero anno ed è ammessa la realizzazione o il ripristino di piscine «rimovibili». A questa definitiva consegna della aree balneabili al privato viene aggiunta l´improbabile, e anche un po´ comica, postilla che prevede «l´accesso gratuito agli stabilimenti ai minori di anni 12».
Questa sostanziale e quasi eccitata tendenza alla deregolazione (questa sì da portare e spiegare al Forum di Roma) tende a confinare la pianificazione territoriale e urbanistica in un´area di inefficacia da cui sarà progressivamente difficile uscire. L’attività di pianificazione (dispiace per l´amico De Lucia) tende a diventare un esercizio inutile, e non è con le parole d’ordine (consumo di suolo zero, volumetria zero, rifiuti zero) che si muteranno gli esiti di un processo pernicioso e, a quanto pare, sufficientemente condiviso.
Postilla
E' veramente sacrosanta l'indignazione di Giuseppe Guida per i sistematici provvedimenti di delegificazione in materia di governo del territorio che caratterizzano l'attuale amministrazione campana. Eddyburg è stato promotore con le associazioni ambientaliste dell'appello nazionale per il ritiro del pernicioso disegno di legge "Norme in materia del paesaggio", giustamente stigmatizzato da Guida, che rischia di mettere una pietra tombale sul procedimento di pianificazione paesaggistica all'ombra del Vesuvio. Resta il fatto che, nonostante tutto, continuiamo a preferire una provincia di Caserta con un buon piano di coordinamento territoriale, ad una provincia priva di regole. Un cattivo piano regolatore di castel Volturno è stato già rispedito al mittente perchè in contrasto con il nuovo piano provinciale. E poi, fossero anche davvero solo parole, sono pur sempre parole che rompono il mortificante silenzio civile imposto da Cosentino & Landolfi. Antonio Di Gennaro
«Dormi, o Poppea/terrena dea», canta Amore ne «L'incoronazione di Poppea» di Claudio Monteverdi. E meglio davvero che la bella e ambiziosa moglie di Nerone riposi in pace. Tornasse in vita, la sua vendetta su chi ha ridotto così la sua villa a Oplontis, nello sfacelo economico, urbanistico e morale di Torre Annunziata, sarebbe terribile. Riuscite a immaginare cosa farebbero gli americani o i francesi se avessero la fortuna di avere loro questo tesoro inestimabile che è la «Villa di Poppea»? Vedreste un'area di rispetto tutto intorno, parcheggi, visitor center, una struttura multimediale come «anticamera» per introdurre gli ospiti a capire quanto sia importante ciò che stanno per vedere a partire dalla stupefacente parete coi due pavoni (pavoni che avrebbero fatto appunto attribuire la villa all'imperatrice) dove si vede una prospettiva studiata sui libri di scuola di tutto il mondo. E poi ristoranti, caffè, bookshop e un museo coi reperti più belli e su tutti i meravigliosi «Ori di Oplontis» trovati nel 1984 nella villa di Lucius Crassius, che sta a poche decine di metri, spersa e umiliata come la residenza più famosa dentro una casbah sgangherata di orrende palazzine tirate su per mano di geometri e architetti dementi dal dio stesso della bruttezza.
Da noi: zero meno zero. Non c'è una zona di rispetto, non c'è un cartello stradale che aiuti a non perdersi nel casino di una viabilità delirante, non c'è un visitor center, non c'è un parcheggio, non c'è un bookshop e manco un baracchino, una gelateria, un bar... Niente di niente. Uno spreco pazzesco. Che ti fa venire in mente ciò che scrisse nel 1775 sul patrimonio pompeiano, in Viaggio in Italia, Alphonse de Sade: «Ma in quali mani si trova, gran Dio! Perché mai il Cielo invia tali ricchezze a gente così poco in grado di apprezzarle?». Ebbero un successo immenso, quei 65 elegantissimi gioielli trovati addosso ai poveri resti di una ventina di persone che si erano rifugiate in una stanza della villa mentre la lava del Vesuvio inghiottiva ogni cosa, quando furono esposti la prima volta a Castel Sant'Angelo. «La tragedia», disse il sovrintendente Baldassarre Conticello, «è che poi torneranno nel caveau di una banca perché a Torre Annunziata non c'è un museo». Era il lontano 1987.
Un quarto di secolo dopo, quel museo non solo non è ancora stato fatto ma manco progettato. E i celeberrimi «Ori di Oplontis», alcuni dei quali sono stati prestati per rarissime esposizioni che hanno fatto luccicare gli occhi anche agli australiani, sono chiusi in una cassetta di sicurezza. Vietati alla vista dei visitatori insieme con tutti gli altri reperti più preziosi che sono ammucchiati in un deposito (da cui peraltro sono appena spariti due pezzi) tra gli indecorosi casotti di cemento accanto alla cosiddetta «Villa di Poppea». Ecco il direttore, Lorenzo Fergola: «Possiamo vedere queste meraviglie in magazzino?». «E tutto chiuso». «I custodi non hanno le chiavi?». «No». «Chi le ha?». «Io». «E allora?». «Le ho dimenticate a casa». E tutti a fare la lagna: «Potessemo campa' solo 'e turismo!». E tutti a ricordare i tempi belli quando la città si chiamava Gioacchinopoli in onore di Gioacchino Murat: «Quant'era bella! 'O sole! 'O mare!». E tutti a citare quanto annotò nel diario Wolfgang Goethe nel 1787: «Pranzammo a Torre Annunziata con la tavola disposta proprio in riva al mare. Tutti coloro erano felici d'abitare in quei luoghi, alcuni affermavano che senza la vista del mare sarebbe impossibile vivere. A me basta che quell'immagine rimanga nel mio spirito».
Adesso, qui, sono «felici» di vivere solo i camorristi che arricchiscono, spacciano e ammazzano la gente intorno ai clan degli Aquino-Annunziata, dei Gallo, dei Vangone, dei Gionta. Così potenti e volgari che non solo avevano allestito un quadrilatero con fortificazioni elettroniche (quindici microcamere, tre centraline invisibili a occhio nudo, più alimentatori per ovviare all'eventuale taglio della luce) ma sono arrivati, come scrisse sul Corriere Fulvio Bufi, a «sostituire la pavimentazione stradale con marmi e piastrelle del genere che abitualmente viene utilizzato all'interno delle case». Sono così forti i camorristi, in questa città che ha visto chiudere 93 dei 94 pastifici e le fabbriche siderurgiche e lo «spolettificio» militare che ormai, dopo avere ingoiato parte della vastissima Villa di Poppea, è ridotto a uno stipendificio per meno di duecento dipendenti assistiti in un'interminabile agonia, da permettersi tutto. Anni fa, per la «strage di Sant'Alessandro», quattordici sicari arrivarono in pullman (in pullman!) davanti al Circolo dei Pescatori per annientare con mitra e fucili a pompa otto uomini legati ai Gionta. E non passa mese senza la scoperta di nuovi legami tra i clan locali, la 'ndrangheta della Locride e una certa imprenditoria marcia del Nord. «Fortapaso , chiamava Torre Annunziata il povero Giancarlo Siani, il giovane cronista del Mattino che qui lavorava e venne assassinato.
E se c'è un luogo simbolo in cui lo Stato dovrebbe a tutti i costi affermare la sua sovranità, è questo. Anche per proteggere quegli abitanti presi in ostaggio che cercano di ribellarsi alla paura, come hanno fatto i ragazzi dell'Istituto d'Arte «de Chirico» che scagliarono contro la camorra, grazie a grandi pannelli, raffiche di ironie, prese in giro, barzellette che ridevano dei boss più feroci. Macché. Anche se va plaudita una crescente offensiva delle forze dell'ordine, il commissariato di polizia a dispetto di anni di denunce è ancora inchiodato in una sede infossata tra i palazzi di corso Umberto e per uscire in strada, magari per accorrere in aiuto di qualche cittadino in pericolo, le volanti del 113 devono passare attraverso l'androne di un altro palazzo: basta un'auto parcheggiata male e addio. E la situazione del Tribunale, che ammucchia i fascicoli di mezzo milione di abitanti dei dintorni, è più o meno quella di quando il procuratore Diego Marmo denunciò l'invasione di ratti e una tale mancanza di spazio che «per 59 persone non solo non sono disponibili né sedie né scrivanie, ma non vi è posto nemmeno per ospitarle in posizione verticale». Cioè in piedi. Dentro questo sfascio, la villa di Lucius Crassius, come denuncia una lettera di pochi giorni fa dell'assessore Aldo Tolino al ministro dei Beni culturali, è catastrofica: «I locali a piano terra ove furono ritrovati gli "Ori di Oplontis", versano in condizione di grave degrado per infiltrazioni di acqua, che creano pericolo di crollo e dove i resti umani dei nostri antenati giacciono ammassati in cassette di plastica e abbandonati all'oblio più assoluto, mentre la quasi totalità degli affreschi di tutto il complesso, vero vanto dell'arte pittorica romana, versa in condizioni di grave deterioramento...».
