«Il progetto di Massimiliano Fuksas è utile alla discussione e potrebbe anche essere realizzato. Il riassetto dei Fori deve partire, e quello di Massimiliano è un tassello importante». Recenti parole del sindaco Walter Veltroni, utili da ricordare mentre il Comune comincia a parlare del concorso internazionale per un nuovo assetto del «Cam», sigla che burocraticamente indica nel Piano regolatore il Centro archeologico e monumentale. La vicenda dei Fori ripropone l'antico sogno di Antonio Cederna. Non solo per un'utopia ma perché stavolta i cantieri del Metro C tra il Colosseo e piazza Venezia imporranno delle scelte. Il progetto Fuksas (sollecitato dall'allora soprintendente archeologico Adriano La Regina, regalato dall'architetto all'amministrazione) propone una convivenza tra strada e scavi, quindi nessuna demonizzazione del traffico «come si conviene a una metropoli». Discorso affascinante. E sarebbe un errore metterlo da parte.
Carlo Aymonino, Paolo Marconi e Paolo Portoghesi hanno sollecitato un concorso internazionale per evitare di ripetere l'errore di aver affidato a Richard Meier, senza concorso, una risistemazione dell'Ara Pacis, che secondo molti urbanisti mostrerà presto i suoi molti limiti. A cominciare, sia detto per inciso, dal progettato obelisco in cemento armato. Roma abbonda di materiale archeologico non esposto, e la scelta diventa incomprensibile: sarebbe come creare una parete artificiale tra le meraviglie delle Dolomiti. Ma torniamo ai Fori. Come dimostra il recente e felice piazzale coperto realizzato proprio da Aymonino nei Musei Capitolini per proteggere l'autentico Marco Aurelio non tutti i progetti «ad hoc» realizzati senza concorso, sono ingombranti e «pesanti» come quelli di Meier. Lo sapeva La Regina. Lo sa bene il sindaco Veltroni. Sarebbe dunque un grossolano sbaglio buttare il bambino (una proposta innovativa e stimolante, quella per i Fori) per colpa dell'acqua sporca (l'immenso monumento di Meier sul lungotevere). Fuksas firma progetti in mezzo mondo ma la sua «nuvola» all'Eur, dopo sei anni, deve ancora tramutarsi in spazi concreti. E lui stesso, per coerenza, sembra pronto a rinunciare a un altro progetto per chiamata diretta, quello sul lungomare di Ostia. Per farla breve. Sarebbe un peccato veder realizzato il progetto dei Fori in un'altra città. I concorsi sono la strada maestra. Ma come dimostra la felice soluzione trovata per Marco Aurelio, non tutte le chiamate dirette vengono per nuocere.
Postilla: Il progetto Fori è nato, più di un quarto di secolo fa, per eliminare la via dei Fori imperiali, per porre il tessuto archeologico ad essa sottostante al centro dell’immagine di Roma, per allontanare definitivamente il traffico dagli antichi monumenti. Il progetto era stato ideato dal soprintendente archeologico Adriano La Regina, fatto proprio con entusiasmo dal sindaco Luigi Petroselli, sostenuto con caparbia determinazione da Antonio Cederna, condiviso da centinaia di intellettuali di tutto il mondo. Solo fascisti e post fascisti erano nettamente contrari. Il 7 ottobre 1981 morì Petroselli. Con lui morì il progetto Fori, come comprese subito Antonio Cederna. Dopo di lui, veli di ipocrisia, di opportunismo, di prudenza hanno avvolto lentamente e poi snaturato l’idea originaria. Il sindaco Rutelli dichiarò con franchezza che la via dei Fori strada era e strada doveva restare. Per non correre rischi è stato posto anche un vincolo monumentale su tutta l’area, rendendo di fatto impossibile ogni modifica. Adesso si cerca di apparentare il traffico all’archeologia. Molti hanno cambiato idea. Succede. Ma che tutto ciò riproponga l’antico sogno di Antonio Cederna è una bestemmia (Vezio De Lucia).
Sul progetto Fuksas, l'opinione di Maria Pia Guermandi del 23 maggio 2005
I direttori dei maggiori musei italiani e i massimi esperti del settore si sono riuniti a Palermo una settimana fa— questo giornale ne ha fornito ampi resoconti — per discutere di conservazione dei beni culturali italiani. Il convegno organizzato dalla Fondazione Banco di Sicilia e da Campodivolo ha subito messo in evidenza un ampio divario Nord-Sud anche sul piano museale. A fronte dei positivi bilanci illustrati dai direttori dei musei di Torino, Milano, Trieste, Roma, quelli siciliani hanno evidenziato uno stato di profonda crisi.
Una crisi tale da far pensare a una Italia che in materia di musei sembra proseguire con due marce. A Milano, a Torino, a Trieste, come hanno riferito i loro direttori sottolineando anche il crescente successo di pubblico, i progetti di ampliamento non trovano sosta, con sale espositive che si vanno espandendo di nuovi acquisti esposti con raffinatezza e tecnologie all'avanguardia. In Sicilia invece, sono sempre i direttori dei musei che illustrano la situazione, non si riescono a organizzare eventi culturali nemmeno per gli artisti di casa nostra. Pensiamo per esempio alla mostra su Antonello da Messina, al momento nelle Scuderie del Quirinale a Roma, che fa registrare attorno alle 2500 visite giornaliere.
I musei siciliani, questa è l'opinione comune, vengono scartati in partenza dal grande circuito culturale nazionale perché privi dei requisiti minimi di sicurezza e tecnici invece largamente presenti al Nord. Alla Sicilia non rimane allora che assumere il ruolo di «esportatrice d'arte» mentre i siciliani vedono che i propri capolavori vengono prestati a gallerie più prestigiose e organizzate. Nell'agenda dei prestiti, dopo la «emigrazione» (pur osteggiata dei mazaresi) del Satiro danzante verso il Giappone per l'Expo e dopo la traversata verso gli Stati Uniti del Ritratto d'ignoto di Antonello da Messina dal Mandralisca di Cefalù per la mostra organizzata al Metropolitan Museum di New York, c'è il quadro dell'Annunziata dall'Abatellis al Quirinale, mentre un prossimo capolavoro a lasciare l'Isola potrebbe essere un Caravaggio.
Ciò significa che mentre l'arte siciliana sarà sempre possibile ammirarla grazie ad alcuni direttori scambisti d'opere d'arte, per un siciliano che per moti vi di studio o che per interessi artistici avesse voglia di ammirare i Macchiaioli toscani o le armature medievali del Poldi Pezzoli di Milano, o un Canova, o meglio ancora un Raffaello o un quadro di Leonardo, per fermarsi solo all'arte italiana, non gli rimane altro da fare che attraversare, ponte o non ponte, lo Stretto siculo-calabro e attraverso l'autostrada del sole raggiungere i vari Palazzo Grassi o le varie Biennali e triennali sparsi sulla penisola. Ma la colpa di questa situazione museale siciliana arretrata sembra imputabile anche ad altri motivi. Il direttore del museo regionale di Messina, Gioacchino Barbera, pur lodando i risultati dei colleghi dell'arco alpino culturale che da Genova giunge a Trieste passando per Torino e Milano, ha puntato il dito sul modo di scegliere i funzionari dei musei dell'Isola. «In una Sicilia autonoma in materia di beni culturali - ha detto Barbera - la legge che regola la dirigenza ha di fatto eliminato la qualifica tecnica al dirigente museale. In questo modo i fun-zionari sono scelti al di fuori dei curriculum dello storico dell'arte. A prendere il timone di musei e soprintendenze siciliane sono architetti, laureati in diverse discipline, ex direttori di altri enti con esperienze che nulla hanno a che fare con l'arte». È una denuncia pesantissima.
Altro dato dolente, l'endemica staticità dei musei siciliani rispetto a quelli più dinamici della penisola. Mentre il polo museografico romano oltre alle Scuderie del Quirinale ha in cantiere la realizzazione di un Palazzo delle esposizioni, di una Casa del cinema, di una Casa del jazz e di un teatro nel Lido di Ostia, l'ultimo spazio museale «contemporaneo» palermitano risale al Palazzo Abatellis. Il museo progettato negli anni Cinquanta dall'architetto Carlo Scarpa. Un intervento che fino a oggi conta numerosi tentativi di imitazione tutti falliti, come Palazzo Riso, il museo Botta, il Guggenheim.
Si susseguono comunicati ministeriali rassicuranti sulle sorti di Palazzo Altemps, il gioiello architettonico che nella parte pubblica ospita una sezione del Museo nazionale romano. Lo Stato starebbe per acquistare la porzione dell'edificio adibita ad uffici privati, appartenente ad un consorzio di cooperative presieduto da Maurizio Gardini, la Confcooper. Questa ha ora venduto la quota di sua proprietà per oltre 27 milioni euro, e lo Stato può esercitare il diritto di prelazione, subentrando nella posizione degli acquirenti, per destinare l'intero compendio al museo.
Vi sono aspettative in tal senso da parte della cittadinanza e del mondo della cultura, di cui con ripetuti appelli si è fatto interprete anche il sindaco Veltroni.
La situazione non è tuttavia così rosea come viene presentata. Vi sono seri motivi di preoccupazione per la posizione assunta negli ultimi mesi da alcuni uffici centrali e periferici del Ministero per i beni culturali, i quali si stanno comportando come se fossero inclini a favorire in ogni modo l'intento di privati acquirenti a scapito del pubblico interesse.
Le trattative sulla compravendita, di cui fin dallo scorso autunno trapelarono notizie con dovizia di particolari (offerte di maggiore entità, scelta dell'acquirente, stipula del compromesso, versamento di caparra, ecc), erano infatti ben note ai dirigenti ministeriali. Essi mostrarono però di non prestarvi alcuna attenzione fin quando, il 22 novembre, questo giornale segnalò che si stava perdendo l'occasione attesa da ben ventiquattro anni. Solamente a seguito di questo intervento vi sono state timide ammissioni di interesse pubblico alla prelazione, attenuate peraltro da inattendibili riserve, e senza alcuna considerazione delle indicazioni fornite per allontanare pretestuose perplessità, come quelle relative alla difficoltà di reperire ifondi necessari. Si era infatti indicata, su Repubblica, la possibilità che istituti di credito sostenessero la spesa per conto dello Stato alla condizione di poter usufruire dell'immobile così acquisito per il tempo necessario al recupero dell'investimento con il relativo utile.
Ciò nonostante la Soprintendenza ai beni architettonici di Romahafatto trascorrere inutilmente giorni preziosi dal momento in cui le è pervenuto l'atto di compravendita, ossia da quando decorre il termine dei due mesi disponibili per notificare agli interessati la prelazione. Si sa bene che si tratta di un procedimento alquanto complesso, il quale richiede ineccepibilità formale, pena l'invalidità.
Già nel 1982, allorché lo Stato acquisì per prelazione l'intero compendio monumentale di Palazzo Altemps, venduto dalla Santa Sede ad un gruppo di cooperative, il decreto ministeriale fu parzialmente invalidato per un presunto e mai dimostrato vizio di notifica che fece perdere allo Stato un quarto dell'immobile, quella stessa parte che ora viene alienata dalla Confcooper. In effetti si trattò allora di una manovra affaristica ordita nel modo più spregiudicato con il sostegno ministeriale, che sarebbe possibile descrivere in ogni suo dettaglio, anche se quella ordinaria storia di favoritismi della prima repubblica interessa ormai poco. La vicenda sembra tuttavia riproporsi adesso con medesime modalità tecnico-legali e con identici espedienti burocratici pari-menti intesi ad eludere l'applicazione della legge.
Siamo infatti ormai agli sgoccioli del tempo disponibile e nessun provvedimento è stato ancora adottato. È avvenuto solamente che la Direzione generale dei beni architettonici, di cui sono ben noti e documentati gli orientamenti nella tutela del pubblico interesse, ha avocato a sé la competenza del procedimento senza produrre ulteriori effetti.
Per essere sicuri del risultato, alpiù tardi intorno al3 di maggio l'atto di prelazione dovrebbe essere notificato alle otto società acquirenti, amministrate tutte dalla stessa persona ma aventi sede in otto diverse località di Napoli, Vico Equense e Porto Santo Stefano. E ben difficile che ciò possa avvenire, considerato che la notifica tramite l'ufficiale giudiziario richiede tempi non brevi e comporta il rischio di essere indirizzata erroneamente. In un periodo denso di festività non sarà facile notificare l'atto senza ombra di vizio formale presso sedi sociali non dei tutto evidenti; proprio questo era stato l'ingegnoso espediente architettato nel 1982 per inficiare la validità della notifica.
Non è pertanto azzardato formulare la previsione che il Ministero dimostrerà di aver voluto esercitare il diritto di prelazione, ma che vizi formali indipendenti dalla sua volontà condurranno alla parziale invalidità dell'atto, guarda caso proprio per ciò che concerne le parti più pregiate dell 'edificio. Si potrà quindi dare sostanziale attuazione al disegno concepito dai privati acquirenti. Questa è però un'altra storia, che si vedrà.
Le parti meno ambite del palazzo, che entreranno nella proprietà dello Stato, dovrebbero servire per sanare i misfatti compiuti con la vergognosa distruzione del museo geologico, dando a questo una sede a danno del Museo nazionale romano; ma anche questa è una storia di cui non si parlerà mai abbastanza.
ROMA - Il campo della cultura è rimasto molto oscurato nella campagna elettorale tutta gridata di queste settimane. É stato un argomento quasi assente nei dibattiti e nei «faccia a faccia» ma anche negli stessi programmi elettorali. Cosa naturale per la destra, molto meno ovvia per la sinistra. La parte riguardante la cultura del programma dell'Unione, preparata da un gruppo ristretto attorno alla responsabile ds Vittoria Franco, dedica un paio di pagine allo spettacolo dal vivo e poche di più ai beni culturali.
Questo nonostante negli ultimi anni la situazione si sia molto deteriorata, e la vera politica culturale l'abbia fatta Tremonti con i suoi tagli e le sue proposte di svendita del patrimonio culturale ai privati, piuttosto che i ministri Urbani e Buttiglione, che si sono limitati alle nomine amichevoli.
L'esempio di questi giorni della svendita di parte di palazzo Altemps a Roma (destinato a completare la sede del Museo nazionale romano), mostra ancora una volta quanto sia pericolosa la legge del silenzio/assenso introdotta dai «nuovi» regolamenti del settore.
L'unica voce politica che abbia elaborato un progetto riguardate questo campo, resta a pochi giorni dal voto quella di Giovanna Melandri, che è stata ministro dei beni culturali nel governo D'Alema, non senza molte critiche all'epoca. Poche settimane fa, mentre conduceva una campagna elettorale intensa e capillare, discutendo con gli autori cinematografici, dall .Anac a Ring, ma anche con il sindacato ferrovieri di Ostiense e con Patti Smith, ha pubblicato un libro, Cultura paesaggio turismo (Gremese, 10 euro, con prefazione di Romano Prodi), dove delinea un progetto inusuale e «scientifico» per la sinistra: puntare sul turismo come industria principale del sistema Italia, ma legandolo e «incastrandolo» al patrimonio artistico, anzi sottomettendolo alle sue regole ed esigenze.
Un progetto che nasce dal «senso di colpa » per la sua precedente esperienza di governo, o per avanzare di nuovo la sua candidatura a quel ministero, oggi molto appetito? Né l'uno né l'altro. Penso che rispetto agli anni in cui sono stata ministro, bisogna ricordare alcune cose del campo culturale nel suo insieme, patrimonio e produzione: ci sono state difficoltà economiche di bilancio complessivo, e la situazione si è complicata con i cambiamenti del titolo V della costituzione circa i rapporti tra stato centrale e enti periferici, che hanno fatto impantanare le leggi sulla musica e sul teatro (e sono convinta che noi sinistra avremmo dovuto essere difensori di una maggiore funzione centrale dello stato, anche se fra noi c'era chi avrebbe voluto direttamente cancellarlo, il ministero dei beni culturali). In quel contesto, io penso di aver ottenuto il più ricco Fondo per lo spettacolo della storia della repubblica. Rimango scontenta di non esser riuscita a fare le riforme strutturali sui meccanismi di erogazione di quei fondi, devo dire anche per colpa di certe resistenze «corporative» presenti nel mondo della cultura. Quanto poi al patrimonio culturale, mi sento perfino orgogliosa di quanto abbiamo fatto.
É da questo orgoglio che nasce l'idea di trasformare il patrimonio culturale in un investimento? Se si condivide l'idea che lo sviluppo del nostro paese si debba qualificare soprattutto attorno all'investimento su queste risorse (è chiaro che non mi limito allo spettacolo, c'è anche il patrimonio artistico e ambientale, e anche l'audiovisivo e il paesaggio.), questo settore diviene il terreno di un «new deal», parte di un progetto di crescita e riqualificazione che va al di là delle competenze di un singolo ministro, ma che riguarda tutto il paese e tutti coloro che lo amministrano: dall'ambiente alle comunicazioni, dalle infrastrutture all'economia. É un pezzo importante della risposta che il paese deve dare alla sua ricerca di quale sarà il suo posto nel mondo.
Quando però si parla di «trasformazione» in industria turistica, si tocca un campo minato dal rischio degli appalti, e quindi in prospettiva delle tangenti o peggio. Cominciamo col premettere che in Italia il turismo non è governato, offre servizi di livello medio-basso contro prezzi assai elevati rispetto alla media europea, è uno dei settori dove più forte è la percentuale di lavoro nero e di precariato, in cambio di margini di profitto altissimo per pochi rispetto ai servizi offerti ai cittadini. Che per di più concentra tutto il suo impegno in una stagione molto breve mentre da noi le attività potrebbero essere molto più estese nel tempo. Non casualmente abbiamo perso in quattro anni quattro milioni di turisti (mi piacerebbe chiamarli viaggiatori, piuttosto che turisti): quattro milioni di persone che tra il 2001 e il 2006 se ne sono andati in Spagna o in Croazia piuttosto che da noi. E su questi argomento la sinistra dovrebbe essere un po' meno «schizzinosa», fare meno «spallucce ». Ho una sorta di allergia alla concezione molto diffusa rispetto ai beni culturali, di pura conservazione e preservazione, quasi di sottrazione del loro godimento, a favore di pochi per paura delle fatidiche «masse». É una concezione elitaria che ho trovato molto radicata e diffusa al ministero, e anche tra gli intellettuali di sinistra che mi hanno fatto le bucce. Mi hanno rimproverato di aprire i musei anche il sabato sera, mentre io ho fatto anche la delibera per poter far entrare nei musei le carrozzine. Ci sono nodi antichi da sciogliere: siamo legati al passato in quanto la stessa sinistra si duole perché non abbiamo più fabbriche dove lavorino gli operai, ma non gradisce affatto la prospettiva che facciamo i camerieri o i giardinieri.
