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l Mercato divora tutto. I suoi padroni e i suoi servi sono diventati sempre più abili: trasformano i gioielli del nostro patrimoni storico e artistico in lustrini da appiccicare sulle sue merci, e le fragili menti drogate dei consumatori penseranno che quella è la loro unica ragione di essere. il Fatto Quotidiano online, blog di Manlio Lilli, 23 marzo 2017

«Abbiamo condiviso la necessità di sviluppare un sistema di relazioni più efficace e di stipulare un accordo finalizzato a qualificare e rendere più competitiva l’offerta turistica territoriale. Il fine è anche sensibilizzare e coinvolgere tutti gli attori locali e le comunità promuovendo e diffondendo i principi legati alla “cultura di sistema” e alla “cultura dell’accoglienza turistica” con l’obiettivo di incentivare e sostenere la pianificazione e la riqualificazione territoriale in relazione alle esigenze di sviluppo turistico. È necessario incrementare i flussi turistici attraverso l’attuazione di una politica di sviluppo più efficiente e indirizzata a favorire la destagionalizzazione delle presenze». A parlare così è Domenico Casagrande, direttore del Palmanova Outlet Village, il villaggio commerciale appena oltre il casello di Palmanova (Udine) lungo l’autostrada A4.

Cosa c’entri “il primo outlet del Nord-Est dell’Italia e il primo a richiamare visitatori non solo dall’Italia ma anche da Slovenia, Croazia e Austria”, con “l’offerta turistica territoriale” e “lo sviluppo turistico”, è presto detto. Un comunicato del Comune, celebre per la fortezza cinquecentesca a pianta poligonale a stella con nove punte, chiarisce tutto. “Il Palmanova Outlet Village, la città di Palmanova, candidata Unesco, e la Fondazione Aquileia, che opera al fine di valorizzare la città romana, uniscono le forze e guardano alla promozione dello sviluppo turistico regionale a beneficio dei cittadini … È stata, infatti, siglata una convenzione (durata 3 anni) tra Palmanova e l’Outlet Village, che prevede lo sviluppo di strategie e l’organizzazione di eventi d’interesse per la collettività”.

Diversi soggetti uniti per valorizzare il patrimonio storico-artistico-archeologico di un comprensorio ricco di potenzialità. Un progetto condiviso di sviluppo del territorio. “Ogni accordo e strumento che permette di far conoscere, a livello nazionale e internazionale, la bellezza e unicità di Palmanova è valutato positivamente dall’amministrazione comunale. In sintonia con il Palmanova Outlet Village e Aquileia pensiamo di far crescere turisticamente il territorio”, ha commentato il sindaco di Palmanova, Francesco Martines. Insomma, nessun dubbio. Evviva l’accordo. Con questa accezione la notizia è pubblicata da diversi quotidiani e rilanciata anche dall’Ansa.

D’altra parte ci sarà anche una serie di iniziative “in occasione dei principali eventi in programma nella città stellata”. E sono proprio queste iniziative che possono permettere di farsi un’idea più precisa. Di verificare la bontà dell’operazione. Quindi avanti con il “Palmanova Shuttle”, che vedrà impegnati il Comune di Palmanova, l’associazione “Palmanova Città da Vivere”, il Palmanova Outlet Village e la Fondazione Aquileia. Si tratta di “un’operazione turistico-culturale che proporrà, per i mesi di giugno e luglio, ogni martedì, un tour culturale-esperienziale. Si parte la mattina in pullman da Grado per arrivare nella città stellata dove si ammireranno Piazza Grande, Borgo Cividale, la Fortezza e le fortificazioni. Nel pomeriggio una visita ai siti archeologici della città di Aquileia, quindi il ritorno a Grado. Tutto totalmente gratuito. Alle guide che accompagneranno le comitive provvederà il Comune, al pullman l’Outlet. Ma non è tutto.

Il tour-culturale-esperienziale prevede altro. “Alle 12.30 partenza per il Palmanova Outlet Village dove la struttura metterà a disposizione dei turisti un menù a prezzo agevolato/convenzionato in uno o più ristoranti”. Poi, fino alle 16 “i clienti potranno fare visita agli store dello shopping center friulano, beneficiando di particolari sconti grazie alla carta fedeltà”. Così il pacchetto è pronto. Già, perché, nonostante i toni entusiastici del sindaco di Palmanova, del direttore dell’Outlet e di quello della Fondazione Aquileia, un dubbio rimane. Più che legittimo.

E’ proprio sicuro che il “Palmanova shuttle” valorizzi il patrimonio culturale di quella provincia? L’impressione è che piuttosto di un viaggio attraverso il patrimonio culturale di Grado, Palmanova e Aquileia sia una di quelle gite a prezzi stracciati che qualche anno fa andavano di gran moda. Con poca spesa si andava in pullman in varie località italiane. Anche in quelle occasione era prevista una sosta. Per l’acquisto di set completi di pentole, articoli per la casa o enciclopedie. Anche in quelle occasioni era previsto il pranzo. Tutto compreso, allora come ora.

Qualcuno penserà che si tratti di snobismo elitario. In realtà si tratta di qualcosa di molto diverso. Soprattutto più democratico. Il timore che le visite ai monumenti si possano trasformare in viaggi organizzati. Per fare shopping all’outlet di zona.

«Il problema principale dello sviluppo, e del turismo, non è l’assenza di musei, di centri storici o di parchi archeologici, ma è la scomparsa del paesaggio, la distruzione di un sapere collettivo». il manifesto, 18 marzo 2017 (c.m.c.)

L’Italia possiede un bene ineguagliabile che è rappresentato dall’enorme Patrimonio culturale stratificatosi per più di trenta secoli e in maniera capillare nell’ordito armonico delle nostre antiche città, dei nostri musei, delle chiese, dei siti archeologici, dei palazzi dei nostri centri storici immersi nel paesaggio. Il paesaggio è l’immagine, lo specchio della ragione e come tale presuppone – in coloro che vi lavorano, erigono palazzi, costruiscono piazze, strade e scuole modificandone il volto – un’intima partecipazione al diritto di goderne, di gioirne e di apprezzarne la bellezza.

La devastazione della gran parte del paesaggio e delle città soprattutto del Mezzogiorno è, purtroppo, la dimostrazione che il riconoscimento e la produzione della bellezza sono attività che i cittadini, soprattutto quelli meridionali, non hanno esercitato, compreso ed interiorizzato da troppo tempo. I cittadini e la classe dirigente del Mezzogiorno non hanno ancora compreso, non hanno voluto comprendere, che con la scomparsa del paesaggio e delle antiche città si scardinava un fondamentale nesso psicologico di formazione identitaria perché la stabilità dei luoghi garantisce alle società un senso di perpetuità, in grado di conservare l’identità individuale e collettiva.

In una temperie culturale nella quale i valori estetici tendono a essere antifunzionali e antieconomici perché di ostacolo all’efficienza e alla misurabilità economica, la consapevolezza che una città del Mezzogiorno, Matera, sia stata scelta come capitale europea della cultura infonde, a noi meridionali, una speranza.

Il paesaggio agrario del Mezzogiorno che sembrava, alla fine della seconda guerra mondiale, ancora immoto agli occhi di Silone e persino di Pasolini, a partire dagli anni ‘50 viene, invece, devastato e consumato in maniera sempre più impetuosa. Dagli anni ’80 del secolo scorso il processo di riduzione a merce del suolo e del paesaggio agrario subisce un’ulteriore e violentissima accelerazione.

In Italia, fra il 1990 e il 2005, ben il 17% della superficie agricola utilizzata è stata cementificata o degradata e, per esempio, la Calabria è in cima a questa classifica negativa con oltre il 26% del suolo consumato, subito dopo la Liguria, prima con il 27% (Istat), con l’inevitabile dissesto idrogeologico che ne consegue. Un’altra statistica (Ispra 2014) ci dice che, al 2001, ben 7 vani su 10 del patrimonio edilizio italiano erano stati costruiti nei soli 55 anni precedenti, ma anche che il consumo di suolo per abitante nel 1950 era di 178mq., nel 1989 di 286mq. e nel 2012 di 369mq.

Le Regioni meridionali contribuiscono più delle altre all’enorme consumo del suolo, prime fra tutte la Calabria con 1.243.643 alloggi, di cui 482.736 vuoti, per poco meno di 2 milioni di abitanti, con la conseguente percentuale più alta di alloggi vuoti: il 38% (Istat). E se in Lombardia ci sono 5 abitanti per edificio, in Toscana poco più di 4, nel Lazio circa 5, nelle regioni meridionali, invece, abbiamo meno di 3 abitanti per edificio in Sardegna e in Sicilia e, addirittura, solo 2,5 abitanti in Calabria. L’aumento più evidente dell’abusivismo edilizio si osserva in Molise, Calabria e Basilicata che registrano, fra il 2002 e il 2010, indici medi intorno al 35% delle nuove abitazioni (25% in Basilicata). La Calabria ha 798 chilometri di coste dei quali ben 523 (il 65% del totale) sono urbanizzati, trasformati da interventi antropici legali e abusivi: gli abusi lungo la costa calabrese, secondo una ricerca dell’Università di Reggio Calabria, erano ben 5210: uno ogni 153 metri!

I dati sopra riportati mettono in evidenza quanto l’attuale incapacità da parte dei meridionali di distinguere, salvaguardare, e di produrre, la bellezza sia una condizione patologica della psiche, individuale e collettiva. La bruttezza genera disarmonia, produce incapacità di distinguere il bello dal brutto, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, produce assuefazione all’assenza di regole estetiche e morali, genera immoralità diffusa e, quindi, ‘ndrangheta, camorra e mafia.

Il problema principale dello sviluppo, e del turismo, del Mezzogiorno non è l’assenza di musei, di centri storici o di parchi archeologici da visitare, ma è la scomparsa del paesaggio, la distruzione di un sapere collettivo che dovrebbe essere rappresentato dall’enorme Patrimonio culturale che deve interagire, sistemicamente, con un sostrato eno-gastronomico ancora ricco e vivo, con la tradizione millenaria della nostra biodiversità agricola, con una ricettività alberghiera adeguata e con un mare non inquinato. Bisognerebbe, insomma, che una nuova classe dirigente del Mezzogiorno, portatrice di questo sapere intellettuale collettivo, riuscisse a concepire ed a realizzare un gigantesco e capillare piano di risanamento dei territori, dei mari, dei boschi, dei fiumi e delle coste che impegni, da subito, alcune decine di migliaia di giovani.

Uno dei primi atti del new deal di Franklin Delano Roosevelt fu quello di progettare e finanziare un gigantesco piano di restauro del territorio che impegnò, a partire dal 1933, alcune centinaia di migliaia di ragazzi fra i 18 e i 25 anni. Negli anni che seguirono due milioni di giovani lavoratori, chiamati “L’armata degli alberi di Roosevelt”, piantarono 200 milioni di alberi, rifecero gli argini dei torrenti, allestirono laghetti artificiali per la pesca, costruirono dighe e strade di collegamento, scavarono canali per l’irrigazione, gettarono ponti, combatterono le malattie degli alberi, ripulirono spiagge e terreni incolti.

Ecco cosa ci vorrebbe per il Mezzogiorno: un new deal fondato sul restauro dei paesaggi naturali e storici, dei paesaggi agrari e urbani; un new deal nel quale la “redditività” del nostro patrimonio storico e naturale non risieda solo nella sua commercializzazione, ma in quel profondo senso di appartenenza, di identificazione, di cittadinanza che creerebbe la ricomposizione materiale ed immateriale dei luoghi, dei paesaggi.

. T. Montanari, la Repubblica, F.Q., il Fatto Quotidiano, 16 febbraio 2017 (p.d.)




la Repubblica
LA LEZIONE DEL PARTENONE:
C'E' CHI DICE NO
di Tomaso Montanari

Ieri le agenzie hanno battuto una notizia che riconcilia con l’umanità: la Grecia ha detto no alla Gucci, che aveva chiesto di realizzare, e filmare, una sfilata di moda sull’Acropoli. Il particolare che rende clamorosa questa notizia è che la Gucci aveva offerto in tutto 56 milioni di euro (tra affitto e diritti televisivi). Come ogni fiorentino immediatamente comprende, questa notizia ci riguarda: anzi, parla di noi. Non solo perché la Gucci è fiorentina: ma perché è fiorentinissima, purtoppo, la mentalità che ha indotto la griffe ad avanzare quella richiesta. E allora leggiamo le motivazioni di quel no. La Commissione Archeologica greca cui spettava la decisione ha scritto che: "Il valore e il carattere dell’Acropoli è incompatibile con un evento di questo tipo". E il direttore del Museo dell’Acropoli Dimitris Pantermalis ha aggiunto: "Non abbiamo bisogno di pubblicità. Il simbolismo del monumento sarebbe svilito usandolo solo come ‘sfondo’ per una sfilata di moda".

