La straordinarietà, quantitativa e qualitativa, del patrimonio culturale di cui dispone l’Italia spiega come, già a partire dal 1800, il legislatore italiano, anche se a singhiozzo e conformemente alla mutevole e contingente sensibilità verso la materia, sia intervenuto per definire i principi, gli istituti generali e l’assetto istituzionale relativo alla amministrazione dei beni culturali e ambientali.
Il rinnovato entusiasmo recentemente manifestato anche in ambito europeo, unitamente alle esigenze di adeguamento della disciplina conseguenti alla riforma costituzionale italiana del 2001, hanno prodotto il D.Lgs. 22.1.2004 n. 42 (così come successivamente modificato ed integrato dai D.Lgs. n. 156 e D.Lgs. n. 157 del 24.3.2006) - meglio noto come Codice Urbani - che rivaluta e riorganizza l’intera materia secondo criteri di organicità, sistematicità e completezza.
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio sembra ispirato ad una filosofia nuova: l’accresciuta, generalizzata, sensibilità verso la tutela mira alla realizzazione concreta della funzione propria dei beni culturali e ambientali, ossia l’elevazione spirituale dell’uomo e il progresso della civiltà. Le esperienze passate, probabilmente, hanno chiarito che ciò è possibile solo a condizione che la tutela e la valorizzazione siano effettive, efficaci e capaci di garantire una protezione attiva e diffusa dei beni. Obbiettivo, quest’ultimo, che il Codice tenta di perseguire predisponendo un sistema di garanzie che, col supporto di un articolato impianto sanzionatorio, impegna soggetti istituzionali (Ministero per i beni e le attività culturali, Soprintendenze, Regioni, Enti pubblici territoriali) e privati (proprietari, possessori, detentori dei beni e associazioni portatrici di interessi diffusi). Detto coinvolgimento si esplica attraverso la previsione di divieti, doveri, diritti, poteri e facoltà individuali [1] e di forme di partecipazione, intesa, coordinamento, cooperazione e sostituzione [2].
Ma è nella applicazione pratica dei suoi principi, che spesso ha evidenziato vistose contraddizioni, che si può cogliere appieno la portata innovativa del Codice rispetto alla disciplina previdente.
L’esperienza Sarda, tutt’ora in corso, ne costituisce un esempio lampante.
Karalis - Cagliari – deve il suo nome alla conformazione collinare del suo paesaggio urbano. In pieno centro cittadino è situato il Colle di Tuvixeddu-Tuvumannu, che occupa una superficie di circa 48 ettari ed ha il privilegio di custodire (nel versante sud occidentale) la più grande necropoli punico-romana del Mediterraneo: centinaia di sepolture scavate nella roccia, impreziosite da decorazioni ed arricchite da corredi funerari, disseminate in uno spazio di circa 10 ettari, è ciò che rimane dopo l’attività di cava e le devastazioni edilizie incontrollate degli anni ’70.
Ebbene, i recenti esperimenti di tutela di quest’area, di eccezionale valore storico-paesaggistico, evidenziano molto bene i mutamenti di prospettiva e la conseguente diversa incisività degli interventi pre e post codicistici.
Complice la travagliata esperienza Sarda in tema di pianificazione territoriale paesistica, il vincolo paesaggistico imposto nel 1997 [3], si è rivelato incapace di conferire all’area una adeguata tutela. Tant’è che l’Accordo di Programma sottoscritto qualche anno dopo dalla Regione Autonoma della Sardegna e dal Comune di Cagliari [4] (attuale proprietario della porzione di area sulla quale insiste il realizzando Parco), al fine di concordare le modalità di programmazione, esecuzione e coordinamento delle rispettive competenze nell’ambito di un vasto progetto di riqualificazione ambientale e urbana dell’intera zona, interveniva su luoghi il cui aspetto originario era già fortemente compromesso. Oltre alla realizzazione di un Parco archeologico-naturalistico denominato “Karalis”, l’Accordo prevedeva l’esecuzione di una serie di iniziative immobiliari, rientranti nell’ambito del Piano Integrato d’Area – P.I.A. [5], a sua volta recepito integralmente dal Piano Urbanistico Comunale di Cagliari del 2004, con la conseguente sottomissione a vincolo archeologico diretto di solo 20 dei 48 ettari costituenti estensione totale dell’area. Sulla restante porzione insisteva il progetto di sviluppo edilizio e stradale che, essendo ritenuto compatibile e fattibile, otteneva il nulla osta paesaggistico[6].
L’entrata in vigore del Codice Urbani (risalente al 1.5.2004) si è abbattuta furiosamente sulla esasperante lentezza degli iter amministrativi necessari alla emanazione dei provvedimenti miranti alla salvaguardia e sulle scelte di tutela approssimativa dei relativi beni. Così, dopo essere stato consegnato ad anni di abbandono e degrado, il colle di Tuvixeddu-Tuvumannu ha improvvisamente acquisito una posizione centrale nell’ampio dibattito sulla nuova concezione di tutela culturale e ambientale. Le problematiche intorno alle quali si incentra la disputa sono tante quanti sono i soggetti coinvolti e i relativi interessi contrapposti, e sono tanto più accese quanto più l’inversione di rotta, rispetto al vecchio sistema di protezione, si è dimostrata repentina ed intransigente.
In particolare il Codice [7] si è rivelato sia uno strumento utilissimo per rafforzare gli obbiettivi di tutela del patrimonio culturale che una occasione imperdibile per adottare il tanto sperato Piano Paesaggistico Regionale[8] che, classificando il Colle di Tuvixeddu-Tuvumannu quale bene paesaggistico di interesse storico culturale, è stato solo il primo di una lunga serie di interventi ispirati al Codice Urbani.
Infatti, sulla scorta di questa disciplina, il vincolo è stato rafforzato imponendo la misura cautelare della inibizione o sospensione dei lavori, comunque riferibili alle opere (pubbliche e/o private) intraprese sull’area di Tuvixeddu, in quanto ritenuti idonei a recare pregiudizio all’area tutelata[9]. Al fine di superare l’efficacia interinale del provvedimento, la neonata Commissione regionale per il paesaggio[10], ha proposto la dichiarazione di notevole interesse pubblico ex art. 140 e la ripartizione dell’area in quattro zone con decrescente intensità di tutela. L’attività della Commissione è, poi, confluita nell’intervento diretto della Regione da esplicarsi essenzialmente nella rimodulazione del P.I.A., la cui approvazione è stata equiparata a dichiarazione di pubblica utilità ai sensi dell’art. 98 del Codice [11].
Questi fatti esprimono l’aspetto più determinato, quasi “intransigente”, della filosofia di tutela fatta propria dal Codice applicata al caso concreto, di cui è un chiaro segnale anche l’iniziativa Regionale volta all’attivazione delle procedure di esproprio (ex art. 96) per causa di pubblica utilità e per fini strumentali, di edifici ed aree limitrofe ai beni ed alle aree oggetto di tutela, al fine di “…assicurare luce e prospettiva…” nonché “…garantire o accrescere il decoro o il godimento da parte del pubblico e facilitarne l’accesso”. Dal punto di vista pratico questa prolifica attività deliberativa si è tradotta in una stratificazione di vincoli che, ancora oggi, convivono sopra la stessa area: un vincolo di natura storico-culturale, uno (più esteso) di natura paesaggistica ed il terzo di conservazione integrale [12].
A tutti questi interventi, complessivamente valutati in vista dell’importante risultato che si propongono di perseguire, non si può se non riconoscere il valore della grande conquista, tuttavia è necessario essere coscienti del fatto che i frutti di questi sforzi (anche in termini di effettivo godimento dei beni da parte della collettività) si potranno cogliere (ad essere ottimisti) non prima del medio-lungo periodo. Infatti, lungaggini burocratiche a parte, rimane il fatto che porsi l’obbiettivo di tutelare e valorizzare il patrimonio culturale secondo uno spirito che non ha precedenti, potrebbe non bastare o addirittura produrre conseguenze dannose, se il regime rivoluzionario che ne scaturisce è destinato ad operare in un contesto – in termini di struttura organizzativa e sociale - non adeguatamente, preventivamente e gradualmente preparato ad accogliere i rinnovati principi. Ciò vale, a maggior ragione, se si vuole introdurre un regime che, rispetto al precedente, appare rivoluzionario.
L’esperienza che qui si sta analizzando, offre diversi spunti di riflessione anche sotto questo ulteriore profilo.
Si è visto che gli interventi protettivi sul patrimonio di Tuvixeddu, seppure tardivi nella prospettiva di evitare i danni (passati e presenti) oramai subiti dall’area, rivelano la chiara intenzione di avviare l’adeguamento tempestivo al Codice Urbani, il che rende auspicabile sia il recupero (nei limiti del possibile) dei beni già danneggiati sia, soprattutto, l’assunzione di scelte che (almeno per il futuro) possano scongiurare nuovi eventi dannosi.
In termini generali (anche se non è certamente questa la sede per approfondire la questione) è utile ricordare, in proposito, che l’impianto sanzionatorio predisposto dal Codice Urbani (che in gran parte raccoglie l’eredità della L. 1089/1939, successivamente trasfusa nel D.Lgs. 490/1999), contempla una notevole varietà di comportamenti illeciti in quanto dannosi e/o pericolosi per il patrimonio culturale, rilevanti dal punto di vista penale e amministrativo [13].
Per entrare nello specifico della realtà che si sta analizzando (e senza presunzione di fornire un quadro completo di tutti gli effetti patologici, scaturiti o scaturibili) sin d’ora sembra potersi affermare con certezza che il danno derivato dalla modifica irreversibile dell’assetto morfologico–ambientale e storico-culturale dei luoghi, causato dagli interventi già intrapresi sulla zona a vario titolo è, praticamente, inestimabile. Stesso discorso vale per il danno da mancata fruibilità collettiva delle bellezze dell’area, causato dapprima dall’abbandono e dal disinteresse e, successivamente, da un interesse soffocante che, in definitiva, ha determinato il blocco degli interventi di completamento del parco archeologico.
Dal lato opposto, ma sempre nella prospettiva di una battaglia in cui tutti abbiamo perso qualcosa, lo stravolgimento dei principi che, sino all’era Urbani, avevano caratterizzato le scelte di convivenza tra interessi legati allo sviluppo urbano e interessi di tutela ambientale e culturale, non poteva se non scatenare una forte reazione da parte di chi, nel pregresso sistema, aveva maturato delle aspettative, tanto più se legittime, degli interessi o peggio acquisito dei diritti e intrapreso degli investimenti. L’importanza dei danni, di natura eminentemente patrimoniale, che ne scaturiscono è tale che sarebbe inverosimile aspettarsi un sacrificio silenzioso, anche se in gioco vi è la tutela di un bene costituzionalmente protetto.
L’esperienza Sarda (che sicuramente non è l’unica) sembrerebbe mostrare come i buoni propositi contenuti nel Codice Urbani, non solo possono essere vanificati dalla carenza di un idoneo supporto organizzativo, ma addirittura possono rivelarsi controproducenti se imposti senza la preventiva, adeguata ricognizione (obiettiva e realistica) delle caratteristiche che distinguono il contesto ambientale e sociale destinato ad accoglierli che, spesso, deve confrontarsi con la difficoltà di percepire il patrimonio culturale come un bene comune, come plusvalore per la collettività che lo detiene.
È certo che una seria iniziativa di vincolo sulla base del nuovo Codice “non poteva se non scatenare una forte reazione da parte di chi, nel pregresso sistema, aveva maturato delle aspettative, tanto più se legittime”. Ma non sembra affatto che tali aspettative possano configurarsi come l’acquisizione di diritti. Ciò è confermato, oltretutto, dal fatto che il TAR ha rifiutato la sospensione dell’atto di vincolo. Se l’amministrazione dovesse poi ristirare il “danno patrimoniale” subito dai proprietari di “un bene costituzionalmente protetto”, questo non potrebbe essere superiore alle spese sostenute dai proprietari per realizzare gli interventi legittimamente autorizzati, sulla base della loro rigorosa documentazione. A nostro parere, di fronte alla portata del’obiettivo perseguito dai fautori della tutela, non è utile avanzare dubbi poco fondati sulla benefica iniziativa della Regione Autonoma della Sardegna, che certamente ha colto tutte le potenzialità del Codice e della sua impostazione innovativa, giustamente sottolineata dall’Autrice.
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[1] Quali, ad esempio, il divieto di distruzione, danneggiamento e di uso incompatibile con la funzione culturale di cui all’art. 20; il divieto di uscita definitiva dei beni dal territorio della Repubblica, di cui all’art. 65; il divieto di alienazione di beni culturali demaniali, di cui all’art. 54; gli obblighi conservativi ed il relativo diritto alla erogazione di contributi, di cui agli artt. 29-37 e 146-152; la facoltà di proporre ricorsi amministrativi, di cui agli artt. 16 e 146.
[2] In proposito significativi appaiono gli artt. 5 e 6, relativi al patrimonio culturale nel suo complesso, gli artt. 132 e 135, 143-145, specificamente dedicati alla tutela e pianificazione paesaggistica e l’art. 141 relativo alla procedura per la dichiarazione di notevole interesse pubblico.
[3] Il provvedimento venne adottato dalla Commissione provinciale per la tutela delle bellezze naturali ai sensi della L. 1497/1939.
[4] L’Accordo, siglato ex art. 27 L. 142/1990, come modificato dalla L. 127/1997, ora confluito nell’art. 34 D.Lgs. 267/2000, è stato sottoscritto il 3.10.2000.
[5] Ossia del programma di cofinanziamento pubblico – Regione, Provincia, Comune – e privato, adottato con L. Reg. n. 14/1996 e succ. mod. e int..
[6] Il relativo provvedimento è stato adottato ex art. 12 L. 1497/1939, con determinazione del 27.5.1999 del Direttore Generale dell’Assessorato Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport.
[7] Precisamente si tratta degli artt. 143 comma 3 e 156 del D.lgs. 42/2004.
[8] Il Piano Paesaggistico della Regione Sardegna, elaborato sulla base dell’intesa stipulata tra Ministero per i beni e le attività culturali, Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e Regione Autonoma della Sardegna, è stato effettivamente adottato il 5/9/2006 secondo le procedure previste dalla L. Reg. 8/2004 (di recente assolta dalle accuse di illegittimità costituzionale con sentenza n. 51 del 6.2.06).
[9] Il provvedimento, adottato ai sensi dell’art. 150, comma 1, lett. a) e comma 3, del D.Lgs. 42/04, dal Direttore del Servizio beni culturali dell’Assessorato Pubblica istruzione consente l’esecuzione dei soli lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria ex art. 3 DPR 380/2001
[10] La Commissione è stata istituita con delibera della Giunta Regionale Sarda del dicembre del 2006, ai sensi dell’art. 137 del Codice. Insediatasi ai primi del gennaio 2007, il suo primo compito su specifica richiesta della Regione formulata ai sensi dell’art. 138 del Codice, è stato quello di attivare l’istruttoria avente ad oggetto la tutela del colle di Tuvixeddu.
[11] Detta revisione, dapprima programmata, come attività da svolgersi d’intesa con il Comune nella deliberazione n. 5/23 del 7.2.2007, è stata, successivamente, avocata completamente a sé dalla Regione.
[12] I vincoli sono stati, rispettivamente, imposti ai sensi e per gli effetti dell’ art. 10 e ss. D.lgs 42/2004, dell’art. 142, comma I, lett. m) D.lgs. 42/2004 e della L. Regionale Sarda n. 23/1993.
[13]Agli illeciti di tipo penale contemplati dal Codice fanno riferimento gli artt. 169-180, quanto alla tutela dei beni culturali e l’art. 181 per i beni paesaggistici. Accanto ad essi sopravvivono le fattispecie criminose previste e sanzionate dal Codice Penale, in particolare l’art. 733 c.p. relativo al danneggiamento del patrimonio storico-artistico nazionale, l’art. 635 comma 2 n. 3 c.p. in tema di danneggiamento comune aggravato e l’art. 639 c.p. in tema di deturpamento ed imbrattamento aggravato. Gli artt. 160-166, per i beni culturali e 167-168 per i beni paesaggistici considerano, invece, illeciti di tipo amministrativo.
Le parole e le cose, si sa, possono divorziare. Perciò nell’immemore Macondo di Cent’anni di solitudine Aureliano Buendia «con uno stecco segnò ogni cosa col suo nome: tavolo, sedia, orologio, porta, muro, letto, casseruola, vacca, capra, porco, gallina, manioca, banano». Perciò il protagonista dei recentissimi Viaggi nello scriptorium di Paul Auster (Einaudi) vive in una stanza dove «sul comodino c’è scritto COMODINO, sulla lampada c’è la parola LAMPADA, sul muro c’è una striscia di nastro con scritto MURO».
Più facile ancora è la perdita di memoria se si tratta di concetti, di termini astratti. Per esempio, i principi della Costituzione. Prima al mondo, la nostra Costituzione pose la tutela dei beni culturali e del paesaggio fra i principi fondamentali dello Stato: culmine e compimento di una secolare cultura italiana della conservazione che nelle leggi del 1939 aveva trovato organica espressione. Perciò l’art. 9 («La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione») è connesso allo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica, e più in generale al «pieno sviluppo della persona umana» (art. 3). Ma, come a Macondo, qualche colonnello di Palazzo Chigi lo ha dimenticato. In un dilettantesco "Albero del Programma per l’attuazione del Programma di Governo" visibile nel sito della Presidenza del Consiglio, "Valorizzare il nostro patrimonio di beni culturali e paesistici" è indicato fra le priorità di una "rinascita culturale come strategia per la crescita". D’accordo, ma come? Semplice, risponde l’Albero: "Consolidare l’organizzazione statale della tutela", "Incrementare la capacità operativa delle Soprintendenze" e persino "Rafforzare i poteri e l’autorevolezza dei Soprintendenti", ma contemporaneamente "Estendere le funzioni di tutela ai governi territoriali, lasciando allo Stato le funzioni di alta garanzia generale". Insomma: le Soprintendenze si potenziano e si consolidano togliendo loro tutto quello che fanno (la tutela) per affidarlo a comuni, province, regioni. Che questa ipotesi sia anticostituzionale, l’estensore dell’Albero non giunge a sospettare. Qualcuno ci spiegherà, c’è da scommetterlo, che si è trattato di un infortunio, tanto più che questa concezione della tutela è l’opposto di quella sostenuta dal ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli, in particolare con riferimento al paesaggio.