Era un dibattito che qualche decennio fa aveva altre ragioni di essere, oggi è quasi banale notare che nella globalizzazione avanzata e nel carattere immateriale dei processi di sviluppo, queste sono le risorse che abbiamo, e con cui fare i conti. Certo un processo del genere è difficile da progettare, evidentemente, tra i condoni, le sanatorie, il silenzio/ assenso per la vendita del patrimonio, il Fus quasi dimezzato. Se si desertificano i valori che possono costituire la qualità di quello sviluppo, poi non ci si può costruire una politica sopra. Ristabilendo regole e precauzioni, si può pensare a processi finanziari limpidi, e a anche a premunirci contro un turismo che minacciasse di usurare i beni che promuove. É una sfida che vale la pena raccogliere, avendo lungo tutta la filiera l'ossessione della qualità. E non mi riferisco agli alberghi a cinque stelle,ma agli ostelli della giovent ù, ai campeggi, all'impatto ambientale delle infrastrutture, e al problema connesso della mobilità. Sono consapevole di aver toccato solo di sfuggita tanti temi, altrimenti ci sarebbe voluto un saggio chilometrico.
L'idea di fondo è che bisogna costruire un sistema, e anche senza scomodare Roosevelt, c'è proprio bisogno di un «new deal». L'Italia attraversa una crisi e un declino non dissimili da quelli dell'America degli anni venti, un declino economico, sociale e perfino morale.
Proviamo a restringere il campo allo spettacolo: il cinema è fermo, il teatro allo sbando (almeno quello istituzionale), la musica taglia produzioni. A quanto bisogna riportare la percentuale di ricchezza per la cultura? Quali potrebbero essere le cose immediate da fare subito da parte di un governo di centrosinistra, chiunque siaministro. Per lo spettacolo ci sono tre priorità. La prima è riportare il livello del Fus a quello del 2001, il suo punto più alto, di cui resto orgogliosa, e che non mi fu affatto facile ottenere, pure da persone di valore come Visco. Per il cinema, bisogna subito impostare la riforma, basata su una quota di trasferimento pubblico, perché l'intervento pubblico nel cinema è ancora necessario, come nel teatro, nella musica o nelle biblioteche. I tre pilastri dovrebbero essere il trasferimento diretto, destinato principalmente a opere prime (e forse anche seconde), cortometraggi e documentari. Bisogna promuovere una palestra possibile per nuovi talenti. Per decidere tutto questo, senza cadere nell'arbitrio, non si sfugge a commissioni autorevoli e indipendenti che decidano. Il parlamento può al massimo valutare lo spessore scientifico dei loro componenti.
Poi c'è tutto da costruire un meccanismo che il cinema faccia crescere, che non è quello scelto da Urbani che indeboliva i deboli e arricchiva i ricchi. Si deve ricorrere al tax shelter, un meccanismo di favore fiscale a tutti i produttori e a tutta l'industria del cinema, e poi la creazione di un fondo che possa essere alimentato non solo dal bilancio dello stato, ma legato a tutta la filiera della produzione culturale. Che vuol dire prelievo sulla pubblicità, sui biglietti, e anche un prelievo, magari anche bassissimo, sul costo delle telefonate da cellulari. L'ho scritto nel mio libro, e già ha sollevato discussioni. Ma noi ci dobbiamo necessariamente inventare un modo per redistribuire le risorse. Del resto, già oggi ma molto di più in prospettiva, i grandi gestori stanno unificando il circuito della comunicazione, magari propugnando i film sul display del cellulare o dando le agenzie per sms.
Non sarebbe ingiusto che cominciassero a raccogliere fondi per questo circuito cui essi stessi sono interessati, senza lasciare tutto in balìa del puro mercato. L'alternativa, più pericolosa, è che gli stessi gestori diventino produttori di «contenuti».
A che punto è la questione di Palazzo Altemps? Un botta e risposta fra l’ex ministro Giovanna Melandri e il Ministero per le attività e i beni culturali riaccende la questione della vendita di una parte del prezioso immobile sul quale l'amministrazione dovrebbe esercitare il diritto di prelazione. «Vorrei chiedere al Ministro Buttiglione - dice la Melandri in una dichiarazione - se corrisponde al vero la notizia, che circola insistentemente da qualche ora, secondo la quale l Agenzia del Demanio avrebbe già deliberato da oltre quattro giorni lo stanziamento di circa 19 Milioni di Euro per l’ acquisto di Palazzo Altemps. Risulterebbe infatti - continua la Melandri - che lo scorso 31 Marzo l’Agenzia del Demanio avrebbe assunto tale deliberazione e dato questa notizia al Ministero dei Beni Culturali. E però ancora ieri il Ministro Buttiglione ha insistito nel dichiarare che "sta cercando le risorse per acquistare Palazzo Altemps"». «E vero? Non è vero? - chiede l’ex ministro - Buttiglione lo sa? Buttiglione lo sa ma non lo dice? Buttiglione non lo sa? Demanio e Beni Culturali si parlano tra loro?»
Risponde il portavoce del ministro Buttiglione, Walter Guarracino: «Il ministro ha detto che la cifra messa a disposizione dal Demanio non è sufficiente a coprire l’intero fabbisogno per l’acquisto di Palazzo Altemps. Il ministro ha rivolto in quella sede un appello al Demanio perchè compia un ulteriore sforzo, che si affianchi al lavoro che comunque il ministro sta facendo per valutare tutti gli elementi della vicenda».
Il turismo di massa minaccia le meraviglie del pianeta. A rischio sono Venezia, le antiche mura del Machu Picchu così come le nevi eterne del Kilimanjaro. Il settimanale Newsweek ha stilato una lista delle sette mete da salvare. Tra queste, la Grande muraglia cinese, la barriera corallina indonesiana e i templi di Luxor, saccheggiati dai viaggiatori “tombaroli”.
L´incubo prende forma quando sette milioni di turisti raggiungono in un anno le spiagge di Cancun. O quando un milione di persone visitano il tempio di Angkor, nascosto nell´impenetrabile foresta cambogiana. Minacciate dalle orde del turismo di massa, le meraviglie del pianeta sono in pericolo. Monumenti, vecchie pietre e fondali tropicali sono tutti a rischio, dicono gli esperti. Venezia, le Maldive, le imponenti mura di Machu Picchu così come le nevi eterne del Kilimanjaro potrebbero presto scomparire. E non solo per colpa dei soliti noti: guerre, sconvolgimenti climatici, sviluppo dissennato, inquinamento. Ma soprattutto, e questo è il paradosso, per via delle stesse persone che percorrono anche migliaia di chilometri per ammirare tanta bellezza.
Solitari o in gruppi organizzati, lo scorso anno i turisti hanno raggiunto una cifra da primato: 806 di milioni di viaggiatori hanno visitato città d´arte, scalato montagne, navigato per i mari del Sud. Troppi, specialmente quando scorrazzano con le snowmobile nel parco dello Yellowstone o gareggiano con il go-kart sulla Grande muraglia. Più dannosi ancora sono i turisti "tombaroli" che rubano preziosissimi reperti dai templi di Luxor o che saccheggiano i fondali sottomarini per riportare a casa una conchiglia o un rametto di corallo. È vero, la Cina è un continente: ma nel 2004 un miliardo e mezzo di cinesi hanno viaggiato in patria per motivi "turistici".
Il settimanale Newsweek ha appena stilato una lista delle sette meraviglie da salvare. Prima tra tutte, l´Iraq: non solo il museo archeologico di Bagdad o il santuario sciita di Askariya, bensì l´intero paese. Tra i siti più minacciati figura anche Venezia, che dalle sue origini sprofonda nella laguna su cui poggia alla media di un centimetro ogni cent´anni. Innumerevoli sono stati i tentativi di salvare la Serenissima. Ma si tratta sempre di interventi così costosi che, come sostiene il settimanale, la città da sola non potrà mai affrontare.
Sette o settanta che siano, questi siti possono essere salvati soltanto da un turismo "compatibile", cioè rispettoso, attento, partecipe. Dice Bonnie Burnham, presidente del Fondo mondiale per i monumenti: «Se non si fanno rispettare le regole, il turismo di massa distruggerà in pochi anni quello che fino a ieri ci sembrava destinato a durare in eterno».
La minaccia non risparmia gli angoli più remoti e disagiati del pianeta. Da qualche anno, l´Antartide è una delle mete più ambite del turista ecologico. E ricco, dal momento che i prezzi per un trekking nel Continente bianco partano da un minimo di 50.000 dollari. Pochi se si pensa che quest´opportunità potrebbe svanire nei prossimi trent´anni: secondo gli scienziati si stanno ritirando 212 dei 214 ghiacciai che circondano il Polo sud.
I ghiacci che si sciolgono e gli uragani, la minaccia di uno tsunami o di una grave pandemia virale sono le altre variabili che non può ignorare chi oggi decide si mettersi in viaggio per piacere. È un po´ come se la Terra cercasse di proteggersi con i soli mezzi di cui dispone. Eppure una cosa è certa: il numero dei turisti è destinato a crescere. In modo esponenziale.
Per i nostri beni culturali e ambientali, per la cultura in genere, sono stati cinque anni orrendi. Con Buttiglione che, adesso, riesce a fare, talora, persino peggio di Urbani: nei giorni scorsi ha nominato un consiglio di amministrazione della Holding Cinecittà, composto da ignoti (evidentemente di area); tranne (?) un doppiatore e la ex moglie di un politico molto in vista. Il ministro-filosofo, dopo aver messo il responsabile, da decenni, delle Biblioteche, Franco Sicilia, a capo del Dipartimento dei Beni culturali e paesaggistici, ha stilato una norma ad personam per cercare di tenerlo in attività oltre i 70 anni.
Possibilità, quest’ultima, invece negata ad Adriano La Regina per la Soprintendenza archeologica di Roma e ad Antonio Paolucci per il Polo museale fiorentino. Cioè a due specialisti della materia di valore internazionale (anche se il primo, chiamato “Signor no”, risultava particolarmente “scomodo”, diciamolo, nella sua autorevolezza e quindi da pensionare appena possibile per la gioia degli immobiliaristi vecchi e nuovi).
Non basta: il ministro Buttiglione ha nominato direttore generale dei Beni storici e artistici - al posto di Mario Serio, per anni figura di rilievo - non uno dei soprintendenti più in vista rimasti, bensì l’ennesimo quadro amministrativo. Un bel bilancio. Ma vediamo, in sintesi, i misfatti del 2001-2005.
Sul piano finanziario: nel terribile quinquennio berlusconiano, tagliati con l'accetta i fondi per gli investimenti; dirottati quelli del Lotto del mercoledì dai restauri alle spese di sopravvivenza degli uffici; Fondo Unico dello Spettacolo ridotto in cinque anni del 27 per cento; risorse del Ministero precipitate (dal 2002 in specie) del 57 per cento, ecc. Quindi “buchi” di organico a tappeto, fra i tecnici in specie. In compenso, denari a pioggia distribuiti a ben 45 Comitati, per esempio al Comitato per il IV Centenario della nascita della beata Giovanna Maria Bonomo (150.000 euro) o a quello Nazionale “Viaggio dei Re Magi” (100.000 euro). Molti di più, pacchi di milioni, ne ha dispensati la società Arcus, una SpA, dove comanda soprattutto Pietro Lunardi, ministro delle Infrastrutture, e dove i Beni culturali non mettono lingua: difatti una bella fetta di euro è finita a Parma «capitale della musica» dove Lunardi potrebbe candidarsi a sindaco e dove il centrodestra progetta una sorta di anti-Scala, col sostegno di Mediaset e di Fedele Confalonieri che ha mollato Scala e Filarmonica.
Sul piano delle leggi: ridotto e peggiorato, col Codice Urbani e con altro, il livello della tutela rispetto alle due leggi Bottai del '39 (patrimonio storico-artistico e paesaggio), alla legge Galasso (piano paesistici), ecc.; ribaltato il principio plurisecolare della inalienabilità dei beni culturali pubblici, (salvo eccezioni certificate dalle Soprintendenze); travolto in pochi attimi il Regolamento Melandri elaborato in proposito in un anno di lavoro, tutto ciò al fine di far agire liberamente la Patrimonio SpA per la vendita di quei beni; approvati devastanti condoni edilizi e ambientali; prime privatizzazioni di Musei italiani contro il motivato parere dei direttori di tutti i maggiori musei del mondo, ecc. ecc.
Sul piano politico-amministrativo: spoil-system e accantonamento o trasferimento di soprintendenti e di alti funzionari sgraditi; devitalizzazione totale del Consiglio Nazionale dei BC, non convocato per mesi e mesi; guerra aperta ad alcuni soprintendenti, per esempio a Pier Giovanni Guzzo di Pompei al quale è stato messo vicino quale city-manager nientemeno che il direttore del Museo di Mondragone paese natale del ministro di An, Mario Landolfi, col fine (agognato anche dal sottosegretario Martusciello) di accorpare Pompei e Napoli nominandovi una figura di archeologo che non abbia la personalità, che diamine, di Guzzo; fusione o minaccia di fusione di Soprintendenze storiche (Etruria Meridionale, Ostia Antica, ecc.) in un calderone regionale, contro ogni criterio scientifico.
Si potrebbe continuare, ma conviene invece parlare della reazione, che tutti gli addetti ai lavori, partecipando a convegni, firmando appelli motivati, preparando contro-progetti, si attendevano dal centrosinistra sulla linea della “terapia d'urto” chiesta da Prodi al tempo delle primarie. I documenti di programma che sono circolati sin qui non recano l'impronta di una netta discontinuità rispetto ad alcune politiche del centrodestra. Certo, propongono di riportare i finanziamenti ai livelli ante-Berlusconi, ma bisognerà trovare le risorse, e non possono certo bastare l'8 per mille e il recupero del Lotto del mercoledì, che Veltroni volle aggiuntivo. Dicono recisamente di no ad altri condoni, ma poco parlano della “ricostruzione” di un apparato di garanzie, di organismi e di leggi semidiroccato, della riqualificazione del Ministero. Nella tutela, allo Stato subentrerebbero - vecchio disegno “federalista” - le Regioni, pur avendo davanti il disastro del modello regionale siciliano. Vi si parla inoltre soprattutto di ”valorizzare”, con un economicismo ed un produttivismo applicato ai beni culturali e ambientali che a volte ricorda sinistramente il De Michelis dei “giacimenti culturali” non mai abbastanza deprecati negli anni '80 e quel ministro-pianista, Mario Pedini, il quale coniò la dannata espressione: «I beni culturali sono il nostro petrolio».
Ora, il petrolio, a parte che inquina moltissimo, è lì per essere sfruttato fino all'esaurimento, mentre il patrimonio storico-artistico-paesaggistico è lì - secondo l'art. 9 della Costituzione - per essere anzitutto tutelato e, se debitamente, conservato (cosa che accade sempre di meno), all'interno della tutela, valorizzato. Rischia dunque di passare nel programma dell'Unione una linea che, ponendo la “produttività” (economica, occupazionale, turistica) quale metro essenziale di valutazione, distingue nel contesto italiano, i beni suscettibili di «fornire reddito» da quelli che proprio non ne potranno dare (musei medi e minori, la maggior parte delle chiese, centri storici svuotati ma vincolati, archivi, biblioteche, a meno di non venderle). Si rischia di confondere il Bel Paese e il suo patrimonio, fonte di crescita culturale, civile, sociale, con l'industria turistica mossa da quel formidabile complesso di centri storici, di abbazie, di castelli, di pievi, di musei di ogni tipo, di torri, tutti legati nel “palinsesto” del paesaggio storico e naturalistico. Il turismo, lasciato libero di dilagare, ci ha regalato massacri paesistici e ambientali non meno dell'industria pesante e quello “culturale” sta travolgendo, per esempio, i centri di Firenze, di Venezia, in parte di Roma, piegandoli a bazar, a fiera permanente. Vanno fortissimo le grandi mostre di consumo (con gli Impressionisti, poveretti, in tutte le salse, per «idioti da viaggio», sferza «Le Monde»), mentre i musei, spesso molto belli, battono il passo, o meglio, crescono sempre i soliti noti. Un caso esemplare: sull'onda del “valorizzare” è stato prestato, per molti mesi, ad una mostra milanese lo splendido Caravaggio di Sant'Agostino a Roma; negli stessi giorni la chiesa ha mostrato seri cedimenti strutturali. Qual è il vero compito dello Stato? Valorizzare i quadri come merce, oppure salvaguardare, in ogni senso, il patrimonio? A noi la risposta sembra una sola, la seconda.
Prosegue senza soste (senza rimedio?) la penosa deriva del ministero dei Beni culturali. Il "valzer delle poltrone" denunciato con nomi, cognomi e indirizzi da Antonello Cherchi sul Sole-24 ore del 6 gennaio non è un episodio isolato, per quanto rivelatori possano essere i suoi aspetti più grotteschi, come il decreto-legge pubblicato per errore sul sito del ministero (poi velocemente ritirato), con notazioni a mano che mettono a nudo personalismi assai discutibili.Ma non si tratta solo di fatti di costume, pur deplorevoli, bensì del profondo malessere di tutta l´amministrazione pubblica della tutela. E´ infatti significativo che le lotte di potere, le spartizioni, i favoritismi clientelari abbiano a oggetto le poltrone ministeriali, accentuando il perverso processo di gigantismo burocratico degli uffici centrali del ministero, mentre la periferia langue. Basti qui ricordare che le direzioni generali, solo quattro fino a pochi anni fa, si sono raddoppiate con la riforma Melandri e triplicate con quella Urbani, senza contare l´aggiunta dei direttori regionali. Continua intanto l´annoso blocco delle assunzioni, più o meno metà delle Soprintendenze sono coperte per reggenza in mancanza di Soprintendenti di ruolo, e l´età media dei funzionari si aggira sui 55 anni. Viene così stravolto e mortificato il principale vanto della storia italiana della tutela, il suo carattere territoriale. Il ministero diventa un mostro con una testa sempre più grande e un corpo sempre più gracile. Soprintendenze, archivi e musei fronteggiano compiti accresciuti con fondi cinicamente decurtati a ogni Finanziaria (lo ha ricordato Corrado Augias in queste pagine) e personale sempre più scarso e sempre più vecchio. In questo contesto, il nuovo Codice dei Beni Culturali o qualsiasi altra norma rischia di diventare rapidamente carta straccia per mancanza di chi ne curi l´applicazione.
