loader
menu
© 2024 Eddyburg

Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2015 (m.p.r.)

«Sta venendo giù Venezia». Il sindaco Luigi Brugnaro si aspetta eventi alluvionali. No, il meteo non c'entra. A Venezia piovono debiti così torrenziali che il neosindaco, con un annuncio choc, ha deciso di mettere all'asta le opere d'arte esposte nei suoi musei più prestigiosi, tra le quali un quadro di Klimt, il celeberrimo Judith II Salomè, e un'altra opera di Chagall. Brugnaro ne parlava con accenti gravi già durante la campagna elettorale: sforato ripetutamente il patto di stabilità (64 milioni nel 2015), la legge speciale a secco da almeno una decina d'anni e il «dramma incombente di non poter più finanziare neppure gli asili» aggiunge adesso con voce afflitta.

Se la metafora climatica ha un senso, si può proseguire con il Casinò municipale di Ca' Vendramin, che dieci anni fa sommergeva il Comune di liquidità (oltre 100 milioni di euro) e ora, a malapena, alimenta un rigagnolo di una decina di milioni. Il mondo è cambiato anche per la città più amata dai turisti del globo terracqueo. Completata la cessione dei palazzi nobiliari, i cosiddetti gioielli di famiglia della gestione Orsoni (l'ex Pilsen, Ca' Corner della Regina a Prada e il cambio di destinazione d'uso del Fontego dei tedeschi finito ai Benetton), il neosindaco ha deciso di affrontare il rosso strutturale dei conti con misure eccezionali.

Tanto che il dossier con le singole opere d'arte in vendita (per un valore di base d'asta di 400 milioni, con il Klimt che da solo ne vale 70) è sulla scrivania del sindaco dall'indomani del suo insediamento a Ca' Farsetti. «Si tratta di opere che non hanno nulla a che vedere con la storia artistica e culturale di Venezia» precisano i collaboratori del sindaco. Come dire: i Canaletto e i Giovanni Bellini non si toccano. Un atto di contrizione ma pure una prova di realismo. L'imprenditore Brugnaro su questi temi è secco: «Inutile fingere che il debito pubblico italiano non esista. Se lo tagliassimo, la ripresa potrebbe essere ben più robusta e sgraveremmo di una zavorra micidiale il futuro dei nostri figli. Ecco, Venezia è pronta a inaugurare una prassi che potrebbe essere seguita anche da altre città».

Nel dossier che lunedì scorso il sindaco ha consegnato ai parlamentari veneziani ci sono altre misure sempre ventilate ma mai attuate. Una tra tutte: il biglietto d'ingresso per i turisti che si accingono a varcare l'area marciana o la zona di Rialto, un provvedimento che avrebbe bisogno di una legge nazionale ad hoc. Spiega Brugnaro: «Io non voglio cavarmela tassando i turisti, non fa parte della mia cultura. Ma una città irripetibile come la nostra non può fronteggiare da sola problemi di tale portata». Di questo e di altro il sindaco parlerà nei prossimi giorni con il sottosegretario del premier Claudio De Vincenti.

Alcune richieste, almeno le più urgenti, Brugnaro vorrebbe fossero inserite nella legge di stabilità. Mancano all'appello 40 milioni per la manutenzione dei palazzi e la pulizia dei rii. L'assessore al Bilancio, Michele Zuin, fa la radiografia del cash: «Per la conservazione di un immenso patrimonio immobiliare abbiamo in cassa solo 200mila euro». Alla vendita di opere d'arte e ticket d'ingresso per i turisti si sommano la richiesta di una zona franca e la cancellazione dello status di sito d'interesse nazionale per l'area industriale di Marghera, una mossa che semplificherebbe l'attrazione di nuovi investimenti e la creazione di nuovi posti di lavoro.
A sparare bordate sulla situazione finanziaria è anche l'assessore ai Lavori pubblici, Renato Boraso: «Da aprile abbiamo smesso di pagare i fornitori. Nella capitale del mitico Nordest fare impresa è diventata un'impresa». La sua è la sintesi efficace di un pacchetto di proposte che sotto sotto rivendica una sorta di statuto speciale a misura di città-stato. Brugnaro è secco: «Da soli non ce la facciamo, questo è chiaro. Ripetere tutto va bene madama la marchesa credo sia privo di senso. Di una cosa sono certo: se ce la fa Venezia, ce la farà anche l'Italia».

La Repubblica, 9 ottobre 2015

GIOVEDÌ scorso i turisti sono rimasti fuori dalla Villa della Regina, a Torino, importantissimo monumento barocco e sito Unesco. Un cartello informava che la villa e il parco progettati per Maurizio di Savoia nel 1615 sarebbero rimasti chiusi perché ospitavano «i giovani manager del programma di formazione Uniquest di Unicredit». I futuri capitani del capitale «collaborano alla semina di un prato fiorito... in un’ideale restituzione di risorse non solo economiche dalla banca al territorio». Tradotto: Unicredit prende in esclusiva un monumento nazionale, chiudendolo al pubblico per un’intera giornata e senza sborsare un euro. Possibile?

Possibile, perché l’affitto a privati del patrimonio storico e artistico della nazione è totalmente deregolato: ogni direttore fa come gli pare.

Noleggiare gli Uffizi per una cena di cento persone costa 15.000 euro, mangiare ai piedi del David di Michelangelo, all’Accademia, ne costa 20.000.

A Napoli, il Salone delle Feste di Capodimonte lo si prende per 25.000 euro, mentre «le manifestazioni che prevedono il lancio commerciale di un prodotto nel museo sono soggette a trattativa riservata». E per una cena a Castel Sant’Elmo possono bastare 1.000 euro.

Per il cortile del Museo Civico Medievale di Bologna sono sufficienti 2.000 euro per l’intera giornata; al Tempio di Segesta in Sicilia così come alla Pinacoteca di Brera a Milano non si arriva a 5.000; per cenare nell’Anfiteatro di Pompei uno se la cava con 15.000, mentre a Roma il Salone di Pietro da Cortona di Palazzo Barberini ne vale al massimo 20.000.

Prima domanda: è giusto che cenare in gruppo nei luoghi più belli e famosi del mondo costi quanto un tavolo per pochissimi al Billionaire?

E non è un problema di inettitudine dei soprintendenti: anche i politici non se la sono cavata molto meglio. Il Ponte Vecchio concesso da Renzi sindaco alla Ferrari fruttò una cifra ridicola rispetto al valore simbolico e al disagio dei cittadini (60.000 euro), e il suo successore Dario Nardella ha permesso alla banca d’affari Morgan Stanley di cenare in una chiesa medievale (il Cappellone degli Spagnoli di Santa Maria Novella) per 20.000 euro, poi elevati a 40.000 nel fuoco delle polemiche.

Seconda domanda: è giusto che, per preparare questi eventi privati, i musei e i monumenti chiudano al pubblico? Il caso di Torino (la Villa negata per un’intera giornata) è estremo, ma sabato scorso la reggia di Venaria è stata sbarrata con tre ore di anticipo per organizzare l’imbarazzante Nuite Royale (una festa in costume settecentesco: che ha fruttato solo 20.000 euro, benché ci fossero 1.500 partecipanti), e qualche mese fa la sala di lettura della Biblioteca Nazionale di Firenze fu chiusa a causa di una sfilata di moda (con gli studenti che issavano cartelli con scritto: «Vogliamo studiare!»). Il Codice dei Beni culturali prevede che i siti pubblici si possano affittare ai privati, ma solo «per finalità compatibili con la loro destinazione culturale»: il che sembra non solo vietarne la chiusura, ma anche impedirne usi bizzarri, come le sessioni di step coreografico, zumba e totalbody sotto gli affreschi medievali del complesso di Santa Maria della Scala a Siena (è successo l’anno scorso), «un corso di pilates nella bellissima atmosfera del Museo Diocesano di Milano» (un’offerta tuttora in corso) e, appunto, un banchetto di banchieri internazionali sotto le volte di una chiesa di un ordine mendicante.

Personalmente, credo che far passare l’idea che col denaro si può comprare anche l’uso privato di un monumento pubblico sia un errore culturale. La nostra Costituzione ha connesso fortemente la tutela pubblica del patrimonio (art. 9) e la costruzione dell’uguaglianza per il pieno sviluppo della persona umana (art. 3). Ma perfino negli Stati Uniti infuria il dibattito sui limiti della mercificazione. Uno scrittore come Jonathan Franzen ha scritto che «un autentico spazio pubblico è un luogo dove ogni cittadino è il benvenuto, e dove la sfera puramente privata è esclusa o limitata. Il motivo per cui negli ultimi anni i musei d’arte hanno registrato un forte aumento di visitatori è che i musei rappresentano ancora quel genere di spazio pubblico. Com’è piacevole l’obbligo del decoro e del silenzio, la mancanza di consumismo sfacciato». E il filosofo della politica Michael Sandel ha fatto notare che «se trasformate in merci, alcune delle cose buone della vita vengono corrotte e degradate. Dunque, per stabilire dove va collocato il mercato e a che distanza andrebbe tenuto, dobbiamo decidere come valutare i beni in questione». Per queste ragioni credo sia un errore finanziare il patrimonio artistico snaturandone la funzione, e il limpido libro dell’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli (“La lista della spesa”, uscito per Feltrinelli) indica con dovizia di particolari in quali sacrosanti risparmi si potrebbero trovare i soldi.

Tuttavia, so bene che la maggioranza degli italiani non vede niente di male nel trattare gli Uffizi come un articolo di lusso. Ma allora, almeno, stabiliamo che gli eventi privati si facciano fuori dagli orari di apertura. E fissiamo delle tariffe decorose e uniformi: perché concedere un monumento ad una banca è discutibile, ma farlo gratis è pazzesco. Scagliandosi contro Verre, Cicerone scrive che le città siciliane non solo erano state costrette a vendergli i propri monumenti, ma erano pure state umiliate a farlo «parvo pretio», cioè a svenderli. Era il 70 avanti Cristo, ma non sembra che le cose siano cambiate.

La Repubblica, 24 settembre 2015 (m.p.r.)

Il ministro per i Beni culturali ha annunciato ieri un piano per tutelare il tracciato della strada e per percorrere i cinquecento chilometri che da Roma portano a Brindisi

Il viaggio di andata di Paolo Rumiz lungo le antiche basole dell’Appia Antica è servito a riscoprire la diagonale che attraversa l’Italia del Sud e il paesaggio dimenticato di questa strada che dal 312 a.C. unisce Roma a Brindisi. Ma è stato nel viaggio di ritorno che il giornalista ha potuto «raccogliere ciò che avevo seminato con gli articoli su Repubblica: un mandato da parte del popolo dell’Appia perché le venga restituita la dignità del titolo di Regina Viarum». La camminata di Rumiz e dei suoi quattro compagni ha avuto un primo, buon esito. Ieri il ministro dei Beni culturali e del turismo, Dario Franceschini - «rumiziano da sempre», ha confessato - ha annunciato il progetto per un “Cammino dell’Appia Antica”. E lo ha fatto nella sede dell’Archivio Antonio Cederna, il centro di Capo di Bove della Soprintendenza archeologica di Roma che raccoglie l’opera del giornalista e archeologo che nel 1953 iniziò a denunciare lo scempio edilizio dei Gangster dell’Appia Antica.

I tecnici del ministero hanno messo a punto un piano che prevede la pulizia dei tratti di strada supertistiti, il ripristino dei segmenti sepolti, la creazione di un logo e di una app perché sia riconoscibile il tracciato per i “pellegrini laici” disposti a riscoprire quei 533 chilometri di storia maltrattati dal sacco cementizio. «Metteremo a disposizione i beni demaniali che si trovano lungo l’Appia», ha spiegato Franceschini: «Stazioni abbandonate, case cantoniere in disuso, i fari non più operativi potranno diventare ostelli, ristoranti, officine per bici e moto».
Rumiz ha intrapreso un «viaggio d’andata monstre di 30 giorni, di quelli che i giornalisti non fanno più, armato di umiltà e di quello spirito indispensabile che chiede di andare, guardare e raccontare», ha sottolineato il direttore di Repubblica, Ezio Mauro. Il reportage ha messo in luce, anche attraverso il documentario in tre puntate realizzato con Alessandro Scillitani, lo stato di abbandono dell’Appia Antica: mausolei trasformati in pollai, cisterne cementificate, basole trasportate nelle ville, interi tratti interrati, abusi edilizi addosso ai resti, palazzi che sbarrano la strada. Ma anche «interi tratti di mura medievali del Castrum Caetani che, pur essendo dello Stato, si trovano in terreni privati, quindi invisibili come altri antichi sepolcri», ha detto l’archeologa Rita Paris, responsabile dell’area.
La competenza del cartografo Riccardo Carnovalini ha permesso a Rumiz di rintracciare la “retta via” smarrita. «Tre quarti dell’Appia Antica sono scomparsi, e pensare che nelle carte degli anni Cinquanta il percorso era praticamente integro. Eppure - aggiunge Rumiz - dietro a ogni scempio c’è una meraviglia da scoprire. «Oltre il mostro dell’Ilva, che a Taranto ha sommerso l’Appia, c’è il mare stupendo e uno dei musei archeologici più belli d’Europa».
Franceschini, che il 14 ottobre vedrà i presidenti delle quattro Regioni attraversate dall’Appia, punta sull’Art Bonus e «sui “Fondi di sviluppo e coesione” per il restauro dei beni archeologici e la riqualificazione delle strutture per l’accoglienza dei turisti». Uno degli interventi annunciati dal segretario generale del Mibact, Antonia Pasqua Recchia, oltre «all’anfiteatro di Capua, la città di Spartaco», è il molo del porto di Brindisi. Una delle due colonne nel punto in cui l’Appia si getta in Adriatico è sparita.
Riferimenti
Si vedano su eddyburg alcuni passi del reportage di Paolo Rumiz Io legionario tra Roma e Brindisi, alla ricerca dell'Appia perduta, Al bancone del bar che interrompe la via millenaria, Un uomo da marciapiede su quell’asse tra città e poderi

La Repubblica, 20 settembre 2015

Di fronte all’enorme spirale di polemiche innescata da una breve chiusura del Colosseo è urgente porsi alcune domande.
Perché si ritiene inaccettabile che un monumento chiuda a causa di un’assemblea sindacale (regolare e regolarmente annunciata) e si trova normale che la stessa cosa accada per una cena privata di milionari (si rammenti il caso di Ponte Vecchio, chiuso dall’allora sindaco Renzi per un’intera notte), o per una manifestazione commerciale (la sala di lettura della Nazionale di Firenze chiuse per una sfilata di moda nel gennaio 2014)? I diritti del mercato ci appaiono evidentemente più importanti dei diritti dei lavoratori.

Ma in Europa non è così. L’anno scorso la Tour Eiffel chiuse per ben tre giorni, e la National Gallery di Londra è aperta a singhiozzo da mesi per una dura lotta sindacale: nessuno ha gridato che la Francia o l’Inghilterra sono ostaggio dei sindacati.

Il ministro Dario Franceschini ha detto che mentre i lavoratori erano in assemblea egli era impegnato al ministero dell’Economia proprio per riuscire a sbloccare il pagamento dei loro straordinari. E uno si chiede: ma l’Italia è ostaggio di coloro che, guadagnando circa 1000 euro al mese, chiedono di non aspettare mesi o anni per la retribuzione degli straordinari (che permettono le aperture domenicali e notturne), o è ostaggio della burocrazia che ha fatto sì che Franceschini non sia riuscito a risolvere il problema in un anno e mezzo di governo? E perché il decreto d’urgenza adottato venerdì non ha riguardato il pagamento dei lavoratori, ma invece il regime degli scioperi? Un noto documento programmatico della banca d’affari americana JP Morgan (giugno 2013) additava tra i problemi «dei sistemi politici della periferia meridionale dell’Europa» il fatto che «le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste »: bisognava dunque rimuovere, tra l’altro, le «tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori » e «la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo». Ebbene, crediamo davvero che sia questa la linea capace di far ripartire il Paese?