Sarà un infortunio, sarà un colonnello che inciampa nelle parole. Ma è nel sito di Palazzo Chigi, e questo è un dato politico che obbliga a interrogarsi sul perché di tanta sciatteria. Il cerchiobottismo "tutto allo Stato, tutto alle regioni" rispecchia infatti un problema assai serio, quello del ruolo rispettivo di Stato, regioni ed enti locali rispetto al patrimonio culturale. La riforma del Titolo V della Costituzione (2001) tentò una soluzione salomonica, attribuendo in via esclusiva allo Stato la tutela dei beni culturali, la valorizzazione alle regioni «salvo che per la determinazione dei principi fondamentali», riservata allo Stato (art. 116). Poiché le migliori pratiche internazionali e il giudizio degli esperti impongono di concepire come un continuum tutela, gestione e valorizzazione dei beni culturali, la rigida distinzione fra tutela e valorizzazione, che produce il frazionamento dell’azione amministrativa e la dispersione delle responsabilità, ha ben poco senso (lo mostrano i continui conflitti di competenza Stato-regioni davanti alla Corte Costituzionale); tanto più che la stessa parola "valorizzazione" è assai ambigua, e può essere interpretata in senso meramente economico. Il Codice dei Beni culturali, in particolare con la revisione del 2006 (governo Berlusconi), si è sforzato di metter ordine in questo ginepraio, specificando che la valorizzazione va intesa solo «al fine di promuovere lo sviluppo della cultura» (art. 6), dunque non autorizza svendite: inutile sforzo, se il comma 259 della Finanziaria 2007 (governo Prodi) reintroduce l’idea della «valorizzazione a fini economici» del patrimonio culturale.
Crescono intanto le pressioni delle regioni che (contro la Costituzione) rivendicano per sé le funzioni di tutela: così la Lombardia, con delibera dello scorso 4 aprile, così il Veneto (due delibere del 2006), così il Piemonte e l’Emilia-Romagna, così qualche anno fa la Toscana. La motivazione della Lombardia è esplicita: «per ricondurre a unità tutela, valorizzazione e gestione dei beni culturali». Si riconosce in tal modo che scindere tutela e valorizzazione è pernicioso, ma si individua nella regione, e non nello Stato, il luogo della ricomposizione: senza notare che in tal modo si arriverebbe a venti diverse concezioni della tutela, una per ogni regione, violando l’esigenza di unitarietà nazionale inscritta nella Costituzione.
E’ dunque evidente che la valorizzazione è la porta di servizio attraverso la quale le regioni intendono impossessarsi della tutela, capovolgendo nei fatti l’art. 9 della Costituzione. Per poi magari sub-delegarla ai Comuni, con le conseguenze che già si vedono dappertutto sul martoriato paesaggio italiano (Monticchiello insegni). Perciò è necessario prestare più attenzione a tutti i meccanismi di "valorizzazione", per esempio le Fondazioni in via di costituzione. Per citare un esempio, in quella per Aquileia, area archeologica di proprietà statale, la bozza di statuto prevede, contro l’art. 112 del Codice dei beni culturali, la presenza paritetica di Stato, regione Friuli, provincia e comune; il presidente della Fondazione è designato d’intesa fra regione e comune, il direttore è nominato dalla regione e per giunta il "Comitato rappresentativo" ha solo rappresentanti di comune, provincia e regione, e il Soprintendente può intervenire alle riunioni solo su invito. Insomma, la Fondazione è il cavallo di Troia per passare dallo Stato alla regione (in cambio di 160.000 euro l’anno) un’area di enorme importanza come quella di Aquileia. L’esatto contrario di quanto stabilito in un’importante sentenza della Corte Costituzionale (26/2004), secondo cui la valorizzazione deve far capo all’ente proprietario del bene (nell’area di Aquileia, lo Stato).
La materia della valorizzazione è stata profondamente innovata dal Codice nella revisione del 2006, dando assai maggior risalto alle esigenze della tutela e prevedendo meccanismi di azione concertata Stato-regioni, che nell’esempio appena citato appaiono disattesi. Ma all’appuntamento con le regioni la struttura ministeriale si presenta impreparata e debole, come è evidente dall’esempio delle Fondazioni (Egizio di Torino, Aquileia). Essa è ancora calibrata su funzioni, esperienze e competenze anteriori all’introduzione della "valorizzazione" come principio giuridico (magari pessimo, ma ineludibile perché inserito nella Costituzione). Direzioni generali, soprintendenze regionali e di settore sono "tagliate" sulle cose oggetto della tutela, dall’archeologia agli archivi; mentre per affrontare con decisione i temi della valorizzazione occorre un approccio necessariamente "trasversale", non commissioni consultive bensì una struttura centrale dedicata che possa affrontare con decisione e con visione unitaria il tema della cooperazione con le regioni e gli enti locali, dovunque e in qualsiasi forma esso si presenti. La (blanda) riorganizzazione del Ministero in corso potrebbe essere l’occasione buona.
Il colonnello di Palazzo Chigi a cui si deve l’"Albero del Programma di Governo" ha dato, è vero, un colpo al cerchio e uno alla botte. Ma la sua contraddittoria ambiguità riflette quella del governo, incerto e ondivago sul fronte "caldo" del federalismo. Ma quale sarà la vera azione di governo? Si vorranno fortificare le soprintendenze e la tutela come ripete il ministro Rutelli e come dice una parte dell’Albero? O si vorrà smantellare la macchina statale della tutela e cedere tutto alle regioni, come dice un’altra parte dello stesso Albero seguendo Lombardia, Piemonte e Veneto? E in tal caso, basterà dimenticarsi dell’art. 9 della Costituzione, o si avrà l’onestà (etica e politica) di proporne la cancellazione? Insomma: Palazzo Chigi è a Roma o a Macondo?
Qualcosa si muove. Nell’Italia del cemento e dell’asfalto c’è chi comincia ad aprire gli occhi sul saccheggio del paesaggio, lo considera una vera e propria emergenza nazionale e corre ai ripari.
Ci prova il ministro Rutelli, dichiarando guerra agli ecomostri e intanto facendo muovere la magistratura che mette i sigilli ai cantieri di di Monticchiello. Ma anche rivitalizzando quell’organo in apnea che era il Consiglio superiore dei beni culturali e paesaggistici ed affidandone la presidenza a Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale di Pisa, professore ordinario di Storia dell’arte e dell’archeologia classica, un Don Chisciotte della bellezza che da anni, a suon di denunce e in compagnia di poche altre voci, combatte contro i “vandali”.
Professore, finalmente il Consiglio si è messo in moto...
«Il Consiglio superiore era completamente atrofizzato. Negli ultimi cinque-sei anni si era riunito quattro o cinque volte, con un tasso di una riunione l’anno. Il ministro Rutelli ci tiene molto a che funzioni e ha voluto rivitalizzarlo: c’è voluto più tempo del previsto, ma l’importante è che sia avvenuto. Il Consiglio si è già riunito due volte, pronunciandosi su una bozza di riforma del ministero, e ha in calendario da qui a dicembre una decina di riunioni».
Cosa si aspetta da questo lavoro?
«Di dare buoni consigli al ministro».
Ci spieghi. Nell’ambito delle competenze del Consiglio ci sono anche i rapporti con le Sovrintendenze?
«No, il Consiglio superiore non è un organo che decide. Qualcuno mi ha chiesto come mai abbiamo deciso di mandare in prestito l’Annunciazione a Tokyo... E negli ultimi mesi ho ricevuto almeno 200 richieste, compresa quella di una signora che mi chiedeva perché non ci occupassimo della magnolia che stavano abbattendo nel cortile sotto la sua casa. Vorrei fosse chiaro che il nostro è un organo consultivo che si pronuncia solo sui temi su cui il ministro decide di interrogarci».
Rutelli vi ha chiesto aiuto anche per quanto riguarda l’emergenza paesaggio?
«Per il momento non c’è nulla all’esame del Consiglio. C’è invece un’altra partita aperta. Il ministro ha appena istituito una commissione, ancora presieduta da me, per i ritocchi al codice dei beni culturali. E nell’insediarla ci ha dato come compito primario quello di rivedere con attenzione la parte che riguarda il paesaggio: il mandato è quello di alzare le garanzie di protezione del paesaggio, combinando tutte le istanze possibili, dello Stato e delle Regioni, delle Province e dei Comuni».
Insieme al presidente Napolitano e al ministro Rutelli, è tra i destinatari di un appello del “Comitato per la bellezza” che fa un quadro drammatico dell’emergenza paesaggio in Italia. Lei cosa ne pensa?
«In questo il mio giudizio coincide con quello del ministro Rutelli. L’emergenza paesaggio esiste. C’è un vuoto di normativa, e quella che c’è è stata interpretata in modo non rigoroso. Di fatto lo Stato ha ceduto troppo alle Regioni le quali, in genere, hanno fatto poco o nulla. Una cosa però l’hanno fatta, hanno delegato ai Comuni. Subdelegare ai Comuni ha, a mio avviso, conseguenze negative. I Comuni piccoli, che sono la grande maggioranza e amministrano di fatto una parte enorme del territorio nazionale, non possono avere delle competenze locali di paesaggistica. Non si può pretendere, tanto per citare sempre il famoso caso di Monticchiello - come se fosse l’unico, ma ce ne sono di molto piu gravi - che il comune di Pienza abbia un paesaggista. Non dico che Pienza non debba dire la sua sul territorio del Comune, sarebbe ridicolo. Però occorre che il Comune faccia la sua parte, la Provincia la sua, la Regione e lo Stato la loro. È chiaro che questi ruoli, nel loro rapporto reciproco, non sono ancora ben definiti e lo devono essere, a livello di normativa e di prassi. Credo però che le “buone pratiche” si potrebbero istituire anche con la normativa che c’è, in attesa di migliorarla».
Ma intanto il saccheggio continua...
«Ho raccontato al ministro una mia esperienza recente. Ero a Berna, ad un convegno internazionale della Società nazionale svizzera per la protezione del patrimonio culturale. C’erano tutti i paesi confinanti e di italiani c’ero io. Mi avevano chiesto di fare una sessione plenaria e ho parlato delle normative italiane. Nella discussione che è seguita mi sono state rivolte una ventina di domande e almeno la metà erano di questo tono: “Ma cosa state facendo, perché rovinate l’Italia e proprio le zone più belle?”. Ognuno citava il posto che conosceva meglio, molti la Toscana, molti l’Umbria, altri Sicilia e Veneto. Quindi che ci sia l’emergenza paesaggio lo sanno tutti. A volte siamo noi che chiudiamo gli occhi perché non vogliamo vederla».
Quando si parla di emergenza paesaggio ci si riferisce quasi sempre a scenari naturali. E le città? Non subiscono gli stessi sfregi?
«È una preoccupazione che trovo molto giusta e che invece è stata respinta al margine. Una delle persone più intelligenti che mai si siano occupate di queste tematiche in Italia è Giovanni Urbani, direttore dell’Istituto centrale per il restauro, scomparso nel 1995. Questi problemi lui li aveva visti con grande anticipo. Per misteriose ragioni, diceva Urbani, noi ci siamo convinti che in Italia esista un oggetto che si chiama paesaggio, un altro che si chiama ambiente ed un altro ancora che si chiama governo del territorio. Ma queste tre cose sono una sola. Invece abbiamo creato degli ingorghi burocratici, una situazione in cui il territorio è di competenza degli enti locali e manca una visione complessiva. In questa disgregazione a rimetterci sono precisamente il paesaggio, l’ambiente, la città. Non c’è dubbio che il tema del paesaggio includa il drammatico problema delle periferie, delle orripilanti periferie che l’Italia ha saputo costruire distruggendo mille anni della propria storia, per non dire tremila, nel secondo dopoguerra. Questo però è un problema che non si risolve con una politica di vincoli, non limitandosi a dire quell’edificio non si tocca o lì non si costruisce. I vincoli ci vogliono ma serve soprattutto la capacità di progettare che non abbiamo. E per costruirla ci vuole un grande sforzo».
Da dove si comincia?
«Faccio una piccola riflessione, banale, elementare, che però tutte le volte suscita, nell’ambito di conferenze o altro, il più grande stupore. Perché nelle scuole italiane un po’ di storia dell’arte per il rotto della cuffia si fa, ma di paesaggio non si parla mai? C’è una ragione per cui dobbiamo far finta che non sia un tema? Chi l’ha detto? E come mai, visto che questa cosa è sotto gli occhi di tutti, nessun ministro, in nessuna riforma, ha nemmeno progettato che nei programmi di storia dell’arte ci sia spazio per il paesaggio? Questo è un deficit culturale che stiamo pagando e che i nostri figli e nipoti pagheranno ancora di più. Perché avranno un’Italia meno bella di quella che abbiamo visto noi».
Cosa risponde a chi sostiene che il paesaggio, soprattutto in Toscana, è frutto dell’azione dell’uomo, che i casali li hanno costruiti i contadini?
«Io non risponderei nulla, è giusto, chi può obbiettare qualcosa?».
E se i contadini di oggi invece del fienile vogliono fare il capannone di lamiera?
«Il capannone di lamiera non lo possono fare perché nella tradizione toscana non c’è. A Siena, ma in tutte le città comunali italiane, ci sono norme che limitano l’arbitrio del privato sin dal Medioevo. Ci sono state sempre ed in certe città ancora valgono. A Modena è ancora valida nei regolamenti comunali una norma secondo cui nulla può essere più alto della Ghirlandina. In tutto il territorio comunale, anche nei punti da cui la Ghirlandina non si vede. La tradizione italiana è quella. Non è vero che in passato ognuno costruiva quello che voleva e che oggi c’è qualche personaggio molto cattivo che per misteriose ragioni vuole imporre vincoli. Se l’Italia è diventata quel paradiso del paesaggio, dell’equilibrio uomo-natura, tutti sanno che è proprio per questa ragione. Perché lo sviluppo del paesaggio è stato armonico e governato.
Mentre ora noi vogliamo che non lo sia più, fingendo che lo sia. L’altro punto, non meno importante, è che una volta, in un momento che si può collocare tra le due guerre mondiali, c’era una cultura generale che inglobava tutto e che le vecchie generazioni ancora hanno. In realtà era altamente improbabile che una costruzione, anche abusiva, fatta da un contadino analfabeta, non fosse bella».
ROMA — Prima di partire per Tokio (dove lo attende l'Annunciazione di Leonardo da Vinci per l'operazione cultural-economica «Primavera italiana 2007») Francesco Rutelli lancia una nuova sfida: «Tutte le soprintendenze competenti in materia di paesaggio dovranno, entro quindici giorni, comunicare alla loro Direzione generale le emergenze e le criticità più rilevanti. Il pericolo è che si assista in silenzio a un nuovo sacco del territorio italiano dopo la crescita incontrollata delle periferie nel dopoguerra, la massiccia cementificazione delle coste negli anni '60-'70, i danni provocati da tre successivi condoni». Di fatto, nel giro di due settimane il Ministero centrale disporrà di una nuova, attualissima «carta del rischio paesaggistico» con un censimento dei disastri annunciati o già in costruzione: e potrà agire. Ancora Rutelli: «La tutela del paesaggio italiano per ora è una priorità nazionale. Bisogna muoversi presto, prima che diventi un'autentica emergenza. Intervenendo in modo serio, non qualunquistico, frenando la progressiva diffusione della cattiva qualità architettonica dei nuovi interventi ma senza fondamentalismi, senza imbalsamare il territorio. È in ballo la scommessa di una generazione, riuscire a consegnare il paesaggio italiano in buone condizioni a chi verrà dopo».
Il caso Monticchiello, ma non solo, è quindi stato un campanello d'allarme: l'Italia «profonda», rurale, testimoniata nei quadri dei pittori della nostra grande tradizione, è in serio pericolo per un fenomeno che Francesco Rutelli ironicamente chiamerebbe «villettopoli, ma non voglio contrapporre il termine a vallettopoli». Ma «villettopoli» rende bene l'idea del fenomeno di ritorno alle campagne italiane (purtroppo non ai borghi spesso diroccati, restaurarli e farli rivivere sarebbe la vera vittoria di un Paese civile) che quasi sempre si traduce in agghiaccianti e inutili microperiferie di seconde e terze case che sfigurano per sempre antichi centri e paesaggi sublimi.
Dice il ministro per i Beni culturali: «La crescita esponenziale dei valori immobiliari spinge alla cementificazione selvaggia, a lottizzazioni continue». Il problema è noto e il ministro così lo sintetizza: «Il 60% del territorio italiano è vincolato (5 milioni 575 mila ettari) ma l'80% è amministrato da comuni con meno di 5000 abitanti. Spesso non hanno un geometra in organico, non parliamo di un architetto paesaggista. La pressione è enorme. Quindi i vincoli si rivelano inefficaci». La pressione di chi? Rutelli ricorre all'ironia: «La carne è debole...». Ovviamente è la pressione di quei costruttori molto «legati» alle realtà locali che vedono nel mattone un immediato risultato economico. Per questo il ministro pensa anche a un patto con le associazioni di quella categoria imprenditoriale: una progressiva sensibilizzazione sulla qualità architettonica, un impegno al rispetto del paesaggio, magari qualche facilitazione per restituire vita e bellezza agli antichi borghi cadenti invece di continuare a cementificare nel verde.
Altri strumenti che il ministro sta identificando. Prima di tutto «mai più un condono edilizio», con gli atroci e definitivi sconquassi che quello strumento straordinario comporta. La nascita di un nucleo di carabinieri specializzati nella tutela del paesaggio sul modello di quelli che già seguono furti e traffici clandestini dell'arte. La rapida approvazione — il documento verrà consegnato a giorni — delle varianti al Codice dei beni culturali, nella debole parte relativa al paesaggio, suggerite dalla commissione presieduta dal professor Salvatore Settis, neopresidente del Consiglio nazionale dei beni culturali. Il ministro non ne ha parlato, ma c'è chi giura che finalmente le soprintendenze dovrebbero obbligatoriamente esprimere il loro parere sugli strumenti urbanistici, come piani regolatori o attuativi. Parere che diventerebbe decisivo nelle aree sottoposte a vincolo.
Intanto Rutelli ha annunciato qualche «intervento significativo». Si sta lavorando a un accordo per arrivare all'abbattimento dell'ecomostro di Alimuri, scheletro in cemento armato fermo da quindici anni sotto la scogliera di Vico Equense. Parziale demolizione (e riqualificazione di ciò che resterà, magari destinandolo a un centro di formazione professionale) dell'hotel Castelsandra a Castellabate in provincia di Salerno, detto anche «Hotel della Camorra», 25 fabbricati piazzati su 13 ettari del parco del Cilento: il Tar ha appena respinto il ricorso della proprietà. Divieto di edificazione, in accordo con la regione Sardegna, intorno alla splendida area archeologica di Tuvixeddu a Cagliari. Attento riesame per le strutture teatrali a Torre del Lago per le manifestazioni pucciniane. Chiarimenti sulla proposta di lottizzazione per la vigna Santucci a Mentana, vicino Roma. Confermato il blocco delle ultime tre palazzine per Monticchiello (Siena), la madre di tutte le «villettopoli».
Postilla
Ottima la grinta rivelata dal ministro Rutelli. Ma sarebbe meglio se il ministro, prima di parlare di modifiche al codice del paesaggio, si desse da fare per attuarlo per la parte che gli compete: smettendo di firmare con le regioni “intese” che non significano niente e che fingono di essere quelle, ben più impegnative, previste dal Codice; smettesse di dire che il ministero non ha più poteri di annullamento, sostenendo le soprintendenze che li esercitano (come quella di Trieste a proposito di Baia Sistiana); e, soprattutto, assumesse subito i provvedimenti necessari per rafforzare le soprintendenze e le loro strutture regionali, essenziali per controllare effettivamente e durevolmente, mediante la pianificazione, il paesaggio italiano. Abbattere gli ecomostri è certamente utile, e paga bene in termini pubblicitari; ma serve a poco se non si lavora per impedire che sorgano, oggi e in futuro. Dare alle soprintendenze poteri per il controllo dei piani attuativi può essere un’idea convincente, ma è controproducente se prima non le si mette nelle condizioni di svolgere i loro compiti attuali.