Quanto alla Villa di Poppea, suscita incanto, rabbia e malinconia. Pavimenti luridi di polvere, mosaici che qua e là si sgretolano, affreschi che si gonfiano, tubi innocenti che reggono ovunque putrelle d'incerta stabilità, nastri di plastica biancorossa di traverso, lampade orrende oscenamente arrugginite, erbacce che crescono divorando il pavimento della piscina... E sopra le teste incombono ovunque, minacciosi, i pesantissimi soffitti sorretti da ciclopiche travi di cemento armato. Li piazzarono lì pensando così di proteggere le stanze affrescate, di una bellezza ineguagliabile. La scienza ha dimostrato, purtroppo, il contrario: in caso di terremoto l'avere ammassato tonnellate di cemento armato sui mattoni e le pietre antiche può moltiplicare i danni rendendoli devastanti. Un Paese serio si precipiterebbe a mettere in salvo tanta bellezza. E tenterebbe di rimediare al disastro fatto anni fa consentendo a queste palazzine bruttissime di assediare e quasi strangolare la residenza imperiale. L'Italia no. E anche se qualche boccone dei nuovi finanziamenti per Pompei pioverà anche qui, manca del tutto, spiega Antonio Irlando, presidente dell'Osservatorio Archeologico, un progetto vero, di respiro, ambizioso. Dorme, Poppea. E certo il suo sonno non sarà disturbato, in queste condizioni, da troppi turisti. Sapete quanti custodi e addetti vari lavorano alla villa? Trentotto. Sapete quanti visitatori paganti hanno comprato il biglietto nel 2011? Tenetevi forte: 10.125. Ventisette al giorno.
Elea, la città dei filosofi, è un luogo sacro (etimologicamente: appartenente agli dei) del pensiero e della cultura occidentali. Nota la definizione che Platone assegnò a Parmenide l’eleate: «Padre venerando e terribile della filosofia». Quella città ci consegna un primato e un dovere di salvaguardia nei confronti dell’umanità intera e della nostra stessa identità.
Ma nessun timore l’antico filosofo incute all’assessore regionale Marcello Taglialatela. Del resto la definizione di Platone era riferita alle minacce che il poema di Parmenide e i paradossi di Zenone facevano incombere sulle certezze ingenue del pensare.
Taglialatela invece ha una ben fondata certezza e considera la tutela e la valorizzazione del territorio e del paesaggio intorno all’area archeologica inutile. Memore del paradosso zenoniano che lo spazio non esiste, perché salvaguardarlo? Si deve essere detto l’assessore.
Più della minaccia filosofica potè sull’assessore la pressione di un ceto amministrativo gretto e miope che, non pago di aver disseminato una plaga stupenda di orridi edificati dal bagnasciuga alla collina, ha deciso di portare l’attacco anche all’ultimo miglio.
La legge regionale per Elea-Velia, come quella di Zanotti Bianco per Paestum, apponeva un vincolo di tutela per un chilometro intorno al sito degli scavi e si proponeva l’obbiettivo di una riqualificazione. Per potere offrire ai visitatori e agli stessi abitanti un luogo consono ai valori che lo contraddistinguono e non sfigurato dalla barbarie speculativa che ha già compromesso senza rimedio un tratto di costa cilentana anch’essa dono degli dèi.
Forse anche in questo caso si saranno detti meglio un tutto omogeneo anche se brutto che introdurre la discontinuità dialettica della bellezza.
Solo un pensiero ingenuo poteva ritenere che una legge per i piani paesaggistici avesse come scopo la tutela del paesaggio e la valorizzazione dei siti culturali e storici.
Non aveva fatto i conti con «il padre venerando e terribile» dell’urbanistica campana e con la città degli edificatori che alacremente sanno produrre rovine.
Un pensiero ingenuo che inutilmente si affanna tra studio del passato e progettazione del futuro per consegnare alle generazioni che verranno l’opportunità di una eredità immensa di civiltà. Edificato l’ultimo miglio lo spazio sarà pieno: di una colpa imperdonabile.
Ma perché farsene un cruccio se il tempo non esiste e la memoria à già smarrita?
Dai marmi ai camini. La reggia rubata La villa dei Borbone a Carditello
Gian Antonio Stella - Corriere della Sera, 20 marzo 2012
A casa di quale boss sono ora le colonnine dell'altana di Carditello? Quale sicario camorrista si è rubato i cancelli settecenteschi? Quale trafficante di rifiuti tossici si è fottuto i camini e brandelli degli affreschi? Quella che fu la Versailles agreste dei Borbone, appestata dalle vicine discariche, sprofonda in un insultante degrado. Spogliata giorno dopo giorno di quanto ancora conserva di prezioso. Perché i re di Napoli avessero scelto questa campagna a sud dell'antica Capua per costruire la loro meravigliosa villa oggi semiabbandonata, lo dicono le testimonianze di tanti scrittori incantati, a partire da Plinio il Vecchio: «Da qui comincia la celebre Campania Felix, da questo punto hanno inizio i colli pieni di viti...». Un'immagine ripresa secoli dopo da Wolfgang Goethe: «Bisogna vedere questi paesi per comprendere cosa vuol dire vegetazione e perché si coltiva la terra. (...) La regione è totalmente piana e la campagna intensamente e diligentemente coltivata come l'aiuola di un giardino». E poi ancora da Charles Dickens, affascinato dalla «strada piana che si allunga in mezzo a viti tenute a tralci che paiono festoni tirati da un albero all'altro». Istituita da Carlo di Borbone come reggia di caccia perché circondata da boschi popolati da cervi, fagiani, cinghiali, e successivamente trasformata da Ferdinando IV come reggia di campagna nel cuore di una tenuta modello di 2.070 ettari, Carditello fu progettata Francesco Collecini, a lungo braccio destro di Luigi Vanvitelli. Tutto intorno, a perdita d'occhio, campi coltivati bagnati dalle acque dei Regi Lagni.
Passata con l'Unità d'Italia ai Savoia, la tenuta venne via via abbandonata finché, come ha ricostruito sul Corriere del Mezzogiorno l'architetto Gerardo Mazziotti, «nel 1920 gli immobili e l'arredamento passarono dal demanio all'Opera nazionale combattenti e i 2.070 ettari della tenuta furono lottizzati e venduti. Rimasero esclusi il fabbricato centrale e i 15 ettari circostanti» che nel Secondo dopoguerra, dopo essere stati occupati dai nazisti, «entrarono a far parte del patrimonio del Consorzio generale di bonifica del bacino inferiore del Volturno». Via via affogato in un mare di debiti. In larga parte nei confronti del Banco di Napoli il quale, di fatto, ha oggi nelle mani il destino della tenuta. Per qualche anno la reggia, a dire il vero, era tornata a vivere. I responsabili della linea ad Alta Velocità, volendo un ufficio da queste parti, si incapricciarono della splendida dimora borbonica. E dopo un restauro interessato più che altro alla facciata e alle stanze utilizzate dalla Direzione e del tutto indifferente alle cascine, alle stalle, ai magazzini della tenuta che all'intorno si sgretolavano, occuparono il loro pezzo di villa il tempo necessario e poi ciao.
Da quel momento, senza neppure un custode che desse un'occhiata a quel tesoro artistico e architettonico (ne risultano 465 in Provincia, di custodi, concentrati soprattutto alla Reggia di Caserta e all'anfiteatro romano di Capua), è cominciato a Carditello il grande saccheggio. Mentre tutt'intorno, in quella Campania feconda descritta da una Carolina Bonaparte estasiata («Questa è una terra promessa. Nella campagna si vedono festoni di viti attaccati agli alberi con sparsi grappoli di uva assai più belli di quelli che gli ebrei portarono a Mosé...») si ammucchiavano montagne di rifiuti, più o meno puzzolenti e tossici, in discariche illegali allestite dalla camorra o più o meno legali ma spropositate, la reggia è stata giorno dopo giorno cannibalizzata. Tutto, si sono portati via. Tutto. Hanno scalpellato e rubato i camini antichi scampati alla razzia dei nazisti e quelli finto-antichi che avevano preso il loro posto. I pavimenti di cotto. I gradini di marmo di una delle due grandi scalinate centrali. Le acquasantiere della cappella, spaccate durante la rimozione così da lasciare osceni spuntoni che escono dal muro. I simboli in marmo dei Borbone. Pezzi di affreschi di Jacob Philip Hackert e Fedele Fischetti staccati dalle pareti con la stolta e criminale imperizia di analfabeti attirati dall'idea di farsi qualche centinaio di euro vendendo questi ritagli sul mercato nero o a qualche capozona dei Casalesi.
Una rapina quotidiana. Incoraggiata per qualche tempo dalla stupidità della macchina burocratica dei Beni culturali che solo nel 2004 e cioè un anno dopo il pignoramento giudiziario del 2003, si è accorta (incredibile ma vero) di non avere mai messo un vincolo monumentale su questa sontuosa ma ammaccata dimora che i Borbone chiamavano «Real Delizia». E così, di settimana in settimana, sotto gli occhi esterrefatti di quanti amano il nostro patrimonio e devono assistere impotenti alla sua disfatta, la tenuta di Carditello è stata abbandonata a se stessa. Senza uno straccio di manutenzione. Aggredita e divorata dalla vegetazione che fino a poche settimane fa, quando un volontario della Protezione civile, Tommaso Cestrone, si è messo di buzzo buono a mettere un po' di ordine con le ruspe e le seghe elettriche, pareva una selva colombiana. E parallelamente crollava il prezzo con il quale il giudice delegato alla grana, Valerio Colandrea, tentava di trovare un acquirente dopo la rinuncia («troppi soldi, non ce la facciamo») della Regione. Trentacinque milioni di euro nelle intenzioni iniziali della stima, meno una quindicina necessari (allora) per i restauri. Poi sempre meno. Finché non è andata a vuoto, giorni fa, anche l'asta che partiva da una quindicina di milioni. Ovvio.