Ma finite le Soprintendenze per il graduale pensionamento di tutti e la mancanza di turn over, chi si occuperà della tutela in Italia? Per i musei almeno, la risposta è pronta, anzi strombazzata a ogni occasione: ci penseranno le fondazioni museali. Peccato che chi le presenta come la soluzione salvifica rimuova in blocco i fatti: la legge Veltroni che prevede le fondazioni museali a cui "conferire" in gestione i patrii musei è del 1998, il regolamento Urbani del 2001; ma ad oggi esiste una sola Fondazione costruita intorno a (o a spese di) un museo statale, quella del Museo Egizio di Torino. Ma esiste veramente? Sembrerebbe di sì, visto che è stata solennemente inaugurata due volte, da Urbani e poi da Buttiglione, e che può contare sul robusto appoggio di due grandi fondazioni bancarie. Ma fino ad oggi non si è riuscito nemmeno a "conferire" il Museo alla Fondazione, che gestisce la biglietteria mentre a tutto il resto (Museo e personale) pensa lo Stato. Esiste in compenso un Consiglio di amministrazione (dove non siede nemmeno un egittologo), che ha assunto il nuovo direttore del Museo senza consultare il Comitato Scientifico, presieduto e composto da egittologi illustri.
Le Soprintendenze vengono defunzionalizzate (anche con la creazione delle direzioni regionali, ulteriore tramite burocratico fra tutela territoriale e ministero), le fondazioni non riescono a decollare, e intanto si moltiplicano e si radicano le posizioni di potere nei corridoi del ministero. Se il disegno è di chiudere bottega non c´è che dire, la strategia è perfetta. E´ dunque diventato un ferrovecchio anche il glorioso articolo 9, il più originale della nostra Costituzione come ha detto il Presidente Ciampi? Mentre si avvicinano le elezioni politiche, è giusto ricordare che gli elementi di questa deriva istituzionale, che negli anni del centrodestra ha raggiunto un livello preoccupante, hanno però radici nei governi di centrosinistra. Ad essi risale l´istituzione delle direzioni (allora Soprintendenze) regionali e la prima, più moderata moltiplicazione delle poltrone ministeriali; ad essi l´istituzione delle fondazioni museali, ottima idea per convogliare iniziative e fondi privati se la normativa non fosse stata concepita in modo così sgangherato. Anche il blocco delle assunzioni, assoluto in questa legislatura, fu solo modestamente intaccato nella precedente.
Di fronte a questa crisi ormai insopportabile del settore, questi precedenti poco esaltanti vanno tenuti a mente. Finora non è stato rivelato quale sia il progetto della coalizione di centrosinistra su questo fronte delicatissimo e vitale, e speriamo di saperlo presto. Un´inversione di tendenza è necessaria, ma perché sia efficace occorrerà alla sinistra anche una buona dose di autocritica. Se la Costituzione non è un ferrovecchio, l´amministrazione pubblica della tutela ha bisogno non solo di più fondi, ma di un´iniezione massiccia di nuovo personale di garantita competenza, di Soprintendenze territoriali autonome e funzionali, di una burocrazia centrale più snella, di un nuovo rapporto con Regioni, enti locali e privati ridisegnato sulla base di un grande patto nazionale per la tutela.
Una recentissima ricerca internazionale di FutureBrand - che raccoglie le opinioni degli operatori, degli esperti e dei fruitori del turismo planetario - ci dice che, per richiamo turistico, il Marchio Italia è ancora primo nel mondo per due segmenti: l'arte e la storia. Mentre sta ormai fra il 10° e il 15° posto per la natura ed è scivolato al di sotto del 15° per le spiagge. È lampante quindi che laddove (natura e spiagge) si è molto distrutto, cementificato e asfaltato, l'Italia è diventata assai meno attraente e dove invece, nonostante tutto, si è conservata la «materia prima », essa ha mantenuto una sua seduzione di massa. Merito del settore pubblico, dello Stato e dei suoi tanto bistrattati tecnici in primo luogo. Non certamente della grande massa dei privati.E però il ministro Rocco Buttiglione si ostina a perseguire, nella gestione dei beni culturali, un «modello misto pubblico-privato» attraverso «ragionevoli liberalizzazioni», per esempio attraverso lo strumento delle Fondazioni. L'onorevole ministro, mentalmente, continua a scindere - come faceva, in modo sciagurato, il TitoloV della Costituzione voluto dal centrosinistra, a maggioranza - la valorizzazione dalla tutela. Come se la conservazione accurata del patrimonio storico-artistico e di quello paesistico-ambientale, strettamente integrati, fosse cosa diversa dalla sua valorizzazione e quest'ultima toccasse essenzialmente ai privati realizzarla.
Del resto, lo si è toccato con mano alla Scala: appena i soci privati ci hanno messo qualche euro, hanno preteso di dettare loro la linea culturale e gestionale, mentre il nuovo soprintendente Stephan Lissner già reclama per il massimo teatro italiano il ritorno all'ente pubblico, sia pure nel quadro di una logica imprenditoriale. Quindi, bisogna stare attentissimi a non indebolire sia la presenza pubblica sia il ruolo tecnico-scientifico dei Soprintendenti. Che invece il predecessore di Buttiglione ha snervato e frustrato come mai era avvenuto, probabilmente pensando di privatizzare i Musei più importanti, quelli che, secondo certuni, possono «rendere», dare profitti. Poco informato l'allora ministro Giuliano Urbani il quale non sapeva che ilGrand Louvre, con l'imponente apparato di servizi commerciali messo in piedi, ricava da quelle «entrate proprie» meno del 20% del totale (il restante 80 sono denari pubblici).Né sapeva che le «entrate proprie» del Metropolitan Museum non raggiungono il 50% della parte attiva. Il resto, anche lì, è denaro pubblico, o sono donazioni.
Dal ministero retto ora da Buttiglione arriva qualche notizia (era ora!) non negativa: è stata evitata alle monete antiche una riduzione della tutela; si è rimesso nel cassetto quel silenzio-assenso dopo 120 giorni nella vendita di beni culturali pubblici che tante proteste (il ministero li chiama «equivoci ») aveva suscitato da parte delle associazioni e delle opposizioni. Tuttavia lo stato generale del ministero rimane dei più gravi e grandissimo il disagio dei suoi operatori.
Il disastro dei beni culturali e ambientali provocato dalla gestione Urbani si riassume del resto in poche cifre: su 66 soprintendenze territoriali, ben 27, cioè il 41 per cento, risultano vacanti, mentre 5 sono a contratto esterno. L'idea che circola è quella di continuare a non fare concorsi veri, rigorosi, proseguendo nella pratica dequalificante delle promozioni interne, dopo corsi di formazione assai modesti, ed inserendo, magari, gli esterni nei ruoli del ministero. Giustamente, nella recente Giornata di protesta sui beni culturali (organizzata dal Comitato per la Bellezza e dalla «Bianchi Bandinelli»), Irene Berlingò, responsabile dell'Assotecnici, ha denunciato come si tenda sempre più a creare Soprintendenze uniche e quindi a «regionalizzare», di fatto, la rete della tutela. Il modello?La Regione Sicilia. Dove però ne stanno succedendo di tutti i colori, con scambi di ruoli che ignorano ogni competenza acquisita negli studi e sul campo: funzionari amministrativi al Museo Archeologico Eoliano, un archeologo, invece, alla Biblioteca di Catania, un architetto, per contro, all'Archeologico di Palermo, il più antico museo dell'Isola, e un altro al Museo Storico- artistico Bellomo di Siracusa. Qui la politica è entrata con le scarpe e tutto nella gestione e nella tutela dei beni culturali, e i risultati, disastrosi, sono sotto gli occhi di tutti. Se questo è il modello, povero patrimonio culturale della Nazione. Del resto, al vertice del Ministero romano, un dirigente storico delle Biblioteche come Francesco Sicilia è stato dirottato al Paesaggio e a capo delle 17 direzioni regionali sopravvivono un solo storico dell'arte e un isolato archeologo.Due specie in estinzione. Gli altri sono architetti o amministrativi. Anche qui, naturalmente, molti risultano i reggenti, ben 6 su 17. Ma l'intera dirigenza dei Beni culturali sta al di sopra, mediamente, dei 50 anni. Senza concorsi seri, si va vero l'estinzione, comunque ad un sicuro declassamento. Contanti saluti alla «materia prima» Arte&Storia che fa ancora grande il Marchio Italia nel mondo. Un suicidio anche sul piano strettamente economico.
Ma questa irresponsabile classe di governo che pure porta in allegria il Paese alla «devolution » (70 miliardi di euro di costo), al vertice dei Beni culturali ha pensato bene di aumentare fino a 47 i direttori generali centrali che con Spadolini era 3 e con Veltroni eMelandri 7-8. La situazione è pure nera, nerissima anzi, all'Ambiente dove più che il ministro Altero Matteoli comanda, in realtà, il capo di gabinetto Paolo Togni il quale cumula almeno 5 incarichi. Sempre nella Giornata di Protesta sui Beni culturali e ambientali, il segretario generale aggiunto delWwf, Gaetano Benedetto, ha dipinto questo affresco a tinte fosche: l'attuale maggioranza di governo o non applica le direttive Ue o le attua «in salsa italiana». La pianificazione di area vasta non esiste più. Il Piano nazionale dei trasporti (governo Amato) è stato buttato via. Siamo sotto infrazione europea, oltre che per il Ponte sullo Stretto, anche per la legge sulle acque, con la direttivaUe in materia inapplicata. La legge delega per l'ambiente (ormai incombente), passata alle Camere soltanto per un veloce parere, farà disastri a raffica. Sui rifiuti abbiamo abbassato la soglia delle salvaguardie in modo decisamente pericoloso. Per l'energia il governo ha chiesto nuove centrali a tutto spiano (promosse col decreto Marzano), ma non ha ancora detto di quanta energia abbia bisogno il Paese.
Quindi, non essendoci obiettivi, non esiste una politica per il risparmio energetico, né per le fonti rinnovabili alternative. L'Enel punta al carbone e si riparla di nucleare. «Siamo dunque in rotta di collisione col protocollo di Kyoto», ha sottolineato Benedetto. Il quale ha aggiunto altre pennellate in nero: i tagli ai fondi per i Parchi sono stati continui e pesanti; le nomine alla guida dei medesimi sono state di basso profilo e rigorosamente politiche, anzi partitiche. Infine, le associazioni ambientaliste riconosciute dal ministero sono balzate da 28 a 57. Miracoli dell'ambientalismo? No, del clientelismo politico. Da dove ripartire? Dall'articolo 9 della Costituzione (finché c'è) e dalle direttive dell'Unione Europea in materia ambientale. Per ricostruire Testi Unici, leggi, prassi di governo, dirigenze tecniche, autonome e preparate, al
Ezio Mauro ha indicato su questo giornale alcune anomalie della destra italiana, e le ha ribadite e argomentate rispondendo al presidente del Consiglio: cultura populista, monopolio televisivo, conflitto d’interessi e leggi ad personam. Sono le principali anomalie, ma non le sole. Un’altra ne ha rilevato Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera del 5 agosto: "Mentre è la destra che dovunque mira a rappresentare e a difendere i valori e le istituzioni nazionali, in Italia invece no". Solo così si spiega il recente codicillo secondo cui gli archivi della presidenza del Consiglio non verranno più versati all’Archivio centrale dello Stato (come fino a oggi), ma costituiranno un nuovo, apposito archivio storico, con modalità e norme d’accesso stabilite dal presidente del Consiglio in carica. "Esempio - conclude Galli della Loggia - di una frantumazione della memoria storica del Paese e di una sorta di feudalizzazione della stessa, un piccolo-grande segno dei tempi".
Altro segno dei tempi, non meno indicativo, è la tendenza a svendere il nostro patrimonio culturale, come in una stagione di saldi al peggior offerente. Si vede qui come l’anomalia stigmatizzata dal Corriere si sposi con quelle indicate dalla Repubblica: è la moda e la prassi dell’impunità, delle leggi ad personam, della creazione di feudi e riserve di caccia, che si espande a macchia d’olio e autorizza chiunque abbia un amico in Parlamento a pretendere una legge ad hoc per coprire le sue magagne, autorizzare i suoi abusi, promuovere i suoi affari in barba all’interesse nazionale e alla Costituzione. Di tal stoffa è fatto il famigerato "archeocondono", e cioè l’indiscriminata licenza di uccidere per tombaroli e depredatori dei tesori archeologici del Paese, che verrebbero autorizzati a commerciarli liberamente col solo lasciapassare di una dichiarazione che li hanno acquisiti "in buona fede", e pagando il 5% del loro valore (si capisce, da loro stessi stabilito). Primo firmatario di questa proposta di legge è l’on. Gianfranco Conte, prontamente premiato con una poltrona di sottosegretario. La relazione introduttiva (pubblicata negli Atti della Camera) si spinge, senza nemmeno avvertire il lato grottesco, a far nome e cognome di collezionisti e antiquari perseguiti dalla magistratura per reati contro il patrimonio culturale, che da una legge come quella trarrebbero vantaggio.
Dopo un tentativo, fallito anche per merito di membri della maggioranza e del governo, di contrabbandare questa norma perversa come un articolo della Finanziaria, la legge Conte è ancora all’esame del parlamento. Maggior successo ha avuto la proposta avanzata da una lobby di collezionisti di monete (anche qui, nomi e cognomi sono noti a tutti) e fatta propria dal senatore Eufemi (Udc), che è riuscito a cacciarla a viva forza dentro un decreto-legge su tutt’altro ("Mezzogiorno e diritto d’autore").
L’orrido "emendamento Eufemi" esclude da ogni forma di tutela "le monete antiche o moderne di modesto valore o ripetitive, o conosciute in molti esemplari o non considerate rarissime". Norma in apparenza inutile, visto che il Codice dei beni culturali tutela solo le monete di "interesse storico o artistico particolarmente importante": ma è proprio ad azzerare una prassi già permissiva che è volto il codicillo Eufemi, negando la tutela anche alle monete "particolarmente importanti" in nome della loro ripetitività. Si ignora così (lo ha dichiarato l’Istituto italiano di numismatica) "che la moneta è di per sé un prodotto seriale, e che le sue potenzialità come fonte storica prescindono dalla sua unicità o rarità"; che essa, "come ogni altro reperto archeologico, assume valore in rapporto al contesto da cui proviene". La nuova norma "impedisce qualsiasi controllo sui materiali ritrovati, favorendo il commercio delle monete antiche illegalmente acquisite e incentivando gli scavi clandestini", anche perché "il giudizio sulla ripetitività delle monete e quello sull’esenzione dagli obblighi di denuncia è incredibilmente affidato allo stesso detentore delle monete, e non ad un organo competente e responsabile, come il ministero per i beni culturali".
Ci vuol poco a capire che uno sgangherato e incolto principio come questo, secondo cui la serialità esclude la tutela e il collezionista è controllore unico di se stesso, può facilmente essere esteso dalle monete ad ogni altro reperto archeologico, annientando di fatto ogni tutela. Insomma, l’emendamento Eufemi da un lato fa gli interessi dei mercanti di monete, dall’altro è il cavallo di Troia per il più vasto "archeocondono" prefigurato dalla legge Conte. Prevale, in queste ed altre norme (basti pensare a quelle sulla depenalizzazione dei reati contro paesaggio e ambiente, anch’esse concepite ad personam), quella sorta di "amorale familismo" che lontani osservatori d’oltralpe usavano rimproverare agli italiani, e cioè l’idea che provvedere agli affari di amici e parenti è molto più importante di qualsiasi legge o pubblico interesse. Perciò si fanno apertamente, con finta ingenuità e vera protervia, nomi e cognomi dei mandanti e beneficiari delle proposte: quanto più essi sono in vista, tanto più, a quel che sembra, è facile che i loro interessi prevalgano sulla pubblica utilità.
Scade intanto proprio ora il primo accordo quinquennale Italia-Stati Uniti, che vieta l’importazione in America dei nostri beni archeologici; e già l’opinione pubblica americana si sta mobilitando in favore del suo rinnovo (savingantiquities. org). Mobilitazione che avviene, paradossalmente, proprio mentre alcuni parlamentari nostrani fanno di tutto per vanificare quell’accordo, considerando monete e reperti non come documenti storici, ma solo per il loro valore venale. Si calpesta così l’art. 9 della Costituzione, che - lo dice una sentenza della Corte Costituzionale (151/1986) più volte richiamata dal presidente Ciampi - sancisce "la primarietà del valore estetico-culturale, da non subordinarsi a nessun altro, ivi compresi quelli economici".
Risalta dunque anche su questo fronte l’anomalia della destra italiana, la sua tendenza a legiferare su commissione e su misura. Archivi "privati" per la presidenza del Consiglio, monete "personalizzate" per chiunque lo voglia, feudi e satrapie per gli amici degli amici. Ma non era stato questo stesso governo ad approvare, poco più di un anno fa, un Codice dei beni culturali che garantiva, invece, un sufficiente livello di tutela per monete e reperti archeologici? Non dovrebbe, questo stesso governo, cassare l’infelice emendamento Eufemi nel più breve tempo possibile? Non dovrebbe restituire agli archivi dello Stato le carte della presidenza del Consiglio? O si persevererà nel legiferare contro la Costituzione, contro i valori e le istituzioni nazionali, contro gli accordi internazionali, contro un Codice prodotto da questa stessa maggioranza di governo?
Uno Stato, come qualunque altra cosa, vive anche di simboli. Che non sono solo lo stemma, l'inno o la bandiera. Sono pure alcune istituzioni nazionali che con la loro sola esistenza esprimono, simbolicamente appunto, la consapevolezza dei cittadini di avere un retroterra e un destino comuni: un sistema scolastico unitario, per esempio, una radio pubblica, una polizia di Stato. O anche un archivio centrale dello Stato.