Si veda anche la postilla all’intervista di Erbani a Settis del 14 marzo
Il primo segnale di svolta è nel calendario. Negli ultimi cinque anni il Consiglio superiore dei Beni culturali si sarà riunito si e no quattro o cinque volte. Il nuovo Consiglio, presieduto da Salvatore Settis, storico dell´arte antica, direttore della Normale di Pisa, è convocato per il 29 marzo, ma sono stati già fissati altri otto appuntamenti da qui a dicembre. Nato nel 1907, esattamente cent´anni fa, il Consiglio serve, appunto, a dar consigli al ministro. Può essere un innocuo sinedrio di attempati accademici. Ma può anche diventare il luogo in cui si dà battaglia per rimettere in marcia una macchina invecchiata e mortificata, quella della tutela del patrimonio e del paesaggio italiani. Settis si è insediato nei giorni scorsi e ha intenzione di imboccare la seconda via. Ma deve fare i conti con una struttura ministeriale che emette sinistri scricchiolii e con un governo che tutto può fare tranne che programmarsi la vita per i prossimi quattro anni.
Un suo predecessore, Giuseppe Chiarante, si è dimesso quando si è accorto che l´allora ministro, Giuliano Urbani, non aveva alcuna intenzione di servirsi del Consiglio superiore.
Non è un precedente incoraggiante.
«Io credo che Francesco Rutelli abbia in animo di servirsi molto di questa struttura e di rilanciarla. Non avrei accettato se non fossi stato certo di questo».
Da dove pensa si debba partire?
«Le questioni sono tante, ma i punti centrali sono la riforma del ministero e i poteri delle soprintendenze. Queste ultime sono state messe nelle condizioni di non svolgere un corretto lavoro di tutela».
Funzionari mal pagati e spesso con le mani legate.
«Il problema più importante non sono i soldi. Nelle soprintendenze c´è anche chi svolge male il proprio compito, ma nella grande maggioranza il livello è eccellente, sia per il profilo tecnico-scientifico, sia per la dedizione. Sono persone che amano quel lavoro e che accettano persino di essere retribuite in misura inadeguata, purché non sia vilipesa la loro autonomia, e purché abbiano gli strumenti indispensabili».
E questo non accade?
«No. Nelle soprintendenze non si possono fare i sopralluoghi perché mancano i soldi per la benzina. Oggi l´età media dei funzionari è 55 anni. Negli ultimi decenni sono andate in pensione migliaia di persone e ne sono entrate poche centinaia. Non si svolgono concorsi».
Al ministero dicono che verranno assunti tremila precari.
«È una scelta che mi preoccupa molto. E che accomuna i Beni culturali all´Università. Per la salvaguardia del nostro patrimonio abbiamo bisogno di persone di indiscussa qualità, selezionate con criteri rigorosi e trasparenti. Qui sono in gioco studio e ricerca, questioni delicatissime. Nessun paese al mondo assume precari nel settore dei beni culturali: si scelgono i migliori ovunque essi siano. Non possiamo farlo proprio in Italia, dove abbiamo un patrimonio sterminato e soprattutto disseminato ovunque, un immenso museo a cielo aperto fatto di beni storici e artistici e di paesaggi».
Molti di questi lavoratori precari hanno comunque svolto compiti delicati di tutela, spesso sono stati selezionati già con concorsi.
«La via maestra è quella di bandire concorsi pubblici aperti a tutti, precari e non precari, riconoscendo ai primi un punteggio che attesti il lavoro svolto. Ma non è possibile immettere nell´amministrazione così tante persone ope legis. E poi, mi scusi, abbiamo creato un vero monstrum».
Quale professore?
«Il ministero dell´Università ha istituito decine di corsi di laurea in Beni culturali, dai quali escono migliaia di giovani. Ma il ministero dei Beni Culturali non indice concorsi per prendere i migliori fra questi giovani».
Ma intanto è accaduto un pasticcio. Un concorso per soprintendenti storici dell´arte è stato sospeso dal ministro, per il ricorso di alcuni dirigenti non ammessi all´orale. Però il Tar ha dato ragione a chi aveva superato la prova scritta e ha imposto che il concorso sia concluso.
«Non conosco i termini esatti di quella vicenda. Credo che il bando fosse sbagliato, perché non valutava anche i titoli: è importante scegliere un soprintendente anche per i libri scritti o per le ricerche in corso. Però quel concorso è stato avviato sulla base di quel bando ed ho sempre pensato che fosse giusto portarlo a conclusione».
Come si possono rimettere in moto le soprintendenze?
«In primo luogo potenziando quelle che fanno tutela sul territorio e ridimensionando le strutture centrali, cioè invertendo la rotta fin qui seguita. Esistono studi sul funzionamento di alcune soprintendenze, come quella ai beni archeologici di Roma. Si analizzino bene queste indagini e si veda concretamente cosa funziona e cosa no. Poi bisogna riformare il sistema delle direzioni regionali, nate con il precedente governo di centrosinistra».
Che cos´hanno che non va?
«Alcune funzionano bene altre meno. Ci sono ottimi dirigenti, ma non sempre succede. Mi sono battuto, e continuerò a farlo, perché non possano accedere a quei posti se non persone con competenze tecnico-scientifiche, storici dell´arte, architetti o archeologi, e non amministrativi, come accade in qualche caso. Ma, al di là degli uomini, in generale si sono rivelate un filtro burocratico fra le soprintendenze che operano sul campo e il ministero. E per far questo le direzioni regionali hanno ulteriormente sguarnito il lavoro sul campo».
Come le riformerebbe?
«Io proporrei per ogni regione una conferenza dei soprintendenti con uno di loro che svolga il ruolo di coordinatore. In ogni caso le soprintendenze devono riacquistare il massimo di autonomia e al tempo stesso chi le guida deve poter essere giudicato, perché si possano sanzionare omissioni o inefficienze».
Cosa propone per le soprintendenze ai Poli museali di Roma, Firenze, Venezia e Napoli?
«Sono stato sempre contrario a scindere la soprintendenza dei musei dal territorio. È un´incongruenza: i musei italiani sono il prodotto dei territori in cui si trovano, espongono i materiali provenienti da quei territori, non si possono gestire in maniera scientificamente seria sganciandoli da essi».
Questi sono tutti problemi organizzativi. Si parla da tempo di una riforma del ministero. Il ministro ha assicurato che entro l´estate sarà varata. Lei ne sa qualcosa?
«Circolano bozze diverse, alcune le ho viste. Ma aspettiamo che il ministro faccia conoscere le proprie intenzioni e poi il Consiglio esprimerà il suo parere».
Lei è stato un protagonista della battaglia contro la Patrimonio S. p. A. Che cosa ne è della vendita dei beni pubblici, compresi quelli che hanno rilievo storico-artistico?
«La politica voluta dall´allora ministro Giulio Tremonti ha avuto scarso successo e sembra abbandonata. Quella politica la stanno però adottando molti Comuni».
Può farmi qualche esempio?
«Che ne sarà della sede del Museo Geologico Nazionale a Roma, costruito negli anni Settanta dell´Ottocento, i cui lavori di ristrutturazione stanno ora terminando? Sarà venduto? A chi? Per farne cosa? Molta preoccupazione ha destato la decisione di vendere Villa Giustiniani Cambiaso a Genova. A Venezia sono stati messi in vendita in un colpo solo 13 palazzi, tra i quali Palazzo Nani e Palazzo Zaguri. Ma la cosa che continua a preoccuparmi è che nell´ultima Finanziaria si parla esplicitamente di "valorizzazione a fini economici dei beni immobili tramite concessione o locazione" e anche di "nuove destinazioni d´uso". È vero che la norma prevede il rispetto del Codice dei Beni Culturali, ma intanto ne mina uno degli assunti introdotti quando ancora era ministro Rocco Buttiglione e cioè che la valorizzazione va intesa "al fine di promuovere lo sviluppo della cultura", e non per fini economici».
Si parla da tempo anche di modifiche al Codice dei Beni Culturali in particolare per la salvaguardia del paesaggio.
«Questo è il fronte sul quale la tutela mostra le maggiori debolezze. Abbiamo assistito a un progressivo slittamento delle competenze dallo Stato prima verso le Regioni e poi da queste ai Comuni. Il Codice ha ulteriormente ridotto il controllo statale perché ha tolto alle soprintendenze il potere di annullare, come si dice, "a valle", le autorizzazioni edilizie dei Comuni. Possono solo partecipare alla redazione dei piani paesistici: "possono", dice il Codice, non "devono". Per cui i Comuni alla fine hanno mano libera e le conseguenze sono che il geometra di un piccolo municipio toscano, come Pienza, si trova a fronteggiare la forza di immobiliaristi decisi a saccheggiare Monticchiello».
Cosa fare, dunque?
«Intanto bisogna rendere obbligatoria e non più facoltativa la partecipazione delle soprintendenze alla redazione dei piani paesistici. La vecchia politica dei vincoli non basta più, le soprintendenze devono poter progettare l´assetto dei paesaggi. Ma il rischio è che non possano progettare e neanche mettere vincoli. La mia idea è che bisogna ricostituire una rete di tutela di cui facciano parte lo Stato centrale, le Regioni e altri soggetti. La guerra di logoramento fra centro e periferia non avrà né vincitori né vinti, ma ha già le sue vittime: il nostro patrimonio e il nostro paesaggio, che anziché essere concepiti come un prezioso bene comune diventano la posta di un defatigante conflitto, di una specie di "fuoco amico" fra i poteri pubblici».
Postilla
Le parole del nuovo presidente del Consiglio superiore dei Beni Culturali ribadiscono posizioni da lui incessantemente riproposte in questi ultimi anni e, nell’assunto generale, condivisibili. Lasciano qualche dubbio, casomai, alcune affermazioni che paiono derivare da un certo attardamento politico culturale.
Ad esempio laddove si criticano le direzioni regionali in quanto causa del depotenziamento delle soprintendenze: in realtà l’accertato svuotamento di quelle strutture è piuttosto il risultato del progressivo depauperamento, in termini di personale, risorse e mezzi (non solo materiali), costantemente e quasi scientemente perseguito negli ultimi 10-15 anni da parte degli organi centrali del Ministero e delle politiche (a)culturali degli ultimi governi. Le direzioni, al contrario, potrebbero rappresentare un presidio più efficace, in quanto istituzionalmente più “forte” e coordinato, nei confronti degli altri interlocutori che agiscono a vario titolo sul territorio: pubblici e privati. Questi ultimi, soprattutto, spesso dotati di ben altri mezzi e capacità di intervento.
Quanto al problema dell’autonomia dei nostri principali musei, è ormai riconosciuto dalla maggior parte di museologi ed esperti del settore che questo rappresenti, in molti casi, solo un primo, ma indispensabile passo per trasformare un’istituzione culturale che ha subito negli ultimi anni uno stravolgimento progressivo delle funzioni originarie da elitario luogo delle muse a strumento comunicativo davvero efficace e finalmente inclusivo in senso cognitivo e sociale.
E infine preoccupa questa reiterata ansia di modifica del Codice dei beni culturali del paesaggio a neanche un anno dall’entrata in vigore della ultima versione emendata. Alla versione attuale sarebbe forse più opportuno concedere una sperimentazione effettiva “sul campo” di qualche consistenza maggiore rispetto ai proclami fin qui sbandierati in occasioni mediaticamente molto strombazzate di accordi ecumenici Stato-regioni (v. ad esempio il protocollo d’intesa Mibac-Regione Toscana, sul quale, da ultimo, l’eddytoriale n.100).
Ad una analisi non pregiudiziale che tenga conto anche del suo percorso storico, il Codice si pone come l’evoluzione, con qualche sbavatura, ma non al ribasso, del testo unico del 1999 e, salendo per li rami, della spesso rimpianta 1089. Strumento non inadeguato ad esigenze di tutela che, rispetto al 1939, qualche mutamento lo devono pur aver subito.
Il problema, adesso, non è modificare il Codice, ma adeguare le istituzioni che dovrebbero attuarlo (il Ministero in primis) ai nuovi compiti: in senso strutturale, e forse soprattutto culturale. (m.p.g.)
«La Regione Sardegna sospenda il bando di vendita degli ex siti minerari del Sulcis-Iglesiente». La richiesta arriva - attraverso una dichiarazione alle agenzie di stampa - dal presidente della commissione ambiente del Senato, Tommaso Sodano (Prc), che in un'interrogazione parlamentare chiede anche, al ministro Rutelli, di annullare gli atti della giunta sarda. «E' opportuna - dice Sodano - una riflessione, prima di cedere a privati un bene pubblico che l'Unesco ha dichiarato patrimonio mondiale dell'umanità».
Sodano si riferisce a una delibera della giunta regionale sarda (del 26 aprile 2006) che mette in vendita pezzi (di proprietà della Regione Sardegna) delle miniere dismesse del Sulcis-Iglesiente, uno dei siti di archeologia industriale più vasti e più importanti d'Europa.
Sodano, che polemicamente usa il termine «svendita» anziché «vendita», spiega: «Pare giunto il momento di sospendere la svendita del territorio, per verificare, insieme a comunità locali, parti sociali, associazioni culturali e ambientaliste, se esista un differente e più appropriato percorso per dare risalto a questi beni, senza che di essi si debba necessariamente e definitivamente spogliare la parte pubblica». Il presidente della commissione ambiente di palazzo Madama contesta «la cartolarizzazione dei siti di Masua, di Ingurtosu, di Naracauli, di Monte Agruxau e di Pitzinurri in favore delle multinazionali del mattone e del turismo d'élite». «Viene in questo modo affermata - dice Sodano - un'idea di sviluppo che passa attraverso l'alienazione di beni comuni in favore di imprese private, per realizzare alberghi di lusso e campi da golf».
Le multinazionali del mattone alle quali fa cenno Sodano sono tre: Pirelli Real Estate, Immobiliare Lombarda (Ligresti-Fondiaria-Sai) e Hines Italia, un importante fondo immobiliare con sede negli Usa che a Milano sta realizzando il «Quartiere della moda». Sono queste le imprese che hanno risposto, nel luglio 2006, al bando lanciato da Renato Soru con la delibera dell'aprile 2006. Ce n'era anche una quarta, una cordata di imprenditori sardi, che però lo scorso ottobre una commissione nominata da Soru ha messo fuori gioco (mancavano alcuni dei requisiti richiesti). Il bando prevedeva tre fasi: una manifestazione d'interesse all'acquisto, una successiva selezione dei richiedenti e, infine, un'asta attraverso la quale scegliere l'impresa a cui vendere le aree. A quattro mesi dalla selezione (ottobre 2006) dei richiedenti, la data dell'asta ancora non è stata fissata. Al momento, quindi, non si sa quale dei tre colossi del business delle vacanze potrà «riqualificare a fini turistici» (così dice il bando regionale) le aree di Masua, di Monte Agruxau, di Ingurtosu, di Pitzinurri e di Naracauli (650 ettari in tutto). Si sa, invece, perché sta scritto nel bando, che il vincitore dell'asta non potrà costruire niente di nuovo, neppure un metro cubo. Potrà però ristrutturare 260 mila metri cubi di vecchie costruzioni (case di minatori, laverie, depositi) già esistenti, per trasformarli in strutture ricettive destinate a turisti di target alto.
Contro la vendita delle aree minerarie si sono schierati, nei mesi scorsi, il «Gruppo d'intervento giuridico» (una delle associazioni ambientaliste più attive nella lotta contro la cementificazione delle coste sarde) e la Rete Lilliput. Critiche sono arrivate anche dal Social forum di Cagliari. Ora contro il progetto di Soru arriva, con le dichiarazioni del presidente della commissione ambiente del Senato, uno stop più forte. Nell'interrogazione presentata il 23 gennaio scorso, Sodano ricorda a Rutelli che nella procedura di cessione dei siti minerari sardi «è stata omessa la preliminare verifica di legge dell'interesse culturale da parte del ministero» (solo nel novembre 2006 Soru ha avviato questa pratica, oltre sei mesi dopo la presentazione del bando di gara). Sodano chiede al ministro se tutto ciò non debba portare all'annullamento degli atti della giunta sarda. Ma parla anche, Sodano, di «alienazione di un bene comune in favore di privati». Questioni tecniche e nodi politici.
Vedi l'articolo per eddyburg di Arnaldo (Bibo) Cecchini e l'intervista di Edoardo Salzano su la Nuova Sardegna
In quella che fu la patria del diritto, sempre più spesso le leggi non danno normative di lungo periodo, ma sono un gesto di comunicazione e d’immagine, valgono in primis per il loro effetto-annuncio. Effimere come un comunicato stampa, si fanno e si sfanno (passando per fasi di proroga, deroga, surroga), ma come notizie di cronaca vengono presto dimenticate nell’incalzare di nuovi regolamenti e decreti: un pulviscolo che col suo flusso ininterrotto oscura la norma, la rende inconoscibile e impraticabile. Un caso da manuale furono, nella stagione del centrodestra, i reati contro il paesaggio: ogni sanatoria fu severamente vietata dal Codice dei Beni Culturali promosso dal ministro Urbani (che giustamente se ne vantò), ma pochi mesi dopo la legge sull’ambiente introdusse una totale depenalizzazione e sanatoria. Contraddizioni della politica? Certo, ma anche logoramento di una civiltà giuridica, svuotamento dei contenuti legislativi, oblio della Costituzione repubblicana.
Non siamo ancora al riparo da questo processo di degrado. Il nuovo governo ha riaffermato la fedeltà all’art. 9 della Costituzione ("La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico-artistico della Nazione"), ma non tutti i suoi atti sono coerenti in tal senso. E’ vero che la politica di dismissioni di immobili pubblici di valore culturale inaugurata con scarso successo da Tremonti sembra abbandonata, ma essa continua pienamente a livello dei Comuni (basti citare Roma e Venezia). E non è morta l’idea-base di Tremonti, che i beni culturali pubblici debbano essere utilizzati per contenere il disavanzo: la Finanziaria 2007 (comma 259) prevede la "valorizzazione a fini economici dei beni immobili tramite concessione o locazione". Le locazioni, della durata di 50 anni, prevedono la "riqualificazione e riconversione… tramite interventi di recupero, restauro, ristrutturazione, anche con l’introduzione di nuove destinazioni d’uso". La norma prevede, è vero, il rispetto del Codice dei Beni Culturali, ma intanto ne mina un assunto-base, e cioè che la valorizzazione va intesa "al fine di promuovere lo sviluppo della cultura" (art. 6), e non per fini economici. Non è un timore astratto: il comma 263 della Finanziaria di fatto riapre i termini per la dismissione degli immobili pubblici della Difesa, in modo che siano "inseriti in programmi di dismissione e valorizzazione ai sensi delle norme vigenti in materia", pudico riferimento alle norme Tremonti che nessuno ha abolito: redazione rapidissima degli elenchi di beni da porre in vendita, 90 giorni di tempo per le Soprintendenze (anziché 120 come nel Codice) per opporvisi. Con questo comma, anzi, la Finanziaria oblitera perfino il riferimento di garanzia al Codice contenuto nella legge 248/2005, art. 11/5: insomma, è più tremontiana del governo Berlusconi.