Chiunque compri, a meno che non sia un ras dei Casalesi in vena di farsi una dimora (magari attraverso un prestanome) che affermi la sua monarchia assoluta sulla zona, sa che ogni camion di cemento, ogni cassetta di piastrelle, ogni tubo di rame rischia di pagare pedaggio alla camorra. Contemporaneamente, infischiandosene delle denunce dei giornali, delle polemiche, delle grida di dolore degli esperti, degli appelli ai ministri, delle petizioni accorate per salvare la reggia come quella di «Orange Revolution», delle sporadiche intemerate delle autorità locali (Emiddio Cimmino, il sindaco del Comune di San Tammaro, ha annunciato giorni fa che entrava in sciopero della fame) il saccheggio è andato avanti. Al punto che solo in questi giorni il custode giudiziario, l'avvocato Luigi Meinardi, ha potuto accorgersi che nonostante avesse fatto murare tuffi i cancelli della villa per arginare almeno in parte la razzia, i vandali mandati forse da qualche boss camorrista deciso a «ingentilire» qualche suo villone sparso in questa ex campagna stuprata dall'edilizia più brutta del Creato, si sono portati via quasi tutto il pavimento e quasi tutte le colonnine che reggevano le balaustre dell'altana che svetta sui campi e le discariche.
Vi chiederete: ma non potevano mettere almeno un sistema d'allarme? L'avevano messo. Ma se lo sono portati via. Come si sono portati via tutto l'impianto elettrico, la centralina, i quadri di comando, i fili passati nelle canaline: tutto. Assolutamente tutto. Al punto che oggi a Carditello non c'è più neppure la luce elettrica. Questa mattina, pare, s'affaccerà da queste parti il ministro dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi. A chi l'attende avrebbe fatto sapere di avere una qualche speranzella di trovare una soluzione prima della prossima asta. Vedremo. Ma certo, mai quanto stavolta, come forma di risarcimento, in occasione dei 15o anni dell'Unità, nei confronti del Mezzogiorno anche qui tradito dai Savoia, lo Stato dovrebbe essere presente. Dovrebbe strappare Carditello al degrado, al pattume e alla camorra, restaurarlo e farne di nuovo, come merita, una «delizia». Non è solo una questione di salvaguardia. È una questione d'onore.
Carditello. Dentro la Reggia. Viaggio nell'edificio borbonico sfregiato da un sacco continuo
Tomaso Montanari – Corriere del Mezzogiorno 21 marzo 2012
Come ha scritto ieri Gian Antonio Stella sul «Corriere della Sera», a Carditello è in questione l'onore dello Stato. La devastazione è così totale, così umiliante, così continua da diventare un simbolo dell'umiliazione della legge e della dignità dello Stato: cioè di noi tutti. Non è incuria, né solo rapina: è piuttosto una distruzione volontaria, tenace e pianificata. E sono proprio questi caratteri a collegare il sacco di Carditello alla camorra: oltre al bestiale desiderio di impadronirsi di gradini di marmo, brandelli di affreschi, e mattonelle antiche c'è infatti una volontà di sfregio e di umiliazione simbolica, che sembra voler affermare il pieno dominio dell'anti-Stato sul territorio. Proprio da qui, tuttavia, può venire una paradossale lezione per tutti noi. Siamo ormai abituati a connettere il patrimonio storico e artistico non alla politica, all'educazione civica o alla costruzione di una cittadinanza consapevole, ma invece allo svago, al divertimento, al superfluo.
O, ancora, a considerarlo un pozzo di petrolio: da tutelare solo in quanto si può sfruttare, da curare solo quando sia redditizio. I vandali criminali di Carditello rischiano, invece, di aver capito meglio di noi quale sia il vero ruolo della storia dell'arte e dei monumenti: essi li odiano e li distruggono perché sanno leggerli come noi non sappiamo più fare. Li odiano perché nella bellezza, nell'ordine e nella gratuità della reggia borbonica vedono l'unico segno che ancora connette quel territorio alla civiltà. Ciò che, infatti, rende Carditello uno dei casi più esemplari del suicidio dell'Italia, è il fatto che in quel luogo si intrecciano in un nodo indissolubile la distruzione dell'ambiente (avvelenato capillarmente dai rifiuti tossici che inquinano la catena alimentare, condannandoci), quella del paesaggio (devastato dalla terrificante catena montuosa delle discariche), e quella del patrimonio artistico. Si fatica spesso a spiegare l'unità profonda che lega, storicamente e materialmente, questi tre profili del volto del nostro paese.
Ecco, a mente astratta, diventa concreta: orribilmente concreta. Tutti speriamo che il ministro dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi trovi proprio in Carditello l'occasione di imprimere una svolta al suo mandato, fin qui assai opaco. Quasi qualunque decisione sarebbe meglio dell'ignavia :ollettiva dimostrata da tutte le istituzioni che hanno perso la faccia nella vicenda: dal Consorzio di bonifica del Volturno, al Banco di Napoli, alla Soprintendenza di Caserta e allo stesso Mibac. La soluzione potrebbe passare attraverso una sorta di riscatto a spese pubbliche, o attraverso una severa responsabilizza-zione dei privati che di fatto la posseggono: ciò che conta veramente è che lo Stato riaffermi al più presto la propria dignità e il proprio onore. Cioè: la nostra dignità e il nostro onore.
Una delle cose che fa più impressione, visitando Carditello e il suo territorio, e che mentre nessuno monta la guardia alla reggia, l'esercito controlla in modo assai efficiente le vicinissime discariche, apostrofando con durezza i cronisti e gli studiosi che usano le macchine fotografiche per documentare lo scempio. Grandi cartelli gialli avvertono che le fotografie sono proibite perché le discariche sono «di interesse nazionale strategico», e dunque sono protette da «sorveglianza armata». Per noi, insomma, non è Carditello, non è il patrimonio storico e artistico ad essere strategico per il futuro del Paese. Mentre lo sono la monnezza e i suoi criminosi affari. E — come dice il Vangelo — dove è il nostro tesoro, là sarà anche il nostro cuore.
Se Parmenide e Zenone avessero avuto la fortuna di conoscere l’onorevole Marcello Taglialatela sicuramente l’avrebbero condotto tra le rovine di Elea, la nobile città della Magna Grecia ora strangolata dall’alluminio anodizzato, dalle targhe fosforescenti, dalle case di mattoni bucati. Se solo avessero avuto questa fortuna avrebbero guidato l’assessore regionale all’Urbanistica a osservare come si sia riusciti a ingoiare persino il loro mare, affrontando le onde col cemento, chiudendo agli occhi e al cuore ogni rispetto per la memoria comune.
Ma Taglialatela di Velia, patrimonio dell’umanità rovinato dagli umani, simbolo della mediocrità di un ceto politico che danza al ritmo del calcestruzzo, ha purtroppo scarsa stima. L’assessore, cugino alla lontana di Attila, ha pensato di segnare la sua presenza alla Regione con un grandioso piano paesistico, opera formidabile di scrittura compulsiva, legge fondamentale nella quale trovano posto tutti i più bei gnè-gnè del mondo. E infatti (e come volete che mancasse all’appello!), è previsto il solito e purtroppo inutile Osservatorio, che dovrà monitorare l’integrità del paesaggio. Dovrà. Futuro del verbo dovere.
Nell’attesa, la legge annuncia la fine dell’unica legge che ha un poco salvaguardato Velia da altro cemento, un provvedimento speciale, approvato all’unanimità dal consiglio regionale nel 2005, che riduceva - seppure in limine mortis – l’appetito agli speculatori. Sei articoli che imponevano lo stop al consumo del suolo e la misericordia collettiva per i resti che ancora restano in vita.
Era una legge di salvaguardia, che ammetteva nella sua drastica misura il default della politica, l’incapacità delle amministrazioni locali di governare lo sviluppo del territorio per colpa delle collusioni e delle corruzioni, dell’ignoranza assoluta e dell’assoluta inconsapevolezza di cosa siano la bellezza e la cultura. E che valore abbia la nostra memoria, quale saldo anche economico produca.
Cosa è cambiato dal 2005 ad oggi? Cosa? Ce lo dica Taglialatela. Ci dica per esempio cosa ne è oggi della magnifica marina di Ascea, dove le concessioni edilizie sono sempre in eruzione malgrado lo zero spaccato imposto sette anni fa. Figurarsi senza quella normativa! Magari, ecco il bel futuro, avremo il suo ottimo Osservatorio che segnalerà nuovi seminterrati di carta, nuovi piani rialzati, nuove serrande di nuove finestre affacciate sulla Porta rosa.
Se solo Taglialatela facesse amicizia con Parmenide e Zenone…
Cosa può fare un comune cittadino per difendere il «volto amato della Patria», e cioè l’ambiente e il paesaggio italiani? Per esempio può firmare e diffondere l’appello (promosso da Italia Nostra ed Eddyburg, e sottoscritto dal Comitato per la Bellezza, Legambiente, Fai e Mountain Wilderness) contro il disegno di legge approvato il 1° marzo dalla Regione Campania.
«Si tratta del più grave stravolgimento sino ad ora tentato della disciplina paesaggistica, così come scritta nella nostra Costituzione, nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, nella Convenzione europea del paesaggio.
Un provvedimento che avrà conseguenze gravissime su un territorio fragilissimo già martoriato da decenni di illegalità, di abusivismo, di incuria, ma che nonostante tutto conserva ancora aree preziosissime.
Esplicitamente dichiarata la finalità: limitare i vincoli che gravano sul territorio per rilanciare il settore edilizio, e allo stesso tempo risolvere il problema dell’abusivismo con lo stravolgimento dei principi di legalità di sanzione e riparazione. […] Non tutela del paesaggio, quindi, ma piuttosto una nuova puntata della discutibile avventura intrapresa con il piano casa, attraverso la quale viene sancita la rinuncia dei poteri pubblici al diritto/dovere di esercitare la sovranità territoriale nell’interesse generale.