Non c’è alcun dubbio sul fatto che anche i sindacati abbiano le loro responsabilità nel pessimo funzionamento del ministero per i Beni culturali. Ma è davvero caricaturale dire che in Italia il diritto alla cultura sia negato per colpa dei sindacati. Le biblioteche e gli archivi sono in punto di morte a causa della mancanza di fondi ordinari e di personale, d’estate i grandi musei chiudono perché non c’è l’aria condizionata, nel centro di Napoli duecento chiese storiche sono chiuse dal 1980, due giorni fa è caduto per incuria il tetto della mirabile chiesa di San Francesco a Pisa, dov’era sepolto il Conte Ugolino... E si potrebbe continuare per pagine e pagine.

Questo immane sfascio non è colpa dei sindacati: ma dei governi degli ultimi trent’anni, nessuno escluso (neanche il presente, che ha appena tagliato di un terzo il personale del Mibact, già alla canna del gas).

Se davvero vogliamo che la cultura (e non solo il turismo più blockbuster) diventi un servizio essenziale, come vorrebbe la Costituzione, allora non c’è che una strada: investire, in termini di capitali finanziari e umani. Quando gli italiani potranno davvero entrare nelle loro chiese, nei loro musei e nelle loro biblioteche (magari gratuitamente, o pagando secondo il reddito), e quando chi ci lavora avrà una retribuzione equa e puntuale, allora avremo costruito un servizio pubblico essenziale. Un traguardo che pare molto lontano, impantanati come siamo in questo maledetto storytelling, che invece di cambiare la realtà, preferisce manipolare l’immaginario collettivo.

Riferimenti

Avete visto il padiglione di eatitaly alla Expo milanese e l'idea di cultura che la pervade? Lì c'è la cultura del renzismo. Guardate questo filmato su youtube:https://www.youtube.com/watch?v=u6Wf95pbG5Y


Il Tirreno, 19 settembre 2015

Le assemblee sindacali durante le ore di servizio - a cominciare da quelle storiche del personale di volo Alitalia - non sono mai state molto popolari. Giustamente. Quella tenutasi per due ore e mezza al Colosseo e in altri luoghi strategici del turismo di massa a Roma, pur essendo stata annunciata con cartelli non invisibili, si è attirata l'ira del ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, e del premier Matteo Renzi: è uno scandalo che deve finire, bisogna inserire i servizi museali fra quelli "essenziali", anzi lo faremo subito con decreto legge. Che peraltro non potrà vietare le assemblee regolarmente indette.

Ora, non v'è dubbio che qualunque chiusura, anche temporanea, di un monumento visitato al giorno da 6.000 persone e più, provochi malumori e proteste. E' successo nei giorni scorsi a Pompei, altro sito dei più visitati. "Facciamo la solita figuraccia con gli stranieri...", è il primo commento indignato che affiora alle labbra. Tuttavia occorre anche predisporre gli uomini e i mezzi necessari per poter garantire la fruizione di musei, aree di scavo, monumenti, ecc.

L'assemblea di Pompei come quella di ieri al Colosseo non aveva tuttavia motivazioni campate in aria. Difatti erano presenti anche funzionari e dirigenti della Soprintendenza: a pochi mesi dall'inizio del Giubileo nella enorme struttura romana dove ogni giorno entrano e sostano migliaia di turisti vi sono appena 27 custodi su tre turni. Il giorno che sono entrati, gratis, 9.000 visitatori, si sono corsi rischi molto seri sul piano della sicurezza. Ma è così in tutta Italia, la riduzione di personale di custodia è stata così incisiva negli ultimi anni che, ad esempio, nel polo museale statale fra Bologna e Ferrara da un'ottantina di custodi si è vertiginosamente scesi a meno di venti. Per la Pinacoteca Nazionale di Bologna ci sono appena tre custodi per turno, per cui la galleria apre a mezze giornate, e il pubblico assicurato da una compagnia aerea low cost rimane a guardare il portone chiuso. Lì come al vicino ed oggi ben allestito Musei dell'Università, la più antica del mondo.

Per ovviare a questa rarefazione di personale - che, va ricordato, guadagna mensilmente circa 1100 euro - si sono effettuate ore e ore di straordinari, anche per fare bella figura nelle aperture serali e nelle domeniche al museo. Purtroppo questi straordinari, che incrementano di un terzo circa i magri guadagni, da nove lunghi mesi non vengono pagati suscitando un malcontento crescente. I disagi sarebbe stati minori se anche i tour operator avessero provveduto ad avvertire i loro clienti e l'annuncio dei sindacati fosse stato più anticipato e meglio diffuso. E' innegabile.

Ma cosa si prevede per il personale? Alla Biblioteca Nazionale di Firenze (lo denunciano due interrogazioni parlamentari, una dell'ex ministro Maria Chiara Carrozza, citate da Tomaso Montanari su Repubblica) quello "addetto alla distribuzione e al funzionamento si è ridotto a 165 unità, mentre la pianta organica ne prevedrebbe 334". Ma sono le nuove piante organiche a sanzionare questi tagli devastanti. Secondo dati sindacali, i dipendenti del Ministero Beni Culturali e Turismo erano ad agosto 25.175. Con la pianta organica firmata da Franceschini in quel mese, devono scendere a 19.050. Se si vuole considerare Arte & Cultura un "servizio essenziale" a fini sindacali, bisogna che lo sia anche a fini economici: col governo Prodi 2006 l'incidenza della Cultura nel bilancio dello Stato era pari allo 0,40 % (ed eravamo ben sotto Francia e Spagna), ma alla fine dei governi Berlusconi essa era precipitata alla miseria dello 0,19 %. In tutta Italia ci sono appena 343 archeologi dello Stato, mediamente anziani, per oltre 700 siti e musei. Al concorso del 2008 per trenta posti si sono presentati 5.551 giovani archeologi. Più essenziali di così si muore. Magari di inedia.

Il Fatto quotidiano online, 18 settembre 2015

La politica inveisce contro l'ennesimo "sciopero selvaggio". Un documento dimostra che in realtà l'assemblea era stata comunicata da una settimana e poi regolarmente autorizzata. Ma l'equivoco alimenta l'attacco frontale alla rappresentanza sindacale, anche se è la soprintendenza stessa a rivendicare la piena regolarità della riunione. Forse i fax e le affissioni in loco non bastano più.

E’ un copione che si ripete. La manifestazione che oggi al Colosseo ha lasciato una fila di turisti allibiti davanti a un cartello di chiusura era stata notificata per tempo e regolarmente autorizzata. Eppure i turisti sono rimasti spiazzati. E tanto è bastato alla politica per lanciare l’attacco frontale alla rappresentanza sindacale. Si ripete così la vicenda di Pompei che a luglio tenne banco per giorni, con l’assemblea spacciata per “selvaggia” quando non lo era affatto. A rivelare come sono andate le cose è la convocazione dell’assemblea (leggi il testo delle Rsu) che è stata diffusa e trasmessa all’amministrazione il 16 settembre scorso, due giorni prima che si svolgesse (come vuole la legge). In calce anche l’indicazione dell’avvenuta comunicazione, a termine di legge, già l’11 settembre, e cioé una settimana prima che l’assemblea si svolgesse. Ma bastano l’equivoco e le foto dei turisti in coda per prestare il fianco al “licenziamoli tutti” (pronunciato dalle fila di un partito che di nome fa Scelta Civica) al “la misura è colma”, detto dal ministro Franceschini che è poi il primo destinatario della protesta dei suoi dipendenti, cui non viene versato il salario accessorio da gennaio. Fino a Renzi, che ha sferrato un attacco frontale ai “sindacalisti contro l’Italia”. Resta allora la domanda, cosa non ha funzionato?

1) L’assemblea improvvisa e selvaggia? Era autorizzata e il Ministero sapeva (da una settimana)
“Le Rappresentanze Sindacali Unitarie della SS-COL comunicano che in data 18 settembre p.v. dalle ore 8.30 alle 11, nella sala conferenze di Palazzo Massimo è stata indetta (secondo le norme contrattuali e regolarmente comunicata all’Amministrazione in data 11/09 u.s.)”.

Questa la comunicazione che taglia la testa al toro sulla bufala della “protesta selvaggia”. Il ministero sapeva e da una settimana, non lo ha scoperto all’ultimo. “Si certamente”, spiega il coordinatore nazionale della Uil Beni Culturali Enzo Feliciani, sigla che appoggia la giornata assembleare che non si è svolta solo al Colosseo. Ad autorizzare quella romana è stato proprio il funzionario della Soprintendenza speciale per il Colosseo e l’area Archeologica, che non poteva fare altrimenti.
Non a caso egli stesso ha poi tentato di ridimensionare la polemica, ormai fuori controllo: “Non si è trattato di chiusure ma di aperture ritardate”, precisano dagli uffici romani, “come previsto alle 11.30 hanno riaperto”. Di più. Lo stesso soprintendente di Roma, Francesco Prosperetti, precisa che “tutto si è svolto regolarmente l’assemblea non aveva come oggetto il Colosseo, il problema è nazionale e riguarda il mancato rinnovo del contratto e il mancato pagamento del salario accessorio: non ci sono rivendicazioni nei confronti della soprintendenza, ma del datore di lavoro generale che è Mibact”.

2) Perché farla proprio oggi e non in un’altra data?
“Ci era stato chiesto – spiega ancora Feliciani – di non fare assemblee nel periodo di luglio e agosto perché a maggior afflusso di turisti e così abbiamo fatto. Una volta terminato questo periodo e non ricevendo risposte ai problemi che abbiamo rappresentato in ogni sede l’abbiamo convocata, rispettando tutti i termini di legge”. Insomma, le due parti in causa concordano: nulla di illecito o di improvvisato. E’ solo la politica a parlare di “protesta scandalo” e di “danno irreparabile”.

3) Non si poteva svolgere in un orario extralavorativo

“No – risponde Feliciani – le norme stabiliscono che si possano fare massimo 12 ore di assemblea ma sempre in orario di lavoro. Al mattino o al pomeriggio, quindi a inizio o fine turno. Abbiamo optato per l’inizio perché era la soluzione più indolore, altrimenti avremmo dovuto far entrare i visitatori e farli uscire e sarebbe stato molto peggio”. Lo conferma il soprintendente: “Tutto si è svolto regolarmente”.

4) Chi ha l’obbligo di dar comunicazione della chisura?
“Sempre i funzionari della Soprintendenza. Non le rappresentanze sindacali che comunque lo fanno, coi loro mezzi e cioè cartelli e affissioni. Ma se i canali di comunicazione istituzionale delle Soprintendenze non sono efficaci nel raggiungere turisti e cittadini non è certo da imputare ai lavoratori che non possono farsi carico anche di questo”.

5) E allora, cosa non ha funzionato? Cosa bisognerebbe cambiare?
Tocca capire perché ci si stupisce. Perché quei turisti stavano in coda apprendendo solo da un cartello, ormai giunti ai piedi dell’anfiteatro, della chiusura in corso. Il soprintendente dice di aver diffuso la comunicazione, come prevede la legge, 24 ore prima che l’assemblea si svolgesse, perché l’informazione viaggiasse sugli organi di stampa. Farlo prima del resto non si può, perché l’assemblea comunicata con largo anticipo potrebbe essere anche sconvocata, innescando un falso allarme che manda deserti i musei. Nello specifico, su Repubblica Roma e altri quotidiani la notizia è stata riportata. E tuttavia si vede che non basta, perché va da sé che un turista tedesco non legga le pagine locali di un quotidiano. I cartelli non sono stati posizionati con giorni di anticipo, non sono stati attrezzati info-point, non c’è stato alcun avvertimento sui siti ufficiali, se non a ridosso dell’assemblea. Tutto affidato a un servizio di informazione in loco il giorno prima dell’assemblea.

La Repubblica, 7 settembre 2015C’è da giurare che se Sesto Fiorentino non sorgesse, appunto, al sesto miglio a nord di Firenze, il Museo di Doccia Richard Ginori sarebbe già stato riaperto. E invece la sovrabbondanza museale fiorentina (ben 3 sui famosi 20 supermusei di Franceschini sono qua) ha fatto passare sotto silenzio un danno di prima grandezza per il patrimonio storico e artistico nazionale. Il Museo Ginori, infatti, è uno dei più antichi musei industriali del mondo. Quando nacque, nel 1754, consisteva nella Galleria della Villa di Doccia (frazione di Sesto) in cui il marchese Carlo Ginori aveva deciso di esporre i migliori prodotti della sua miracolosa fornace, che era in breve tempo diventata uno degli epicentri europei dell’arte della porcellana. La capacità chimiche di Carlo, quelle imprenditoriali del figlio Lorenzo e la possibilità di attingere allo sconfinato repertorio artistico e decorativo fiorentino resero quella della Ginori una storia di successo: quando, nel 1893, essa fu acquistata dalla milanese Richard, la produzione annua ascendeva alla quota strepitosa di otto milioni di pezzi. Il museo (che di pezzi ne ha invece ottomila, e dal 1965 è ospitato in edificio costruito ad hoc da Pier Niccolò Berardi, architetto del Gruppo Toscano di Giovanni Michelucci) racconta passo a passo questa vicenda, partendo dalle vere e proprie sculture tardobarocche prodotte ai tempi di Carlo, e seguendo l’evoluzione del gusto italiano ed europeo fino ai capolavori di Giò Ponti.

In qualunque paese d’Europa un simile luogo sarebbe l’epicentro di un’intensa attività di ricerca, divulgazione e produzione culturale. Invece, il museo è chiuso ormai da un anno e mezzo. Il museo — tuttora proprietà privata dell’azienda — è rimasto vittima del brutto fallimento della Richard Ginori, in seguito al quale l’ex amministratore delegato e sei membri del cda sono stati rinviati a giudizio per bancarotta fraudolenta. L’attività produttiva è stata rilevata dalla Gucci, che ha rinnovato il negozio di Firenze e ha dato nuovo impulso alle esportazioni. Ma — smentendo la retorica del privato che salva il patrimonio culturale — né Gucci né alcun altro si sta facendo avanti per comprare, e dunque riaprire, il museo.

Poche sere fa, in un’assemblea pubblica i sestesi hanno “gridato” che rivogliono il “loro” museo: un modo per dire che Sesto non si rassegna a farsi ridurre alla pattumiera in cui Firenze scarica i suoi servizi ingombranti, dall’aeroporto all’inceneritore. Si è sentito affermare con lucidità che il Museo Ginori non è solo un deposito d’arte, ma è l’unico luogo cittadino che racconta l’epopea di una comunità di lavoratori, orgogliosamente legati a una sapienza manuale tramandata di generazione in generazione.

È straordinario che, in tempi come questo, i cittadini vadano in piazza a chiedere un museo: e, in un paese normale, a questo punto si farebbero avanti il Comune, o il Ministero per i Beni culturali. Perché il museo si compra con sei o sette milioni, cioè con la cifra che buttiamo per un paio di mostre stagionali, meno della metà di quanto costerà l’arena kitsch del Colosseo. Non sarebbe difficile riaprirlo, né dotarlo di una giovane comunità di ricercatori capace di farlo funzionare come polmone civile. La sfida è aperta: c’è qualcuno che ha un progetto per Sesto Fiorentino?

