Dov’è finito il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini? Dov’è finito il suo Ministero e con esso le Soprintendenze? Nelle cronache televisive del sisma fra Umbria e Lazio non sono praticamente mai apparsi. La scena se l’è presa tutta Matteo Renzi, accompagnato dai tecnici della Protezione Civile e da Renzo Piano. Come se la prese all’Aquila, tutta quanta, Berlusconi col fido Bertolaso. Ricordo dei più sinistri, visto che la ricostruzione aquilana è una delle meno riuscite, delle più sbagliate, delle più tardive. Anche lì Soprintendenze emarginate, quasi nascoste. Ma non come oggi.
PatrimonioSOS online, 29 ottobre 2016
Patrizia Asproni, nella veste di presidente di Confculture (Confindustria), sintetizzò qualche anno fa al Teatro Argentina una sorta di personale manifesto culturale: "Stesse in me, cancellerei subito il Ministero per i Beni Culturali e affiderei tutto al Ministero dell'Economia e Sviluppo". Una profetessa, una anticipatrice della turbo-cultura renziana. In quella direzione infatti va, in pieno caos operativo, il MiBACT renziano: la tutela e le Soprintendenze finiranno - secondo la legge Madia - sotto i prefetti (già nel sisma di Amatrice le stesse non sono state mai nominate né tantomeno viste) e la valorizzazione turistico-commerciale potrebbe benissimo diventare una branca di Economia e Sviluppo.
La stessa manager ha dato qualche giorno fa con gran clamore di stampa le dimissioni dalla carica di Torino Musei (e Mostre) accusando la sindaca 5 Stelle Chiara Appendino di non averla mai ascoltata e di averla in sostanza costretta al grave passo impedendole, di fatto, di organizzare la Mostra già programmata su Edouard Manet. Mostra che sarebbe stata catalogata dalla sindaca fra quelle "blockbuster", sorta di pacchetti turistici che girano il mondo costando molto e lasciando dietro di sé assai poco, ma che ormai imperversano nell'inesausto e onnivoro "mostrificio" nazionale. A tutto danno di autentiche e sempre più rare mostre "di ricerca" le quali richiedono ovviamente anni di studio e di preparazione.
Uno scontro fra turbo-cultura in salsa renziana (Asproni) e cultura-cultura (Appendino)? Come è già avvenuto per il Salone del Libro, Milano si è subito presentata sulla piazza torinese pronta a rilevare senza problemi l'organizzazione dell'evento culturale. E' in atto una sorta di assedio della Giunta Cinque Stelle di Torino per indebolire la sua presenza in campo culturale a livello nazionale? Qualcuno già lo dice apertamente.
Alla Asproni, manager toscana, molto grintosa, chiamata dal sindaco Piero Fassino (decisamente incline a privatizzare le gestioni museali), Chiara Appendino, dai banchi dell'opposizione, non aveva certo riservato carezze. Anzi aveva più volte attaccato quella politica troppo privatistica, troppo incline ad un costoso e superfluo "mostrificio". Dal canto suo, l'attuale assessore alla Cultura del Comune di Torino, Francesca Leon, non è una dilettante in materia, a Torino ha ideato e dirige la Carta Musei imitata in altre città. Figlia del brillante economista keynesiano Paolo Leon, uno dei più attivi nel non facile campo dei beni culturali, morto purtroppo pochi mesi fa, è una solida professionista del ramo, sa quello che fa. Sarà interessante seguire gli sviluppi torinesi che sono peraltro anche un termometro italiano.
Huffington Post online, 29 ottobre 2016
Come è ben noto, l'entità delle conseguenze delle calamità naturali sul patrimonio culturale è determinata da cause artificiali, cioè dalla qualità e dalla rapidità degli interventi del dopo-disastro: prima si interviene, più si salva; e più si mette in sicurezza, meno si perde in caso di nuove scosse.
Ieri ho ricordato queste banali verità, chiedendomi cosa sarebbe successo se l'abbazia di Sant'Eutizio o la chiesa di San Salvatore a Campi (e moltissimi altri monumenti) fossero stati puntellati e messi in sicurezza dopo il sisma di agosto.
Quando un giornalista glielo ha riferito, Franceschini - che, incredibilmente, non era sui luoghi colpiti, ma in quella discutibile fiera che è la Borsa del turismo archeologico - ha «sbottato». E vale la pena di leggere la lunare cronaca di Silvia Lambertucci (Ansa):
«"Bellissimo", commenta poi entusiasta, incontrando qualcuno dei tanti soprintendenti e direttori dei musei che stanno partecipando ai lavori della manifestazione campana. "La Borsa del turismo archeologico si sta dimostrando in crescita in questi anni, è una manifestazione su cui investire", aggiunge visitando lo stand del Mibact. Lavorare per far crescere il turismo del Mezzogiorno è importante, sottolinea il ministro. E Paestum, che ora godrà anche di più collegamenti ferroviari, è sulla strada giusta. I cronisti però lo sollecitano a tornare sul dramma del terremoto e sulle polemiche. Franceschini allarga le braccia: "E' stato fatto un lavoro molto scrupoloso, fin dal mattino dopo, il 24 agosto e anche ora. Ma la vastità dei danni comporta che si debbano seguire delle priorità. Sono migliaia le chiese colpite da sisma, penso che proprio su questo fare delle polemiche sia sbagliato"».
Un ministro estasiato di fronte agli stands, mentre sono i giornalisti ad incalzarlo su quello che sarebbe il primo e più alto dei suoi doveri: garantire la tutela del patrimonio culturale della nazione. Da tempo, ormai, al Mibact si dice che a Franceschini dei Beni Culturali importi assai poco: tutto preso com'è dalle trame politiche del dopo referendum. D'altro canto a Firenze si sussurra insistentemente che il sindaco Dario Nardella, in caso di vittoria del Sì, prenderà proprio il posto di Franceschini, destinato agli Esteri. Benissimo: giocate pure al risiko delle poltrone, ma ora il terremoto ci richiama brutalmente alla realtà.
E allora Franceschini deve al Paese una risposta che chiarisca la sua affrettata risposta: per mancanza di fondi non ha potuto mettere in sicurezza tutto il patrimonio colpito ad agosto? È davvero così? Può spiegarci quali priorità ha seguito? E, soprattutto, perché non ha preteso e ottenuto fondi dal Presidente del Consiglio? Perché non ha sbattuto il pugno sul tavolo? Perché non si è dimesso? Ciascuna di queste azioni avrebbe potuto forse salvare i monumenti che oggi giacciono a terra.
Ci sarà tempo e modo di discutere a fondo tutto questo. Ma ora è il momento di agire. Oggi «Repubblica» contiene una straziante lettera di Alessandro Delpriori, sindaco di Matelia ma anche giovane e brillante storico dell'arte. Alcuni passaggi di questa lettera esigono una risposta immediata da parte di Franceschini: «C'è però una ferita che fa male. Sono anche uno storico dell'arte che da anni si occupa dell'arte tra Umbria e Marche. Dopo le prime scosse di Amatrice e Arquata ci siamo subito accorti che la situazione per il patrimonio storico artistico era molto difficile, nella zona tra Fabriano e Ascoli Piceno erano centinaia le chiese inagibili, migliaia le opere d'arte in pericolo. Di fronte a tutto questo le soprintendenze erano in stallo totale, non per cattiva volontà dei funzionari sul territorio che invece sono sensibili e molto attivi, ma nella sostanza non si è fatto nulla».
Ecco il frutto avvelenato dello smantellamento delle soprintendenze voluto da Renzi («soprintendente è la parola più brutta del vocabolario della burocrazia», ha scritto) e attuato da Franceschini, che ha investito tutto sulla (pessima, peraltro) riforma commerciale dei supermusei. Il cuore dell'Italia è ora abbandonato a se stesso: il solo funzionario storico dell'arte dei territori colpiti non può certo fare tutto da solo. E, infatti, i mucchi di macerie degli ultimi giorni (mucchi in cui sono mescolati frammenti di affreschi, quadri, sculture) aspettano ancora di essere toccati. Il sindaco denuncia: «questo terremoto e l'immobilità stanno vanificando tutto».
Il terremoto è una calamità naturale, ma l'immobilità del Ministero dei Beni culturali e del suo titolare sono una calamità politica. Che l'Italia non merita.
«Festa della neolingua. A Firenze, Petrarca e Boccaccio vanno sulla Maserati di Marchionne, campione dell’italianità con la residenza in Svizzera. La cultura messa al servizio del Mercato». il manifesto, 22 ottobre 2016 (c.m.c.)
«Proporre la qualità Italia è la sfida di fronte a noi: proporre l’umanesimo che deriva dalla nostra cultura, dal modo di vivere, di lavorare». Così Sergio Mattarella, pochi giorni fa a Firenze. Ma il Capo dello Stato si rivolgeva ai cittadini o agli investitori; parlava di cultura, identità, comunità o di mercato, marchio, prodotto?
L’esame del contesto moltiplica l’ambiguità: si trattava di un’occasione apparentemente culturale (la pretenziosa etichetta recitava: «Stati generali della lingua italiana»), ma ad organizzarla non era il ministero dell’Istruzione o quello dei Beni culturali, bensì la Direzione Generale Promozione Sistema Paese (a proposito di italiano!) del ministero degli Esteri.
Più chiaro, come sempre, il presidente del Consiglio Matteo Renzi, quando aprendo i lavori aveva parlato della necessità «di una gigantesca scommessa culturale sul made in Italy, se vogliamo che l’italiano sia studiato»: una prospettiva davvero incoraggiante, non da ultimo per quell’uso tragicomico dell’inglese.
Ma a togliere ogni dubbio era l’apparato non verbale della manifestazione, in Palazzo Vecchio.
Nell’adiacente piazzale degli Uffizi erano infatti esposte due scintillanti auto di lusso: all’incredulità e all’indignazione dei passanti, esterrefatti dalla riduzione a show room dello spazio pubblico monumentale, l’ineffabile assessore (all’Istruzione!) Cristina Giachi replicava che «allo sponsor qualcosa si deve pur concedere». Già, perché un evento cui intervenivano il Capo dello Stato, il presidente del Consiglio e vari ministri aveva in effetti uno sponsor ufficiale: la Maserati.
Non so quanti precedenti abbia una simile scelta, che riduce i vertici della Repubblica a testimonial di un marchio commerciale.
Particolare grottesco, le due auto erano collocate in corrispondenza delle statue di due padri della lingua italiana (cito dal sito della casa automobilistica): «La Maserati Quattroporte esposta a Firenze da questa mattina è di colore bianco ed è situata esattamente sotto la statua di Francesco Petrarca, mentre Alfa Romeo Giulia Quadrifoglio con motore 2.9 litri V6 da 510 cavalli di colore rosso si trova sotto la statua di Giovanni Boccaccio. Questa iniziativa rappresenta uno dei numerosi modi trovati negli ultimi tempi dal gruppo italo americano del numero uno Sergio Marchionne per promuovere la propria gamma di prodotti».
Affidare la bandiera dell’italianità ad un gruppo il cui quartier generale e il cui domicilio fiscale hanno lasciato il Paese e il cui amministratore delegato risiede in Svizzera è esattamente come esporre la strategia di difesa della lingua italiana usando l’espressione inglese «made in Italy»: una ipocrisia grottesca che comunica esattamente il contrario di quanto afferma.
Decisamente più sincera la ministra Giannini. Ad un giornalista che le chiedeva (mesi fa) quale fosse il principale problema della scuola italiana, rispondeva candidamente che «l’Italia paga un’impostazione eccessivamente teorica del sistema d’istruzione, legata alle nostre radici classiche. Sapere non significa necessariamente saper fare. Per formare persone altamente qualificate come il mercato richiede è necessario imprimere un’impronta più pratica all’istruzione italiana». Sono parole perfettamente assonanti a quelle dell’introduzione alla riforma su cui voteremo il 4 dicembre: si cambia la Costituzione «per affrontare su solide basi le nuove sfide della competizione globale».
La lingua italiana serve al mercato, la scuola serve al mercato, la Costituzione serve al mercato, i vertici della Repubblica servono al mercato: le berline di lusso sotto le statue di Petrarca e Boccaccio agli Uffizi sono il simbolo più eloquente di questa incondiziata servitù.
Abituarsi a leggere, a decostruire, a interpretare questo codice simbolico di potere e supremazia significa – per usare le parole di Marc Bloch – preparare «un antidoto alle tossine della propaganda e della menzogna».
Un simile antidoto può giovarci quotidianamente, come può chiarire un esempio preso dall’attualità più stretta. La trasmissione della serie su “The Young Pope” di Paolo Sorrentino aprirà, inevitabilmente, dibattiti e riflessioni sulle reazioni vaticane: ma l’unica reazione incontrovertibile del Vaticano è da qualche giorno sotto gli occhi di tutti, nel centro di Roma.
Qua il bramantesco Palazzo della Cancelleria è coperto da giganteschi cartelloni pubblicitari della serie, con un Jude Law in abiti papali alto venti metri: ebbene, quel palazzo non è solo un apice del Rinascimento, ma è anche una proprietà extraterritoriale del Vaticano. Così il pensiero unico del marketing impone la sua pace in nome dell’unico dio, il Mercato.
Chi dissente non è nemmeno sentito come un nemico, ma come un eccentrico, quasi un demente: un’ondata di gelida incomprensione ha investito la vedova di Lucio Battisti che si oppone al fatto che le canzoni del marito possano essere usate in spot commerciali. Chi l’avrebbe mai detto che “Il mio canto libero” sarebbe diventato l’inno dell’ultima resistenza al dominio del marketing?
Il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2016 (p.d.)
Quello di Italia Nostra è un viaggio alla scoperta di sfregi al bello. Un altro esempio è nel parco di Villa Ada a Roma: le Scuderie Reali in completo stato di abbandono. C’era un piano di restauro con aree per eventi, bar e ristoranti ma la giunta Alemanno considerò il costo eccessivo e chiuse tutto in cassetti che nessuno ha più riaperto.
Proseguiamo questo particolare giro d’Italia in Sardegna: Sinis Cabras, provincia di Oristano, lungo la costa sorgono torri difensive dal grande valore storico-architettonico, come la Torre di Columbargia (fine 1500) e la Torre di Ischia Ruja (1580). Purtroppo rischiano di crollare da un momento all’altro: interventi di consolidamento sono urgentissimi.
Ritorniamo nel Lazio, alla scoperta di un luogo, il Borgo di Fogliano, in provincia di Latina, dove sono stati girati i film della saga di Sandokan. È un antico villaggio di pescatori, con ritrovamenti archeologici risalenti al II sec. a.C., ma “purtroppo l’imponente giardino è in totale stato di degrado e oggi non è neppure chiaro quale ente debba emanare un bando per la gestione del Borgo”, denuncia ancora Italia Nostra.
Le cose non vanno meglio in Veneto: “L’Arsenale di Venezia ha anticipato di alcuni secoli il moderno concetto di fabbrica”. Costruito nel XII secolo è adesso minacciato dal Mose, la mega opera che dovrebbe difendere la Laguna dall’acqua alta. “È confermata – spiega Parini – la manutenzione delle paratoie del Mose dentro l’Arsenale: questo significa costruire capannoni industriali e un mega depuratore (perché le paratoie sono molto inquinate) e costruire i capannoni stessi in Arsenale nord, a ridosso dei tre Bacini di Carneggio storici in pietra d’Istria, che non hanno eguali in tutto il Mediterraneo e sono perfettamente funzionanti. Così i bacini non potranno esser più utilizzati e l’Arsenale, dopo secoli di attività, cesserà le sue funzioni e sarà deturpato come già avvenuto all’esterno con le orribili mega banchine in cemento armato con guardrail. Abbiamo individuato un’area di rimessa a Marghera per costruire questi capannoni, spero che vorranno ascoltarci”.