Questa politica delle "concessioni" si estende alla gestione dei beni culturali, favorita dalla mancanza di personale nelle Soprintendenze e dall’interpretazione equivoca e contra legem della valorizzazione in senso meramente economico. Il Codice, in coerenza con le norme dell’Unione Europea, privilegia l’ipotesi di una gestione diretta dell’ente proprietario, che può creare all’uopo società al 100% pubbliche, giustificandone la formazione con specifici progetti di valorizzazione (intesa in senso culturale). In ogni altro caso, l’ente proprietario deve ricorrere al mercato, né può costituire Fondazioni che direttamente gestiscano musei e monumenti. Lo ha imparato a sue spese il Comune di Roma: l’affidamento diretto dei musei comunali alla società Zetema è stato prontamente annullato dal Tar del Lazio (sentenza 1117/2006) per illegittimità. Eppure, si legge ora sui giornali che in Campania verrebbero trasferiti alla Regione aree di enorme rilevanza come Paestum e Velia, i Campi Flegrei, le certose di Padula e Capri, con l’intesa di affidarne la gestione, senza gara pubblica, a una SpA appositamente costituita (Scabec), con capitale al 50% privato. Di analoghi progetti si parla anche per Venaria reale ed altre residenze sabaude: nell’un caso e nell’altro, preferendo a quel che pare non la gestione diretta dello Stato, non la trasparente dinamica del libero mercato, bensì affidamenti fiduciari vietati dalle norme della Comunità Europea. In attesa, s’intende, delle prossime sentenze dei Tar.
Queste e simili "concessioni" che nella confusione dei linguaggi si vanno apparecchiando dietro le quinte ricordano quelle dell’impero cinese in disfacimento: forme di colonizzazione mascherata, che a volte (come la concessione italiana di Tien-tsin) ebbero vita breve, a volte (Macao e Hong-Kong) assai più lunga. Sul fronte dei beni culturali, la disinvolta interpretazione delle leggi e la cessione di spazi e poteri sembra prefigurare uno Stato a sovranità limitata, in costante ritirata, incapace di progetti di grande respiro, dimentico della propria Costituzione. Resta, si capisce, il muro di carta delle leggi, quello che Natalino Irti fin dal titolo di un libro recentissimo ha chiamato Il salvagente della forma (Laterza). Perchè, scrive Irti, «il formalismo si delinea come corrispettivo dell’indifferenza contenutistica», e in questo naufragio dei tempi «la Costituzione, gravemente indebolita, rimane custode dei diritti fondamentali, ma non più sollecita e genera leggi di attuazione».
I funzionari della Soprintendenza archeologica di Pompei si schierano con Pietro Giovanni Guzzo, che ha annunciato il proposito di dimettersi dalla guida di quella Soprintendenza. Dimissioni motivate dalla conferma nel suo incarico, da parte del ministro Francesco Rutelli, del direttore amministrativo della Soprintendenza, Luigi Crimaco, nonostante si sapesse che Crimaco, nominato da Giuliano Urbani, non fosse mai riuscito a instaurare una buona convivenza con Guzzo, archeologo di fama riconosciuta.
I direttori degli scavi di Pompei, di Ercolano, di Oplontis, di Boscoreale e di Stabia, una fra le più importanti aree archeologiche al mondo, esprimono in un documento la «totale solidarietà» a Guzzo e a loro si affiancano architetti, archeologi e biologi. A favore di Guzzo si sono espressi anche studiosi stranieri, dalle università di Friburgo a quella di Nimega, e adesioni sono arrivate anche dal Pergamon Museum di Berlino. Oltre che dall´Assotecnici, l´organizzazione che raccoglie i funzionari di tutte le soprintendenze, e dai sindacati Cgil, Cisl e Uil.
Guzzo non ha ancora inviato la lettera di dimissioni. Ma non sembra intenzionato a recedere a meno che non vi sia un segnale di svolta nella difficile situazione di Pompei. Il sito archeologico è visitato ogni anno da due milioni e mezzo di persone, ma è assediato da una realtà complicata, con custodi invadenti, parcheggiatori assillanti e una pletora di bancarellari che vendono patacche d´ogni genere. Molti dei dipendenti appartengono a cordate familiari, veri clan che impongono logiche ostruzionistiche. Guzzo si è sempre mosso con energia (è a Pompei dal 1994). Ma molte delle sue iniziative si sono scontrate con il vertice dell´amministrazione. Luigi Crimaco, ex direttore di un piccolo museo a Mondragone, si dice sia stato appoggiato a suo tempo dall´ex ministro di An Mario Landolfi. Nelle ultime settimane è entrato in rotta di collisione anche con alcune strutture dell´amministrazione: ha infatti sostituito la responsabile del servizio personale e rapporti sindacali con un funzionario di sua fiducia, che quindici giorni dopo si è dimesso anche lui dall´incarico.
Notizie degli scavi è il nome di una gloriosa rivista di archeologia pubblicata dall´Accademia dei Lincei; ma è anche il titolo di un racconto scabro e crudele di Franco Lucentini (1964). Protagonista ne è il «professore», tuttofare di una pensione equivoca, minorato mentale eppure curioso del mondo, che dalle rovine di Roma, sfiorate per caso nel suo girovagare imbambolato e assorto, impara a guardare dentro di sé.
Quante cose di quei ruderi, lo dicono perfino le guide stampate, «non si sanno» dopo tanti studi, quante date, quanti fatti restano oscuri! E allora, davanti alle incertezze e ai silenzi dei sapienti, anche le esitazioni del «professore», che non è mai sicuro di aver capito quello che gli dicono, che inciampa nelle parole proprie e altrui, non sono vergogna, solo solitudine. «Le rovine si presentano come la vera e unica forma del nostro universo. Il mondo è fatto di resti, di frantumi, di cose su cui è passato il tempo» (D. Scarpa), e così anche la mente del «professore», così la nostra.
Ruolo, funzione e destino del rudere archeologico nelle città, ma specialmente nella Roma del presente e del futuro: questo il tema del denso, prezioso libro di Andreina Ricci edito da Donzelli ( Attorno alla nuda pietra. Archeologia e città tra identità e progetto, pagg. 159, euro 12.90). In nessun luogo come a Roma si avverte (si vive) la presenza del passato, il sedimentarsi delle età, l´innestarsi dell´oggi su una moltitudine di ieri. Eppure manca dal nostro orizzonte una domanda radicale, quella di questo libro: mentre la città cresce, e cresce la diversità culturale dei suoi abitanti, a chi spetta decidere che cosa fare delle sue rovine, e perché? E´ importante (non per l´archeologo che lo fa per mestiere, ma per il cittadino, il passante, il più distratto e spaesato turista) capire che cosa erano e che cosa sono quei ruderi, perché sono conservati, e soprattutto per chi? Non si tratta qui solo del Colosseo, né di monumenti meno famosi (come l´arco del Foro Boario in copertina), ma anche dello smozzicato segmento di un acquedotto, dei frammenti spesso incomprensibili di tombe o strade che tanto spesso spuntano inattesi nelle periferie romane. Andreina Ricci ha ben chiaro che il rudere archeologico non è «proprietà» né degli archeologi né dei professionisti della tutela; sa, come dovremmo sapere tutti, che la tutela passiva (la protezione contro degrado e distruzione) non basta. Tutelare è anzi nulla, il vano ossequio rituale a una petizione di principio, una stanca coazione a ripetere, se non si accompagna a meccanismi culturali ben più vivi e stimolanti: la curiosità e la conoscenza non degli specialisti, ma dei cittadini. Il rudere nella città non è solo l´esile voce di un´altra Roma, quella che non c´è più eppure ebbe le sue folle e il suo clamore, il suo traffico, le sue passioni e i suoi delitti, proprio come quella di oggi; è un generatore di memoria, ci prende per il collo obbligandoci a rispettarlo (o a distruggerlo), condiziona la crescita della città. Il rituale della tutela impone uno spazio «di rispetto» attorno al rudere: ma allora il tema della tutela s´intreccia con quello della definizione del tessuto urbano, anzi con l´uso pubblico dello spazio urbano in generale, col ruolo che possono avervi (che, a Roma, hanno e avranno sempre e comunque) le «notizie degli scavi».
La formula «nuda pietra» che Andreina Ricci usa sin dal titolo per cogliere in due parole la doppia natura del rudere nella città, la sua forza (la pietra) e la sua debolezza (la nudità) viene, riconoscibilmente, dalle riflessioni di Giorgio Agamben sul rapporto fra la «nuda vita naturale» dell´uomo e la sua condizione di cittadino, portatore di sovranità e di diritti. Ci voleva coraggio (e la Ricci l´ha avuto) per dire chiaramente che il diritto di cittadinanza del rudere nella città moderna non è scontato: «nelle nostre leggi di salvaguardia il solo emergere dal terreno di una "pietra antica" fa di quell´epifania una sorta di natività che trasforma immediatamente una nuda pietra in portatore di "valori di civiltà" propri dello "Stato di cultura", così da imporne automaticamente la tutela. (...) Una forzatura e un automatismo che non hanno nulla a che fare con l´esperienza diretta, non rappresentano in alcun modo, per i cittadini, un lapalissiano fatto concreto».
La tutela del bene archeologico dà per scontato che esso abbia valore in sé, non comporta la minima riflessione né il minimo sforzo perché tale valore venga definito, coltivato, comunicato al cittadino che dovrebbe (si suppone) inorgoglirsene, considerarlo parte della propria identità.
Questo è, mi pare, il nodo centrale del libro di Andreina Ricci: che è anche un´interrogazione di fondo sul mestiere dell´archeologo. Perché gli addetti ai lavori fanno così pochi tentativi di comunicare ai cittadini comuni il significato delle loro scoperte, la natura delle «nude pietre» che riemergono, il senso del proprio lavoro? Forse, per pigrizia o mancanza di riflessione, essi non credono che sia necessario comunicare proprio nulla, perché immaginano che il cittadino che visita le rovine, o vi passa accanto, ne abbia quella percezione estetico-contemplativa che fu ovvia, è vero, nella stagione del Grand Tour, ma che era propria di ristrette élites, da gran tempo defunte.
Perciò non basta perimetrare le rovine per affermarne la sacralità: la nuova professionalità dell´archeologo richiede la capacità (più spesso rimossa che dispiegata) di raccontare la storia attraverso i resti materiali del passato. Un esempio: la recente sistemazione dell´arco del Foro Boario comporta due livelli d´intervento non solo incompatibili, ma ostili l´uno all´altro. Si schierano, davanti all´arco, una serie di (miserevoli) panchine, che invitano ad avvicinarsi, a sedersi, a fermarsi per guardare. Lo impedisce però un´alta cancellata, che vieta non solo l´uso delle panchine ma ogni visione ravvicinata dell´arco. In questo andare a tentoni, archeologi e architetti non si parlano, troppo occupati a ritagliarsi, ognuno per sé, spazi autonomi d´intervento. Chi perde la battaglia è il cittadino comune, ma anche il monumento, affidato a una «tutela» di maniera che lo proietta in una dimensione inconoscibile.
Questo tema è oggi straordinariamente importante.
Tutelare sulla base di principi generali è giusto, è irrinunciabile (guai a fare anche un solo millimetro indietro). Ma quei principi devono fondarsi su valori riconosciuti e condivisi, a cominciare da quello della conoscenza: se rinunciamo a diffondere la coscienza del significato dei beni da tutelare, anche i principi (anche l´art. 9 della Costituzione) si sfarineranno via via, li violeremo (succede già) nella generale indifferenza. Vale per l´archeologia, vale per tutti i «beni culturali» (comunque definiti), vale a maggior ragione per il paesaggio e per quell´essenziale continuum fra città e campagna che è ancora la ricchezza più importante dell´Italia e che tutti sembrano industriarsi a voler smantellare, anche i comuni e le regioni «di sinistra». E dove mai, in quale scuola, in quale pubblico progetto di Stato, regioni o comuni, si prova a cercare strade nuove ed efficaci per tramandare alle generazioni future il rispetto per il paesaggio, l´ambiente, i monumenti, che per secoli non solo parve, ma fu, parte imprescindibile dell´essere italiani?
Secondo Andreina Ricci, fu con la politica del vuoto intorno ai monumenti archeologici propugnata dal fascismo che venne a spezzarsi il legame vitale fra passato e futuro, e i ruderi da gangli essenziali del vissuto urbano furono mutati in neutro e sciatto testimonio di sé stessi, «glorificati» in apparenza ma in verità relegati in un loro ghetto astratto e senz´anima. Per capovolgere questa perversa deriva, suggerisce con forza questo libro, non c´è che da ripartire dal presente, da una nuova alleanza di volontà e di saperi, da una rinnovata capacità di interpretare per raccontare, di raccontare per coinvolgere i cittadini, per ricreare coscienza e appartenenza. Per ridare alla «nuda pietra» la sua cittadinanza perduta, prima che sia troppo tardi.
Una buona notizia: i ministri Rutelli e Padoa Schioppa hanno costituito una commissione interministeriale, presieduta dal presidente della Biennale Davide Croff, che promuova una concezione più moderna e ariosa delle relazioni fra economia e cultura in Italia. Certo, bisogna aspettare la fine dei lavori, e vedere se le proposte che ne emergeranno sapranno tradursi in provvedimenti concreti (per esempio per la detassazione delle erogazioni liberali).
Ma tentiamo subito qualche riflessione sul rapporto fra pubblico e privato nella gestione del patrimonio culturale, che è oggi fonte di equivoci e mitologie. Secondo una concezione più "tradizionale", il patrimonio culturale è di competenza pubblica, e ogni intromissione del privato è una profanazione; altri propugnano l'idea più "moderna" (qualunque cosa ciò voglia dire) che lo Stato deve passare la mano ai privati. Il recente calo delle risorse pubbliche ha dato fiato a quest'ultima posizione, ma le dichiarazioni del ministro Rutelli indicano un'inversione di tendenza, in sintonia con quanto tempo fa ha scritto Prodi sul Corriere della Sera, impegnandosi a riportare il livello della spesa pubblica del settore ai livelli del 2001, per giungere presto all'1% del Pil. È il livello della Francia: l'Italia, con una concentrazione e capillarità di beni culturali assai maggiore, è sotto lo 0.50% del Pil.
Più Stato o più privato? Questa contrapposizione non è nei fatti né nella tradizione civile, culturale, istituzionale del nostro Paese, ma nasce dalla cronaca spicciola degli ultimi anni. Anni in cui si è registrato l'arretrare della macchina pubblica della tutela, un crescente conflitto di competenze fra Stato, regioni ed enti locali, il blocco di ogni turn over dei funzionari tecnico-scientifici. Questo decadimento ha innescato proposte di due segni diversi: per alcuni, basterebbe ridistribuire alle Regioni le funzioni di tutela per generare un miracoloso rilancio di ciò che oggi non funziona in mano allo Stato; per altri, la formula magica è invece "privatizzare". Idee improvvisate, che tuttavia attirano l'attenzione sulla centralità del patrimonio culturale e sulla necessità di precisarne gli attori e le forme di conservazione, di fruizione e di gestione.
La parola d'ordine di una sommaria privatizzazione si è diffusa sotto la spinta convergente di due fattori: la tendenza ad "alleggerire" la spesa pubblica e lo Stato, generatasi nell'era Thatcher-Reagan, e la coscienza delle dimensioni del nostro patrimonio culturale (diffuso in Italia con un'intensità e una capillarità senza pari), e dunque della difficoltà di reperire le risorse per conservarlo in modo appropriato. A ciò si è aggiunta un'immagine grossolana dei musei americani, attivi e dinamici perché privati: privatizzare i nostri musei sarebbe dunque la strada per generare d'incanto le risorse necessarie.
Ora, i musei americani non coprono mai più del l5-20 per cento delle spese di gestione con introiti diretti; hanno sostanziosi contributi pubblici (dell'ordine medio del 10-20 per cento); si alimentano soprattutto di donazioni private, rese possibili da una efficiente fiscalità di vantaggio per il contribuente. In altri termini, negli Stati Uniti lo Stato contribuisce doppiamente ai musei e alla ricerca: con una quota di contributi diretti, ma anche privandosi di enormi introiti fiscali onde incoraggiare le donazioni private. E così che i musei americani possono accantonare i propri assets e investirli, finalizzando gli utili a tutte le spese di gestione (80-85 per cento) che gli introiti diretti non bastano a coprire. Per esempio, il Getty Trust di Los Angeles ha assets investiti per circa otto miliardi di dollari, e introiti diretti pari al 10 per cento delle spese di gestione: il restante 90 per cento è coperto dagli utili. Per privatizzare secondo il modello americano gli Uffizi, trenta volte più grandi del Getty, occorrerebbe un capitale investito trenta volte maggiore. Il museo americano di cui in Italia si favoleggia, produttore del reddito necessario a sostentarne le spese di gestione, e un miraggio. Per un problema vero (dinamizzare i nostri musei e reperire nuove risorse) si è indicata una soluzione confusa e impraticabile.
Eppure questa falsa mitologia stenta a morire, come mostra un documento (distribuito in Consiglio dei ministri nel novembre 2005, governo Berlusconi) secondo cui «la gestione dei beni culturali dev'essere improntata a logiche imprenditoriali che producano reddito attraverso una impresa ad hoc, proprio perché (il reddito è) destinato a sostenere la conservazione e la fruizione. Lo sfruttamento del bene pubblico risponde alle logiche del mercato e collima, sua sponte, con le esigenze della fruizione e della conservazione, poiché il bene è esso stesso il fattore di produzione della impresa». Secondo questo credo iperliberista, il bene culturale esiste per essere sfruttato, e solo in quanto produce reddito potrà essere conservato e fruito dai cittadini. Anche se prontamente sconfessato non appena questo giornale lo rese noto, il documento va ricordato come sintomo di una forma mentis attardata in un aziendalismo di maniera, anche in un ambito che per sua natura lo rigetta.
Non meno aggressivi sono stati i tentativi di privatizzare il patrimonio culturale mettendolo in vendita. Si sa che in mano pubblica c'è una quantità notevolissima (dunque difficile da gestire) di patrimonio immobiliare e che il combinato disposto della legge di tutela del 1939 e del Codice Civile ha reso in principio «patrimonio culturale» ogni immobile con più di 50 anni di vita, con ciò accrescendo a dismisura la quantità (non la qualità) del patrimonio immobiliare pubblico. Rendere alienabile l'intero patrimonio pubblico (culturale o no) è inaccettabile: ma è proprio quello che tentò Tremonti con la sua "Patrimonio dello Stato SpA" (2002) e le cartolarizzazioni che ne seguirono. Secondo Giuseppe Guarino, che ha rilanciato il tema in due convegni romani (ottobre 2005 e giugno 2006), per ridurre il debito pubblico «è necessario immettere sul mercato i beni immobili di interesse storico, archeologico e artistico, che sono giuridicamente inalienabili. Bisogna dunque fornirli di un reddito, e insieme abrogare, con atto avente forza di legge, il vincolo della inalienabilità».