Su un giornale di ispirazione moderata - Kathimerini, che esce in inglese con l’edizione internazionale dell’Herald Tribune - il poeta Pantelis Boukalas ha commentato la decisione con parole altissime. Parole che, lette da questa Firenze, fanno sanguinare il cuore: "Il Partenone è parte del patrimonio culturale dell’umanità non solo perché è bello, ma perché è un luminoso simbolo di democrazia. L’ultimo tentativo di umiliarlo è stata una richiesta della casa di moda Gucci di tenere una sfilata di moda sull’Acropoli, usandolo come sfondo. L’argomento a favore sarebbe che ciò promuoverebbe la libertà dell’espressione artistica e l’innovazione creativa. Questa artificiosa giustificazione non riesce a spiegare perché la libertà artistica dovrebbe passare attraverso la sottomissione di uno dei più grandi simboli dell’umanità a interessi commerciali. Il valore simbolico del Partenone è stato minacciato anche quando è stato recentemente chiuso al pubblico in occasione della visita del presidente americano Barack Obama, ma il danno sarebbe esponenzialmente più grande se il monumento fosse usato come fondale di un evento commerciale. L’argomento che esso beneficerebbe dell’enorme compenso o della pubblicità dell’evento è solo il travestimento di un cinismo abbietto».

Insomma: c’è chi dice no. Ed è commovente che questo ‘no’ venga da Atene, culla di ogni idea di democrazia. Da un’Atene in tali condizioni economiche da rendere ancora più ammirevole la dignità di questo no. E la “nuova Atene” (così si alludeva alla Firenze del Magnifico)? La nostra povera Atene è già in vendita da un pezzo, e per cifre incredibilmente ridicole, al confronto con i 56 milioni inutilmente offerti dalla Gucci. Non solo Matteo Renzi, Dario Nardella o Eike Schmidt, ma temo molti fiorentini, non riescono a pensare Ponte Vecchio, a Santa Maria Novella o a Palazzo Pitti come ad un patrimonio dell’umanità che non può essere sottomesso a interessi commerciali senza svilirlo, e, in ultima analisi, eroderlo irreparabilmente.
Ma non è mai troppo tardi per invertire la rotta.
il Fatto Quotidiano online
AGRIGENTO, DOPO IL NO
DI ATENE AI SOLDI DI GUCCI
IL SINDACO PROPONE LA
VALLE DEI TEMPLI
Atene non vuole i milioni di Gucci? E allora si fa avanti Agrigento. Nei giorni scorsi il Consiglio archeologico centrale greco (Kas) ha rifiutato un sostanzioso contributo economico offerto dalla casa di moda per poter organizzare a giugno una sfilata sull’Acropoli che sovrasta la capitale. Così Calogero Firetto, sindaco della città siciliana, ha pensato di candidare la Valle dei Templi, che nulla ha da invidiare alle bellezze della penisola ellenica. “Eventi riservati a pochi ospiti sono oggetto di un regolamento del Parco archeologico della Valle dei Templi - ha spiegato il primo cittadino all’Adnkronos - e, in linea con le norme nazionali, sono stabiliti canoni e diritti di immagine“. Agrigento ha già ospitato molti eventi importanti come il Google Camp, ora potrebbe essere la volta della passerella dello storico marchio italiano comprato dai francesi di Kering.

“Penso che la Valle dei Templi, scelta per altri eventi privati di carattere internazionale, possa essere uno scenario anche più suggestivo dal punto di vista della qualità dell’immagine e della resa pubblicitaria”, ha aggiunto Firetto, sottolineando come l’area archeologica, che vanta una serie di templi dorici del periodo ellenico, abbia appena vinto il Premio nazionale del Paesaggio e sia candidata per l’Italia allo stesso premio del Consiglio d’Europa. “Per Agrigento e per Gucci sarebbe un’opportunità: il reciproco vantaggio è abbastanza ovvio - ha detto il sindaco - inoltre la casa di moda potrebbe rispettare la sua volontà di realizzare una sfilata tra i templi greci, in un luogo che è patrimonio dell’Umanità dichiarato dall’Unesco“.

“Concedere l’uso dell’Acropoli sarebbe stata un’umiliazione“, si legge in un editoriale pubblicato dal quotidiano greco ekathimerini. Firetto invece sostiene che “l’orgoglio verso il nostro passato si esprime ogni giorno in un paesaggio vivo e non imbalsamato, pronto ad accogliere tutto ciò che esprime la cultura contemporanea ad alti livelli, in Italia e nel mondo”. L’archeologia ad Agrigento “non è statica, ma pulsa di vita - ha concluso Firetto - attraverso la creatività di uomini e donne, che nell’arte, nella poesia, nella letteratura, nella scienza, nelle attività produttive, con un carattere fortemente innovativo e nel rispetto dei luoghi, riescono a legare magicamente classicità e contemporaneità”. Ora resta solo da attendere la risposta di Gucci.


la Repubblica economia finanza, 15 febbraio 2017 (p.s.)

La storia e la cultura non hanno prezzo. E Atene, al settimo anno di una crisi economica che si è mangiata il 25% del Pil, dice no ai soldi offerti dalla Gucci per consentire una sfilata di moda di un quarto d'ora sull'Acropoli.

La richiesta della casa di moda è arrivata nei giorni scorsi sul tavolo della Commissione archeologica della Grecia (Kas) con un'offerta - immaginavano gli estensori - difficile da rifiutare, visto lo stato di salute delle casse elleniche: un milione per l'affitto della "roccia sacra" per uno show di 900 secondi da tenere proprio di fronte al Partenone, riferisce la stampa ellenica. Più 55 milioni per i diritti a girare e promuovere in giro per il mondo il filmato della passerella. Anche se di soldi, dice la società fiorentina, non si era ancora parlato in questa fase dell'operazione.

La risposta del Kas è stata però categorica. «Il valore e il carattere dell'Acropoli è incompatibile con un evento di questo tipo». Punto. «Non abbiamo bisogno di pubblicità - ha rincarato la dose Dimitris Pantermalis, direttore dello splendido Museo dove sono ospitati i resti del fregio del tempio antico e le Cariatidi -. Il simbolismo del monumento sarebbe svilito usandolo solo come "sfondo" per una sfilata di moda».

Poveri sì, insomma, ma non abbastanza da mettere in vendita l'anima del paese. La Gucci aveva avanzato la sua richiesta ricordando come nel 1951 i marmi e le colonne del Partenone avessero fatto da palcoscenico a una sfilata di Christian Dior. Altri tempi però, la Commissione, irremovibile, ha detto no mentre il marchio della Doppia G ha confermato di avere avuto un incontro con l’autorità ellenica per presentare un progetto di collaborazione culturale a lungo termine e raccogliere l’opinione dell’autorità stessa, ma che nessuna offerta economica è mai stata formulata.

«Concedere l'uso dell'Acropoli sarebbe stata un'umiliazione» ha commentato in un editoriale il quotidiano Kathimerini. I marmi dell'Acropoli sono stati sfruttati in passato per gli spot della Coca-Cola, di Lufthansa e Verizon (che ha trasformato le colonne in cabine telefoniche) e come set per un servizio fotografico di Jennifer Lopez non autorizzato dal Kas. Ma la storia (e la dignità) della Grecia non sono in vendita. Nemmeno oggi che lo Stato è quasi in bancarotta.

La Nuova Sardegna, 9 febbraio 2017

Emergenza cultura è un collettivo di sostenitori della tutela dei beni culturali, in sintonia con l'art.9 della Costituzione, punti di vista alternativi alla riforma Franceschini. Nel sito omonimo interessanti documenti. Coordinamento affidato a una ventina di rappresentanti del variegato schieramento impegnato su questi temi, tra gli altri Vittorio Emiliani, Rita Paris, Vezio De Lucia, Tomaso Montanari, Maria Pia Guermandi.

Emergenza cultura ha pubblicato, in due puntate, un dossier da brivido sulla Sardegna nel pantano della riforma. La dimostrazione che le riforme non sempre portano fortuna, specie nelle realtà di cui si trascurano la storia e la geografia.
Non convince la strategia del ministro: tutto in subordine alle super-collezioni e ai poli museali - nello sfondo l'incremento dei flussi di visitatori in aree urbane dense. Svantaggiosa per la Sardegna con la sua compagine di piccoli musei (spesso senza guida) impossibilitati a fare da traino alle iniziative delle soprintendenze depotenziate dagli accorpamenti tuttologici (erano quattro nell'isola e oggi sono due). Da un po' nel mirino di chi non ne sopporta l'autonomia di giudizio, e ha immaginato di sottometterle al controllo prefettizio (la sfortunata legge Madia). D'altra parte l'antipatia di Renzi verso i soprintendenti è nota. E infatti, al netto della noiosa retorica sul "Paese più bello del mondo", la riforma ministeriale (a costo quasi zero) non amplierà il grado di protezione dei beni elencati dalle due leggi del 1939, e sulla ambiguità della cosiddetta valorizzazione ci sarà da discutere.
E in Sardegna andrà peggio. Il patrimonio dell'isola è disperso nelle campagne, pericolosamente lontano dagli occhi e raggiungibile a fatica. I beni archeologici per essere rinvenuti/rilevati/protetti/visitati, necessitano di personale e forme organizzative adeguate al numero dei beni, alla difficoltà di raggiungerli, per cui servirebbero almeno efficienti mezzi di trasporto scandalosamente indisponibili.
Per memoria: i nuraghi sono quasi novemila, a cui si somma una miriade di antichi manufatti, chissà quanti sottoterra. Il patrimonio di beni architettonici con il corredo di apparati mobili è altrettanto vasto (in ogni piccolo comune c'è almeno una chiesa preziosa con dipinti e sculture). Il paesaggio vincolato, sul quale il Mibact ha competenza, è di grande estensione e valore, ed è minacciato da vecchi e nuovi aggressori come gli speculatori dell'energia.
Sono solo 400 i dipendenti Mibact tra Sassari, Cagliari e le sedi operative. Con clamorosi deficit. Basta l'esempio della Soprintendenza del Nord Sardegna: due tecnici laureati più uno part-time. Con queste poche risorse umane, spesso eccellenti, e con la cronica insufficienza di finanziamenti, la partita è persa in partenza. Il Polo Museale sardo invece di trainare le soprintendenze, sarà una scatola vuota affidata a pochi custodi "infelicissimi". Perché nessun museo ha senso senza un direttore, uno storico- conservatore, progetti didattici. Per contro, nel caos protratto, si rischia di perdere collaudate esperienze di integrazione, come quelle tra attività di scavo, restauro, esposizione di reperti, formazione. Una deriva deprimente che riguarda altri istituti come gli archivi statali, agibili grazie alla generosità di chi ci lavora.
C'è poi la questione dei compiti primari delle soprintendenze nella tutela del paesaggio, dei tempi stabiliti per esprimere pareri sugli atti trasmessi da Regione/enti delegati. Una marea di pratiche a cui si deve fare fronte con un pugno di funzionari sui quali incombe lo smacco (e non solo) del silenzio assenso. Dovrebbe sopperire il recente provvedimento del governo Gentiloni sulla semplificazione dei procedimenti di autorizzazione paesaggistica. Ma c'è chi teme i risvolti pratici. E che questi modi sommari per rimediare all'inefficienza dello Stato, non preannuncino il disarmo delle istituzioni a presidio dei nostri beni culturali. In questo brutto clima - "la tutela contro lo sviluppo" - sta la diffidenza verso la linea scrupolosa del soprintendente del Sud Sardegna Fausto Martino sul caso Eurallamina.

». il manifesto, 5 febbraio 2017 (c.m.c.)

Nella notte che ha devastato e portato lutti nell’aquilano, alcuni imprenditori se la ridevano allegramente pensando ai lauti appalti pubblici che avrebbero spartito. Dopo otto anni il terremoto ancora sconvolge un’area geografica enorme.

Il sisma nell’area compresa tra Marche, Abruzzo e Umbria, nota per le grandi qualità storiche e ambientali, diventa purtroppo l’occasione per assestare un colpo micidiale all’architettura dello Stato, come l’abbiamo fin qui conosciuta. Il governo della delicata fase di ricostruzione deve contemperare la dovuta tempestività nell’emettere i pareri sulle opere di ricostruzione da eseguire e il rigore nel difendere un patrimonio culturale fatto di meravigliosi centri storici, di pievi, di monasteri, di paesaggi e reticoli idrici.

La guerra ingaggiata da anni contro la «burocrazia» che blocca l’economia e lo sviluppo di un paese in crisi non poteva mancare di portare l’ultimo e definitivo assalto al sistema delle tutele statali che fa capo al Ministero dei beni ambientali e culturali. Eppure, se ci fosse lo spazio per una intelocuzione seria, nessuno potrebbe negare che le tanto detestate Soprintendenze di Stato hanno operato in modo perfetto ogni volta che sul territorio italiano si è prodotto un terremoto. E i casi sono molti e ricorrenti. Il sisma che ha colpito l’Umbria ha praticamente concluso la fase di ricostruzione e tutto è avvenuto con tempestività nel rispetto delle tutele monumentali o ambientali.