Un'ampia analisi delle valutazioni sullo scoop dei 50 direttori. La conclusione: «Franceschini ha dunque raggiunto il suo scopo: eliminare anche quell'ultimo residuo di timide resistenze alla completa mercificazione del nostro patrimonio. Ecco qual era il famoso ritardo finalmente recuperato. La Repubblica, online, blog "Articolo 9", 21 agosto 2015

1. Stranieri ed estranei


Come spesso succede nelnostro amato Paese, il dibattito ha immediatamente preso la peggiore dellepieghe: quella del surreale scontro sugli 'stranieri'. Colpa della Lega, di MaurizioGasparri, e anche del Movimento 5 Stelle che hanno sfoderato una penosa, eincomprensibile, retorica nazionalista: al (patetico) grido di «L'Italia agliitaliani».

A onor del vero anche icommenti di alcuni degli esclusi hanno, poco decorosamente, cavalcato questarisibile tigre. Il direttore degli Uffizi Antonio Natali ha ironizzato inquesti termini: «Iknew I would not win the bid for the Uffizi when the government statisticsoffice told me I could not change my name to Anthony Christmas». E il direttoredell'Accademia Angelo Tartuferi ha parlato di «sconfitta del nostro Paese»,aggiungendo: «abbiamo inventato in Italia la tutela dei beni culturali eschiere di tedeschi sono venuti a studiarla da noi... Senza risentimento, ma mipare che questi colleghi non siano idonei a colmare questo presunto vuoto».

A questo punto, osservatoricome Roberto Saviano e Michele Serra hanno preso la parola per dire l'unicacosa sensata: e cioè che non c'è nulla di strano, né tantomeno di sbagliato, inun tedesco che dirige gli Uffizi. Sbagliato e strano è, anzi, trovarlosbagliato o strano.

Tuttavia anche queste ovvieconsiderazioni sono state subito travisate, strumentalizzandole fino a leggerlecome un endorsement alle scelte di Franceschini. Ma dire che è normale nominareun non italiano, non significa dire che la nomina di quel non italianosia giusta a prescindere: altrimenti si cade nell'errore speculare. Perchéesiste il provincialismo xenofobo di Gasparri, ma esiste anche ilprovincialismo esterofilo di chi pensa che basti non essere italiani per essere'nuovi', o perfetti per la parte. Mentre il ministro Franceschini hagiustamente detto al New York Times che «it's your CV that counts, notnationality».

Ma il punto, larghissimamenteeluso dai commentatori, è proprio questo: le nomine sono o non sonogiustificate dai curricula dei candidati? Perché il problema non sonogli stranieri: ma semmai gli estranei, e cioè coloro che non hanno nulla che afare (culturalmente e scientificamente) con i musei che andranno a dirigere.

2. Curricula e procedure

Lo stesso ministroFranceschini ha scritto, in un editoriale sulla prima pagina dell'Unità renziana, che «Con queste 20 nomine di così grande levatura scientificainternazionale il sistema museale italiano volta pagina e recupera un ritardodi decenni. La commissione di selezione ha fatto un grande lavoro ed ha offertoal Direttore Generale dei Musei del Mibact, Ugo Soragni, e a me la possibilitàdi scegliere in terne di assoluto valore. I nuovi direttori sono sia stranieriche italiani e alcuni di questi ultimi tornano nel nostro Paese dopo esperienzedi direzione all’estero».

Sul presunto ritardo tornerònel terzo e ultimo punto di questo post. Qui vorrei notare che, per potervendere il proprio compitino, il ministro è costretto a dire il falso,sbandierando una «grande levatura scientifica internazionale» chesemplicemente non esiste. Idem per il «valore assoluto»: che manca.
Attenzione: non voglio direche tra i direttori non ci siano ottimi storici dell'arte e bravi curatori. Ma– come in queste ore stanno notando in molti (come la Associazione Bianchi Bandinelli o la Uil)– in quasi tutti i casi si tratta di curatori di sezioni di musei, e solo inpochissimi di direttori di (piccoli) musei (provinciali): nemmeno uno ha avutoesperienze nemmeno lontanamente comparabili alle responsabilità che si accingead assumere.

Con questa selezione, insomma, lo Stato italiano ha fatto unascommessa, scegliendo di affidare direzioni a persone non ritenute mature peruna direzione nelle stesse istituzioni in cui finora lavoravano. È giusto,sensato, prudente scommettere contemporaneamente sui nostri venti piùimportanti musei? Quante possibilità ci sono che ci vada bene in tutti e ventii casi? E cosa staremmo rischiando, se andasse male?

E qui cominciano i dubbi –gravi dubbi – sulla procedura. È responsabile fondare una simile scommessa suun colloquio di quindici minuti, e sulla lettura di un curriculum?

Un elemento di comparazione:per scegliere l'ex direttore della Galleria Estense Davide Gasparotto comecuratore della collezione di dipinti, il Getty Museum di Los Angeles haritenuto necessari un'intervista skype di 2 ore, un colloquio privato coldirettore di 2 ore, due visite di tre giorni durante le quali il candidato hatrascorso molto tempo col direttore e il vicedirettore, e poi un lungocolloquio col presidente dei Trustee. E in questo caso era un direttore dimuseo che diventava curatore di sezione: mentre noi abbiamo fatto il contrarioin soli 15 minuti!

Sarebbe imbarazzantediscutere i singoli nomi dei nuovi direttori: ma è impossibile non notare chenella stragrande maggioranza dei casi (prescindendo dal valore scientifico deicandidati) non c'è alcuna competenza specifica sul museo e sulle collezioni cheandranno a dirigere. E se la nazionalità non è un argomento, forse lacompetenza dovrebbe esserlo.

Infine: la commissione non hascelto i direttori, ma ha presentato rose di tre nomi al ministro e aldirettore generale dei musei. Il primo ha scelto i direttori dei sette museipiù grandi e importanti il secondo quello degli altri tredici. Domanda: èpossibile leggere i nomi che componevano queste terne? Sarebbe fondamentalepoterle conoscere, se vogliamo provare a capire in base a quali criteri DarioFranceschini e Ugo Soragni hanno usato un potere incredibilmente discrezionale.Un potere che, nel caso del ministro, sostanzia in modo clamoroso, e per meclamorosamente sbagliato, un'ingerenza politica diretta nella vita dei piùgrandi musei della nazione.

3. Vecchio e nuovo

Una finestra aperta da cuientra finalmente aria nuova. Un gesto di rottura. Un bel segnale. Un sassonello stagno. Sono queste le metafore che hanno incarnato il giudizio di chi siè espresso a favore delle nomine: come Gian Antonio Stella sul Corriere e Francesco Bonami sulla Stampa. È un modo di pensare moltodiffuso nell'Italia di oggi, e non solo a proposito dei musei: è questo l'unicovero 'argomento' a favore di Matteo Renzi, e del suo governo. Sarebbe meglioqualunque scuola di questa scuola, e meglio qualunque Senato di questo Senato:e così via. Un simile modo di guardare al potere e ai suoi atti non è,tuttavia, una novità: semmai una costante nella nostra storia. PieroCalamandrei annota nel suo diario che perfino il grande filologo GiorgioPasquali pensava e diceva: «Il fascismo sarà aria buona, sarà aria cattiva, mainsomma è aria».

Invece io non credo che gliatti di governo si possano giudicare sul piano simbolico, o metaforico. Siamoallo storytelling del governo senza il governo. Al racconto delleriforme senza le riforme. Ma la bontà di un metodo (di un gesto, di unafinestra aperta, di una ventata d'aria...) va giudicata sulla base dei risultati che produce, non su quello degli effetti mediatici che suscita.

In questi giorni, tuttavia,anche molti colleghi e amici mi hanno detto che tutto quello che ho appenascritto è verissimo, ma che la situazione dei musei era così compromessa chequalunque 'novità' era comunque preferibile al 'vecchio'. Insomma, Franceschiniavrebbe fatto bene a comportarsi, rispetto al nostro patrimonio, come l'amantedescritto da una splendida canzone di Fabrizio De André: «E sarà la prima cheincontri per strada / che tu coprirai d'oro per un bacio mai dato, /per unamore nuovo».

Io non sono d'accordo. Riconosco– e credo di averlo scritto più di tutti – le infinite, gravissimeinsufficienze, e perfino i veri e propri tradimenti, di molti dei funzionaridelle soprintendenze a cui erano affidati quei musei. Ma credo che la stradaimboccata da Franceschini aggiungerà danno a danno, stortura a stortura, erroread errore. O davvero pensiamo che affidare la Reggia di Caserta a un esperto dimarketing e il Museo Archeologico di Napoli a un funzionario comunale (per approfondimenti rinvio a questo mio articolo uscito oggi sulla cronacanapoletana di Repubblica) sia la soluzione? O anche solo che sia meglio del'vecchio'?

Quando, nella CommissioneBray per la riforma del Mibact, cominciammo a discutere dell'autonomia dialcuni grandi musei italiani, pensammo e dicemmo che l'autonomia doveva esserefunzionale a rendere questi musei dei veri centri di ricerca, capaci di tornarea produrre, e quindi a redistribuire, conoscenza. Tutto questo non è avvenuto: come ammette Paolo Baratta, che sedeva in quella commissione e oggi ha presiedutoquella per la scelta dei direttori. Oggi l'Archeologico di Napoli ha 6archeologi e Capodimonte 5 storici dell'arte, Brera 4, la Galleria Estense diModena 2 e la Galleria Borghese 3: di quali supermusei stiamo parlando? E diquale rivoluzione culturale? Qua nemmeno un direttore come Roberto Longhipotrebbe fare qualcosa di serio!

Infine, quando pensavo che imusei sarebbero potuti ritornare ad essere luoghi civici e centri diumanizzazione, avevo in mente la triste sorte degli Uffizi, asservitialle più spietate logiche del mercato. In questi anni ho più volte scritto chel'enorme responsabilità di questa mutazione era anche da ascrivere altradimento di chi ha governato negli ultimi decenni la Soprintendenza diFirenze: e ho deplorato il fatto che le encomiabili resistenze del direttoredegli Uffizi non avessero mai trovato la forza, né peraltro avessero glistrumenti di autonomia, per emergere esplicitamente ed efficacemente.
Ebbene, la primedichiarazioni del nuovo direttore Eike Schmidt non hanno riguardato la ricercao l'accesso dei cittadini alla conoscenza, ma – suscitando il giusto sdegno di Jean Clair – lasua determinazione ad affittare ai privati le sale del museo per eventicommerciali e convention di imprese. Evidentemente, Franceschini ha dunqueraggiunto il suo scopo: eliminare anche quell'ultimo residuo di timideresistenze alla completa mercificazione del nostro patrimonio. Ecco qual era ilfamoso ritardo finalmente recuperato.

Spero di sbagliarmi: magari –nonostante la loro diretta nomina ministeriale – i nuovi direttori saranno piùliberi, coraggiosi e forti dei loro predecessori. Forse si getteranno in quellebattaglie che sono state disertate dai loro predecessori. Lo spero davvero. Maper ora non riesco a vedere nessuna novità, nessuna rivoluzione culturale. Vedosolo che il lungo smantellamento del progetto della Costituzione sul nostropatrimonio culturale conosce in questi giorni un nuovo, deprimente traguardo.

La Repubblica, 21. agosto 2015

In questi giorni Jean Clair è a Venezia, in giro con la moglie per calli e mostre. Vent’anni fa curò una Biennale dedicata al volto e al corpo umano, ma oggi è deluso. Non gli piacciono le esposizioni affollate di turisti e quando gli si chiede di commentare la nuova riforma dei musei, all’inizio sembra possibilista, ma poi di fronte all’idea di una nuova figura di direttore-manager si accalora: «Un direttore di un museo non deve fare grandi mostre, ma far conoscere il patrimonio spirituale di una nazione. È la fine. L’arte ha perso ogni significato».

L’argomento lo appassiona. Risale ormai a qualche anno fa un suo saggio intitolato La crisi dei musei, mentre nel più recente L’inverno della cultura ha disseminato pagine durissime contro i musei-luna park ridotti a magazzini di opere preziose. Per il grande critico e storico dell’arte, il sistema museale è ormai asservito alla logica mercantile, come qualsiasi altro prodotto. Nel suo ultimo libro, intitolato Hybris. La fabbrica del mostro nell’arte moderna ( Johan & Levy), studia la morfologia dell’arte moderna, le sue deformazioni morbose, il suo progressivo allontanamento dalla bellezza. Il fatto che Jean Clair sia stato anche direttore del Centre Pompidou e del museo Picasso, lo spinge a guardare con curiosità a quanto sta accadendo nel nostro paese.

Che cosa non la convince nella riforma italiana dei musei?
«Prima di tutto ho paura che non si rispetti l’identità di un museo, la specificità della cultura locale che vi è custodita e che va tutelata».

Un direttore straniero potrebbe essere inadatto a questo compito?
«Un direttore di un museo deve per prima cosa essere un critico e uno storico dell’arte. Da questo punto di vista, scorrendo la lista dei nomi selezionati, mi pare che ci siano professionalità di rilievo. Conosco Sylvain Bellenger, che a Capodimonte farà un ottimo lavoro. Ma il problema è un altro. È un problema spirituale e culturale più ampio. Si stanno trasformando i musei in fondi bancari, in macchine finanziarie, hedge fund specializzati in speculazioni. Non abbiamo più idea di che cosa sia l’arte, di quale sia il suo compito».

Non pensa sia anacronistico tentare di arginare l’internazionalizzazione della cultura?
«Sono curioso di vedere cosa accadrà in Italia. Il fatto che molti dei prescelti siano stranieri è in sé un fatto positivo, se non fosse che dovranno operare dentro musei ridotti a macchine per incassare soldi. Io stesso prima di essere nominato al Beaubourg e al museo Picasso ho studiato in America. Ricordo il sorriso del direttore del Louvre quando decisi di partire. Mi disse: “Che vai a fare in America?” Non lo ascoltai. Sono rimasto ad Harvard tre anni. Era il 1966. Da lì sono poi andato in Canada, al museo nazionale».

Nei suoi scritti ha però attaccato più volte il sistema museale contemporaneo. Mercato e cultura sono forze antagoniste?
«Molti musei sono in mano a mercanti senza cultura. Il compito di un museo dovrebbe invece essere educare e dilettare. Il direttore dovrebbe preoccuparsi di tutelare il patrimonio d’arte che gli è affidato senza venderlo. Prenda l’idea di portare il Louvre ad Abu Dhabi. Una follia».

Crede si arriverà a questo anche in Italia?
«Ho l’impressione che tra un po’ di tempo ci sarà l’esigenza di mettere sul mercato qualche opera per rimpinguare le casse della macchina-museo. Nel 2006, Françoise Cachin, che è stata la prima donna a essere eletta direttrice dei musei di Francia, scrisse un articolo contro l’idea di vendere i musei e venne allontanata dal suo incarico. Invece aveva ragione. Le opere d’arte sono ormai ridotte a merce senza qualità, senza identità».

Immagino che l’idea di affittare un museo per eventi privati non le piaccia affatto…
«L’idea del neo direttore tedesco degli Uffizi, Eike Schmidt, di dare in affitto delle stanze della galleria segna l’inizio della fine. O piuttosto la continuazione di una decadenza della quale lui stesso sarà il responsabile finale».