Evidentemente Guarino, in un momento di distrazione, ha dimenticato l'art. 9 della Costituzione: bisognerà abrogare anche quello?
Altre distrazioni e dimenticanze serpeggiano in ogni dove: nell'editoriale del Giornale dell'arte di giugno, Sergio Romano propone un sistema di dismissioni di immobili pubblici, subordinato a rigorose condizioni di tutela, garantite da «un corpo ispettivo di cui il Ministero per il momento non sembra disporre». Non esistono dunque più, nella memoria di un editorialista di tanto prestigio, le Soprintendenze? Davvero molta è la confusione sotto il sole, se le élites di questo Paese sembrano dimenticare la Costituzione e le istituzioni. Ma non è forse lo stesso Stato ad aver dimenticato le Soprintendenze, se da anni non assume più personale tecnico-scientifico (tanto che l'età media degli addetti è oggi intorno ai 55 anni)?
Non si può discorrere del rapporto fra pubblico e privato se si parte dal presupposto dello smantellamento dello Stato, dei suoi principi e delle sue strutture.
L'intervento del privato può esser concepito in sussidio, e non in sostituzione o supplenza, delle pubbliche istituzioni. Benemeriti sono i contributi delle fondazioni bancarie, e tuttavia preoccupa che siano concentrati nelle regioni del Nord (intorno al 70 per cento), e quasi assenti in tutto il Sud (meno del 5 per cento).
Importantissimo sarebbe introdurre una vera fiscalità di vantaggio (stavolta sì, secondo il modello americano), ricordandosi che negli Stati Uniti il 73 per cento delle donazioni non proviene da "grandi donatori" (come le imprese), bensì dalle modeste donazioni di privati cittadini. Altre forme di intervento dei privati si possono certo sperimentare, senza dimenticare che quelli che da noi si chiamano "servizi aggiuntivi", a cominciare dalla didattica museale, in molti Paesi ( la Francia come l'America) sono considerati parte del corebusiness del museo, e perciò gestiti direttamente.
L'inversione di rotta che il nuovo governo sembra voler segnare su questo fronte lascia sperare una più matura riflessione sulla distribuzione dei ruoli sia all'interno del fronte pubblico (superando i conflitti di competenza fra Stato e regioni conseguenti al nuovo, infelice Titolo V della Costituzione), sia nell'equilibrio fra pubblico e privato. La più grande ricchezza dell'Italia è l'ineguagliabile continuum tra tessuto urbano e musei, fra case e monumenti, fra città e campagna, fra ambiente e paesaggio. La vera "redditività" di questo patrimonio non è negli introiti diretti e nemmeno nell'indotto che esso genera (incluso il turismo), bensì in un senso di appartenenza che incide a fondo sulla qualità della vita, e dunque anche sulla produttività della società nel suo insieme. Quello che sapremo fare in questo campo è un banco di prova essenziale per il nostro futuro. Stimolare la creatività dei cittadini di oggi e di domani con la presenza e la memoria del passato, alimentare la consapevolezza dei valori storici, civici e simbolici che permeano il nostro patrimonio culturale vuoi dire accrescere la nostra capacità di rinnovarci affrontando le sfide del futuro.
È dunque necessario ridisegnare il ruolo del pubblico e del privato, redistribuendone i ruoli nel rispetto dell'art. 9 della Costituzione, perché la capacità propositiva e progettuale dei privati possa affiancarsi alla professionalità delle strutture pubbliche della tutela (da rinnovarsi mediante l'iniezione di nuovo personale, di giovane età e di alta qualificazione).
Più Stato o più privato? La risposta è una sola: potrà esserci più privato solo se ci sarà più Stato.
È forse giunto davvero il tempo di stringere un grande patto nazionale per la tutela, che includa Stato, Regioni, enti locali, privati, e che parta non dalla suddivisione dei ruoli né dalla spartizione delle torte, ma dalle esigenze vitali e ineludibili del nostro patrimonio e da quelle dei cittadini.
A Roma accadono cose strane: ci sono realtà di cui nessuno parla (il disagio sociale esploso al Trullo, per esempio) e presenze meramente virtuali (la «Nuvola» di Fuksas, altro esempio) di cui si continua a parlare quasi esistessero davvero. Il Museo dell'arte contemporanea (Maxxi): citato di continuo, è però solo un cantiere in grave ritardo sui tempi. Ora rischia perfino di chiudere per mancanza di soldi, nonostante gli impegni del ministro Rutelli. Che però promette: «Io lo salverò».
La Finanziaria ha ridimensionato, quasi cancellandolo, ogni impegno di spesa per dare al Paese un adeguato Museo del contemporaneo, finora inesistente. Cinghia stretta, niente da fare. Eppure solo due settimane fa il ministro dei Beni culturali aveva trionfalmente annunciato i finanziamenti necessari per fissare al dicembre del 2008 la consegna alla città dell'opera di via Guido Reni, al Flaminio, arditamente progettata dalla famosa architetto Zana Hadid. Rutelli aveva anche indicato i ratei di una somma che avrebbe raggiunto i 70 milioni necessari a completare il Museo.
In sostanza, il governo ha concesso al Maxxi solo 5 milioni per ciascuno dei prossimi tre anni: appena un po’ di più di quelli utili a tenere il grande cantiere aperto ma fermo. «Il ministro competente, Di Pietro - chiarisce Rutelli - non è riuscito a trovare i soldi per il museo. È un fatto negativo, certo, ma è così. Il finanziamento tocca alle Opere pubbliche, non ai Beni culturali ma io tengo molto al Maxxi al quale ho già assicurato 7 milioni. I 15 previsti - continua Rutelli- li metterà il mio dicastero, pur non essendo quello a cui spetta l'investimento». Lo scorso anno, nel corso di una visita al cantiere-matusalemme (sta cominciando ad avere l'età di un anziano) il predecessore di Rutelli. Buttiglione disse cose analoghe indicando nel collega Lunardi il solo responsabile della realizzazione dell'opera.
«Fin d'ora mi sto impegnando a cercare i soldi per finire il Maxxi entro il 2008. È un impegno - assicura il ministro dei Beni culturali - che intendo assolutamente mantenere». Pio Baldi, direttore generale del Dipartimento per le arti contemporanee, si dice «molto dispiaciuto» del «buco» della Finanziaria. «Al Maxxi Roma e la cultura del Paese tengono molto. Non resta che confidare nell'impegno di Rutelli. Speriamo che vada a buon fine».
Altra musica da Claudio Cerasi, che con la società Navarra costruisce il museo: «Le notizie della Finanziaria ci annichiliscono. Siamo già esposti per 15 milioni, non possiamo continuare a lavorare senza essere pagati. Cinquemilioni l'anno sono ridicoli. Finiremo per chiudere il cantiere».
Maxxi e Nuvola, basta: o li facciamo o non parliamone più.
Sulla querelle del sì del ministro Rutelli al trasferimento del «Cristo morto» di Mantegna dalla Pinacoteca di Brera alla mostra di Mantova organizzata da Vittorio Sgarbi, pubblichiamo la lettera aperta a «un ministro, a un assessore e ai loro variopinti cortei» firmata dai funzionari storici dell'arte della Pinacoteca. La lista aggiornata delle adesioni si può consultare su www.patrimoniosos.it.
Il Cristo Morto di Mantegna andrà a Mantova. E non per una autonoma decisione - discutibile ma legittima - di un ministro intimidito, o irritato, dall'onda montante di polemiche sempre più roboanti, ma a seguito di un teatrino vergognoso che lascia sul terreno, oltre che la dignità di tante persone, alcuni fondamentali principi non solo della tutela ma della cultura. Perciò noi, «i funzionari che mentono al loro ministro» (Sgarbi, Corsera 27 agosto), che abbiamo condiviso con la direttrice della Pinacoteca le ragioni del no al prestito, che siamo stati i grandi assenti in questo coro di interviste dove i più variegati esperti hanno espresso giudizi incisivi ma non sempre informati dobbiamo spiegare il perché di una posizione che continuiamo a ritenere corretta.
Naturalmente, per non deludere le aspettative, iniziamo con un argomento squisitamente da burocrati.
L'articolo 48 della legge che siamo chiamati a far rispettare (ma, evidentemente, non siamo tenuti a rispettare noi stessi e meno che mai vi paiono tenuti gli assessori comunali, o i presidenti di comitati...) riguarda mostre ed esposizioni e al comma 3 recita «L'autorizzazione è rilasciata tenendo conto delle esigenze di conservazione dei beni (cosa ben diversa dallo stato di conservazione) e, per quelli appartenenti allo Stato, anche delle esigenze di fruizione pubblica...». Un soprintendente dunque si esprime sui prestiti tenendo conto di entrambi questi due elementi. Ciò è avvenuto per il Cristo Morto nel novembre 2005. Spiace che i nostri interlocutori non abbiano il tempo per leggere con attenzione la corrispondenza: nella lettera allora inviata in risposta alla richiesta del comitato organizzatore è contenuto un fermo diniego che non poggia sullo stato di conservazione del dipinto tanto dibattuto sui giornali. La tela forse non sta «da Dio», come sostiene il nostro assessore, ma non ha problemi immediati di conservazione. Altrimenti non sarebbe esposta nelle sale di Brera o sarebbe stata restaurata, come quasi tutti gli altri dipinti presenti nel museo. Ma è un'opera estremamente delicata e come tale è stata definita nella lettera. Si tratta di una tempera a colla, tecnica per la quale Mantegna utilizzava tele molto sottili, prive di preparazione, sulle quali stendeva una impalpabile pellicola pittorica non protetta da una vernice finale. Tale tecnica ne detta insieme le caratteristiche estetiche (colori polverosi, intonazione cupa..) e la delicatezza strutturale, che si concretizza nella tendenza del colore a sfarinarsi ed a cadere. Qualsiasi restauro ambisse a risolvere tale problema finirebbe probabilmente per alterare le caratteristiche materiali dell'opera. E perciò anche il suo aspetto.
Mantegna amò e utilizzò molto tale tecnica ma, oltre al Cristo Morto, solo altre quattro tele sono passate attraverso cinque secoli senza subire restauri snaturanti: la sua è dunque una delicatezza e una unicità che vanno preservate perché fanno parte integrante dello statuto specialissimo delle opere d'arte che non sono pura immagine, ma documenti storici in sé, con la loro consistenza fisica e i loro materiali. Siamo perciò certi che nessun tecnico responsabile, storico dell'arte o restauratore che sia - e tutte le valutazioni effettuate sul dipinto lo confermano - potrà negare i rischi connessi a questa specifica tecnica. E se li tacerà o li ignorerà si renderà colpevole del vecchio, obsoleto peccato di omissione, che sarà vecchio e obsoleto ma peccato resta. Nessun medico sensato autorizza un novantenne, seppure in buona salute a salire sull'Himalaya. E nessuna compagnia di volo accetta a bordo donne all'ottavo mese di gravidanza. Perché ci sono dei rischi. Noi ci riteniamo controllori di volo responsabili.
La stessa lettera però puntava su di un altro, decisivo argomento, e cioè l'importanza dell'opera per il museo. Non solo per le aspettative del pubblico, interessato a un numero ristretto di capolavori tra i quali si conta anche il Cristo Morto, ma anche per il ruolo che quest'opera gioca in una sala che dà conto della dialettica tra Mantegna e Bellini. Un museo è strumento complesso di conoscenza, dal quale non si possono togliere indiscriminatamente dei pezzi senza produrre vuoti di senso o salti di ragionamento. In altre parole senza danneggiarlo come strumento di cultura.
Il teatrino messo in piedi in questa occasione, la perizia che dice la verità, la decisione mutata sono però atti gravissimi anche per questioni di ordine generale, che vanno oltre il caso specifico del Cristo Morto. Pensiamo ad esempio al prevalere delle logiche «culturali» della mostra (ci sono rimaste nel cuore le motivazioni addotte dall'assessore che invocava il dipinto in quanto «icona pop che richiama centinaia di migliaia di visitatori») sul museo, ridotto a puro serbatoio per aumentare un circuito di affari che finisce naturalmente per penalizzarlo. Brera potrà anche avere un pubblico potenziale di 15 milioni di visitatori, ma difficilmente supererà i 250mila attuali se le sue opere più amate andranno costantemente in tournée a tutto vantaggio economico degli organizzatori di mostre.
Pensiamo anche al primato che si attribuisce, spesso in modo puramente strumentale, a un tecnicismo asettico, fondato solo sul dato «oggettivo» della relazione tecnica, che solleva il funzionario, o il politico di turno dal dovere, soprattutto etico, di una scelta ragionata sul futuro dei beni che gli sono affidati. Ma non basta. In questi giorni si è screditato senza appello e senza prove l'operato di un ufficio e di conseguenza di tutti gli uffici preposti alla tutela, che questa normativa sono chiamati ad applicare nei confronti di interlocutori meno potenti, e si è compiuto così un ulteriore passo avanti nel sistematico svuotamento di senso dei soprintendenti e delle soprintendenze, messe sotto tutela nelle decisioni con risonanza mediatica, salvo essere poi mandate sole in trincea nella faticosa gestione del quotidiano. In questo stesso senso va l'annunciata decisione di istituire una commissione di esperti per decidere sui prestiti, che per ora assomiglia a un doppione di qualcosa che esiste già, il Comitato tecnico scientifico composto da soprintendenti ed esperti esterni e interni, chiamato a decidere anche sui prestiti importanti. In specifico, paradossalmente, sul caso opposto del soprintendente scriteriato che presta con leggerezza i capolavori del museo a lui affidato. Ma ci chiediamo, e lo chiediamo ai nostri interlocutori, di fare con schiettezza i conti del dare e dell'avere, e di quanto la «pubblica utilità» sia stata accresciuta da quanto avvenuto.
Sandrina Bandiera, Raffaella Bentivoglio, Matteo Ceriana, Simonetta Coppa Emanuela Daffra, Cecilia Ghibaudi, Letizia Lodi, Valentina Maderna, Isabella Marelli, Amalia Pacia, Ede Palmieri, Cristina Quattrini, Paola Strada, Sandra Sicoli, Andrea Carini, Sara Scatragli - Soprintendenza per il Patrimonio storico Artistico ed Etnoantropologico, Pinacoteca di Brera.
Di mattina presto da vent’anni Antonio Paolucci attraversa piazza Signoria sulla sua bicicletta. Scende, incatena il due-ruote e da una porticina dirimpetto a Palazzo Vecchio sale nel suo ufficio con finestra sul retro degli Uffizi.
Antonio Paolucci è uno storico dell’arte con la politica nel sangue e uno dei personaggi più in vista del patrimonio artistico italiano. Allievo di Longhi e di Arcangeli, riminese benché Firenze, dove è arrivato come giovane funzionario nel 1969 e dove è soprintendente dei musei cittadini dall’ 88, lo consideri «suo», è un uomo sia diplomatico che a volte brusco. Ha guidato Venezia, Verona, Mantova, il fiorentino Opificio delle pietre dure, è stato ministro dei beni culturali (unico tecnico salito su quella poltrona) nel governo Dini dal gennaio del ’95 al maggio del ’96. Il 29 settembre compie 67 anni, il giorno dopo andrà in pensione lasciando la carica di direttore regionale e, a Cristina Acidini, quella di soprintendente del polo museale. Paolucci avrebbe preferito restare. Il sindaco Domenici ha promesso che lo assolderà in un incarico impegnativo, forse assessore alla cultura.
Dalla sua giovinezza ad oggi il modo di percepire il patrimonio artistico italiano è cambiato molto.
«Quando sono entrato a 29 anni in soprintendenza si battevano le lettere su macchina da scrivere Olivetti con carta copiativa interfoliata. Ricordo che noi funzionari scioperammo chiudendo i musei per 15 giorni e, immagini un po’, i giornali non ne parlarono. Andavo in bici alla Nazione a portare i foglietti della protesta sindacale supplicando che me li pubblicassero. Oggi se gli Uffizi chiudono mezza giornata ne parlano da Tokyo a New York».
Non è cambiata solo la percezione dell’arte: più volte lei ha stigmatizzato che il capoluogo toscano punti tutto sui musei e il turismo. E il discorso investe in forma ancora più drammatica Venezia.
«In 35-40 anni Firenze è diventata una «one company town», vive di solo un’industria, i musei, come Detroit viveva di auto. A Venezia il processo è arrivato conclusioni più radicali. È un fenomeno negativo: una città vera è plurale, ha industrie, artigiani, finanzieri, operai...».
Nel ’75, anzi a fine ’74, è nato il Ministero per i Beni Culturali.
«Quando sono entrato, la direzione generale delle belle arti dipendeva dal Ministero della Pubblica Istruzione. Quando nacque il ministero con Spadolini lo salutammo tutti con gioia. Oggi però non so se sia giusta questa cesura tra istruzione, scuola e università, e beni culturali: ha tagliato le gomene dalla scuola e questo, con altre ragioni, ha indirizzato i beni culturali verso il tempo libero, lo spettacolo, il turismo».
E lei non lo apprezza.
«No. Nessuno pensa agli Uffizi o al Louvre come a una biblioteca di figure, tutti li collegano al divertimento, allo spettacolo. Lei può dire alla sua fidanzata di venire in Galleria e poi cenare fuori ma non ce la vedo proprio a invitarla a leggere le novelle di Cervantes in biblioteca. Però guardare il Barocci o Caravaggio è difficile come leggere Cervantes. Anzi, è più difficile».
Però oggi numerosi musei aprono anche il pomeriggio, un tempo non accadeva mai.
«Quando sono diventato soprintendente a Firenze nel marzo dell’88 l’unico museo aperto dopo le una erano gli Uffizi, la domenica nessuno. Adesso nel Polo fiorentino aprono tutti mattina e pomeriggio domenica compresa. Allora, se volevi comprare una cartolina al museo non ci riuscivi, oggi c’è anche troppo. È un mutamento radicale. Osservo anche un altro cambiamento, culturalmente tragico. Negli anni 30 agli Uffizi entravano 50 mila persone all’anno, oggi un milione e mezzo. Ebbene, c’erano più persone in quei 50mila che uscivano dalla Galleria avendo capito qualcosa rispetto alla cifra di oggi perché appartenevano a una élite sociale e culturale. Il popolo dei musei oggi è formato in grandissima maggioranza da gente che guarda solo la tv, non ha mai letto un libro e non saprebbe scrivere mezza cartella di riflessioni».
Supponiamo che quanto afferma sia giusto. Però lei fa, e bene, il divulgatore in tv, nei giornali, amplia il raggio d’azione dell’arte anche a chi magari non legge libri: il suo agire contraddice il suo discorso di élite.
