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Italia S.p.A. si intitola il nuovo libro di Salvatore Settis (Einaudi, pagg. 149, euro 8,80). E´ un´accorata requisitoria sullo stato del nostro patrimonio artistico e sui rischi che corre la stessa identità nazionale se si usura quella parte della sua memoria.

La minaccia deriva da un inquietante paradosso, avverte Settis. Fu l´Italia a imporre nel mondo un modello di conservazione scaturito dalle corti rinascimentali e approdato, fra l´Unità e la seconda guerra mondiale, a una serie di saperi, di norme e di strutture che molti paesi, quando hanno potuto, hanno anche solo parzialmente riprodotto. Quel modello era fondato sul ruolo centrale che lo Stato si riservava nella salvaguardia. Ebbene, tutto l´impianto è ora logoro e si spegne progressivamente. E´ una lenta ritirata, promossa - ecco il paradosso - proprio dentro lo Stato, uno Stato che «confisca se stesso» (in copertina è riprodotto il sanguinolento quadro di Goya in cui Crono divora i suoi figli). Una marcia che il governo di centrodestra ha accelerato partorendo la «Patrimonio S.p.A.», la quale prende in carico tutti i beni pubblici, compresi quelli demaniali e di valenza culturale, li infila in un gigantesco catalogo immobiliare e potrebbe anche venderli.

Settis ha sessantun anni. E´ nato in Calabria, dirige la Scuola Normale di Pisa e per quasi sei anni ha guidato il Getty Research Institute di Los Angeles. E´ storico dell´arte e dell´archeologia. Lo considerano un´autorità indiscussa e da quando ha preso a lanciare i suoi appelli (anche dalle colonne di Repubblica) ha scosso un ambiente rimasto tramortito dalle iniziative del governo Berlusconi. Un po´ come ha fatto Franco Cordero per la giustizia.

Urbani, Tremonti e persino Berlusconi giurano sul loro onore che non venderanno mai il Colosseo...

«Non c´entra niente la loro personale moralità. Ma fino a ieri il nostro patrimonio artistico era per legge rigorosamente inalienabile».

E ora?

«Ora non più. Come fanno a sapere Urbani, Tremonti e Berlusconi che cosa potrebbero decidere fra cinquant´anni i loro successori? La legge che hanno approvato è chiarissima. E poi perché parlano solo del Colosseo? E´ assai poco consolante che per rimettere in sesto il bilancio o per costruire autostrade si cominci col vendere monumenti «minori»».

Ma il ministero per i Beni e le attività culturali deve autorizzare la vendita.

«E cosa cambia? Per cedere un monumento ci vorranno due firme e non solo una. Posso immaginare quale conti di più. Il ministero per i Beni culturali è stato messo ai margini e le sue strutture mortificate da una serie di marchingegni burocratici di rara inefficacia».

Urbani è riuscito a tanto?

«Non solo Urbani, per la verità. La strategia distruttiva inizia quando Gianni De Michelis inventò i "giacimenti culturali". Da patrimonio prezioso in sé e bisognoso di molte cure e molti soldi si passò all´idea che quei beni servissero a far soldi».

Ma De Michelis non era ministro dei Beni culturali.

«Appunto. Era al Lavoro. Ma questo è il sintomo di quale considerazione godesse il ministero per i Beni culturali».

Siamo nel 1986. Poi cosa è successo?

«E´ successo che sulla poltrona di ministro si sono alternate tutte mezze figure. E i Beni culturali sono diventati un residuo. Pensi che il primo concorso dopo il 1991 fu bandito solo nel 1995 e furono assunti undici, dico undici, archeologi in tutta Italia, molti meno di quanti fossero andati in pensione. Lo stesso è accaduto per gli storici dell´arte. Un dissanguamento continuo».

Qualcosa è cambiato con il centrosinistra.

«Walter Veltroni ha alimentato molte speranze. Per la prima volta un vice presidente del Consiglio su quella poltrona. Un leader nazionale. Destinare al nostro patrimonio i soldi del Lotto è stata un´ottima scelta».