Di tutto ciò, però, la destra italiana si direbbe che non gliene potrebbe importare di meno. Mentre è la destra in particolare, infatti, che dovunque mira a rappresentare e a difendere i valori e le istituzioni nazionali, nel nostro Paese invece no. Nel nostro Paese essa li difende solo finché le fa comodo (o, il che fa quasi lo stesso, finché lo permette la Lega). Non si spiega altrimenti l'introduzione, passata fin qui inosservata, di un brevissimo comma all'interno di un lungo ed eterogeneo decreto legislativo approvato qualche mese fa e che sarà pubblicato nei prossimi giorni nella Gazzetta Ufficiale, entrando così in vigore. Un piccolo comma grazie al quale si otterrà un effetto, però, di rilievo: né più né meno che la cancellazione di un ganglio decisivo dell'attuale sistema archivistico nazionale e di documentazione dello Stato unitario.
Il comma di cui sopra prevede, infatti, che d'ora in avanti tutte le carte della Presidenza del Consiglio dei ministri non saranno più versate all'Archivio centrale dello Stato, bensì conservate in un apposito, neocostituito, archivio storico della stessa Presidenza «secondo le determinazioni assunte dal presidente del Consiglio dei ministri con proprio decreto».Con il medesimo decreto, si aggiunge, «sono stabilite le modalità di conservazione, di consultazione e di accesso agli atti presso l'archivio».
Insomma, d'ora in avanti, almeno in teoria, sarà lo stesso Berlusconi, e domani Prodi o chi per lui, a decidere non solo che cosa dovrà o non dovrà essere conservato degli atti che documentano l'azione del proprio governo, ma anche chi come e quando potrà consultare e studiare i documenti in questione.
Per capire la crucialità e l'entità del fondo archivistico di cui si tratta, basterà dire che dagli uffici del presidente del Consiglio passano, come è ovvio, tutte le decisioni più importanti sia del vertice politico del Paese, sia di tutte le amministrazioni centrali e spesso anche periferiche dello Stato. Tanto è vero che attualmente sono ben 9 mila circa i faldoni contenenti tale documentazione versati presso l'Archivio centrale dello Stato, faldoni la cui consultazione è stata resa sempre disponibile con larghezza e professionalità inappuntabili dai funzionari che vi lavorano, in obbedienza alle norme generali che regolano la materia.
D'ora in poi, invece, tali norme non varranno più. Tutto dipenderà dal buonvolere dell'inquilino di Palazzo Chigi o di qualche suo dipendente. E tutto questo semplicemente perché dopo le due Camere, dopo la Corte Costituzionale, dopo la presidenza della Repubblica — che almeno tuttavia possono accampare la ragione di essere organi costituzionali — ora anche la presidenza del Consiglio, che tale non è, ha voluto il suo archivio particolare: esempio di una frantumazione della memoria storica del Paese e di una sorta di feudalizzazione della stessa a cui è difficile non attribuire il significato di un piccolo-grande segno dei tempi.
Illustre signor ministro, il Suo dicastero, si dice, ha appena fatto una sensazionale scoperta: Roma non è, come credevamo, una città ricchissima di palazzi monumentali. Anzi, di palazzi degni di questo nome ce n´è uno, e uno solo: palazzo Barberini. L’unico, Lei sottolinea, degno di accogliere sale di rappresentanza del Suo ministero, naturalmente collegate al Circolo ufficiali. Questa scoperta (dovuta forse alla Sua intelligence?) smentisce l’opinione comune, secondo la quale nessuna città d’Europa, anzi del mondo, è ricca quanto Roma di edifici storici nobilissimi, di palazzi aristocratici o cardinalizi. Smentisce anche il Suo collega di governo onorevole Giulio Tremonti, che da anni va ripetendo che lo Stato possiede, a Roma più che altrove, troppi edifici storici, e che sarebbe bene venderne un bel po’ ai privati. È invece ormai acclarato che in nessun luogo mai, se non nell’unico e solo palazzo di Roma, palazzo Barberini, possono aver sede ricevimenti e cerimonie del Suo ministero. Tutt’intorno, una città di catapecchie, favelas che gareggiano con quelle di altre latitudini, di altri continenti. In questa situazione da terzo o quarto mondo, la Sua insistenza per appropriarsi di palazzo Barberini non più abusivamente, bensì "a titolo perpetuo e gratuito" appare pienamente giustificata; giustificato è il Suo rifiuto di ogni compromesso col ministero dei Beni culturali. Infondate invece le assurde pretese di chi stranamente ritiene che anche Roma, come le altre capitali europee, debba avere una grande galleria d’arte antica, e pretestuosamente ricorda che nel 1949 palazzo Barberini fu comprato dallo Stato a questo scopo esclusivo, e che almeno dal 1965 il Circolo ufficiali vi ha sede senza titolo legale. I più scatenati partigiani della Galleria nazionale d’arte antica osano persino richiamarLa al rispetto del protocollo d’intesa fra il Suo dicastero e quello dei Beni culturali, secondo cui l’intero palazzo va al museo: ma Lei ci ha giustamente ricordato che il governo di allora (1997) era notoriamente ostile alle Forze armate, e che, di conseguenza, quell’accordo (firmato da noti estremisti come Andreatta e Veltroni) non vale più. Per non dire di un altro pericoloso estremista, Alberto Ronchey, che da ministro dei Beni culturali del governo Ciampi notificò al Circolo ufficiali un decreto di sfratto esecutivo (1993), ma fu sconfitto dai Suoi prodi predecessori.
Le confesso che da alcune settimane non vado a Roma. Quanto dev’essere cambiata, ultimamente! Io non ricordo favelas né catapecchie, bensì una città gloriosa di splendidi palazzi, ricchissima di edifici di proprietà pubblica, molti dei quali sottoutilizzati. Ho anzi sempre dato ragione all’on. Tremonti quando sottolineava l’immensità di questo patrimonio immobiliare, anche se non sono d’accordo con lui che il miglior modo di utilizzarlo sia di cederlo ai privati in quattro e quattr’otto. Mi rattristava un po’, è vero, ogni volta che andavo nella nostra città capitale, dover constatare che, se vogliamo cercarvi una grande pinacoteca, dobbiamo ancora andare in Vaticano, come se a Porta Pia non fosse accaduto proprio nulla; mi rattristava andare a palazzo Barberini e vederne le meravigliose collezioni, ma sapendo che solo il 20% di esse può esservi esposto, perché il Circolo ufficiali occupa il resto. Mi turbava, anche, il diffuso pettegolezzo secondo cui la parte di palazzo Barberini occupata dal Circolo viene usata ben poco per cerimonie di rappresentanza della Difesa, ma è regolarmente data in affitto per ricevimenti privati (nozze, compleanni, prime comunioni). Mi infastidiva, come contribuente, il pensiero che decine di milioni di euro siano stati già spesi dallo Stato per spostare il Circolo ufficiali e destinare a museo il palazzo, e che le resistenze del Circolo ne ritardino sine die l’apertura al pubblico.
Insomma, signor ministro, la Roma di cui Lei ci parla, la Roma di catapecchie con un unico palazzo degno del Suo dicastero, è molto diversa dalla Roma di cui io ho esperienza e memoria. Può soccorrermi, Signor Ministro? Può aiutarmi a risolvere questo dubbio angoscioso? Quale è la Roma vera, la mia o la Sua?
Come cambierà la tutela e la gestione dei beni culturali in Italia? Lo sapremo presto. Per sette mesi una commissione, nominata dal Ministro Urbani nel dicembre 2001 e presieduta da Gaetano Trotta, ha lavorato a un nuovo progetto, consegnato lo scorso luglio ma non ancora reso pubblico. È un progetto come tanti, destinato ai patrii archivi? Si direbbe di no, dato che nel frattempo una legge-delega (nr. 137 del 6 luglio) ha dato al Governo amplissima facoltà di legiferare su «riassetto e codificazione in materia di beni culturali», in particolare mediante «la codificazione delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali» (art. 10). La legge prescrive di «aggiornare gli strumenti di individuazione, conservazione e protezione dei beni culturali» ricorrendo a fondazioni e accordi fra Stato, Regioni e privati, il tutto «senza determinare ulteriori restrizioni alla proprietà privata». Due più due fa quattro: la legge delega consente al governo di modificare anche radicalmente le leggi di tutela, il ministro ha già in mano un testo pronto, che il governo può, se crede, adottare con procedura abbreviata senza andare in aula, ma passando solo attraverso le Commissioni parlamentari.
Attenzione alle date. Il 15 giugno veniva convertito in legge, con qualche correzione, il decreto sulla dismissione del patrimonio artistico e storico di proprietà pubblica in funzione della «Patrimonio Spa», della «Infrastrutture Spa» e delle cartolarizzazioni escogitate da Tremonti. Lo stesso 15 giugno il capo dello Stato scriveva al presidente del Consiglio una preoccupata lettera che era e resta l’unico richiamo al destino del nostro patrimonio culturale dettato da alto senso istituzionale e non da improvvisazioni avventate. All’allarme di Ciampi, Berlusconi ha risposto (28 giugno) che «la nuova normativa postula il mantenimento di tutte le garanzie previste dalla legislazione vigente», e ha escluso ogni intervento normativo di correzione o chiarimento.
Questo richiamo alle regole non convince nessuno. Prima di tutto, la «legislazione vigente» prima del 15 giugno vietava l’alienazione del patrimonio artistico di proprietà pubblica, e la legge Tremonti la rende invece possibile, con la debole garanzia di una previa intesa fra ministro dell’Economia e ministro dei Beni Culturali. Ma c’è di più: che senso ha richiamarsi alla «legislazione vigente» il 28 giugno, quando già era all’opera una commissione incaricata per l’appunto di riscrivere le leggi di tutela? E se era già pronta la legge del 6 luglio con la delega al governo a rivedere l’intera materia? Come mai Berlusconi scriveva a Ciampi richiamandosi alla «legislazione vigente» negli stessi giorni in cui il suo governo era al lavoro per modificarla ?
La tutela del patrimonio culturale in Italia ha una storia istituzionale e civile che viene da lontano (dagli Stati pre-unitari), ed è anzi la più antica e gloriosa del mondo. Da sempre il suo punto essenziale è il nesso forte di musei e monumenti col territorio in cui sono incardinati: e proprio al prodigioso continuum fra città, paesaggio, musei si deve l’unicità del caso Italia, il suo massimo fattore di attrattività e competitività. Ma l’altissimo tasso di conservazione del patrimonio nel nostro Paese non sarebbe stato possibile senza la lunga tradizione delle leggi di tutela. Fu da quella cultura istituzionale e civile che nacquero le leggi di tutela dell’Italia unita, fino alla legge 1089 del 1939, le cui norme sono state recepite nel Testo Unico dei Beni Culturali (1999). Per quanto adottata in epoca fascista, quella legge fu il punto di riferimento al momento di scrivere la Costituzione della Repubblica, e ne ispirò uno dei principi fondamentali, l’art. 9: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». La Corte Costituzionale ha intanto chiarito (sentenza 151/1986) che l’art. 9 sancisce la «primarietà del valore estetico-culturale», che non può essere «subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici», e pertanto dev’essere «capace di influire profondamente sull’ordine economico-sociale». Precisamente il contrario della ratio politica e giuridica della legge sulla «Patrimonio Spa» con quel che segue; una legge che capovolge uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione per trasformare i beni culturali in una mera riserva di risorse economiche.
Dopo la spinta a privatizzare la gestione dei musei (Finanziaria 2002) e la legge sulla «Patrimonio Spa», dobbiamo dunque aspettarci fra poco una nuova legge di tutela. Che senso ha, infatti, la delega a codificare in materia di beni culturali a tre anni dalla redazione di un Testo Unico, se non c’è il progetto di modificarlo in modo radicale? Non è questo un tema che meriterebbe, nel Parlamento e nel Paese, un’amplissima discussione? L’appuntamento con una nuova legge di tutela è importantissimo: si coglierà l’occasione per correggere le storture delle leggi precedenti, in particolare di quella sulla «Patrimonio Spa»? O se ne approfitterà per allargare le maglie della tutela, per introdurre una più o meno selvaggia deregulation, per semplificare vendite e dismissioni, per cedere spazio ai privati senza garanzie istituzionali? Intanto, in veloce sequenza, la Gazzetta Ufficiale del 6 agosto ha cominciato a pubblicare elenchi di beni pubblici che potrebbero essere dismessi; intanto i nostri vicini di casa ci giudicano. Per citare un solo esempio, il 22 agosto la Süddeutsche Zeitung ha commentato quegli elenchi con un articolo intitolato, in italiano, «Vendesi Italia», sottotitolo: «Il catalogo è questo: uno Stato vende la propria cultura». Ne riporto solo la conclusione: «Chi non si accontentasse di quello che viene ora offerto non ha che da pazientare, si sa come vanno queste cose: prima viene la paccottiglia, poi l’argenteria di casa, e i gioielli arrivano in fondo. Altri cataloghi seguiranno prima della fine dell’anno; in essi i tesori artistici e storici in svendita verranno elencati e prezzati al centesimo. Chiaramente, l’Italia sta per privatizzare il proprio passato e la propria bellezza. Berlusconi passa per un fautore della modernizzazione, ma queste misure non hanno nulla di moderno, ricordano al massimo qualche burocrazia di corte settecentesca. I moderni, al contrario, hanno capito da gran tempo che cultura e bellezza sono parte essenziale delle infrastrutture di un Paese».
Un piccolo paese, Spilamberto, provincia di Modena. Un´area grande sessanta ettari nei pressi del fiume Panaro, dove i boschi avvolgono quel che resta di un antico stabilimento di polveri da sparo. Un progetto per realizzare, nel bosco, trecentosessanta appartamenti, una città di mille abitanti, con alberghi, centri commerciali e uffici. Un vincolo della Soprintendenza sull´intera area, al quale, però, si è subito mostrato contrario il ministero per i Beni culturali nella persona di Roberto Cecchi, allora Direttore generale, e che, insieme ad altri interventi molto rigorosi, è costato il posto a chi lo aveva emesso, il soprintendente dell´Emilia Romagna Elio Garzillo.
Sono gli ingredienti di una storia che divide questo piccolo paese, ma che scuote anche il ministero retto da Giuliano Urbani, deciso a smentire l´operato del suo soprintendente. In questi giorni, infatti, da Roma è partita un´ispezione che deve verificare se quel vincolo è corretto, ma che, temono in molti, rappresenta il primo passo per annullare il provvedimento e dare via libera al progetto edilizio.
La zona della lottizzazione è a sud del paese. Qui nel 1510 fu avviata dagli Estensi la produzione di polvere da sparo. Furono edificati casotti e laboratori, fino ad arrivare, in epoca napoleonica a un manufatto tuttora esistente, circondato poi da stabilimenti realizzati fra Otto e Novecento. Tutto intorno il paesaggio è di grande bellezza, il bosco è solcato da corsi d´acqua e modellato da rilievi e terrapieni fitti di alberature che scendono fino al fiume.
A poco a poco la polveriera, che prende il nome di Sipe, diventa la più grande industria del modenese, occupando fino a 20 mila persone. La proprietà dell´area e degli stabilimenti passa di mano in mano (per un certo periodo è appartenuta a Cesare Romiti e poi alla Fiat). Fino alla chiusura, negli anni Settanta.
L´attuale proprietà, la Green Village, ha presentato un progetto per trasformare i sessanta ettari in un quartiere residenziale e commerciale. In cambio bonificherebbe il terreno, in cui si sono accumulati scarichi di tutti i tipi, e cederebbe i capannoni al Comune che vi realizzerebbe un Polo scientifico-tecnologico. Il Comune (centrosinistra) ha accolto il progetto. Ma in paese sono da tempo montate le proteste. Si è formato un agguerrito comitato di cittadini, che ha raccolto centinaia di firme. Fin dall´inizio è intervenuta contro il progetto Italia Nostra, seguita da Wwf e Legambiente.
Il Comune sostiene la bontà dell´iniziativa, vantando la cessione degli stabilimenti e i benefici della bonifica, per la quale, aggiunge, non avrebbe i soldi. Ribattono il comitato e le associazioni ambientaliste: la proprietà non regala nulla, perché si disfa di capannoni che non potrebbe riutilizzare, essendo costosissimo il loro restauro; inoltre, secondo gli oppositori, la bonifica spetta per legge ai proprietari. Gli esponenti del comitato lamentano poi che Spilamberto non ha alcun bisogno di case per altre mille persone (il dieci per cento dell´intero paese) e del suo sconvolgente carico urbanistico. E aggiungono che questa zona del modenese è già satura di cemento, per cui preservare un´area verde, di grande pregio paesaggistico e così densa di memoria, non può che far bene a una collettività strangolata da case e capannoni.
Che la zona andasse tutelata si era convinto anche l´ex soprintendente Garzillo, il quale a fine aprile scorso ha proposto un vincolo paesaggistico. Dura è stata la reazione del Comune, che si è persino rifiutato di affiggere nell´albo pretorio il provvedimento, producendosi in un elogio del nuovo Codice dei Beni culturali di Urbani - inedito per esponenti del centrosinistra - che di lì a qualche giorno sarebbe entrato in vigore e che, a detta dell´Amministrazione, avrebbe reso inutile il vincolo. Nel frattempo un ricorso al Tar contro il vincolo veniva respinto, ma intanto per Garzillo è arrivato il trasferimento al Ministero. Per molte associazioni di tutela, quella di Garzillo, come di altri soprintendenti che insieme a lui persero il posto in quella tornata di nomine, fu una vera punizione.
Con l´ispezione la palla torna a Roma. Ma quando ci si infila nei meandri burocratici le complicazioni non finiscono mai. Contemporaneamente al trasferimento di Garzillo, venne decisa la promozione di Cecchi a capo del Dipartimento paesaggio e beni culturali, il ponte di comando del ministero. Ma ora la Corte dei Conti ha sospeso quella nomina: Cecchi non avrebbe maturato, dicono i magistrati contabili, l´anzianità necessaria.