Sempre in Veneto a rischio anche il Forte Sant’Andrea (Venezia, XVI secolo) e la dimora estiva della regina Margherita di Savoia, Villa Tonello (Recoaro Terme, XIX secolo). Il tragico elenco continua in Puglia con il Castello di Villanova (Ostuni, XIV secolo), completamente dimenticato: non è accessibile al pubblico. E la “lista rossa”, purtroppo, non finisce qui.
SOS Cultura online, 29 settembre 2016
I 31 senatori che hanno firmato l’interrogazione sono prevalentemente del M5s, ma vi sono anche Puppato, Casson e altri del Pd, De Petris di Sel, Tremonti, Malan. A sua volta il senatore del Pd, Walter Tocci, ha presentato analoga, polemica interrogazione. Insomma, un autentico “caso” politico. Gli interroganti sottolineano che l’attuale dirigenza Rai ha già soppresso “Scalamercalli” (Rai 3) di Luca Mercalli, malgrado i “lusinghieri risultati di audience”, un milione di spettatori. Eppure “la sensibilità verso le tematiche ambientali sta emergendo fortemente nell’opinione pubblica e nella politica”, confermata dalle ricerche più recenti di Ilvo Diamanti. Papa Francesco vi ha dedicato una enciclica di eco planetaria. Ben 170 Paesi hanno sottoscritto l’accordo sul clima. E la Rai invece riduce sempre più gli spazi in palinsesto dedicati all’ambiente, al paesaggio, ai beni culturali o ne parla soltanto in termini di spettacolo, di evasione. Pertanto i senatori chiedono di sapere “le ragioni che avrebbero determinato la cancellazione” di Ambiente Italia e la dispersione di una redazione altamente specializzata e di riconsiderare questa decisione, anche in considerazione del rinnovo del contratto di servizio fra la Rai e ll Stato. Già quello del 2012 prevedeva che la Rai garantisse “la comunicazione sociale attraverso trasmissioni dedicate all’ambiente, alla salute, alla qualità della vita (…) assegnando spazi adeguati alle associazioni rappresentative del settore”. E’ avvenuto l’esatto contrario. Ma cosa ha fatto o fa la commissione parlamentare di indirizzo e di vigilanza sulla Rai?
Una dura interrogazione era stata già rivolta alla Rai – tramite la Vigilanza – dal segretario della commissione on. Michele Anzaldi e da altri deputati Pd – ricevendone la risposta che “Ambiente Italia”. ridotta a pochi minuti nel Tg Leonardo, viene così potenziata, dando “nuova carica e nuova linfa all’intera cultura ecologista” (sic). Risposta che l’interrogante giudica “evasiva e arrogante”. Si è mosso lo stesso presidente della commissione Ambiente, Territorio, Lavori Pubblici della Camera, on. Ermete Realacci con una interrogazione “pesante” in cui definisce l’ormai soppressa “Ambiente Italia” «un punto di riferimento per l’informazione ambientale, oltre che un valido supporto in sostegno dell’impegno del terzo settore, della cittadinanza attiva, delle associazioni». E prosegue: «Si tratta di argomenti importanti per la qualità dell’informazione che il servizio pubblico offre al Paese, pressoché ignorati anche dai talk show politici della RAI. Stessa sorte ha subito anche ‘Scala Mercalli’, altro programma di approfondimento a carattere ambientale su Rai3» Realacci desidera «sapere quali ragioni motivino tali decisioni e quali nuovi spazi informativi il servizio pubblico nazionale intenda dare a temi chiave per il futuro del Paese a cominciare dal cambiamento climatico, anche in vista della prossima COP22 che si terrà a Marrakech». La Rai risponderà pure a lui, alla sua denuncia a tutto campo (talk show inclusi) che sta in realtà dando “nuova carica e linfa all’intera cultura ecologista”. Non a caso queste cancellazioni coincidono con il sostanziale “oscuramento” del lavoro delle Soprintendenze nelle aree terremotate e con la miracolosa “resurrezione” del Ponte sullo Stretto sepolto da un voto parlamentare (al quale aderì persino Forza Italia) dal governo Monti tre anni or sono.
La Repubblica online, blog "articolo 9"
«“Le relazioni culturali sono da sempre un pilastro del rapporto bilaterale tra l'Italia e la Russia che hanno permesso, anche nei periodi di maggiore difficoltà a livello internazionale, di mantenere un dialogo intenso tra i due Paesi e tra i due popoli” –, ha poi aggiunto l'ambasciatore, ringraziando il Museo Pushkin per “il suo interesse a portare a Mosca nei prossimi mesi e anni nuovi capolavori italiani”, da Michelangelo, a Dante e ai Caravaggiti, per citarne alcuni».
È vero, per secoli l’arte figurativa è stata un’importante leva diplomatica. Ma questo avveniva perché i principi, o i loro ministri, erano personalmente appassionati d’arte: un modello che non ha più alcun senso con l’avvento delle democrazie moderne, e con la nascita della storia dell’arte come disciplina scientifica. E infatti l’ultima fase, drammatica e farsesca, della diplomazia dell’arte ha coinciso con le grandi dittature: Mussolini ha usato con particolare intensità un patrimonio artistico che personalmente non conosceva, o che addirittura disprezzava.
Oggi, l’unica possibile diplomazia dell’arte è quella non governativa: quella della comunità internazionale della conoscenza, che fa ricerca e divulgazione secondo i propri tempi e i propri percorsi, senza ridurre le opere d’arte a prigionieri che seguano in catene gli effimeri trionfi internazionali dei capi di governo pro tempore. Quando gli Uffizi furono costretti a prestare una delicatissima Annunciazione di Botticelli al Museo di Gerusalemme per festeggiare i 65 anni dello Stato ebraico, io e il mio collega israeliano Sefy Hendler scrivemmo al Corriere della sera: «Crediamo profondamente nell'amicizia tra Italia e Israele, e nel ruolo che la cultura può e deve avere nel rafforzarla: il nostro stesso, continuo scambio scientifico è un minuscolo tassello di quell'amicizia. Ma siamo convinti che le relazioni culturali tra i popoli non possano essere rafforzati da scambi di singole opere 'feticcio' decise dalle diplomazie senza nessun coinvolgimento delle comunità scientifica, e anzi imponendo al museo prestatore e al museo ospitante un 'evento' del tutto estraneo alla loro vita. Non siamo più nell'antico regime: nelle democrazie moderne le opere d'arte non sono più pedine della ragion di Stato, ma testi su cui fare ricerca, e da restituire alla conoscenza dei cittadini».
Ma, almeno in Italia, queste ovvietà sembrano destinate a non essere ascoltate.
Solo da noi i governi del Dopoguerra hanno continuato sulla strada delle mostre fasciste: invano, nel 1952, Roberto Longhi si augurava che lo Stato «ponesse un fermo a questa stolida e spesso servile mania esibizionistica dell’Italia all’estero. Mania che, ove non venisse ormai stroncata, finirebbe, oltre agli irreparabili danni materiali, per revocarci stabilmente dal novero delle nazioni culturalmente più progredite».
E così ancora tutti i ministri recenti, da Sandro Bondi a Dario Franceschini, hanno continuato ad organizzare mostre ‘politiche’: esattamente come questa di Raffaello a Mosca, compresa in un accordo economico firmato dal presidente del Consiglio Renzi in un suo viaggio d’affari a San Pietroburgo nel giugno scorso. A proposito della quale, uno dei superdirettori nominati da questo governo mi ha scritto privatamente che trova sconcertante che il suo collega degli Uffizi si pieghi ad «una mostra su Raffaello a Mosca su richiesta dell'ambasciatore, dopo il viaggio del presidente del consiglio, con domande mandate a giugno per un’inaugurazione a settembre».
Vedere l’Autoritratto di Raffaello ridotto a comparsa d’onore in un ricevimento all’Ambasciata italiana a Mosca (esattamente nello stesso luogo dove hanno ‘posato’ negli ultimi anni Caravaggio o Bellini, secondo un format ormai grottesco) dovrebbe dare da pensare. Se ci chiediamo perché non succeda niente di simile in nessuna ambasciata straniera in Italia, la risposta va forse cercata nella maggior serietà degli altri governi e delle altre diplomazie, che rispettano la sovranità dei musei, e non giocano a travestirsi da mecenati del Rinascimento, finendo poi a scrivere «caravaggiti».
Ma la colpa non è solo dei politici: è anche dei tecnici che piegano il capo pur di proteggere la loro carriera.
C’è qualcosa di tristemente ironico in questa vicenda, perché quando (nella Commissione Bray per la riforma del Ministero per i Beni culurali) iniziammo a discutere la possibilità di riconoscere ad alcuni grandi musei un certo grado di autonomia, lo facemmo dicendo esplicitamente che uno degli obiettivi era evitare che i direttori degli Uffizi fossero costretti a inviare all’estero le opere più importanti del museo per ragioni politiche. Questo accadeva perché, nel vecchio ordinamento, il direttore era sottoposto al soprintendente: e siccome quest’ultimo era a sua volta sottoposto ad un rinnovo contrattuale, l’autonomia scientifica veniva in sostanza vanificata. In pratica, il soprintendente si genufletteva di fronte al ministro, e quindi imponeva al direttore di prestare. La riforma Franceschini ha cambiato tutto perché tutto rimanga com’era: anzi, ha saltato un passaggio, perché oggi il ministro nomina direttamente il direttore. E il direttore scatta immediatamente sull’attenti. Ed è degno di amara ironia il fatto che a sostenere l’autonomia del direttore c’era, in quella commissione, anche Matteo Ceriana: che oggi, da responsabile della Galleria Palatina di Pitti sottomesso al superdirettore degli Uffizi, si è visto imporre (sebbene lui e tutti i suoi funzionari storici dell’arte fossero contrari) la partenza dei Raffaello del suo museo.
Il caso del prestito dei ritratti di Agnolo e Maddalena Doni è particolarmente imbarazzante, perché l’Opificio delle Pietre Dure ha scritto agli Uffizi che «i rischi a cui andrebbero incontro a seguito di un loro spostamento potrebbero cambiare sostanzialmente lo stato di conservazione». E ancora: «esporre le opere al rischio di sollecitazioni meccaniche che possono provenire da un lungo viaggio e da un cambiamento di clima potrebbe esseremolto rischioso». La contrarietà dell’Opificio era così radicale che nessuno dei suoi restauratori ha voluto accompagnare le opere. Eppure il direttore degli Uffizi si è assunto la responsabilità di spedirli comunque, diramando poi un comunicato che cerca di ribaltare il senso della relazione dell’Opificio, e che si conclude – con un tono di sfida decisamente inopportuno, visto che manca ancora il viaggio di ritorno e che i danni eventuali si potranno constatare solo a consuntivo – affermando che per ora sono sani e salvi.
La mostra di Raffaello a Mosca è – usiamo le parole con cui Antonio Cederna ne fulminava una, del tutto analoga, nel 1956– «un’antologia abborracciata, forse dettata unicamente dall’arrendevolezza di alcuni soprintendenti. Grandi equilibristi, disposti sempre all’obbedienza verso i pezzi più grossi di loro, sulla cui mancanza di carattere e di convinzioni generali i vandali sanno di poter contare». Sarebbe ingeneroso dire che nulla è cambiato: oggi i soprintendenti non ci sono più, ad obbedire sono i superdirettori.
». La Repubblica, 5 settembre 2016 (c.m.c.)
La forbice è ampia. Va dai 23 milioni 633 mila euro per la Scala ai 5 euro per il Real Albergo dei Poveri a Napoli. Sono le punte estreme del mecenatismo italiano, stando a uno degli indicatori, l’Art bonus voluto dal ministro Dario Franceschini, con i quali si misura la generosità peninsulare verso il patrimonio storico- artistico e le attività culturali.
È un mondo variegato, si presume vasto e polverizzato, ma ancora poco conosciuto, sebbene tutti lo diano in crescita, con cifre frammentarie, dove compaiono fondazioni bancarie, gruppi industriali e finanziari e poi professionisti, nobildonne e nobiluomini, fino a giungere al napoletano che, letta la richiesta del Comune di recuperare 3 milioni e mezzo per restaurare il capolavoro settecentesco di Ferdinando Fuga, ha scucito i 5 euro restando, a tutt’oggi, l’unico sottoscrittore della raccolta fondi.
Raccolta fondi che con l’Art bonus (deduzione fiscale fino al 65 per cento) ha cumulato 115 milioni versati da 3180 donatori. Il 45 per cento dei soldi è destinato a fondazioni lirico-sinfoniche, il 20 ai Comuni, il resto al patrimonio gestito dal Mibact o da concessionari. In assoluto un risultato accolto con favore: prima dell’entrata in vigore della nuova norma due anni fa, le donazioni si attestavano poco sopra i 20 milioni (diversamente regolate sono le sponsorizzazioni, che prevedono un contratto e un ritorno pubblicitario). «Il 60 per cento dei donatori sono persone fisiche », osserva Carolina Botti, direttore centrale di Ales, società del ministero per i Beni culturali che coordina l’Art bonus, «il resto sono imprese e fondazioni bancarie. A richiedere finanziamenti privati sono in prevalenza i Comuni».
Il mecenatismo diffuso non è una novità, ma caratterizza questi anni di penuria. Ne è afflitta l’Italia, ma non solo. «Il Metropolitan di New York ha licenziato il 5 per cento dei curator», ricorda Patrizia Asproni, presidente della fondazione Torino Musei e di Confculture, «in Gran Bretagna hanno chiuso 44 musei e 28 biblioteche ». In controtendenza vanno diversi privati, che prediligono un lussuoso fai-da-te. «In quattro anni hanno dato vita in Europa e negli Stati uniti a 100 musei», segnala Guido Guerzoni, professore alla Bocconi, «e anche in Italia grandi marchi come Prada o Trussardi s’impegnano sull’arte contemporanea».
Al primo posto fra chi riceve con l’Art bonus c’è la Scala, che ha chiesto 250 milioni ottenendone 23, seguita dal Museo Egizio di Torino, che ha programmato una spesa di 15 milioni coperta integralmente dalle donazioni. L’Art Bonus funziona così: un Comune o un ente di gestione pubblica sul sito un progetto di restauro o anche un piano di gestione e si mette in attesa. Molti sono però i progetti che attendono invano. Il Palazzo Te di Mantova dall’ottobre del 2015 aspetta qualche contributo a fronte di 800mila euro chiesti per il restauro di una facciata. Al momento non si è fatto avanti nessuno.
Il Museo Nazionale Archeologico di Ruvo di Puglia invoca invano donazioni per coprire una spesa di 17 mila euro, e il Comune di Napoli (di nuovo) spera di trovare chi lo aiuti a restaurare la guglia dell’Immacolata davanti a Santa Chiara, costo 1 milione e mezzo, ma finora deve accontentarsi di 50 euro. L’Art bonus, senza portarne responsabilità, fotografa il divario fra centro-nord e sud. La Lombardia propone 55 progetti e riceve contributi per 33 di essi. Il Molise ha due proposte e zero contributi, la Campania 29 richieste, 9 delle quali con scarse offerte. Così Basilicata (1 e 0), Calabria (7 e 1) e Sicilia (10 e 3).
Le stesse, vistose differenze caratterizzano la fonte più cospicua del mecenatismo italiano, quella delle fondazioni bancarie. Sono stati 280 nel 2015 i milioni provenienti da esse per musei, scavi archeologici e poi mostre e festival letterari, il 30 per cento degli oltre 900 milioni elargiti in totale (ma erano 531 nel 2008 su complessivi 1 miliardo 670 milioni). Ebbene questa pioggia di soldi benefica il Nord per il 70 per cento, il centro per il 22, il sud per il 6. Ma d’altronde imprese, banche e fondazioni risiedono in maggior numero sopra il Garigliano, a dispetto di un patrimonio distribuito su tutto il territorio nazionale. Un’altra realtà è quella degli Amici dei Musei, dagli Uffizi a Brera, passando per Capodimonte.