Lei ha guidato grandi musei. Ora ai direttori si richiede di essere anche dei manager. Quali possono essere dal suo punto di vista le conseguenze di un tale cambiamento?
«Guardi cosa succede al Centre Pompidou, dove si è chiusa da poco una retrospettiva dedicata a Jeff Koons. La mostra è stata appaltata a privati. Duemila metri quadrati di esposizione per mettere in scena una buffoneria. Una buffoneria che prende però autorevolezza dalle collezioni del Beaubourg, che sono il vero patrimonio del museo, come l’oro conservato nei caveau delle banche. Sono Cézanne e Picasso a dare valore a Koons. I musei sono utilizzati come riserve auree per dar credito a operazioni di manipolazione finanziaria, forniscono quel deposito che dà pregio alle proposte del mercato privato. Quella di Koons è chiaramente un’operazione fraudolenta, un falso, una bolla speculativa. È quanto accade quando si preferiscono direttori manager. Come nel caso di Alain Seban, alla guida del Pompidou».

Ma per far funzionare il sistema museale servono soldi, dove trovarli?
«Il costo per mantenere un museo è ridicolo rispetto a quello della sanità o dei trasporti».

Al centro della riforma c’è l’idea di “valorizzazione”? Le piace?
«È un termine delle banche. Si valorizzano i soldi non le opere d’arte. Leggo che nei musei si apriranno ristoranti e bookshop. C’è bisogno di un manager per aprire un ristorante?»

Ha visitato la Biennale Arte?
«Tantissimi padiglioni da tutto il mondo, tutti uguali. Sono a Venezia da qualche settimana e quello che vedo mi spaventa. I musei sono molto frequentati, come le spiagge, ma non sono più frequentabili».

Come ridare significato all’arte?
«L’opera d’arte non significa più nulla, è autoreferenziale, un selfie perpetuo. I jihadisti dell’Is hanno decapitato l’archeologo Khaled Asaad. Da una parte abbiamo paesi che credono nell’arte al punto da uccidere e dall’altra pure operazioni di mercato».

Meglio tornare al passato?
«Non è possibile. Viviamo nel tempo dell’arte cloaca. Il museo è il punto finale di un’evoluzione sociale e culturale. È una catastrofe senza precedenti. Il crollo della nostra civiltà».

Il manifesto, 19 agosto 2015 (m.p.r.)

Valentina Porcheddu I l 17 agosto Dario Franceschini ha annunciato, tramite il suo account Twitter, il completamento delle procedure per la nomina dei venti direttori dei più grandi musei italiani: «Si volta pagina», ha affermato il ministro. Benché l’aspettativa di colmare «decenni di ritardi» con un concorso di portata internazionale fosse ardua da soddisfare, ieri abbiamo quasi creduto di poterci risvegliare in un paese dove il merito non è una parola vuota buona per tutte le occasioni e deciso a restituire dignità al patrimonio archeologico e artistico, attraverso «l’investitura» delle professionalità più idonee a conservarlo e promuoverlo. Invece, dopo le accese polemiche estive che hanno riguardato i fondi per la ricostruzione dell’arena del Colosseo, l’anastilosi delle colonne del Tempio della Pace ai Fori Imperiali e la mancanza di personale a Pompei, per il Mibact non è ancora tempo di successi incondizionati.

Il bando per la selezione dei «super-direttori» era stato lanciato lo scorso gennaio, allo scopo di aprire l’Italia a candidature di altissimo livello provenienti anche dall’estero. Tuttavia, la pubblicazione delle nomine – effettuate in ultima istanza dal ministro Franceschini per i sette musei di I fascia e dal Direttore Generale Musei Ugo Soragni per quelli di II fascia – suscita perplessità e ben più di un interrogativo sul rispetto dei criteri di scelta previsti dal decreto «rivoluzionario». Se, infatti, uno dei princìpi cardine per l’ammissione alle prove nonché criterio di peso assoluto nella valutazione era la «specifica esperienza professionale documentata nell’ambito della tutela, della gestione e della valorizzazione del patrimonio culturale», ci si chiede come mai nei curricula di Carmelo Malacrino e di Gabriel Zuchtriegel – rispettivamente designati al Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria e al Parco Archeologico di Paestum – non ci sia traccia di tali competenze per il livello auspicato.
Quarantaquattro anni il primo, trentaquattro il secondo, hanno entrambi un percorso formativo di qualità e possono vantare una discreta produzione scientifica, come d’altra parte migliaia di giovani italiani ed europei (Zuchtriegel è tedesco) che cercano lavoro nel campo dei beni culturali. Tra i non italiani, spicca per la giovane età Gabriel Zuchtriegel, che andrà a dirigere il parco archeologico di Paestum. Nato a Weingarten, nel Baden-Wurttemberg, Zuchtriegel si è laureato in Archeologia classica, preistoria e filologia greca alla Humboldt-Universitat di Berlino e ha poi conseguito con lode il Dottorato di ricerca in Archeologia classica presso l’Università di Bonn. Agli Uffizi di Firenze andrà un altro tedesco, Eike Schmidt, storico dell’arte. E «stranieri» sono anche molti altri direttori di musei e Pinacoteche. Per tornare all’archeologia, qual è dunque l’asso nella manica dei due eletti, la dote che fa la differenza e che consentirà loro di gestire un polo archeologico complesso come quello di Paestum (il Parco comprende l’area archeologica e il Museo Narrante del Santuario di Hera Argiva alla Foce del Sele e il Museo Nazionale di Paestum, che ospita la celebre Tomba del Tuffatore) e un museo che non ha mai decollato malgrado l’imponente presenza dei Bronzi di Riace?
Il cervello in fuga
Un ruolo di management dei beni culturali l’hanno già ricoperto, invece, Eva Degl’Innocenti e Paolo Giulierini, ai quali sono stati assegnati i Musei Archeologici Nazionali di Taranto e Napoli. Degl’Innocenti è un ex cervello in fuga che rientra in Italia. Un bell’investimento, senza dubbio. Se non fosse che la brillante trentanovenne è specialista di archeologia medievale e arriva dal Centro d’interpretazione Coriosolis della Comunità dei Comuni Plancoët Plélan in Bretagna passando per il Museo Nazionale Francese del Medioevo di Parigi. Che ci fa dunque a Taranto, città che ospita una delle più ricche e splendide collezioni di antichità magno-greche?
L’etruscologo
La stessa domanda sorge nello scorrere il profilo scientifico di Giulierini (classe 1969): etruscologo che dirige dal 2001 il Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona, è chiamato ora alla testa del Museo di Napoli, da decenni vittima di accorpamenti e scorporamenti «politici» con Pompei, il più prezioso scrigno al mondo della romanità. Eppure, la «specifica competenza attinente le collezioni e/o le raccolte del museo o dei musei per i quali si è presentata domanda» era un’altra delle basi fondamentali del concorso. Viste le lampanti incongruenze, la giovane età dei neo-direttori, le «quote-rosa» e l’introduzione di esperti stranieri non garantiscono, pur essendo parametri apprezzabili, la correttezza e la cura delle scelte compiute dal Mibact.
Ancora una volta, si perde di vista l’obiettivo principale, vale a dire trasformare un patrimonio archeologico già di per sé attraente, in un’opportunità di conoscenza e arricchimento culturale per tutti (addetti ai lavori, cittadini e turisti). Senza dimenticare l’indotto economico che potrebbe derivare dalla valorizzazione di musei e siti affidati a chi ne ha reali capacità di sviluppo. Dopo aver confidato in una possibile svolta, abbiamo l’impressione di ritrovarci al solito «incrocio» di spartizioni indiscriminate d’incarichi. E se non ci sembra, come proclamato ieri da Franceschini, di assistere a un «passaggio storico», ci auguriamo almeno di non dover tornare – con le nuove «pedine» ministeriali – fino alla casella di partenza.

«Io sono la bella coppa di Nestore, chi berrà da questa coppa subito lo prenderà il desiderio di Afrodite dalla bella corona»: non è un verso dell’Iliade, ma avrebbe potuto esserlo. Risale alla fine dell’VIII secolo prima di Cristo, ed è dunque contemporaneo alle più antiche parti del poema omerico: la cosa straordinaria è che non lo conosciamo attraverso una lunga catena di manoscritti, ma direttamente dall’iscrizione (una delle scritte più antiche d’Italia, la più antica in greco), incisa sulla coppa stessa.

Ebbene, quella coppa che in qualunque altro paese sarebbe tra le glorie nazionali, rischia ora di finire – insieme a molti altri reperti – chiusa in una cassa, sigillata in una cantina fino a nuovo ordine. Già, perché il comune di Lacco Ameno, sull’isola di Ischia, è ridotto alla canna del gas, e sta valutando di vendere a qualche ricco privato Villa Arbusto, che ospita il piccolo, ma magnifico, Museo Archeologico di Pithecusae, che prende il nome da quello della prima colonia greca d’Italia, che si installò appunto sull’isola.

Negli anni Quaranta del Novecento Giorgio Buchner – archeologo ischitano di origine tedesche – ha scavato e studiato gli oggetti provenienti da più di settecento tombe di greci e fenici, di campani e di laziali che si collocano tra il settimo secolo a. C. e l’età imperiale: la messa all’asta dell’immobile significherebbe di fatto la fine del museo che oggi li accoglie. Ed è contro questa assurdità che l’Associazione Bianchi Bandinelli ha lanciato un appello, richiamando alla vigilanza «il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo al quale la Costituzione addossa l’onore, ma anche la responsabilità, della promozione della cultura e della tutela del patrimonio storico della Nazione ». Il ministro Dario Franceschini non ha finora trovato il tempo per rispondere, mentre il sindaco di Lacco Ameno è ricorso ad una finissima metafora: «Io devo curare un tumore, e per molti cittadini il museo è solo un’unghia incarnita». Parlando poi con Costanza Gialanella, una degli archeologi della Soprintendenza cui si deve la fondazione e l’allestimento del museo, il sindaco ha detto di non poter dare garanzie sul futuro del museo. Ma i cittadini ischitani sanno benissimo che il futuro del Museo Archeologico di Pithecusae coincide con il futuro – economico e civile – della loro comunità, e l’allarme che si è diffuso ha fatto sì che nelle ultime settimane la raccolta sia visitatissima: nonostante (assurdamente, visto che si tratta di un luogo di mare) essa sia aperta solo nelle ore della mattina. La speranza è che la pressione dell’opinione pubblica induca l’amministrazione a evitare questo suicidio: la cui misura è data dalla sproporzione tra il beneficio effimero della chiusura di un singolo bilancio e il danno permanente della chiusura di un simile laboratorio di futuro.

È una vicenda esemplare: che ci ricorda che il patrimonio artistico italiano non coincide che in minima misura con i venti mitici supermusei in attesa di direttore. E che dimostra che il Sud non ha bisogno di colossali infrastrutture mangia-suolo, ma del risanamento delle economie dei comuni, e della capillare cura di un territorio straordinario, che aspetta solo di essere aperto ai cittadini e ai turisti.

Quando gli dissero che per superare la crisi bisognava tagliare i fondi alla cultura, Barack Obama rispose che sarebbe stato come provare a far ridecollare un aereo buttandone il motore fuori bordo. Una verità elementare che la classe dirigente italiana non ha ancora capito.

UN rettifilo di cinquanta chilometri, il più lungo d’Europa. Roba da far uscire pazzi gli automobilisti, che infatti si schiantano. Ma al pedone va peggio. Diventa un miserabile, un rifiuto dell’umanità, un uomo da marciapiede. Fra Cisterna e Terracina, dobbiamo affrontarlo questo velodromo senza misericordia e senza il diversivo di un saliscendi. Non c’è scampo, perché la via Appia nuova è costruita integralmente sul terrapieno di quella vecchia, che già tagliava gli acquitrini dell’Agro pontino. La “colpa” è di papa Pio VI, che nel Settecento volle riattarla all’uso viario e riportò in luce il mirabile manufatto — argine, pietre miliari e lastricato — inclusi “li ponti, che furono giudiziosamente costruiti da’ nostri maggiori per dare passaggio alle acque”. Peccato che tutto fu ricoperto e in gran parte demolito per lasciar posto alla strada nuova.

Figurarsi cosa accadde quando nel cielo d’Italia apparve l’uomo che diceva “Noi tireremo dritto”. Vide l’Appia e uscì di testa. La Linea era il simbolo della romanità ritrovata, il nesso del destino con la via Emilia presso la quale egli era nato. Ma era soprattutto l’asse su cui innestare il reticolo ortogonale delle bonifiche littorie. Le quali estirparono la malaria, diedero lavoro ai contadini, ma portarono all’estremo la geometria ossessiva dello spazio pontino. L’era delle tangenziali, dei Tir e dei Rottweiler ai cancelli, completò la disumanizzazione. Unica salvezza, i pini marittimi, che ai tempi di Roma non esistevano (le legioni dovevano poter guardare lontano!) e oggi offrono al viandante un po’ d’ombra e una minima corsia erbosa di salvataggio.

… Proviamo col bus, una deroga sofferta al cammino, per soli 20 chilometri, fino a Borgo Fàiti, l’antica Forum Appii.
Al botteghino ci guardano strano.
«E che ci andate a fa’ sull’Appia? Non ci abita nessuno».
Inoppugnabile. L’Appia è solo un asse, perfora il vuoto. Le fattorie, le città e i poderi sono tutti ai lati. Per andare a Borgo Fàiti dovremo deviare per Latina e aspettare la coincidenza. Facevamo prima a andare a piedi.
«Aò, a ‘ndo vanno quelli?», sento dire di noi.
«Se fanno ‘a Franciggena».
«Ma chi je lo fa fà».

Partiamo. Ma è tremendo lasciare la Linea. Il Gps va in tilt e nel gruppo serpeggia lo spaesamento, mentre la corriera divaga e ci depista, sguazzando nella toponomastica littoria — Montello, Podgora, Bainsizza, Borgo Piave, via Enrico Toti — con la Grande Guerra che ci insegue anche qui, fra campi di kiwi e grandi nubi abbacinanti.