«E' stata un' esperienza logorante». Quattro anni ai vertici del Consiglio nazionale per i beni culturali e ambientali, dove prese il posto di Federico Zeri, sono comunque stressanti. Ma l' ultimo in particolare, alle prese con Giuliano Urbani e Vittorio Sgarbi, hanno esaurito la pazienza anche di un uomo pacato come Giuseppe Chiarante. Che, presa carta e penna, ha mandato una lettera di dimissioni dalla carica di vicepresidente (presidente è il ministro). I motivi sono tanti. Ma ne risaltano due. Primo: il Consiglio non è più un Consiglio, perché non è stato consultato in occasione di importanti leggi che riguardano il nostro patrimonio artistico, culturale e ambientale. Secondo: la politica del ministro (e del governo) tende a impoverire le strutture tecnicoscientifiche dell' amministrazione e ad affidare compiti rilevanti all' esterno. Cioè ai privati.
«Se non mi fossi dimesso sarei stato connivente con il totale svuotamento del Consiglio. E questo non era sopportabile», aggiunge l' ex senatore del Pci, fondatore di un' associazione che porta il nome di uno dei grandi dell' archeologia novecentesca, Ranuccio Bianchi Bandinelli. Chiarante è impegnato da anni nella salvaguardia del nostro patrimonio, in nome della quale non ha risparmiato critiche anche nei confronti del centrosinistra. E ora cosa succederà? «Ho rimesso il mandato di vicepresidente, ma resto nel Consiglio. D' altronde ho ricevuto la solidarietà di moltissimi consiglieri, persino di quelli indicati da Forza Italia».
Anche loro contro il ministro?
«Non condividono il fatto che venga esautorato il principale organo di consulenza tecnica del ministero, un organo elettivo formato dai rappresentanti di archeologi, architetti, storici dell' arte, interni ed esterni al ministero, da soprintendenti come La Regina e Martines, da studiosi di diritto e da esponenti delle associazioni ambientaliste».
Segnali di protesta?
«Circola l' ipotesi di un' autoconvocazione. E' prevista dalla legge. Staremo a vedere».
Ma quali sono le leggi sulle quali non siete stati consultati?
«Tutte quelle che riguardano i beni culturali. La legge che riforma la normativa di tutela. La cosiddetta leggeobiettivo di Lunardi, che consente ristrutturazioni e anche demolizioni di edifici salvando solo sagoma e volume. Una tragedia per molti centri storici».
E quali altri provvedimenti?
«Gli articoli della finanziaria che affidavano ai privati la gestione dei musei. Chiesi che venisse convocato il Consiglio. Ma al loro rifiuto firmai un appello con tutte le associazioni ambientaliste contro quel diniego. Sgarbi reagì dicendo che non avrebbe più riunito il Consiglio se non ci fossimo dimessi Vittorio Emiliani ed io».
E come andò a finire?
«Quel testo venne parzialmente modificato. Resta ambiguo, ma almeno è stato eliminato il punto che assegna ai privati la completa gestione».
Vi hanno consultati sull' istituzione della Patrimonio S.p.A., che dovrebbe gestire e anche alienare i beni dello Stato, compresi quelli culturali, oppure usarli come garanzia ipotecaria?
«Neanche per idea. Sulla vendita dei beni abbiamo mantenuto sempre una posizione restrittiva. Con il governo di centrosinistra ci siamo battuti perché il Foro Italico a Roma non venisse ceduto. E alla fine il ministro Melandri l' ha spuntata, ottenendo che solo lo Stadio, pesantemente manipolato dopo la guerra, fosse dichiarato vendibile». Ora si aprirà il complesso trasferimento di molte funzioni alle Regioni. Anche su questo vi hanno tenuti all' oscuro? «A una mia lettera ha risposto il capo di gabinetto del ministro: la questione è politica, non tecnica. E' un assurdo. A dir la verità Sgarbi è sembrato più disponibile. Ma Urbani ha chiuso il discorso».
A questo punto, però, si profila un problema politico. Qual è la politica del ministro Urbani?
«Urbani ha una visione quasi sacerdotale della tutela, ma sulla gestione vorrebbe affidare quante più cose ai privati».
Segue una logica mercantile? E' questo che vuol dire?
«Mi limiterei a parlare di economicismo. Ma la sua scelta è direttamente collegata ai drastici tagli nella spesa. Nel decennio scorso sono stati incrementati i fondi di 300 miliardi l' anno. Negli ultimi tempi si è arrivati a 400. Poca cosa, intendiamoci. Ma il governo ha reciso anche questi».
Si sente dire che i musei debbano diventare redditizi.
«Ci ridono dietro persino gli americani. Il Metropolitan si finanzia per il 33 per cento con gli incassi. Poi intervengono fondazioni private e soldi pubblici. Ho letto uno studio americano in cui si calcola che chi va a visitare il Moma, dorme in media una o due notti a New York, mangia al ristorante, compreso quello del museo, paga i mezzi pubblici o un garage, fa acquisti. E' così che si può stabilire il beneficio economico di un museo, che normalmente persegue altri fini».
Sarebbe inutile elencarli.
«Guardi che questa ossessione sulla redditività porta a concentrarsi solo sui musei, trascurando che il patrimonio italiano è diffuso ovunque. Nei centri storici, per esempio. Infatti i tagli penalizzano soprattutto le Soprintendenze territoriali, che devono spaccare il capello in quattro, arrovellandosi con procedure che farebbero inorridire qualunque uomo d' azienda».
Diventa lei un aziendalista?
«Ma lo sa che se in una Soprintendenza finiscono i soldi per le pulizie non si possono usare quelli destinati alla benzina e viceversa? I capitoli di bilancio sono rigidissimi. E questo fa lievitare i residui passivi, cioè i soldi non spesi. Un paradosso. E non sono nei guai solo le Soprintendenze: l' Istituto centrale per il restauro ha dovuto ridurre al minimo le missioni».
Ma questo indirizzo non mortifica anche la tutela?
«Certamente. Questo ministero separa nettamente tutela, da una parte, valorizzazione e gestione dall' altra. Ma un restauro che cos' è? Solo tutela? O non è anche valorizzazione?»
Sgarbi la pensa come Urbani?
«In molti casi no. Sgarbi è sensibile alla tutela. Ne ha una visione persino conservatrice. Condivido molte sue posizioni, altre no. Ma lui è attento ai singoli interventi, non alle questioni strutturali, quelle più proprie del ministero».
Per esempio?
«Gli avrò chiesto mille volte di occuparsi delle scuole di restauro. E' possibile che chi frequenta un corso all' Istituto di Patologia del libro o all' Istituto centrale per il restauro, due perle del nostro sistema, prenda un diploma che ha lo stesso valore di quello ottenuto presso una qualunque scuola privata?».
Il ruolo del ministero si è indebolito?
«Indubbiamente. Prendiamo il caso delle conferenze di servizi, che si occupano di opere pubbliche. Prima il parere dei Beni culturali era vincolante. Poi, ancora con il centrosinistra, questo potere si è attenuato e in molti casi decideva la Presidenza del Consiglio. Io non sono mai stato d' accordo. Ma tant' è. Ora la conferenza di servizi è solo un organo istruttorio. Chi decide è il Cipe, dove prevalgono ragioni economiche. E lì può davvero accadere di tutto».
Repubblica, 31 maggio 2002
La pubblicazione di un’ampia antologia di scritti di Cesare Brandi sulla tutela del paesaggio e dell’arte [1] sollecita alcune riflessioni circa i modi dell’abitare e il senso del costruire.
Osservando il paesaggio contemporaneo non si può certo dire che lo spirito umanistico sia vincente: è anzi di frequente oggetto di derisione da parte di un certo cinismo postmoderno e da quanti ritengono che non più il mondo organico, di cui pure l’ homo faber fa parte, ma solo le scoperte della scienza e le innovazioni della tecnica con le relative filosofie ed estetiche debbano costituire regola e modello a cui adeguare le forme dell’abitare.
Per costoro gli scritti di Cesare Brandi non possono che risultare antiquati come antiquato a costoro appare l’essere umano. L’umano, con il suo antichissimo corpo, con la sua antichissima fisiologia, con la sua arcaica psicologia costituisce invece negli scritti di Brandi un tramite insostituibile dell’esperienza di mondo, un metro di paragone e una chiave interpretativa dei paesaggi, dei luoghi, dell’architettura, e in generale dell’opera d’arte, foriera di giudizi penetranti che arrivano sempre al cuore delle cose.
Quello di Brandi è uno sguardo colto ma non diviso, che non separa la res cogitans dalla res extensa, i valori del pensiero dalla “naturalità” dell’anima, dal suo essere corpo oltre che mente.
La misura umana con tutti i suoi limiti non rappresenta per lui un «complesso di inferiorità» [2] da eliminare, come invece da più parti oggi si teorizza, in nome del presunto nuovo spirito del tempo postorganico, biotecnologico, virtuale a cui l’organismo dell’uomo e il suo spazio dovrebbero sottomettersi.
La consapevolezza che l’umano è dato di natura irrinunciabile oltre che un fatto di cultura lo porta a ricordare che «conta solo quello che è presente all’occhio nel caso delle arti figurative: il corredo culturale è corredo e corredo resta» [3]. Quanto alla visione spazio-temporale elaborata dalla fisica moderna - scrive Brandi - «non è una visione (ma una ipotesi scientifica) e non ha nulla a che fare con i dati immediati della sensibilità» [4]. Per questo, si potrebbe aggiungere, lo spazio premoderno, con la sua misura umana, può risultare oggi ancora sensato e magari più sensato di quello proprio della metropoli contemporanea che a tutto guarda fuorché alla figura, alle dimensioni e ai limiti fisici del corpo e si dimentica dei vecchi come dei bambini.
Ogni visione meramente concettuale, un io senza occhi [5] abituato a pensare le cose nel vuoto, a giudicarle in sé, isolate da qualunque contesto reale, delocalizzate, come invece non capita mai nell’esperienza concreta, può infatti creare luoghi inospitali: Nella vita reale, non virtuale, le cose come gli esseri umani sono sempre corpi di e in relazione con altri corpi ed è dalla relazione che deriva gran parte del loro senso, il loro ruolo recitante. Solo indugiando nei luoghi, ascoltandoli, come fa Brandi, con tutta la pienezza del sentire, lasciandosi attraversare come da presenze animate è possibile percepire quanto i colori, i materiali e le forme «astratte, mentali e non ambientali di tante strutture del neoplasticismo» [6], e di tanta speculazione edilizia moderna, confliggono con certi ambienti. Confliggono innanzi tutto con la spazialità organica dei tessuti modesti ma sempre a scala umana delle città antiche. Dove lo spazio è una consolazione per l’occhio, la mano, il piede: accessibile nelle sue sequenze ravvicinate senza bisogno di dipendere da mezzi meccanici. Dove l’armonia tra le cose, tra gli interni e gli esterni, tra il tessuto continuo delle case e i monumenti «è così saporosa da far sentire tutta la città come veramente gettata in una sola volta» [7], come fosse un unico integro corpo umano. Per questo laddove il tessuto connettivo venga malamente demolito e i monumenti isolati, la città pare sanguinare e generare dolore nell’animo di chi la abita.
Per usare le parole di Simone Weil, stretto è il nesso tra lo «spirito lacerato […] crocifisso […] e lo spazio di cui lo spirito è possessore […]. Per questo l’unità nello spazio è una così grande consolazione. Uno spazio chiuso è il simbolo del mondo, di cui lo spirito è proprietario» [8].
Ed è proprio perché lo spirito soffre come fosse carne che Brandi di fronte allo scempio subìto dalle cortine settecentesche di Palermo può scrivere: «la città, colpita amaramente nelle sue parti più tenere, sanguina: sanguina lungo il rovinoso Corso, lungo la folta e squarciata via Maqueda; sanguina a via Alloro, a piazza Bologni, nella Cala» [9].
Da qui la lezione: come un essere umano risulta sofferente e menomato se subisce l’amputazione di un braccio o di una gamba e perde identità fino a morire quando le sue membra dilaniate giacciono sparse, così la città antica non appare più un organismo armonioso se alla demolizione di alcune sue parti si sostituiscono protesi estranee. Anzi perde il suo carattere urbano se viene frantumata, dispersa, o ridotta ad un assemblaggio di edifici monumentali, senza alcuna fisica relazione: «una città - Brandi lo ribadisce più volte - non consiste solo nei suoi monumenti più degni ma in tutto il tessuto connettivo» [10].
In casi come Bologna, Siena, Venezia, Catania, Noto, Lecce, Anagni, Casale e tanti altri centri storici è proprio il tessuto urbano minuto, domestico, di connessione e gli spazi aperti pubblici delle strade e delle piazze a fare l’aria della città: ad essere il monumento «degno e particolare» [11] da preservare come tesoro per la civiltà dell’abitare.
Per questo, afferma Brandi, «se c’è un’eresia in fatto di tutela e di rispetto, è proprio quella di sconnettere il tessuto urbano per costituire un monumento in una forzata solitudine e in uno spazio aggirante» [12]. Così come è una eresia sconnettere l’identità, conquistata nel tempo, di un luogo urbano in nome del feticismo scolastico di un rudere che non appartiene più da secoli alla vista e dunque alla memoria collettiva.
Ma la protervia di certa edilizia astratta, non ambientale, di certi «innesti massicci e fuori scala [o di certe] casacce sghembe che si posano in falso» [13] ha il potere di distruggere anche l’ordine «umano e sovrumano» [14] di taluni paesaggi magici a cui l’uomo ha imposto un sigillo tale che «nulla la sua intelligenza potrà aggiungere o il suo intuito rivelare» [15]. Paesaggi dove tutto «è quanto di più lindo e riposante si possa offrire alla beatitudine allo sguardo e al sollievo della mente» [16], dove le serre di aranci hanno «la pienezza ricciuta del vello di un agnellino» [17], o dove i monti hanno «membrature muscolose come un gigante» [18]. O dove ancora la «trama fitta e impalpabile, di aria, di luce, di colore» rende il «verde tenero e lucente […] come avvolto in una fascia di veli azzurri, quasi il mare respirasse e quell’azzurro fosse il suo fiato» [19].
In questi contesti ogni architettura presuntuosa, sgarbata, incurante e incapace di riconoscere dove si offre, come un dono, la bellezza dei luoghi, genera lo stesso effetto sfigurante provocato da «ordigni ortopedici» [20] in un corpo sano, dai «denti finti di acciaio […] in un bel volto» [21] o dai «foruncoli nella giovane pelle degli adolescenti» [22].
Con questo Brandi non sostiene che le visioni più astratte e le concezioni spaziali elaborate dalla scienza e dalla tecnica moderna non possano rappresentare «un elemento della poetica di determinati artisti» [23]; critica semmai con forza la pretesa che una poetica personale possa costituire canone di giudizio universale dell’architettura e che possa essere ubiquitaria. Pone, in altri termini, la questione dell’ etica della personalità.
Per usare le parole di Nicolai Hartmann, la «rivendicazione di una propria particolarità da parte dell’individuo» non può mai andare a discapito delle «esigenze etiche universali», senza le quali non può esistere la comunità umana. Allo stesso modo discriminante per il giudizio sull’opera d’arte è che il suo diritto alla personalità non dimentichi l’imperativo etico a cui l’arte del costruire è chiamata a rispondere: l’essere il compito dell’architettura quello di creare luoghi abitabili, ossia di reinventare ogni volta cosmo in opposizione al caos. Il che significa operare perché la ricerca di armonia, di spazi di relazione e di condivisione tra gli umani e tra gli umani e il mondo prevalga sulle pulsioni di morte, sugli istinti aggressivi e distruttivi.
Solo così l’eleganza, la grazia, la gentilezza, la tenerezza, la misura - tutti attributi che Brandi associa al concetto di civiltà e di bellezza - possono prevalere sulla brutalità, sull’arroganza, sull’osceno, sull’irrazionale e il deserto di senso di cui si rendono colpevoli non solo i «criminali di guerra» ma anche i «criminali di pace»: «i guastatori delle città, gli speculatori edilizi» [24]. La bellezza, per il potere che ha di celebrare e testimoniare nel mondo la sacralità della vita, non deve essere «confinabile nei musei o in certi luoghi particolari» [25] ma deve poter permeare i paesaggi, le città, le strade, le piazze, perché la terra tutta possa essere abitabile come il grembo accogliente di una madre.
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[1] Cesare Brandi, Il patrimonio insidiato. Scritti sulla tutela del paesaggio e dell’arte, a cura di Massimiliano Capati, Editori Riuniti, Roma 2001.
[2] Ivi, p. 125.
[3] Ivi, p. 30.
[4] Ivi, p. 31.
[5] «Né il sindaco aveva occhi, né gli assessori avevano occhi, nessuno aveva occhi per queste turpitudini edilizie». Ivi, p. 362.
[6] Ivi, p. 94.
[7] Ivi, p. 376.
[8] Simone Weil, Quaderni. Vol. I, Adelphi, Milano 1982, p. 206.
[9] Brandi, Il patrimonio, cit. p. 344.
[10] Ivi, p. 213.
[11] Ivi, p. 278.
[12] Ivi, p. 279.
[13] Ivi, p. 361.
[14] Ivi, p. 358.
[15] Ibidem.
[16] Ivi, p. 151.
[17] Ivi, p. 93.
[18] Ivi, p. 352.
[19] Ivi, p. 95.
[20] Ibidem.
[21] Ivi, p. 137.
[22] Ivi, p. 302.
[23] Ivi, p. 31.
[24] Cesare Brandi, Terre d’Italia, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 189.
[25] Ibidem.
Vendere, vendere, fare cassa, trasferire a Tremonti quanto più si può, da una parte il condono edilizio più vasto che si conosca, dall altra la cessione dei beni culturali pubblici. Col filtro di un esame da parte delle Soprintendenze le quali certifichino quali siano vendibili e quali no. Già, ma in quanto tempo? Appena trenta giorni. Dopo di che, se la Soprintendenza competente, povera di mezzi e di tecnici e però sepolta sotto le pratiche da sbrigare (oltre 20mila in Lombardia per appena 22 architetti), non risponde, cosa succede? Il senatore dell’Udc, Ivo Tarolli, aveva risposto alla domanda con un emendamento esplicativo: scatta il silenzio/assenso.
Per il patrimonio storico-artistico? Sissignore, per il patrimonio storico-artistico, per il cuore pubblico del Bel Paese.