«Non ho detto che deve esserci meno gente, non difendo la cultura di élite. La mia è una constatazione, ma qualcuno ha sbagliato se la gente esce ignorante. Ha fallito la scuola, abbiamo fallito noi che non diamo strumenti didattici, ha fallito la televisione che sfodera idiozie. Il dedicarmi alla divulgazione dimostra invece che credo nell’incivilimento culturale per il quale - ne sono convinto - il museo è il luogo adatto, ma mi dispiace che la gente lo attraversi come acqua che scivola sulla pietra».
È cambiato anche il modo di pensare ai beni culturali: oggi tutto , dal palazzo antico a Botticelli, viene visto anche con occhio «economico». C’è stato perfino chi voleva vendere...
«È un cambiamento ambivalente, positivo per certi aspetti, negativo per altri. È facile dire che il museo è motore di sviluppo, di occupazione ed economia, ed è in parte vero. La concessionaria che dal ’97 governa biglietti e bookshop nei 20 musei fiorentini ha creato 300 posti di lavoro e con 5milioni di visitatori l’anno introita 30 milioni di euro. Mettiamoci accanto Pompei, Roma, Venezia... Ma chi immagina mirabolanti profitti dai beni culturali sbaglia di grosso: hanno una fruttuosità sì immensa ma non monetizzabile né misurabile. La fruttuosità è che dietro ogni paio di scarpe, ogni bottiglia di vino e foulard venduto a Sidney come a Vancouver ci sono i cipressi della Val d’Orcia, Botticelli, Michelangelo. È l’artisticità il moltiplicatore del made in Italy. La moda è l’unico nostro primato rimasto nel mondo perché la qualità nasce dall’artisticità del Paese: si inventano certi colori perché li abbiamo assorbiti dalla mamma. Peccato che nessun politico faccia questa riflessione».
Anni fa lei scatenò polemiche dicendo che l’arte italiana finisce con Tiepolo. Eppure i futuristi, DeChirico, l’Arte povera e la Transavanguardia hanno avuto tutti una portata internazionale. Lei è lo storico dell’arte a cui sfugge il proprio tempo?
«Dissi che per tre secoli, tutto il ’500, il ’600 e il ’700, la lingua figurativa egemone nel mondo era quella italiana, la si parlava dalla Polonia al barocco nell’America Latina, dalla Francia a San Pietroburgo. Questa egemonia finisce con Tiepolo e con il Canova; i centri artistici sono diventati altri. È un’affermazione che ho pronunciato proprio perché sono uno storico dell’arte».
«Rivendicazioni» come quella del Comune di Firenze che, tempo fa, voleva il David di Michelangelo rivelano una sensibilità localistica per gestire l’arte statale. Lei si è sempre opposto: perché?
«Credo nell’articolo 9 della Costituzione che dice “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione”. Con Repubblica intendo tutti gli italiani a cui stanno a cuore le chiese rupestri della Calabria come gli ulivi nella Val d’Orcia. Dopo 40 anni sono sempre più convinto che la tutela è tanto più efficace quanto più è lontana e indifferente al luogo. Un sindaco deve avere voti: come fa a dire di no a una richiesta di permesso per aprire una pizzeria accanto a una chiesa? Un governatore della Regione è meno pressato, un ministro che deve star dietro a ottomila Comuni è indifferente al problema di quel singolo cittadino. E si parli di Italie, non di Italia: l’Emilia Romagna è molto diversa dalle Puglie. Bisogna mantenere la nazionalità della tutela condividendo la valorizzazione con Regioni e Comuni».
Cosa rifarebbe e cosa no?
«Rifarei tutto con entusiasmo. Due sono le cose di cui vado più orgoglioso: il restauro della Basilica di San Francesco ad Assisi dopo il terremoto, di cui ero commissario, e l’acquisizione alla città di Firenze dell’eredità dell’antiquario Bardini, con il parco e un insieme di opere d’arte; un risultato raggiunto perché ero ministro. Non mi viene in mente nulla che non rifarei».
Quali urgenze ha l’arte oggi in Italia?
«Il ministero è un gerontocomio, non si fanno concorsi, va rinsanguato. Se un’azienda non ha 30enni e 40enni nello staff uscirà dal mercato. Noi non siamo un’azienda ma il principio resta valido, è a quell’età che si hanno entusiasmo, creatività, si propongono novità».
Dal ’90 al ’95 fu consigliere comunale a Firenze per la Democrazia cristiana. Rivendica o contesta il primato della politica nel gestire la cosa pubblica?
«Se è per questo ho partecipato anche alla lista dell’Asinello di Rutelli alle europee. Ritengo importante far politica perché il tecnico puro è portato - in buona fede - a ragionare solo secondo il suo mestiere. Invece se fai politica capisci la straordinaria concreta realtà degli uomini e delle donne. Quello che gli antipolitici chiamano arruffianamento è la vita, anche nel nostro mestiere devi comprendere le ragioni degli altri. A volte un eccesso di tutela da manuale può far danni: se proibisci di aprire un gabinetto in una casa medioevale il proprietario o la lascia degradare o ne fa uno abusivo. Non deve esistere il tecnicismo puro. D’altronde la società civile quando ha sostituito la politica non ha brillato».
Il dossier di questo numero presenta una selezione di interventi svolti all’interno di un seminario proposto dall’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna ( IBC) nel dicembre del 2005 a prosecuzione di un percorso di analisi sul Codice dei beni culturali e del paesaggio iniziato con il convegno del maggio 2004 . Mentre in quella prima occasione l’attenzione era posta soprattutto sul rapporto centro/periferia, ovvero Stato/Regioni, così come configurato da questo nuovo strumento, in questa seconda manifestazione si voleva proporre una sorta di monitoraggio sull’evoluzione legislativa del Codice da un lato, mentre l’altro obiettivo era quello di illustrare le sperimentazioni che alcune regioni, unitamente alle diverse direzioni del Ministero, avevano intrapreso, in applicazione del Codice stesso, in oltre un anno e mezzo dalla sua entrata in vigore.
All’epoca di questo secondo momento di riflessione era in dirittura finale la fase di revisione del Codice prevista dal suo carattere di legge-delega. Revisione che, lungi dal limitarsi a qualche chiarificazione o limatura terminologica, ha scatenato – soprattutto per la parte terza del Codice, quella dedicata al paesaggio, interessata da più ampi e incisivi emendamenti – una contrapposizione netta fra Ministero e Regioni nel loro insieme, che hanno respinto, nel metodo e nel merito, lo schema proposto (e ormai approvato) per quanto riguarda i beni paesaggistici.
In estrema sintesi, per quanto riguarda i beni culturali le modifiche, in questo caso discusse e condivise con la Conferenza unificata delle Regioni, hanno decretato, per esempio, il definitivo superamento del tanto discusso meccanismo del silenzio-assenso per quanto riguarda la verifica dell’interesse culturale e quindi dell’alienazione dei beni del patrimonio culturale. Importanti precisazioni e integrazioni sono state inoltre introdotte per quanto riguarda le norme dedicate alla conservazione e alla figura del restauratore e la sua formazione professionale. Interventi correttivi riguardano anche le alienazioni dei beni culturali e l’esercizio del diritto di prelazione; ancor più accentuata, infine, risulta l’attività di valorizzazione dei beni culturali tramite forme di gestione diretta e indiretta.
Più consistenti, nel merito, appaiono le modifiche alla parte terza: i beni paesaggistici. Fra le novità di maggiore rilievo si segnala il tentativo di razionalizzare il sistema sanzionatorio e il procedimento di vincolo, precisandone i termini. Viene poi reintrodotto, in via transitoria, il carattere vincolante del parere della Soprintendenza, ma soprattutto si cerca di individuare per le Regioni un indirizzo generale per orientare l’eventuale delega dell’esercizio della funzione autorizzatoria paesaggistica verso specifici livelli, individuati di preferenza nelle Province.
Purtroppo queste ultime nuove disposizioni correttive e integrative, come detto, non nascono in un’ottica di condivisione Stato-Regioni e questa genesi pare prefigurare una nuova stagione di conflitti e contenziosi sulla determinazione delle rispettive attribuzioni in ambito paesaggistico: da parte della Conferenza unificata delle Regioni è stato lamentato, nel metodo, il mancato coinvolgimento nel procedimento di adeguamento e, nel merito, il tentativo di riappropriazione, da parte degli organi centrali dello Stato, di competenze precedentemente delegate all’ambito regionale.
Negli interventi qui riportati l’insieme di tali provvedimenti, per quanto riguarda da un lato i beni culturali e dall’altro il paesaggio, è illustrato con ampiezza e rappresentatività delle posizioni in campo e ci sembra che i testi proposti, pur nel tecnicismo del lessico giuridico che talvolta li caratterizza, presentino un quadro molto circostanziato, e a tratti appassionato, degli elementi di miglioramento, degli spazi ancora aperti alla discussione, quando non di aperta contrapposizione.
Fin dalle prime fasi di elaborazione il Codice ha avuto il merito di sollevare un ampio dibattito sulla situazione del nostro patrimonio culturale: tale discussione ha accompagnato il Codice – e le disposizioni legislative “limitrofe”, quali quelle di riordino del Ministero, o di ambito “tangenziale”, come il decreto di delega ambientale – fino a tempi recentissimi e ha visto il contrapporsi di posizioni tecnicamente, ma più spesso politicamente, in conflitto. Da un lato il Codice è stato interpretato come una minaccia per l’integrità del nostro patrimonio e, nel suo complesso, una diminutio dei meccanismi della tutela così come ereditati dalla mitica legislazione del 1939 o dal decreto Galasso, mentre d’altro lato è stato presentato come una pietra miliare, una sorta di rifondazione della legislazione in materia, con ampi spazi di innovazione e di ammodernamento. Una visione più realistica si colloca probabilmente a metà strada, soprattutto dopo le ultime revisioni.
Abbandonati, anche per opera dell’intensa attività di vigilanza scientifico-mediatica di un drappello di note personalità del settore, gli aspetti più discutibili, quali quelli del meccanismo del silenzio-assenso o dell’archeocondono, il Codice rappresenta, nella versione attuale, un discreto punto di mediazione fra esigenze diverse: prima fra tutte quella della conciliazione nella diversificazione di funzioni fra Stato e Regioni imposta dalle modifiche al Titolo V della Costituzione, vero motore dell’azione legislativa. Ancora, sembra di poter affermare che i principi e gli strumenti della tutela nel loro complesso non ne escono granché indeboliti, ma il Codice si pone in una logica di continuità sostanziale con il Testo unico del 1999, che costituiva a sua volta l’ultima riscrittura di una delle legislazioni più evolute in materia di beni culturali. Apprezzabili, anche se non completamente risolti, appaiono i tentativi definitori dell’insieme del patrimonio e delle funzioni che su di esso si esercitano, così come innovativa, anche se più accennata che coerentemente perseguita, la ricongiunzione di beni culturali e paesaggio come elementi inscindibili di un unico irriproducibile patrimonio comune.
Il lavoro da fare è ancora molto: sia perché la frattura istituzionale creata in quest’ultima fase non potrà non essere ricomposta il prima possibile, sia perché, come già era stato sottolineato da più parti, in molti ambiti il Codice si limita a indicare delle linee d’azione senza proporre strumenti attuativi, demandati a una fase successiva. Una fase che per molti versi si presenta, adesso, alquanto delicata, e per affrontare la quale l’IBC non mancherà di proporre i propri strumenti di analisi.
In realtà, come per ogni strumento legislativo, l’efficacia del Codice deriva e soprattutto deriverà innanzitutto dal contesto istituzionale in cui sarà calato e dalla dotazione di risorse non solo economiche sulle quali potrà contare per operare. A seguito di recenti disposizioni legislative il termine per l’introduzione di emendamenti alle leggi delega è stato portato a 4 anni: ancora 2 anni di verifiche ci attendono, quanto mai opportuni per “digerire” l’insieme delle novità e per dare avvio, a livello di Stato-Regioni, a quelle sperimentazioni e azioni programmatiche che ancora mancano per saggiare l’operatività di questo strumento e la sua reale efficacia in termini di tutela e valorizzazione del nostro patrimonio.
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio e i due decreti legislativi con le integrazioni e correzioni sono consultabili sul sito del Ministero dei beni e delle attività culturali, nella sezione Normativa-Norme statali).
Titolo originale: Road plans put Stonehenge status at risk – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Stonehenge rischia di essere spogliata del suo rango di patrimonio dell’umanità, a causa di alcune proposte di “secondo livello” del governo per facilitare la congestione da traffico verso il monumento, ha annunciato ieri il National Trust.
Sarah Staniforth, direttore dei complessi storici per il trust, ha affermato che il comitato nazionale dell’Unesco, che amministra i siti patrimonio mondiale, ha esaminato il caso, e che Stonehenge potrebbe essere tolto dall’elenco a causa di cattiva gestione del traffico. L’ammonimento del trust arriva mentre gli uffici responsabili stanno decidendo come rimediare alla congestione sulla A303, che passa davanti alle antiche pietre.
Le possibilità prese in considerazione comprendono una galleria di 2,1 km, oppure una deviazione della strada ai margini dei 2.200 ettari del sito. Il trust, proprietario di gran parte dei terreni attorno a Stonehenge, non approva nessuno dei due progetti.
Sir William Proby, presidente del trust, afferma in una lettera aperta al ministro dei trasporti Stephen Ladyman: “Se il governo non è in grado di realizzare una soluzione accettabile di lungo termine per Stonehenge allora sarebbe meglio non pensare affatto a lungo termine. Non dobbiamo legare le mani alle generazioni future”. Ha poi dichiarato che la minaccia per Stonehenge è “grave, urgente, imminente”.
Il problema non è la conservazione delle pietre, ma la tutela e il ripristino dell’area circostante, che si ritiene nasconda tesori archeologici ancora non scoperti. “Non possiamo restare a guardare, consentendo che una soluzione di basso profilo danneggi per sempre uno dei paesaggi più importanti del mondo”.
Fiona Reynolds, direttore generale del trust, ha affermato che una soluzione temporanea, di allargamento della strada su entrambi i lati ma lasciando la A303 come tracciato principale, renderebbe poi finanziariamente e politicamente difficile realizzare una galleria adeguata allo scopo. “Sarebbe come puntare un fucile a due canne contro il sito di importanza mondiale”. Il progetto alternative proposto richiede una riduzione del traffico di attraversamento.
Il Department for Transport che non prenderà una decisione sulla soluzione prescelta fino alla presentazione del rapporto del gruppo di orientamento, prevista per l’estate. Anche lo International Council on Monuments and Sites (Icomos-UK) e il Council for British Archaeology hanno chiesto al governo di ripensarci.
Si potrà evitare lo scempio annunciato dei beni culturali autorizzato dalle norme in arrivo sulla "semplificazione amministrativa"? Dopo il Consiglio dei ministri di venerdì e le confuse dichiarazioni di membri del governo, nessuno sa ancora se queste norme si applicheranno o no ai beni culturali. Già sono escluse dall’ambito di applicazione altre materie (difesa, pubblica sicurezza, giustizia, salute): aggiungere alla lista i beni culturali è una soluzione ragionevole.
TANTO CHE - dopo l’allarme dell’opinione pubblica in seguito alla denuncia di questo giornale e di associazioni come il Fai e Italia Nostra - a proporla è stato lo stesso ministero dell’Economia. Fare il contrario vorrebbe dire, lo abbiamo ampiamente argomentato in queste pagine, la licenza di uccidere città, monumenti e paesaggi: a questo esito porterebbe infatti l’indiscriminata applicazione della "dichiarazione di inizio attività" (dia) ai beni culturali, con un meccanismo di silenzio-assenso che vanifica ogni azione di tutela. Palazzi storici potrebbero essere sventrati o abbattuti impunemente, collezioni e opere d’arte vendute senza alcun controllo. L’intero sistema della tutela ne uscirebbe devastato. Le soprintendenze, che annaspano in una perpetua mancanza di personale per l’annosa mancanza di assunzioni, non potrebbero neppur sognare di star dietro alla valanga di "dia" che si apprestano a invaderle.
Il presidente del Consiglio e il ministro della Funzione pubblica hanno dichiarato che i beni culturali saranno, appunto, esclusi dal provvedimento. Ma la situazione è tutt’altro che chiara: se due ministeri importantissimi per un tema come questo (Economia e Beni Culturali) hanno chiaramente optato per questa soluzione, non altrettanto chiara è la posizione della Funzione pubblica. Mentre il ministro Baccini si associa al presidente del Consiglio nel gettare acqua sul fuoco, il capo del suo ufficio legislativo, Vincenzo Nunziata, sembra deciso a insistere: a quel che pare, almeno per lui il meccanismo della "dia" deve prevalere sulla tutela. Ma con ciò non solo il Codice dei beni culturali, ma lo stesso art. 9 della Costituzione diventerebbe carta straccia. Per giunta, il provvedimento contiene anche una "semplificazione amministrativa" che comporterebbe la fine di ogni controllo doganale sui beni culturali, con ciò generando indiscriminate e massicce esportazioni; e perfino una norma sulla "accelerazione di opere strategiche" che in nome del pubblico interesse darebbe a un commissario straordinario il potere di prendere decisioni (per esempio, costruire un’autostrada su un sito archeologico) senza nemmeno consultare le soprintendenze.
Sabino Cassese ha scritto sul Corriere della Sera del 5 marzo che, «se dovessimo prendere sul serio» una legge come questa «lo Stato avrebbe chiuso i suoi battenti». In questa generale débacle, è facile prevedere che il primo ad essere smantellato sarebbe quel glorioso pezzo di Stato che è il sistema della tutela, in cui l’Italia è stata ed è di modello al mondo intero. Ma con esso crollerebbero il nostro paesaggio e il nostro patrimonio culturale, che sono la nostra storia e la nostra identità, ma anche il vero fattore di unicità dell’Italia, l’inimitabile "marchio di fabbrica" che attrae e incanta da secoli visitatori di tutto il mondo. Roma, Firenze, Napoli diventerebbero come la Maurilia delle Città invisibili di Italo Calvino: «Il viaggiatore è invitato a visitare la città e nello stesso tempo a osservare certe cartoline che la rappresentano com’era prima (...) Per non deludere gli abitanti occorre che il viaggiatore lodi la città nelle cartoline e la preferisca a quella presente, riconoscendo che la magnificenza e prosperità di Maurilia divenuta metropoli, se confrontate con la vecchia Maurilia provinciale, non ripagano d’una certa grazia perduta, la quale può tuttavia esser goduta adesso solo nelle vecchie cartoline (...) Essa ha questa attrattiva in più, che attraverso ciò che è diventata si può ripensare con nostalgia a quella che era». Ma in realtà «le vecchie cartoline non rappresentano Maurilia com’era, ma un’altra città, che per caso si chiamava Maurilia come questa».
Riconosceremo, fra dieci anni, le nostre città? La nostra Italia? O dovremo guardarla con nostalgia in vecchie cartoline? Dipende solo da noi. Ma se questo invito alla barbarie travestito da "semplificazione amministrativa" dovesse passare calpestando la Costituzione, allora sarà meglio cominciare a far collezione di cartoline. Travolte, col favore di un’alluvione di "dia", da un’immensa colata di cemento, fra pochi anni le città invisibili non saranno l’invenzione narrativa di uno scrittore. Saranno le stesse città in cui oggi viviamo. O meglio ne porteranno il nome; ma ci appariranno irriconoscibili ed estranee.