Sono associazioni no profit. Raccolgono contributi per restauri o acquisizioni. Ma più che finanziario, il loro mecenatismo è stato definito adozionale in un’indagine dell’università Federico II di Napoli e del centro studi Silvia Santagata-Ebla. Le 1.200 associazioni censite in Italia (su oltre 4.500 musei) promuovono visite, attività didattiche, supportano pubblicazioni e mostre. Cercano di stringere solidi legami fra un museo e il territorio che lo ospita. Le loro attività sono volontarie, sopperiscono ai pochi fondi pubblici in un settore che però fa uso massiccio e spesso mortificante di lavoro precario.
Il sistema è molto sviluppato in altri paesi. Gli Amici del Louvre sono nati a fine Ottocento e oggi contano 60mila iscritti . Grazie a loro sono state acquistate oltre 700 opere che hanno arricchito la collezione. Più recente (1968) è la nascita dei British Museum Friends, che coinvolgono 50mila persone. In Italia queste associazioni sono in gran parte, di nuovo, al centro-nord e in esse militano pochi giovani (appena l’11 per cento è sotto i 35 anni), mentre negli ultimi tempi è in questa fascia che crescono i visitatori dei musei. Maria Vittoria Colonna Rimbotti presiede gli Amici degli Uffizi.
Molte sono le acquisizioni dovute al loro contributo o anche i restauri, compreso quello dell’Adorazione dei magi di Leonardo. Finora le erogazioni raccolte si aggirano sui 5 milioni, serviti per riallestire sale o per rinnovare tendaggi. «Ci siamo sempre attenuti alle esigenze del museo, senza protagonismi», dice. L’Art bonus, che consente finanziamenti diretti ai musei, mette però in secondo piano la raccolta fondi. «Il provvedimento è utile, ma soprattutto interessante per i grandi gruppi industriali e ancora non va incontro ai donatori di più modeste possibilità», insiste Colonna Rimbotti.
D’accordo con lei è Asproni: «Non è stato un successo: per una donazione dovrebbe bastare un sms». E le stesse critiche avanza da Napoli Errico Di Lorenzo, presidente degli Amici di Capodimonte: «Qui i donatori sono pochissimi, occorrerebbe defiscalizzare le elargizioni verso associazioni come le nostre».
Il Fatto Quotidiano, 2 settembre 2016 (p.d.)
A voler essere maligni e sbrigativi, il Tuffatore è passato direttamente dal supercommissario renziano di Expo, Beppe Sala, al superdirettore renziano del museo partenopeo, Paolo Giulierini, tra i venti nominati nell’agosto 2015 dal Mibact di Dario Franceschini: la sua fu una delle nomine più discusse poiché l’etruscologo fu celermente promosso dal piccolo Museo dell’Accademia Etrusca di Cortona all’immenso ginepraio dell’Archeologico.
Intanto a Paestum, col cerino in mano, è rimasto Gabriel Zuchtriegel, archeologo tedesco, il più giovane dei venti succitati direttori museali, in carica da un anno. Tuttavia, quando fu deciso e avviato il primo prestito (direzione Milano), nella primavera 2015, il sito cilentano era diretto da Marina Cipriani, che allora assicurò al Corriere del Mezzogiorno: “Il Museo non verrà “spogliato” della Tomba in quanto nei locali devono svolgersi quanto prima alcuni lavori di ristrutturazione e quindi comunque almeno per due-tre mesi il Tuffatore non sarebbe stato visitabile. Traslocarlo a Milano significa richiamare sull’opera tutta l’attenzione che merita”.
Orbene, la sala “Mario Napoli” (dal nome dell’archeologo che scoprì la tomba nel 1968, a due chilometri a sud di Paestum), che ospitava l’opera, è ancora in restauro: i lavori sono stati affidati il 19 maggio e partiti il 23, con consegna prevista entro 60 giorni, ma a oggi la stanza è ancora inagibile e lo sarà fino al ritorno del Tuffatore. I tempi si sono, insomma, raddoppiati, e la beffa è che è sotto gli occhi di tutti, a differenza di altri cartelli informativi illeggibili e di schermi interattivi guasti, posti a mo’ di didascalia accanto a opere e monumenti: fuori dalla sala Napoli, viceversa, un orrendo tendaggio bianco spiega ai turisti modi, tempi e dettagli del restauro, ovviamente disattesi. Ma per fortuna i visitatori sono soprattutto stranieri e il cartello è in italiano.
Dal museo, intanto, fanno sapere che “i lavori saranno ultimati e la sala pronta per il rientro del Tuffatore a Paestum”, quindi tra un mese, si spera. Dacché è stata scoperta quasi 50 anni fa, la Tomba è stata spostata solo un’altra volta, nel 1996, a Palazzo Grassi a Venezia per una mostra su “I Greci in Occidente”: allora il trasloco durò solo qualche mese, da marzo a dicembre, e il ministero si spese per non lasciare a bocca asciutta Paestum e altri musei privati temporaneamente delle proprie opere, organizzando, in contemporanea ai prestiti, “esposizioni su temi complementari nei siti originari della Magna Grecia”.
Della capitale importanza dell’antica Poseidonia e dei suoi reperti si accorse subito l’archeologo Napoli, che definì la Tomba del Tuffatore “il più sconvolgente rinvenimento archeologico da moltissimi anni a questa parte... Sollevata la lastra di copertura, ecco apparire la tomba completamente affrescata, non solo nelle pareti interne delle quattro lastre formanti la cassa, ma anche, e questa è una strana novità, all’interno della copertura”. Il Tuffatore, che dà il nome all’intera tomba, è raffigurato proprio su quella lastra di copertura e circondato da scene di simposi e amoreggiamenti vari, classico esempio di “ironia tragica” degli antichi. Quanto all’“ironia tragica” dei moderni, basta recarsi al Museo Archeologico partenopeo: il mare non bagna Napoli, ma il Tuffatore ci si è buttato lo stesso.
». La Repubblica, 28 agosto 2016 (c.m.c.)
«Qui tutte le chiese sono piene di sordide, maledette e menzognere immagini, ma tutti le venerano. Perciò le sto distruggendo una per una da solo, con le mie mani, per combattere la superstizione e l’eresia». La scena è Torino, e chi parla non è un estremista islamico ma Claudio, irriducibile campione di un’iconoclastia militante, che di Torino fu vescovo per dodici anni (dall’816 all’828).
Secondo il suo contemporaneo Giona di Orléans, Claudio, «acceso da zelo sconfinato e senza freni, devastò e abbatté in tutte le chiese della diocesi non solo i dipinti di storia sacra, ma perfino tutte le croci», deridendo gli avversari: «Cristo fu sulla croce per sei ore, e dobbiamo venerare tutte le croci? Non dovremmo allora venerare anche le mangiatoie, dato che fu in una mangiatoia, le barche perché in barca fu spesso, gli asini perché su un asino entrò a Gerusalemme, i rovi perché di rovo era la corona di spine, le lance perché una lancia gli fu confitta nel costato?»
Troppo spesso consideriamo l’iconoclastia un corpo estraneo rispetto alla cultura “occidentale”, attribuendola in esclusiva all’Islam, o semmai a una fase della storia religiosa di Bisanzio. Ma non meno spietata, e più vicina a noi, fu l’iconoclastia protestante, lanciata a Zurigo nel 1523 e poi diffusa in tutti i Paesi a nord delle Alpi. Al British Iconoclasm la Tate Gallery dedicò nel 2013 una mostra importante, e con egual forza il fanatismo di Claudio di Torino ci obbliga a guardare anche l’iconoclasta che è in noi. Eppure, da Bamiyan a Timbuctu, l’iconoclastia vista dall’Europa sembra dover portare un solo marchio di fabbrica, quello dell’Islam.
Gli stessi autori di queste devastazioni fanno di tutto per accreditare la radice teologico- religiosa della loro furia demolitrice, presentata come ossequio ai precetti del Corano. Se accettiamo questa versione dei fatti, la conseguenza è uno scontro di civiltà, in cui chiunque contrasti le distruzioni — anche se rigorosamente ateo — viene bollato come “crociato”.
Il solo antidoto a questo veleno è riconoscere e denunciare la natura strettamente politica dell’iconoclastia del nostro tempo. Ma anche la radice, egualmente politica, della tutela della memoria culturale. Ricordiamo: la distruzione dei giganteschi Buddha gemelli di Bamiyan (12 marzo 2001) anticipò di nove mesi esatti l’abbattimento delle Torri gemelle di New York (11 settembre), come se il secondo evento, con le sue vittime umane e la sua spettacolarità ineguagliata, fosse già in gestazione nel primo.
In ambo i casi, centro generatore dell’azione devastatrice non fu una statua o un grattacielo, ma la scena, o meglio lo spettacolo, della distruzione. Le Twin Towers furono abbattute nella certezza che l’evento sarebbe stato ripreso sull’istante dalle televisioni, e che il mondo si sarebbe fermato a guardare. A Bamiyan, a Mosul, a Palmira sono stati gli stessi distruttori a documentare se stessi, in un’orgia di selfie fotografici e cinematografici, da diffondersi poi in tutto il mondo.
Adepti più o meno consapevoli della “società dello spettacolo” profetizzata da Guy Debord (1967), questi nemici delle immagini le annientano sì, ma allo scopo di produrre nuove immagini, quelle della loro distruzione. Creano e diffondono accanitamente una neo-idolatria, una iconizzazione di sé che richiede l’intenso uso dei media: 45mila accounts Twitter di militanti Is secondo Stern e Berger ( ISIS: the State of Terror, 2015). Il loro è calcolo politico, esattamente come quando si abbatterono le statue di Mussolini o di Stalin: chi atterra le immagini vuol farsi vedere mentre lo fa perché mostra i muscoli, trasmette un messaggio di intransigenza e di forza ostinate, spedito al mondo da un palcoscenico creato
ad hoc. Eppure, fra chi elogiò i primi tentativi di distruggere i Buddha di Bamiyan nel Settecento si conta Goethe: l’insofferenza protestante per le immagini di culto s’incontrava in lui con l’iconofobia ricorrente nella cultura islamica.
Ma c’è oggi un’altra iconoclastia, che non ha religione né confini. Non ostenta se stessa, ma nemmeno si nasconde, perché conta su una naturale complicità “globale”. Alla Mecca vige il divieto di ingresso ai non mussulmani, ma negli ultimi anni la città si è trasformata in una vera e propria Las Vegas saudita (lo scrive Ziauddin Sardar, Mecca. The Sacred City, 2015). Il re porta il titolo di “Custode delle Sacre Moschee”, ma lo interpreta promuovendo la distruzione sistematica di preziosi edifici storici in favore di centri commerciali. Per citare solo qualche esempio fra tanti, è stata abbattuta la moschea di Bilal, del tempo di Maometto; la gigantesca fortezza ottomana di Aiyad (sec. XVIII) è stata rasa al suolo nel 2002 e sostituita dal Mecca Royal Clock Tower, un complesso alberghiero di lusso con al centro un grattacielo alto 601 metri, copia ingigantita del Big Ben, che ormai sovrasta i luoghi più sacri dell’Islam.
Cambiamo scenario: a Mosca si è combattuto duramente fra chi voleva salvaguardare Dom Stroyburo, edificio- simbolo del costruttivismo russo, opera di Arkady Langman (1928), e chi voleva distruggerlo per una speculazione edilizia. Nonostante fosse sottoposto a tutela architettonica, l’edificio è stato abbattuto illegalmente di notte nel marzo 2015, a quel che pare da membri della mafia locale, che durante la demolizione urlavano derisoriamente “Allah è grande!”. L’invocazione religiosa degli estremisti islamici diventava così un blasfemo sberleffo di criminali comuni, in una capitale europea.
Una stessa iconoclastia, in nome del mercato, è all’opera alla Mecca e a Mosca, ma anche intorno a noi. È il degrado che colpisce il patrimonio culturale, l’invasione dei paesaggi svenduti alla speculazione edilizia, l’inquinamento dell’ambiente, l’abbandono di chiese e monumenti storici, l’installarsi di malsane discariche anche nelle più preziose aree agricole, la colpevole retorica di uno “sviluppo” che calpesta la storia in nome dell’economia, la monocultura del turismo che svuota le città, l’esilio della cultura ai margini della società.
La nostra sensibilità collettiva si accende di indignazione davanti ad efferate distruzioni di beni monumentali, ma non quando devastazioni di eguale violenza vengono compiute da noi stessi, contro la dignità e la vita stessa dei cittadini. Questo non si chiama “terrorismo”, ma produce effetti non meno devastanti. Perciò è importante ricordare a noi stessi che la tutela dell’ambiente, del paesaggio, del patrimonio culturale ha una radice squisitamente politica. Si collega (lo dice la Costituzione) all’orizzonte dei nostri diritti. È il sale della democrazia. Anche davanti a distruzioni severe e incontrollabili (una guerra, un terremoto) è dalla capacità di salvare e ricostruire il patrimonio monumentale che si misura la forza, o la debolezza, di un Paese. Le promesse fatte dal governo in questi giorni vanno nella direzione giusta: speriamo di poterne confermare il giudizio da qui a un anno.
New York Times” indaga successi e fallimenti dei responsabili venuti dall’estero alle prese con il sistema Italia». La Repubblica, 18 agosto 2016 (c.m.c.)
Compie un anno quel pezzo di riforma dei Beni culturali che ha portato l’autonomia e nuovi direttori in venti fra musei e siti archeologici italiani. In realtà i direttori si sono insediati fra l’autunno e la fine del 2015, ma è stato nella calura dell’agosto scorso che essi sono stati designati dopo una selezione pubblica. Venti nuovi direttori, sette dei quali stranieri. Un anno di piccole e grandi rivoluzioni, ma anche di critiche serrate e di polemiche. L’anniversario rimbalza negli Stati Uniti, dove il New York Times dedica un lungo reportage alla vicenda. Che mette in evidenza luci e ombre, cambiamenti e resistenze e che si chiude con il direttore degli Uffizi, Eike Schmidt, il quale, sorridendo, esclama: «Mi hanno messo a fare un lavoro sporco (dirty work), sarebbe meglio che non mi abbandonassero proprio ora».
C’è alle viste il pericolo di lasciare a se stessi storici dell’arte, curatori e archeologi venuti dall’estero per occuparsi di parti pregiate del nostro patrimonio? E ciò andando incontro a uno smacco internazionale di proporzioni poco immaginabili? Ancora è presto per affermarlo. Inoltre i segnali che arrivano dai diversi direttori non lasciano intravedere nubi. Ma le difficoltà che essi incontrano sono quelle che da tempo vengono denunciate: organici carenti, personale molto anziano (oltre il 50 per cento ha più di sessant’anni e fra non molto andrà in pensione), strutture al collasso, leggi farraginose, pastoie burocratiche.
I venti nuovi direttori sono solo la parte più appariscente della riforma voluta dal ministro Dario Franceschini (e tanto più lo sono i direttori stranieri, fra i quali, oltre a Schmidt, figurano James Bradburne a Brera, Sylvain Bellenger a Capodimonte o Gabriel Zuchtriegel a Paestum). L’obiettivo principale è l’autonomia gestionale e finanziaria dei musei, prima agganciati alle soprintendenze, dalle quali provenivano i direttori.