Sono stati restaurati musei. Si sono allungati gli orari di apertura.

«E´ vero. Ma la riforma voluta da Veltroni aggiunse ai "beni" le "attività" culturali, lasciando intendere che bisognava rimpolpare il magro carnet de bal del ministero. E anche che le mostre erano più importanti dei musei».

E che le piazze erano più belle se ospitavano i concerti.

«Certamente. Poi si sono aggiunte le competenze sullo sport e lo spettacolo, si sono moltiplicate le direzioni generali, si è spezzettata l´amministrazione. Nel frattempo montava la retorica del privato».

In che senso?

«Nel senso che si è ritenuto che i privati potessero fare più e meglio di un´amministrazione che lentamente si smantellava. Si è cominciato con la legge Ronchey, che però si limitava alle caffetterie e alle librerie nei musei, senza intaccare nulla di essenziale. Ma poi si è andati molto, molto oltre».

Fino a dove?

«Si è allungata la lista dei servizi concessi ai privati: le guide, l´assistenza didattica, l´organizzazione di mostre. Tutte attività che negli altri paesi europei sono affidate all´amministrazione, perché si ritiene che siano strettamente legate alla conoscenza e alla tutela».

Altro?

«Certo. Le fondazioni. La legge Bassanini e alcuni decreti hanno trasformato in fondazioni enti dello Stato, enti di ricerca importanti, consentendo per esempio la privatizzazione dell´Istituto nazionale di Archeologia e Storia dell´Arte di Palazzo Venezia a Roma. Privatizzazione promossa dal centrosinistra e attuata da Urbani. Prima si è lasciato che annaspasse, poi lo si è separato dalla sua biblioteca e proprio mentre in Francia si fondava una struttura analoga - siamo nel 1997, il nostro istituto fu fondato quando ministro era Benedetto Croce - invece di rilanciarlo è finito ai privati».

Mi perdoni. Lei per chi vota?

«Per il centrosinistra. Ma che vuol dire? La sinistra è stata affetta da un deficit culturale, che mi auguro comprenda, dichiarando di voler invertire la rotta. La gente capirebbe. I governi di centrosinistra hanno pensato di fare venti per evitare che la destra facesse cento. Senza rendersi conto che la destra sta facendo cento trovandosi il venti già fatto. Ma guardi che anche a destra ci sono molte personalità che contrastano questa svendita dello Stato».

Un´altra suggestione maniacale sembra il fascino suscitato dai musei americani. Lei li conosce. Sono un esempio?

«No. Qui scontiamo una forma di genuflessione culturale. In America andiamo a pescare modelli astratti, l´università, per esempio, scartando uno dei tratti più positivi di quella società, che è la capacità di autocritica. Noi pensiamo che l´ideologia del mercato presupponga uno Stato leggerissimo: niente di più falso negli Stati Uniti».

Restiamo ai musei.

«I musei americani funzionano benissimo. Ma non hanno alcun nesso storico o culturale con il territorio che li ospita. Se un museo di Los Angeles vende un quadro di Tiziano non toglie nulla alla storia della California. Se le Gallerie dell´Accademia di Venezia cedessero un Carpaccio mutilerebbero la storia della città e di tutta l´Italia. Il nostro patrimonio culturale è storicamente un insieme il cui collante non saprei definire meglio che "tradizione nazionale", "identità nazionale". Questo è il modello italiano formato nei secoli. E per questo lo Stato ha conservato un ruolo cruciale di tutela, sia che il patrimonio sia pubblico, sia che il patrimonio sia privato».

Ma i musei americani, si dice, potrebbero essere esempio di buona conduzione. O no?

«Anche qui: ma si sa di cosa si parla? Il Metropolitan o il Getty sarebbero in passivo se potessero contare solo sui biglietti (al Getty, oltretutto, si entra gratis) o sui ristoranti o sui gadget. Le spese del Getty vengono ripianate dal patrimonio di cui è dotato il museo e che viene oculatamente investito producendo profitti. Al Metropolitan pensano il Comune di New York e le donazioni private. Gli Uffizi o Capodimonte hanno questi fondi? Dove stanno i privati disposti a questi esborsi? E poi, scusi, perché mai dovrebbe valere per l´Italia il modello americano se i direttori del Getty, del Metropolitan e di altri musei hanno firmato un appello contro le ipotesi di privatizzazioni previste l´anno scorso dal governo Berlusconi?»