Italia Nostra esprime grande rammarico per il fatto che il presidente Ciampi abbia firmato la legge delega per l’ambiente; è una legge sbagliata, che contiene una doppia sanatoria per abusi fatti in aree vincolate, con una delega al Governo troppo ampia, che va dalla gestione dei rifiuti alla tutela delle acque e dell’aria,la difesa del suolo, la gestione delle aree protette, le procedure di valutazione d’impatto ambientale (VIA) e ambientale strategica (VAS). Si tratta di questioni di importanza fondamentale che dovrebbero essere discusse in modo ampio e approfondito dal Parlamento. Contiene inoltre disposizioni riguardanti i rifiuti ferrosi, su cui l’Europa ha bacchettato l’Italia più volte. L’ultima è la sentenza della Corte di giustizia europea dell’11 novembre scorso, in cui è stata ribadita la non compatibilità della parte della legge delega che definisce i vari tipi di rifiuti con il diritto comunitario. Nel testo passato alla Camera, i rifiuti ferrosi non sono più considerati rifiuti industriali bensì “materia prima seconda”, con una netta diminuzione del livello di controllo.
Italia Nostra vigilerà sui lavori della commissione dei 24 saggi che devono essere nominati dal governo e ringrazia le migliaia di cittadini che hanno firmato sul sito e altrove
SI ERA capito che la Finanziaria di quest’anno passerà alla storia come il più selvaggio e determinato attacco al patrimonio culturale, paesaggistico e ambientale del nostro Paese; ma sbaglia chi crede che abbiamo già toccato il fondo con la sequenza di provvedimenti come il condono edilizio e il silenzio-assenso. Con un nuovo colpo di mano, infatti, la legge sull’ambiente, già più che criticabile e più che criticata anche su queste pagine, si sta trasformando in una sanatoria senza confini e senza regole di qualsiasi abuso, di qualsiasi forma di distruzione del paesaggio.
Il testo della legge delega in materia ambientale (A.S. 1753 B) è stato presentato dal ministro dell’ambiente, Matteoli, di concerto con altri dieci ministri (Tremonti, Lunardi, Castelli, Moratti, Frattini, Buttiglione, Marzano, Alemanno, Stanca, La Loggia), ed è ora al Senato, in attesa della finale approvazione. Ma il testo tornato al Senato in seconda lettura è radicalmente diverso da quello originario: vi si è insediato infatti un perverso emendamento, presentato da parlamentari di maggioranza e votato alla Camera in presenza di esponenti del governo (fra cui il sottosegretario all’ambiente), che modifica radicalmente la portata della depenalizzazione degli illeciti penali in materia paesaggistica.
Che cosa è cambiato rispetto al testo approvato dal Senato in prima lettura? All’art. 32, la totale depenalizzazione era prevista solo "per i lavori compiuti in difformità dalla autorizzazione" rilasciata al richiedente, il che almeno ipotizzava che vi fosse stata una qualche richiesta di autorizzazione. Nella nuova versione, l’estinzione del reato è estesa anche ai "lavori compiuti in assenza di autorizzazione", cioè alle forme più bieche e becere di abusivismo. Non è tutto. Nella versione originaria del testo, si prevedeva almeno che l’estinzione del reato avvenisse solo a condizione che "le difformità non abbiano comportato aumenti delle superfici utili o dei volumi": questo comma, nella nuova versione emendata, è stato semplicemente soppresso, il che vuol dire che chi ha trasformato abusivamente un canile in un condominio di venti piani riscuote il plauso del legislatore. Infine: nella versione originaria l’estinzione del reato era subordinata al pagamento di una sanzione pecuniaria, mentre ora tale sanzione viene rinviata sine die, e solo "ove sia accertato il danno arrecato". In altri termini, con la nuova norma anche chi avesse costruito un grattacielo su una spiaggia senza nemmeno provare a chiedere l’autorizzazione non solo non ha più commesso alcun reato, ma nemmeno pagherà un centesimo di multa. Peccato che questa norma non sia arrivata in tempo a salvare le otto orripilanti torri del villaggio Coppola (Caserta), "la città degli abusi", appena demolite dopo decenni di battaglia civile, come ha raccontato Francesco Erbani nel suo L’Italia maltrattata: sembra fatta a misura per casi come quello.
Con questo emendamento, la possibilità di sanare piccoli abusi paesaggisticamente irrilevanti si trasforma in una generale depenalizzazione degli illeciti contro il paesaggio di qualsiasi forma e dimensione. Il paesaggio del Bel Paese diventa terra di nessuno, regalata agli abusivi, dei quali non c’è dubbio che, con una norma come questa, vincerà il peggiore, cioè chi ha meno scrupoli, il più violento nel distruggere il paesaggio per proprio tornaconto. Inutile e ingenuo sarebbe sperare che la valutazione di compatibilità delle opere abusive, delegata ai Comuni, sia un argine sufficiente: complicatezza delle procedure e le ovvie pressioni locali inducono al più grande pessimismo.
Infine, un’aggravante ulteriore: questo art. 32 della legge sull’ambiente interviene a modifica dell’art. 163 del testo unico sui beni culturali e ambientali (490/1999), e ciò a meno di un mese da quando il Consiglio dei ministri ha approvato il testo del Codice Urbani, che certo non contiene nulla di remotamente simile a una norma tanto incivile e devastante. Chiediamoci per un momento: cui prodest? L’art. 163 del testo unico ha lo scopo di scoraggiare, con multe e con sanzioni penali, le edificazioni abusive nelle aree vincolate: la nuova legge, se approvata, è destinata al contrario a sancire e incoraggiare l’abusivismo, senza nemmeno la scusa (sbandierata ai tempi del condono) di "far cassa", visto che in questo caso anche le sanzioni pecuniarie sfumano nel nulla. La conclusione è inevitabile: la nuova norma, che per lo Stato non comporta alcun vantaggio, nemmeno quello (assai dubbio) di raggranellare un po’ di soldi, è concepita e fatta nell’esclusivo interesse degli abusivi come quelli del villaggio Coppola, cioè di cittadini che si sono distinti per aver violato la legge, e che verranno in tal modo premiati.
Con questo emendamento, dunque, la legge sull’ambiente non solo calpesta tutte le norme vigenti, non solo delegittima preventivamente il codice Urbani, ma fa impallidire persino le recentissime norme sul condono edilizio, che prevedono sì la depenalizzazione degli illeciti contro il paesaggio, ma subordinando la concessione del condono a una valutazione favorevole di compatibilità espressa dalle Soprintendenze. Nel giro di poche settimane anche quella legge, che pure aveva destato le più gravi (e giuste) preoccupazioni dell’opinione pubblica, dev’esser parsa troppo soft agli estremisti dell’assalto all’ambiente. L’arrembaggio continua, senza regole e senza remore. Gli 11 ministri che hanno firmato il disegno di legge originario sono tutti d’accordo con questo emendamento? E gli altri ministri? E il presidente del Consiglio? E i senatori della Repubblica (maggioranza e opposizioni), alla cui responsabilità è ora affidata la prossima mossa? Dovere dei cittadini in questo triste frangente è ricordare al governo e al Senato l’articolo 9 della nostra Costituzione, secondo il quale "La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione". Lo rileggano, se l’hanno dimenticato, e fermino, finché siamo in tempo, questa norma scellerata.
Si susseguono con ritmo incalzante i provvedimenti legislativi, d’iniziativa governativa o parlamentare, intesi a rimuovere dall’ordinamento italiano qualunque capacità di efficace difesa del patrimonio storico, artistico e del paesaggio. Norme consolidate da secoli nella nostra tradizione giuridica e fondate sul principio dell’interesse pubblico del bene culturale, indipendentemente dalla proprietà pubblica o privata, vengono attenuate o abrogate nel disinteresse generale. Tante volte, grazie ad esse, le soprintendenze erano state in grado di frenare interessi particolari e prevaricazioni politiche ai danni di opere d’arte, di monumenti e dell’ambiente.
Gli effetti della riforma del Ministero per i beni e le attività culturali, promossa silenziosamente dalla burocrazia ministeriale e sostenuta senza capacità di controllo dal precedente ministro Urbani, hanno provocato danni ormai irreversibili. L’abnorme incremento del numero dei dirigenti nell’apparato centrale ha comportato la soppressione di soprintendenze e la perdita di autonomia per musei ed istituti di rilevanza internazionale. Ciò al fine di lasciare invariata la spesa complessiva e consentire al tempo stesso di finanziare l’alta dirigenza ministeriale, mentre agli storici dell’arte, archeologi e architetti responsabili della conservazione di monumenti e opere d’arte di valore immenso sono riconosciuti livelli di carriera con stipendi irrisori.
Per di più, i ruoli tecnico-scientifici sono stati inquinati, con la complicità sindacale, da personale non sempre qualificato per assumere posizioni di altissima responsabilità culturale.
L’aggregazione dei beni culturali allo spettacolo e allo sport in un unico ministero si è rivelata deludente. Gli effetti positivi che si era sperato di trarne non si sono avuti. Non ne è scaturita una politica consapevole delle finalità di interesse pubblico che possano giustificare l’intervento dello Stato nei settori dello spettacolo e dello sport.
Si è abbandonata, nella politica dei beni culturali e del paesaggio, qualunque propensione verso la ricerca scientifica quale presupposto essenziale della tutela e di alta informazione sul risultato degli studi, sulle nuove frontiere della conoscenza storica, sulle opportunità di progresso civile offerte da una grande tradizione culturale, sui rischi a cui si va incontro perseverando nel dissennato sfruttamento delle risorse naturali e nella devastazione dei caratteri culturali del territorio.
Insomma non è stato possibile convincere lo Stato, come sosteneva Giulio Carlo Argan, che «la cultura è un affare di Stato, cemento dell’unità nazionale e bene comune».
I danni provocati e la confusione creata in questa materia nel giro di pochi anni sono tali da rendere improponibile il ripristino del precedente ordinamento, il quale era comunque inadeguato alle esigenze di un’amministrazione moderna ed efficiente.
Si osserverà, da parte di qualcuno, che un buon impulso al decadimento del sistema era stato dato dai precedenti governi di centrosinistra. Certamente. La sciocchezza e la saggezza non sono appannaggio esclusivo di alcuna parte politica. Il governo Berlusconi ha avuto però tutto il tempo di porvi rimedio, e in effetti ha attuato una riforma delle leggi di tutela e del ministero. Lo ha fatto però senza affrontare il minimo dibattito culturale e con il risultato di dissestare definitivamente l’intero settore.
Allora, cosa fare? Il problema di un’ampia riforma del settore si era posto già negli anni Sessanta, quando ben due commissioni parlamentari produssero indagini accurate, con il coinvolgimento di grandi personalità della cultura, e formularono proposte ragionevoli, mai attuate. Il dibattito rimase vivo anche nei decenni successivi. Un buon punto di partenza, per immaginare un nuovo ordinamento dei beni culturali, credo sia tuttora il disegno di legge che Giuseppe Chiarante presentò al Senato con Giulio Carlo Argan nel 1989. Ne restano validissimi i principi fondamentali, allora forse troppo lungimiranti, i quali prevedevano l’abolizione del Ministero e l’istituzione di un’amministrazione autonoma dei beni culturali fondata sull’autonomia delle soprintendenze e governata da un consiglio nazionale elettivo e ampiamente rappresentativo. I poteri d’indirizzo politico, di programmazione e di vigilanza si sarebbero dovuti attribuire al Ministro dell’università e della ricerca scientifica.
Una riforma basata su questi criteri sarebbe di grande efficacia e costerebbe ben poco, perché comporterebbe un fortissimo snellimento della burocrazia centrale e periferica, nonché un impiego più ragionevole delle competenze culturali disponibili in ambito nazionale. Consentirebbe infatti di raggiungere l’obiettivo di un’effettiva integrazione delle regioni, delle autonomie locali, dell’università e delle altre istituzioni scientifiche nel sistema della tutela.
Malattia senile della storia dell'arte, il benculturalismo è un morbo che non perdona. Se attacca le vecchie care antichità e belle arti le trasfigura in quattro e quattr'otto in beni culturali, con conseguente metamorfosi in giacimenti culturali (detti anche petrolio d'italia), e finale metastasi in Patrimonio Spa (non senza qualche postumo di partiti della bellezza, lacrime di esteti e riunioni di dame).
Se penetra in una facoltà di Lettere, provoca l'irrefrenabile divorzio dell'arte dalla letteratura e dalla storia, generando il tipico delirium tremens per cui Omero, Virgilio, Shakespeare e Dante non sono “beni culturali, bensì roba da letterati (i quali, a loro volta, sono invitati a ignorare Fidia, Masaccio e Rembrandt), e qualche nozione di chimica degli arricci o di legislazione del Molise è molto più importante del Foro romano e di Tiziano.
Se affligge le accademie, suscita oscure lotte intestine fra storici dell'arte e archeologi, che si accusano a vicenda di improbabili protagonismi di cui nessun altro si accorge.
Se si insinua in un'aula di giurisprudenza, in un Consiglio di Stato, in una Costituzione, l'epidemia non solo intacca ogni più riposta piega del patrimonio culturale, ma lo spedisce senza tanti complimenti al lazzaretto, e invece di curarsene lo taglia a fette discettando di come la tutela nulla abbia a che vedere con la valorizzazione, per non dire della gestione e della fruizione, ciascuna delle quali ipostasi del male genera diluvi di libri (e il lazzaretto langue), per spiegare che cosa tocchi allo Stato, ai comuni, alle regioni, ai passanti, alle zie.
Se aggredisce assatanati assessori, ingenera i tristemente famosi, e contagiosi, secessionismi del cavolo, trascinando (per esempio) l'intera Sicilia fuori dell'orbita nazionale e vietando ai locali funzionari di trasferirsi oltre lo Stretto (con o senza ponte), e viceversa.
Se entra in un museo, perverte ipso facto la lingua: le ovvie librerie si trasformano per incanto in esotici bookshops, le cose che al Louvre o al Metropolitan sono ordinaria amministrazione del museo diventano servizi aggiuntivi, persino il giubileo del 2000, ampiamente concluso da Santa madre chiesa che già prepara il prossimo, ancora persevera nella perpetuazione dei'”giubilari', personale precario assunto allora e incollato in perpetuo alle - (miserevoli) retribuzioni e mansioni, in attesa dell'immancabile ope legis.
Se imperversa nel merchandising, annienta in un fiat il glorioso artigianato italico e produce caterve di repellenti ninnoli kìtsch (saranno servizi aggiuntivi, ma al pessimo gusto).
Se ammorba un ministero, produce immediata e immarcescibile moltiplicazione di poltrone, direzioni generali, consulenti a vuoto (e a perdere) e senatori di pura razza equina da far invidia a Caligola, allunga i corridoi e le anticamere dissanguando soprintendenze e musei, innalza l'età media degli addetti sospingendoli allegramente verso la depressione o la pensione senza sognarsi di sostituirli. E mentre i laureati in Beni Culturali ingrossano le liste dei disoccupati, la loro benemerita Facoltà ne genera altre.
Per ora Scienze del Turismo, ma sono in vista Teoria della Scampagnata, Epistemologia del Weekend, Gnoseologia del Picnic e altre scienze esatte, con relative classi di laurea, crediti, cattedre e dipartimenti.
Ma intanto, peggior fra tutti i mali, a ogni sussulto del morbo o crisi degenerativa, a ogni innalzarsi della febbre, a ogni sintomo di lebbra, peste bubbonica, mania autodistruttiva, emorragia di fondi e di personale, delirio omicida e/o suicida, si accompagna inevitabile, ineludibile, monotona la corale liturgia, capeggiata immancabilmente dai peggiori, degli inni al Bel Paese, al paesaggio inimitabile (nel frattempo sfasciato), ai supremi monumenti (mandati al diavolo in simultanea), agli eccelsi musei (per l'intanto in rotta), alle eccezionali mostre (al 90% dannose), agli egregi mecenati (per solito pretenziosi e restii), insomma alle magnifiche sorti e progressive dei parolai, dei cincischiatori, del parlarsi-addosso.
E vi s'impegnano non solo politici e corsivisti, ma anche folte schiere di personaggi in cerca d'autore, intellettuali di complemento, dottorandi, scolaresche, venerandi ecclesiastici intenti a vendere gli ultimi candelabri. Aiuto! Il patrimonio boccheggia, il benculturalismo impera.
Ministro Rutelli, cerchiamo un rimedio? Non ci vorrà una dose massiccia (anche per endovena) di articolo nove della Costituzione?
Nelle polemiche che hanno accompagnato il nuovo museo dell'Ara Pacis (la più scriteriata è quella del candidato a sindaco di Roma Gianni Alemanno, il quale vorrebbe spostare il nuovo edificio in periferia) ciò che rischia di restare nell'ombra è proprio l'altare decretato dal Senato di Roma nel 13 a.C. e inaugurato nel 9 in onore di Augusto. Finora l'attenzione è stata polarizzata dall'edificio di Richard Meier e dal suo impatto sulla piazza, ma poco ci si è chiesti se il museo abbia assolto la sua funzione primaria: cioè l'esposizione adeguata del monumento, in confronto alla precedente sistemazione. Siamo informati del fatto che la teca di Ballio Morpurgo era ormai inadeguata e quindi era necessario trovare una nuova soluzione per il monumento. Ci si chiede, una volta stabilito di rimuovere il vecchio edificio, perché mantenere l'altare nello stesso posto e non musealizzarlo altrove?
La decisione di ricomporre i frammenti dell'altare accanto al Mausoleo di Augusto era - e rimane - arbitraria, dato che essi furono ritrovati altrove, nelle fondazioni di un palazzo a fronte della chiesa di S. Lorenzo in Lucina. Tuttavia, decidendo di fare rimanere l'altare laddove era stata collocata nel 1938, sarebbe stato saggio prevedere un concorso architettonico - che fin da allora comprendesse tutta la piazza - invece di imporre il nome di Richard Meier. A ben guardare, dietro quella decisione sembra esserci un atto di provincialismo culturale che ha condotto a ritenere adeguato al compito un architetto all'apice della fama, dopo il completamento del gigantesco complesso espositivo del Getty Center. Se questo è stato il criterio, la committenza poteva investire anche altri, a partire da Frank Gehry, che avrebbe collocato una delle sue architettura decostruttiviste sulle rive del Tevere: in fondo meglio la provocazione che l'inadeguatezza. L'edificio di Meier non è sgradevole di per sé: il nitore delle pareti, i suoi angoli taglienti, la combinazione del travertino con il vetro sono il risultato di un disegno elegante e pulito, seppur con delle cadute di tono, come l'inserimento della parete in travertino scabro, sul lato del Lungotevere; sembra bugnato, ma il bugnato ha negli edifici una sua funzione visiva e strutturale, mentre qui sembra un vezzo, dunque stona. Ma le critiche maggiori riguardano il contesto e la funzionalità: la teca precedente era modesta e non invasiva, mentre l'edificio di Meier sembra una nave spaziale posatasi su una terra straniera, che fa violenza all'eleganza della Chiesa di San Rocco, frutto di un moderato intervento urbanistico di Valadier. Ma anche il dialogo con il resto della piazza, tutt'altro che ispirata alla moderazione, resta difficile da immaginare. All'interno la sensazione non muta: certo le vetrate sono ampie, e belle le vedute su entrambi i lati, tanto sui resti della tomba di Augusto quanto sul viale alberato del Lungotevere. Ma cosa ne ha guadagnato il monumento per cui questo ingombrante edificio è stato edificato? Francamente non molto.