La scelta è stata netta e su di essa si sono concentrate le accuse: si è voluto smantellare un sistema durato per tutto il Novecento, fondato su un legame stretto fra tutela e valorizzazione del patrimonio culturale. Bilanci di quanto questa frattura abbia prodotto in positivo o in negativo è ancora difficile poterli tracciare. C’è chi sottolinea una spiccata agilità nel prendere decisioni, nell’avviare innovazioni. Chi invece lamenta il rischio di conflitti: la tutela dei beni esposti nei musei resta, ed è naturale, di competenza dei soprintendenti. C’è chi rileva il dinamismo dei nuovi direttori (dove più dove meno), chi segnala che le questioni strutturali restano inevase. C’è chi plaude ai cambiamenti, chi lamenta che negli anni i tanti cambiamenti imposti a una struttura fragilissima sono come un perenne sciame sismico.
Il New York Times mette in evidenza lo scarto fra le iniziative dei direttori e il contesto. L’episodio dal quale parte l’autrice, Rachel Donadio, è noto: la multa affibbiata nel maggio scorso dai vigili urbani di Firenze a Schmidt pescato perché da un altoparlante invitava i visitatori in fila davanti agli Uffizi a fare attenzione a borseggiatori e bagarini. Non aveva l’autorizzazione: 422 euro di sanzione, pagati da Schmidt di tasca propria. Il giornale americano enumera gli sforzi dello storico dell’arte tedesco – l’abbattimento delle file di visitatori, l’ampliamento della galleria, la riorganizzazione dell’amministrazione e dei servizi di custodia, l’apertura del Corridoio Vasariano – e li mette alla prova di resistenze burocratiche, di norme contraddittorie. «È come giocare una partita multipla di scacchi», commenta il direttore.
La riforma, intanto, procede. Ai musei vengono attribuiti fondi speciali per realizzare progetti da tempo in cantiere. E si sono appena chiusi i bandi per selezionare i direttori di altri nove fra musei e siti archeologici o monumentali, mentre il 15 settembre terminerà quello per il Museo Nazionale Romano, che prima era stato destinato all’autonomia, poi era tornato fra le strutture dirette da personale della soprintendenza, quindi di nuovo reso autonomo: una giravolta non inedita dalle parti del Mibact. Fra gli altri siti, per i quali sono arrivate circa 400 domande, figurano Ercolano, la Pilotta a Parma, il Castello di Miramare a Trieste, Villa Adriana e Villa d’Este a Tivoli. A Roma sono compresi i musei dell’Eur e il museo etrusco di Villa Giulia e gli scavi archeologici di Ostia Antica.
Ecco infine due “parchi archeologici”, tutti da inventare: quello dei Campi Flegrei, a nord di Napoli, e soprattutto l’Appia Antica, che non è un’area a pagamento, essendo un pezzo di città che si spinge verso i Castelli romani, in larghissima parte in mano a privati. L’Appia Antica è stata retta per vent’anni da Rita Paris, con energia e dedizione universalmente riconosciute. Ha avuto sempre a disposizione mezzi scarsi e con questi ha compiuto salti mortali. Chissà se con strutture e strumenti adeguati la condizione dell’Appia sarebbe migliorata. Ma al ministero si è deciso di cambiare tutto.
il 21 gennaio del 2011 è stato firmato un protocollo d’intesa tra il Commissario per l’area archeologica della Capitale, la Soprintendenza e la Tod’s di Diego Della Valle per il restauro del colosseo. La Repubblica, 9 agosto 2016 (c.m.c.)
Prendendo spunto dal caso del Colosseo, la Corte dei Conti indica una strada virtuosa in materia di sponsorizzazioni per la tutela del patrimonio culturale. È la stessa strada che indicherebbe il buon senso: stabilire con attenzione le contropartite da concedere allo sponsor, e vegliare sul fatto che quest’ultimo faccia davvero tutto ciò che si è impegnato a fare.
Già, perché — nonostante la confusione che continua ad imperare nel discorso pubblico — lo sponsor non è un mecenate. Quest’ultimo (in Italia davvero rarissimo) dà i suoi soldi in cambio di nulla (di nulla di materiale: e cioè in cambio di legittimazione sociale, gratitudine, appagamento personale…), mentre lo sponsor imposta un’operazione commerciale grazie alla quale conta di ricavare assai più di quanto doni allo Stato.
Mentre in Francia si è preferito investire sul mecenatismo, e in particolare su quello diffuso (tanto da riuscire a raccogliere ogni anno un miliardo di euro: cifra che fa impallidire il nostro pur volentoroso Art Bonus), in Italia si è fatto largo agli sponsor.
Questa differenza si deve alla stessa ragione per cui ora la Corte dei Conti tira le orecchie al ministero per i Beni culturali: e cioè che da noi lo Stato è debole, anzi in perpetua ritirata. Ed è questo il punto: perché il rapporto Stato-privati in campo culturale (e non solo) funzioni bene, bisogna che lo Stato sia forte, e cioè che non si presenti col cappello in mano, pronto ad accettare qualunque condizione contrattuale. Perché altrimenti il rischio è la mercificazione di un inestimabile bene comune.
La Corte dei Conti invita infatti il MiBact a darsi una normativa chiara e univoca: perché finché si procederà caso per caso lo Stato continuerà ad arretrare di fronte a privati ben decisi a mettere il proprio marchio sui monumenti di tutti. Ma il governo ha appena fatto la scelta opposta: con il nuovo Codice degli appalti il privato fa la sua proposta di sponsorizzazione, che viene resa nota attraverso la Rete. Se entro 30 giorni nessun “concorrente” si fa vivo, lo Stato accetta. Tutto il contrario di una programmazione, cioè di un progetto forte e omogeneo.
D’altra parte, la cena vip offerta da Della Valle per celebrare il restauro ha imposto una chiusura di parti del Colosseo ben più lunga di quella dovuta alla famosa assemblea sindacale di un anno fa. Questa volta nessuno ha fiatato: segno che i rapporti di forza sono proprio quelli ora impietosamente fotografati dalla Corte dei Conti.
Riferimenti
Informazioni sul "regalo" dello sponsor Della Valle sono disponibili qui
«Meraviglioso: le sale inaugurate ieri da Renzi, richiuderanno dunque subito per mancanza di personale ». La Repubblica online, blog "Articolo 9", 30 luglio 2016 (c.m.c.)
A Matteo Renzi piace tagliare nastri. Meglio ancora se tagliandoli può oscurare un pò l'autoreggente Dario Franceschini, che trama nella Manica Lunga per farlo stare sereno prima possibile.
Così ieri Renzi era a Taranto, ad inaugurare il Museo Archeologico Nazionale: uno dei venti supermusei che Franceschini sostiene di aver miracolato imponendo loro le mani dell'autonomia.
«Museo archeologico, risanamento Ilva, le scuole del quartiere Tamburi, Arsenale, il porto, le bonifiche. Impegni concreti e scadenze rispettate. A Taranto i problemi non mancano ma il Governo c'è. E fa terribilmente sul serio», ha twittato il Presidente del Consiglio. E ancora: «Taranto. Dopo anni di promesse non rispettate, #finalmente ci siamo».
Peccato che le cose non stiano proprio così. Chissà se Franceschini ha detto a Renzi che il Marta è uno scatolone vuoto. Appena dieci giorni fa, una supplichevole circolare della Direzione generale del Mibact per l'Organizzazione faceva sapere a tutti che «con nota del 5 luglio il direttore del Museo Archeologico Nazionale di Taranto ha rappresentato la grave carenza di personale», chiedendo se ci fossero volontari disposti a «prestare servizio temporaneamente a Taranto». Cioè a tappare i buchi del Museo: aprendone di identici nelle loro sedi, tutte afflitte da una disastrosa mancanza di personale (esattamente come quando erano ministri Bondi o Ornaghi, anche se ora non lo dice più quasi nessuno).
Per far capire cosa manca a Taranto, veniva allegata alla circolare la nota della direttrice scelta dalla mitica commissione voluta da Franceschini. E la lettura è impressionante. La carenza di personale è «grave», ed è stata inutilmente fatta presente in «numerose note». La dotazione di personale – a cui il Mibact di Franceschini risponde solo con un risibile appello ai volontari– è «estremamente urgente».
Tra le figure che mancano ci sono ben 6 funzionari archeologi: «assoluta necessità di tale professionalità per la creazione dell'inventario digitale delle collezioni, totalmente assente, per la creazione di un team di curatori, per la creazione del servizio educazione e ricerca totalmente assente, per la creazione di un team addetto alla politica editoriale della struttura museale». Ma allora, uno ci chiede, cosa diavolo ha inaugurato Renzi, a Taranto?
A leggere questa desolante confessione si capisce perché Piero Guzzo si sia dimesso dal Consiglio scientifico del Museo.
Ma la ciliegina sulla torta arriva dall'ultima riga della direttrice: mancano anche «8 unità di personale di accoglienza, fruizione e vigilanza poiché il personale ora in dotazione è del tutto insufficiente a garantire l'apertura al pubblico del percorso espositico del II piano del museo di prossima inaugurazione, che si terrà nel mese di luglio alla presenza del ministro onorevole Dario Franceschini e probabilmente del presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi». Meraviglioso: le sale inaugurate ieri da Renzi, richiuderanno dunque subito per mancanza di personale.
«Taranto. Dopo anni di promesse non rispettate, #finalmente ci siamo». Non è vero: è una menzogna, una balla spaziale. Grottesca propaganda. Ma non importa: # l'Italia riparte. Per un'altra inaugurazione.
Il Fatto Quotidiano online, blog "Ambiente e veleni", 26 luglio 2016
Accade lo stesso proprio al centro dell’area archeologica centrale più celebre al mondo. Al Foro romano, a Roma. Dove, tra la Basilica Aemilia, la Sacra via e il Tribunale, è stato montato un grande palco, con tanto di spazio per gli orchestrali e di parterre per gli spettatori. Una gigantesca struttura, corredata da “torri per le luci”, del tipo utilizzato per eventi musicali. “Martedì 26 luglio 2016 alle 20.30 una serata musicale eccezionale per la prima volta nel sito archeologico del Foro romano”, si legge nel sito dell’Opera romana pellegrinaggi che, insieme al Teatro dell’Opera di Roma, ha promosso l’evento intitolato ‘Music for mercy‘, inteso a celebrare il Giubileo della Misericordia.
Il programma, suggestivo. “Brani classici, pagine di bel canto, voci e suoni provenienti da tutto il mondo, a partire da Andrea Bocelli”, assicurano i promotori. Non solo. “Anche un nuovo brano composto daRomano Musumarra sulle parole di Grant Black – ‘A time for mercy’ – ispirate dalle parole del libro di Papa Francesco “Il nome di Dio è misericordia”, anche questo un pezzo interpretato da Carly Paoli”. Insomma una celebrazione vera e propria. Per certi versi ispirata dalla musica “alta”. E non è tutto. Il concerto, prodotto da Abiah Music Production, ha avuto il patrocinio del ministero dei Beni e delle Attività culturali e del turismo e della Commissione nazionale italiana per l’Unesco. Vincoli reali e resistenze virtuali per una volta superati in nome “dell’eccezionalità dell’evento”. Sia ben chiaro, assicurano dal ministero, nessuna deroga alla tutela del sito archeologico.
Quindi tutto straordinariamente meraviglioso? Un evento di cui farsi vanto a ragion veduta? La realtà, come troppo spesso avviene, è molto diversa dal racconto che se ne fa. Già, perché quel grandioso apprestamento scenico è come il nuraghe immaginato nel parco archeologico delle incisioni rupestri e la piramide a Villa Adriana. Un non senso. Un obbrobrio, temporaneo, è vero, ma pur sempre un obbrobrio. Colpevolmente proposto e ancor più colpevolmente autorizzato. E’, forse, comprensibile il desiderio di chi abbia pensato di organizzare la serata in un luogo di così “grande fascino”. Ma è senza giustificazioni chi l’abbia permessa. Il Mibact, naturalmente, quindi la Commissione nazionale italiana per l’Unesco, senza dimenticare Roma Capitale che ha offerto il suo sostegno.
n dubbio non c’è la possibilità che i resti antichi, la cui importanza non è superfluo ricordare, abbiano a che soffrire dall’impianto delle diverse strutture. D’altra parte è mai possibile che Mibact eSoprintendenza possano aver deciso la rovina, seppur parziale, di un luogo tanto importante? Qualsiasi risposta che non fosse negativa suonerebbe come una condanna eterna verso chi dovrebbe occuparsi se non altro della tutela di quella testimonianza della storia dell’umanità. Piuttosto, a preoccupare, è la scelta di aprire i cancelli. Come se ‘Music for mercy’ fosse o potesse essere una sorta di cavallo di Troia. Tra le molte scelte sbagliate del ministero retto dal democratico Dario Franceschini, questa di certo non sarebbe la meno perniciosa. Abbandonata la speranza che ad accorgersi dell’errore possa essere ilministro-scrittore non rimane che appellarsi al nuovo sindaco Cinque stelle Virginia Raggi. Anch’essa attesa tra gli spettatori dell’evento.
La Repubblica, ed. Firenze
.DUE scultoree, eccentriche porte ‘d’oro’ – apparentemente in ottone, comunque ricoperte da una vistosissima patina dorata – sono apparse nella testata meridionale della facciata dello Spedale degli Innocenti, in piazza Santissima Annunziata. La prima, quella che si apre nel corpo pieno del fronte brunelleschiano, ha un telaio che esce dalla parete e si protende prepotentemente verso la piazza. La seconda – lì accanto, dalla parte di Via dei Fibbiai – si apre come la saracinesca di un garage da film di fantascienza o di spionaggio.
È difficile esagerare l’importanza del portico degli Innocenti, ideato da Filippo Brunelleschi nel 1418-19: non è improprio definirlo la prima architettura del Rinascimento. Anzi, il primo spazio urbano rinascimentale: l’incunabolo inestimabile di un nuovo modo di leggere il mondo, e di riscriverlo. L’incipit della città moderna. Qui, per la prima volta, il vocabolario classico (colonne, paraste, archi, capitelli, trabeazioni…) risorge ad una vita nuova: diversa da quella antica, ma non meno alta e non meno gravida di futuro. Qui per la prima volta l’architettura è pensata in termini geometrici e aritmetici: il corpo umano è la misura, gli occhi sono lo strumento, la mente è il primo cantiere. Generazioni di architetti, e di semplici cittadini, hanno idealmente salito in ginocchio la scalinata (aggiunta da Rossellino) che sale verso quella sublime, pausatissima danza di archi e colonne: la semplicità fatta perfezione.
Rompere l’equilibrio formale di uno simile monumento ha lo stesso significato che dipingere i baffi alla Gioconda. Come se qualcuno colorasse di blu elettrico la palla dorata sulla lanterna dorata della Cupola, collocasse una vetrata rosa fucsia nell’oculo della facciata di Santa Maria Novella. Sia chiaro, in arte tutto è lecito: e chiunque è libero di intendere il rapporto tra presente e passato in termini di provocazione puerile. Ma se qualcuno, al Louvre, prova a fare i baffi sull’originale della Gioconda viene fermato: perché esiste anche la libertà di tutti coloro che preferiscono continuare a guardarla come la lasciò Leonardo. È per questo che, in Italia, esistono i vincoli: e la prima architettura del Rinascimento è intoccabile. Dunque, come è stato possibile alterarla così pesantemente? La risposta va cercata nell’ abdicazione della Soprintendenza fiorentina, che con Alessandra Marino ha scelto la strada dell’autosoppressione. Un modo perfetto per adeguarsi al pensiero dominante: se il principe dice che «soprintendente è la parola più brutta del vocabolario della burocrazia », ecco che i soprintendenti fanno finta di non esistere. Risultato: i cittadini, che mantengono sia il principe che le soprintendenze con le loro tasse, hanno il danno e la beffa. In attesa che un sussulto di decenza ci liberi da queste porte – non del Paradiso, ma dell’inferno del gusto – fermiamoci un attimo sul loro significato simbolico. Se proprio l’orafo Brunelleschi liberò i fiorentini del Quattrocento dall’ostentazione dell’oro tardogotico, inaugurando la mirabile sobrietà delle facciate fiorentine del Rinascimento, oggi una Firenze à la Jeff Koons torna a luccicare, come una moneta falsa. Rinnegando secoli di misura e understatment, la parola ‘arte’ è diventata sinonimo di ‘lusso’. La Galleria Palatina è al servizio dei marchi della moda, il Salone dei Cinquecento è una vip lounge a pagamento, sull’Arno si banchetta sui ponti veri, mentre ne fioriscono di effimeri per ospitare cene milionarie di marchi blasonati: la bellezza celebra la disuguaglianza, attraverso l’ostentazione più volgare. Piazza della Signoria si riempie di statue placcate oro, e il povero David di Michelangelo diventa il feticcio di una retorica imbarazzante. Siamo ignoranti, ma benestanti. Ingiusti, ma griffatissimi e sfacciati. Una Firenze kitsch che si specchia in un lusso da bordello orientale: e che al simbolo, solidale e austero, della Ruota degli Innocenti che accoglieva gli orfani sostituisce quello della Porta d’Oro che accoglie i ricchi investitori. Una triste porta d’uscita.