Adesso arriva trafelato (ma ugualmente sorridente) il ministro Urbani il quale prende carta e penna per smentire il troppo esplicito sen. Tarolli salvandosi temporaneamente in extremis. Dunque il silenzio/assenso non sarà così automatico e tuttavia l’articolo 27 del collegato alla legge finanziaria ripete di continuo il termine entro trenta giorni, ossessivamente. Ma non c’era, con tempi ben più adeguati, il regolamento n.283 elaborato apposta per la vendita e per la cessione in uso, emesso nel settembre 2000 con decreto firmato da Ciampi? E questo regolamento, costato un anno di lavoro, non era stato condiviso dagli enti locali e regionali, coi tempi giusti, gli elenchi preparati in due anni? È vero, c’era. Anzi, il ministro Urbani l’aveva dichiarato intangibile. E invece con queste disposizioni infilate in tutta fretta nella finanziaria egli lo travolge con tutti i suoi accurati paletti (si vende soltanto questo, si cede in uso soltanto sulla base di un piano di utilizzo, il Comune può esercitare diritto di prelazione, ecc.). Prevale la logica della Patrimonio dello Stato SpA, delle varie SCIP (bel nome per le società che vendono o cartolarizzano il patrimonio immobiliare pubblico), dell’Agenzia del Demanio la quale impone alle Soprintendenze i tempi: nel termine perentorio di trenta giorni (art. 27 del collegato).
Ma è tutta l’Amministrazione dei Beni culturali ad essere trattata così. Sono vacanti otto posti di dirigente centrale nel settore quanto mai delicato dei beni archeologici? Bene, due posti li togliamo subito all’archeologia perché uno serve per la segretaria del capo di gabinetto del ministro Urbani e l’altro al sottosegretario allo Sport Pescante che giustamente farà arrivare un altra segretaria dal Coni. Con tanti saluti agli Etruschi e ai Piceni. Aspettano da secoli, possono ben aspettare un altro po’.
C’è sempre più allarme attorno ai Beni culturali e ambientali. Il Ministero, sotto la gestione ciarliera di Giuliano Urbani, appare fermo, inanimato, coi finanziamenti ordinari che ricominciano a scarseggiare come negli anni peggiori e con provvedimenti sulla salvaguardia del Bel Paese, sempre più sbrigativi, sempre meno ponderati, comunque volti a privatizzare, smantellare, indebolire. Del resto, la sede più idonea, e praticata, per discutere e mettere a fuoco, spesso in chiave critica, leggi e misure fondamentali è stato sempre il Consiglio Nazionale per i Beni culturali che, ad esempio, con Veltroni e Melandri ministri, si riuniva sovente sotto l’esperta vice-presidenza operativa di Giuseppe Chiarante. Ebbene, dal 12 dicembre dello scorso anno, cioè da dieci mesi, questo organismo - consultivo quanto autorevole - non è stato più convocato. In compenso il ministro Urbani, non contento del fatto che vi fosse, assai recente, un Testo Unico delle leggi sul patrimonio, ha voluto porre mano ad un Codice dei beni culturali con sempre nuove semplificazioni (a favore dei privati, mai dell’Amministrazione), nuove scorciatoie e accelerazioni. Alle quali peraltro si provvede con decreti legislativi o coi collegati alla Finanziaria davvero micidiali per dirompenza.
In un recente convegno promosso dall’Associazione Banchi Bandinelli, lo stesso Giuseppe Chiarante e la segretaria dell’Assotecnici, Irene Berlingò, hanno sottolineato gli aspetti negativi del decreto legislativo ora alla cosiddetta Bicameralina (presieduta dal senatore Cirami, noto per altre gesta). Anzitutto si depotenziano ancor di più le Soprintendenze territoriali ad indirizzo specialistico (Beni artistici e storici, Beni architettonici e paesaggistici, Beni archeologici) sulle quali, dalle leggi giolittiane a ieri (passando per le due leggi Bottai che ne furono la sostanziale riverniciatura), si è retta la tutela, magari con mezzi finanziari da carestia e però con grande autorevolezza. Oggi sminuita dal ruolo dei soprintendenti regionali e, più in generale, dei titolari degli uffici dirigenziali generali che, con la controriforma Urbani, diventano addirittura 40. Unica consolazione: in una prima ipotesi risultavano 50. E pensare che col Ministero di tecnici progettato da Giovanni Spadolini erano appena 6 e anche col Ministero più largo di Walter Veltroni 30. Saranno i soprintendenti regionali a costituire, nelle diciotto Regioni a statuto ordinario (in quelle a statuto speciale, soprattutto in Sicilia, succede di tutto e di più), una sorta di potentato, probabilmente influenzato dal Governatore locale. Saranno loro a gestire la suddivisione della spesa (che si è rifatta magra dopo anni generosi, fra 1995 e 2001), le gare d’appalto, il personale di nuovo carente. E i vincoli chi li apporrà? Ci dovrà pensare una sorta di conferenza regionale dei soprintendenti. Che è un altro bel modo di rallentare e forse di insabbiare tutto. Una volta era un potere primario del soprintendente territoriale specializzato. In più il ministro Urbani ha anticipato di voler fare del Consiglio Nazionale una sorta di corte d’appello dove i privati possano ricorrere contro quei vincoli pubblici già divenuti così faticosi. Così gli strumenti della tutela vengono manomessi e devitalizzati.
Dal ridisegno del Ministero è sparita la figura del segretario generale e nessuno se ne dorrà più che tanto, come di altre sparizioni. Ma sono scomparsi pure archivi e biblioteche rimessi nel calderone generico delle belle arti. Per le biblioteche si torna a prima del 1926 allorché fu creata la direzione generale delle biblioteche e delle accademie. Del resto, qual è il sistema di valori che sta prevalendo? La cultura non è più un valore in sé. Ha valore se rende, se frutta, se incassa. Oppure se attrae sponsor, se può essere usata per costruirci sopra il mitico Evento. Quale redditività economica possono avere archivi e biblioteche? Quale Evento può essere costruito su di loro? Quindi, Urbani e i suoi spazzato via l’ingombro di dover discutere di queste cose in Consiglio Nazionale provvedono a cancellare dal ruolo delle pur moltiplicate direzioni generali la fonte stessa della nostra storia, del nostro sapere, la memoria costituiva del Bel Paese (archivi e biblioteche).
Domani, chissà, si potrebbe darli in gestione a privati, esternalizzarli, quasi fossero centralini telefonici. Le fototeche, in fondo, potrebbero essere un piatto ghiotto, da gestori americani, o giapponesi.
Del resto, l’attuale ministro per i Beni culturali lo sottolineano da tempo le associazioni, da Italia Nostra al Wwf - ha taciuto sulle leggi-obiettivo del collega Lunardi che pure aggrediscono il paesaggio, sulla legge Gasparri per antenna selvaggia, sulla Marzano sblocca-centrali. Sul più devastante dei condoni (esteso per la prima volta a porzioni di aree demaniali occupate da privati) Urbani ha emesso qualche generico lamento. Dopo aver cestinato il Regolamento Melandri sulle alienazioni di beni culturali pubblici, si appresta ad assentire, col Codice da lui voluto, alla cancellazione della legge Galasso sui piani paesistici. Del resto, che fine ha fatto l’Osservatorio sul paesaggio? Dove sono spariti altri progetti scaturiti dalla Conferenza Nazionale per il Paesaggio? Nel dimenticatoio. Giuliano Urbani scrive ogni giorno, in uno col collega Matteoli dell’Ambiente e sotto la regìa di Tremonti, nuovi capitoli del Libro Nero dei Beni culturali e ambientali. Così, dal Bel Paese passiamo sempre più al Mal Paese.
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Venerdì, al ministero dei Beni Culturali, andrà in scena un capitolo decisivo per la tutela del patrimonio storico-artistico-ambientale del nostro Paese: verrà deciso, infatti, quali beni, in base al nuovo Codice, saranno considerati intangibili e quali potranno invece essere trasferiti ai privati. Alla vigilia, il cartello di associazioni impegnate nella difesa del nostro patrimonio - Bianchi Bandinelli, Comitato per la Bellezza, FAI, Italia Nostra e WWF, insieme all'Assotecnici - sottoscrivono l’appello che alcuni accademici dei Lincei (Antonino Di Vita, Sergio Donadoni, Tullio Gregory, Natalino Irti, Alessandro Pizzorusso, Adriano Prosperi, Giovanni Pugliese Carratelli, Salvatore Settis) hanno inviato nei giorni scorsi alle più alte autorità dello Stato. Eccone il testo:
«Nell’imminenza dell’emanazione di un nuovo Codice per i Beni Culturali, riteniamo che la nuova normativa debba ispirarsi ad alcuni principi irrinunciabili:
1-Il rigoroso rispetto dell’art. 9 della Costituzione, secondo il quale lo sviluppo della cultura, la ricerca, la tutela del patrimonio culturale e paesaggistico formano un tutto inscindibile, un’organica unità che vede i cittadini come protagonisti.
2-La concezione attiva e dinamica della tutela, essenzialmente destinata alla fruizione culturale dei beni da parte dei cittadini, secondo la lettura dell’articolo 9 della Costituzione offerta dalla Corte Costituzionale (sentenza nr. 269 del 1995).
3-La “primarietà del valore estetico culturale”, che, sempre secondo la Corte Costituzionale (sentenza nr. 151 del 1986) “non può essere subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici”, ma dev’essere “capace di influire profondamente sull’ordine economico-sociale”.
4-La concezione del patrimonio culturale italiano non come una somma disaggregata di beni, ma come un insieme, un continuum , nel quale ogni singolo bene (monumento, area archeologica, museo) s’incardina strutturalmente nel territorio, e così identifica la stessa comunità dei cittadini.
5-La necessità di preservare rigorosamente l’intrasferibilità, in qualsiasi forma ed a qualsiasi soggetto, dei beni di interesse storico-artistico-archeologico, che sono nel demanio e nel patrimonio pubblico, distinguendoli, mediante urgenti misure di censimento, dagli altri beni di proprietà pubblica che non rivestano quell’interesse. E la congiunta necessità di adottare norme legislative idonee a raggiungere tale scopo, anche modificando o restringendo norme vigenti.
6-Il dovere dello Stato di assicurare la tutela del patrimonio culturale mediante lo sviluppo della conoscenza e della ricerca, nonché garantendo la funzionalità e l’aggiornamento della pubblica amministrazione nel relativo settore.
7-La necessità di concepire i beni culturali e paesaggistici come un patrimonio su cui è opportuno investire, e non come un patrimonio da investire.
8-La necessità di considerare la salvaguardia del patrimonio culturale come impegno unitario, sottraendosi a insidiose e arbitrarie distinzioni, come, ad esempio, quella fra tutela e gestione, dato che tipi e forme di gestione possono essere determinati o delimitati soltanto da esigenze di tutela
9-La necessità di un’azione mirata e concorde di Stato, Regioni ed altri enti locali, che salvaguardi i beni di rispettiva pertinenza, avendo come obiettivo essenziale la miglior tutela del patrimonio piuttosto che la sua segmentazione, distribuzione o devoluzione.
10-La necessità di assicurare efficienza ed economicità della tutela e della fruizione, ricorrendo ad imprese private soltanto per i servizi aggiuntivi, che non compromettano in alcun modo i compiti primarî e insostituibili della pubblica amministrazione».
Antonino Di Vita, Sergio Donadoni, Tullio Gregory, Natalino Irti, Alessandro Pizzorusso, Adriano Prosperi, Giovanni Pugliese Carratelli, Salvatore Settis
Due articoli recenti sull’argomento:
Chiarante, Beni culturali
Settis, La spada di Damocle sui beni culturali
È concreto e attuale il pericolo, assai più di quel che finora sia stato avvertito e denunciato, di un grave abbassamento - anche dal punto di vista delle garanzie contenute nelle disposizioni legislative - del livello di tutela del patrimonio storico e culturale del nostro paese. È un pericolo che discende non da intenzioni o propositi soltanto ventilati: ma dalle radicali modifiche previste dalla Commissione che ha predisposto lo schema del nuovo codice dei beni culturali, schema che il governo sarebbe ora intenzionato a varare, nella forma di un decreto delegato, già entro la fine del corrente mese di luglio. La modifica fondamentale proposta riguarda proprio la nozione del patrimonio culturale che deve essere sottoposto a tutela. Sia nella ben nota legge del 1939 (la 1089, che si basava su una tradizione che in molti casi risaliva ai vecchi Stati preunitari), sia nel Testo Unico del 29 ottobre 1999 che ha recepito quella legislazione, il patrimonio da tutelare veniva infatti identificato - era questa la norma di base - con l’insieme delle «cose immobili o mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico» (oppure demoetnoantropologico nella formulazione più aggiornata del Testo Unico); seguiva poi l’indicazione di altre categorie «speciali» di beni di interesse culturale. Lo schema del nuovo codice riprende la definizione di partenza della 1089 e del Testo Unico: ma introduce una drastica limitazione precisando che deve trattarsi di cose che presentino un interesse artistico, storico, archeologico o demoetnoantropologico «di particolare importanza». Il vincolo dell’interesse «particolarmente importante», che nella legislazione finora vigente è richiesto solo per determinate categorie di beni (le cose immobili o mobili di proprietà dei privati da sottoporre a vincolo; i monumenti che in sé non hanno uno specifico valore artistico, ma sono legati a eventi storici o culturali di grande rilievo; i libri, le stampe, gli spartiti musicali, le fotografie considerate di rarità e pregio) diventerebbe così un requisito necessario per individuare, in ogni caso, un bene culturale.
Non c’è bisogno di particolare competenza in campo legislativo per capire che in questo modo verrebbe stravolto (e radicalmente ridimensionato) l’attuale sistema di tutela. Fino a oggi per patrimonio culturale da tutelare si è sempre inteso, nella legislazione e nella concreta esperienza applicativa, quel complesso tessuto storico, artistico, ambientale che è ramificato e stratificato nel territorio e che costituisce, nella sua varietà e articolazione, la straordinaria ricchezza di cui l’Italia dispone. Se invece la condizione dell’interesse «particolarmente importante » diventasse, come la Commissione ha proposto, la chiave di volta del nuovo codice, tutto questo si stima cadrebbe; e i beni da tutelare diventerebbero, in sostanza, solo quelli dichiarati di valore storico e artistico particolarmente importante, lasciando senza tutela quelli considerati minori e soprattutto separando le opere importanti dal loro contesto. Sarebbe, in sostanza, una modifica che andrebbe esattamente in senso contrario rispetto alla richiesta - sostenuta da decenni dal mondo scientifico e ambientalista - di dare una maggiore efficacia alla tutela attraverso una più ampia considerazione dei rapporti ambientali sia urbanistici che paesistici e tutelando non solo la singola opera ma la realtà in cui è inserita. Non occorre sottolineare il carattere devastante di questa rottura del sistema della tutela. L’esperienza che ha consentito al nostro paese, nonostante guasti e trascuratezze, di conservare una parte rilevante del patrimonio trasmessoci dalla storia passata, sarebbe irrimediabilemnte compromessa. Ed è facile immaginare quali sarebbero le conseguenze in tutti i campi, compreso quello delle alienazioni.
È evidente, infatti, che se passasse una riforma così configurata, per vendere o dare in concessione a privati beni di interesse culturale non ci sarebbe neppure bisogno di ricorrere a leggi speciali come quelle sul Patrimonio Spa o a strumenti come le famose Scip ossia le società di cartolarizzazione degli immobili pubblici. Molto più semplicemente tutti i beni che fossero considerati di interesse non particolarmente importante sarebbero disponibili per essere posti in vendita dalle Amministrazioni che ne hanno la proprietà, nelle forme che esse vorranno. Tutto questo va contro - pare a me evidente - un interesse fondamentale del nostro paese, non a caso sancito in uno dei princìpi preliminari della Costituzione. Ci auguriamo, perciò, che lanciare l’allarme serva a produrre una reazione che sia pari all’importanza della posta in gioco. Una posta che riguarda le radici stesse della nostra identità nazionale e che rappresenta una fonte ineguagliabile di ricchezza culturale e materiale. Auspichiamo perciò che dal mondo della scienza e della ricerca, dalle Associazioni impegnate nella difesa della cultura e dell’ambiente, da tutti coloro che giustamente sono orgogliosi del nostro patrimonio storico e artistico e consapevoli della sua importanza, venga una protesta che costringa maggioranza e governo a rinunciare a un progetto così rovinoso e ripristinare - se non altro - una tradizione di tutela che nel corso dei decenni si era venuta consolidando e pareva, ormai, del tutto fuori discussione.
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Si veda anche:
Giuseppe Chiarante, “Patrimonio s.p.a.”
Erbani, Francesco “Beni culturali un grande affare privato”
È in dirittura d’arrivo il nuovo Codice dei beni culturali, da approvarsi (per legge delega) entro l’anno. Non è cosa da poco, visto che esso è destinato a soppiantare qualsiasi norma sui beni culturali in vigore in Italia: insomma, una prova estremamente impegnativa per chi lo ha scritto, gli uffici del Ministero e i giuristi presieduti da Gaetano Trotta, ma soprattutto la prova del fuoco per il ministro Giuliano Urbani. Sono infatti ancora aperte partite capitali, su cui si è svolto nel Paese un acceso dibattito. Per citarne solo due, il problema della privatizzazione della gestione dei beni culturali e quello dell’alienabilità dei beni culturali di proprietà pubblica, in particolare attraverso la «Patrimonio dello Stato S.p.A.» e la correlata «Infrastrutture S.p.A.». Partite importanti, che nelle interpretazioni più pessimistiche (tutt’altro che infondate) mettono a gran rischio il nostro patrimonio culturale.
Del nuovo «codice Urbani» circolano bozze e versioni varie. Eppure, sembra che nessuno abbia voglia di discutere nel merito questi punti capitali. Il fuoco di sbarramento, già cominciato, si svolge con deprimente monotonia intorno a un solo tema, la diatriba fra Stato e regioni, con scontate accuse di centralismo e non meno scontati inni alla devoluzione in cui voci «di destra» e gorgheggi «di sinistra» si confondono fino a risultare indistinguibili. Nessuno nega l’importanza di questo tema, senza però dimenticare che, ove il patrimonio pubblico dovesse essere via via alienato, a Stato e regioni resterebbe sempre meno da gestire. O forse gli allarmi di pochi mesi fa erano ingiustificati, e non è più il caso di perderci tempo? Se non è così (e cercherò di mostrarlo), il nuovo codice è un’occasione irripetibile di sanare le ferite che la legge sulla «Patrimonio S.p.A.» ha inflitto all’assetto istituzionale dei beni culturali in Italia: ed è su questo punto (oltre che sulle forme di gestione, sul rapporto Stato-regioni, e molto altro ancora) che esso andrà giudicato.