Da allora ad oggi sono accaduti due fatti che stanno provocando il crollo dell’intera architettura dello Stato. Da un lato, il personale a disposizione delle Soprintendenze è sempre più esiguo e i pensionamenti non vengono da tempo reintegrati. C’è il vuoto negli uffici dello Stato. E, ancora, i mezzi strumentali sono ormai merce rara: così tecnici e soprintendenti vanno spesso con la propria autovettura a compiere sopralluoghi. D’altro canto, nel recente terremoto dell’Emilia è stata per la prima volta violata la regola che prevedeva la ricostruzione degli edifici crollati «com’erano e dov’erano», preferendo una arbitrarietà che ignora sempre le ragioni della storia e della cultura.

Con i provvedimenti varati dal governo Renzi nel 2016 si compie il passo successivo poiché con il combinato di due articoli di legge si consente addirittura di sanare gli abusi edilizi – e di ricostruirli- senza avere il parere obbligatorio delle Soprintendendenze. Una mostruosità giuridica che avrà effetti devastanti sia sui paesaggi storici sia per la perdita di autorità di un settore dello Stato.

Ma sulla frenesia semplificatoria e sul completo esautoramento delle funzioni dello Stato è stato creato un vulnus gravissimo il 28 novembre dello scorso anno, quando nell’ordinanza n. 4 del commissario Errani è stata istituita una Soprintendenza speciale per fornire gli indispensabili pareri di competenza esautorando le Soprintendenze di Stato. È il ministro pro tempore a decidere chi occuperà il ruolo guida, una gravità istituzionale in sintonia con la cultura dell’uomo solo al comando, tanto cara a Renzi e come sembra piacere ancora al nuovo presidente del consiglio.

La questione rischia invece di avere conseguenze devastanti sull’ordinamento dello Stato: con incarico discrezionale politico è stato infatti nominato a capo della struttura un tecnico ingegnere, Paolo Iannelli – che avrà rapporti con il segretario generale del Ministero cancellando in tal modo la Direzione generale per l’archeologia, le belle arti e il paesaggio e, insieme ad essa, il Consiglio dei beni culturali e i Comitati tecnici di settore importanti organi di cui fanno parte i migliori docenti e studiosi della materia.

Insomma la lotta ai burocrati e ai «professoroni» procede spedita anche se, passo dopo passo si sta disarticolando la struttura dello Stato e la tutela prevista solennemente dall’articolo 9 della carta costituzionale che scompare nel gorgo della discrezionalità di una politica senza autorità.

«Il nostro Paese è tanto ricco di arte non solo grazie alla capacità di crearla, ma anche alla lucidità con cui, lungo i secoli, si è dato leggi che l’hanno sottratta agli interessi privati e al mercato. L'obiettivo del negoziato è reprimere i reati che riguardano opere d’arte libri e reperti». la Repubblica, 4 febbraio 2017 (c.m.c.)

Non sono molti gli ambiti internazionali in cui l’Italia sappia esercitare una leadership: nonostante tutto, è ancora il caso della tutela del patrimonio culturale, e torna a dimostrarlo, in questi giorni, un seminario del Consiglio d’Europa alla Scuola Imt di Alti Studi di Lucca. Al centro della discussione è il negoziato, in corso presso lo stesso Consiglio d’Europa, sui reati penali contro il patrimonio. Un negoziato che già ad aprile sfocerà in una Convenzione internazionale che — una volta ratificata dagli Stati nazionali — renderà più sicuro ciò che abbiamo di più prezioso: musei, scavi archeologici, biblioteche, archivi e molto altro.

L’obiettivo — facile da comprendere, ma finora arduo da raggiungere — è definire con gli stessi termini, reprimere con i mezzi più avanzati e possibilmente punire con decisione i tanti modi che esistono prima per rubare, e poi per far muovere da uno Stato all’altro questa specialissima refurtiva: quadri, statue, libri, reperti di ogni tipo.

Oggi un’estrema sperequazione di mezzi caratterizza, per così dire, le guardie e i ladri d’arte ( da non immaginare come romantici Lupin: tra loro contano anche i terroristi dell’Isis). L’internazionale del crimine contro il patrimonio usa mezzi sofisticati e ignora ogni confine nazionale, mentre le forze di polizia ( pensiamo ai nostri eroici carabinieri del Nucleo di tutela) e le magistrature che devono combatterla sono frenate da strumenti giuridici antiquati ( pressoché impossibile, per esempio, usare le intercettazioni per reati di questo tipo), rogatorie internazionali interminabilmente lunghe, resistenze sciovinistiche.

Queste ultime rendono complessa la trattativa per la nuova convenzione: l’interesse dei Paesi ricchi di opere d’arte e di siti archeologici ( Italia, Grecia, Cipro, Spagna, Portogallo e Francia) diverge da quello dei Paesi ricchi di case d’asta e di gallerie antiquarie ( Regno Unito e Olanda su tutti), e la libera circolazione delle merci è forse l’unica religione del nostro tempo.
Qua farà la differenza la qualità della diplomazia italiana, che lavora perché l’amore per le radici della comune identità europea prevalga sull’arbitrio di un mercato senza regole, in cui non di rado sono sfumati i confini tra lecito e illecito.

Dopo decenni di disinteresse, il nostro ministero della Giustizia è ora particolarmente impegnato su questo fronte, e ha preparato anche una profonda innovazione della ( pressoché inesistente) sezione penale del nostro Codice dei Beni culturali. Se durante il precedente governo, il ministero per i Beni culturali ( cui ciò spetta) non aveva portato la proposta di legge in Consiglio dei ministri, con la nascita del governo Gentiloni questo passo è stato compiuto.

Sarebbe importante che, entro lo scorcio della legislatura, il Parlamento riuscisse ad approvarla, anche per dare il senso di un’inversione di marcia rispetto a segnali inquietanti, quali il disegno di legge Marcucci ( che giace in Parlamento) che mira, al contrario, a rendere più indiscriminata l’esportazione; o il discutibile coinvolgimento di rappresentanti di case d’asta internazionali nelle commissioni ministeriali chiamate a ridefinire le regole dell’esportazione.

Il nostro Paese è tanto ricco di arte non solo grazie alla capacità di crearla, ma anche alla lucidità con cui, lungo i secoli, si è dato leggi che l’hanno sottratta agli interessi privati e al mercato: se il patrimonio italiano esiste ancora, lo dobbiamo al continuo aggiornamento di queste leggi. Comprenderlo, e addirittura farlo comprendere all’Europa, è di importanza vitale. Non per il nostro passato: per il nostro futuro.

«Firenze diventa ancor più diseguale; il suo patrimonio pubblico viene privatizzato e messo al servizio del piacere esclusivo di pochi super ricchi; La Pira si rivolta nella tomba». la Repubblica online, blog "articolo 9", 23 gennaio 2017 (c.m.c.)

Ci sono molti modi per amministrare una città, e i suoi edifici.

Qualche giorno fa l’urbanista Ilaria Agostini ha invitato la Giunta comunale di Firenze ad accogliere «nella città vecchia il popolo nuovo»: a dare, cioè, casa ai migranti nei grandi volumi vuoti e pubblici del centro storico. Agostini citava il luminoso precedente di Giorgio La Pira, che nel 1953 requisì molte case sfitte «considerato che gravissima è la carenza degli alloggi nel Comune di Firenze» (così la memorabile ordinanza che firmò).

Ora, Dario Nardella non è La Pira. La sua dimensione è più quella di: ‘votiamo il nome delle linee della tranvia scegliendo tra Michelangelo, Brunelleschi, Leonardo, Botticelli’… (e non è una battuta, purtroppo). La sua idea di Firenze punta sul rincoglionimento retorico dei cittadini, e sul lusso come unico asset strategico di sviluppo economico.

E dunque sapevamo che il grande complesso religioso di Costa San Giorgio non sarebbe stato restituito alla città, e men che meno a quelli che papa Francesco chiama gli ‘scartati’: ma che sarebbe divenuto, invece, un grande resort per milionari.

Oggi questo ‘progetto’ è stato presentato, con un linguaggio che merita un commento.

Alfredo e Diana Lowenstein, che hanno già trasformato Cafaggiolo in un altro resort, hanno detto che: «La scelta della Toscana è stata una scelta d’amore – perché la bellezza e la varietà del suo territorio, la straordinaria ricchezza del patrimonio artistico-culturale delle sue città ci hanno da sempre affascinato. Il colpo di fulmine è scattato 50 anni fa, quando abbiamo trascorso la nostra luna di miele proprio a Firenze, scelta per la nostra grande passione per la storia della famiglia dei Medici e del Rinascimento. Oggi facciamo un primo importante passo verso il nuovo destino di questa struttura, con lo sviluppo di un progetto di valorizzazione che, dopo tanti anni di abbandono, ridarà lustro e vita ad un patrimonio di inestimabile valore. Ci proponiamo di offrire al mercato dell’ospitalità una proposta assolutamente originale, di carattere esperienziale, capace di trasmettere le suggestioni di luoghi secolari che fanno parte della storia di questa città. Ci ripetiamo spesso infatti quello che è il nostro primo intento: non essere i proprietari del Complesso Immobiliare di Costa San Giorgio, esserne solo i custodi. Un bene mobile o immobile si può acquistare, si può vendere, ma un’eredità storica e culturale non si può mercanteggiare, si può solo custodire, preservare, conservare per i nostri figli e per i figli dei nostri figli».

C’è qualcosa di oltraggioso in questo storytelling che trasforma una gigantesca (e legittima, vista la variante urbanistica concessa da Nardella) speculazione immobiliare in un atto di amore. C’è qualcosa di insopportabile in questa idea che prendere un monumento e trasformarlo in un hotel esclusivo a mille stelle sia ‘valorizzazione’. C’è qualcosa di degradante nel marketing per cui la storia della città diventa un’esperienza spray, tra una spa e un drink. C’è molta ipocrisia in questa idea di mercanteggiare dicendo di non star mercanteggiando.

Capisco che in un momento in cui la ricchezza dell’1% più facoltoso degli italiani (in possesso oggi del 25% di ricchezza nazionale netta) è oltre 30 volte quella del 30% più povero, gli addetti alla comunicazione sconsiglino gli speculatori di parlare di lusso.

Ma la verità è esattamente questa: Firenze diventa ancor più diseguale; il suo patrimonio pubblico viene privatizzato e messo al servizio del piacere esclusivo di pochi super ricchi; La Pira si rivolta nella tomba.

Siamo sconfitti e umiliati, e questa non è più una città: almeno non pigliateci in giro.

il manifesto, 21 gennaio 2017 (c.m.c.)

Dario Franceschini sistema un altro tassello nel puzzle della sua «riforma» dei beni culturali e paesaggistici. Ieri, su proposta del ministro, l’esecutivo presieduto da Paolo Gentiloni ha approvato, in esame definitivo, un regolamento, da adottarsi con decreto del presidente della Repubblica, che semplifica le procedure di autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità.

Sin dai primi mesi del suo mandato Franceschini non ha fatto mistero dell’intenzione di modificare radicalmente l’assetto organizzativo dei beni culturali e paesaggistici. Intenzione che si è concretizzata in una delle «riforme» renziane più controverse, quella che ha portato all’accorpamento delle soprintendenze e alla separazione della funzione di tutela da quella di valorizzazione dei beni culturali. È stato così creato un doppio sistema: da una parte un circuito di venti musei di eccellenza e di diciassette poli museali regionali e inter regionali al quale è stato affidato il compito di valorizzare, in termini economici, il patrimonio archeologico, museale, artistico e paesaggistico, e dall’altra le soprintendenze, alle quali è stata lasciata la tutela.

Il regolamento approvato ieri si inserisce in questo quadro. Che si aggrava se si considerano le norme della legge Madia di «riforma» della pubblica amministrazione. Norme che, soprattutto per il paesaggio, aprono varchi rischiosi. Prevedono infatti non solo la possibilità di richiedere il riesame di tutti gli atti di tutela adottati dalle soprintendenze, ma anche l’estensione del silenzio-assenso alle decisioni delle stesse in materia di vincoli paesaggistici.

Come si sa, il paesaggio è terreno di scontro tra speculatori di varia natura e un fronte di tutela attestato sul rispetto delle norme costituzionali. Tra i gruppi ambientalisti e nelle soprintendenze c’è preoccupazione. La decisione presa ieri dal consiglio dei ministri, giustificata anche dalla necessità di accelerare le procedure di ricostruzione nelle zone colpite dal terremoto, potrebbe aprire varchi ulteriori alla devastazione del paesaggio.

Per giudicare bisognerà vedere, nel dettaglio del regolamento, quali opere sono considerate «interventi di lievi entità» e quali no. Ma che il provvedimento sia stato approvato nel momento in cui in un enorme territorio ci si accinge a programmare interventi miliardari di riedificazione, fa suonare più di un campanello di allarme.

Forumsalviamoilpaesaggio online, 17 gennaio 2017

Una sentenza fissa un precedente importante per le associazioni che difendono il territorio: le associazioni ambientaliste non devono pagare i costi di accesso alla giustizia.

È una sentenza che segna un punto e un importantissimo precedente a favore delle onlus ambientaliste quella con cui la Commissione Tributaria regionale della Liguria ha accolto il ricorso dell’associazione Vas (Verdi, Ambiente Società) annullando una disposizione della segreteria del Tar che obbligava il Vas a pagare il cosiddetto contributo unificato relativo all’instaurazione di una causa davanti allo stesso Tribunale amministrativo regionale …

I giudici tributari regionali hanno accolto il ricorso del Vas presentato dall’avvocato Daniele Granara ribaltando così la sentenza di primo grado della Commissione Tributaria Provinciale che era invece favorevole all’obbligo di pagamento.