Accanto alle domande che sanno di Trivial Pursuit ("Qual è l'unica opera di Giorgione che ha ancora la cornice originale?"; oppure: "La Diana cacciatrice della Pinacoteca Capitolina attribuita a Giuseppe Cesari detto il Cavalier d'Arpino è: A: Un olio su rame; B: Un olio su tavola; C: Un olio su tela") e a quelle grottescamente sadiche ("Quale Cappella realizzò Filippo Raguzzini tra il 1724 e il 1725 nella Chiesa di Santa Maria Sopra Minerva per volere di papa Benedetto XIII che qui venne sepolto? A: Cappella di San Giovanni Battista; B: Cappella del Sacro Cuore; C: Cappella di San Domenico"), ci sono quelle offensive per ovvietà: "In quale cappella della città del Vaticano sono visibili alcuni tra i più famosi affreschi di Michelangelo Buonarroti, tra i quali il "Giudizio universale"? A: Cappella di Sant'Olav. B: Cappella Cornaro; C: Cappella Sistina". O, forse peggio ancora: "Come è denominato il complesso delle più grandi Terme della Romaantica, costruito tra il 298 e il 306 d.C., e costituente oggi una delle sedi del Museo Nazionale Romano? A: Terme di Diocleziano; B: Terme di Stigliano; C: Terme di Saturnia".
Inquietante il divario tra la caricatura dell'iperspecialismo medievistico ("In quale anno Onorio III consacrò la chiesa cistercense di Casamari? A: 1217; B: 1219. C: 1220") e la sbracatura sul contemporaneo ("La scultura in legno "Ritratto di Ungaretti" di Pericle Fazzini è.... A: Un esempio della scultura preromanica del sec. VII; B: Un'opera del primo medioevo, periodo in cui la scultura è sentita come ornamento e completamento dell'architettura; C: Un'opera del XX secolo conservata nella Galleria Nazionale d'Arte Moderna a Roma").
Ci sono le domande con troppe risposte giuste (qui la A e la C: "Il dipinto Et in Arcadia Ego della Galleria Nazionale d'arte antica di Roma di Palazzo Barberini, eseguito da Giovan Francesco Barbieri detto Il Guercino è: A: Un paesaggio arcadico; B: Un'allegoria del "memento mori"; C: Una natura morta"), quelle con nessuna risposta giusta ("La statua bronzea del pugilatore conservata al Museo Nazionale Romano è firmata da un artista greco. Quale? A: Polidoros; B Apollonios; C: Atenodoros": ma la scultura non è firmata...), quelle che contengono un errore nella domanda ("Il cosiddetto Teatro all'Antica, o Teatro Olimpico progettato da Vittorio Scamozzi costituisce uno tra i primi esempi tra gli edifici teatrali dell'età moderna. Dove si trova? A Sabbioneta B Vicenza?C Mantova": ma Scamozzi si chiamava Vincenzo...), e quelle della serie "di che colore era il cavallo bianco di Napoleone?": "I "Bronzi di Riace"(V secolo a. C.), oggi a Palazzo Campanella di Reggio Calabria, sono stati realizzati: A: In marmo; B: In legno; C: In bronzo".
Una nota positiva: è ammirevole il tatto con cui non si chiede l'attribuzione, ma solo la materia, del Cristo comprato come di Michelangelo da Sandro Bondi nel 2009, con l'assenso tecnico anche della funzionaria cui ora Franceschini ha affidato la superpotente direzione unica per il patrimonio culturale: "La statua "Crocifisso Gallino" (1495-1497 circa), conservata nel Museo del Bargello
(Firenze) è stata realizzata: A: In bronzo. B. In legno. C. In marmo".
«Ridurre il Colosseo a location: "caos totale, migliaia di turisti compressi in spazi ridottissimi. Tutto mentre sfilavano hostess, personalità, guardie del corpo tra sedie dorate impilate, tavoli, piatti, bicchieri, lampade e lanterne"». La Repubblica online, blog "Articolo 9", 5 luglio 2016 (c.m.c.)
Meno di un anno fa, nel settembre del 2015, Renzi e Franceschini montarono una violentissima polemica, di dimensioni planetarie, contro i sindacati che avevano fatto chiudere il Colosseo per due ore a causa di una assemblea perfettamente legale e debitamente annunciata. Il governo, riunito d’urgenza, emanò a favore di telecamere un decreto che dichiarava la cultura «servizio pubblico essenziale»: non per costringere se stesso a tenere aperti archivi e biblioteche, o a finanziare teatri e musei, ma per impedire ai lavoratori della cultura di esercitare i loro diritti costituzionali.
Ebbene, venerdì scorso il Colosseo è stato chiuso per ben più di due ore, e nell'orario di apertura è stato per due terzi inaccessibile anche a chi aveva prenotato, per organizzare la festa privata vip dello sponsor della pulitura: e nessuno osa nemmeno dirlo. Semplicemente se lo chiude Della Valle non è nemmeno una notizia, se lo chiudono i sindacati è uno scandalo da prima pagina.
Ma non tutti gli italiani sono ciechi. Pubblico qua di seguito, in forma anonima, la lettera inviatami da un testimone oculare, un archeologo precario che ‘lavora’ all’Anfiteatro:
«Le rubo qualche minuto poiché sento la necessità di raccontarle ciò che di incredibile è accaduto oggi al Colosseo. Per me, per noi, perché raccontare e denunciare possa far cambiare qualcosa in questo paese. Piccola premessa: sono un dottore di ricerca in archeologia, guida turistica abilitata, vincitore di un concorso ai servizi culturali al comune di Roma e mai assunto».
«Ebbene, oggi si è parlato molto della conferenza stampa, ma nessuno ha parlato dello spettacolo che si son trovati davanti turisti e cittadini presenti dell'anfiteatro. Interi gruppi, provenienti da ogni dove, che avevano da mesi prenotato e acquistato il biglietto di accesso all'arena, ai sotterranei e al terzo ordine, si sono visti senza preavviso vietare l'accesso sia all'arena sia al terzo ordine. E tutto mentre gran parte del secondo livello, normalmente aperto al pubblico, era anch'esso chiuso. Caos totale, migliaia di turisti compressi in spazi ridottissimi. Tutto mentre sfilavano hostess, personalità, guardie del corpo tra sedie dorate impilate, tavoli, piatti, bicchieri, lampade e lanterne. Musica ad alto volume e chi più ne ha più ne metta. Due giorni di preparativi, per la conferenza e la cena di stasera che ha impedito anche l'accesso serale dei visitatori all'anfiteatro. Difficilmente dimenticherò le facce basite degli stranieri dei miei gruppi e il terribile effetto che mi ha fatto vedere dall'alto i corridoi del Colosseo pacchianamente addobbati a festa, una festa per pochi, pochissimi eletti. Franceschini scrive "pubblico e privato insieme per il patrimonio culturale". Io parlerei piuttosto di un "pubblico oggi privato del patrimonio culturale"».
Ecco che cosa vuol dire, in pratica, ridurre il Colosseo a location: una strada imboccata anche dall'altro grande anfiteatro, l'Arena di Verona, il cui "marchio" sarà ora gestito da una "società commerciale".
È la strada del ministro Franceschini, che quando non trama per sopravvivere a Renzi (come era sopravvissuto a Letta, e a una quantità difficilmente credibile di altri sodalizi), lavora per privatizzare ancora di più il nostro patrimonio culturale. La bandiera simbolica di questa politica riguarda ancora il Colosseo, con la ricostruzione dell'arena che ridurrà definitivamente il monumento a location di eventi per cittadini abbienti.
Una politica culturale che a Roma sembra, almeno a giudicare dai risultati elettorali, aver conquistato solo i cittadini dei quartieri più ricchi. Meglio così, d'altra parte: ai tavoli del Colosseo non ci sarebbe posto per tutti.
Il Fatto Quotidiano, 4 luglio 2016 (p.d.)
La lunghissima chiusura della Biblioteca Universitaria di Pisa è uno scandalo intollerabile, che deturpa l’immagine della città, umilia e depotenzia la ricerca, offende chiunque a Pisa abbia a cuore la cultura”. Salvatore Settis, strenuo difensore del paesaggio e della Costituzione, dal 1999 al 2010 direttore della Scuola Normale Superiore, non usa mezzi termini. C’è anche la sua firma all’appello lanciato da La Nazione per riaprire la Biblioteca universitaria “chiusa a tempo indeterminato”da un'ordinanza del 29 maggio 2012, come si legge nell'avviso esposto al pubblico.
Il motivo? Problemi di stabilità dell'edificio aggravatisi a seguito delle scosse di terremoto che hanno colpito l'Emilia. Peccato che la perizia del Dipartimento di Ingegneria civile e industriale della Facoltà di Ingegneria dell'Università di Pisa abbia contraddetto il provvedimento.
Oltre quattro anni non sono stati sufficienti per rendere fruibile un patrimonio librario straordinario. Unico. 600000 volumi, 4357 periodici, ma anche 1389 manoscritti, 161 incunaboli e 702 Cinquecentine. Numeri più che importanti che però non restituiscono a pieno il valore di quel luogo, il ruolo di quella biblioteca, ospitata dal 1823 nel Palazzo della Sapienza. A leggere nei cataloghi si fa fatica a selezionare le opere più significative. Bisogna averla provata la fortuna di camminarci nelle diverse sale di quel tempio della cultura. Il privilegio di trascorrerci del tempo, perdendosi nella lettura.
Certo, fra i fondi storici ci sono incunaboli di grande valore. Come alcune edizioni dell'Opera Omnia di Aristotele di epoca rinascimentale, oppure il Dante di Niccolò della Magna stampato a Firenze nel 1481 con le incisioni di Baccio Baldini su disegni del Botticelli. C'e anche il fondo storico delle Tesi di Laurea. Circa 20000 tesi manoscritte e dattiloscritte, datate dal 1868 fino alla prima metà del Novecento, tra le quali quelle di personalità politiche ed intellettuali come Enrico Fermi, Carlo Azeglio Ciampi, Carlo Ludovico Raggianti, Carlo Rubbia, oltre alle tesi di licenza di Giovanni Gentile e Giovanni Gronchi.
Ma a fare la differenza è quel che a lungo ha rappresentato. Non solo luogo di studio. Spazio, vitale, nel quale hanno esercitato spirito critico e senso civico tante generazioni. Una biblioteca moderna nella sua rispettabile antichità.
Finora a nulla sono serviti appelli, petizioni, lettere, assemblee e cortei. Perfino interrogazioni parlamentari. Nonostante sia nata anche un'Associazione, gli Amici della Bup, per “contribuire alla tutela del patrimonio documentario e librario” della struttura. La fruizione del tutto impossibile dopo l'esperimento del prestito e consultazione attivato presso la Residenza Universitaria “Nettuno”, dal giugno 2013 al marzo 2014. Ma anche nessun controllo, dal momento che l'accesso non è consentito neppure al personale. Al punto che una perdita d'acqua, prima della metà di giugno, ha provocato danni ad almeno un centinaio di libri. Non è neppure la prima volta. Si era già verificato alla fine dell'agosto 2015, a seguito del nubifragio che aveva investito la città. Insomma, una chiusura totale, senza manutenzione. Tanto più grave perchè non è possibile fare previsioni.
A settembre riaprirà la parte del Palazzo occupata dal dipartimento di Giurisprudenza, dopo un investimento, da parte di Regione, Fondazione Pisa, Ministero dei Beni culturali, Ministero dell'Istruzione e Università, di 13 milioni e 660mila euro. Si prepara l'inaugurazione. In compenso per la biblioteca nulla. Manca ancora l'approvazione al progetto di restauro. Che la prolungata impasse sia imputare al fatto che il Palazzo è di proprietà dell'Ateneo e quindi sotto il controllo del Miur, mentre la Biblioteca universitaria è gestita dal Mibact? E' probabile. Anche se la locale amministrazione, guidata dal sindaco Pd Marco Filippeschi, non sembra immune da colpe. Così come l'Ateneo presieduto dal Rettore Massimo Augello.
Ma aldilà delle reponsabilità, vere o presunte, rimane la chiusura scellerata alla quale si aggiunge una scriteriata delocalizzazione. Già, perchè dal 2014 gran parte delle riviste, oltre “una considerevole parte degli importanti seriali novecenteschi e contemporanei italiani e internazionali”, sono state trasportate presso il Complesso monumentale del Museo di San Matteo. In sintesi, un patrimonio sostanzialmente dilapidato. Già perché tra le tante implicazioni la chiusura della Biblioteca si porta dietro anche questa. La mancata possibilità di usufruire di libri e manoscritti. La privazione di un Bene comune. Tanto più colpevole perché perpetrata ai danni di giovani studiosi.
Così i libri continuano ad essere paradossalmente prigionieri. Paradossalmente, o forse no. Finchè “le istituzioni reagiranno con una sorta di blanda semi-indifferenza, rinviando la soluzione di mese in mese, di anno in anno”. Sembra non esserci futuro per la storia, a Pisa.
«Oltre sessant’anni fa è stato Antonio Cederna a fare dell’Appia uno specchio del Paese: uno specchio capace di svelare la struggente bellezza dell’Italia lontana dai feticci del turismo globale, ma anche l’abisso di stoltezza con cui abbiamo distrutto quella bellezza.». La Repubblica,5 giugno 2016 (c.m.c.)
I piedi , gli occhi,il cuore di Paolo Rumiz e dei suoi compagni di viaggio: cosa avrebbe potuto chiedere di più la vecchia Via Appia, regina delle strade? Sembrerà strano, ma era da un tempo infinito che nessuno prendeva l’Appia per il suo verso: che è quello di essere una strada. Una strada da percorrere tutta, senza badare ai confini tra le regioni o i comuni, tra lo spazio pubblico e l’aggressione dei privati (abusivi o no), tra il bello e il brutto, tra la storia e la sua negazione, tra il monumentale e il demenziale.
Come tutti i pellegrinaggi religiosi, il Cammino di Santiago promette, a chi lo percorre con fede, indulgenze e remissione dei peccati. Agli italiani che la percorreranno con incrollabile fede nella propria umanità l’Appia promette, invece — oltre ai piaceri della carne e dello spirito irresistibilmente cantati da Rumiz — la conversione alla saggezza più alta, e meno diffusa: quella dell’uso sostenibile del nostro territorio, della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale, del primato dell’interesse pubblico su quello privato.
Oltre sessant’anni fa è stato Antonio Cederna a fare dell’Appia uno specchio del Paese: uno specchio capace di svelare la struggente bellezza dell’Italia lontana dai feticci del turismo globale, ma anche l’abisso di stoltezza con cui abbiamo distrutto quella bellezza. Intervenendo all’assemblea di Confindustria, dieci giorni fa, il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini ha detto che «siamo un Paese che ha investito tantissimo in tutela. Abbiamo fatto bene: abbiamo vinto quella battaglia, abbiamo punte di eccellenza. Ma non abbiamo investito altrettanto in valorizzazione».