Eliminate le pedane laterali, la processione del fregio superiore risulta meno visibile di un tempo e tutto l'altare appare come schiacciato sotto il peso di pesanti lacunari, collocato com'è al centro di una architettura che immiserisce l'oggetto esposto richiamando, piuttosto, l'attenzione su stesso. L'edificio non è ancora completo ma dubito che la fontana prevista cambierà di molto l'impatto urbanistico, né credo che tutte le facilities previste negli interni aiutino molto la fruizione del monumento. Ancora una volta - come succede nella maggior parte degli esempi di architettura museale - il contenitore prevale sul contenuto, e l'architetto dimentica che bisognerebbe partire dall'oggetto da esporre piuttosto che dal proprio ego. In definitiva, il problema del nuovo museo è un problema di contesto. A Tor Tre Teste, infatti, nella periferia est di Roma, Meier ha realizzato una bellissima chiesa, connotata da tre vele; l'edificio si inserisce in un luogo di non-architettura, dominato da una edilizia periferica priva di carattere, e contribuisce a riqualificarlo.
Piazza Augusto Imperatore è dotata di una stratificazione architettonica che avrebbe richiesto un intervento più rispettoso del suo polimorfism. Lasciando l'edificio di Meier mi sono girato più volte verso l'ingresso, cercando di comprendere che cosa mi ricordassero quelle superfici candide, quelle linee nette, quelle colonne (la citazione dozzinale, all'ingresso, dovrebbe richiamare lo gnomone dell'orologio augusteo), quel vetro del museo: e ciò che mi è venuto in mente è la razionalità dell'architettura di Le Corbusier, le ville californiane dipinte nei quadri di David Hockney, forse per tutto quel bianco, così estraneo ai colori di Roma.
Bene. Il Vicariato ha fatto conoscere il proprio disappunto per l’immagine pubblicitaria, lesiva del sentimento religioso, applicata alla facciata della chiesa di S. Pantaleo. La protesta riguarda il contenuto della raffigurazione, intesa a promuovere il film tratto dal "Codice da Vinci" di Dan Brown, ma tradisce anche qualche insofferenza nei confronti dell’uso che uffici statali dei beni culturali e del ministero degli interni fanno sempre più frequentemente del prospetto monumentale di edifici di culto. Questi, infatti, sono spesso nascosti oltre il tempo necessario con ponteggi installati per operazioni di manutenzione in modo da consentire la permanenza di teloni pubblicitari per mesi o per anni. Nella maggior parte dei casi si tratta di lavori di manutenzione i quali comportano lavaggi ed altre operazioni che si possono eseguire in pochi giorni con bracci mobili. Nel caso di S. Pantaleo il Vicariato ha chiesto e otterrà la rimozione della pubblicità sconveniente.
Dispiace di dover constatare che gli uffici preposti alla tutela del patrimonio storico e artistico non solo siano ormai del tutto inerti nei confronti di un fenomeno sempre più aggressivo, come quello della pubblicità che fa scempio del paesaggio urbano e oscura monumenti di interesse pubblico e di rinomanza internazionale, ma siano essi stessi a favorirne la diffusione.
Si può anzi dire che non vi è più freno ad ogni forma di mercificazione del nostro patrimonio artistico. Sono incredibili i comportamenti permissivi di alcune soprintendenze e della direzione generale regionale a proposito dell’uso indebito del chiostro del Bramante o della loggia quattrocentesca di Palazzo Venezia, ceduti a pagamento per festini aziendali. La legge attuale, che in questo caso ha pienamente recepito la norma del 1939 attribuisce a quegli uffici il potere di impedire che i beni culturali siano "adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico". Nessuno fa rispettare queste leggi? Nessuno governa questa materia con il controllo sull’operato degli uffici?
E ora, qualcuno faccia levare quella orrenda installazione pubblicitaria che da mesi nasconde l’obelisco e guasta la piazza del Popolo; qualcuno impedisca che la piazza di S. Giovanni in Laterano subisca la stessa miserevole sorte.
Uscito giorni fa su queste pagine, l'articolo di Paolo Brogi sul «Chiostro del Bramante ridotto a stand» ha suscitato una replica della società che lo ha in locazione. Il dibattito verte sull'ingombro e l'intrusività della struttura ideata per ospitare serate di gala ed eventi a pagamento: un'ampia piattaforma in legno, varie colonnine metalliche, una copertura in cellophane e un groviglio di faretti e fili elettrici. Rivendicando il merito di aver restituito l'edificio cinquecentesco (di fatto inaccessibile da tempo) alla cittadinanza, l'azienda ribadisce che la tensostruttura autoportante viene usata solo per brevi allestimenti. Brogi ribatte invece che l'installazione resta per troppo tempo in loco, e nota che i tavoli del bar (situato nel loggiato e aperto anche da chi non frequenti le mostre del Chiostro) occupano a lungo l'intera balaustrata, anche se ora sono stati rimossi.
Perché accanirsi su tali dettagli? È presto detto: dietro questioni tecniche si nasconde uno fra i temi centrali della Capitale, relativo al contrasto fra la tutela di un manufatto storico e il suo impiego. Secondo una tesi espressa da Cassiodoro e ripresa da Alberti, Roma sarebbe abitata da due distinti popoli, più o meno equivalenti: il primo composto da uomini, il secondo da statue. Questo per dire quanto le vestigia dell'antichità condividano intimamente il nostro destino, in una sorta di vita parallela. Ma cosa fare di tanti smaglianti e insieme ingombranti tesori del passato?
Durante la Prima Repubblica, quella ricchezza venne bellamente ignorata. Mentre all'estero i musei producevano reddito, qui molti monumenti erano chiusi o affidati a pochi sorveglianti. Ci volle la legge Ronchey per ammodernare un sistema decrepito, così come servì l'avvento delle tv private per cogliere le potenzialità pubblicitarie occultate dai paesaggi dell'«Intervallo». Per certi versi, si trattò di una mutazione contemporanea. Le inutili sale polverose si riempirono di redditizi bookshop e caffetterie, mentre gli spazi morti fra una trasmissione e l'altra diventarono il motore dell'universo mediatico (e, per inciso, politico). Ma torniamo ai Beni culturali. Nel delicato rapporto fra conservazione e guadagno, l'unica soluzione risiederà nell'oculatezza dello sfruttamento, badando a che il privato non danneggi il patrimonio affidatogli. Con qualche regola, un po' più precisa, sarebbe tutto più semplice.
In Italia il movimento moderno si è sviluppato per frammenti: edifici singoli o tutt'al più quartieri residenziali o zone industriali, dotati comunque di confini ben precisi. Soltanto a Ivrea - esempio unico in Europa - ci troviamo di fronte a un vero esempio di «città moderna» fatta di residenze, fabbriche, servizi per la comunità. Per circa trent'anni Ivrea ha rappresentato un luogo privilegiato per la sperimentazione in ambito architettonico, urbanistico e culturale, grazie alle innovazioni introdotte fra il 1933 e il 1960 da Adriano Olivetti nella impresa fondata nel 1908 dal padre Camillo, eclettico ingegnere e inventore, che alla fine del XIX secolo aveva soggiornato per qualche tempo a Londra e negli Stati Uniti e che negli stessi anni aveva aderito al partito socialista.
La scelta della trasparenza
Affermando che «la fabbrica è per l'uomo e non l'uomo per la fabbrica», fu proprio Adriano Olivetti a introdurre un modo radicalmente nuovo di abitare lo spazio del lavoro. Fondamentale, per questa trasformazione del concetto di modello industriale, non fu solo il viaggio che il giovane Adriano - nato nel 1901 - effettuò negli Usa nel '25 e nel corso del quale visitò decine di fabbriche fra le più avanzate del tempo (fra cui gli stabilimenti Ford), ma anche, o soprattutto, la sua attenzione verso i nuovi linguaggi espressi dall'architettura razionalista. La vicinanza d'età e l'affinità intellettuale con gli architetti milanesi Luigi Figini e Gino Pollini convinsero Olivetti ad affidare loro l'ampliamento dello stabilimento in mattoni rossi costruito dal padre Camillo a fine Ottocento. Nacque così il primo edificio modernista con la facciata libera in vetro che si raccordava alla struttura esistente con un passaggio sopraelevato. Una scelta, quella della trasparenza, che va letta (non solo architettonicamente) per il significato che essa ha assunto nel tempo, come principio etico nei confronti del lavoro svolto all'interno della fabbrica e visibile dalla strada: una forma di democrazia - e, appunto, di trasparenza - nell'agire quotidiano della Olivetti.
L'aspetto etico sarà la base su cui verrà fondata la «comunità» di Adriano, all'interno della quale l'attenzione verso la qualità comprende tutti gli ambiti, dall'organizzazione del lavoro al progetto degli spazi industriali, dall'abitare ai servizi sociali. Allo stesso modo, anche l'inserimento delle architetture nel loro contesto, rivela - a Ivrea come a Pozzuoli - l'attenzione e il rispetto di Olivetti per il paesaggio. «Gli ambienti in cui si viveva e si lavorava erano immersi nella luce naturale, e la progettazione avveniva soltanto dopo indagini molto approfondite - studi che investivano da un lato l'aspetto geologico e ambientale, in modo da costruire su terreni salubri, dall'altro il profilo sociologico, tenendo conto delle esigenze pratiche delle persone che avrebbero dovuto abitare quel luogo» ricorda Laura Olivetti, figlia di Adriano e presidente della fondazione che porta il nome del padre e che si è data l'obiettivo di riflettere, attraverso mostre e convegni, sulle problematiche della società contemporanea.
Grande merito va dunque riconosciuto a tutti quei progettisti che, attraverso le loro opere, seppero contribuire alla costruzione di un paesaggio fatto di architetture moderne, innovative sia nella tecnologia costruttiva sia nel linguaggio architettonico adottato. Fu grazie soprattutto al loro lavoro che si rese possibile la realizzazione del sogno di Olivetti di una città a misura d'uomo. E ancora oggi l'attualità del progetto olivettiano trova riscontro nella sua visione strategica e lungimirante della città, il cui esito è un modello sociale equo, dove il ruolo dell'architettura condiziona positivamente il vivere quotidiano.
Razionalismo mediterraneo
Se Figini e Pollini - autori fra gli anni Trenta e i Cinquanta delle nuove officine e dei successivi ampliamenti ma anche delle residenze per operai e impiegati e di tutti i servizi sociali - furono gli architetti prediletti da Adriano, molti altri progettisti vennero coinvolti con il passare degli anni nella trasformazione di Ivrea in una città compiutamente «moderna»: da Fiocchi, Bernasconi e Nizzoli, che nel 1955 progettarono il Palazzo Uffici 1, a Ignazio Gardella, che nel 1958 realizzò la mensa dai chiari richiami linguistici wrightiani, da Ludovico Quaroni, che lavorò nel quartiere di Canton Vesco sul tema della scuola confrontandosi, negli stessi anni (1955-62), con l'asilo di Ridolfi e Frankl, a Eduardo Vittoria, che fu uno dei progettisti più attivi e firmò, insieme a Marco Zanuso, i quattro fabbricati dello stabilimento di Scarmagno (1968) e realizzò anche il Centro Studi ed Esperienze Olivetti a Ivrea. E ancora, Cappai & Mainardis realizzarono l'hotel La Serra a forma di gigantesca macchina da scrivere pop, mentre Gino Valle fu il progettista di Palazzo Uffici 2 e della Mensa a Burolo. Nel golfo di Napoli, la fabbrica Olivetti di Pozzuoli venne invece costruita su progetto di Luigi Cosenza e divenne una delle espressioni più originali di una certa idea di razionalismo inserito in una dimensione mediterranea.
Il progetto di città moderna infatti non riguardava solo Ivrea, ma si estendeva agli stabilimenti realizzati altrove, e dunque anche delle sedi e dei centri di ricerca all'estero, progettati in Sudamerica da Marco Zanuso, in Giappone da Kenzo Tange, in Pennsylvania da Louis Kahn, in Inghilterra da James Stirling. O ancora dei negozi realizzati per commercializzare le produzioni delle macchine per scrivere e dei calcolatori elettronici: da quello firmato da Carlo Scarpa a Venezia nel 1958 (e divenuto oggi, nell'indifferenza generale, un negozio per turisti), alla Hispano-Olivetti dei Bbpr nel 1964 a Barcellona, dagli uffici Olivetti progettati da Egon Eiermann a Francoforte nel 1972 agli showroom parigini progettati da Albini e Helg (1958) e da Gae Aulenti (1967). Nel complesso, uno straordinario esempio di mecenatismo «rinascimental-contemporaneo» che ha individuato nella rivoluzione della modernità una possibile chiave di sviluppo economico e sociale per la comunità, basata sul concetto di condivisione del sapere.
Questa lunga premessa è necessaria per comprendere come è nato il mito di Ivrea e l'importanza stessa della città di Adriano Olivetti a cui la rivista internazionale di architettura e urbanistica Parametro, che recentemente ha festeggiato i trentacinque anni, ha dedicato l'ultimo numero monografico curato da Patrizia Bonifazio e da Enrico Giacopelli. Dai contributi che compongono la rivista, emergono tuttavia anche i nodi irrisolti del fenomeno Ivrea, e innanzitutto la vastità del patrimonio immobiliare esistente che comprende non solo gli edifici industriali delle vecchie e nuove officine Ico di Figini e Pollini o il Centro studi esperienze di Eduardo Vittoria, ma anche lo stabilimento di Scarmagno di Marco Zanuso o la mensa a Burolo di Gino Valle.
Il riconoscimento della eccezionale qualità architettonica della Ivrea moderna non appare purtroppo scontato da parte delle proprietà che si sono susseguite dagli anni Novanta a oggi, unendo il destino di Olivetti prima a De Benedetti, poi al gruppo Telecom (Colaninno) e infine a Pirelli Real Estate. Oltre tutto, a rendere più complessa la situazione, il problema delle destinazioni d'uso delle ex officine si è protratto per decenni e ancora oggi si assiste a un profondo mutamento nella distribuzione delle funzioni: laddove si producevano macchine per scrivere ora vi è il call center di Vodafone e l'università di Torino, mentre il centro ricerche Olivetti di Eduardo Vittoria - occupato dall'Interaction Design Institute voluto da Colaninno come centro di ricerche interattive tra information technology e design - attualmente è vuoto.
In questo modo anche gli sforzi dell'amministrazione comunale rischiano di rimanere vani, nonostante sia stato realizzato - su proposta di un gruppo di progettazione di cui hanno fatto parte Bonifazio e Giacopelli, e con il contributo economico dell'Unione Europea - il Maam (Museo a cielo aperto dell'architettura moderna).
Un museo a cielo aperto
Primo importante risultato dell'iniziativa è stato un lavoro di schedatura delle oltre duecento architetture (186 case di abitazione, otto edifici industriali, sei edifici per uffici, tre edifici per servizi sociali, tre scuole, due edifici religiosi, un residence e un edificio multifunzionale) su cui si articola la «Olivetti city» di Ivrea, un catalogo aggiornato che fornisce informazioni su ciascun edificio e sul suo stato di conservazione all'epoca del censimento. Inaugurato al pubblico nel 2001, il Maam offre oggi ai suoi visitatori un itinerario scandito attraverso stazioni tematiche di sosta in prossimità degli edifici realizzati dai maestri dell'architettura italiana del Novecento, allo scopo di preservare la memoria storica della cultura industriale di un territorio, il Canavese, che per mezzo secolo ha vissuto di una monoeconomia, alternando il lavoro in fabbrica a quello tradizionale nei campi.
Nel 2004 è stato adottato il nuovo Piano regolatore generale di Ivrea che individua nella trasformazione della città esistente l'obiettivo primario, ma che soprattutto - e per la prima volta in Italia - propone una «Carta della qualità» negli interventi che pone sullo stesso livello di importanza gli edifici storici della città antica (di origine romana) e quelli realizzati nell'ultimo secolo. All'interno di questo quadro, il Piano individua tre tipologie qualitative: la qualità del contesto che considera la forma degli isolati urbani, la qualità dell'architettura, attraverso aspetti formali e funzionali dei singoli edifici, e infine la qualità dell'ambiente paesistico in cui le architetture sono collocate. Il concetto di qualità si lega così non a definizioni astratte e individuali ma a un forte legame con il territorio in cui la catalogazione del patrimonio immobiliare realizzata dal Maam ha fornito indicazioni utili per la definizione stessa della Carta. È in questo contesto normativo che si inserisce il problema del restauro delle architetture moderne di Ivrea, soggette spesso - come si è detto - a un cambio radicale di funzioni, ma anche a una serie di manomissioni e stravolgimenti architettonici legati all'azione di una pluralità di committenze con esigenze e obiettivi non più omogenei: ne sono esempi, fra l'altro, l'inserimento della facoltà di Scienze della Comunicazione nelle Nuove Officine Ico o la destinazione a spazi polifunzionali per la città delle Officine H.
«Il caso di Ivrea - osserva su Parametro Enrico Giacopelli - sembra infatti dimostrare che nel restauro degli edifici industriali moderni non è concretamente possibile occuparsi solo della "materia", in quanto è sempre in gioco un uso nuovo che impone le sue regole. Dimostra però anche la necessità di salvaguardare l'idea, facendo governare il processo dal principio di "fedeltà al progetto originale" che, con tutta la sua ambiguità, è forse l'unico criterio utile per valutare la correttezza di un intervento di restauro anche di un edificio moderno. Un aspetto determinante nella salvaguardia dell'idea originale è certamente costituito da una corretta scelta della nuova destinazione d'uso».
Ridisegnare il futuro della città
Questo tuttavia può avvenire solo se Pirelli Re comprende che la città di Olivetti non rappresenta semplicemente il 2 per cento del suo portfolio immobiliare ma è in grado di diventare - attraverso una rilettura del progetto culturale di Adriano Olivetti - una risorsa da cui attingere per concepire un nuovo modo di fare impresa. Da parte sua, l'amministrazione comunale della città dovrebbe ridisegnare il futuro di Ivrea proprio a partire dal patrimonio architettonico moderno, concepito come antesignano e prototipo dell'idea di sviluppo sostenibile. Per raggiungere questo obiettivo è però necessario fare rete con città che nel mondo presentino caratteristiche analoghe, progettando e programmando una serie di azioni capaci di coinvolgere il territorio, in termini culturali e imprenditoriali. Di queste iniziative, il primo passo potrebbe essere l'avvio (come pare si stia già facendo, sia pure con lentezza italica) di una pratica per far entrare Ivrea e le sue architetture nella lista Unesco del patrimonio mondiale dell'umanità.