A Latina Mussolini incombe con architetture squadrate, ma tira un’arietta polverosa, texana. Bullotti a zonzo tra le pensiline dell’autostazione, con le locandine dei giornali che invocano “Pistole per i vigili urbani”. C’è la cosca dei Casalesi che spadroneggia e risale la via di Appio Claudio verso Roma.
...
A Borgo Fàiti un buon albergo sulla strada, unico punto di sosta a spezzare l’incubo del rettifilo. Ce n’era uno già 23 secoli fa, e, come allora, vi scorre accanto il fiume Cavata, che irrompe, fresco e verde, giù dai Lepini per infilarsi sotto l’Appia con un robusto ponte antico e formare un canale parallelo sul lato Sud della via. La soluzione furba per continuare ci sarebbe: un paio di canoe. Ad averle, arriveremmo senza sforzo a Terracina in favor di corrente. Esattamente come i Romani, che qui potevano proseguire su chiatte agganciate a muli o cavalli.
“Fastidiose zanzare e rane palustri allontanano il sonno”, racconta Orazio del suo imbarco notturno in questo punto. E prosegue: “ Il traghettatore e un passeggero, sbronzi di vino andato a male, cantano a gara l’amica assente, finché il viandante stanco inizia a dormire e il marinaio, pigro, lega a una roccia le briglie della mula per mettersi a russare” anziché iniziare la navigazione, per la quale ha già incassato il denaro. Ma dopo un po’ un passeggero imbestialito afferra una verga e mena il malcapitato per farlo ripartire sul far dell’alba. ...
Si prova l’affondo con passo legionario. Basta chiudere i boccaporti col mondo esterno, e attivare i tamburi del verso spondeo, il p iù martellante della metrica latina. Un-duetre un-duetre. Ma i Suv si sorpassano strombazzando a 150 orari e i camion provocano spostamenti d’aria tali da farmi volare il cappello. Un mattatoio. E non c’è ombra di polizia. Che disperato atto d’amore è questo nostro viaggio.
Esausti, ci buttiamo a mangiare la nostra frutta a margine di un campo, e da una casa esce subito, allarmato, il padrone col figlio.
«Ragazzi, dovreste chiedere per fermarvi qui».
«Ma siamo sul bordo e facciamo solo merenda. E poi non si sa mai, se mi avvicino vi allarmate di più. E magari avete pure il cane ».
«Ma no, siete gente civile. Piacere, so’ Franco Molina, maestro di ballo, via Appia chilometro 74».
«La gente corre troppo», gli dico.
«Qui veniva Taruffi a fare il chilometro lanciato. Ma almeno chiudevano la strada. Adesso so’ tutti Taruffi. E sull’Appia se more».
«C’è nessuno che fa il canale in barca?».
«Colla barchetta ce passano i rumeni per andà a rubà».
«E allora cosa ci consiglia?».
«Prendete l’argine, è tutto pulito fino a Terracina. Se arriva dritti dritti».
Noi lo prendiamo l’argine, sul lato opposto, e dopo un po’ finiamo in un inferno di rovi. Alex perde pezzi della macchina da presa e tutti, al primo ponte, escono dal ginepraio sporchi e graffiati da capo a piedi, in cerca di un altro bus sullo stradone maledetto. Già, ma le fermate dove sono? Andiamo a tentoni, senza cavare un ragno dal buco. Qui tutto è aleatorio, orari, direzioni, punti di sosta segnalati. Alla fine, fermiamo un bus alla disperata. È quello giusto. Al tramonto siamo in vista di Terracina.
(6 - continua)

La Repubblica, 6 agosto 2015

IL PRIMO sbarramento della direttrice millenaria non è la frana di un monte, il collasso di un muraglione o lo straripamento di un torrente. È un bar. Il bar Fly di Genzano laziale. Tutto è di una sconcertante evidenza. Sopravvissuta alla tangenziale, al traffico della Statale Sette, alle discariche edilizie e al pantano attorno a Ciampino, la linea indeflettibile, implacabile e inflessibile, capace di resistere imperterrita ai cambi di nome (corso Matteotti, via della Stella, via Alcide De Gasperi, via Remigio Belardi eccetera), si arresta davanti a una banconiera che ci chiede cosa vogliamo bere.
«Un succo di pomodoro, grazie ».
Dietro il bar, un blocco di condomini. Oltre, ad appena trecento metri, la doppia linea dei pini marittimi — segnale infallibile — ripristina la direzione. Ma a noi tocca deviare. Fronte sinist sinist, e via per una salita che ci porta in un altro film. Piazza Salvatore Buttaroni, ucciso dai fascisti. Effigie di Maria, benedetta da Pio VII «con concessione di giorni 300 di indulgenza da applicarsi alle anime del Purgatorio ». Palasport Gino Cesaroni, sindaco dal ‘69 al ‘97. Oltre il vialone dei pini, un bivio sconcertante fra Appia Antica e una sedicente Appia Vecchia. Come se già l’Appia Nuova non complicasse le cose.
...
Ed ecco che la prima strada d’Europa già si perde, mangiata da edifici, cancelli e poderi, certificando l’eclissi dello Stato e la restaurazione dei particolarismi contro cui Roma ha lottato per secoli. Ad Ariccia, la prima sopraelevata dell’antichità, un gigante di 230 metri per 13 del secondo secolo a. C., è nascosta alla vista per la vegetazione cresciuta a dismisura. Fra Genzano e Cisterna, il rettifilo dell’Appia lo puoi traguardare solo dall’aereo o nelle vecchie carte Igm dell’Italia post-unitaria. Lì esiste ancora, come mulattiera, carrereccia o sentiero, segnata da toponimi come Ponte di Mele, Casale San Mauro, Casa Troiani. Ma sul terreno cosa ci sarà? Gli archeologi segnalano tratti accessibili di basolato originale, ma la linea che li congiunge esiste ancora?

È qui che comincia l’avventura. Ed è qui che la diavoleria elettronica di Riccardo, collegata a venti e passa satelliti, inizia la sua danza. «Ti allontani dal tracciato e il Gps ti avverte. Ma attenti, non è lui che mi comanda — precisa marciando sotto il sole — sono io che gli ho detto dove dobbiamo andare». Significa che il nostro non è un viaggio teleguidato, ma una ricerca dove alla fine saremo noi, anzi i nostri piedi a decidere. «I piedi capiscono tutto, se li lasci liberi. Ricordate: il flusso va dalla terra alla testa, non viceversa». Siamo tutti d’accordo: viva i piedi. Coi piedi si può, anzi si deve scrivere se si vuol conoscere il mondo.
… Appena fuori dal paese, in uscita tangenziale sulla destra, ecco trecento metri di lastricato stupendo oltre una scritta gialla “SEGNALE TURISTICO APPIA ANTICA”, sotto una cascata di glicini e senza anima viva che lo percorra. Ed è merenda su un muretto, con brezza leggera e rondini impazzite, a discutere di Orazio Flacco con pecorino e una bottiglia di Nero di Manduria. Poi di nuovo in cammino, in leggera discesa sul declivio vulcanico, col mare lontano sulla destra e greggi al pascolo dall’altra parte. Terra grassa, nera come una torta Sacher, primi fichi d’India, annunci mortuari con Cristo e Padre Pio effigiati con pari evidenza.

Cominciano i branchi di cani liberi. «Ce n’è un milione almeno, a Sud di Roma», avverte Riccardo, che in Italia ha camminato per 20 mila chilometri e di cani s’è fatto un’esperienza. «Basta guardarli senza paura e raccogliere una pietra. Scappano sempre». Noi non abbiamo paura, sono semmai gli altri ad avere paura di noi. Oggi chi va a piedi è un’anomalia. Una Pantera della Polizia rallenta per indagarci. In un podere, oche incazzatissime ci puntano in formazione serrata, e con quelle, si sa, non ci ragioni. Al numero 97 di una via che si chiama finalmente “ Appia Antica”, segnata da infiniti divieti di accesso, una voce ansiosa al citofono chiede ripetutamente «Chi è?» senza che noi si abbia suonato alcun campanello. Ci eravamo fermati appena un attimo a consultare le mappe.

… Un’altra isola di basolato stupendo. Ma le auto ci passano sopra senza misericordia, traballando, e la faccia del driver esprime sempre lo stesso concetto: «Ste pietre di m... cosa aspettano a levarle». Poco oltre, una catenella all’italiana ci sbarra la via. In fondo, tre ragazzi con una carriola e un cane lupo. Vado avanti a parlamentare, ma quelli mi guardano impietriti senza richiamare il cane. Gli dico che vorremmo andare oltre. Uno risponde: «Ce sta ‘o fuoss». C’è da superare un fosso, sono cavoli vostri. E noi si scende guardinghi sotto gigantesche querce, spostando canne e rifiuti fino al guado.
Ma oltre il torrente rieccola, la linea maestra. Ci aspettava, come potevamo avere dubbi. Anche il lastricato riemerge. Chiedo a un vecchietto col bastone: «Ma la gente lo sa che questa è l’Appia antica?». Lui: «Quasi nessuno». Memoria finita. Sì, è proprio questo... il Paese che amo.
Ancora sbarramenti, sterpaglie, cani liberi. Peggio ancora è dopo la confluenza della Statale Sette sul tracciato antico. Sul rettifilo fino a Cisterna ecco camion, auto che sgommano, marciapiedi striminziti e spietati guard-rail. Altroché Santiago, questo è un percorso di guerra. Che rabbia. Che persino in Albania le strade romane siano più ben tenute non è solo bestiale. È stupido. È l’Appia la grande scommessa di Roma. Non il Colosseo o la Domus Aurea, già intasate di folla, ma la percorribilità ritrovata della prima via del Continente.

(5-continua)

La Nuova Venezia, 6 agosto 2015

Scoperta mercoledì 5 - dopo cinque anni di attesa e una serie infinita di polemiche sulla sua costruzione - la nuova ala dell'hotel Santa Chiara. con la facciata che dà sul Canal Grande, in attesa di togliere le copertura anche a quella che dà su Piazzale Roma.

Un grande cubo bianco in pietra, del tutto dissimile dalla parte storica dell'hotel di proprietà di Elio Dazzo e destinato a creare inevitabili polemiche per il suo impatto, con Italia Nostra che grida allo scandalo. "Spero che piaccia ai Veneziani - dichiara il proprietario - altrimenti me ne farò una ragione. Lo inaugureremo comunque entro settembre".

La nuova ala dell'albergo ospiterà 19 stanze e un parcheggio interrato da 16 posti-auto destinato ai clienti dell'albergo. L'edificio è stato progettato dagli architetti Antonio Gatto, Dario Lugato e Maurizio Varratta.













Riferimenti

Vedi, in proposito, l'articolo di Gian Antonio Stella del 20 febbraio 2014

La Repubblica, 6 agosto 2015

«L’Italia spa esiste ancora. Il nostro patrimonio culturale rischia tuttora di essere svenduto. Le riforme non bastano, se mancano i fondi. Riempire l’arena del Colosseo non è una priorità. C’è una bella differenza tra restaurarlo e trasformarlo per ospitare spettacoli». Nell’estate dell’attesa per i nuovi super direttori dei venti grandi musei, mentre le soprintendenze – dopo la riforma della pubblica amministrazione appena approvata – vengono indebolite ulteriormente, Roma crolla e il Colosseo guadagna nuovi finanziamenti per trasformarsi in un’arena show, Salvatore Settis lancia l’allarme. «Questo Paese commette di nuovo l’errore di spostare l’attenzione sulla valorizzazione dei monumenti, rispetto alla loro tutela. Ma non ci può essere valorizzazione senza tutela», dice l’archeologo e storico dell’arte che nel 2009 si dimise dalla presidenza del Consiglio superiore dei beni culturali in contrasto con l’allora ministro Bondi.

Professore, partiamo dalla riforma Franceschini. Qualcosa si sta muovendo.
«Da Veltroni in qua ci sono stati dieci ministri e cinque riforme: un’overdose per il ministero dei Beni culturali. Di tutte, quella di Franceschini, che nasce da una commissione di studio voluta dal predecessore Bray, ha un’idea di base più chiara. Ma non vuol dire che vada tutto bene. Non sono tra quelli che dicono che sia meglio che nulla cambi. Il punto più preoccupante è che, se questa riforma ha al centro i musei – in particolare i venti scelti come più importanti – dall’altro lato impoverisce di personale le soprintendenze territoriali. Quelle di Roma, Firenze e Napoli hanno nove storici dell’arte in tutto: come faranno a tutelare l’immenso patrimonio a loro affidato? Il vero punto per capire se questo governo rispetterà l’articolo 9 della Costituzione è se verranno fatte nelle Soprintendenze territoriali le massicce assunzioni di cui c’è assolutamente bisogno. Di questo si parla troppo poco».

Con la nuova legge sulla pubblica amministrazione le soprintendenze, di fatto, si indeboliscono e vengono sottomesse alle prefetture. Vale il silenzio-assenso dopo 90 giorni anche in materia di tutela ambientale, paesaggistica e dei beni culturali. Lei è tra i sostenitori di un appello contro il provvedimento.
«L’estensione del silenzio-assenso nell’ambito della tutela del paesaggio è anticostituzionale. Ci sono cinque sentenze della Corte Costituzionale che parlano chiaro. Ma la sottomissione delle soprintendenze alle prefetture non può venire da Franceschini, perché sarebbe un’idea suicida per il suo Ministero. Oggi sembra quasi che si voglia distinguere una bad company (le soprintendenze e la cura del territorio, contro cui si schierava il premier Renzi quando era sindaco di Firenze) – e una good company che sono i musei, intesi come “valorizzazione”. E le bad companies sono fatte per essere liquidate».

I musei, appunto. In venti sono stati scelti dal ministro Franceschini come i più importanti, affidandoli ad altrettanti super direttori scelti attraverso un concorso internazionale. Cosa pensa di questo?«Il fatto di dotare i grandi musei di un’autonomia maggiore di per sé mi sembra un’idea interessante e positiva. Anche se nella lista mancano, per ragioni di spending review, musei importanti come il Museo Nazionale Romano o la Pinacoteca di Siena. Va dato atto al ministro che la commissione che sta scegliendo i direttori, presieduta da Paolo Baratta, è molto buona: ci sono nomi come Nicholas Penny della National Gallery di Londra e il grande archeologo Luca Giuliani. Però non è mai accaduto nella storia che venti direttori di musei diversi siano nominati con un’unica procedura. All’estero appare inconcepibile. Vedremo i risultati, ma la fretta è cattiva consigliera».

Ma di cosa avrebbe bisogno oggi il Ministero dei Beni culturali?
«Si continua a ignorare che le riforme a costo zero producono molto meno di zero. Nel 2008, Berlusconi e Bondi tagliarono in modo massiccio i finanziamenti alla cultura di un miliardo e 300 milioni euro. Se quella ferita non sarà sanata (e nessun governo lo ha fatto, nemmeno questo) e non si provvederà a nuove assunzioni, ogni riforma resterà vana. La primissima esigenza sono nuove assunzioni e nuovi fondi».

Però sono appena stati stanziati 80 milioni per alcune Grandi Opere…

«Ci si deve sempre rallegrare quando ci sono dei soldi destinati alla cultura. Ma questa cifra è ben poco di fronte a un patrimonio che crolla. Di milioni ne servirebbero 800 l’anno, non 80 una tantum. Vanno bene i fondi destinati alla Certosa di Pavia e agli altri monumenti. Ma il grande errore sono le spese per il Colosseo ».

L’“effetto Gladiator”.
«Finanziare un progetto che trasformi il Colosseo in un set per spettacoli è un vero spreco. Si trasmette ancora una volta il messaggio che i monumenti non servono a nulla, se non assumono un aspetto spettacolare. E si concentra di nuovo l’attenzione solo su alcuni luoghi simbolo, mentre altri, proprio a Roma, in questo momento, cadono a pezzi. La tradizione italiana della tutela, la più antica al mondo, attraversa una crisi gravissima».

A Pompei, però, i segnali sono diversi.
«Nell’ultimo anno e mezzo, con il direttore generale Giovanni Nistri e il soprintendente Massimo Osanna, la capacità di spesa è aumentata. I segnali di funzionamento sono positivi. Lo sciopero del 24 luglio è stato un brutto episodio, ma non il segno che va tutto a rotoli».

A tredici anni dal suo saggio, possiamo ancora parlare di “Italia spa”?
«Il progetto dell’allora ministro Tremonti di svendere il patrimonio demaniale è fallito. Ma non si può cantare vittoria, dato che si continua a svendere i beni pubblici, delegando l’iniziativa a Regioni e Comuni in modo che non si colga il disegno d’insieme. Inoltre, le regole per la tutela del paesaggio si allentano continuamente, e sarà ancor peggio quando i soprintendenti, esautorati, ubbidiranno ai prefetti. Ma il Paese resta ricco di anticorpi nella società e nelle istituzioni. Possiamo trovare ancora dei contravveleni al degrado che incombe”.

La Repubblica, blog "Articolo 9", 5 agosto 2015

Così da ieri «soprintendente è la parola più brutta del vocabolario della burocrazia»anche per legge: detto fatto, Matteo Renzi ha stroncato in pochi mesi una storia plurisecolare.

Grazie al micidiale articolo 8 della Legge Madia sulla Pubblica Amministrazione, le soprintendenze confluiranno nelle prefetture, e se non riusciranno a evadere una pratica entro 90 giorni, si intenderà che abbiano detto sì: qualunque cosa contenesse quella pratica.