Ecco, percorrere l’Appia significa sbattere contro l’evidenza del contrario: non abbiamo affatto vinto la battaglia della tutela. E rischia di fare enormi danni una retorica che fondi su questo abbaglio la stagione di una valorizzazione pigliatutto. Questo è il punto: l’idea (fortissima, popolare, vincente) dell’Appia come del nostro Cammino di Santiago non deve ridursi a un brand, a un Grande Progetto, a un format fatto di segnaletica e app per l’iPhone, magari con la partecipazione decisiva delle società che hanno sventrato il Paese con Grandi Opere inutili. E che il concorso appena bandito per altri dieci supermusei preveda che l’Appia venga sottratta alla soprintendenza e sia invece affidata a un superdirettore (che potrebbe essere benissimo un esperto di marketing, come è accaduto per la Reggia di Caserta) cui dovrebbe spettare anche la tutela paesaggistica e archeologica è passo decisivo in quella pessima direzione.
Chissà se un giorno potrà tradursi in realtà un altro modo di pensare: chissà se avremo mai una soprintendenza unica per tutta l’Appia, da Roma a Brindisi. Una soprintendenza popolata di diecine di giovani archeologi capaci di scavare, sistemare, tutelare e raccontare ai cittadini la nostra storia straordinaria. Una struttura capace di produrre insieme difesa del territorio, ricerca, conoscenza e piacere diffuso: capace di farci attraversare questa strada unica al mondo non come clienti o consumatori, ma come pellegrini della conoscenza gratuita. Non come numeri da esibire nelle statistiche ministeriali, ma come persone: alla ricerca di quel «pieno sviluppo della persona umana» (articolo 3 della Costituzione) che è il vero scopo di ciò che chiamiamo patrimonio culturale.
Un progetto carico di futuro: e che magari sarà realizzato da un ministro per i beni culturali che da bambino avrà percorso tutta l’Appia con gli occhi spalancati, il cuore aperto e il cervello acceso. E con in tasca il libro di Paolo Rumiz.
Il Fatto Quotidiano, 5 giugno 2016
E così, con circa un mese di ritardo rispetto allo strombazzatissimo annuncio, è dunque arrivato il concorsone da 500 posti per funzionario tecnico nel Ministero dei Beni Culturali. In tempi di delegittimazione costante della pubblica amministrazione 500 posti fissi per laureati in materie umanistiche sono decisamente in controtendenza. Senonchè, se si va oltre la superficie governativa del #cambioverso, l'iniziativa è destinata ad un drastico ridimensionamento quanto a impatto sul sistema della tutela.
I posti messi a concorso copriranno a stento la metà di buchi d'organico provocati dai pensionamenti di qui all'ingresso effettivo dei futuri vincitori. Nonostante il suddetto organico avesse subito, ad opera di questo Ministro, una robustissima potatura, da 25.000 a 19.050 posti complessivi.
Tagli operati sulla sola base di esigenze di risparmio e in pieno clima di ridimensionamento della macchina statale, senza un'analisi dei bisogni del territorio e pur a fronte di una riorganizzazione ministeriale - la così detta "riforma" Franceschini - destinata a scardinare il ministero creando dal nulla decine di nuove strutture (i musei autonomi e i poli museali).
Che uno dei punti deboli della riforma Mibact fosse proprio quello del personale, insufficiente in numero e per di più con età media avanzatissima, lo si era già capito nei mesi scorsi, a fronte di situazioni paradossali che si erano create in seguito alla suddivisione dei funzionari fra musei, poli e Soprintendenze, operata con modalità estemporanee e opache, all'insegna dell'autogestione: tanto per fare un solo esempio, la Galleria Borghese, Museo promosso fra quelli di serie "A", annovera nel suo staff un solo storico d'arte.
Con il gusto del surreale proprio dell'alta burocrazia ministeriale, il concorso ignora, nella ripartizione fra le varie specializzazioni (architetti, archeologi, bibliotecari, antropologi, archivisti, ecc.) non solo le esigenze specifiche dei territori, ma anche la stessa riforma. Pur di fronte alla moltiplicazione degli istituti autonomi e dei centri di spesa, non è previsto neppure un posto per funzionari amministrativi.
Quanto ai tecnici, la ridicola quota prevista per i bibliotecari (25 posti), a fronte di istituzioni che - anche a livello di biblioteche nazionali, come quella di Firenze - stentano ad assicurare i più elementari servizi, nonchè orari di apertura decorosi, ha provocato, in pochi giorni, le dimissioni dell'intero Comitato tecnico scientifico ministeriale per le biblioteche e dello studioso di biblioteconomia, Giovanni Solimine, nominato in seno al Consiglio Superiore dei Beni Culturali.
Era noto da tempo che 500 posti non fossero sufficienti ad invertire il processo di declino della struttura Mibact, ma servivano a stento a mantenerla all'attuale livello di galleggiamento.
A maggior ragione, ne andava pianificata una ripartizione oculatissima, mentre invece gli squilibri sono evidenti non solo fra le varie specialità disciplinari, ma soprattutto per quanto riguarda le aree geografiche: fortemente penalizzato, in tutte le discipline messe a concorso, è il meridione (alla faccia della propaganda renziana sulla cultura come motore di un nuovo sviluppo del mezzogiorno), mentre troviamo una concentrazione di "offerta" nel Lazio, cioè a Roma, cioè nella sede centrale del Ministero.
Il Collegio Romano continuerà così ad essere un Moloch che drena risorse di ogni tipo a danno dei territori.
Fin dalla partenza il concorsone rivela la sua natura di rimedio una tantum, inutile nel medio-lungo termine. Già da molti anni il nostro sistema di tutela si regge non solo grazie ad un personale invecchiato e sempre più demotivato, ma, in percentuale sempre maggiore, sulle spalle di migliaia di precari laureati e spesso specializzati e dottorati che, con contratti al limite della dignità professionale, garantiscono servizi essenziali, dalla catalogazione di biblioteche e archivi, all'apertura di musei e luoghi della cultura, alla gestione di tutti gli scavi di archeologia preventiva.
È una situazione da risolvere attraverso una nuova e diversa politica occupazionale che garantisca regole certe, trattamenti continuativi - non necessariamente il solo "posto fisso" - ma incentivando con ogni mezzo l'imprenditoria culturale giovanile: questa sarebbe la vera riforma, l'unica utile a "cambiare verso".
Firenze è un corpo fragile. Nel gennaio del 2012 venne giù un enorme blocco dalla storica Colonna della Dovizia, nella centralissima piazza della Repubblica: solo per miracolo non fu una strage.
La patina dorata della città-vetrina coprì presto quelle macerie: e tutto fu dimenticato. Oggi lo spettacolare sfaldamento di un Lungarno, a un passo da Ponte Vecchio e di fronte agli Uffizi, innesca un ben più potente campanello d’allarme: basterà?
La prima cura di cui le città storiche hanno bisogno è assicurare che al loro corpo fragile non manchi il sangue vivo: che sono i cittadini, i residenti stabili. Firenze, da questo cruciale punto di vista, è in caduta libera: mentre gli abitanti scendono vertiginosamente (dal record di 500mila siamo ora a 370mila), la monocultura del turismo scommette di portare la quota annuale dei visitatori fino al tetto fatidico dei venti milioni. In questo quadro di declino civile e urbano, anche scelte come la pedonalizzazione di piazza del Duomo si sono rivelate dei fatali boomerang: perché, in assenza di una pianificazione adeguata del trasporto pubblico, hanno di fatto desertificato un’altra porzione cruciale della Firenze monumentale.
Qualche settimana fa, su un Lungarno non lontano dal crollo, è comparsa una grande scritta: «No gentrification». Fa una certa impressione che una difficile parola della sociologia urbana (che indica appunto la disneyficazione delle città, con relativa espulsione dei residenti) diventi una bandiera della comunicazione dal basso. È la città dei fiorentini a parlare: quella che teme di finire come Venezia, che è ormai una meravigliosa quinta disabitata.
Come nella Venezia del Mose, anche a Firenze ci si illude di supplire alla mancanza di manutenzione ordinaria attraverso le Grandi Opere: aggiungendo così danno a danno, pericolo a pericolo. Torna in questi giorni attuale la dissennata idea di scavare l’ennesimo, inutile parcheggio sotterraneo in piazza Brunelleschi: cioè a due passi dalla fragile Cupola del Duomo. Ma c’è di peggio: incombe il progetto di sventrare il centro storico per interrare la rete della tranvia, e non si è ancora abbandonato il dispendiosissimo, antiquato e potenzialmente fatale sottoattraversamento Tav della città ottocentesca e delle sue falde acquifere.
Non basta: è prossimo l’ampliamento di un aeroporto che rimarrà comunque da operetta (l’unica scelta sensata era raddoppiare quello di Pisa, e creare una navetta veloce come in una qualunque metropoli occidentale), ma sconvolgerà l’equilibrio idrogeologico della piana fiorentina. Le immagini del Lungarno Torrigiani sventrato sono un monito contro tutto ciò: nessuno potrà più dire che non sapeva quanto il corpo di Firenze sia fragile, delicato, esposto.
Più in generale, invece di continuare a massacrare il tessuto dei nostri centri storici, dobbiamo ricominciare a prendercene cura. Amiamo le nostre città perché la loro bellezza è stata plasmata da una lunga storia: ma quella stessa storia ha prodotto cicatrici, debolezze, pericoli che non possiamo ignorare.
È difficile tenerlo a mente in un’epoca che rimuove i segni del passaggio del tempo dai corpi vivi delle donne e degli uomini, e anche dai corpi (non meno vivi) delle opere d’arte più celebri, condannate ad un continuo, terribile lifting che ambisce a cancellare la storia e troppo spesso ci restituisce una bellezza astratta, disumana, inutile. È difficile perfino saperlo, in un Paese dove invece di muoverci noi alla scoperta delle nostre mille città storiche, preferiamo “movimentare” ogni anno 25.000 tra reperti archeologici e opere antiche e moderne per alimentare un’insensata industria delle mostre. È difficile riconoscerlo di fronte a una politica che rottama le soprintendenze, sradica i grandi musei dal territorio e usa i centri storici come location.
Siamo pronti a usare il Colosseo come un palasport, a far suonare Elton John nel teatro di Pompei, a coprire l’Arena di Verona come un auditorium: consumare, valorizzare, sfruttare sembrano le uniche parole d’ordine. Ci sentiamo gli utilizzatori finali di un patrimonio millenario. Sia chiaro: le città sono fatte per essere vissute, e non dobbiamo scegliere tra passato e futuro. Il punto, però, è costruire un futuro sostenibile, riprendendo ad investire sulla manutenzione ordinaria e sul governo del territorio.
Già nel 1955 Leo Longanesi scriveva che «alla manutenzione l’Italia preferisce l’inaugurazione», e uno storico dell’arte come Giovanni Urbani - il quale concepiva invece il restauro come una conservazione generale dell’ecosistema di ambiente e arte, fondata su una manutenzione programmata - dovette dimettersi dalla direzione dell’Istituto Centrale del Restauro per la completa sordità della politica. Gli amministratori sanno che la gestione ordinaria non dà visibilità, gloria mediatica, ritorno di consenso: e dunque spingono sul pedale degli eventi, delle grandi opere o dei restauri ad effetto.
Dobbiamo guarire da questa cecità. Se vogliamo dare un senso a quella ferita nel cuore di Firenze dobbiamo riacquistare una dedizione quotidiana alla salute delle nostre città: in fondo è proprio così che è nata, lentamente, la loro bellezza. Una bellezza di cui siamo custodi, non padroni.
La Repubblica, 20 maggio 2016 (m.p.g.)
Nel passaggio da una democrazia rappresentativa ad una democrazia d’investitura assume un ruolo centrale – lo ha ricordato su queste pagine Stefano Rodotà – il rapporto diretto tra il capo e la folla. Questo rapporto tende a delegittimare, e quindi a far saltare, i corpi intermedi: specie quelli che non poggiano sul consenso, ma sul sapere tecnico o scientifico. Da questo punto di vista, ciò che sta accadendo nel governo del patrimonio culturale italiano appare particolarmente significativo.
Fin da quando era sindaco di Firenze, l’attuale presidente del Consiglio ha eletto il discorso sull’arte come terreno privilegiato del suo dialogo diretto con il popolo. La ricerca (ovviamente infruttuosa, perché affrontata fuori da ogni protocollo scientifico) della Battaglia di Anghiari di Leonardo in Palazzo Vecchio permise di costruire una campagna di comunicazione contro la comunità scientifica internazionale degli storici dell’arte: il sindaco li definì «presunti scienziati», accusati di non essere «stupiti dal mistero» a causa di un «pregiudizio ideologico».
Allo stesso periodo risale il duro giudizio sul sistema di tutela del patrimonio basato sull’autonomia tecnico-scientifica: «Sovrintendente – scrisse Renzi in un suo libro – è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che?»Oggi che tutto questo è divenuto programma di governo (concretizzatosi nel silenzio-assenso e nella confluenza delle soprintendenze, accorpate e avviate verso l’irrilevanza, nelle prefetture), il leader torna a parlare di arte direttamente alla folla.
Renzi ha annunciato che «ci sono, pronti, 150 milioni di euro che vanno assegnati entro il 10 agosto. Le segnalazioni dovranno arrivare entro il 31 maggio. Pompei e gli Uffizi aiutano l'Italia a tornare orgogliosa di se stessa, bene! Ma abbiamo bisogno anche del piccolo borgo dimenticato o del museo abbandonato o della chiesetta da ristrutturare. E meglio ancora se un gruppo di cittadini, una associazione, una proloco, una cooperativa, una impresa innovativa si offre di gestire questi beni come luoghi dell'anima per la comunità. Dunque, scrivete a bellezza@governo.it». La semantica è esplicitamente commerciale: i monumenti devono «ripartire», come se fossero aziende; le chiese non si restaurano, ma si «ristrutturano»; i siti restaurati con denaro pubblico possono venire affidati in «gestione» indifferentemente a gruppi di cittadini o a «imprese». Alla tutela pubblica sistematica del patrimonio diffuso (prescritta dall’articolo 9 della Costituzione) subentra una sorta di lotteria in cui i cittadini sono invitati a rivolgersi direttamente al capo, ormai libero dal corpo intermedio dei professionisti della tutela e unico difensore della «bellezza». È come se si accorpassero e si depotenziassero gli ospedali e gli ambulatori dei medici di base, e poi il presidente del consiglio chiedesse di segnalare alcuni malati all’indirizzo guarigione@governo.it, dicendo che i «più votati» saranno risanati.
Da un punto di vista della tutela, questa svolta significa un arretramento secolare: la rinuncia a salvare tutto il patrimonio, la scelta di concentrarsi sui grandi siti redditizi (che hanno ricevuto 850 milioni sul miliardo stanziato il primo maggio) e di destinare una quota residuale (il restante 15%) a qualche monumento ‘minore’, in una sorta di ribaltamento per cui è ora lo Stato ad adottare il format dei «luoghi del cuore» del Fai. Da un punto di vista politico questa svolta sancisce l’irrilevanza del Ministero per i Beni culturali, dimostrata dal sempre più frequente oscuramento di Franceschini da parte del premier.