Secondo lei è stato un bene aver distinto, perfino nella riforma di un articolo della Costituzione, la tutela del patrimonio attribuita allo Stato e la gestione del patrimonio alle Regioni?

«E´ un pasticcio che produce effetti destabilizzanti. Tutela e gestione sono due momenti connessi di un unico processo: la ricerca e la conoscenza del bene da tutelare e da gestire. Per misteriose ragioni qui non ha funzionato il modello americano, dove chi tutela gestisce. Prenda il deposito di un museo: chi decide quale anfora tirare su dal magazzino per esporla? Chi tutela o chi gestisce?»

Questo sistema apre ulteriori varchi ai privati?

«Questo non lo so. So però chi se ne avvantaggia».

Chi?

«Gli avvocati, perché fioccheranno mille contenziosi, con il risultato di paralizzare tutto. Qualche giorno fa il Consiglio di Stato ha bocciato Urbani: vedrà, andremo avanti così».

Avanti così con «i talibani a Roma», come ha intitolato il suo primo capitolo?

«Per la verità quel titolo l´ha coniato la Frankfurter Allgemeine Zeitung. Ed è appropriato. Mai come ora il nostro patrimonio è minacciato. Mai, neanche quando Napoleone spogliò molti musei italiani. Io credo che capiremo presto da questo governo se lo Stato, come Crono, continuerà a divorare i propri figli o se, come ancora mi auguro, capirà che così facendo ucciderà se stesso».


Lettera

Cari amici,

la legge che istituisce la “Patrimonio S.p.A”, approvata il 15 giugno 2002, ha sollevato e continua a sollevare forti preoccupazioni. L’idea di mettere in vendita porzioni dell’eredità naturalistica, culturale, storica, artistica, architettonica, archeologica del nostro Paese costituisce una novità di cui si esaltano speranzosamente ipotetici risvolti utilitari e non si valutano concretamente i rischi di perdite certe ed irreparabili.

L’11 luglio, dopo aver raccolto in pochi giorni quasi 2000 firme, abbiamo inviato al Presidente della Repubblica e alle più alte autorità dello Stato (Presidenti di Camera e Senato, della Corte Costituzionale e del Consiglio) un appello in cui esprimevamo i nostri timori, chiedendo la sospensione del provvedimento legislativo e proponendo l’apertura di un dibattito ampio su un argomento così fondamentale per il nostro Paese. L’unica risposta ufficiale è stata quella giuntaci dalla Segreteria del Presidente della Repubblica, che richiama la lettera inviata dallo stesso Ciampi a Berlusconi all’atto della promulgazione della legge. Anche l’eco dell’appello sulla stampa italiana è stato limitato, forse per la concomitanza fra il legittimo desiderio di quiete estiva ed il profilarsi sull’orizzonte politico di questioni altrettanto preoccupanti.

La situazione è dunque grave. A parte le estemporanee e contraddittorie dichiarazioni cui ci ha purtroppo abituato la nostra classe dirigente, sul piano gestionale si sta muovendo tutta una serie di iniziative, che va dalla più strampalata quantificazione del “valore” venale di isole e fabbricati alle più discutibili sostituzioni ai vertici di organismi variamente preposti alla tutela. Anche i progetti legislativi che avrebbero voluto correggere le evidenti storture introdotte dalla legge “Patrimonio S.p.A.”, sono stati respinti.

A questo punto, visto che le adesioni all’appello di luglio continuano a pervenire numerose, sentiamo la necessità di mantenere aperto il discorso. Lo facciamo attraverso questo sito che, come tutta quanta la nostra iniziativa, non può che mantenere un carattere “artigianale” e necessita più che mai della vostra collaborazione.