La sentenza si basa sul rispetto della Convenzione di Aarhus (firmata nella cittadina di Aarhus, in Danimarca, nel 1998) “ratificata – spiegano i giudici – dalla Repubblica Italiana con la legge 108 del 2001, impegna gli stati membri a prevedere l’adeguato riconoscimento e sostegno delle organizzazioni che promuovono la tutela dell’ambiente e a provvedere affinché l’ordinamento si conformi a tale obbligo, specie in materia di accesso alla giustizia, negare l’esenzione dal pagamento del contributo unificato per atti quali i ricorsi giurisdizionali finalizzati alla difesa di interessi collettivi diffusi in materia ambientale, porterebbe ad un evidente contrasto tra il diritto interno e le norme europee di pari rango, in quanto recepite nella legislazione nazionale, le quali mettono chiaramente in evidenza che il costo dei procedimenti giurisdizionali sopra indicati debba essere gratuito o non eccessivamente oneroso”.

Negli ultimi anni proprio questi costi sono aumentati e in passato l’ex presidente del Tar Liguria Santo Balba aveva spiegato come tale scelta scoraggiasse di fatto molti cittadini impossibilitati a versare alcune migliaia di euro solo per avviare la causa.

Nel caso in questione i Vas avevano impugnato davanti al Tar una deliberazione della Regione del 2014 che riguardava il “Progetto di coltivazione congiunta e recupero ambientale delle cave Gneo, Giunchetto e Vecchie Fornaci”.

Poiché il contributo unificato muta a seconda del valore della causa, per il business in ballo i questa vicenda i Vas avrebbero dovuto sborsare seimila euro in partenza.
È evidente che proprio tali costi siano un fortissimo deterrente per molte associazioni che si battono sul territorio per la difesa dell’ambiente e del paesaggio. La sentenza della Commissione Tributaria fissa un precedente importante che faciliterà l’azione delle associazioni di difesa del territorio.

Riferimenti
Si veda la sentenza di opposto segno della Corte di cassazione a proposito di un'azione benefica di Legambiente a Siracusa, in eddyburg: "Quanto costa difendere la bellezza"


. la Repubblica, 13 gennaio 2017 , con postilla

Perché no
IN QUELLE MURA L'IDENTITÀ
ITALIANA COSÌ LA SVILIAMO
di Tomaso Montanari«L’unicità.Rappresenta la continuità tra classico e moderno Resti gratuito»

Ha scritto Kant: «Tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito da qualcos’altro a titolo equivalente; al contrario, ciò che è superiore a quel prezzo e che non ammette equivalenti, è ciò che ha una dignità ». Il Pantheon deve avere un prezzo, o può continuare ad avere una dignità?

La dignità del Pantheon è intimamente legata al cuore stesso della nostra identità: esso simboleggia la continuità tra il mondo classico e la nostra cultura moderna (è un’architettura antica ininterrottamente usata), mostra l’eccezionale ruolo che l’arte ha avuto in Italia (ospita le tombe di Raffaello e Annibale Carracci), racconta la nostra faticosa epopea nazionale (accogliendo i sepolcri dei re d’Italia). Infine, rappresenta l’unità del nostro spazio pubblico, attraverso una comunione formale e sostanziale con la piazza che sarà interrotta dal pedaggio.

Questa interruzione è un peccato mortale, sul piano civile e politico: perché prende un pezzo di città e lo trasforma in attrazione turistica, disincentivando i romani dall’ingresso, e dunque dalla conoscenza di se stessi. Ed è anche un peccato vero e proprio: di simonia, cioè di vendita di cose sante, visto che il Pantheon è anche una chiesa consacrata (e infatti una direttiva della Cei, già troppo disattesa, vieta di fare pagare per accedere alle chiese). Il Pantheon – come tutto il nostro patrimonio culturale – è una scuola: di memoria, di futuro e di cittadinanza.

I cittadini mantengono le scuole attraverso la fiscalità generale: ed è lì che bisogna guardare. Togliere i biglietti a tutti i musei statali ci costerebbe circa 100 milioni di euro l’anno, mentre l’evasione fiscale viaggia sui 120 miliardi di euro l’anno. Siamo sicuri che sia un buon affare mettere a reddito il cuore stesso dell’identità nazionale, invece che far pagare le tasse a tutti?

Il ministro Franceschini ha spiegato che gli introiti del Pantheon serviranno a compensare il denaro che egli sottrae al patrimonio storico e artistico di Roma isolando il Colosseo in una assurda autonomia plurimilionaria. Egli ha citato il precedente del ministro Bottai: ma il capo di quel governo era Mussolini, per il quale «i monumenti millenari della nostra storia devono giganteggiare nella necessaria solitudine» (discorso del 31 dicembre 1925). Ora è l’ideologia è un’altra: non quella del fascismo, ma quella della supremazia assoluta del mercato. Tanto che il Mibact potrebbe cambiare la sua sigla in Mimcin: Ministero per la mercificazione della cultura e della identità nazionale.

Ma, come ha scritto Michael Sandel, «assegnare un prezzo alle cose buone può corromperle. Spesso gli economisti assumono che i mercati siano inerti, che non abbiano ripercussioni sui beni che scambiano. Ma questo non è vero. I mercati lasciano il segno. [...] Se trasformate in merci, alcune delle cose buone della vita vengono corrotte e degradate». La cultura dovrebbe essere l’antidoto a un mondo dove il denaro misura e compra tutto: ma se avveleniamo l’antidoto, che speranze avremo di cambiare?

Perché sì
GIUSTO IL BIGLIETTO SE SERVE
A SALVARE I NOSTRI TESORI
di Corrado Augias
«La sfida.Prevedere un costo può aiutare a risolvere i problemi di cassa»

In decisioni come queste non esistono un torto e una ragione, nemmeno un meglio e un peggio, tutti sono animati dalle migliori intenzioni, divisi solo da due concezioni, forse potrei dire da due urgenze.

L’annuncio di far pagare un biglietto per il Pantheon ha suscitato polemiche, vivaci quelle dell’assessore Luca Bergamo da noi intervistato ieri. Gli aspetti pratici della questione sono parecchi e vanno chiariti. Il Pantheon è arrivato quasi intatto fino a noi perché usato come chiesa dai primi cristiani - Bernini si portò via i bronzi per farne il baldacchino di San Pietro, ma pazienza. Ancora oggi il monumento è anche una chiesa ed è opportuno distinguere il turista dal fedele; sarà logisticamente possibile farlo? Oppure: far pagare un biglietto implica ingaggiare il personale addetto e predisporre una biglietteria. Sarà possibile una collocazione che non offenda il monumento né quel gioiello della piazza antistante?

Spero che prima dell’annuncio gli uffici ministeriali abbiano impostato la soluzione di questi e di altri possibili problemi. Resta il merito delle obiezioni, in particolare quella dell’assessore Bergamo, che può essere riassunta in questi termini: Roma non è un museo per turisti, il ministro guarda al patrimonio della città «come a un giacimento da sfruttare per la bigliettazione» (sic).

Altrove Bergamo ha anche aggiunto che «si può fare molto di più e di meglio che un parco archeologico nell’area centrale di Roma». Muove l’assessore una nobilissima visione idealistico-romantica. Dietro le sue parole traspare l’immagine di Chateaubriand che contempla immalinconito la mole del Colosseo illuminato da una pallida luce lunare.

Ho fatto a tempo a conoscerla anch’io la Roma di quando le rovine erano parte stessa della città, il fascino del Grand Tour poggiava anche su questo: la vita brulicante e chiassosa nelle strade e il grandioso silenzio del passato.

Quella Roma, quel silenzio, quella convivenza non ci sono più né torneranno più. Viviamo in anni in cui ovunque nel mondo, in particolare a Roma, è difficile perfino garantire la normale, ordinaria protezione dei monumenti – di manutenzione a Roma non è nemmeno il caso di parlare.

Quando attraverso a piedi Valle Giulia, Villa Borghese, il Pincio e vedo gli scempi commessi durante la notte mi chiedo sempre se sia una fatalità a volere una capitale così derelitta o se dipenda solo da un’amministrazione incapace o sopraffatta dagli eventi.

Presa ogni possibile precauzione, coordinati gli intenti tra Stato e Comune, ricavare un profitto da alcuni monumenti per destinarlo ad altri monumenti in un momento in cui le casse pubbliche sono vuote, mi sembra solo un volersi adeguare alla drammaticità del momento.

postilla

Sembra che la Costituzione del 1948 non sia stata abrogata, e che quindi sia ancora vivo l'articolo 9, il quale proclama che la Repubblica tutela il patrimonio storico e artistico della Nazione. Se è così le spese relative alla tutela di quel patrimonio costituiscono una delle ragioni per le quali esistono le istituzioni della Repubblica, esiste lo Stato, e i cittadini pagano le tasse appunto per consentire che lo Stato adempia ai suoi compiti. Augias sembra dimenticarlo. Anche lui paga un pedaggio a quella parte, ahimè sempre più numerosa, di intellettuali che sono stati conquistati dall'ideologia mercantilistica che pervade il nostro mondo. Ci piacerebbe che eminenti formatori dell'opinione pubblica, quando sembrano mancare i quattrini per far funzionare la sanità e la scuola, e tutelare i monumenti, sprecassero qualche parola, magari veementi, contro tutto ciò che ha «vuotato le casse» le spese inutili (Grandi opere), quelle in contrasto con la Costituzione (quelle per le guerre altrui) e mancassero al loro dovere di perseguire efficacemente l'evasione fiscale, comunque camuffata. Come afferma, giustamente, Tomaso Montanari

”». la Repubblica, 11 gennaio 2017 (c.m.c.)

Si chiamerà Parco archeologico del Colosseo. È la struttura che mette il sigillo alla riforma voluta da Dario Franceschini per i Beni culturali. Un luogo simbolo, che il ministro ha posto quale approdo di un percorso iniziato nel 2014, una riforma che ha fatto discutere e che, secondo alcuni, rinnova, secondo altri, stravolge l’assetto del patrimonio italiano. Dunque il Colosseo, il Foro romano, il Palatino e la Domus Aurea, oltre a una significativa fetta della Roma storica, formeranno un parco che verrà guidato da un direttore scelto con un bando internazionale, come accaduto per gli Uffizi o Brera.

Il parco non avrà più a che fare con la soprintendenza che aveva competenza anche sui beni storico-artistici e paesaggistici entro le Mura Aureliane e che appena nel marzo scorso era nata una volta disarticolata la storica soprintendenza archeologica di Roma, quella che in molti identificano con la figura di Adriano La Regina, dalla quale erano state scorporate l’Appia Antica, Ostia e il Museo nazionale romano.

Franceschini firmerà a giorni un decreto che interessa pure Pompei, ma solo perché anche nel sito vesuviano comparirà l’espressione “parco”.

Le questioni più rilevanti investono invece Roma, dove nel giro di pochi mesi si cambia ancora. Il ministro assicura che si semplifica, ma gli umori che si raccolgono negli uffici vanno in altra direzione. La soprintendenza, ora diretta da Francesco Prosperetti, perde i pezzi più prelibati (oltre 6 milioni i visitatori ogni anno, 60 milioni incassati, di cui 42 alla soprintendenza e 18 al concessionario), ma continuerà a essere mista e dotata di autonomia, e, invece di limitarsi al centro storico (cioè alla parte entro le Mura Aureliane) avrà competenza su tutto il territorio del comune, inglobando quelle che da marzo aveva assunto un’altra soprintendenza, ora soppressa.

Replicando a chi lo accusa di sottrarre fondi a Roma, Franceschini assicura che un 30 per cento di quel che incasserà il parco sarà destinato alla tutela di tutto il patrimonio romano, archeologico e non. E che un altro 20 per cento, come avviene da un anno, alimenterà il fondo di solidarietà che finanzia l’intero sistema museale. Per lo storico dell’arte Tomaso Montanari, la separazione dell’area archeologica centrale dalla soprintendenza «significa fare a pezzi una città, è un atto di ostilità verso Roma. È un grave errore che spinge il pedale sulla mercificazione del nostro patrimonio: e non è un caso che il ministro abbia confermato di voler ricostruire l’arena del Colosseo».

Franceschini sostiene di aver trovato un precedente di questa separazione in un provvedimento del 1939 di Giuseppe Bottai, che «istituì la soprintendenza di Foro Romano e Palatino, soprintendenza che solo negli anni Sessanta si è deciso di riunificare». Fra i favorevoli al provvedimento figura Giuliano Volpe, archeologo e presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali: «Il nuovo parco è coerente con il disegno complessivo della riforma, e spero produca miglioramenti non solo nella gestione ma anche per la ricerca: l’importante è che da ora ci si concentri sul consolidamento delle strutture di soprintendenze e poli museali, che sono in gravi difficoltà ».