La natura devastante della legge Tremonti non è fantasia di qualche cittadino inesperto.
Giorgio Oppo, giurista illustre e accademico dei Lincei, la definisce, sulla Rivista di diritto civile, «esempio clamoroso della mancanza di fantasia e di impegno del legislatore nell’ideare specifici modelli di una gestione agile e produttiva di interessi economici pubblici», e dimostra che la legge è un monstrum giuridico di dubbia costituzionalità; intanto, sono in discussione ben tre disegni di legge (di cui uno presentato da An) per l’istituzione di una commissione parlamentare di vigilanza sulla "Patrimonio SpA". Si è tuttavia diffusa l’opinione che la "Patrimonio S.p.A." sarebbe di fatto innocua e inoperosa. Inoperosa no, visto che ha lanciato il 21 maggio un fondo immobiliare di un miliardo di euro, da gestirsi attraverso una società ora in via di selezione, e che si è presentata fra gli "espositori" al Mipim (Marché International des Professionels de l’Immobilier) di Cannes, il più importante salone di contrattazione immobiliare. Di questi giorni è poi l’annuncio della creazione di una nuova società controllata da Patrimonio S.p.A., Dike Aedifica S.p.A., che avrà il compito di finanziare la costruzione di nuove carceri mediante la dismissione delle carceri storiche (già fulmineamente trasferite alla nuova S.p.A. risultano le carceri di Mondovì, Casale Monferrato, Novi Ligure, Clusone, Ferrara, Frosinone, Avigliano, Velletri, Susa, Pinerolo e Verona; altre 69 sono in lista d’attesa); consigliere delegato di Dike è Vico Valassi, già presidente dell’Ance (Associazione Nazionale Costruttori Edili).
Ma è proprio sbagliato vendere una parte del patrimonio immobiliare dello Stato? Certamente no: ma le dismissioni (del resto sempre avvenute) dovrebbero rispondere ad alcune regole elementari. Primo, la distinzione invalicabile fra il patrimonio storico-artistico, paesaggistico e archeologico, per sua natura inalienabile, e il resto, che può ovviamente essere alienato; secondo, la trasparenza assoluta dei meccanismi di alienazione; terzo, l’equità dei prezzi rispetto al mercato. Anche se si possono avanzare seri dubbi su tutti e tre questi punti, mi limiterò ai primi due. Questo giornale ha analizzato (il 6 marzo) il meccanismo introdotto, prima della «Patrimonio S.p.A.», dalla legge 410/2001, che rende possibile la creazione di «Società per la Cartolarizzazione degli Immobili Pubblici» (Scip), saltando a piè pari ogni verifica dell’eventuale valore storico-artistico dei beni, che anzi, se demaniali, diventano «disponibili» non appena inclusi nelle liste del ministero dell’Economia. Sono state così costituite la Scip 1 e la Scip 2, mentre la Scip 3, che doveva gestire gli immobili della Difesa, è stata bloccata dal voto delle opposizioni e di An alla Camera il 2 luglio (proprio mentre decollava Dike Aedifica). Ma le due Scip già all’opera hanno incluso nel loro portafoglio decine di edifici, alcuni dei quali di valore storico, senza chiedere il parere dei Beni Culturali.
Come funzionano le Scip? Il meccanismo di cartolarizzazione (contro il quale l’Unione Europea ha invano messo in guardia l’Italia un anno fa) prevede la cessione in blocco di un portafoglio di immobili di proprietà dello Stato a società-veicolo create per l’occasione, che emettono obbligazioni, da coprirsi coi proventi delle vendite future; si registrano così a favore dello Stato degli incassi di là da venire, garantiti da quegli immobili, ipso facto alienabili. Una visura alla Camera di Commercio di Roma mostra che le due Scip sono società a responsabilità limitata, con un capitale sociale di 10.000 euro, versato al 50% da due società olandesi, Stichting Thesaurum e Stichting Palatium, ed hanno entrambe un amministratore unico, il cittadino britannico Gordon Burrows. Prima di rallegrarci di questo afflato europeistico delle Scip, guardiamo meglio. Le due Stichtingen fanno parte di una famiglia molto più ampia, il gruppo Tmf, un trust fund costituito per gestire altre imprese (delle quali il 30 per cento hanno nomi italiani, come Stichting Tiziano, Stichting Canaletto, Stichting Pantelleria e così via). La sede legale di Scip 1 e 2 è a Roma, in via Petrolini 2, di fatto presso la Kpmg, una società internazionale di consulenza finanziaria formata con la fusione di una società olandese (Klynveld), una inglese (Peat), una americana (Marwick) e una tedesca (Goerdeler); risulta infine coinvolto anche il Consorzio G6 Advisor, una vecchia conoscenza (fu incaricato di vendere il Foro Italico dal governo di centro-sinistra). E’ difficilissimo (ci hanno provato una giornalista olandese, Hedwig Zeedijk, e due giornalisti italiani, Michele Buono e Piero Riccardi) districare questo groviglio e capire chi fa che cosa.
Quel che è chiaro è che si tratta di un sistema a scatole cinesi, non proprio il massimo in termini di trasparenza; e infatti la Fatf, organizzazione intergovernativa contro il riciclaggio di denaro sporco (Financial Action Task Force on Money Laundering), ha fatto pressioni sull’Olanda per una radicale modifica della normativa, che non consenta più agli operatori di nascondersi nel comodo anonimato dei trust funds; e la sua azione è stata energicamente appoggiata dagli Stati Uniti, che temono operazioni di riciclaggio legate al terrorismo. Il Consiglio dei Ministri olandese ha approvato lo scorso 11 aprile la nuova legge, ora al Consiglio di Stato. Nella relazione ufficiale che accompagna la nuova legge, si ricorda anche una dichiarazione Ocse secondo cui il rapporto della Fatf «sarà di aiuto agli Stati membri nella lotta contro il riciclaggio e la corruzione». Ma mentre le organizzazioni internazionali protestano contro il meccanismo olandese dei trust funds, e la stessa Olanda sta per cambiare la legge, è proprio a questo meccanismo (non previsto dal nostro ordinamento giuridico) che fa ricorso il governo italiano per mettere in vendita il patrimonio dello Stato. Del resto, ha ricordato spiritosamente Tremonti, lo aveva già fatto il governo D’Alema per la cartolarizzazione dei crediti Inps.
Diranno gli esperti di finanza internazionale se non c’era proprio niente di meglio per vendere il patrimonio dello Stato; quale è il ruolo delle diverse società coinvolte, che cosa ci guadagnano e con quale vantaggio per i cittadini italiani; se i prezzi di vendita corrispondono o meno ai prezzi di mercato. A me preme sottolineare che, in un assetto tanto complicato, il grande assente è il ministero dei Beni Culturali, il cui giudizio di merito può essere agevolmente evitato. La strategia generale del Ministro dell’Economia è chiara: generare sempre nuovi meccanismi (come la legge 27/2003 per l’alienazione delle manifatture tabacchi) e nuove società (come la Dike Aedifica) per la dismissione del patrimonio immobiliare dello Stato. E’ qui che la finanza creativa del ministro Tremonti incrocia, e potenzialmente vanifica, il codice del beni culturali del ministro Urbani: se esso non farà chiarezza in questa materia, se consentirà che si continui a ignorare ogni distinzione fra immobili di valore culturale e non, il codice nascerà morto. Non possiamo aspettarci che a vigilare sul nostro patrimonio artistico siano società olandesi o consulenti finanziari inglesi. E che cosa accadrà dei beni paesaggistici in un regime di questo tipo, e con le pesanti ipoteche sulla gestione dell’ambiente che Giulia Maria Crespi, presidente del Fai, ha denunciato nella sua lettera aperta a Berlusconi dell’8 luglio? Da chi verrà gestita la sdemanializzazione delle terre di uso civico (milioni di ettari di boschi, pascoli, montagne) prevista dal disegno di legge 1241 ora in discussione al Senato? Da un’altra Scip?
Dal nuovo codice ci aspettiamo una chiara disciplina dei beni culturali e paesaggistici che faccia argine alle dismissioni facili, indirizzando gli appetiti del ministero dell’Economia verso i beni immobili sicuramente non di valore storico, artistico, paesaggistico o archeologico. Ma nessuna norma sarà efficace se non accompagnata da un adeguato censimento degli immobili di proprietà pubblica. Come scriveva già nel 1990 Giovanni Urbani, indimenticabile direttore dell’Istituto Centrale per il Restauro, va sanata «l’assurdità di una legislazione per la quale il patrimonio pubblico è una specie di oggetto misterioso, un’entità aeriforme nei cui confronti è perciò impossibile esplicare delle azioni di tutela concrete e definite». Si tratta insomma, continuava Urbani, «di riportare il patrimonio pubblico dallo stato gassoso a quello solido» mediante un’operazione di censimento tesa al tempo stesso a proteggere quanto è di valore culturale, e a «liberare» quanto non lo è. E’ importantissimo che il censimento parta subito (il ministro dell’Economia dovrebbe capire che si tratta di un investimento sul patrimonio pubblico), e che sia fatto da chi lo sa fare, cioè non dal solo Demanio, ma dalle Soprintendenze, con forze fresche e risorse adeguate; che sia efficace e trasparente, e se occorre finalizzato in prima fase all’identificazione di beni che siano immediatamente alienabili senza detrimento dei valori storici e culturali. Non meno importante, che nel frattempo si riaffermi il regime di inalienabilità del demanio storico-artistico, peraltro garantito dal codice civile.
Il nuovo codice dei beni culturali nasce in un contesto pesantemente inquinato, sotto la spada di Damocle di massicce e indiscriminate dismissioni del patrimonio pubblico. Abbiamo il diritto di aspettarci che esso non si limiti a prender atto di leggi estremamente discutibili, ma abbia il coraggio di modificare o restringere la normativa vigente per riaffermare, in linea con la Costituzione, il valore di civiltà del nostro patrimonio culturale e ambientale.
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Settis, La Spada di Damocle sui BC
Si veda anche:
Giuseppe Chiarante, “Patrimonio s.p.a.”
Settis, La svendita di Tremonti (5.3.2003)
Erbani-Settis, Se l’arte finisce…(19.10.2002)
Gli ambientalisti italiani ed europei pongono il “caso Italia” e chiedono al Presidente Berlusconi garanzie sul rispetto per l’ambiente
“Vorremmo e speriamo in una Presidenza europea che affermi con forza ed indipendenza un ruolo di responsabilità del nostro continente verso il mondo intero, dall’applicazione del Protocollo di Kyoto al problema degli o.g.m, dalla diminuzione degli impatti ambientali in agricoltura alla nuova direttiva sulla chimica. Temiamo invece una presidenza che voglia esportare un modello italiano di sviluppo, tutt’altro che nuovo, centrato sulle opere pubbliche e alle deroghe alle norme di tutela ambientale” . Hanno così dichiarato i rappresentanti delle più importanti associazioni ambientaliste nazionali e internazionali, il giorno prima della relazione al Parlamento Europeo del Presidente Berlusconi sul semestre italiano, esponendo le loro preoccupazioni. E’ stato illustrato anche un lungo e documentato Dossier sulle scelte ambientali operate proprio dal Governo Berlusconi predisposto e condiviso da un largo cartello di associazioni internazionali (WWF, Greenpeace, Birdlife International, BEE) ed Italiane (FAI-Fondo per l’Ambiente Italiano, Legambiente, LIPU, Italia Nostra, Istituto Nazionale di Urbanistica, LAC, LAV, VAS, Associazione Bianchi Bandinelli).
“In Italia è in atto una vera e propria deregulation in campo ambientale e questa è strettamente funzionale a quella politica di “sviluppo e infrastrutture” che secondo le dichiarazioni del Presidente Berlusconi dovrebbe costituire la ricetta della nuova Europa. Chiediamo al Presidente Berlusconi, proprio nel momento in cui assume un incarico così prestigioso e delicato, di avere nei confronti della questione ambientale un approccio più attento e responsabile rispetto a quello assunto finora in Italia. Auspichiamo che non si voglia proporre in Europa la stessa Valutazione d’Impatto Ambientale semplificata gia applicata nel nostro paese che renda così impossibile una seria analisi degli impatti prodotti dalle opere pubbliche. Speriamo che non si voglia portare in Europa, come si sta facendo in Italia, procedure di smaltimento dei rifiuti che non danno sufficienti garanzia per la tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini e che sono in contrasto con le stesse normative europee. Speriamo che la priorità sull’applicazione del Protocollo di Kyoto non sia schiacciata da una politica energetica, come già avviene in Italia, tesa ad incrementare i consumi ed a liberalizzare il mercato senza alcun controllo della domanda e senza nessuna programmazione territoriale degli impianti energetici. Speriamo che in tema di tutela dei beni naturali e dei beni culturali si voglia vedere questi come beni dell’umanità da preservare e non solo come occasioni economiche dove, come si intende fare in Italia per i parchi o per i musei, l’opportunità di sfruttamento gestita dai privati potrebbe compromettere il senso stesso della tutela”
Il lungo DOSSIER predisposto dalle Associazioni Ambientaliste, inviato ai Capigruppo di tutti i Gruppi Parlamentari Europei, oltre che al Presidente Berlusconi con una richiesta di incontro, passa in rassegna l’attività dei primi due anni del Governo Berlusconi insediatosi in Italia nel giugno 2001. Nel Dossier si passano in rassegna le politiche ambientali italiane, al di là dell’attività del Ministero dell’Ambiente, dalle opere pubbliche all’energia, dalle acque ai rifiuti, dalle telecomunicazioni ai beni culturali. “Non si tratta solo di una deregulation normativa” sostengono gli ambientalisti “ma di un vero e proprio ribaltamento di valori: oggi più che mai si afferma la prevalenza dei valori economici ed occupazionali rispetto a quelli della tutela, della conservazione, dell’identità culturale”.
“I fatti non ce lo consentirebbero, ma noi vogliamo lo stesso essere ottimisti e fiduciosi” hanno detto gli ambientalisti. “Crediamo che con quest’assunzione di ruolo del Governo italiano il Presidente Berlusconi ed i vari Ministri possano rendersi conto che le normative di tutela non possono semplicemente essere liquidate come “ecoburocrazia”, secondo la semplicistica definizione del documento ufficiale italiano inviato a Bruxelles. Sarebbe indicativo ed auspicabile, anche quale segno di distensione, sospendere in Italia per il semestre di Presidenza europea tutte quelle proposte di nuove norme, ad incominciare dalla legge delega in campo ambientale, che entrano o che potrebbero entrare in netto conflitto con le normative comunitarie. Potrebbe questo essere un buon biglietto da visita capace di spazzare via possibili equivoci sulla possibilità di esportare in Europa anche la deregulation normativa posta in essere in Italia”.
Strasburgo, 1 luglio 2003
Il testo del dossier in formato .pdf
Drastici tagli alle spese hanno colpito in tutta Italia gli istituti archivistici - Archivi di Stato e Soprintendenze archivistiche – dipendenti dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Le riduzioni, che interessano soprattutto i capitoli di funzionamento,oscillano tra il 40 e il 60 % del fabbisogno, determinato dagli effettivi consumi di energia elettrica, gas metano, acqua, pulizia locali, tassa di nettezza urbana, manutenzione ordinaria degli impianti. Esse porteranno entro pochi mesi alla totale paralisi di tutte le attività istituzionali,ivi compresa l'erogazione dei servizi al pubblico.
Sono in pericolo, quindi, le funzioni di tutela, di conservazione e di comunicazione della memoria storica, pubblica e privata, nelle sue straordinarie e molteplici articolazioni: dagli archivi delle persone,delle famiglie, delle comunità locali, fino a quelli delle istituzioni pubbliche e statali. Questa memoria, che costituisce il fondamento dell'identità nazionale, copre un arco cronologico ultramillenario che va, senza interruzioni, dal Medioevo ai giorni nostri e per essa il nostro Paese è famoso e ammirato nel mondo. Una vasta platea di utenti italiani e stranieri studenti, ricercatori, professionisti, storici, cittadini trova negli istituti archivistici indispensabili strumenti di lavoro e di conoscenza. Gli archivi, d' altra parte, sono essenziali anche per assicurare la conoscenza storica e quindi la tutela di tutti gli altri beni culturali, da quelli archeologici, a quelli librari, architettonici e artistici.
La sorte di questo patrimonio documentario di inestimabile valore è ora in pericolo!!I responsabili degli Archivi di Stato e delle Soprintendenze Archivistiche,certi che si possa e si debba assicurare la continuità delle fondamentali funzioni di conservazione e di tutela svolte da questi Istituti, denunciano la gravità della situazione al Ministro e ai competenti organi del Ministero, affinché vi pongano rapidamente rimedio; diversamente, la chiusura degli istituti archivistici sarà di fatto inevitabile.
31 marzo 2003
CHE STA succedendo sul fronte della dismissione del patrimonio artistico di proprietà pubblica? Dopo le polemiche sulla legge Tremonti dello scorso 15 giugno, uno strano silenzio circonda il destino dei nostri monumenti. Nessuno contesta che lo Stato possa vendere una parte dei propri beni (cosa che infatti si è sempre fatta), ma quella parte del patrimonio pubblico che è di riconosciuto valore storico-artistico era sempre stata inalienabile.
Quella legge, al contrario, per la prima volta nella storia italiana abbatteva a cannonate la barriera fra demanio pubblico e demanio artistico rendendo tutti i beni dello Stato disponibili ai meccanismi della cartolarizzazione e della vendita, in un gioco di bussolotti fra la "Patrimonio dello Stato s.p.a." e la "Infrastrutture s.p.a.", come questo giornale ha chiaramente spiegato. La debole garanzia di una preventiva intesa con il ministro dei Beni culturali, peraltro limitata ai soli monumenti "di particolare valore artistico e storico" non è bastata a tranquillizzare le coscienze di chi ha a cuore il futuro di questo Paese, tanto più che di quelle preoccupazioni si fece subito interprete il capo dello Stato, con una lettera al presidente del Consiglio.
Se quelle preoccupazioni sembrano ora meno pressanti a una parte dell’opinione pubblica, non è certo per la vaga e fumosa risposta di Berlusconi (che anzi peggiorava la situazione negando l’evidenza), ma per una direttiva emanata dal Cipe il 19 dicembre, che fissava precisi paletti "etici" alla dismissione dei beni artistici, e soprattutto per le dichiarazioni del ministro dei Beni culturali.