Oltre all’appello (cui può aderire chi non lo abbia già fatto) ed ai documenti ad esso relativi, mettiamo a vostra disposizione sia i materiali raccolti in questi mesi (leggi, rassegna stampa) sia quelli che riusciremo a mettere insieme in futuro. Tenete conto che questo impegno non costituisce il nostro mestiere, per cui certamente non potremo offrire una documentazione sistematica né tanto meno esauriente. Anzi, vi saremo grati di qualsiasi segnalazione pertinente e documentata che sarà inserita, con la vostra firma e responsabilità, nella sezione “beni in pericolo”.

Coerentemente con l’auspicio espresso nell’appello, vorremmo aprire un dibattito elettronico, dal momento che non abbiamo la possibilità finanziaria e organizzativa di promuovere un incontro reale. Vogliamo sperimentare alcuni spazi distinti: uno dedicato a interventi articolati, tendenzialmente elaborati da addetti ai lavori (non solo operatori e studiosi dei beni culturali e ambientali, ma anche giuristi, economisti, politologi, amministratori, …), uno organizzato secondo le modalità di un forum tradizionale ed un terzo esemplato sul tipo di certe trasmissioni radiofoniche e consistente in un appuntamento mensile, della durata di un paio d’ore, durante il quale un esperto metterà gentilmente a disposizione le sue competenze per dialogare con i “navigatori” interessati. Solo il primo è pronto mentre gli altri due sono in preparazione.

La nostra intenzione è di provare quest’esperienza per qualche mese e di proseguirla se troverà una certa rispondenza.

Grazie per la vostra attenzione e cordiali saluti

Marco Collareta

Università di Bergamo

Donata Levi

Università di Udine

Pisa, ottobre 2002

P.S. Il sito che vi invitiamo a visitare si basa sul lavoro entusiastico e volontario di tanti amici che condividono in pieno le nostre preoccupazioni

Sullo stesso argomento leggi l’intervista a Francesco Erbani rilasciata da Salvatore Settis,Se l’arte finisce in mano ai privati

«E' stata un' esperienza logorante». Quattro anni ai vertici del Consiglio nazionale per i beni culturali e ambientali, dove prese il posto di Federico Zeri, sono comunque stressanti. Ma l' ultimo in particolare, alle prese con Giuliano Urbani e Vittorio Sgarbi, hanno esaurito la pazienza anche di un uomo pacato come Giuseppe Chiarante. Che, presa carta e penna, ha mandato una lettera di dimissioni dalla carica di vicepresidente (presidente è il ministro). I motivi sono tanti. Ma ne risaltano due. Primo: il Consiglio non è più un Consiglio, perché non è stato consultato in occasione di importanti leggi che riguardano il nostro patrimonio artistico, culturale e ambientale. Secondo: la politica del ministro (e del governo) tende a impoverire le strutture tecnicoscientifiche dell' amministrazione e ad affidare compiti rilevanti all' esterno. Cioè ai privati.

«Se non mi fossi dimesso sarei stato connivente con il totale svuotamento del Consiglio. E questo non era sopportabile», aggiunge l' ex senatore del Pci, fondatore di un' associazione che porta il nome di uno dei grandi dell' archeologia novecentesca, Ranuccio Bianchi Bandinelli. Chiarante è impegnato da anni nella salvaguardia del nostro patrimonio, in nome della quale non ha risparmiato critiche anche nei confronti del centrosinistra. E ora cosa succederà? «Ho rimesso il mandato di vicepresidente, ma resto nel Consiglio. D' altronde ho ricevuto la solidarietà di moltissimi consiglieri, persino di quelli indicati da Forza Italia».

Anche loro contro il ministro?

«Non condividono il fatto che venga esautorato il principale organo di consulenza tecnica del ministero, un organo elettivo formato dai rappresentanti di archeologi, architetti, storici dell' arte, interni ed esterni al ministero, da soprintendenti come La Regina e Martines, da studiosi di diritto e da esponenti delle associazioni ambientaliste».

Segnali di protesta?