Franceschini si dice certo che la nascita del parco favorisca un’intesa con il comune di Roma, che ha una propria sovrintendenza responsabile della gestione di parti importanti dell’area archeologica centrale. Ed esibisce quale prova il fatto che la perimetrazione del parco coincide con quella fissata negli accordi del 2015 con il Campidoglio (sindaco Marino).

L’attuale assessore alla cultura e vicesindaco Luca Bergamo esprime perplessità, mentre l’urbanista Giovanni Caudo, assessore con Marino, aggiunge che quella perimetrazione andava rivista, perché esclude la Passeggiata archeologica e le Terme di Caracalla, include il Circo Massimo, ma non un settore del Celio e di piazza Venezia.

Insomma pezzi importanti di città: l’area archeologica romana, insiste Caudo, «non è in un recinto, come a Pompei, ma è parte integrante dell’organismo urbano ».

«La parte del leone la gioca senza dubbio il nostro patrimonio archeologico e questo è un forte indizio rispetto al quale bisognerebbe guardare le cose da un’ottica più lungimirante: perché archeologia vuol dire contesto territoriale». la Repubblica, 8 gennaio 2017 (c.m.c.)

Il sensibile incremento di visitatori di musei e siti archeologici è un’ottima notizia.Su questo fronte come su altri gli italiani si rivelano assai migliori di quel che sembrano.

Certo non tutto, in queste statistiche, è facilmente interpretabile: nella classifica delle regioni, l’Abruzzo all’ultimo posto è forse effetto di una ricostruzione post- terremoto in perpetuo stand by, ma come mai la Liguria è al penultimo posto?

Ovvio che siano in testa Lazio, Campania, Toscana e Piemonte (quest’ultimo grazie al successo del Museo Egizio); ma come mai il Friuli sorpassa il Veneto con le sue mete di primissima qualità, a cominciare da Venezia?

E come si spiega che la Calabria, nonostante i Bronzi di Riace, figuri agli ultimi posti? Per non dire che manca la Sicilia, una lacuna che si spiega con la devoluzione dei beni culturali alla regione (agosto 1975).

Il ministro di allora (Spadolini) doveva essere ben distratto per accettare la sottrazione della più vasta regione d’Italia (certo non l’ultima per patrimonio culturale) al ministero fondato pochi mesi prima. Ma questa è una spiegazione meramente burocratica: non era proprio possibile, d’intesa con la Sicilia, includere anche i suoi dati in un bilancio di fine anno come questo? Potremo leggere prima o poi statistiche più ampie che includano in tutta Italia non solo (come queste) i musei statali, ma anche quelli comunali o privati?

Nonostante queste domande, il quadro è positivo, anche perché più visitatori vuol dire più introiti, e Franceschini ha assicurato che «queste risorse preziose torneranno interamente ai musei secondo un sistema che premia le migliori gestioni e al contempo garantisce le piccole realtà».

Più difficile è andare d’accordo col ministro quando interpreta la crescita dei visitatori come un successo della sua riforma. Incentrata sul divorzio fra tutela e valorizzazione, essa dà un ruolo privilegiato ai “super-musei”, con direttori selezionati con procedura speciale, ma comporta un marcato disinvestimento sulle Soprintendenze territoriali, sempre più povere di personale e di risorse anche se sempre più cariche di incombenze, dalle autorizzazioni paesaggistiche all’archeologia preventiva. Il ministro canta vittoria, ma concentrandosi sui musei li tratta come un sistema a sé, un arcipelago di isole ritagliate dal territorio nazionale. Anzi, tra i siti archeologici cita solo quelli già assimilati a un “super-museo” (Pompei, Paestum) o quella porzione di Roma (Colosseo e Fori) che intende scorporare dalla Soprintendenza per farne un’entità a parte, dato che vi si concentrano visitatori e introiti.

Parlando solo dei musei statali, escludendo dal computo quelli siciliani perché sono etichettati come regionali, puntando sui musei ma non sul territorio, il ministro si comporta come l’amministratore delegato di un’azienda che abbia per filiali i super-musei e, sì, una rete di «piccole realtà», più che come l’interprete primario dell’obbligo costituzionale di tutela del «paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione» (art. 9). Ma lo stesso fatto che in questo incremento di visitatori «la parte del leone la gioca senza dubbio il nostro patrimonio archeologico» è un forte indizio che bisognerebbe guardare le cose da un’ottica più lungimirante: perché archeologia vuol dire contesto territoriale. Nessuno può credere seriamente che i visitatori dei musei ci vadano per rendere omaggio, quasi fosse un referendum, alla riforma Franceschini.

La peculiarità del patrimonio culturale italiano è la sua diffusione capillare sul territorio, la perfetta osmosi fra il “piccolo” e il “grande”, fra i musei e le città, l’identità di paesaggio e tessuto storico-artistico, il radicamento al suolo di una stratificazione millenaria che non si esprime solo nei siti visitabili, ma nei dati archeologici (a rischio) che potrebbero spiegarli meglio.

Se vogliamo trattare come adulti gli italiani che visitano i musei, dobbiamo pensare che lo fanno perché sempre più consapevoli di questa trama minuta. Perciò il ministro non dovrebbe sbandierare i musei mentre le Soprintendenze territoriali sono abbandonate al loro destino, con risorse finanziarie e umane peggio che insufficienti. Dovrebbe sapere che l’instabilità provocata dalla sua raffica di riforme non giova al funzionamento delle istituzioni, e che musei e soprintendenze, in piena simbiosi, vanno intesi come enti di ricerca territoriale.

Dovrebbe correggere gli aspetti più pesantemente burocratici delle sue riforme, per esempio la separazione amministrativa dei musei “minori” dai loro contesti territoriali, o i massicci trasferimenti degli archivi delle Soprintendenze (strumento essenziale di tutela), ma anche di depositi, laboratori di restauro e tecnici dedicati. Dovrebbe tenere in conto che i 500 nuovi funzionari in corso d’assunzione sono una goccia nel mare, forse un decimo del fabbisogno risultante dai pensionamenti di questi anni. Dovrebbe aver ben chiaro che il progettato frazionamento del territorio di Roma sforbiciandone ad arbitrio le aree più ricche di visitatori e d’introiti è contrario alle esigenze della tutela e a quelle della ricerca, moltiplica burocraticamente le competenze nella stessa città e rende più arduo il dialogo con il Comune per un accordo sugli sterminati beni culturali della città (il maggior centro archeologico del mondo).

Roma è, anzi, la cartina di tornasole delle intenzioni del ministro. Colosseo e Fori non sono un “parco archeologico”, sono un pezzo di città da integrare pienamente nel tessuto dell’Urbe recuperandone l’unità di storia e di vita. È quel che ha detto il vicesindaco Bergamo, prendendo atto dell’unicità di Roma e del suo immenso potenziale, ed è difficile che il ministro non sia d’accordo. Un unico riferimento ministeriale per il dialogo con il Comune, Roma come laboratorio, dai grandi musei alle più minute emergenze. Dove mai si può immaginare un progetto più stimolante?

«Cominciamo con la cultura: come sta il nostro patrimonio artistico e monumentale? Lo abbiamo chiesto a Salvatore Settis, archeologo e storico dell'arte». Il Fatto Quotidiano 4 gennaio 2017 (c.m.c.)



Professore, sul Fatto qualche settimana fa ha scritto che le nostre città si stanno trasformando in un “agglomerato di periferie, divorando al tempo stesso il loro cuore antico e le circostanti campagne”. Cosa si può fare per arginare il fenomeno?

Il trionfo delle periferie ha una conseguenza particolarmente negativa nello svuotamento dei centri storici, i quali più si spopolano più sono oggetto di operazioni di gentrification, cioè di mutazione commerciale. Si stanno creando confini interni alla città, che sono confini di natura sociale. La questione non può essere risolta né dal punto di vista della tutela, né da quello del turismo. Bensì creando occasioni di lavoro, soprattutto per i giovani, che abbiano a che fare con i centri storici e politiche abitative che incoraggino a vivere nei centri. L'ho scritto nel mio libro su Venezia, ma vale per tutte le città.

Il ministero si sta occupando molto della valorizzazione del patrimonio in chiave turistica. Trova dei limiti a questa politica?
In Toscana si vede ricorrere dappertutto a una dizione, anche a Pisa, "centro commerciale naturale" che poi sarebbe il centro storico. Cioè la forma urbana, in cui vivevano Dante, Michelangelo, Giotto e Ariosto, sarebbe l'anticipazione dei centri commerciali all'americana: una perversione che si sta diffondendo. Al turista bisognerebbe offrire in primo luogo la civiltà italiana che non è fatta di monumenti vuoti, è fatta di centri storici e delle persone che li vivono. L'unico vantaggio - ma di questo non abbiamo ancora visto nulla - dell'aver accorpato il ministero dei Beni culturali con quello del Turismo, lo avremmo se la promozione turistica partisse dall'autocoscienza dei cittadini che abitano le città; non certo trasformando le città in luna park per turisti.

Che si può fare?
Non puntare sulle mete turistiche già famose, come Pompei o Firenze, ma distribuire i flussi turistici in tutto il Paese. Non solo Venezia, ma anche Vicenza.

Il Mibac sta promuovendo le aperture straordinarie dei Musei e sembra che i numeri gli diano ragione. È la direzione giusta?
Certo, tenere aperti i musei il più possibile è giusto. Ma dovrebbe valere anche per le biblioteche e gli archivi che sono parte di un sistema unico, ma che non hanno un trattamento simile. La Biblioteca universitaria di Pisa, per motivi misteriosi, è stata chiusa dopo il terremoto in Emilia. I volumi sono stati deportati a Lucca: per un numero imprecisato di anni saranno inutilizzabili. E poi: quali musei? Parliamo solo degli Uffizi? Se sì non mi va bene. Dovremmo esplorare i magazzini dei nostri musei che sono vere e proprie riserve auree da cui si potrebbero estrarre nuove opere da esporre. Sono tutte cose che si fanno, ma si fanno ancora troppo poco.

Mancano le risorse.

Sì, ma attenzione: non solo economiche, anche umane. Il ministero ha subito una pesantissima emorragia di personale. I 500 nuovi assunti, che dovrebbero diventare operativi in questo anno, non bastano a coprire nemmeno un quarto dei pensionamenti degli ultimi anni. Ci sono tantissimi laureati in Storia dell'arte e Archeologia che devono cercare lavoro all'estero e potrebbero essere impiegati qui. Questo sangue nuovo potrebbe essere immesso nel nostro sistema della tutela e dei musei: da loro potrebbero nascere nuovi progetti, e non solo più turisti.

Le Soprintentenze sono state accusate di essere la causa di ogni male, alimentando la burocrazia a dismisura e facendo lievitare i tempi d'intervento. Poco prima del referendum, Maria Elena Boschi ha detto in tv che il ministro Franceschini le sta smantellando: una vecchia idea di Renzi.
Il ministro sta attuando a rate una riforma mai annunciata nel suo insieme: l'interpretazione che ne ha dato la Boschi rischia di essere quella giusta. Le Soprintendenze sono state svuotate di personale, trasferito alle istituzioni museali a scapito della tutela del patrimonio diffuso sul territorio. Bisogna invece calibrare le risorse umane delle Soprintendenze in base ai compiti di tutela che hanno, mentre in questi anni è accaduto l'inverso. Addirittura poi con l'abolizione delle Soprintendenze archeologiche accorpate a quelle "olistiche" - parola vuota - la tutela archeologica del territorio, che richiede una presenza capillare, praticamente non esiste più.

Lunedì ci sarà una riunione del Consiglio superiore dei Beni culturali in cui il ministro annuncerà il suo piano di spaccare in due la Soprintendenza di Roma, per "isolare" le competenze su Colosseo e Fori imperiali perché è lì che si fanno i maggiori incassi. Ma è uno sbaglio clamoroso: almeno dai tempi di Augusto Roma è sempre stata una, e l'area archeologica centrale va integrata nello spazio urbano, non tagliata via. Anche per non moltiplicare gli interlocutori nel dialogo, necessario, con la Sovrintedenza che dipende dal Comune. Mi pare che così si accentui la burocrazia, anziché ridurla. Inoltre, il vicesindaco Bergamo qualche giorno fa sul Corriere ha detto che visto che gli introiti di quest'area sono molto alti, il rischio è che quanto eccede la sua gestione- circa 40 milioni di euro - venga redistribuito fuori Roma.

È favorevole al mecenatismo dei privati? L'ultimo caso è quello del restauro, avvenuto con fondi privati, della scalinata di Trinità dei Monti. Si è parlato addirittura di una cancellata.
Sono contrarissimo: se sotto il Pantheon ci sono due persone che dormono in sacco a pelo immagino che negli ultimi Duemila anni sia accaduto un numero di volte incalcolabile. Più che mettere inferriate, meglio sarebbe fare in modo che le persone non debbano dormire all'addiaccio. In Italia c'è grande confusione tra sponsorizzazione e mecenatismo, che è l'uso di capitali privati per iniziative culturali, senza profitto. Un'ottima cosa, che qui accade molto meno rispetto ad altri Paesi perché i meccanismi di defiscalizzazione sono arretrati. In Francia funziona bene perché i vantaggi fiscali ci sono anche per le micro-donazioni: il segreto è questo. Proviamo a copiarli.