Le slides della propaganda renziana pagata con i soldi pubblici sono ineffabili. Una dice: «È vero che i soprintendenti saranno sottoposti all'autorità dei prefetti? NO, sul territorio ci sarà un ufficio unico del territorio nel quale il prefetto avrà un ruolo di direzione (che non signfica funzioni di comando)». Manco i gesuiti del Seicento avrebbero saputo far meglio: se qualcuno dirige qualcosa, esercità un'autorità. Il fatto che non «comandi» attiene allo stile, non alla sostanza. E dunque, la risposta è: Sì, i prefeti dirigeranno i soprintendenti.

Un'altra slide sostiene che «la regola del silenzio assenso non favorirà la cementificazione selvaggia, ma significherà più responsabilità per le amministrazioni nell'assicurare maggior tutela del paesaggio, dei beni culturali e ambientali». Ma come si può avere la faccia tosta di prendere in giro gli italiani con enormità di cui si sarebbe vergognato perfino Silvio Berlusconi? Nelle soprintendenze non c'è più nessuno, per il blocco del turn over. Non hanno più mezzi: basta auto di servizio, non più cellulari, non c'è manco la carta. Se l'obiettivo fosse stata la maggior tutela, prima si sarebbero dovuti dare i mezzi per esercitarla, e poi si sarebbe potuti (anzi, dovuto) chiedere di esercitarla in tempi certi: ma così è solo un massacro. Quando un Renzi presidente della provincia di Firenze si trovò ad avere bisogno di un elicottero in pochi minuti, lo chiese in prestito al re del cemento fiorentino: ci si può ora stupire se – dallo Sblocca Italia alla Legge Madia – egli pone le basi per un nuova stagione di mani sulle città e sul paesaggio?

Ma – per l'ennesima volta – Renzi non è peggiore della classe dirigente di cui è espressione: appare più colpevole solo perché si presenta come nuovo, quando invece è anche lui un fossile. Un solo esempio: mentre Firenze veniva sconvolta da un ciclone tropicale, il presidente della Toscana Enrico Rossi invocava le Grandi Opere – carissime a Maurizio Lupi, o a Ercole Incalza – come l'unico mezzo per creare lavoro. Un suicidio: dettato dall'ignoranza – ancora prima che dalla mala fede – della classe politica italiana. Per trovare un'analisi pertinente del disastro fiorentino, bisogna invece leggere il discorso di qualcuno che non ne parlava affatto, ma parlava del quadro generale che lo ha provocato: «Siamo la prima generazione a sentire l'impatto del cambiamento climatico e l'ultima generazione che può fare qualcosa" per combatterlo». Sono parole di Barack Obama: le più alte e ispirate che da molto tempo in qua echeggino nella politica mondiale.Parole lontane anni luce da un'Italia fossile in cui si continua ad invocare le Grandi Opere, e a spianare ogni argine al loro dilagare.

E in tutto questo c'è un tradimento ancora più grande di quello dei politici: ed è quello dei professori, degli studiosi che dovrebbero costruire altre parole, altre idee, altre strade. Ieri il Consiglio Superiore dei Beni culturali, massimo organo tecnico del Ministero per i beni culturali, ha sì detto che la legge Madia può mettere «in pericolo l’esistenza stessa del MiBACT», ma poi ha proseguto i suoi lavori come se nulla fosse. Per una cosa gravissima (ma forse meno grave: il dimezzamento dei fondi del Ministero, inflitto da Tremonti a un passivo e complice Bondi nel 2008) l'allora presidente dello stesso organo protestò dimettendosi: ma quel presidente si chiamava Salvatore Settis, quello di oggi si chiama Giuliano Volpe. E Volpe non ci pensa neanche a dimettersi, con tutta la fatica che ha fatto a farsi nominare: preferisce celebrare la ricostruzione dell'arena del Colosseo, ­ un'impresa kitsch e culturalmente aberrante cui dedicare oltre 18 milioni euro pubblici mentre le bibloteche e gli archivi chiudono. E così la massima espressione del sapere all'interno del Ministero per i Beni culturali è ridotta – come ha scritto oggi Francesco Merlo in un memorabile articolo – ad «una sorta di cerchio magico del ministro presieduto dall’ archeologo medievista Giulio Volpe, che di Franceschini è il piccolo Gianni Letta o, se preferite la modernità, è il Luca Lotti, ma in cattedra. “A nome del Consiglio esprimo grande apprezzamento per la destinazione di queste risorse … e per l’ operazione fortemente innovativa”, ha dichiarato ieri il professore Volpe lodando il ministro e lodandosi».

Così, quando si scriverà la storia dei danni inflitti al Paese dal breve regno di Matteo Renzi, una nota a piè di pagina documenterà che il giorno stesso in cui una legge della Repubblica uccideva l'articolo 9 della Costituzione, il ministro per i Beni culturali e la sua corte aprivano i giochi al Colosseo. Il diavolo, come è noto, si nasconde nel dettaglio.

La Repubblica, 5 agosto 2015

Non si trovano i soldi per la manutenzione ordinaria di Roma ma ci sono 21 milioni per cominciare a coprire l’arena gladiatoria del Colosseo a riprova che sempre il kitsch è il figlio ricco e storpio delle crisi economiche. Diciotto milioni e mezzo verranno stanziati dal ministero come “finanziamento di necessità e urgenza” e altri due e mezzo sottratti ai restauri dello stesso Colosseo pagati dalla Tods di Diego Della Valle.

Il Consiglio Superiore dei Beni Culturali ha così deciso di assecondare il famoso tweet con il quale Dario Franceschini nel novembre scorso comunicò all’Italia la sua voglia di ricostruire l’arena, ridare un suolo al sottosuolo e ricomporre la forma, l’ellissi perfetta che senza il pavimento non si percepirebbe più perché il fondo ruba la scena con i suoi corridoi, i suoi ruderi sbocconcellati, il suo mistero di labirinto. Con un ruggito da marketing nel comunicato di ieri Franceschini parla addirittura di «richiesta mondiale» e immagina sopra quell’arena-palcoscenico, quando sarà finita, «spettacoli di altissimo livello culturale». Il linguaggio, come si vede, ci porta già a Las Vegas.

Il Consiglio Superiore dei Beni Culturali, che ai tempi di Salvatore Settis fu il combattivo organo di controllo, una specie di assemblea di cani da guardia, oggi è una paludata consulta formata da otto presunti “supersaggi”’ e sette astuti funzionari, una sorta di cerchio magico del ministro presieduto dall’ archeologo Giulio Volpe, che di Franceschini è il piccolo Gianni Letta o ,se preferite la modernità, è il Luca Lotti, ma in cattedra. «A nome del Consiglio esprimo grande apprezzamento per la destinazione di queste risorse … e per l’ operazione fortemente innovativa», ha dichiarato ieri il professore Volpe lodandolo e lodandosi.

Il piano economico del ministro, che è nazionale, prevede 12 interventi per una spesa totale di 80 milioni. Ma l’intervento più “urgente” e costoso è la copertura dell’ arena del Colosseo, che non è un restauro ma un rifacimento, uno scenografare, il segno che Franceschini vuol lasciare a Roma, perché come dice il mitico Gracco nel Gladiatore di Ridley Scott «il cuore pulsante di Roma non è certo il marmo del Senato ma la sabbia del Colosseo».

Dunque Franceschini e i suoi professori prevedono che i primi due milioni e mezzo, quelli sottratti ai lavori finanziati dal mecenatismo di Della Valle, vengano impiegati «per le indagini conoscitive sullo stato idrogeologico e strutturale» perché, come gli fece notare la direttrice Rossella Rea, «sotto il Colosseo c’è l’acqua, il fosso di san Clemente: un fiume che ,quando piove, esonda, e in pochi minuti riempie tutto e dunque potrebbe far saltare l’eventuale nuova copertura dell’Arena come un tappo». Ecco perché ora il ministro ha stabilito, come primo intervento, «il risanamento idraulico e strutturale degli ambienti ipogei dell’anfiteatro ». Ma già «durante lo svolgimento di questi lavori conoscitivi e di risanamento sarà bandito un concorso internazionale per il progetto della nuova arena», gara di architetti per una struttura di materiali comunque pesanti di cemento sarebbe irreversibile - un ripristino creativo dell’antichità e del mito di Roma che nemmeno Mussolini aveva immaginato. E quanto costerebbe una struttura leggera e durissima, resistente al peso ma removibile? Esiste una struttura di questo genere? E questo Colosseo hi tech sarebbe un ritorno al passato o al futuro?

Nel Colosseo, che quest’anno sfonderà il record di 6 milioni di visitatori, con un ricavo di circa 50 milioni di euro, gli architetti si esibiranno in un accanimento progettuale, finanziato come urgente e necessario. Perché?

Il Colosseo è già il monumento più visitato e più lucroso d’Italia. Col bel restauro di Della Valle e con la cacciata dei puzzolenti carrettini di porchetta e i finti gladiatori con la scopa in testa, di urgente e necessario ci sarebbero i bagni per liberare i visitatori dall’incresciosa pratica di mingere ad murum . E forse urgenti e necessari sarebbero pure un elegante caffè ristoro e dei

book shop più dignitosi. Di sicuro sono urgenti e necessarie coscienza, responsabilità sindacale e punizioni severissime che impongano l’apertura anche durante le feste e le agitazioni di categoria. Scrisse Ermann Broch, che nulla sapeva di mafia-capitale e dell’attuale degrado: «Tutti i periodi storici in cui i valori subiscono un processo di disgregazione sono periodi di grande fioritura del kitsch. La fase terminale dell’Impero romano ha prodotto kitsch… Sempre il kitsch è destinato a imbellettare e falsificare le cose. Il kitsch è nevrosi da artista mancato».

Alcuni mesi fa, l’archeologo Daniele Manacorda, a cui si deva l’idea originale di «ricostruire il Colosseo così com’era », si spinse a ipotizzare sul rifacimento di quell’arena «ogni possibile evento della vita moderna, magari gare di lotta greco-romana, o una recita di poesie, o un volo di aquiloni». E James Pallotta, intervistato dalla Cnn , annunziò per l’inaugurazione «una partita della Roma contro il Bayern o il Barcellona: potremmo avere 300 milioni di persone che vogliono guardare da tutto il mondo il calcio nel Colosseo. Per loro faremo una pay-per-view: 25 dollari a testa ». Insomma l’arena, prima ancora d’essere finanziata e progettata, mostrò subito questa sua natura kitsch perché ,come ha spiegato Gillo Dorfles «il kitsch entra sempre in sintonia con il proprio tempo attraverso una forte empatia simbolica e culturale».

E infatti, come al solito, nell’Italia dei guelfi e ghibellini, archeologi e architetti si divisero in scuole ideologiche contrapposte, rifacitori contro restauratori, feticisti della pietra sacra contro fanatici dell’uso e del riuso, e l’Arena di Verona (abusata) venne contrapposta al Tempio di Selinunte (smozzicato e non toccato). Davvero sembrava di essere nell’Ottocento, da un lato il romanticismo conservativo di John Raskin e dall’altro il romanticismo creativo di Viollet-le-Duc, senza mai notare che nello stesso Colosseo convivono, ai due estremi del terzo anello, un muro di mattoni che “congela”’ le arcate, e all’opposto il rifacimento piramidale all’identique (sempre in mattoni) di Valadier. La direttrice Rossella Rea, che non ha paura del riuso e neppure della conservazione, mise in guardia il ministro: «Tutto si può fare, se ne vale la pena. Ma ne vale la pena? ».

Di sicuro sparisce dal piano di necessità e urgenza, che sono i requisiti previsti dall’articolo 7 della legge impropriamente chiamata Art Bonus, il completamento della Domus aurea, il cui parziale restauro sta già andando in malora. E sparisce tutto ciò che di urgente e necessario ci sarebbe da (ri)fare non solo a Roma dove le Mure Aureliane e gli scavi della Cripta Baldi sono ormai un’emergenza assoluta. Lo sono anche le Mura di Volterra. E la bellissima Caulonia che il mare si sta portando via. E le Basiliche precristiane di Cimitile. E il santuario di Ercole Curino. E il porto di Tarquinia. E Megara Hyblea. E le mura etrusche di Roselle. Ci sarebbero pure i sotterranei di Caracalla, il disastro idrogeologico di Ostia antica, i mille sbriciolamenti, Villa Adriana… Ma vuoi mettere Caulonia o Volterra con il Colosseo dove il Gladiatore di Ridley Scott Franceschini dice: «A un mio segnale, anzi a un mio tweet , scatenate l’inferno».

La Repubblica, 2 agosto 2015

Attenti, ci dicevano, dopo i colli la traccia si perde: sarà una fatica tremenda. Ma non potevamo rassegnarci all’idea che proprio l’Italia non avesse strade romane percorribili, fatte di pietra, sangue e sudore”

Quando, dopo il guado di un fiume, un roveto o un campo di grano, la via ridiventava visibile, ben allineata con la direttrice che avevamo perso chilometri prima in un intrico di sentieri, asfalto o canneti, e una ventina di satelliti sopra di noi confermavano quel fatidico allineamento sullo schermo del Gps, allora anche la parte svanita della strada si ricomponeva sulla mappa, evidenziando tracce giudicate di primo acchito trascurabili. Ma soprattutto qualcosa si rimetteva a posto anche dentro di noi, e una magnifica esultanza si diffondeva nel gruppo in cammino.

Non stavamo solo ripercorrendo l’Appia antica. La stavamo ritrovando. La riconsegnavamo al Paese dopo decenni di incuria e depredazione. Patrimonio non è merce in vendita, ornamento di sponsor, scusa per sdoganare cemento. Patrimonio è la terra dei padri. E noi questo cercavamo, non con la testa e forse nemmeno col cuore. Volevamo farlo coi piedi, che vivaddio non sono arti - parola orrenda - ma nobilissimi organi di senso. Erano quelli il sismografo, il metal detector, la bacchetta di rabdomante. Partiva così la nostra rivolta contro l’oblio. Essa aveva trovato un segno, un simbolo unico e forte in cui incarnarsi: la prima via di Roma, la madre dimenticata di tutte le strade europee.


Ricordo che dopo giorni di cammino, non avevamo più bisogno di trovare noiose conferme nel selciato romano o nei marciapiedi chiamati crepidini. Ci bastava la potenza della direzione.
Era come se la strada che dovevamo raccontare non fosse quella riducibile alla sequenza dei monumenti e nemmeno quella annotata in fretta nel taccuino, ma l’idea di strada, la linea in sé, il filo rosso dell’altimetria, latitudine e longitudine, la direttrice che tagliava l’Appennino e fuori dalla quale ci sentivamo subito inquieti. La traccia che le nostre suole indovinavano, pestando un passo doppio ogni centoquarantotto centimetri, un millesimo di miglio romano, allo stesso ritmo delle legioni. In molti avevano cercato di dissuaderci.

Attenti, dicevano, dopo i colli romani la traccia si perde. Troverete cemento e tangenziali, recinti privati e cani liberi. Sarà una fatica tremenda. Se proprio volete farvi una strada romana, andate sulla Claudia Augusta, dal Po al Danubio in Baviera, che è segnata a meraviglia. Ma noi non ci lasciavamo tentare. Non potevamo rassegnarci all’idea che proprio l’Italia non avesse strade romane percorribili. Ci mandava in bestia che proprio la “Regina Viarum” si perdesse nel nulla. Più cercavano di farci desistere, e più ci convincevamo che l’idea era buona.
Ma quelli non mollavano. Fate piuttosto il Cammino di Santiago, era il refrain, almeno troverete compagnia. Per noi era come una puntura di vespa. Ma come? Ci proponete una riserva indiana? A noi che si muore dalla voglia di attraversare il Paese fuori dai sentieri segnati? E poi, basta Santiago. Che noia. Possibile che non ci sia altro? Basta pellegrini, basta Francigene. Noi eravamo solo viandanti, e volevamo una strada laica, italiana e tutta nostra. Non una moda, un’invenzione del marketing, ma una direttrice indiscutibile e solitaria, scolpita nella pietra, fatta di sangue e sudore, percorsa da legionari e camionisti, apostoli e puttane, pecorai e carri armati, mercanti e carrettieri. Una linea che ci possedesse.