«Circola l' ipotesi di un' autoconvocazione. E' prevista dalla legge. Staremo a vedere».

Ma quali sono le leggi sulle quali non siete stati consultati?

«Tutte quelle che riguardano i beni culturali. La legge che riforma la normativa di tutela. La cosiddetta leggeobiettivo di Lunardi, che consente ristrutturazioni e anche demolizioni di edifici salvando solo sagoma e volume. Una tragedia per molti centri storici».

E quali altri provvedimenti?

«Gli articoli della finanziaria che affidavano ai privati la gestione dei musei. Chiesi che venisse convocato il Consiglio. Ma al loro rifiuto firmai un appello con tutte le associazioni ambientaliste contro quel diniego. Sgarbi reagì dicendo che non avrebbe più riunito il Consiglio se non ci fossimo dimessi Vittorio Emiliani ed io».

E come andò a finire?

«Quel testo venne parzialmente modificato. Resta ambiguo, ma almeno è stato eliminato il punto che assegna ai privati la completa gestione».

Vi hanno consultati sull' istituzione della Patrimonio S.p.A., che dovrebbe gestire e anche alienare i beni dello Stato, compresi quelli culturali, oppure usarli come garanzia ipotecaria?

«Neanche per idea. Sulla vendita dei beni abbiamo mantenuto sempre una posizione restrittiva. Con il governo di centrosinistra ci siamo battuti perché il Foro Italico a Roma non venisse ceduto. E alla fine il ministro Melandri l' ha spuntata, ottenendo che solo lo Stadio, pesantemente manipolato dopo la guerra, fosse dichiarato vendibile». Ora si aprirà il complesso trasferimento di molte funzioni alle Regioni. Anche su questo vi hanno tenuti all' oscuro? «A una mia lettera ha risposto il capo di gabinetto del ministro: la questione è politica, non tecnica. E' un assurdo. A dir la verità Sgarbi è sembrato più disponibile. Ma Urbani ha chiuso il discorso».

A questo punto, però, si profila un problema politico. Qual è la politica del ministro Urbani?

«Urbani ha una visione quasi sacerdotale della tutela, ma sulla gestione vorrebbe affidare quante più cose ai privati».

Segue una logica mercantile? E' questo che vuol dire?

«Mi limiterei a parlare di economicismo. Ma la sua scelta è direttamente collegata ai drastici tagli nella spesa. Nel decennio scorso sono stati incrementati i fondi di 300 miliardi l' anno. Negli ultimi tempi si è arrivati a 400. Poca cosa, intendiamoci. Ma il governo ha reciso anche questi».

Si sente dire che i musei debbano diventare redditizi.

«Ci ridono dietro persino gli americani. Il Metropolitan si finanzia per il 33 per cento con gli incassi. Poi intervengono fondazioni private e soldi pubblici. Ho letto uno studio americano in cui si calcola che chi va a visitare il Moma, dorme in media una o due notti a New York, mangia al ristorante, compreso quello del museo, paga i mezzi pubblici o un garage, fa acquisti. E' così che si può stabilire il beneficio economico di un museo, che normalmente persegue altri fini».

Sarebbe inutile elencarli.

«Guardi che questa ossessione sulla redditività porta a concentrarsi solo sui musei, trascurando che il patrimonio italiano è diffuso ovunque. Nei centri storici, per esempio. Infatti i tagli penalizzano soprattutto le Soprintendenze territoriali, che devono spaccare il capello in quattro, arrovellandosi con procedure che farebbero inorridire qualunque uomo d' azienda».

Diventa lei un aziendalista?

«Ma lo sa che se in una Soprintendenza finiscono i soldi per le pulizie non si possono usare quelli destinati alla benzina e viceversa? I capitoli di bilancio sono rigidissimi. E questo fa lievitare i residui passivi, cioè i soldi non spesi. Un paradosso. E non sono nei guai solo le Soprintendenze: l' Istituto centrale per il restauro ha dovuto ridurre al minimo le missioni».

Ma questo indirizzo non mortifica anche la tutela?