Il Fatto Quotidiano, 30 dicembre 2016 (p.d.)

La Sardegna è un formidabile museo all’aperto. Soltanto i misteriosi Nuraghe sono 8.815. Mentre i grandi Musei da “far fruttare” non esistono. Il Compendio Garibaldino di Caprera non ha un direttore, il Museo Sanna, archeologico ed etnografico, di Sassari è diretto da un geometra riqualificato antropologo. Senza direttore pure l’Antiquarium di Porto Torres e il Museo di Nuoro. Tutti offrono oggi servizi peggiori rispetto a quelli ante-riforma. Due anni fa, con la gestione della Soprintendenza, l’Archeologico di Cagliari ha quasi raddoppiato visitatori e incassi.

“Il Polo Museale in Sardegna creato artificiosamente”, mi dice Igor Staglianò, autore di memorabili inchieste per la Rai (l’ultima sui parchi nazionali semi-abbandonati), “ha avuto una ben misera dotazione, 150 mila euro in tutto. C’è un solo sparuto archeologo per l’intero circuito. La Soprintendenza ne contava 11 prima della riforma. Pochi e però l’unione faceva la forza. Separando i musei archeologici dal vero museo sardo che è il territorio, il ministero ha valorizzato, da Roma, una generale debolezza.”

Dedolante la situazione degli Archivi: non ci sono soldi per la digitalizzazione; gli Archivi di Stato sono retti da facenti funzione; alla funzionaria di Cagliari hanno scaricato pure Oristano. L’unica dirigente archivistica dell’isola deve pensare anche a guidare la conservazione degli archivi di Comuni, scuole, ospedali, ecc. A fronte di 150 mila euro richiesti ne ha ottenuti sei mila. A quattro Soprintendenze ne sono subentrate due che però devono tutelare 24.100 chilometri quadrati (più della Lombardia) con 18 sedi operative e depositi archeologici enormi (quattro statali e una trentina comunali), con un patrimonio alimentato da diverse civiltà mediterranee. Le due Soprintendenze “olistiche” hanno avuto da Roma 450 mila euro con cui tutelare l’isola, 1800 km di coste, migliaia di Nuraghe e aree di scavo, oltre a manutenzioni, bollette, impianti di sicurezza, ecc. Da piangere. Lavori di scavo? Messe in sicurezza? Zero euro. Auto? Le due Panda presto verranno ritirate: da un anno nessuno riesce a pagarne il leasing. Fra 1971 e 2011 le abitazioni (moltissime seconde case), sono balzate da 392 mila a 960mila(+ 136%). Percontro la Soprintendenza del Nord conta su 3 architetti (2 a tempo parziale), a fronte di circa 7.500 richieste annue di parere per nuove licenze e condoni paesaggistici: a pieno organico, 12 pratiche e mezzo a testa al giorno. Con l’umiliazione del silenzio/assenso (voluto da Renzi) e guasti paesaggistici inesorabili. A quei pochissimi custodi del paesaggio (pagati 1700 euro al mese e anche meno) toccano pure conferenze dei servizi, dichiarazioni di interesse culturale, pareri per l’impatto ambientale, progetti e direzioni dei restauri, manutenzione delle sedi.

La giunta Soru, col validissimo coordinamento dell’urbanista Edoardo Salzano, aveva approvato nel 2004 rigorosi piani di tutela delle coste isolane dopo un tempestivo decreto “salva coste.” La giunta Coltellacci (centrodestra), pur provandoci con forza, non è riuscita a devitalizzare il tutto. “Se non altro”, commenta lo stesso Salzano “sono state eliminate dalle previsioni dei piani urbanistici vigenti 15 milioni di metri cubi”. Una colata di cemento.

Nel sud i Musei sono soprattutto archeologici. Nelle chiese, nelle abbazie, o nei grandi palazzi, sta ancora la maggior parte delle pale, delle tele e delle tavole, degli affreschi, delle statue, insomma quanto al centro-nord si trova invece nelle Pinacoteche, statali e civiche. E qui la “riforma” Renzi-Franceschini dimostra in pieno tutta la sua assurdità. Come scindere i Musei archeologici dagli scavi? In Puglia, alla città di Taranto sede del bellissimo Museo nazionale della Magna Grecia e pure, da fine ’800 della Soprintendenza archeologica dell’intera Puglia, quest’ultima è stata “scippata”a vantaggio di Lecce e di Foggia. La creazione di tre Soprintendenze accorpate ha burocraticamente diviso fra loro territori omogenei come quelli abitati da Peucezi e Dauni. Il Chiostro del Convento di San Domenico (dove c’era la Soprintendenza Archeologica unica della Puglia, coi poderosi archivi regionali da fine ’800) è stato assegnato al Polo Museale che però non pare per niente interessato. Nell’area metropolitana di Bari ci dovrebbero essere cinque archeologi e però due soli operano qui perché altri due sono occupati altrove e uno ha ricevuto dal Polo anche l’incarico di dirigere il Museo di Manfredonia. Un solo archeologo a Foggia, altri due sono “in prestito” da Bari.

In Campania alla ex Soprintendenza di Caserta e Benevento i due storici dell’arte presenti nel 2015 sono andati in pensione. La Soprintendenza unica di Salerno e Avellino ha pochi archeologi perché qui sono migrati al Polo dove è confluita una decina di piccoli musei archeologici. Fanno incassi? No, perciò li aspettano giorni cupi. Migrano gli esperti e però gli archivi restano dove sono e quindi i primi devono trasformarsi in corrieri. Gli archivisti sono sempre meno e quindi le pratiche tardano anche più di dieci giorni. L’appena istituito Parco Nazionale dei Campi Flegrei ingloba solo i monumenti, non il loro contesto, ma sono confluiti in esso pure monumenti “minori” chiusi al pubblico. In alcuni hanno sede gli uffici periferici della tutela che dovrebbero traslocare a Napoli. Un caos per la gioia degli abusivi, dei tombaroli, dei camorristi.

la Repubblica/Genova online , 26 dicembre 2016 (c.m.c.)

I turisti potranno tornare a popolarlo durante le feste, le scolaresche hanno ripreso i laboratori nei giorni scorsi. Mentre sul piazzale della fortezza sono ripartiti gli scavi grazie agli studenti dell’alternanza scuola lavoro: si lavora alla ricerca della facciata dell’antica cattedrale della città, che era arroccata quassù e i genovesi distrussero nel ‘500 per costruire la loro fortezza.

Il Priamar si rianima: grazie al Museo archeologico di Savona finalmente riaperto. Storia di un polo culturale che sembrava sacrificato sull’altare dei tagli, che è tornato a vivere grazie ai volontari, ma che vivrà solo un mese.
Il Museo archeologico era stato chiuso dal Comune, senza preavviso, a fine ottobre, per gli ammanchi economici e la decisione di sacrificare anche la cultura in nome della chiusura del bilancio. Tagliando al museo il 100% dei fondi, 54 mila euro l'anno giudicati non più sostenibili.

Ora si è ripartiti, mettendo una pezza: a riaprirlo è stato a titolo gratuito, ma solo per un mese, l'Istituto internazionale di Studi liguri, la onlus che lo fondò nel 1990 e lo ha fatto diventare un fiore all'occhiello della città, appena inserito tra i finalisti del Riccardo Francovich 2016, prestigioso premio per musei e parchi archeologici italiani.

Ma da metà gennaio che ne sarà del sito? Riaprirà stabilmente, magari grazie a sponsor privati, o diverrà un simbolo della difficoltà, incapacità, di gestire e mettere a frutto le risorse del territorio? «Noi chiediamo prima di tutto al comune un passo indietro – spiega Carlo Varaldo, docente di archeologia all'Università di Genova e responsabile del museo – Ci ripensi, e non ci tagli tutti i fondi, distribuisca i tagli con equità».

Anche perché l'Istituto ha dovuto licenziare i 3 dipendenti part time del museo, che facevano da guide e lavoravano alla schedatura dei reperti. «Ma di persone competenti come loro c'è bisogno, non possiamo affidarci solo al volontariato o a un dipendente comunale che viene ad aprire il museo qualche ora a settimana – prosegue Varaldo – Il museo archeologico non è un fossile, è una realtà viva, che deve crescere, tra attività di ricerca, corsi, laboratori, stage degli studenti universitari. Solo dalle scuole abbiamo decine di prenotazioni per visite guidate nel nuovo anno: speriamo di poterle accogliere e non dover chiudere di nuovo i battenti, interrompendo anche gli scavi».

Il tira e molla continua. Certo, bisogna tenere conto delle difficoltà economiche del Comune, della nuova giunta di centrodestra che dalla precedente ha ereditato un indebitamento per 100 milioni: e ha tentato di superarlo approvando un bilancio severo su tante voci, non solo al capitolo cultura.

Il museo archeologico la sindaca Ilaria Caprioglio dice di non volerlo chiudere, ma ricorda anche che a differenza della Pinacoteca e del museo della Ceramica, che espongono beni comunali, qui il materiale è di proprietà dello Stato: passando di fatto la palla alla Soprintedenza. E allora, fra i tre "litiganti", ecco l'opzione sponsor: «La proposta potrebbe essere quella di mantenerci trovando sostegni privati – continua Varaldo, pensando ad esempio a Costa Crociere che porta migliaia di turisti all'anno e potrebbe essere interessata – Ma ci vuole tempo.

E' successo tutto troppo in fretta, abbiamo saputo della chiusura a fine ottobre, non abbiamo avuto il tempo per organizzarci. Del resto, non possono neanche accusarci di essere poco virtuosi: siamo arrivati ad accogliere 6 mila visitatori l'anno, e mentre in media in Italia le entrate dei musei coprono solo il 7% delle spese, noi copriamo da soli più del 20%. Ma non si può pensare di arrivare al 100%». C'è preoccupazione, dietro le porte del museo. Anche perché piove sul bagnato: i rapporti con il comune negli ultimi anni sono stati tesi, fatti di ricorsi al Tar e lettere al veleno.

Qualche anno fa un bando per riassegnare la gestione del museo, vinto per pochi punti da un pool di cooperative savonesi che avrebbero dovuto subentrare all'Istituto. Varaldo e colleghi però hanno fatto ricorso al Tar e hanno avuto la meglio. «Ma proprio quando avremmo dovuto ricevere l'assegnazione definitiva, il concorso è stato annullato dal comune per i problemi economici», spiega ancora il professore.

E siamo ad oggi. «La nostra è una realtà in evoluzione, abbiamo appena terminato un periodo di ristrutturazione e abbiamo nuovo materiale da mostrare – conclude – Abbiamo reperti che vanno dall'età del ferro al Medioevo: questo luogo è espressione della città, della sua storia, del suo guardare avanti. Sarebbe un peccato interrompere il percorso».

, 16 dicembre 2016. eddyburg aderisce e invita ad ampliare la diffusione

APPELLO IN DIFESA DI CHI DIFENDE LA BELLEZZA

Quanto costa difendere la bellezza?

La Bellezza non ha prezzo ma proteggerla costa fatica e impegno. Per una volta non vi parliamo della tenacia e della dedizione con cui tanti si battono per rendere più belle le proprie comunità, vogliamo invece parlarvi del prezzo che si è talvolta costretti a pagare per difendere le ragioni della tutela dell’ambiente, della salvaguardia del paesaggio e della salute dei cittadini, cioè per fare tutto quello che, con il sostegno dei propri soci, di altre associazioni e di tanti altri cittadini, fa da sempre Legambiente Sicilia, da Lampedusa a Ragusa, dalle Isole Eolie a Siracusa.

Quanto costa oggi difendere la Bellezza a Siracusa? La risposta è: costa 18.000 euro. A tanto ammonta la condanna alle spese legali inflitta a Legambiente Sicilia per avere difeso le Mura Dionigiane e il Castello Eurialo dalla costruzione di un centro commerciale e le casse del Comune (e quindi di tutti i siracusani) da un risarcimento senza precedenti.

Dopo essere intervenuta nelle diverse sedi giudiziarie per contrastare la realizzazione del centro commerciale che sfigura le grandi vestigia della fortificazione greca, Legambiente Sicilia in una delle sue numerose iniziative per evitare questa aggressione alle risorse della città, ha impugnato dinanzi alla Corte di Cassazione la sentenza con la quale il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia (C.G.A.R.S.) aveva condannato il Comune a pagare il risarcimento del danno in favore della società Open Land per avere in un primo momento negato l’autorizzazione a realizzare un centro commerciale sulla Balza di Epipoli, a due passi da una delle aree più delicate del patrimonio monumentale archeologico siciliano.

Legambiente si è caricata la responsabilità civile di contrastare, a fianco del Comune, un enorme esborso di risorse pubbliche per il danno che il Comune avrebbe causato all’Open Land per avere inizialmente rigettato un’istanza di concessione edilizia che, come ha riconosciuto il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia (C.G.A.R.S.), “non avrebbe potuto in alcun modo essere accolta difettando in radice i presupposti urbanistici per il suo legittimo rilascio” (Sentenza n. 605/13 del 20.06.13) ma che in seguito è stata rilasciata per silenzio - assenso. Nelle diverse fasi del processo, il contributo degli esperti e degli avvocati di Legambiente è stato decisivo per fare ridimensionare le pretese risarcitorie della società (quasi 35 milioni euro) per oltre sedici milioni.