Il disegno di legge adottato in Campania è incostituzionale, perché attraverso di esso la Regione si appropria surrettiziamente di competenze di tutela del paesaggio che l’articolo 117 della Costituzione mette esclusivamente in capo allo Stato. È illegittimo perché modifica unilateralmente la pianificazione vigente, a partire dal Piano urbanistico territoriale della Penisola Sorrentina Amalfitana e ignora platealmente i procedimenti di copianificazione prescritti dal Codice […]».
Se non vogliamo affogare nel cemento, questa battaglia potrebbe essere l’ultimo salvagente.
Presentando il disegno di legge sul paesaggio adottato dalla Giunta regionale, con apprezzabile sincerità l’Assessore Taglialatela ha dichiarato che la finalità è quella di sfrondare i troppi vincoli che gravano sul territorio, di dare slancio al settore edilizio, di offrire una soluzione all’abusivismo esistente. E’ bene dirlo con franchezza: tutto questo non c’entra proprio niente con il paesaggio. Piuttosto, si tratta di una nuova puntata dell’avventura intrapresa dalla Regione con il piano casa, il discutibile provvedimento di deregulation varato su istigazione del precedente governo nazionale.
Noi pensiamo che non sia questa la strada da percorrere. Riteniamo che per proteggere e mantenere in vita i paesaggi della Campania, già martoriati da decenni di illegalità, di abusivismo, di incuria, ma che costituiscono ancora nonostante tutto la vera ricchezza della nostra regione, occorra altro. Più che indebolire i vincoli, c’è bisogno di un serio investimento nelle attività di manutenzione, cura e controllo di un territorio e di un ecosistema tra i più fragili e pericolosi del mondo. All’opposto, il disegno di legge dà il via libera al piano casa anche nelle zone rosse, a più elevato rischio vulcanico.
Quello di cui c’è bisogno in Campania è una efficace politica per arrestare il consumo di suolo, che viaggia a ritmi vertiginosi, distruggendo irreversibilmente il residuo capitale di fertilità, biodiversità e bellezza di Campania felix. In tutta Europa e nel resto del Paese la conservazione delle terre è diventata priorità assoluta, ma a questo tema il disegno di legge non dedica purtroppo neanche un rigo. All’opposto, il disegno di legge interviene direttamente sul Piano urbanistico territoriale della Penisola Sorrentino-Amalfitana, ristabilendo la supremazia, nelle aree agricole ritenute “non rilevanti sotto l’aspetto paesaggistico”, delle previsioni di quei piani comunali che al PUT avrebbero dovuto invece adeguarsi vent’anni fa. Il rovesciamento di prospettiva è evidente.
Se le finalità di fondo sono queste, è inutile poi parlare di approcci sofisticati di contabilità ambientale, come l’ecoconto, che sono stati pensati e che vengono applicati in contesti molto differenti dal nostro, e che appaiono nel disegno di legge come il pretenzioso e inefficace orpello di un lavoro approssimativo, venuto male.
Sull’abusivismo, poi, la soluzione prospettata dal disegno di legge non si basa sul principio sacrosanto di sanzione e riparazione, né su serie politiche di prevenzione, quanto piuttosto su una modifica in corsa delle regole, sulla base di una singolare interpretazione del principio di legalità. A ciò si aggiungono gli infortuni comunicativi, perché le dichiarazioni fatte in sede di presentazione del provvedimento (“Non ci saranno più divieti in assoluto, né vincoli astratti; non si può pensare di far ricorso alle ruspe per tutte le violazioni né di sanare ogni abuso pagando”) saranno interpretate, nel contesto sociale e territoriale regionale, come un allarmante segnale di via libera anche per il futuro.
Quello che ci preoccupa in questa vicenda è il silenzio dello Stato, cui la costituzione (art. 117) assegna la competenza esclusiva in materia di tutela del paesaggio, e che secondo il Codice del 2004, è chiamato a cooperare con le regioni per la definizione delle nuove discipline e politiche del paesaggio. La sensazione è che la Direzione regionale stia subendo l’iniziativa regionale, con un esercizio francamente debole delle proprie prerogative. Vedremo nei prossimi giorni se questo timore è fondato. In ultimo, il disegno regionale sul paesaggio prevede che l’approvazione del futuro Piano paesaggistico regionale non avvenga in consiglio regionale, con il contributo di tutte le rappresentanze politiche, ma in commissione consiliare, addirittura con il meccanismo del silenzio assenso. Non ci sembra questo il modo migliore, in termini di garanzie democratiche e di partecipazione, per fornire la Campania di quello che sarà probabilmente lo strumento più importante di governo del territorio.
Le associazioni firmatarie credono che non sia questa la legge della quale la nostra Regione ha bisogno. Si tratta di un provvedimento inutile, per molti versi dannoso, con aspetti sostanziali di incostituzionalità, e che indirizza alla comunità regionale un messaggio sbagliato, quello della relatività delle regole. Occorre invece, come sta avvenendo per l’evasione fiscale, una rivoluzione copernicana. Occorre ribadire con fermezza che alcune cose non si possono fare perché –proprio come l’evasione fiscale - danneggiano l’intera collettività. Chi consuma il territorio impoverisce anche te. Di questo c’è bisogno in Campania. Su questi temi siamo disposti a collaborare.
Reffaella Di Leo, Presidente Italia Nostra Campania
Michele Buonomo, Presidente Legambiente Campania
Alessandro Gatto, Presidente WWF Campania
Leggete qua. “L’inefficienza e la tolleranza degli Enti locali nel controllo del territorio e l’abusivismo dilagante e talora irresponsabile contribuiscono a determinare, oltre la distruzione di un patrimonio naturale unico al mondo, risorsa essenziale per attività economiche, investimenti e occupazione, le conseguenze disastrose che puntualmente si sono verificate anche nello scorso anno”. Non è un leader ambientalista, ma, giusto ieri, il presidente del Tar della Campania Infelix, Antonio Guida. E sapete quali sono i Comuni dove più si ricorre al Tar a difesa degli abusi edilizi? I più belli (o ex belli): Sorrento, Ischia, fra un crollo e l’altro, e Capri. Una follia suicida.
Constatato che l’abusivismo edilizio – lasciato galoppare – rappresenta “un dramma sociale”, la Giunta regionale di centrodestra ha varato il 1° marzo una legge (che vorrebbe magari far approvare in commissione…) con cui procede ad una sorta di condono mascherato travolgendo subito le norme e i vincoli vigenti. Il governatore Caldoro non usa toni sfumati: “Per gli abusi edilizi esistenti, la mia linea è chiara: riaprire i termini del condono 2003”. Questa però è materia del governo. Lui, intanto, “allenta i vincoli” (ci siamo capiti), abroga in gran fretta il Piano della Penisola sorrentina-amalfitana, e affida i controlli edilizi ai Comuni responsabili di aver avallato un disastro paesaggistico mai visto, alla cui testa c’è la camorra. Ci aveva provato Berlusconi, nel maggio scorso a fare della Campania una “zona franca” proponendo di bloccare per un semestre le ruspe anti-abusi. Il Cavaliere voleva così “valutare con serenità il problema campano”. La legalità poteva ben attendere.
Ora, la Campania, insieme a Calabria, Sicilia e Puglia, totalizza gran parte dell’abusivismo edilizio nazionale. Secondo Legambiente, dal 1950 al 2008, essa è stata fra le regioni più colpite da eventi franosi, con 431 vittime, e da inondazioni, con altre 211 vittime (fonte, Cnr-Irpi). “In un territorio così fragile in soli dieci anni sono state realizzate 60.000 case abusive, 6.000 ogni anno, 16 al giorno”. A Casalnuovo, 15 Km da Napoli, l’inviato di Ambiente Italia (Rai3), Igor Staglianò, “scoprì” nel 2007 ben 124 edifici (500 appartamenti) del tutto abusivi. Il sindaco Antonio Manna, berlusconiano, commentò: “C’ero passato in macchina, ma c’era ancora l’erba alta…” Eppure nel suo Comune si devono conoscere un po’ tutti visto che la densità per Kmq è di quasi 6.400 persone. Invece ci volle un satellite, il Marsec, messo in piedi da un gruppo di giovani sostenuti dall’allora presidente della Provincia di Benevento, Carmine Nardone, e utilizzato dalla Regione Campania. Ci sarà ancora? Al governatore campano Stefano Caldoro (Pdl) non deve risultare granché simpatico.
Torniamo alla sua bella legge “in materia di tutela e valorizzazione del paesaggio”. Avete già capito: tutela, ma, insieme, valorizzazione. Imbruttendo, dissipando il paesaggio, ci si riesce meglio. Per questo Caldoro si prende competenze non sue: la tutela del paesaggio è dello Stato. La Regione, anziché impossessarsene e ridurla a tappetino, avrebbe dovuto co-pianificare col Ministero per i Beni Culturali realizzando i sospirati piani paesaggistici. Il MiBAC, con Bondi e Galan, non ha mosso paglia. E con Ornaghi? Mistero. In una delle rare interviste ha parlato del piano-casa, non dei piani paesaggistici già in grave ritardo. Eppure, a differenza di Bondi che non c’era mai, sta al Collegio Romano dall’alba fino a notte. E allora batta un colpo. L’imbarbarimento avanza, invade il Belpaese. Con mafia, camorra, n’drangheta.