«Certamente. Questo ministero separa nettamente tutela, da una parte, valorizzazione e gestione dall' altra. Ma un restauro che cos' è? Solo tutela? O non è anche valorizzazione?»

Sgarbi la pensa come Urbani?

«In molti casi no. Sgarbi è sensibile alla tutela. Ne ha una visione persino conservatrice. Condivido molte sue posizioni, altre no. Ma lui è attento ai singoli interventi, non alle questioni strutturali, quelle più proprie del ministero».

Per esempio?

«Gli avrò chiesto mille volte di occuparsi delle scuole di restauro. E' possibile che chi frequenta un corso all' Istituto di Patologia del libro o all' Istituto centrale per il restauro, due perle del nostro sistema, prenda un diploma che ha lo stesso valore di quello ottenuto presso una qualunque scuola privata?».

Il ruolo del ministero si è indebolito?

«Indubbiamente. Prendiamo il caso delle conferenze di servizi, che si occupano di opere pubbliche. Prima il parere dei Beni culturali era vincolante. Poi, ancora con il centrosinistra, questo potere si è attenuato e in molti casi decideva la Presidenza del Consiglio. Io non sono mai stato d' accordo. Ma tant' è. Ora la conferenza di servizi è solo un organo istruttorio. Chi decide è il Cipe, dove prevalgono ragioni economiche. E lì può davvero accadere di tutto».

Repubblica, 31 maggio 2002

La pubblicazione di un’ampia antologia di scritti di Cesare Brandi sulla tutela del paesaggio e dell’arte [1] sollecita alcune riflessioni circa i modi dell’abitare e il senso del costruire.

Osservando il paesaggio contemporaneo non si può certo dire che lo spirito umanistico sia vincente: è anzi di frequente oggetto di derisione da parte di un certo cinismo postmoderno e da quanti ritengono che non più il mondo organico, di cui pure l’ homo faber fa parte, ma solo le scoperte della scienza e le innovazioni della tecnica con le relative filosofie ed estetiche debbano costituire regola e modello a cui adeguare le forme dell’abitare.

Per costoro gli scritti di Cesare Brandi non possono che risultare antiquati come antiquato a costoro appare l’essere umano. L’umano, con il suo antichissimo corpo, con la sua antichissima fisiologia, con la sua arcaica psicologia costituisce invece negli scritti di Brandi un tramite insostituibile dell’esperienza di mondo, un metro di paragone e una chiave interpretativa dei paesaggi, dei luoghi, dell’architettura, e in generale dell’opera d’arte, foriera di giudizi penetranti che arrivano sempre al cuore delle cose.

Quello di Brandi è uno sguardo colto ma non diviso, che non separa la res cogitans dalla res extensa, i valori del pensiero dalla “naturalità” dell’anima, dal suo essere corpo oltre che mente.

La misura umana con tutti i suoi limiti non rappresenta per lui un «complesso di inferiorità» [2] da eliminare, come invece da più parti oggi si teorizza, in nome del presunto nuovo spirito del tempo postorganico, biotecnologico, virtuale a cui l’organismo dell’uomo e il suo spazio dovrebbero sottomettersi.

La consapevolezza che l’umano è dato di natura irrinunciabile oltre che un fatto di cultura lo porta a ricordare che «conta solo quello che è presente all’occhio nel caso delle arti figurative: il corredo culturale è corredo e corredo resta» [3]. Quanto alla visione spazio-temporale elaborata dalla fisica moderna - scrive Brandi - «non è una visione (ma una ipotesi scientifica) e non ha nulla a che fare con i dati immediati della sensibilità» [4]. Per questo, si potrebbe aggiungere, lo spazio premoderno, con la sua misura umana, può risultare oggi ancora sensato e magari più sensato di quello proprio della metropoli contemporanea che a tutto guarda fuorché alla figura, alle dimensioni e ai limiti fisici del corpo e si dimentica dei vecchi come dei bambini.