Respingendo il ricorso la Cassazione, con una decisione che lascia sconcertati e che non ha precedenti nei confronti di associazioni di volontariato, ha condannato Legambiente Sicilia al pagamento delle spese processuali per l’importo di 12.000 euro oltre accessori (di qui i 18.000 euro), dei quali il gruppo che pretende il risarcimento milionario ha subito intimato il pagamento.

Siamo al summum jus summa injuria: la concessione edilizia per la costruzione di un enorme centro commerciale pur in contrasto con il piano regolatore ed i vincoli archeologici rilasciata in virtù di un silenzio - assenso formatosi per circostanze ancora da chiarire.

Senza contare che è ancora pendente sempre dinanzi al giudice amministrativo un altro contenzioso in cui Legambiente è costituita a difesa dello stesso importantissimo sito archeologico dalla possibile costruzione di un complesso edilizio (70 ville!), nel quale è stata avanzata nei confronti della Regione Siciliana una richiesta di risarcimento di oltre 200 milioni di euro per avere negato la Soprintendenza il rilascio del nulla-osta.

In tutti questi anni Legambiente Sicilia, con il supporto del suo Centro di Azione Giuridica (avvocati ed esperti che prestano il loro lavoro in favore dell’associazione) è stata in prima linea nel denunciare le illegalità ambientali e nel difendere il territorio e la salute dei cittadini da opere inutili e dannose. Ricordiamo solo alcune delle battaglie vinte nel corso del tempo anche grazie alle iniziative in sede giudiziaria di Legambiente:

- Piano regionale dei Rifiuti del governo Cuffaro: annullato grazie a un ricorso alla Corte di Giustizia Europea. Prevedeva quattro mega inceneritori in Sicilia (uno ad Augusta per bruciare 280.000 ton/anno di spazzatura);
- difesa delle Riserve naturali storiche di Sicilia: Vendicari (Noto), Zingaro (Trapani), Stagnone di Trapani, Irminio (Ragusa), Timpa (Acireale);
- contrasto al Ponte sullo Stretto di Messina, con decine di ricorsi ed un impegno nelle sedi giudiziarie di Catania, Reggio Calabria e Roma;
- sospensione dei lavori di costruzione del M.U.O.S., l’impianto militare di comunicazione satellitare da realizzare dentro la sughereta di Niscemi;
- limitazione della Caccia in Sicilia: con una serie di ricorsi Legambiente è riuscita a fare riconoscere la previsione della procedura di valutazione di incidenza ambientale nelle aree di importanza naturalistica (SIC e ZPS);
- difesa con successo (sino alla Corte Costituzionale) del Piano Paesaggistico delle Isole Eolie;
-difesa dei Piani Paesaggistici di Siracusa e di Ragusa, a tutela dell’ambiente e del paesaggio degli Iblei;
- riconoscimento della legittimazione ad agire in giudizio da parte di associazioni o comitati locali, che proteggono l’ambiente, la salute e la qualità della vita delle popolazioni residenti su tale circoscritto territorio.

Chiunque è in grado di capire che per un’associazione di volontariato l’esborso di 18.000 euro è un onere gravosissimo: rischia di metterla in ginocchio, di comprometterne le attività correnti e ipotecarne il futuro, scoraggiando le concrete efficaci azioni di tutela che preoccupano chi opera contro il Bel Paese. Questa condanna, che riteniamo ingiusta e sproporzionata, rischia di impedire a Legambiente Sicilia di sostenere le mille battaglie in cui sono impegnati su tutto il territorio regionale i propri circoli, per primi quelli di Siracusa, Priolo Gargallo, Augusta e Melilli Ragusa, Modica, Messina, Capo d’Orlando, Caltanissetta, Enna, Agrigento, Trapani, Palermo che insieme a associazioni e comitati operano in territori da decenni minacciati dall’inquinamento industriale, dal malgoverno e dalla svendita del territorio e dei beni culturali.

Per questo, vi chiediamo di sostenere la raccolta fondi in favore di Legambiente Sicilia “Diciottomila Azioni per la Salvezza della Bellezza”. Con la sottoscrizione di azioni di 1 euro ciascuna sul conto corrente con il seguente Codice Iban: IT56B0200804610000102308987), si potrà aiutare Legambiente Sicilia a estinguere il debito di 18.000 euro per la condanna subita e con essa tutte quelle associazioni, comitati, gruppi di cittadini impegnati nella coraggiosa battaglia per i beni comuni.

Quanto più vasta sarà la partecipazione all’iniziativa tanto più forte diremo ai Distruttori di Bellezza e ai Ladri di Futuro che non possono agire indisturbati. Servirà a ricordargli che non intendiamo in alcun modo abbandonare il campo, rinunciare all’azione in tutte le sedi politiche e giudiziarie che per le Associazioni Ambientaliste e le ‘formazioni sociali” richiamate dall’Art. 2 della Costituzione, rappresenta un mezzo irrinunciabile per affermare gli interessi primari della collettività, della Salute (art.32 della Costituzione), della Cultura e del Paesaggio (art.9 della Costituzione) e per i cittadini una garanzia democratica fondamentale.

Dobbiamo far sentire la voce del Paese della speranza nel cambiamento, delle coscienze per i beni comuni aggrediti e minacciati, lottare per una giustizia di garanzia in un mondo che vogliamo continuare a cambiare.
«Dobbiamo ricucire ciò che è lacerato, rendere immaginabile la giustizia in un mondo evidentemente così ingiusto» (Albert Camus)

Patrizia Maiorca
Beatrice Basile ex Soprintendente ai BB AA CC di Siracusa

Sebastiano Tusa Soprintendente del Mare Palermo – archeologo

«Non solo non si scrive che l'interesse strategico degli italiani è non morire affogati nelle alluvioni da cemento. Ma si scrive, al contrario, che l'interesse strategico nazionale è ancora cemento, sempre cemento, solo cemento. Un cemento sul quale deciderà solo il governo centrale». La Repubblica, blog "Articolo 9", 26 novembre 2016 (c.m.c.)

In Italia le alluvioni autunnali sono tutto tranne che imprevedibili. Sono la norma: a causa del dissesto del territorio nazionale, e del mutamento climatico globale.

Si può fare qualcosa? Sì, si DEVE fare qualcosa. Si deve finalmente comprendere che l'unica Grande Opera Utile, l'unica opera di interesse strategico nazionale è la messa in sicurezza del territorio. Il che include anche la prevenzione antisismica. Oltre al dovere di fare la propria parte in un'accelerazione del superamento dell'uso dei combustibili fossili, prima causa del riscaldamento globale e della tropicalizzazione del nostro clima, monsoni inclusi.

Per fare tutto questo non ci sarebbe bisogno di cambiare la Costituzione: basterebbe cambiare la classe politica.

E invece cosa fa questa classe politica? Cambia la Costituzione scrivendo che l'interesse strategico del Paese sta nella «produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia e di infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale», (articolo 117 come riscritto dalla riforma a firma Renzi, sulla quale voteremo il 4 dicembre).

Non solo non si scrive che l'interesse strategico degli italiani è non morire affogati nelle alluvioni da cemento. Ma si scrive, al contrario, che l'interesse strategico nazionale è ancora cemento, sempre cemento, solo cemento. Un cemento sul quale deciderà solo il governo centrale.

Roberto Saviano ha scritto in Gomorra: «La Costituzione si dovrebbe mutare. Scrivere che si fonda sul cemento e sui costruttori. Sono loro i padri. Non Parri, non Einaudi, non Nenni, non il comandante Valerio. Cementifici, appalti e palazzi quotidiani: lo spessore delle pareti è ciò su cui poggiano i trascinatori dell’economia italiana». Ecco, ora ci siamo arrivati davvero: e anche se ci dicono che stiamo andando avanti, veloci verso il futuro, si tratta di un terribile salto mortale in un passato di cui speravamo di esserci liberati per sempre. Un passato in cui «sviluppo» era uguale a «cemento». In cui per «fare» era necessario violare la legge, o aggirarla. In cui i diritti fondamentali delle persone (come la salute) erano considerati ostacoli superabili, e non obiettivi da raggiungere.

Non è dunque un caso se il Presidente del Consiglio ha aperto la campagna del Sì annunciando la costruzione del Ponte sullo Stretto di fronte ad una platea di imprenditori del cemento. È questo il vero interesse che guida la politica, come si apprese ai tempi dello Sblocca Italia e delle relative dimissioni dei ministri Lupi e Guidi. In altri termini: la Questione Ambientale è una parte della Questione Morale.

Lo capì perfettamente Enrico Berlinguer, che parlando al Comitato Centrale del Partito Comunista del 4 giugno 1974 disse che bisognava porre fine «al sistematico sacrificio degli interessi pubblici più sacrosanti (la salute, la difesa del paesaggio e del patrimonio artistico, l’ordinato sviluppo urbanistico, l’onesto rispetto della legge e dell’equità) agli interessi privati, di parte, di corrente, di gruppi e uomini nella lotta per il potere».

Se piove non si può dire «governo ladro». Ma se la pioggia fa i danni che fa oggi, invece si può dire. Si deve dire.

«Dario Franceschini ha smantellato la tutela pubblica del patrimonio: attuando così il programma di un governo che, simultaneamente, smantella la scuola pubblica, i diritti dei lavoratori, la Costituzione stessa». il manifesto, 25 novembre 2016 (c.m.c.)

In Valnerina è rimasto sotto la macerie anche l’articolo 9 della Costituzione della Repubblica.

Non si riesce a trovare, almeno nella storia postunitaria, un disastro paragonabile: dopo il 24 agosto non siamo riusciti non dico a puntellare le chiese – e nessuno oggi può dire cosa sarebbe successo se fosse stato fatto –, ma nemmeno ad asportarne le opere mobili: pale d’altare (spesso straordinariamente importanti), sculture, oreficerie, arredi. Mentre il ministro Dario Franceschini farneticava di ‘caschi blu della cultura’, non succedeva assolutamente nulla.

E dopo la terribile scossa del 30 ottobre, ancora nulla: fino a che i sindaci non hanno invocato a gran voce il diritto di fare da soli. È quel che il commissario Vasco Errani ha concesso: tornando indietro di oltre un secolo, è passata l’idea che non ci sia bisogno di tecnici per gestire le emergenze del patrimonio culturale. Come far operare al sindaco un ferito grave, perché l’ambulanza, da giorni, non arriva.

E così oggi ammiriamo le ruspe sui cumuli degli affreschi, e vediamo che sono i carabinieri (peraltro eroici, come sempre) a portar via le opere mutile dalle chiese in rovina. Così: adagiandole sui prati bagnati, senza fare una fotografia, senza mezzi speciali, senza alcun protocollo. Così, come se fossimo non l’Italia – patria della più avanzata tutela del patrimonio –, ma l’ultimo fra i più barbari dei paesi.

Ma com’è possibile che siamo arrivati a questo punto di non ritorno?

È stata una scelta precisa, perseguita con tenacia. Come ha detto qualche giorno fa Maria Elena Boschi – trovandosi in perfetto accordo con Matteo Salvini, sulle poltrone di Porta a Porta –: «Abbiamo fatto una riforma della pubblica amministrazione per ridurre le complicazioni sul territorio. […] Va benissimo darsi altre sfide, io sono d’accordo diminuiamo le soprintendenze, lo sta facendo il ministro Franceschini. Aboliamole, d’accordo, lavoriamoci dal giorno dopo: disponibilissimi a discutere di tutto».

Una volta tanto la Boschi ha detto la verità: la riforma Franceschini (una riforma concepita in odio alle soprintendenze, su mandato di un presidente del Consiglio che ha scritto che «soprintendente è la parola più brutta del vocabolario della burocrazia») ha dato il colpo di grazia alla tutela. Le soprintendenze cosiddette ‘olistiche’, la disarticolazione degli archivi delle vecchie soprintendenze, il rimescolamento deliberato di un personale che oggi si trova a tutelare un territorio che gli è ignoto, il dirottamento di tutti i fondi sui «grandi attrattori turistici», lo sbilanciamento estremo verso la valorizzazione (con il tentativo di introdurre in Costituzione anche il concetto di ‘promozione’, affidandolo alle Regioni), la sottoposizione ai prefetti, il mancato turn over (i 500 che prenderanno servizio nel 2017 non basteranno neanche a rimpiazzare l’ultima ondata di pensionamenti, e in Umbria c’è oggi un solo archeologo!). Tutto questo, unito all’atavica carenza di fondi e di personale, ha condotto al disastro che è sotto gli occhi di tutti.

Dario Franceschini ha smantellato la tutela pubblica del patrimonio: attuando così il programma di un governo che, simultaneamente, smantella la scuola pubblica, i diritti dei lavoratori, la Costituzione stessa. Ma in questo caso c’è stato un imprevisto: il terremoto, che ha svelato troppo presto che il sistema della tutela, semplicemente, non esiste più. Passata l’emergenza, d’altra parte, si farà leva anche su questo tragico tornante: e si dirà che se i sindaci sono stati capaci di gestire l’emergenza, allora potranno a maggior ragione governare la tutela ordinaria. E così finalmente si potranno chiudere le soprintendenze.