La reggia di Carditello cade a pezzi. E intorno a questo gioiello dell'architettura settecentesca, a pochi chilometri da Caserta, si allestisce una specie di danza macabra. Non bastano i ladri e i vandali che quasi ogni notte scavalcano il recinto e strappano la corona dello stemma, si avventano sulle aquile alla base dell'obelisco oppure danno fuoco a uno dei grandi platani che svettano davanti alla facciata dell'edificio, nell'arena dove i re Borbone allenavano i cavalli - i migliori nell'Europa del Settecento. Al grottesco e lugubre balletto dei saccheggiatori si aggiungono le istituzioni che dovrebbero occuparsi di questa residenza reale, costruita nel cuore di quella che un tempo era la Campania felix. E che invece scaricano le responsabilità l'una sull'altra. Lasciando che la reggia a marzo prossimo venga venduta all'asta per pochi spiccioli (poco meno di venti milioni, dopo due sedute andate a vuoto).
La reggia è di proprietà di un ente della Regione Campania, il Consorzio di bonifica del Basso Volturno, che affoga nei debiti. E che è costretto a svendere ai creditori (l'ex Banco di Napoli, ora Banca Intesa) il suo patrimonio. E quindi la reggia, finita ora sotto la custodia del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Qualche settimana fa il giudice che cura la vendita ha emesso un decreto con il quale si vieta a chiunque, anche ai giornalisti, di entrare. Pericolo di crollo, dice il provvedimento. Che impedisce ai cronisti di documentare lo strazio di un patrimonio culturale, ma non ha evitato che i saccheggiatori facessero man bassa. Qualche giorno fa si è deciso di istituire una vigilanza anche notturna. Ma la notizia è stata presa come l'ulteriore, tardiva beffa in una storia triste e tragica che va avanti da tempo.
Ai ladri si sommano gli effetti dell'abbandono in cui versa la reggia. Le decorazioni, restaurate appena una decina di anni fa, rischiano di staccarsi inzuppate dall'acqua che cola nelle murature, e sono in pericolo anche i preziosi affreschi di Jakob Philipp Hackert, amico di Goethe e pittore di corte con Ferdinando IV di Borbone, aggrediti dall'umidità e dalle muffe. I ladri sono saliti fin sull'altana, da dove lo sguardo spazia sulla maglia a scacchiera della campagna aversana che, nonostante le discariche abusive e quelle legali, conserva i tratti di un paesaggio rurale fra i più celebrati. Dalle balaustre hanno staccato i pilastrini in marmo, uno dopo l'altro, scartando quelli del piano di sotto che invece sono copie. I pilastrini che si sono rotti durante il trasporto li hanno abbandonati ai piedi del recinto. I pezzi interi li hanno portati via con i camion. Ci sono volute ore, i pilastrini sono pesanti e ingombranti. Ma nessuno ha visto niente. Negli anni scorsi hanno rubato quasi tutti i caminetti, i lastroni in marmo delle scalinate e interi pezzi di pavimento. Non si erano però mai viste tante razzie come negli ultimi giorni. Ora si teme per le cornici delle porte, anch'esse di un marmo che non si trova più in circolazione.
Il Consorzio di bonifica, che in realtà si occupa di irrigazione e regimazione di acque, ha ereditato la reggia, circondata da una tenuta di oltre 2 mila ettari, dall'Opera nazionale combattenti, alla quale finì in dote negli anni Venti del Novecento. Nessuno, né i combattenti né il Consorzio, hanno mai capito che cosa fare di questa meraviglia. La tenevano lì, inscrivendola nei propri bilanci e sperando che qualcuno se l'accollasse. Negli anni Ottanta nei padiglioni laterali di Carditello venne organizzato un Museo della civiltà contadina, tenuto con molta cura. Ma poi anch'esso venne abbandonato, i solai cominciarono ad aprirsi e le tegole si sfracellavano al suolo. I pezzi più belli vennero rubati, altri furono dispersi in varie collezioni. Attualmente ci sono solo brandelli di carretti, di macine e di aratri.
Alla fine degli anni Novanta il Ministero per i Beni culturali investì cinque miliardi di lire per restaurare la parte centrale dell'edificio, la vera e propria residenza reale. Ritornarono a splendere gli stucchi verde chiaro delle volte e ripresero colore gli affreschi di Hackert, molti dei quali raffigurano il paesaggio rurale dell'intorno, attraversato da cavalli e bufale, l'acquedotto carolino e la Reggia di Caserta. Il Consorzio vi installò alcuni uffici e la Reggia, seppure con abiti burocratici, viveva. Poi la crisi: le casse del Consorzio si andavano prosciugando e l'ente agonizzava a causa dei debiti. Fra i creditori c'era l'allora Banco di Napoli, che tramite una sua società, la Sga, avviò la procedura per la vendita all'asta.
La Reggia di Carditello ha iniziato a morire giorno dopo giorno. Vuota, abbandonata, perdeva pezzi. I tetti, sfondati, lasciavano entrare la pioggia che imbeveva le murature. Gli infissi non chiudevano più, l'acqua penetrava nei grandi saloni e stagnava nei solai. La Regione Campania (era Bassolino) avviò dei progetti di restauro e di riuso dell'edificio. Il Consorzio, per iniziativa di un commissario, Alfonso De Nardo, raggiunse un'intesa con la Sga che si sarebbe accontentata di 9 milioni, evitando che la reggia finisse all'asta. Bastava che la Regione, a sua volta debitrice del Consorzio, versasse nelle casse dell'ente quanto dovuto. Ma tutto è rimasto fermo. Nel frattempo è cambiata l'amministrazione regionale. Ora il presidente Stefano Caldoro fa sapere tramite la sua portavoce che lui su Carditello non ha niente da dire. E il consiglio regionale ha appena bocciato un emendamento alla legge finanziaria che stanziava tre milioni in tre anni per pagare il debito del Consorzio e per evitare che la reggia finisse nelle mani di chissà chi.
Il Consorzio accusa la Regione. E contro la Regione si scaglia anche la Soprintendente Paola Raffaella David. Che mette Caldoro sul banco degli imputati insieme a Consorzio e Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, cercando di impedire la vendita all'asta e chiedendo l'intervento dell'Avvocatura dello Stato per fermare la procedura. D'altronde, ribattono gli imputati, non è che i Beni culturali abbiano fatto granché. E in effetti a Carditello non si è mai visto nessuno in questi anni, tantomeno ministri o alti dirigenti di quel ministero, quasi che la reggia, fastidioso ingombro, non avesse altro destino che essere abbandonata o soccombere sotto i colpi dei vandali.
L’inchiesta di Francesco Erbani e Anna Laura De Rosa con interviste e video su R’E Le inchieste
La reggia borbonica di Carditello, a pochi chilometri da Caserta, svetta nella piana aversana, circondata da discariche e attorniata dagli sversatoi abusivi in cui la camorra ha buttato rifiuti d'ogni specie. È in condizioni disastrose, ma il pericolo più imminente per questo capolavoro dell'architettura settecentesca non è che si stacchi ciò che resta degli affreschi di Jacob Philip Hackert oppure che i ladri si portino via, oltre ai camini e alle acquasantiere, già derubati, i fregi e i marmi delle scalinate. Il rischio è che Carditello venga venduta all'asta, al prezzo di 25 milioni (secondo un calcolo, 2,5 euro al metro quadro). E che venga venduta non si sa a chi. Ma non è difficile immaginare chi in questa piana, nel cuore di Gomorra, ha più soldi e tanto desiderio di gettarli in un'impresa pulita.
La storia di Carditello è esemplare di come in Italia marcisca un tesoro che altrove avrebbe ben diverso destino. La reggia è di proprietà del Consorzio di Bonifica del Basso Volturno, un ente pubblico gravato da una serie di debiti con il Banco di Napoli, poi assorbito da Banca Intesa (ma il Consorzio accampa anche molti crediti dalla Regione e da alcuni Comuni). Ora la Banca esige il rimborso e il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha avviato da qualche settimana la vendita all'asta. La procedura partirà in autunno, ma le prime sedute, si sente dire, andranno deserte e il prezzo calerà e così Carditello per poche manciate di euro diventerà, se va bene, una sala per matrimoni.
La reggia è al centro di un paesaggio a tratti miracolosamente intatto. Dall'altana, che sovrasta il corpo centrale, destinato alla residenza del re, si domina la partizione regolare delle strade che convergono verso l'edificio. Più oltre c'è Casal di Principe, il regno dei casalesi, e quasi a corona incombono le discariche Maruzzella, Casone, Santa Maria la Fossa, Parco Saurino, Ferrandelle, Pozzobianco, e poi i siti di stoccaggio dell'immondizia con milioni di balle ricoperte di teli. Terribile destino per questa zona, i Regi Lagni, dove il viceré Don Pedro di Toledo, lo stesso che disegnò i Quartieri spagnoli di Napoli, iniziò a metà del XVI secolo una monumentale bonifica. I lavori furono proseguiti dai Borbone, che realizzarono un delicatissimo reticolo di canali, con un "lagno" principale lungo 55 chilometri e una serie di piccoli affluenti a spina di pesce. Qui veniva convogliata l'acqua e così una distesa di pantani, piagata da malaria e alluvioni, si convertì in terreni fertilissimi, ospitando coltivazioni pregiate, comprese quelle del lino, e allevamenti. La sistemazione durò fino agli anni Trenta del Novecento.
Dall'altana della reggia di Carditello quella trama geometrica di canali, opera della migliore ingegneria idraulica, è ancora visibile, sebbene ridotta ad appendice di un sistema fognario. E sebbene ospiti un mortale parco di discariche abusive e legali, che soltanto una follia perversa ha immaginato di collocare in questo territorio fatto di acque che emergono e di suoli che s'inabissano. Due anni fa la Regione invitò uno dei più esperti paesaggisti europei, Andreas Kipar, per disegnare un progetto che risanasse i canali e recuperasse i terreni all'agricoltura. La tenuta intorno alla reggia di Carditello, si disse, sarebbe diventata "un orto della biodiversità".