Ogni visione meramente concettuale, un io senza occhi [5] abituato a pensare le cose nel vuoto, a giudicarle in sé, isolate da qualunque contesto reale, delocalizzate, come invece non capita mai nell’esperienza concreta, può infatti creare luoghi inospitali: Nella vita reale, non virtuale, le cose come gli esseri umani sono sempre corpi di e in relazione con altri corpi ed è dalla relazione che deriva gran parte del loro senso, il loro ruolo recitante. Solo indugiando nei luoghi, ascoltandoli, come fa Brandi, con tutta la pienezza del sentire, lasciandosi attraversare come da presenze animate è possibile percepire quanto i colori, i materiali e le forme «astratte, mentali e non ambientali di tante strutture del neoplasticismo» [6], e di tanta speculazione edilizia moderna, confliggono con certi ambienti. Confliggono innanzi tutto con la spazialità organica dei tessuti modesti ma sempre a scala umana delle città antiche. Dove lo spazio è una consolazione per l’occhio, la mano, il piede: accessibile nelle sue sequenze ravvicinate senza bisogno di dipendere da mezzi meccanici. Dove l’armonia tra le cose, tra gli interni e gli esterni, tra il tessuto continuo delle case e i monumenti «è così saporosa da far sentire tutta la città come veramente gettata in una sola volta» [7], come fosse un unico integro corpo umano. Per questo laddove il tessuto connettivo venga malamente demolito e i monumenti isolati, la città pare sanguinare e generare dolore nell’animo di chi la abita.

Per usare le parole di Simone Weil, stretto è il nesso tra lo «spirito lacerato […] crocifisso […] e lo spazio di cui lo spirito è possessore […]. Per questo l’unità nello spazio è una così grande consolazione. Uno spazio chiuso è il simbolo del mondo, di cui lo spirito è proprietario» [8].

Ed è proprio perché lo spirito soffre come fosse carne che Brandi di fronte allo scempio subìto dalle cortine settecentesche di Palermo può scrivere: «la città, colpita amaramente nelle sue parti più tenere, sanguina: sanguina lungo il rovinoso Corso, lungo la folta e squarciata via Maqueda; sanguina a via Alloro, a piazza Bologni, nella Cala» [9].

Da qui la lezione: come un essere umano risulta sofferente e menomato se subisce l’amputazione di un braccio o di una gamba e perde identità fino a morire quando le sue membra dilaniate giacciono sparse, così la città antica non appare più un organismo armonioso se alla demolizione di alcune sue parti si sostituiscono protesi estranee. Anzi perde il suo carattere urbano se viene frantumata, dispersa, o ridotta ad un assemblaggio di edifici monumentali, senza alcuna fisica relazione: «una città - Brandi lo ribadisce più volte - non consiste solo nei suoi monumenti più degni ma in tutto il tessuto connettivo» [10].

In casi come Bologna, Siena, Venezia, Catania, Noto, Lecce, Anagni, Casale e tanti altri centri storici è proprio il tessuto urbano minuto, domestico, di connessione e gli spazi aperti pubblici delle strade e delle piazze a fare l’aria della città: ad essere il monumento «degno e particolare» [11] da preservare come tesoro per la civiltà dell’abitare.

Per questo, afferma Brandi, «se c’è un’eresia in fatto di tutela e di rispetto, è proprio quella di sconnettere il tessuto urbano per costituire un monumento in una forzata solitudine e in uno spazio aggirante» [12]. Così come è una eresia sconnettere l’identità, conquistata nel tempo, di un luogo urbano in nome del feticismo scolastico di un rudere che non appartiene più da secoli alla vista e dunque alla memoria collettiva.

Ma la protervia di certa edilizia astratta, non ambientale, di certi «innesti massicci e fuori scala [o di certe] casacce sghembe che si posano in falso» [13] ha il potere di distruggere anche l’ordine «umano e sovrumano» [14] di taluni paesaggi magici a cui l’uomo ha imposto un sigillo tale che «nulla la sua intelligenza potrà aggiungere o il suo intuito rivelare» [15]. Paesaggi dove tutto «è quanto di più lindo e riposante si possa offrire alla beatitudine allo sguardo e al sollievo della mente» [16], dove le serre di aranci hanno «la pienezza ricciuta del vello di un agnellino» [17], o dove i monti hanno «membrature muscolose come un gigante» [18]. O dove ancora la «trama fitta e impalpabile, di aria, di luce, di colore» rende il «verde tenero e lucente […] come avvolto in una fascia di veli azzurri, quasi il mare respirasse e quell’azzurro fosse il suo fiato» [19].