Da un punto di vista culturale, infine, questa antologizzazione del patrimonio attraverso il televoto significa l’abbandono della dimensione storica: Renzi aveva scritto, in quello stesso libro, che la bellezza «se è morta non è bellezza, al massimo può essere storia dell’arte, ma non suscita emozione». È questo il progetto del governo anche per quanto riguarda la formazione: la ministra Giannini ha spiegato che «quello che serve oggi nella vita non sono contenuti di una materia o di un'altra: per questo non abbiamo messo più ore di storia dell'arte». E nell’illustrazione ufficiale della Buona Scuola si legge che gli studenti non dovranno studiare la storia dell’arte, ma «valorizzare le nostre meraviglie artistiche all'interno dell'offerta turistica, anche scegliendo strade imprenditoriali».
Che la direzione sia decisamente mercatista lo ha spiegato senza filtri la stessa Giannini, dichiarando, il 4 maggio scorso, che «l’Italia paga un’impostazione eccessivamente teorica del sistema d'istruzione, legata alle nostre radici classiche. Sapere non significa necessariamente saper fare. Per formare persone altamente qualificate come il mercato richiede è necessario imprimere un'impronta più pratica all'istruzione italiana, svincolandola dai limiti che possono derivare da un’impostazione classica e troppo teorica».
Forse è arrivato il momento di chiederci quale sia il ruolo del sapere in una democrazia d’investitura dominata dalle richieste del mercato.
Il manifesto, 19 maggio 2016
«So chi mi vuole morto». Giuseppe Antoci è provato. In ospedale, sotto shock, abbraccia la moglie, i figli. Con lui c’è Rosario Crocetta che tre anni fa lo ha voluto alla guida del Parco dei NebNebrodiordi per fare pulizia della mafia tortoriciana, alleata con i clan dei Santapaola, che lucra sui terreni pubblici grazie a connivenze. Antoci è scosso. Davanti a sé ha immagini confuse, caotiche. Nelle orecchie l’eco degli spari. «Sono vivo per miracolo, mi hanno salvato gli agenti di scorta», ripete. È il racconto di un sopravvissuto.
È l’una di notte, tra martedì e mercoledì. Antoci sta rientrando a casa, a Santo Stefano di Camastra, due ore di strada da Palermo e due da Messina, dopo una cena per l’apertura di un albergo, a Cesarò. È stanco. Si accomoda sul sedile posteriore della blindata, una Lancia Thema, e si addormenta mentre l’auto è in viaggio. Alla guida c’è uno dei due agenti di scorta. Due anni fa Antoci aveva ricevuto il primo avvertimento. «Finirai scannatu tu e Crocetta», c’è scritto in quella lettera spedita da Sant’Agata di Militello, nel messinese. L’anno successivo il secondo avvertimento. Il centro di smistamento delle Poste di Palermo intercetta una busta con due proiettili diretti ad Antoci e al dirigente del commissariato di Sant’Agata di Militello, Daniele Manganaro. Il comitato per l’ordine e la sicurezza gli assegna la tutela.
Sulla provinciale è buio pesto, tra i comuni di Cesarò e San Fratello. Dietro la blindata a bordo di un’altra auto c’è il vicequestore Manganaro, commissario a Sant’Agata, che sta rientrando con un collega. Anche loro sono reduci dalla cena, trascorsa assieme ad Antoci e ad altri.
All’improvviso la blindata del dirigente rallenta: in mezzo alla strada ci sono dei massi. E soprattutto c’è una vettura messa di traverso. L’agente alla guida, frena. Antoci si sveglia. È un attimo. Poi il caos. Dall’auto di traverso vengono esplosi diversi colpi d’arma da fuoco: tre vanno a segno, forando lo sportello posteriore sinistro della blindata, proprio dove è seduto il presidente del Parco. Il vice questore Manganaro risponde subito al fuoco, anche i due agenti di scorta sparano. Gli attentatori, «quattro o sei» persone racconterà poi Antoci agli investigatori, fuggono in auto. Gli agenti continuano a sparare nell’oscurità, seguendo le luci posteriori della vettura in fuga. Sull’asfalto ci sono tracce di sangue, probabilmente uno dei componenti della banda è rimasto ferito. Non solo. Gli investigatori, giunti nel luogo dell’agguato, scoprono un altro elemento ancora più inquietante: vengono rinvenute due molotov. Il commando, secondo gli investigatori, non avrebbe avuto il tempo di lanciarle per la prontezza di reazione dei poliziotti. «È probabile che volessero incendiare l’auto obbligandoci a scendere, per essere bersagli più facili da colpire e uccidere», è convinto Antoci.
Laurea in Economia e commercio, capo area in Sicilia della Banca Sviluppo, azienda di credito sorta nel 2000 e con sede in otto regioni, Antoci, 48 anni, alle politiche del febbraio 2013 si candidò al Senato con Il Megafono, movimento fondato da Crocetta; ma non venne eletto. Poi la nomina alla guida del Parco, per otto anni gestita da commissari, che nell’area dei Nebrodi rompe quella sorta di “patto sociale” che andava avanti da decenni e che consentiva l’utilizzo per pascolo, a canoni irrisori, dei terreni demaniali. Alla rottura contribuisce anche il sindaco di Troina (Enna), Fabio Venezia, anche lui sotto scorta per le numerose minacce ricevute. Quando Troina si aggiunge agli originari comuni del Parco porta in dote 4.200 ettari di terreni a pascolo che il sindaco rifiuta di concedere alle solite condizioni. Antoci trova un alleato e comincia la serrata verifica dei contratti, su impulso del governatore Crocetta che lo affianca nella battaglia di legalità.
L’allargamento dei controlli (il Parco ha un’estensione di 86 mila ettari e comprende 24 comuni) e la richiesta di certificazione antimafia e dei carichi pendenti avviene anche per chi intende stipulare o rinnovare contratti di piccolo importo, e comunque ben al di sotto della soglia prevista per legge. Alcuni beneficiari si rivolgono al Tar, perdono. Alcune concessioni di terreni vengono revocate e dai tribunali arrivano sentenze che inchiodano gli affittuari, che insieme ai privilegi concessori perdono anche i lauti finanziamenti dell’Unione europea, calcolati sugli ettari a disposizione. Un affare milionario osteggiato dal presidente del Parco dei Nebrodi anche attraverso un protocollo di legalità firmato con la Prefettura di Messina, nel marzo del 2015.
Il tentato omicidio del presidente del Parco regionale dei Nebrodi non è un fatto isolato, anche se finora in nessun parco naturale si era giunti a tanto. Quest’inverno una testa di capretto mozzata è stata appoggiata sul cofano dell’auto del presidente del Parco d’Aspromonte, che aveva già subito negli anni scorsi diverse minacce (con relativi proiettili in buste consegnate dal postino). Ed in passato anche i presidenti del Parco del Pollino, del Salento e del Vesuvio, che faceva abbattere le case abusive, avevano subito minacce. Ma, l’assalto più pesante, anche se poco conosciuto, è quello che le aree protette subiscono in tutto il mondo a causa di questo modello di sviluppo.
Secondo la Iucn, l’International Union for the Conservation Nature, la superficie delle aree protette nel mondo è pari oggi a circa il 13 per cento delle terre emerse. Ne fanno parte tanto le riserve naturali a conservazione integrale, quanto i parchi naturali, che si distinguono in nazionali e regionali ed hanno un livello di protezione ambientale articolato in base al grado di antropizzazione dell’area. In Italia l’estensione delle aree protette è cresciuta esponenzialmente pochi anni dopo che è stata varata la legge 394/91, fortemente voluta dai Verdi e dal primo ministro per l’Ambiente Giorgio Ruffolo.
Si è passati così da 5 parchi naturali nazionali esistenti al 1991 ai 23 di oggi, più un centinaio di parchi naturali regionali e riserve di natura integrali. Purtroppo, a questa crescita quantitativa si è accompagnata, in tutto il pianeta, una perdita di qualità e valore d’uso dei parchi naturali, soggetti agli attacchi di interessi economici grandi e piccoli, a quella «guerra al vivente» ben descritta e documentata da Jean Paul Berlan (Bollati-Boringhieri, 2001).
Dall’Alaska alla Colombia, dall’Equador alla Nigeria, dall’Australia ai grandi laghi della Federazione Russa, la guerra economica ai parchi naturali viene condotta in nome del progresso e dello sviluppo. Le leggi nazionali vengono fatte a pezzi, gli Stati concedono deroghe e contraddicono se stessi, premettendo alle imprese multinazionali di sfruttare risorse naturali, far passare oleodotti, scavare nuove miniere, sfruttare le rocce bituminose ( shale gas), come nei parchi delle Rocky Mountains. Un caso emblematico, che è stato raccontato su questo giornale da Giuseppe Di Marzo e dalla indimenticabile Giuseppina Ciuffreda, è quello degli indios U’wa nel Nord della Colombia.
La multinazionale nordamericana Oxy aveva ottenuto dal governo colombiano la possibilità di sfruttare il petrolio presente nelle montagne dove vivono da sempre gli U’wa. Era sempre andata bene alla Oxy (Occidental) come alle altre multinazionali presenti nel paese dei narcotraficantes. Bastava pagare qualche tangente, al governo e/o alla guerriglia o, più spesso, a tutti e due, e le cose si mettevano a posto. Non avevano considerato che in quelle montagne viveva un popolo che aveva ancora una cultura, un’identità e un credo. Non sapevano che per gli U’wa «il petrolio è il sangue della terra , le sue vene, che gli danno la vita» . Se togli il petrolio a quelle montagne è come se togliessi il sangue ad un uomo. Non pensavano che un piccolo popolo potesse arrivare a far causa ad una potente impresa multinazionale, che arrivasse a vincere la causa di fronte ad un tribunale degli Stati Uniti. E’ una storia che ha un grande significato: quando un luogo ha una forte valenza simbolica per un popolo non è in vendita, non c’è denaro, né tangenti che possano renderlo merce. Come ci ha mostrato Karl Polanyi in La sussistenza dell’uomo, la conquista economica di un territorio è preceduta dalla sua disintegrazione culturale.
Da una parte, il mito del Progresso e dello Sviluppo, che sottende i grandi interessi economici, dall’altra popolazione locali ed associazioni ambientaliste con pochi mezzi, che lottano per la sopravvivenza di siti naturali, di parchi e riserve di biosfera. E’ una lotta che nell’era del neoliberismo trionfante diventa sempre più dura, anche nel nostro paese.
E’ da quando Altiero Matteoli è diventato ministro dell’Ambiente nel 2001 che è iniziato in Italia un lento ed inesorabile piano di emarginazione, sterilizzazione delle velleità di autonomia e tutela ambientale dei Parchi nazionali e regionali.
Dopo la fortunata parentesi di Edo Ronchi, il ministero dell’Ambiente è stato gestito, non solo dal centro destra, sempre più come stampella per i disegni di grandi investimenti e grandi opere nel nostro paese: dalla Tav al Ponte sullo Stretto, la V.i.a. (Valutazione di impatto ambientale) del Ministero dell’Ambiente è stata sempre positiva. Da Portofino, dove il parco regionale è stato fortemente ridimensionato, al Parco regionale di Bracciano oggetto di un grande progetto speculativo, al terzo traforo del Gran Sasso, nel cuore del Parco nazionale, che mette a repentaglio le risorse idriche di 800mila abitanti, all’aeroporto di Malpensa che impatto fortemente sul prezioso Parco del Ticino, polmone verde della metropoli, fino all’abuso di parchi eolici ed elettrodotti che attraversano parchi ed aree protette.
E questi sono alcuni casi fra i tanti, parte di un attacco quotidiano all’ambiente ed agli ecosistemi in cui ‘ndrangheta, camorra e mafia possono all’occasione costituire il braccio armato di interessi locali e/o internazionali, ma i mandanti sono altrove.
Italia Nostra sezione di Modena, 16 maggio 2016 (p.d.)
Si deve riconoscere al ministro Franceschini una speciale capacità di iniziativa, uno straordinario impegno politico. Risparmiato dal radicale ricambio, nella compagine governativa del giovane presidente del consiglio è l’unico esponente della classe politica del partito di cui era stato segretario (sia pure in una fase di transizione). Il ministero che gli è assegnato, nella considerazione comparativa dei ruoli, occupa una posizione non primaria, anzi tradizionalmente residuale. Ma il nuovo titolare si sente “alla guida del più importante ministero economico italiano”.
Il ministero voluto da Spadolini nel 1974 (istituito come si ricorderà per decreto legge) che Veltroni, il vicepresidente di Prodi, aveva voluto rifondare nel 1998 come nuovo ministero per i beni e le attività culturali, era stato da appena un anno caricato dal precedente governo Letta – legge n.71 del 2013 – delle attribuzioni nella materia del turismo trasferite dalla presidenza del consiglio. Un connubio imbarazzante (perché non al ministero dello sviluppo economico?) voluto nell’implicito ma certo presupposto che la tutela del patrimonio storico e artistico e del paesaggio debba fare i conti con il turismo se non proprio ne sia l’ancella. La nuova attribuzione è recente e ancora non ci si è misurati nel compito della non facile armonizzazione, oltre alla messa in coda alla denominazione del ministero di quel compito aggiunto, la T finale dell’acronimo MIBACT con qualche difficoltà di pronuncia.
Ebbene il governo Renzi è operante dalla fine del febbraio 2014 e già nel maggio il ministro Franceschini propone al consiglio dei ministri, che glielo approva il 31 di quel mese, il d. l. (n. 83) con le “disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo”. Sarà convertito in legge (28 luglio 2014, n. 106) e registrato dalla stampa e dalla distratta opinione dei non addetti come il provvedimento dell’art-bonus, dal suo primo articolo che riconosce il credito di imposta nella misura del 65 per cento – ma poi del 50 per cento – alle erogazioni liberali in denaro a favore di manutenzione e restauro di beni culturali pubblici, a istituti e luoghi di cultura di appartenenza pubblica e alle fondazioni lirico-sinfoniche. Sono sedici misure disparate, sette delle quali a sostegno del turismo, dalle quali non è dato di risalire a un disegno organico (se non l’inseguimento delle proclamate urgenze, ma è difficile cogliere i casi straordinari di necessità che legittimerebbero il decreto legge). Mi limito a dar conto di due disposizioni che riflettono una attitudine di insofferenza verso l’esercizio ordinario della tutela: l’ulteriore semplificazione dei procedimenti di autorizzazione paesaggistica e la costituzione delle commissioni così dette di garanzia per il riesame dei provvedimenti dati dai soprintendenti nell’esercizio della tutela, fino a convertire in sì il diniego dato in sede di conferenza di servizi: una misura questa, introdotta con la legge di conversione, gravemente lesiva della autonomia tecnico-scientifica dei soprintendenti. Nessuna preoccupazione di armonizzare tra loro le discipline di tutela e turismo, essendo le misure di “rilancio del turismo” (articoli 9, 10 11, 11-bis 13, 13-bis) del tutto indifferenti rispetto ai provvedimenti di promozione del patrimonio culturale.