Non se ne fece nulla.
Nonostante il territorio sia vandalizzato, Carditello resiste. Costruito nel 1787 da Francesco Collecini, allievo di Luigi Vanvitelli, fu usato dai sovrani come residenza di caccia e per l'allevamento di cavalli pregiati. Hackert affrescò le sale del corpo centrale e vennero decorate la cappella e le scalinate. Nei due padiglioni laterali erano sistemate le stalle, secondo moderni criteri di allevamento. Cavalli e bufale pascolavano nell'intera tenuta e qui si produceva la migliore mozzarella del regno.
L'edificio centrale è stato restaurato nel 2000, ma senza manutenzione quei lavori resistono a stento. E ogni giorno c'è un pezzo in meno. Nelle stalle venne sistemato, alla fine degli anni Settanta, un museo della civiltà contadina, i cui oggetti ora giacciono abbandonati, mentre tanti altri sono stati derubati o trasferiti altrove. Ora non c'è più niente. Le scale sono divelte. I tetti crollano, se piove entra acqua e le travi penzolano minacciose. Il cancello è chiuso. Per entrare c'è bisogno di un permesso del giudice.
Si sono mossi comitati di cittadini, moltissimi i giovani. Sono stati organizzati sit-in. "Questo territorio è devastato: perché non si fa niente per quei tesori che sono ancora in piedi?", si domanda Antonio D'Agostino, animatore del gruppo Comunità che viene.
Italia Nostra di Caserta, presieduta da Maria Carmela Caiola, sta promuovendo un appello a Giorgio Napolitano. Finché è stato in carica Antonio Bassolino, la Regione ha mostrato segni di interesse. Ma la giunta di Stefano Caldoro ha annullato i propositi dei predecessori. Eppure, dicono Alfonso De Nardo, commissario del Consorzio proprietario di Carditello, e il direttore generale Antonio De Chiara, "basterebbe che Regione e Comuni pagassero le somme che ci debbono per contributi di bonifica, e noi potremmo riacquisire Carditello e avviarne il restauro. Poi si possono immaginare varie destinazioni, da quella espositiva e museale a quelle didattiche e di ricerche fino alla promozione dei prodotti di qualità, come la mozzarella di bufala, o alla riscoperta delle antiche tecnologie e pratiche colturali". "Carditello è la Venaria del Sud", spiega Alessandro Magni dell'associazione Siti Reali. "Ma mentre sulla reggia piemontese le istituzioni sono intervenute e l'hanno trasformata in un gioiello, sede di mostre e iniziative di livello internazionale, quello casertano è un tesoro lasciato a se stesso, in uno stato di degrado assoluto".
La soluzione è apparsa più volte a portata di mano. Fra il Consorzio di bonifica, che ha intenzione di restare in possesso della reggia, e la società di recupero crediti sono in corso trattative. Ma dal sito di Carditello non si allontanano gli appetiti più minacciosi.
Gli avevano dato un nome altisonante: «Operazione Vesuvia». L’obiettivo? Ambizioso: convincere ad andar via i campani residenti nella «zona rossa», la zona a rischio più vicina al Vesuvio. La giunta Bassolino, nel novembre 2003, con l’articolo 5 della legge regionale pose il vincolo di inedificabilità su 250 chilometri quadrati di territorio. La notte del 21 dicembre scorso, però, il Consiglio regionale della Campania ha inserito senza grande clamore all’interno del nuovo Piano casa una modifica al vincolo di inedificabilità: si potranno ristrutturare gli immobili esistenti «anche mediante demolizione e ricostruzione in altro sito, in coerenza con le previsioni urbanistiche vigenti, a condizione che almeno il 50%della volumetria originaria dell’immobile sia destinata ad uso diverso dalla residenza».
Detto in parole povere, anche edifici fatiscenti o finora usati come ufficio potranno diventare al 50%nuove abitazioni, aumentando di fatto il numero di persone che potrà andare a vivere nella zona a rischio. L’emendamento, prima firmataria la consigliera regionale di Somma Vesuviana Paola Raia (Pdl), si basa sul fatto che «gli immobili esistenti» da ristrutturare non debbano essere esclusivamente abitazioni. Una prospettiva che fa a cazzotti con lo spirito del 2003, anche se c’è da dire che il bonus di 30 mila euro proposto alle famiglie che abbandonavano la zona a rischio, negli anni si è rivelato un flop: solo 106 nuclei accettarono, e di questi molte solo fittiziamente poiché lasciarono la casa ad altri.
«Ma comunque ci provammo— riflette oggi l’ex assessore all’Urbanistica Marco Di Lello, coordinatore nazionale psi e promotore del «Progetto Vesuvia» —. Sancimmo il principio che in una zona a rischio eruzione non si può costruire. Ma vedo che si continua a governare pensando più al consenso che al bene comune: grave destinare anche solo il 50%della ristrutturazione ad abitazione». Una zona, per intenderci, dove l’ultima eruzione è stata nel 1944 (ben descritta nella sua forza distruttiva nel libro Naples ’ 44 di Norman Lewis). Ma che secondo il vulcanologo Franco Barberi «è quella a più alto rischio vulcanico nel mondo considerando l’abnorme concentrazione edilizia spintasi a poche centinaia di metri dal cratere» . Secondo Legambiente nei 18 comuni a rischio, nella zona rossa, vivono circa 600 mila persone, ed esistono 45 mila costruzioni abusive, di cui 5 mila dentro il Parco del Vesuvio.
Ma nonostante questo nell’aprile 2009 il sindaco di San Sebastiano al Vesuvio, Giuseppe Capasso, chiese all’allora governatore Bassolino un «patto speciale» per i Comuni dell’area protetta, in modo da consentire di applicare anche nella zona rossa il Piano casa berlusconiano. Ora l’introduzione di questa modifica alla legge regionale del 2003 apre nuove «possibilità» a chi finora mal sopportava il vincolo di inedificabilità. Anche se l’assessore regionale all’Urbanistica Edoardo Cosenza, interpellato, esclude che attraverso questo emendamento si possa aprire un nuovo varco all’edificabilità nella zona a rischio: «Lo spirito dell’emendamento presentato dalla maggioranza era di ridurre dal 100%di uso abitativo al 50%di uso abitativo. Ma se l’emendamento, come sembra, non è chiaro e si espone a diverse interpretazioni, mi impegno a chiarirlo nel regolamento attuativo. Perché lo prometto: neanche un cittadino in più dovrà entrare nella zona rossa».
Arrivò il giorno in cui mezzo paese si scoprì abusivo. Per trent’anni a Palinuro, in provincia di Salerno, si è costruito senza autorizzazione in riva al mare. La procura di Vallo della Lucania ha disposto ieri il sequestro di 15 ettari nel piccolo paese della costiera cilentana. Una superficie pari a circa 40 campi da calcio, in prossimità del mare. Anche se il piano regolatore non le prevedeva, sono sorte villette, appartamenti per le vacanze e piccole abitazioni. In tutto, sono stati sequestrati 120 immobili, per un valore complessivo di circa 12 milioni di euro. Una speculazione edilizia che riguarda soprattutto piccoli proprietari, sono 81 gli indagati, la maggior parte residenti nel Comune di Centola, di cui Palinuro è frazione. Il sindaco Romano Speranza prende le difese dei suoi concittadini: «In questa zona ci sono troppi vincoli. È quasi impossibile costruire. Ora c’è stato questo sequestro fatto con tanto clamore, ma negli ultimi 30 anni dove sono state la magistratura e la sovrintendenza?».
Gli abusi sono iniziati più o meno nel 1980. Prima, nell’area posta sotto sequestro, sorgeva un villaggio del Club mediterannée. Il tour operator francese si era insediato a Palinuro nel 1954 e l’aveva lanciata come meta del turismo di massa. E dal momento che le leggi regionali vietavano la cementificazione vicino al mare, il vil-laggio turistico, che si estendeva per oltre 15 ettari, era costituito esclusivamente da tukul, capanne di legno e paglia. Nel 1980, però, il Club mediterranée non ha più rinnovato il contratto di affitto di quei terreni. I proprietari si erano resi conto che per loro era molto più conveniente costruire che non affittare. E quindi hanno cominciato a trasformare i tukul in ville.
In questo modo, è partita la speculazione. Ovviamente, non avrebbe potuto avere dimensioni così devastanti per il territorio se non ci fosse stata la connivenza delle istituzioni locali, che per trent’anni chiuso tutti e due gli occhi. Infatti anche Speranza, che nel negli anni ’80 si è battuto per fare rimanere il Club mediterranée a Palinuro, ammette: «Se ci sono tali brutture nel nostro paese non è perché siamo stati colonizzati dai marziani. Siamo noi stessi gli artefici del nostro sottosviluppo». Ilprimo cittadino, però, nonostante il sequestro, ci tiene ad aprire una polemica sui vincoli paesaggistici, secondo lui troppo rigidi: « Io combatto ogni giorno con la Sovrintendenza e con il Parco per le licenze edilizie. Ho dovuto fare i salti mortali per farmi autorizzare la costruzione di un piccolo parco giochi. Se le regole sono troppo rigorose, nell’opinione della gente, un abuso minimo finisce con l’essere equiparato a uno grande».
Non la pensa sicuramente così Alfredo Greco, il pm della Procura di Vallo che ha chiesto il sequestro. A Terra, spiega: «Quell’area è stata devastata. Da anni la magistratura prova a bloccare la lottizzazione abusiva, ma purtroppo per questo tipo di reato la prescrizione arriva prestissimo. In tutti i procedimenti giudiziari avviati in passato non si è mai arrivati a una sentenza passata in giudicato».