In questi contesti ogni architettura presuntuosa, sgarbata, incurante e incapace di riconoscere dove si offre, come un dono, la bellezza dei luoghi, genera lo stesso effetto sfigurante provocato da «ordigni ortopedici» [20] in un corpo sano, dai «denti finti di acciaio […] in un bel volto» [21] o dai «foruncoli nella giovane pelle degli adolescenti» [22].

Con questo Brandi non sostiene che le visioni più astratte e le concezioni spaziali elaborate dalla scienza e dalla tecnica moderna non possano rappresentare «un elemento della poetica di determinati artisti» [23]; critica semmai con forza la pretesa che una poetica personale possa costituire canone di giudizio universale dell’architettura e che possa essere ubiquitaria. Pone, in altri termini, la questione dell’ etica della personalità.

Per usare le parole di Nicolai Hartmann, la «rivendicazione di una propria particolarità da parte dell’individuo» non può mai andare a discapito delle «esigenze etiche universali», senza le quali non può esistere la comunità umana. Allo stesso modo discriminante per il giudizio sull’opera d’arte è che il suo diritto alla personalità non dimentichi l’imperativo etico a cui l’arte del costruire è chiamata a rispondere: l’essere il compito dell’architettura quello di creare luoghi abitabili, ossia di reinventare ogni volta cosmo in opposizione al caos. Il che significa operare perché la ricerca di armonia, di spazi di relazione e di condivisione tra gli umani e tra gli umani e il mondo prevalga sulle pulsioni di morte, sugli istinti aggressivi e distruttivi.

Solo così l’eleganza, la grazia, la gentilezza, la tenerezza, la misura - tutti attributi che Brandi associa al concetto di civiltà e di bellezza - possono prevalere sulla brutalità, sull’arroganza, sull’osceno, sull’irrazionale e il deserto di senso di cui si rendono colpevoli non solo i «criminali di guerra» ma anche i «criminali di pace»: «i guastatori delle città, gli speculatori edilizi» [24]. La bellezza, per il potere che ha di celebrare e testimoniare nel mondo la sacralità della vita, non deve essere «confinabile nei musei o in certi luoghi particolari» [25] ma deve poter permeare i paesaggi, le città, le strade, le piazze, perché la terra tutta possa essere abitabile come il grembo accogliente di una madre.

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[1] Cesare Brandi, Il patrimonio insidiato. Scritti sulla tutela del paesaggio e dell’arte, a cura di Massimiliano Capati, Editori Riuniti, Roma 2001.

[2] Ivi, p. 125.

[3] Ivi, p. 30.

[4] Ivi, p. 31.

[5] «Né il sindaco aveva occhi, né gli assessori avevano occhi, nessuno aveva occhi per queste turpitudini edilizie». Ivi, p. 362.

[6] Ivi, p. 94.

[7] Ivi, p. 376.

[8] Simone Weil, Quaderni. Vol. I, Adelphi, Milano 1982, p. 206.

[9] Brandi, Il patrimonio, cit. p. 344.

[10] Ivi, p. 213.

[11] Ivi, p. 278.

[12] Ivi, p. 279.

[13] Ivi, p. 361.

[14] Ivi, p. 358.

[15] Ibidem.

[16] Ivi, p. 151.

[17] Ivi, p. 93.

[18] Ivi, p. 352.

[19] Ivi, p. 95.

[20] Ibidem.

[21] Ivi, p. 137.

[22] Ivi, p. 302.

[23] Ivi, p. 31.

[24] Cesare Brandi, Terre d’Italia, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 189.

[25] Ibidem.

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