Ma è nell’articolo 14 di questo decreto legge convertito che sta il germe della più ambiziosa riorganizzazione del ministero, essendo appunto qui date le misure urgenti per quell’obbiettivo e “per il rilancio dei musei”, con modifiche all’art. 54 del d.lgs. 300 del 1999 di organizzazione del governo, per consentire al ministro l’adozione di misure di riordino al dichiarato fine di conseguire ulteriori riduzioni di spesa (oltre a quello, francamente pretestuoso, di migliore gestione degli interventi a seguito di eventi calamitosi), introdotto innanzitutto (a smentire quel fine) un vistoso rafforzamento della struttura burocratica centrale dove il numero degli uffici dirigenziali generali “non può essere superiore a 24”, contro le dieci direzioni generali coordinate da un segretario del vigente ordinamento secondo il decreto legislativo del 1999, così modificato. Al ministro è data la facoltà di riorganizzare con propri decreti e in via temporanea gli uffici del ministero esistenti nelle aree colpite da eventi calamitosi; e di trasformare in soprintendenze dotate di autonomia scientifica, finanziaria, contabile e amministrativa i poli museali e gli istituti e i luoghi della cultura statali e gli uffici competenti su complessi di beni di eccezionale valore archeologico, storico, artistico o architettonico. Decisiva la modificazione introdotta nell’art. 14 in sede di conversione dove con enfasi francamente di maniera, al dichiarato fine di adeguare l’Italia agli standard internazionali in materia di musei e di migliorare la promozione della cultura, anche sotto il profilo della innovazione tecnologica e digitale, si rimette al regolamento di organizzazione del ministero “ai sensi della normativa vigente” di individuare i poli museali e gli istituti di cultura statali di rilevante interesse nazionale che costituiscono uffici dirigenziali. Con questo lessico burocratico è avviato, come sarà reso evidente dal consecutivo (non rimane che attendere giusto un mese) regolamento di riorganizzazione del 29 agosto, il processo di scorporo dalle soprintendenze dei musei che delle soprintendenze, fucine territoriali della tutela, sono storicamente essenziali elementi costitutivi. L’adeguamento agli standard internazionali si deve intendere perseguito dall’innovativo criterio di conferimento degli incarichi direttivi dei supermusei attraverso la selezione aperta alla partecipazione esterna al personale tecnico scientifico, perché qui c’è bisogno “di persone di particolare e comprovata qualificazione professionale in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali e in possesso di una documentata esperienza di elevato livello nella gestione di istituti e luoghi di cultura”. Per legge dunque una patente di incompetenza agli attuali direttori, la mortificazione del personale tecnico scientifico che ha maturato specifiche conoscenze e competenze nella prassi operosa della cura delle raccolte museali statali. Il ministro, lo ha detto e ripetuto, vuole un reclutamento dalle esperienze museali straniere che ben poco hanno in comune con le originalissime istituzioni del nostro paese.
Al ministro è bastato un mese (già si è detto) per proporre e far approvare dal consiglio dei ministri il regolamento di riorganizzazione del ministero, con vantati contenuti di radicale innovazione e con estensione alla materia del turismo recentemente trasferita dalla presidenza del consiglio (è lo stesso Franceschini a presentarlo alla stampa come “la rivoluzione dei beni culturali”), adottato con decreto del presidente del consiglio dei ministri in deviazione dalla disciplina dell’attività di governo e ordinamento della presidenza del consiglio (art.17 della legge 23 agosto 1984, n. 400) che vuole approvati con decreto del presidente della repubblica, previa deliberazione del consiglio dei ministri, e sentito il parere del consiglio di stato e delle competenti commissioni di camera e senato, i regolamenti di organizzazione e funzionamento delle amministrazioni pubbliche. Nel rispetto di questo vincolante modello erano stati approvati tutti i precedenti regolamenti di organizzazione del ministero beni culturali che si sono succeduti con irragionevole frequenza, rendendo persistentemente instabile l’assetto funzionale del ministero specie per i modi operativi degli uffici centrali. Ben quattro dall’inizio del secolo i provvedimenti regolamentari al riguardo (dpr 441/2000; dpr 173/2004; dpr 233/2007, infine dpr 91/2009). Ma ogni nuova scelta regolamentare è il risultato di una vasta partecipazione consultiva, aperta anche a contributi non istituzionali.
A questo modello (richiamato dal comma 3 dell’art.14 con la espressione: “ai sensi della normativa vigente”) si sarebbe dovuto attenere il regolamento di organizzazione del ministero beni attività culturali e turismo al quale il convertito decreto legge art-bonus rimette la individuazione di poli museali, istituti di cultura statali di rilevante interesse nazionale, uffici competenti su complessi di beni distinti da eccezionale valore archeologico, storico, artistico o architettonico, trasformati in soprintendenze dotate di autonomia scientifica, finanziaria, contabile e amministrativa.
E invece lo stesso titolo del regolamento approvato con il decreto del presidente del consiglio dei ministri 29 agosto 2014, n.171 indica la propria fonte primaria nell’art.16, comma 4, del d.l. 2 aprile 2014 n. 66, convertito con modificazioni dalla legge 23 giugno 2014, n. 89 (“misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale”) che consente di adottare i regolamenti di organizzazione dei ministeri in quella forma semplificata “al solo fine di realizzare interventi di riordino diretti ad assicurare ulteriori riduzioni di spesa”. Non sembra contestabile che il nuovo rivoluzionario, parola di Franceschini, regolamento di organizzazione del ministero cui il decreto legge art-bonus affida ben più impegnativi compiti con la sola avvertenza di non introdurre “nuovi e maggiori oneri per la finanza pubblica” (non di “assicurare ulteriori riduzioni di spesa”) non trovi in quella specialissima fonte la sua legittimazione e non sarebbe potuto sfuggire alla prescritta partecipazione consultiva istituzionale, per essere infine sottoposto alla firma del presidente della repubblica. Non si tratta di un mero vizio di forma, irrilevante nel merito dei contenuti, come ben si intende. Alla determinazione dei modi dichiaratamente innovativi di amministrare la funzione dell’articolo 9 della costituzione sono stati negati i contributi di parlamento e consiglio di stato.
Il preambolo dello stesso decreto “rileva[ta] la necessità di provvedere al riordino delle strutture organizzative del ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, dando esecuzione alle misure previste dall’art. 2, comma 10, del d.l. n. 95 del 2012”. Si tratta del provvedimento, convertito nella legge 7 agosto 2012, n. 135, che detta innanzitutto “disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica”, ricevuto generalmente come il tormento della spending review. Ebbene la disposizione di quel comma 10 dell’art. 2 consentiva di adottare, entro un breve termine (consecutivo comma 10-ter, ma poi due proroghe, la seconda al 28 febbraio 2014), i regolamenti di riordino e organizzazione dei ministeri interessati nella forma del decreto del presidente del consiglio dei ministri “al fine di semplificare ed accelerare il riordino previsto” appunto dalla spending review. E nel rispetto di quel termine aveva infatti provveduto il presidente del consiglio dei ministri adottando il regolamento di riorganizzazione del ministero per i beni e le attività culturali e il turismo con proprio decreto 28 febbraio 2014, salvato così in extremis il termine dell’ultima proroga. Ma questo decreto – regolamento fu “ritirato” il 30 giugno successivo, come dà conto il preambolo del decreto 171/2014 che qui discutiamo, “per consentire l’adeguamento dell’organizzazione del ministero a quanto disposto dal citato decreto-legge n. 83 del 2014”, dall’art.14 appunto di questo decreto art-bonus. Scaduto il termine del 28 febbraio 2014, alla attuazione delle misure previste dalla spending review non era più data la facoltà di provvedere con regolamento di organizzazione nelle forme semplificate e si sarebbe dovuto perciò adottare il modello ordinario con procedimento concluso da decreto del presidente della repubblica. Per altro il regolamento che sanziona la radicale riforma nei modi operativi di questo ramo della amministrazione dello stato, deputato ad attuare il primario compito assegnato alla repubblica dall’articolo 9 della costituzione, non corrisponde funzionalmente al modello dato al fine di semplificare ed accelerare il riordino della spending review. Neppure – a maggior ragione – può essere fatto rientrare a forza nella previsione di una norma speciale (l’art.16, comma 4, del d.l. n. 66 del 2014) che disciplina il regolamento adottato “al solo fine di realizzare interventi di riordino diretti ad assicurare ulteriori riduzioni di spesa”, come già abbiamo constatato, e che non può certo valere a conseguire il recupero del termine per l’attuazione tardiva delle misure dell’art. 2 del d.l. n. 95 del 2012, irrimediabilmente scaduto. Insomma, il preambolo del d.p.c.m. 171/2014 richiama congiuntamente, come la duplice fonte della potestà regolamentare che si intende esercitare, il d.l. 95/2012 (con le “misure urgenti della spending review”) e il d.l. 66/2014 (con le “misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale”), ma la prima fonte, se pur fosse stata idonea, è esaurita e la seconda non abilita, per certo, alla radicale riforma dell’assetto funzionale della amministrazione così al livello centrale come a quello periferico (ben oltre la esigenza di revisione della spesa e anzi in contrasto con l’esclusivo fine di “assicurare ulteriori riduzioni di spesa”). Riforma perseguibile necessariamente nel modo ordinario del partecipato procedimento, sanzionato infine dal decreto del presidente della repubblica (“ai sensi della normativa vigente”, come vuole l’art.14, comma 3, della legge 106/2014).
Dunque un regolamento di organizzazione illegittimo per l’indebito procedimento seguito, adottato sotto lo stimolo di una irragionevole urgenza (attivata la sola consulenza istituzionale-domestica del consiglio superiore per i beni culturali e paesaggistici), con instabili esiti, per altro, che ne hanno imposto come subito vedremo una correzione attraverso il conclusivo decreto ministeriale del gennaio scorso.
Rivoluzionario sì nel merito, l’illegittimo regolamento dell’agosto 2014. Italia Nostra vi ha colto la disarticolazione delle istituzioni di tutela, con la rottura del nesso organico tra soprintendenze e musei. E’ così portata al parossismo l’assurda scomposizione di tutela e valorizzazione, endiadi inscindibile, perché la valorizzazione è essenziale funzione della tutela. Una riforma che ignora la storia e la cultura della tutela nel nostro paese. Le soprintendenze sono nate come soprintendenze alle gallerie e le pubbliche raccolte dello stato unitario sono state le attive fucine della tutela del contestuale patrimonio diffuso nel territorio. Contro la storia e la natura stessa del patrimonio unitariamente concepito nel principio fondamentale dell’articolo 9 costituzione, è il rozzo artificio di questo assetto binario, ai musei l’esercizio della funzione di valorizzazione, alle soprintendenze, liberate dal peso dei musei, l’esercizio della funzione di tutela. L’esigenza di autonomia riconoscibile nei musei di speciali dimensioni ben può essere soddisfatta nell’ambito della organizzazione funzionale delle soprintendenze. Il regolamento dell’agosto 2014, dichiaratamente per esaltare le attrattive turistiche, opera una arbitraria selezione di qualità dei musei espulsi dalle soprintendenze (secondo due ordini di importanza, di prima e seconda categoria) riconosciuti degni di autonoma gestione, con reclutamento dei direttori in un concorso internazionale che ha poi privilegiato, attraverso un affrettato scrutinio dei titoli, le doti manageriali, non certo le specifiche competenze di studio e conoscenza delle singole raccolte, maturate negli anni all’interno degli stessi istituti. Con mortificazione del personale tecnico scientifico addetto e con esiti di qualità che ben sarebbe stata assicurata, per fare due soli esempi, da Natali agli Uffizi e da Casciu alla Galleria Estense. Tutti gli altri musei, ritenuti minori (come la pinacoteca nazionale di Bologna!) secondo una assurda gerarchia, sono stati assemblati in una struttura burocratica, il polo museale, modellata non certo per riconosciute aree culturali, ma secondo il ritaglio del territorio regionale, mentre tutti super musei e poli fanno capo ad una apposita direzione generale secondo una astratta geometria piramidale, concettualmente e funzionalmente ingiustificabile, caricata del compito scolastico di presiedere allo sfuggente sistema museale nazionale, come se si trattasse di creare dal nulla la costellazione di moderni istituti espositivi. Un sistema, sì, in radicale contrasto con la originale storia delle nostre istituzioni di tutela, mantenuto saldamente nelle mani del ministro che non solo nomina i direttori dei supermusei, ma si è pure riservato di scegliere fiduciariamente chi ne andrà a costituire i consigli di amministrazione, in quel disegno di singolare complessità che vuole pure i comitati scientifici (aperti alla rappresentanza di regione e comune di sede, funzionalmente incompatibile, si direbbe, con lo speciale ruolo dell’organo), dentro la griglia di un apposito statuto, irrinunciabile espressione, si deve intendere, della riconosciuta autonomia.
All’artificioso accorpamento dei musei “minori” nei poli museali fa riscontro l’assemblaggio di tutte le soprintendenze di merito, attuato in due consecutive fasi, dapprima con il regolamento dell’agosto 2014 tra quelle ai beni storico artistici e ai beni architettonici (così costituita la soprintendenza alle belle arti e al paesaggio: la civetteria della riesumazione del lessico desueto) e infine con il decreto ministeriale del gennaio scorso anche di quelle all’archeologia. Ne sono risultati sconvolti consolidati assetti funzionali e di servizi specie per le soprintendenze all’archeologia organizzate unitariamente per vaste aree culturali, strutturate sedi di studio, ricerca, scavi, con dotazione di archivi, cataloghi biblioteche, forzatamente oggi frantumate nelle più numerose sedi di destinazione, private infine della diretta responsabilità di gestione di siti e musei archeologici, costituiti alcuni in istituti di riconosciuta autonomia, gli altri, i “minori”, attratti nell’insieme indistinto dei poli museali. Alla unificazione delle soprintendenze di merito, giustificata da una astratta esigenza di semplificazione nei rapporti con i privati interessati, e di indimostrata economia di spesa (un assetto periferico più agevolmente convertibile – certo – alla attesa subordinazione organica al prefetto), corrisponde al livello centrale la concentrazione in un’unica direzione generale dei compiti di tutela di patrimonio e paesaggio. Un impegno insostenibile, come con preoccupazione constatava alcuni giorni or sono Settis in una sua “opinione” su Repubblica, titolata “L’uomo solo al comando dei beni culturali”.
La fretta precipitosa del ministro nel dare attuazione tra luglio e agosto 2014 alla previsione di un regolamento di organizzazione del ministero ha prodotto questo procedere a singhiozzo in due fasi, con il decreto correttivo dello stesso ministro di questo gennaio che ha costituito la soprintendenza unica (assorbita anche quella all’archeologia) e ha allungato l’elenco dei musei e luoghi di cultura degni di autonoma gestione. Doppio lo stress operativo del conferimento degli incarichi direzionali, riaperto nuovamente il concorso per le soprintendenze ora unificate e per la corrispondente direzione generale. Per dare al ministro questa facoltà si è dovuta scomodare la legge di stabilità 2016, con il comma 327 del suo primo articolo (secondo il furbesco e pessimo modo di scrivere le leggi che governo e maggioranza vogliono approvare in fretta)). Di questo decreto ministeriale Italia Nostra ha segnalato una disposizione allarmante (l’art. 7, comma 2), quella che in pratica abilita al libero trasferimento dei beni da un museo all’altro del polo museale o tra i distinti istituti dello stesso supermuseo, così definitivamente smarrite le specifiche identità.
Per finire mi limiterei a leggere la conclusione del documento che il consiglio direttivo nazionale di Italia Nostra (“Completata la disarticolazione delle istituzioni di tutela. Un esito che investe la responsabilità del parlamento”) ha dedicato a questa inconsulta riforma.
“Di fronte allo sconvolgimento del consolidato sistema di diffusa presenza territoriale nel nesso solidale tra istituti museali e cura dei contesti di necessario riferimento, che costituisce la originale caratterizzazione della istituzione della tutela nel nostro paese (indicata come esemplare anche nel panorama europeo), sembra ad Italia Nostra che ne sia investita la responsabilità del Parlamento. Perché necessariamente verifichi se l’esito dei distinti e disorganici provvedimenti legislativi che pur hanno legittimato la recente riforma nella organizzazione del ministero della tutela di paesaggio e patrimonio storico e artistico abbia corrisposto alla esigenza di piena attuazione del precetto costituzionale o non abbia invece gravemente indebolito l’esercizio di una funzione della Repubblica cui è riconosciuto il ruolo di assoluta primarietà rispetto ad ogni altro interesse sia pure di rilevanza pubblica. E sappia quindi adottare le doverose misure, anche nella prospettiva della delegata riforma della pubblica amministrazione (escluse innanzitutto ogni presunzione di silenzio-assenso e la dipendenza delle soprintendenze dalle prefetture), idonee a ripristinare quel ruolo”.