Pompei non è un’emergenza o un grande evento. La Corte dei Conti rinfocola la polemica dei giorni scorsi con il governo e ribadisce che la città degli scavi non è affare della Protezione civile e di delibere che possono derogare dalle leggi ordinarie. Pompei, afferma, non è minacciato da calamità naturali, mentre il governo ha sempre sostenuto questa tesi, paragonando la Città degli scavi addirittura al "pericolo Vesuvio".
La Corte dei Conti torna sulla vicenda. Per i magistrati contabili, il ministero guidato da Sandro Bondi ha sbagliato ad affidare gli scavi di Pompei a un commissario della Protezione civile. Sottolineano che «non appare corretta l’affermazione che la Corte dei Conti avrebbe riconosciuto la legittimità dell’operato della Protezione civile». Pompei non è una calamità naturale né un grande evento. La Corte con assoluta chiarezza ribadisce che «di fatto, questo lasciapassare non c’è mai stato». Ed esclude, con un articolato parere ed entrando nel merito, che per il sito archeologico più visitato del mondo si possano ravvisare i presupposti per la dichiarazione dello stato di emergenza. Il meccanismo è stato attivato l’anno scorso anche per le opere di manutenzione o per assicurare le guide ai turisti.
La risposta della Corte, insomma, è una secca smentita delle dichiarazioni della struttura diretta da Guido Bertolaso.
La magistratura contabile si dilunga sulla vicenda che la vede chiamata in causa nei confronti della presidenza del Consiglio. Cita leggi e regolamenti. E in un botta e risposta contraddice il comunicato del dipartimento della Protezione civile, riportato dai giornali, nel quale si afferma che la «Corte dei Conti, nell’esercizio del controllo preventivo su alcune ordinanze della Protezione civile, avrebbe riconosciuto la legittimità dell’operato della Protezione civile stessa». A «fini di completezza e di informazione», precisa che «di fatto, questo lasciapassare non c’è mai stato».
La Corte - si spiega nella nota - , «impregiudicata l’eventuale questione di legittimità costituzionale della norma che ha previsto l´esenzione del controllo dei provvedimenti stessi, ha escluso la natura di atto politico non sindacabile della dichiarazione dello stato di emergenza per la città degli Scavi». La Corte, ha inoltre ritenuto «ingiustificato l’intervento del dipartimento della Protezione civile per iniziative che non possono inquadrarsi nel concetto di tutela della vita dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente dal rischio di gravi danni. Iniziative che avrebbero potuto essere attuate da un commissario straordinario, in regime non derogatorio».
La Corte dei Conti già in passato era intervenuta più volte per contestare la decisione di escludere dalle normali procedure di controllo eventi che poco hanno a che fare con le grandi calamità. Fu il caso per esempio della Vuitton Cup, considerata grande evento e per questo esclusa dai controlli preventivi.
Il comunicato della Corte dei Conti
Bisognerebbe far leggere gli articoli pubblicati in questi giorni sulla vicenda dell’Antiquarium di Ercolano al ministro dei Beni culturali Bondi, il quale, secondo me, vive su un altro pianeta. Non perché la sua espressione attonita ricordi talvolta quella di un alieno, ma perché di recente ha avuto l´audacia di dire che nelle aree archeologiche del napoletano, in particolare a Pompei, tutto è risolto. «Fatevi un giro - ha detto - lì tutto è cambiato».
Io credo che il giro dovrebbe farselo Bondi, ma senza annunciare la sua presenza, in incognito, magari in maschera. Solo in questo modo può rendersi conto di come stanno davvero le cose.
A Pompei, come a Ercolano, come nei Campi Flegrei, come nella città di Napoli. E, vorrei dire, come nel resto del Paese, nelle aree archeologiche commissariate e abbandonate al degrado, mal gestite, bloccate da una burocrazia senza senso e spesso senza cuore. Monumenti chiusi, scavi abbandonati, musei sbarrati a causa di mancanza di fondi e di personale.
La situazione di Pompei è stata denunciata decine di volte da sindacati e operatori della cultura: restauri fatti in modo grossolano, cantieri allestiti senza norme di sicurezza e tutela per il patrimonio, un commissariamento che punta più all´immagine che alla sostanza, che prova a buttare fumo negli occhi con i kolossal per coprire la mancanza di una strategia vera di rilancio culturale di Pompei.
Come stanno le cose a Ercolano, con l’Antiquarium, lo ha denunciato "Repubblica", che ha il merito di aver lanciato un dibattito davvero utile. Una struttura costruita 35 anni fa e mai aperta, con 4 mila reperti che sono conservati nel caveau di una banca invece di essere mostrati a 300 mila visitatori che ogni anno arrivano a Ercolano per ammirare i suggestivi scavi, dove alcuni settori sono addirittura chiusi, come le "terme" e il "teatro antico". E poi tanti soldi spesi altrove, e spesi male. Non mitiga l’amarezza l´annuncio dell’ennesimo finanziamento di 3 milioni. Soldi arrivati tardivamente, quando un´altra estate, ormai, si consuma così.
La scena diventa addirittura peggiore se ci spostiamo verso l´area nord. I Campi Flegrei sono conosciuti in tutto il mondo per uno straordinario patrimonio storico, archeologico, ambientale; una storia antichissima. Fin dalla Roma augustea, questa zona a nord di Napoli, era la meta per i soggiorni di nobili e imperatori, e il suo straordinario scenario naturale ha attivato la suggestione di poeti, narratori, storici, fin dai tempi di Virgilio e Dante. Oggi fa impressione scorrere l’elenco dei siti che sono chiusi al pubblico. Per ricordarlo al ministro ho dovuto elencarli in una interrogazione.
Da Pozzuoli a Bacoli e fino a Cuma, anfiteatri, templi, necropoli risultano negati alle visite. Ad esempio, a Pozzuoli, il Rione Terra, lo Stadio Antonino Pio, le necropoli di San Vito e di via Celle, che soffocano tra sterpi e rifiuti, il tempio di Serapide, che è nell´abbandono, trasformato in una sorta di palude, sommerso per metà da un pantano d’acqua fetida dove si annidano insetti. Ingresso sbarrato anche al museo archeologico di Baia (con le sale del nuovissimo allestimento), al mausoleo di Fescina a Quarto, all’antica cisterna romana delle Cento Camerelle a Bacoli, all´antica Tomba di Agrippina, sempre sulla marina di Bacoli. Altri siti sono aperti sporadicamente, e solo grazie all’opera di volontari. Basti pensare al mausoleo del Fusaro, aperto periodicamente da un’associazione di volontari, e alla Piscina Mirabilis di Bacoli, la più grande cisterna mai costruita dai Romani, che viene addirittura aperta, su richiesta, da una signora dirimpettaia, che ha le chiavi.
Di fronte a una situazione di questo tipo il ministro Bondi si vanta addirittura di aver raggiunto successi e traguardi. Ma dove sono?
L’autrice è deputato del Pd ed ex sindaco di Ercolano
Sommersa dai temi vaghi e approssimati della campagna elettorale, la legge sul "piano casa" prosegue di sottecchi il suo percorso di attuazione, che prevede, come atto finale, una delibera dei singoli Comuni ai quali è stato inopinatamente affidato il compito di individuare le eventuali aree di esclusione dall’applicazione della legge e quelle dove prevedere nuova edilizia residenziale (in parte pubblica).
Approfittando di una generale distrazione verso le apparentemente più concrete scadenze elettorali, i Comuni campani si stanno muovendo come meglio credono e ognuno di essi propone una propria interpretazione a un testo di legge scritto in maniera appositamente meschina, inesatto in più punti e incomprensibile in altri.
Tecnicamente una legge-porcata, che avvelena i pozzi della già debole urbanistica regionale, abbandonandola a un pout-pourri di regole contrastanti e normative fiacche. Tra i primi Comuni a elaborare la delibera c’è Napoli. Tentando di muoversi all’interno dell’impostazione della vigente variante al piano regolatore, il Comune quadruplica l’offerta residenziale teorica, passando dai circa 3.650 alloggi già previsti, agli oltre 10.000 che si dovrebbero realizzare applicando il piano casa in 10 ambiti e sub-ambiti di Prg e in 8 rioni di edilizia residenziale pubblica.
Di questa nuova offerta abitativa soltanto un terzo sarà edilizia residenziale sociale, il resto sarà venduto sul libero mercato senza nessuna misura perequativa. A questi alloggi si dovranno aggiungere quelli generati dall’ampliamento delle case uni e bifamiliari, dalla quantificazione incerta, ma probabilmente attorno a ulteriori 5000 vani.
Si può discutere sulla bontà o sulla necessità di prevedere tanta nuova edificazione, ma alcune riflessioni sono utili.
Raddoppiare, ad esempio, l’offerta abitativa dell’ambito Coroglio, in ossequio a una specifica "richiesta" protocollata il giorno prima della delibera da Bagnolifutura, non solo pone problemi sul controllo del processo di trasformazione dell’area e sul rapporto pubblico-privato delle trasformazioni urbane, ma, soprattutto, determina una consistente modifica urbanistica per pezzi e non organica con un orizzonte più generale di sviluppo urbano. La nuova previsione si pone, poi, come una farsesca variante di variante di variante, essendo state le capacità edificatorie della variante generale già sottoposte a congruo aumento nell’ottobre 2009.