Da alcuni mesi, infatti, Giuliano Urbani non solo ha spesso affermato che avrebbe presidiato il patrimonio artistico scongiurandone la dismissione, ma ha anche detto nel modo più esplicito che la nuova codificazione delle norme di tutela, in preparazione a cura di una commissione presieduta da Gaetano Trotta, avrebbe messo al primissimo posto l’inalienabilità del patrimonio artistico e avrebbe accresciuto, non diminuito, le garanzie di tutela, in conformità con l’articolo 9 della nostra Costituzione. Il livello dei giuristi della commissione Trotta e la creazione, in parallelo, di un Consiglio scientifico per la tutela hanno dato credibilità alla nuova strategia del ministro.
È dunque giunta l’ora di mettere le nostre preoccupazioni nel cassetto? Sarà vero, come ha scritto recentemente il Giornale, che chi protestava a gran voce deve ora ammettere che c’era cascato come un ingenuo? Ahimè, no. Non c’è ragione di dubitare delle dichiarazioni di Urbani, ma intanto il suo collega di governo Tremonti percorre, ignorandole bellamente, una strada diametralmente opposta, e ha già cominciato a svendere il nostro patrimonio culturale. Veniamo ai fatti, incontestabili. Il primo fatto si nasconde sotto una sigla evocativa, Scip, che sta per "Società per la Cartolarizzazione degli Immobili Pubblici", creata, si badi bene, prima della "Patrimonio spa", con la legge 410 del 23 novembre 2001. Passata allora inosservata, questa legge introduceva in realtà una norma dirompente: essa infatti, come hanno scritto Giacomo Vaciago e Salvatore Parlato, si fondava «sull’idea di dismissione in blocco unico del patrimonio immobiliare dello Stato mediante il conferimento a una o più società veicolo appositamente costituite»; non solo, ma «allo scopo d’addivenire a soluzioni di first best» veniva «eliminata la procedura di richieste di pareri e limitata la possibilità di apporre vincoli». In altri termini, la norma è concepita in modo da evitare lo scomodo passaggio attraverso il parere del ministero dei Beni culturali, al punto che la stessa inclusione di un determinato immobile nelle liste pubblicate dal ministero dell’Economia, secondo la legge «produce il passaggio dei beni al patrimonio disponibile» (art. 3, c. 1), sottraendoli al demanio artistico (per sua natura inalienabile), e rendendone in tal modo agevole la vendita. Come si vede, non siamo solo nell’anticamera della "Patrimonio spa", ma in un meccanismo ancor più radicale, «la manifestazione di una chiara volontà da parte del governo di voler procedere a una massiccia dismissione del patrimonio immobiliare» (Vaciago).
Questa norma non è rimasta lettera morta: come ha rivelato sul Giornale dell’arte di febbraio Gaetano Palumbo (del World Monuments Fund), si è già proceduto attraverso la Scip a una prima asta di 35 beni di proprietà pubblica, da Milano a Palermo, da Genova a Trieste. Si badi bene: la legge prevede esplicitamente che gli immobili da porsi in vendita con questa procedura «non sono soggetti alle autorizzazioni di cui al d.l. 490/1999», cioè al Testo Unico sui Beni culturali, ed esclude ogni diritto di prelazione nell’acquisto da parte di tutti gli enti pubblici, centrali e locali (art. 3, c. 17). Viene in tal modo elusa anche la procedura per «l’alienazione di beni immobili del demanio storico e artistico» fissata dal governo precedente con Dpr 283/2000, e più volte richiamata dal ministro Urbani come garanzia contro le dismissioni troppo facili.
Non è tutto. Un nuovo d.l. (n. 282), datato 24 dicembre 2002, e cioè in clima non di Natale ma di Finanziaria, e convertito in legge n. 27 il 21 febbraio scorso, ha introdotto con un colpo di mano il concetto di «dismissione urgente», mettendo in vendita «a trattativa privata, anche in blocco» in una trentina di città italiane svariati immobili, di cui 27 appartenenti all’Ente Tabacchi. «La vendita fa venire meno l’uso governativo, le concessioni in essere e l’eventuale diritto di prelazione spettante a terzi», continua la legge. Fra gli altri immobili velocissimamente posti in vendita figura la Manifattura di Firenze, edificio monumentale già vincolato dal ministero (che non è stato nemmeno consultato), ma dismesso da Tremonti in dispregio delle leggi e delle dichiarazioni del suo collega Urbani, per quanto già destinato a "Cittadella della Cultura". Un altro esempio è la Manifattura di Milano, già destinata alla Scuola Nazionale del Cinema (che dipende dal ministero dei Beni culturali), e letteralmente "scippata" da un ministro all’altro. In molti casi, l’acquirente risulta essere la Fintecna, e cioè una società privata (ex Iri), ma controllata dallo stesso ministero dell’Economia: così per esempio l’edificio di Tor Pagnotta a Roma, dove hanno sede uffici del ministero delle Finanze, non sarà più proprietà dello stesso ministero, ma di Fintecna, che tuttavia è da esso controllata, e a essa dovrà pagare l’affitto, con un’operazione, suppongo, di finanza "creativa", o meglio fittizia. Il vulnus inferto da questa legge alle norme di tutela, ma anche alla credibilità delle dichiarazioni governative, getta un’ombra sinistra sul futuro del nostro patrimonio monumentale e ambientale. Dovremo assistere impotenti a nuovi scippi come questi?
Senza accumulare altri esempi (sarebbe facile), preferisco finire con una domanda. Quale è, su questo fronte, la politica del governo, dov’è la verità? Nelle dichiarazioni di Urbani, o nelle dismissioni di Tremonti? O dovremo pensare che il presidente Berlusconi, pur così poco incline ad apprezzare la cultura islamica, si è convertito alla dottrina della doppia verità professata dai seguaci dell’arabo Averroè?
Ho ritenuto opportuno raccogliere in un libro di rapida lettura una serie di scritti che nel corso degli ultimi mesi ho dedicato alla tanto discussa "Patrimonio S.p.A" e, più in generale alle disposizioni legislative che prevedono la possibilità di alienare, per fare cassa, beni appartenenti al patrimonio culturale dello Stato; o che, comunque, affacciano l’ipotesi di affidarli in concessione a una gestione di tipo privatistico che inevitabilmente comporterebbe limiti sia per un'efficace azione di tutela sia per la fruizione e il godimento pubblico. Ho integrato questa raccolta di scritti - quasi tutti già apparsi, anche se talvolta in forma ridotta, su giornali o riviste - con precisazioni e annotazioni che arricchiscono l'argomentazione o la rafforzano con dati o documenti. Nella seconda parte del volume mi e' invece parso opportuno riunire altri interventi, anch'essi molto recenti o comunque elaborati negli ultimi anni, che si riferiscono a problemi diversi da quello delle alienazioni e delle concessioni, ma che hanno una connessione molto stretta con il ragionamento di fondo che sta all base degli scritti raccolti nella prima parte.
C'è un filo rosso che, in modo molto evidente, percorre e unifica il libro. Esso sta nella preoccupazione, in me e non solo in me molto forte, per la preminenza che negli ultimi tempi e' venuta via via assumendo - in modo più palese nel campo dei beni culturali, ma con conseguenze molto negative anche in altri campi delle attività culturali, dalla scuola alle varie forme di comunicazione - una visione che tende a subordinare la cultura e la politica che la riguarda a un'impostazione di tipo economistico e alla pervasiva ideologia liberista. Tale subordinazione produce, infatti, conseguenze devastanti. Non solo perché apre pericolosamente la strada a distorsioni in senso aziendalistico e mercantilistico nell'elaborazione delle politiche culturali. Ma perché spinge a smarrire o comunque ad annebbiare il senso profondo del valore della cultura e del patrimonio culturale: quel senso profondo che sta nell'essere un elemento essenziale dell'identità di un popolo, nel costituire un fondamento da cui non si può prescindere per un avanzato sviluppo umano e civile, nel rappresentare un fattore qualificante per la formazione di una personalità libera e matura. Decisivo, perciò, è riaffermare, contro questa perversione economicistica, che il fine fondamentale delle politiche culturali deve essere nella valorizzazione della risposta che la cultura dà ai più alti e più ricchi bisogni dell’uomo: e quindi nell’avanzamento della ricerca e della conoscenza, nell’ampliamento della sfera delle libertà, nella fruizione da parte di un numero crescente di donne e di uomini di quanto di meglio la storia umana ha prodotto.
Proprio per questo mi è parso e mi pare giusto sottolineare due contraddizioni apparentemente paradossali che caratterizzano la situazione attuale. La prima è che – si tratta di un esempio, ma è un esempio molto significativo: ho perciò voluto dedicare ad esso il primo saggio raccolto nel volume – mentre la classe dirigente dello Stato italiano di fine ‘800 (uno stato davvero povero e con basi ancora molto fragili) dopo lunghe discussioni dovute appunto alle difficoltà economiche avvertì come dovere nazionale procedere all’acquisto di un autentico tesoro come la Galleria e la Villa Borghese, viceversa la classe dirigente dell’opulenta Italia di oggi, ottava potenza industriale al mondo, non esita a considerare la possibilità di vendere o dare in concessione anche parti importanti del patrimonio culturale pubblico per ridurre il deficit del bilancio statale. Senza per nulla sopravvalutare i governi di fine Ottocento, questo confronto è estremamente indicativo della miseria della cultura politica oggi dominante.
Il secondo apparente paradosso (e questo vale non solo per i beni culturali, ma per tutti i settori della cultura) è che proprio quando l’avanzamento scientifico e tecnologico e il dispiegamento delle forze produttive potrebbero ormai consentire – tanto più in un paese ad elevato reddito come l’Italia, e più in generale in tutto l’Occidente – di ridurre il tempo di lavoro e di dedicare una quota sempre più rilevante delle energie materiali e umane non a un’indefinita corsa alla crescita illimitata della produzione e del consumo di merci, ma alle più ricche e libere attività umane quali quelle dalla conoscenza e della cultura, proprio in questo momento prevale una concezione che tende a subordinare le attività formative e culturali a criteri economicistici o addirittura a una visione mercificante.
Ho parlato di contraddizioni “apparentemente paradossali” perché, in realtà, esse non si basano solo su errate valutazioni soggettive, ma affondano le radici in quel processo di “controriforma conservatrice” che a partire dagli anni ottanta si è sviluppato su scala mondiale. Un processo che certamente è stato favorito anche dalla crisi e dagli errori, spesso devastanti, delle ideologie e dei movimenti progressisti: ma che proprio per questo ha colpito al cuore le idee di preminenza dell’interesse pubblico, di regolazione del mercato, di impegno prioritario per la promozione dell’interesse sociale e delle attività formative e culturali, ossia quelle idee che erano state la base portante di una fase storica che, particolarmente in Europa, resta caratterizzata come la fase di realizzazione di un’esperienza di indubbio valore quale quella dello “Stato sociale”. Anche l’autonomia della cultura e delle politiche culturali è stata duramente violata dalla tendenza che questa controriforma conservatrice ha fatto emergere in modo sempre più marcato.
Per quel che in particolare riguarda l’Italia e, più specificamente, il settore dei beni culturali, non è certo un caso se già negli anni ottanta – cioè poco dopo che per tali beni era stato costituito in Ministero apposito, a proposito del quale si era assicurato (a mio avviso in termini illusori, come già allora ebbi a dire) che avrebbe avuto una struttura “atipica”, essenzialmente “scientifica e tecnica” – cominciò a manifestarsi la tendenza a spostare l’accento dai problemi specifici della tutela alla possibile redditività economica del patrimonio artistico e culturale. La prima iniziativa di questo tipo, di cui molto si discusse, fu quella dei famosi “giacimenti culturali”, promossa da De Michelis (che – va notato perché è significativo – era ministro dei Lavori Pubblici e non dei beni culturali). Quest’iniziativa si tradusse nella dispersione di molte centinaia di miliardi – molti per l’epoca e tanto più rispetto al poco che di solito si dedicava ai Beni culturali – senza alcun costrutto e non portò dunque ad alcun risultato positivo. Ma segnò una strada e contribuì a formare una mentalità. E infatti di lì a pochi anni seguì l’enfasi che si creò attorno alla proposta dei cosiddetti “servizi aggiuntivi”: cioè quei servizi (libreria, bar, ristorante guardaroba, ecc) che certamente sono necessari per agevolare i visitatori dei musei e che senza dubbio possono dare anche un certo reddito, ma che sono, appunto, un elemento di supporto e che in nessun modo possono diventare un fine. Poi vennero, via via, le leggi che in vario modo hanno, con crescente insistenza, spostato l’attenzione verso soluzioni di tipo privatistico e aziendalistico nella gestione dei beni culturali: sino a quel vero salto di qualità in negativo – la gestione del bene come merce, il fare cassa come fine – che caratterizza provvedimenti legislativi come quello che istituisce la “Patrimonio S.p.A”.
Su due punti voglio ancora richiamare l’attenzione, prima di concludere questa premessa: il primo è che , fortunatamente, una reazione così delle forze della cultura come delle associazioni impegnate in questo campo almeno in qualche misura c’è stata (in particolare contro i pericoli di una politica di privatizzazione e di alienazione) e ha costretto in più di un caso i governanti anche a passi indietro, rettifiche, correzioni, ricerca di soluzioni di compromesso: il peggio, che si temeva, non si è ancora del tutto verificato. E’ anche vero, però che si sono prodotte conseguenze negative che sarà assai difficile riassorbire. Mi riferisco, in particolare, al privilegio dato agli aspetti spettacolari di una politica di tutela (le mostre, i restauri di richiamo, gli eventi, ecc.) rispetto all’impegno quotidiano di studio e di conservazione; all’attenzione concentrata sul museo piuttosto che sul territorio ( sino a separare, proprio nelle maggiori città d’arte, il primo dal secondo); al crescente disinteresse per quelle strutture che non esercitano l’attrazione che ha il patrimonio artistico in senso stretto e che tuttavia svolgono – penso alle biblioteche, agli archivi ecc. – un ruolo decisivo per lo sviluppo culturale di un paese. Soprattutto, ha subito un colpo assai duro quello che era, e in parte è ancora, l’aspetto più qualificante del patrimonio culturale italiano: cioè quella sua diffusione e stratificazione sul territorio che per tanto tempo ha fatto dell’Italia un paese unico al mondo. Anni di lotta per reagire alla speculazione urbanistica e alla devastazione dell’ambiene, per richiamare l’attenzione sui centri storici sul paesaggio, sui valori ambientali, sul complesso legame fra il bene culturale e il contesto più generale in cui è inserito, rischiano di essere annullati dalle tendenze mercantilistiche ed economicistiche prevalse nell’ultimo periodo. Porre rimedio a questa situazione richiederà un impegno di ampio respiro e di lunga lena.
Il secondo punto è che non solo il settore dei beni culturali, ma il complesso della cultura e delle attività che lo qualificano è stato negativamente investito da questo processo. Nei giorni in cui scrivo questa introduzione, per esempio, è soprattutto l’organizzazione della ricerca scientifica che sta subendo duri colpi: non solo per il taglio dei finanziamenti che già da molti mesi era stato annunciato; ma col commissariamento del maggiore ente (il CNR) , coll’annullamento o la radicale riduzione delle forme di autonomia e di autogoverno democratico, colle decisioni dall’alto sul nuovo assetto di enti, centri, istituti, con la palese volontà di subordinare tutto il settore alle decisioni governative. Ma non è molto migliore la situazione di altri settori: dall’università – dove un’autonomia gestionale fortemente condizionata dalla contrazione dei finanziamenti pubblici e un’impostazione fortemente pofessionalizzante in senso praticistico stanno determinando un processo di americanizzazione in senso deteriore – al complesso dell’attività formativa e scolastica (rinvio, al riguardo all'analisi specifica sviluppata nel volume): per non parlare delle insidie sia per un reale pluralismo democratico sia per la qualità culturale dei prodotti che si presentano in modo sempre più marcato nel campo dell’informazione, delle attività di spettacolo, della comunicazione e soprattutto nel settore televisivo.
E’ doveroso dire, infine, che la sinistra – in particolare quella che ha avuto un ruolo di governo, ma non solo essa – non è certo immune da responsabilità per ciò che è accaduto negli ultimi due decenni. Se infatti si è realizzata un’autentica egemonia, nei diversi campi, delle ideologie della destra conservatrice – il mercato, l’impresa, il privato, in generale la prevalenza assegnata ai valori economici rispetto ad ogni altro criterio di valutazione – è anche perché debole è stata la resistenza opposta a queste ideologie. Anzi in molti casi esse hanno fatto presa - in Italia e fuori d’Italia – anche negli orientamenti di larghi settori della sinistra e nelle politiche da essa praticata.
Ciò si è verificato – si potrebbe osservare – in tutti i settori dall’organizzazione civile e sociale. Ma senza dubbio ha pesato particolarmente nel campo della cultura, dove la libertà della ricerca e della sperimentazione, l’autonomia dai vincoli di mercato, la preminenza dell’arte o delle scienze sull’economia sono condizioni essenziali per un più fecondo sviluppo. Si è così aggravato quel già difficile rapporto con la ricerca culturale più innovativa e più avanzata che durante tutto il Novecento ha rappresentato un handicap – accanto alla prevalente ideologia produttivistica – nello sforzo di affrancarsi compiutamente dall’egemonia del capitalismo e creare così le condizioni per cominciare davvero a costruire una propria egemonia.
Proprio per questo ho voluto inserire al termine del volume, un breve saggio – una riflessione appena accennata sul Novecento da Boccioni a Gehry - che non è la conclusione un po’ stravagante di una serie di scritti dedicati a questioni ben più attuali. Con questa riflessione ho invece voluto ricordare che il limite economicistico ha attraversato, durante il secolo che si è appena concluso, tutta la storia della sinistra anche nelle esperienze storicamente più rilevanti e ha inciso in particolare sul rapporto fra politica e cultura. Ciò ha significato, in sostanza, il permanere di una subalternità all’ideologia capitalistica: una subalternità che ancora non è risolta. Fare i conti con questi problemi non è dunque, per la sinistra, un tema secondario o collaterale: al contrario è uno dei temi di fondo che essa, proprio in un momento di grave crisi è chiamata ad affrontare.
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Chiarante, Patrimonio SpA