E difatti, ora che l’abbiamo battuta metro per metro, ora che tutto è finito, non riusciamo a togliercela di testa. Sogniamo pale eoliche, serpenti nel grano, tarantole e istrici, il trillo delle rondini a Venosa e il canto dei sanniti negli antri fra Volturno e Ofanto. «L’Appia è una droga pesante» ghignava appena ieri uno dei compagni di viaggio con gli occhi arrossati dal computer dopo giorni di “Google street view”, a rifare a volo d’uccello la strada battuta a quota zero. Settimane dopo, ogni passo torna con nitidezza. La partenza da Roma con l’acqua a secchi giù da porta San Sebastiano, l’antico che diventa villa privata, ornamento per feste di ricchi. La solitaria guerra di posizione della Soprintendenza, il fiato della Camorra sulla Capitale. E avanti, il taglio obliquo dei Colli Albani, la segnaletica che muore, lo scavalco di recinti abusivi, poi la fucilata di cinquanta chilometri fino a Terracina, il rettilineo più lungo d’Italia.

E ancora Formia, e Mondragone, e Santa Maria Capua Vetere, dove i comitati “Appia Antica” non servono a difendere la via, ma a difendersi dalla via. Posti dove Roma abita in ogni giardino, ogni cantina e sottoscala, e dove l’archeologo — come lo Stato e le leggi — è più temuto della peste. Poi, la via che si smaterializza, sorvola le montagne irpine riducendosi a concetto astratto, ipotesi o puro fattore euclideo, avanti per una campagna che si è mangiata quasi tutto e dove da secoli la parola “riuso” è il primo comandamento dell’edilizia. Pezzi di lastricato romano graziosamente disposti nel prato inglese di un giardino, capitelli incastrati nei muri, reperti medievali a segnare il confine tra poderi. Un saliscendi dove il tracciato s’immerge sempre più a lungo, solo per ritornare sporadicamente in superficie con gobba di capodoglio tra le convessità ondose dell’oceano.
Nelle plaghe africane dell’Apulia, ecco la nostra marcia procedere verso il solstizio in una luce vitrea e rovente, con la Via Regina che per lunghi tratti diventa fatamorgana, si fa sogno e mitologia e sete, si perde tra uliveti, campi di papaveri e aglio selvatico, ma egualmente non ci molla, ci segue come un fantasma meridiano, in una stupefacente metamorfosi che ce la restituisce con nomi sempre diversi — paracarro, rudere, campo di frumento, strada provinciale, fontana, metanodotto, solco di carri sulla roccia viva, tiglio solitario, muretto a secco, greto, tratturo, fermata d’autobus, passaggio a livello, pelle di serpente — solo per gettarsi nelle fauci infuocate del drago, l’altoforno dell’Ilva tarantina.

Immagini. L’albergatore di Albano Laziale che ci vede arrivare fradici e chiede: «Ma chi ve l’ha inflitta questa galera?». Le mani grandi degli agricoltori campani, piene di fave fresche in regalo ai viandanti «nel nome del Padreterno». Il mitico “vaffa” di un pullmino di operai verso Latina, invidia di pendolari condannati alla galera dell’asfalto. Una macchina a San Giorgio Ionico, in piena controra, che rallenta in una rotonda e ci allunga una bottiglia di acqua fresca come al Tour de France. La tarantella dei campanacci al collo delle vacche di Itri che ci tagliano la strada all’inizio della transumanza. Un pastore dalle parti di Melfi che segue il gregge con un’auto sgangherata e chiede: «Ma chi vi paga?». Il canto degli assetati verso l’Adriatico, «Voglio ‘o maaaare», cui segue il grido «Jateme ‘a bbirra», fino all’arrivo col sole allo zenit, Brindisi trentasette all’ombra, e il tuffo vestiti ai piedi della colonna terminale. La malinconia della fine, la barba d’un mese, il sacco sfatto, l’attesa della sera in uno svolio di rondoni, ebbri di negramaro e finocchietto
.
Era aprile, ricordo. L’idea era già chiara in mente, e anche Alex il regista era d’accordo. Non esiste, diceva, copione migliore di una strada. Ero d’accordo anche come giornalista. Se non sai cosa scrivere, mi aveva insegnato anni fa Egisto Corradi, cammina e qualcosa troverai. E siccome alla mia storia mancava un grande viaggio a piedi, l’Appia sembrava perfetta. Ma sapevo che da solo non ce l’avrei fatta. Quel viaggio era roba tosta, esigeva un navigatore capace di decrittare ogni traccia e isoipsa. Uno l’avevo già conosciuto, si chiamava Riccardo Carnovalini, un ligure col radar sotto i piedi, un domatore di rovi e torrenti, forse il massimo camminatore italiano. Gli telefonai, e quello disse subito sì, perché l’Appia - quel nome come un do di petto - ti conquista già col nome.

Una settimana dopo lo rividi per uno “studio di fattibilità” nella hall di un albergo davanti alla stazione di Bologna. Ci venne incontro con un sorriso mite ma pieno di orgoglio. «Io il viaggio l’ho già fatto», disse, ed estrasse dal tascapane una diavoleria simile a un citofono. Era il suo Gps. Spiegò che ci aveva pigiato dentro montagne di dati. Le carte antiche, la tracciatura dell’archeologo Lorenzo Quilici, le tavolette al 25 mila dell’Igm («La magnifica serie 25 V — disse — degli anni Cinquanta»), la viabilità attuale, le ortofoto satellitari del ministero dell’Ambiente, le notizie racimolate da un sito di esploratori del territorio chiamato “Open street map” e da www.straderomane. it. Accese lo schermo. «La strada è già tutta qui», fece indicando una linea rossa che tagliava strade, città, linee ferroviarie, elettrodotti, navigando imperterrita verso Est-Sud-Est.

Era lei, la fantastica diagonale d’Oriente, aperta ventiquattro secoli prima, che andava senza deflettere, incurante dei dislivelli con la ricerca maniacale del rettilineo tipica di quelle teste dure dei Romani. Era il sogno, o forse il delirio, di un cieco di nome Appio Claudio, l’uomo che a partire dal 312 avanti Cristo ne aveva tracciato la prima parte fino a Capua. In tutto, trecentosessanta miglia di ghiaia e possenti selciati, pari a cinquecentotrentatré chilometri, che però sarebbero diventati seicentoundici per noi, a causa dei numerosi ostacoli messi in mezzo dai tempi moderni. Capannoni, tangenziali, proprietà private. Riccardo aveva studiato tutto, anche le tappe, in base ai punti di sosta reperibili e ricalcando ove possibile le stazioni romane ( mansiones e stationes ).

Era fatta. Saremmo partiti in quattro, a piedi come immigrati. Quattro matti a piede libero, senza prenotazioni di alberghi e senza auto d’appoggio. Con noi anche Irene, veneta mezza austriaca, architetto con passione per l’ambiente, un tipo silenzioso capace di render lieve la trasferta alla più rissosa delle compagnie. A Bologna, le sessantanove carte che Alex aveva comprato all’Istituto geografico Militare di Firenze vennero aperte una per una, esplorate, annusate, numerate e ripiegate. Vecchie di sessant’anni, contenevano una pazzesca quantità di informazioni e toponimi utili alla traversata. Al loro confronto, le mappe contemporanee denunciavano tutta la banalizzazione dei territori e la distanza degli Italiani dal loro Paese.

Celebrammo con un aperitivo, poi venne la notizia a ciel sereno. Un pezzo dell’antica via Emilia era stato appena ritrovato in via Ugo Bassi, proprio lì a Bologna, e corremmo a vedere. Sopra il basolato ancora sporco di fango, tra le benne, un gruppetto di politici e pubblici amministratori si faceva immortalare da un fotografo. Pensammo fosse per sancire una restituzione. Invece no: serviva solo a tombare a cuore più leggero la via appena ritrovata. Non seguì alcuna polemica. Bologna aveva una sola paura: che l’antico non bloccasse l’asfalto. Ricoprire, ricoprire in fretta. Era quello l’imperativo. Era già successo a Reggio Emilia, ci dissero. Anche per la sinistra l’antichità era un intralcio. Il Nord era come il Sud. Eravamo davanti all’amnesia di una nazione.

Era esattamente ciò che non volevamo accadesse con l’Appia, e così, già prima di partire, giurammo che quella fatica non sarebbe rimasta senza esito. La nostra via era un giocattolo fantastico e bisognava a tutti i costi riaprirla ai viandanti. Lungo il cammino il proposito divenne ossessione: lasciare l’Appia in quello stato era un crimine. Per riattivarla bastava poco: un buon tagliaerba, qualche passerella, una segnaletica coerente e un coordinamento governativo che mettesse insieme i novanta comuni interessati. Era quanto bastava a far affluire centinaia se non migliaia di stranieri innamorati delle nostra storia. Il resto poteva arrivare anche dopo: ricupero come ospizi di caselli ferroviari e case cantoniere, monitoraggio, cartografia, restauro di cippi e monumenti, messa in sicurezza del basolato. L’importante era creare subito un flusso.

Non so dire cosa mi resti più impresso di questa avventura. Non so decidermi fra le facce e i paesaggi, le cose viste e quelle assaggiate o solo annusate. Di certo so che questo è stato il più terreno e insieme il più visionario dei miei viaggi. Il cibo mediterraneo ha fatto il suo, per impastare passato e presente. Melanzane fritte e Federico di Svevia. Aglianico e canti ebraici di Oria. Freselle al pomodoro condite con le Satire di Orazio Flacco. Vino flegreo e i canti tribali di Vinicio Capossela con la sua Banda della Posta. Lampascioni e Simon Pietro in viaggio verso Roma. Perché il viaggio, insegna Calvino, passa anche tra le labbra e l’esofago. E chi, viaggiando, non cambia dieta, non ha capito nulla.

(1 - continua)

CASTELLAMMARE DEL GOLFO. Un ombrellone a fiori, una sedia pieghevole in legno a uso e consumo di un addetto del Comune che disciplina la ressa dei bagnanti. E lì vicino un bagno chimico: l’unico a disposizione del pubblico nel raggio di diversi chilometri. Così, dall’alto, si presenta ai turisti la Tonnara di Scopello, un pezzo di storia della Sicilia a ridosso della Riserva dello Zingaro. Rifiuti ed escrementi fanno da cornice, nel parcheggio a monte come sui viali d’accesso, allo stabilimento che fu di proprietà della Compagnia di Gesù come della Famiglia Florio, di fronte ai faraglioni scelti dalla compagnia di bandiera canadese fra le quattro tappe obbligate di un immaginario giro del mondo.

E quelle immagini di incuria diventano un nuovo simbolo. Il simbolo di una battaglia che, chiunque sarà il vincitore, ha già mortificato quest’angolo di paradiso. La battaglia è quella fra i proprietari della Tonnara, una trentina di esponenti di note famiglie locali fra cui i Lanza di Scalea e i Foderà (con cui, nel secolo scorso, lavorò anche Santo Mattarella, nonno del Presidente della Repubblica), e il sindaco di Castellammare del Golfo Nicolò Coppola. Tutto ruota attorno a un’ordinanza, firmata da quest’ultimo il 9 luglio, che rende libero l’accesso al mare. «Perché il mare è di tutti», dice con sussulto democratico il sindaco. Ma i proprietari, che fino all’anno scorso facevano pagare un ticket di 3 euro per entrare, non ci stanno. E proprio ieri hanno inoltrato un ricorso al Tar. Oltre ad aver avviato una causa per risarcimento danni. In questa contesa le maggiori associazioni ambientaliste, fra cui Legambiente, si schierano a sorpresa con i privati, riuniti nella “Comunione della Tonnara di Scopello e Guzzo”. «La priorità va data alla salvaguardia di un bene monumentale unico. Bisogna preservarlo da un assalto scriteriato di bagnanti», dice Gianfranco Zanna, direttore regionale di Legambiente. Prima, quando si pagava c’erano i bagni anche vicino al mare, c’erano le sdraio monocolore e grandi “vele” sotto cui ristorarsi. Ora, la gente è ammassata sui teli, stretta alle pareti, nelle scarse zone d’ombra che quest’estate caldissima concede. Poi c’è la «sporcizia e il degrado» testimoniata dalle foto di Legambiente — bisogni fisiologici lasciati qua e là da turisti privati delle toilette — che hanno già fatto il giro del web. E attorno ai soci della “Comunione” si è consolidato un ampio fronte di intellettuali che hanno scritto a Corrado Augias: da Sheena Wagstaff e Leonard A.Lauder, responsabili della sezione di arte moderna e contemporanea del Metropolitan di New York a Giuseppe Cassini, già ambasciatore italiano in Libano. «Io non difendo i privati ma chiunque dimostri di saper conservare un luogo di pregio», dice Augias.

Il Comune, in realtà, sta cercando di disciplinare la fruizione del sito, consentendo duecento ingressi ogni due ore. Ma chi controlla? Quando, nell’assolata mattinata di Scopello, con il termometro a 38 gradi, un gruppo di bagnanti risale dalla baia, gli altri in fila per accedere applaudono stremati dall’attesa. «È giusto rispettare le regole e dare ad altri la possibilità di visitare un posto meraviglioso», dice Bruno Mongale, un turista romano in uscita. Che aggiunge: «Non so se tutti stanno venendo via allo scadere delle due ore. Che vuole, siamo italiani...». In ogni caso, 200 accessi ogni due ore, in un arco di 10 ore, fanno 1.000 accessi al giorno. Cifra che supererebbe, in proiezione, i 70mila ingressi dell’anno scorso, sotto la gestione privata. La Tonnara potrà reggere simile flusso?

Sarà un tribunale amministrativo a stabilire se la baia della Tonnara sia zona demaniale, e dunque a disposizione di tutti, o invece privata perché annessa a uno stabilimento di produzione. Intanto, come tante storie siciliane, non mancano sospetti e veleni. Il sindaco Coppola sbotta: «Immondizia? Fino alle 19 vigila il Comune. Poi non lo so. Non escludo che qualcuno, di notte, metta la spazzatura nei viali per creare il caso». È una battaglia anche politica: a festeggiare «la liberazione del mare », nei giorni scorsi, sono spuntati esponenti di Sel e 5stelle.

Ieri l’ultimo colpo di scena: il tribunale di Trapani ha accolto un reclamo di un gruppo di comproprietari e, ravvisando irregolarità fiscali, ha sospeso l’amministratore Leonardo Foderà e i consiglieri Vincenzo Vasile e Carlo Bargione. Nominando, al loro posto, tre amministratori giudiziari. «Visto? I proprietari della Tonnara non sono esattamente dei filantropi», dice il segretario regionale di Sel Massimo Fundarò. Ma la consigliera Maria Rosa Ruggieri parla di manovra: «Questa è un’ordinanza strumentale. Una parte della proprietà — dice la Ruggieri — si è già mesa d’accordo con il Comune. Gli amministratori giudiziari non difenderanno le nostre ragioni davanti al Tar e l’anno prossimo, vedrete, alla Tonnara sorgerà uno stabilimento balneare. In Sicilia prima si uccideva con le armi. Ora con questi metodi».

postilla


L'unica alternativa seria, se non fossimo in Italia, sarebbe quello della costituzione di una riserva accuratamente governata da una struttura pubblica altamente qualificata, attrezzata e motivata. Come sono ancor oggi alcune eroiche sovrintendenze ai beni culturali. Ma è noto che in Italia di di oggi questo è solo il sogno. Meglio allora che la conservazione vinca sulla demagogia. Qui l'appello che abbiamo pubblicato in eddyburg.