Più positiva è, invece, l’individuazione di 8 ambiti degradati di edilizia residenziale pubblica per interventi di demolizione e ricostruzione con un incremento del 50 per cento. In questi casi, fermo restando il soddisfacimento degli standard di servizi e attrezzature pubbliche, si potrà procedere a una vera e propria ristrutturazione urbanistica utilizzando l’intervento dei privati, cui andrà l’incremento volumetrico del 50 per cento, ottenendo anche il miglioramento della qualità abitativa per migliaia di cittadini che attualmente vivono in alloggi inadeguati.
Ma a sfuggire completamente alle maglie del controllo pubblico e degli indirizzi ed equilibri del piano regolatore saranno le decine di lotti (di massimo 15.000 mq) con immobili industriali dismessi che potranno essere convertiti a parità di volume a edilizia residenziale, di cui solo un terzo di tipo sociale. In questo caso l’affidamento al caso per la trasformazione di pezzi di città, fuori da ogni tipo di disegno urbano, è pressoché totale. Soltanto nell’area Est si possono stimare in maniera sommaria circa 10.000 nuovi alloggi con un incremento di quasi 40.000 abitanti.
Tuttavia non è a Napoli che bisogna guardare per valutare nella loro enormità le regole del "piano casa", ma ai Comuni minori e, soprattutto, a quelli inclusi in aree a vincolo paesaggistico, che la legge varata dalla giunta Bassolino si è preoccupata minuziosamente di includere. In molti casi, ad esempio Castellammare di Stabia, il consiglio comunale ha pensato bene di bocciare la delibera elaborata dalla giunta, aprendo la strada all’applicazione del piano casa sull’intero territorio comunale. Ma è l’appetibilità delle aree vincolate che sta muovendo interessi ciclopici che molte amministrazioni comunali in cerca di voti, consenso e danaro, si apprestano ad accontentare. Il Comune di Vico Equense, tanto per citare uno dei territori paesaggisticamente più tutelati d’Italia, travisando in parte l’occasione offertagli dal "piano casa", ha individuato aree nelle quali poter realizzare nuova edilizia residenziale (sia sociale che da vendere sul libero mercato) per un’estensione pari alle attuali aree urbanizzate dell’intero Comune. In pratica si prevede il raddoppio delle superfici edificabili e il conseguente raddoppio del numero di abitanti. Un destino da litorale domizio, ma con tanto di delibera comunale.
In maniera non dissimile si stanno muovendo molti Comuni della costiera e, in generale, molti di quelli che ricadono in aree a vincolo paesaggistico e che un ente regionale meno smodato avrebbe escluso con chiarezza dall’applicazione, almeno parziale, del piano casa.
E invece si è ritenuto di procedere, sapendo quello che sarebbe capitato: l’espulsione dall’agenda politica della pianificazione e delle visioni di sviluppo compatibili e legate al bene paesaggio, tra gli ultimi "valori" che questa regione faticosamente conserva.
Lo riconosce Fuksas su La Repubblica: "Niemeyer non visitò Ravello e ha visto la costa amalfitana solo sulle carte". Ma è "grottesco" (lo afferma De Seta) opporre all'atto creativo le ragioni della legalità. Perché questo auditorium viola le previsioni del piano urbanistico territoriale approvato (caso unico nel panorama nazionale) con legge regionale. Che la previsione dell'auditorium fosse illegittima era stato riconosciuto dal Tar Campania con una sentenza che, è vero, il Consiglio di Stato poi sorprendentemente annullò, ma senza entrare nel merito, per un supposto vizio di notifica dell'originario ricorso di Italia Nostra. Dunque l'auditorium è innanzitutto un abuso edilizio. E perché immaginato da chi non conosce il luogo mirabile in cui sarebbe stato calato, "all'illegalità si aggiunge la violazione di ogni rispetto del paesaggio e del contesto (come anche di recente ha ribadito Italia Nostra) per le dimensioni palesemente fuori scala - parte del costruito aggetta sui terrazzamenti - e per la forma: la cupola si oppone all'andamento naturale del pendio e occupa pesantemente le visuali dall'alto e dal basso; la struttura ondeggiante non ha alcun rapporto con la tipologia edilizia tradizionale dominante in Costiera", che è esplicitamente l'oggetto di tutela del vincolo paesaggistico operante nel luogo.
Nella occasione della solenne inaugurazione Italia Nostra crede doveroso ammonire che neppure la più alta architettura è sollevata dal rispetto del principio fondamentale scolpito nell'articolo 9 della Costituzione.
Roma, 28 gennaio 2010
Il territorio. E poi i "patti territoriali", agenzie territoriali, lo sviluppo a partire dai territori, piani territoriali, programmi territoriali, politiche territoriali, il territorio "identitario", la centralità del territorio, territori distrettuali. Le azioni istituzionali di promozione e di sviluppo dei tanti territori della Campania "plurale", come viene definita nel Piano Territoriale Regionale, non difettano certo di immaginazione nominalistica. L’inconcludenza dei risultati di molte di queste azioni "per i territori" fa emergere, però, come in genere si tratti di locuzioni vuote, ridondanti, utilizzate per chiamare con nomi diversi cose similari, utili solo a ripartire ogni volta da capo per spendere altri fondi, con le medesime, inefficaci modalità. Per la Regione Campania, ad esempio, il territorio è stato una sorta di fissazione: attorno a questo concetto hanno girato interi quinquenni di politiche, leggi, deroghe, vincoli, scenari, strategie. Nonostante gli enunciati, le buone premesse iniziali sono state sgretolate da alcuni fattori determinanti, tra cui: l’assenza di controlli credibili sui flussi di spesa, la frammentazione degli interventi, lo scollamento tra gli investimenti e la programmazione urbanistica che pure la stessa Regione ha portato avanti contestualmente, il rifiuto di fare valutazioni ex post, oggettive e indipendenti, di quanto andava a realizzarsi.
Di questa navigazione a vista, a sorprendere non è tanto la facile conclusione di trovarsi di fronte a una classe di governo non all’altezza o a una burocrazia non preparata e inesperta, quanto il fatto che, contemporaneamente, la stessa Regione ha portato avanti con diligenza e competenza altri tipi di politiche (che, comunque, con il territorio hanno sempre a che fare), come quella dei trasporti, in cui la programmazione e il tiraggio della spesa viaggiano insieme, e non è un caso se l’assessore Cascetta sia tra i pochi a poter proporre la propria leadership in maniera credibile al governo regionale. Una discrasia, quella di avere allo stesso tempo esiti così divergenti, sulla quale sarebbero interessanti analisi e spiegazioni non banali.
Intanto il "trattamento" del territorio da parte del settore "molle" e pericoloso della Regione, continua. Anche simbolicamente, infatti, questa legislatura regionale si è chiusa mestamente con il cosiddetto Piano Casa, atto legislativo finale il cui impianto, discostandosi in radice persino da quanto aveva semplicisticamente, ma più realisticamente, proposto Berlusconi a suo tempo, non fa altro che confermare una linea di assalto al territorio, inconcludente da un punto di vista dello sviluppo e piratesco da parte di chi è in grado di afferrare la crescita della rendita urbana, i nuovi valori posizionali e le tante premialità a fondo perduto. Per operare una riflessione concreta su questo piano casa (oramai tradotto nella legge regionale 19 del 28 dicembre 2009) è opportuno attendere i primi passi e le prime interpretazioni che di essa verranno fatte. Ma alcune questioni possono ragionevolmente essere date per definite.
La prima: nella Campania "plurale", non c’è la minima distinzione tra paesaggi ordinari e paesaggi di pregio. Nonostante gli assunti della Convenzione Europea del Paesaggio, infatti, i secondi vengono ricondotti, da un punto di vista speculativo, ai primi, mescolando tutto sotto il finto, onnicomprensivo e generico tema dello "sviluppo". La legge 19, cioè, non distingue tra Caivano e la Costiera Sorrentina, tra Nocera Inferiore e il basso Cilento, in una omogeneizzazione sommaria i cui effetti sul "territorio" si potranno valutare facilmente tra qualche mese.
La seconda: caso unico in Italia, gli interventi di ampliamento degli edifici potranno anche essere fatti sia sugli immobili condonati, premiando doppiamente l’abuso, sia, cosa inverosimile, su quelli per i quali è stata semplicemente presentata istanza di condono, pure se non ancora concesso. Anche di questa capriola da consumato agitatore politico, che condona l’ampliamento dell’abuso prima dell’abuso stesso, il "territorio" non potrà che essere grato.
Terzo: sono anni che le statistiche marcano al rialzo il fabbisogno di abitazioni della regione. Ovviamente i dati sono restituiti in buona parte in maniera pretestuosa e fasulla, perché assimilano il desiderio di avere, magari a buon mercato, un’abitazione, con l’effettiva possibilità di costruire tanti altri alloggi quanti sono i desideri dei singoli, con una pressione insostenibile sul territorio. Diverso, però, è il caso dell’edilizia residenziale pubblica, per la quale si dovrebbe varare il vero "piano casa" che da anni è in Regione ancora allo stato embrionale. Per questo tipo di edilizia la legge 19 prevede invece, all’articolo 7, una serie di interventi velleitari, legati alla «riqualificazione delle aree urbane degradate», sperando in un improbabile intervento privato e vincolando il tutto alla «programmazione di fondi regionali per l´edilizia economica e popolare», che negli ultimi anni hanno prodotto poco più di un fico secco.
Un’ultima questione: in attesa delle linee guida, che dovrebbero essere elaborate tra un mese, si potrebbe provare ad aprire una discussione almeno sui tre temi proposti, ma finora politici e funzionari regionali hanno sempre negato che le cose stiano come descritte in quest’articolo. Non farlo più sarebbe un primo, piccolo, passo avanti. Per il territorio.