Una lettera al ministro della Cultura Franceschini: «Gesto diresponsabilità sul Giardino dei Giusti».Corriere dellaSera, 24 luglio 2015. In calce il testo integrale della lettera e il link all'appello su eddyburg

Il caso delGiardino dei Giusti al Monte Stella arriva sul tavolo del ministro dellaCultura, Dario Franceschini. È a lui che Giancarlo Consonni e Graziella Tonon,dell’Archivio Bottoni del Politecnico, indirizzano una lettera per chiedere un«gesto di responsabilità» in difesa della collinetta di San Siro, minacciata daun’operazione dell’associazione Gariwo (che ha ricevuto il via libera dalComune) che rischia di comprometterla «irreparabilmente», attraverso larealizzazioni di muri, totem e di un teatro per 340 posti. «Nella splendidaconcezione originaria del Giardino dei Giusti, al centro del messaggio c’eral’albero; il che — sostengono — ha fin qui assicurato la perfetta compatibilitàcon il parco urbano in cui è inserito», mentre il nuovo progetto cambierebbe«radicalmente la nozione stessa di “Giardino”». I firmatari, a nome di 260intellettuali e architetti e di oltre 2.500 cittadini che hanno aderito a variappelli, propongono invece che «ai Giusti venga dedicata l’intera Bibliotecadegli Alberi in progetto a Porta Nuova. Lì il Giardino sarebbe posto incontinuità con la Casa della Memoria e avrebbe tutto lo spazio e la visibilitàche si merita».

Riferimenti
Il testo della lettera, con le illustrazioni e le note, è scaricabile qui. Qui invece l'appello su eddyburg

Non si uccide così l'art. 9 della CostituzioneIl disegno di legge Madia sulla riorganizzazione dell'amministrazione statale prevede la confluenza delle Soprintendenze nelle Prefetture (ddl 1577/2015, art. 8 comma 1e). Si tratta del più grave attacco al sistema della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale mai perpetrato da un Governo della Repubblica italiana.
Anzi, l’attacco finale e definitivo.

Chiediamo al Presidente della Repubblica di vigilare su questa e ogni altra violazione dell'art. 9 della Costituzione; ai Presidenti del Senato e della Camera di garantire un'adeguata discussione parlamentare; al ministro Dario Franceschini, attuale titolare del Mibact, di opporsi con ogni mezzo a tale disegno politico.
O questo governo sarà per sempre ricordato come il becchino di una delle più gloriose strutture di civiltà e democrazia della cultura europea.

Roma-Bologna, 23 luglio 2015

Per aderire usare questo link

Alberto Asor Rosa
Paolo Baldeschi
Alessandro Bedini
Paolo Berdini
Irene Berlingò
Anna Maria Bianchi
Giovanna Borgese
Licia Borrelli Vlad
Massimo Bray
Francesco Caglioti
Mario Canti
Giuliana Cavalieri Manasse
Pier Luigi Cervellati
Giovannella Cresci
Nino Criscenti
Angelina De Laurenzi
Anna Donati
Dario Fo
Andrea Emiliani
Vittorio Emiliani
Fernando Ferrigno
Maria Teresa Filieri
Domenico Finiguerra
Fabio Isman
Donata Levi
Costanza Gialanella
Daniela Giampaola
Piero Gianfrotta
Carlo Ginzburg
Maria Pia Guermandi
Giovanni Losavio
Paolo Maddalena
Concetta Masseria
Maria Grazia Messina
Tomaso Montanari
Alessandro Nova
Rita Paris
Desideria Pasolini dall'Onda
Carlo Pavolini
Giovanni Pieraccini
Maria Luisa Polichetti
Luciana Prati
Adriano Prosperi
Valeria Sampaolo
Edoardo Salzano
Salvatore Settis
Sergio Staino
Corrado Stajano
Simonetta Stopponi
Roby Stuani
Mario Torelli
Bruno Toscano
Carlo Troilo
Sauro Turroni
Monique Veaute
Paola Ventura
Serena Vitri
Fausto Zevi

Sottoscrivono inoltre il Comitato per la Bellezza, l'Associazione Altreconomia e Laboratorio Carteinregola Roma

La Repubblica, 20 luglio 2015 (m.p.r.)

Il disegno di legge Madia sulla riorganizzazione dell’amministrazione dello Stato contiene un pericolo per la tutela del «paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione » (art. 9 Cost.) anche più grave del già grave silenzio-assenso. La legge decide (all’articolo 7) la trasformazione delle prefetture in «uffici territoriali dello Stato, quale punto di contatto unico tra amministrazione periferica dello Stato e cittadini» sotto la direzione del prefetto.

E quindi delega il governo a disporre la «confluenza nell’Ufficio territoriale dello Stato di tutti gli uffici periferici delle amministrazioni civili dello Stato». Tradotto in pratica, vuol dire che anche le soprintendenze confluiranno nelle prefetture, e che i soprintendenti saranno sottoposti ai prefetti, gerarchicamente superiori. Di fronte alla levata di scudi delle associazioni di tutela e dei sindacati, la Camera ha approvato un ordine del giorno che «impegna il Governo a prevedere che le funzioni dirette di tutela, conservazione, valorizzazione e fruizione dei beni culturali rimangano di competenza esclusiva ed autonoma dell’amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali». E dunque cosa scriverà il Governo? Avremo la paradossale situazione di soprintendenze che confluiranno nelle prefetture (emendamenti ed ordini del giorno tesi ad impedirlo sono stati rigettati), ma conservando una competenza autonoma ed esclusiva?
Questa contraddizione è il frutto di uno scontro ideologico che meriterebbe di emergere alla luce del sole. La ratio del ddl Madia è ufficialmente quella di semplificare e accelerare le decisioni (per esempio sulle opere pubbliche) abbassando al livello territoriale delle prefetture la possibilità del governo (ora riservata alla Presidenza del Consiglio) di passare sopra i ‘no’ delle soprintendenze. Una simile svolta significa far saltare un altro contrappeso costituzionale al potere esecutivo, e dunque va letta nel quadro di quell’efficientismo che ispira il governo Renzi. Ora, il punto è: siamo disposti a sacrificare sull’altare dell’efficienza un bene insostituibile come la tutela del nostro territorio?
Nell’immaginario collettivo (anche per loro colpa) i soprintendenti sono percepiti come coloro che si occupano dei musei e delle mostre, o al massimo come coloro che rompono le scatole a chi decida di aprire una finestra sul tetto. Ma questa sorta di magistratura del paesaggio e del patrimonio culturale – che dovrebbe rispondere non al potere esecutivo, ma solo alla legge, alla scienza e alla coscienza – è il presidio fondamentale di beni che, come dice un proverbio dei nativi americani, non abbiamo ereditato dai nostri nonni, ma abbiamo in prestito dai nostri nipoti. E quel che c’è in gioco non è (solo) l’estetica delle città, delle coste o delle colline italiane: ma la tutela della stessa salute umana, così strettamente connessa alla salvaguardia del territorio.
Le soprintendenze non funzionano? Si finanzino adeguatamente (rimediando finalmente al gigantesco taglio inflitto da Berlusconi, Tremonti e Bondi nel 2008). I soprintendenti non funzionano? Li si rimuova, con decisione e trasparenza. Ma con la confluenza nelle prefetture non si risolverà nessun problema, e di fatto le soprintendenze semplicemente spariranno: il che rende legittimi i dubbi di chi pensa che il problema non sia l’inefficienza delle soprintendenze, ma anzi la residuale, e spesso eroica, forza con la quale, nonostante tutto, si oppongono alle speculazioni che continuano ad affogarci nel cemento.

La Repubblica, 19 luglio 2015
Che cosa ne direste se all’interno di Villa Borghese, a Roma; del Parco Sempione, a Milano; o di qualsiasi altra villa o parco di una qualsiasi altra città, fosse autorizzata l’apertura della caccia oppure la costruzione di un traforo o di un tunnel ferroviario? Non è poi un’ipotesi tanto peregrina. E anzi, secondo gli ambientalisti, riguarda proprio il Parco nazionale dello Stelvio e potrebbe coinvolgere anche gli altri quattro Parchi “storici”: quello del Gran Paradiso, quello del Circeo, fino a quelli della Sila e dell’Aspromonte.

Con una lettera urgente inviata in queste ore al ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, la presidente del Wwf Italia Donatella Bianchi e il presidente di Federparchi Giampiero Sammuri lanciano l’allarme sullo Stelvio, richiamando il governo a rispettare la Costituzione e la legislazione vigente in materia. La denuncia parte dalla lettura dell’Intesa siglata tra lo Stato, la Regione Lombardia e le Province autonome di Trento e Bolzano. A studiare bene quel testo, e comparandolo con la legge quadro sulle aree protette (6 dicembre 1991 - n. 394), i dirigenti del Wwf e della Federparchi si sono accorti ora che – in forza di un accordo tra forze politiche nazionali e locali – si prevede di fatto la “de-nazionalizzazione” del Parco dello Stelvio: cioè un “trasferimento tout court delle competenze statali prima alle Province autonome di Trento e Bolzano e poi alla Regione Lombardia”.

Si tratterebbe, insomma, della dismissione progressiva e automatica di quello che è dal 1935 il Parco nazionale dello Stelvio, arrivato proprio quest’anno a compiere 80 anni, uno dei più antichi d’Europa e dei più estesi di tutto l’arco alpino. Un un patrimonio collettivo, destinato finora a tutelare le specie animali e vegetali, a proteggere gli habitat, a difendere la biodiversità. Qui, su una superficie di oltre 130mila ettari, sopravvivono il camoscio, lo stambecco, l’aquila, l’orso bruno, il gipeto, il gallo cedrone, la pernice bianca.

È vero che spesso gli ambientalisti peccano di allarmismo, pagandone a volte le conseguenze in termini di credibilità e di efficacia. Ma in questo caso il Wwf e Federparchi documentano la loro denuncia con una serie di elementi tratti dal confronto testuale fra l’Intesa, il Regolamento dello Stelvio e la legge quadro sulle aree protette. E su questa base, appunto, contestano lo smembramento del Parco e la sua spartizione, quasi fosse un’Asl o un’azienda municipalizzata, fra tre enti distinti: la Regione Lombardia e le due Province autonome che dovrebbero essere coordinate da un fantomatico Comitato, secondo il principio “ciascuno padrone a casa propria” che rischia di risultare quantomai nefasto.

Scrivono al primo punto della loro lettera Donatella Bianchi e Giampiero Sammuri al ministro dell’Ambiente: “Non esiste di fatto una gestione autonoma, affidata a un ente, a un centro di imputazione giuridica soggettiva con personalità di diritto pubblico, né tantomeno una governance unitaria esercitata dal Comitato di coordinamento”. Secondo punto: “Nel Comitato di coordinamento c’è l’assoluta prevalenza degli interessi locali e regionali su quelli nazionali”. E infine: “Non c’è alcuna dipendenza funzionale dal ministero dell’Ambiente che non ha alcun potere di vigilanza sul Comitato”.

Non è, dunque, una questione puramente burocratica o di lana caprina. Tanto più che, secondo il Wwf e Federparchi, “l’accordo politico sullo Stelvio costituisce un gravissimo precedente per altri parchi nazionali storici, come quello del Gran Paradiso, il cui territorio insiste in larga parte in una Regione a statuto speciale”. Da qui, una conclusione che equivale a un ultimatum: “Riteniamo che il ministero dell’Ambiente si trovi di fronte a una scelta inequivocabile: o si torna all’assetto normativo precedente o in alcun modo, purtroppo, il Parco dello Stelvio potrà essere classificato come Parco nazionale”. Di conseguenza, cesserebbero i finanziamenti attuali (circa 4,5 milioni all’anno di trasferimenti dallo Stato). A quel punto, per fare cassa, si potrà anche riaprire la caccia che è vietata nei Parchi nazionali, come ipotizza già l’assessore regionale alto-atesino Richard Theiner. Oppure, realizzare un tunnel o un traforo per collegare l’Alto Adige e la Lombardia e far passare magari il “trenino dello Stelvio”, di cui parla la Comunità montana Alta Valtellina. Poi, via via, toccherà eventualmente agli altri 19 Parchi distribuiti sul territorio a salvaguardia della natura e dell’ambiente.

L’offensiva era già iniziata nel 2012. Ma tre anni fa - per nostra fortuna – l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, non firmò il decreto che avrebbe sancito la spartizione dello Stelvio. C’è da augurarsi perciò che, anche questa volta, la storia si ripeta.

COMUNICATO

Italia Nostra Sicilia
Caltanissetta, 8 luglio 2015

Con 51 voti a favore e nessun voto contrario, l’Assemblea Regionale Siciliana ha approvato ieri, martedì 7 luglio 2015, il nefasto disegno di legge sui centri storici. “Il voto conferma la validità del lavoro portato avanti prima in commissione poi in Aula”, commenta Anthony Barbagallo, deputato del Pd. “E’ stato un lavoro di squadra che ha coinvolto ordini professionali, università e rappresentanti degli enti locali. Quella che abbiamo appena approvato – conclude Barbagallo – è una legge che restituisce vita ai centri storici aprendo la strada ad una fruizione intelligente e agevole, basti pensare alla prevista possibilità di prevedere all’interno del centro storici interventi di edilizia economica e popolare per le giovani coppie”.

Cosa possiamo dire noi di Italia Nostra, dopo quello che abbiamo già detto, affermato nei giorni e nei mesi scorsi? La Regione Siciliana ha approvato un disegno di legge che favorisce la distruzione dei centri storici dell'’Isola. Di questo ddl Pier Luigi Cervellati ha scritto: “«Questa legge annienta le città storiche della Sicilia e ci farà apparire tutti come seguaci dell’Isis”». Insomma: come il crollo di Agrigento e il “sacco” di Palermo furono il nefasto “esperimento” di una politica urbanistica e territoriale che intaccò quasi subito le altre Regioni, così questa legge – anticostituzionale, fuorilegge rispetto al decreto legislativo 42/2004 – può pericolosamente diventare riferimento politico-amministrativo per altre regioni e città metropolitane del nostro Paese.

Di certo in Sicilia le contraddizioni tra proclamate politiche di tutela e valorizzazione dei territori, del patrimonio storico, artistico e paesaggistico da un lato, e realtà dei fatti, degli atti politici e amministrativi dall’'altro, sono sempre più insostenibili. Insopportabili. Tragica, evidente è l’'inadeguatezza culturale e politica di una classe dirigente incapace di governare la Sicilia contemporanea. Incapace di governare la complessità. Che dire, poi, riguardo agli attuali deputati dell’'Assemblea Regionale Siciliana? In un modo o nell’'altro, essi devono giustificare la loro presenza, la loro azione a Palazzo dei Normanni (Palazzo Reale), sede dell'’Ars. Di certo essi devono contenere, in un modo o nell’'altro, la gravissima crisi politica e istituzionale che sta attraversando i palazzi del governo e del parlamento siciliano.

Di certo noi di Italia Nostra continueremo la nostra battaglia a difesa dei valori del territorio, del paesaggio, dei patrimonio storico-artistico. A difesa dei centri storici. Nell'’interesse dei cittadini e dell’'Isola più bella e importante del Mediterraneo.

Leandro Janni è– Presidente regionale di Italia Nostra Sicilia

© 2024 Eddyburg