La testa di Sandro Bondi rotolò per un danno infinitamente meno grave di quello ora provocato dalle scelte scellerate di Dario Franceschini: ma quest’ultimo gode di una vastissima indulgenza mediatica, dovuta al fatto che, controllando ancora i gruppi parlamentari del Pd, viene considerato una riserva strategica per il dopo 4 dicembre, comunque vada. Dovremmo, tuttavia, ricordarci, con Voltaire, che «i particolari e i congegni della politica cadono nell'oblio, ma le buone leggi, le istituzioni e i monumenti prodotti dalle scienze e dalle arti sempre sussistono».

Ebbene, se vogliamo che il nostro patrimonio culturale abbia qualche speranza di sussitere ancora, è vitale e urgente cambiare ministro, e cambiare politica. Anche su questo si vota, il 4 dicembre.

Il Fatto Quotidiano online, 23 novembre 2016 (p.d.)

Ci sono 4.764.900 euro che il Gabinetto del ministro ha stanziato per le “Attività volte a garantire il conseguimento delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo”. Poco di più di 36,2 milioni di euro vanno ai lavori pubblici, quasi 12,3 milioni di euro per la tutela dei beni archeologici e poco più di 175mila euro per la sicurezza del patrimonio culturale a fronte di emergenze e calamità di qualsiasi natura. Le cifre sono quelle del bilancio del Mibact per il 2016. Appena approvato dal Consiglio superiore dei beni culturali. A poco più di un mese e mezzo dal nuovo anno.

“Il bilancio della cultura, tornato nel 2016 per la prima volta dopo otto anni sopra i due miliardi di euro, è il cuore e l’anima della manovra economica del Governo. La fine della lunga stagione dei tagli é segnalata dalla crescita del 27% delle risorse del Mibact, con nuovi fondi per la tutela del patrimonio e i grandi progetti culturali. La programmazione del fondo per la tutela ha assegnato 300 milioni di euro a interventi di restauro e messa in sicurezza dei musei nel triennio 2016-2018”. Il resoconto di “Due anni di Franceschini” pubblicato sul portale del Mibact nel febbraio 2016 riempie il cuore. “La stagione dei tagli è finita”, ha dichiarato a settembre il Ministro in visita in Sicilia. Eppure a leggere le cifre del bilancio 2016 qualche dubbio resta.

La salvaguardia del patrimonio storico-archeologico colpito dal sisma è tema d’attualità. Modalità, tempi e risorse impegnate sono sotto la lente d’ingrandimento. Tra i numeri del Segretariato Generale ecco la cifra “Per il coordinamento e monitoraggio ai fini della sicurezza del patrimonio culturale a fronte di emergenze e calamità di qualsiasi natura”. Per il 2016 disponibili 175.020 euro. Cifra che peraltro si prevede di assottigliare a 162.275 nel 2017 fino a 160.744 nel 2018.

Non va meglio analizzando i dati della Direzione Generale archeologia belle arti e paesaggio. Per la “Attività di tutela paesaggistica sul territorio nazionale” previsti 28.849.395 euro. Tanto in confronto alle “Attività in materia di tutela dei beni archeologici”, capitolo per il quale ci sono 12.276.383 euro. Molto meno rispetto ai 36.182.135 euro a disposizione della “Tutela delle belle arti e tutela e valorizzazione del paesaggio”. Cifre che vanno suddivise per le diverse Soprintendenze del territorio nazionale. Comprese quelle, ad esempio, della Campania e del Lazio, nelle quali si concentrano un numero tutt’altro che modesto di aree archeologiche e di immobili di riconosciuto interesse. Naturalmente é contemplata anche la “Attività di tutela nel territorio di competenza in materia di concessioni di scavo”, per cui sono stati predisposti 4.409.961 euro.

Un capitolo a parte meritano i lavori pubblici. Per l’archeologia ci sono 7.595.018 euro, disponibili per una vasta gamma di interventi. Passando agli stanziamenti regionali, per il Lazio 2.431.500, per la Campania addirittura di meno, 607.500 euro. Seicentosettemilaecinquecento euro per l’anfiteatro romano di Nola, il Museo e la Villa romana di Sala Consilina, i siti archeologici del territorio casertano, le aree archeologiche e Palazzo Reale di Napoli, oltre all’anfiteatro romano di Avella. Tutto il resto escluso da finanziamenti! In coda l’Abruzzo, con 94.854 euro.

Passando al settore Belle arti, figurano 13.207.234 euro. Qui il Piemonte ha avuto 2.320.000 euro ma, ad esempio, la Toscana delle Ville medicee 1.144.275 euro. L’Umbria e le Marche, regioni dal patrimonio storico-artistico più che cospicuo, rispettivamente, 250.000 e 257.000 euro.

Per il settore Poli museali non autonomi, stanziati 6.477.953 euro. Per gli Istituti a disposizione 1.483.279 euro. Gli archivi beneficeranno di 4.870.331 euro. Infine, per le biblioteche ci sono 2.656.311 euro.

Così nel complesso risulta che lo stanziamento dei lavori pubblici per il 2016 ammonta a 36.290.126 euro, mentre la richiesta, presente nella programmazione provvisoria, era di 80.040.898 euro. Insomma per l’anno in corso per i lavori pubblici si registra un divario di 43.750.771 euro. Non uno scarto esiguo, considerando che le richieste delle diverse Soprintendenze già sono “al ribasso”.

Nel 2015 la somma complessiva era stata di 35.287.163 euro, nel 2014 di 41.537.783 euro, nel 2013, di 47.777.663 euro. Numeri che tradotti in percentuale significano circa un 3% in più per l’anno in corso rispetto al precedente, ma circa un 13% in meno rispetto al 2014 e oltre il 24% in meno nei confronti del 2013.

Mancano ancora numeri importanti, quelli relativi ai 20 musei autonomi. Ma da quel che si può apprezzare, nonostante il leggerissimo incremento delle risorse, sembra non possa dirsi realmente invertito il trend degli ultimi anni. “Le pietre di cui sono fatti i Beni culturali ci ricordano le fatiche e la sapienza che sono servite per realizzarle. Abbiamo il dovere di tutelarle” ha detto Franceschini il 31 luglio 2015 all’Expo di Milano, di fronte alle delegazioni dei ministri della Cultura di tutto il mondo. Sarà molto difficile rispettare l’impegno con le risorse a disposizione.

«Sarebbe davvero paradossale che fosse una democrazia moderna a sequestrare ciò che un monarca dell’antico regime volle pubblico. Dobbiamo prendere atto che la bellezza dell’arte è fragile, e che la sua unica difesa è la conoscenza». La Repubblica, 15 novembre 2016 (c.m.c.)

Col suo enorme senso pratico, forse oggi Gian Lorenzo Bernini penserebbe che sarebbe stato meglio se papa Alessandro VII avesse scelto l’altro progetto che l’artista gli aveva presentato: un grande Ercole che reggeva a fatica l’obelisco, incredibilmente storto tra le sue mani. Invece papa Chigi volle proprio l’Elefante, antico simbolo della sapienza orientale, raffigurato mentre portava nella Città Eterna questo obelisco, rinvenuto nel tempio di Iside, che stava sotto il tempio di Minerva che stava sotto la chiesa della Madonna, in quella spettacolare stratificazione della storia che si chiama Roma.

E non c’è dubbio che vedere oggi spezzata quella zanna che Ercole Ferrata scolpì seguendo il modello di Bernini colmi il cuore di tristezza. Ma bisogna pur ricordare che il patrimonio culturale della nazione è in lutto per perdite incomparabilmente superiori: quelle causate dal terremoto dell’Italia centrale, e soprattutto dal terribile smantellamento della tutela, che ha impedito prima di mettere in sicurezza e poi di soccorrere le opere e le architetture.

Se c’è un filo che unisce queste perdite così diverse per cause e dimensioni, è il nostro largo analfabetismo figurativo. Già, perché l’unico presidio vero del patrimonio è la diffusione della cultura artistica, che passa in primo luogo attraverso l’insegnamento della storia dell’arte nelle scuole.

Un insegnamento tradizionalmente del tutto insufficiente, ulteriormente tagliato dai governi Berlusconi e che questo governo ha annunciato di non voler ripristinare. Eppure l’unica difesa possibile di un patrimonio così capillarmente diffuso sarebbe la consapevolezza dei cittadini, che inibirebbe i singoli atti inconsulti e censurerebbe le politiche che minano la tutela: gradi diversi di un unico vandalismo, in ultima analisi dovuto all’ignoranza. Vandali, diceva Antonio Cederna e prima di lui Raffaello, siamo tutti noi.

L’unica cosa da non fare ora è riaprire il dibattito sulla sostituzione delle opere con delle copie o, peggio, sulla chiusura di piazze, scalinate, sagrati. L’Italia è l’Italia perché la bellezza è offerta a tutti: papa Chigi non volle l’Elefantino in un chiostro, o in un cortile aulico, ma nel mezzo della pubblica piazza, in una Roma che nel 1665 era – per quanto sia difficile crederlo – assai più sporca, maleodorante e anarchica di quanto non lo sia oggi.

Sarebbe davvero paradossale che fosse una democrazia moderna a sequestrare ciò che un monarca dell’antico regime volle pubblico. Dobbiamo prendere atto che la bellezza dell’arte è fragile, e che la sua unica difesa è la conoscenza. D’altra parte è proprio per questo che ci è così cara: perché il suo corpo condivide la stessa sorte del nostro.

“Non mi debbo difendere solo soltanto dal terremoto, ma anche dalla burocrazia, le pare possibile?”, diceva il 1 novembre Adolfo Marinangeli, sindaco di Amandola, uno dei piccoli comuni del maceratese sui quali il terremoto ha fatto quasi tabula rasa.

“Le regole sono assurde. Per poter fare un puntellamento di uno stabile che ha un certo valore storico-artistico si deve trovare l’assenso di una serie di enti che non sempre sono in accordo l’uno con l’altro”, spiegava Marinangeli. La sua voce tutt’altro che isolata. “Il terremoto di domenica scorsa ha gravemente lesionato la nostra duecentesca chiesa di San Francesco e solo giovedì ho avuto l’autorizzazione a metterla in sicurezza. Ma lo sanno che con uno sciame sismico cinque giorni sono un’eternità?”, rincara la dose Guido Castelli, sindaco di Ascoli Piceno. Sembra sia andata persino peggio a Caldarola, altro comune del maceratese dove gli interventi non ci sono stati proprio, almeno a sentire il sindaco Luca Giuseppetti.

Così non si sa nulla del Castello Pallotta e del santuario di Santa Maria, non diversamente dalla Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Borgo Piandebussi, del castello e dell’antiquarium di Pievefavera e della chiesa della Santa Croce a Croce. Ma il punto non è quel che non si è fatto, almeno nell’immediato a Amandola, Ascoli Piceno e Caldarola. Il disastro è generalizzato.

Su questo il fronte degli amministratori locali è concorde. Servono troppi permessi. Per saperlo non è necessario essere un sindaco. Basta possedere un qualsiasi immobile vincolato e dover provvedere a un intervento di restauro. è innegabile che le procedure amministrative per giungere alla realizzazione dell’intervento sono difficili. Sia relativamente alle modalità che ai tempi.

Constato questo gap, tra la necessità di interventi rapidi e il dovere istituzionale di assicurare che siano garanti gli standard di scientificità richiesti dalle normative, quale potrebbe essere la soluzione? Quale la modalità per fare “presto e bene”? Non occorre scervellarsi. Inutile pensarci. Tutto sistemato. Ci ha pensato il Consiglio dei ministri del 4 novembre.

“Per la messa in sicurezza del patrimonio storico e artistico, i Comuni interessati hanno la facoltà di effettuare direttamente gli interventi indispensabili, dandone comunicazione al Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo”, la misura che risolve ogni cosa. Et voilà, verrebbe da dire. Quanto questa decisione risolva i problemi evidenziati dai sindaci dei centri spazzati via dal sisma del centro Italia, lo diranno i risultati che si raggiungeranno. Non soltanto in termini di rapidità, ma anche di qualità.

Quel che invece da subito appare inequivocabilmente evidente è che così si esautora sostanzialmente il ruolo delle Soprintendenze. Di più, si esaspera quella marginalizzazione già in atto da tempo dei tecnici che lavorano per gli uffici del Mibact. messi da parte restauratori, storici dell’arte, architetti e archeologi per far posto ai sindaci. Da ora, la salvezza di una chiesa oppure di una torre, di un castello o di un antiquarium dipenderà dalla loro capacità di darsi delle priorità, capacità di scelta, ad esempio, tra una ditta o l’altra. La sopravvivenza del patrimonio storico-artistico e archeologico dipenderà dal loro interventismo.

Un punto però deve essere chiaro. Il problema non sono i sindaci e neppure la loro difficoltà a provvedere, tanto più in situazioni di emergenza, a quel che necessita di cure. Il problema non è neppure quel che riusciranno a fare. Loro, i sindaci, sono davvero preoccupati. Così, questa misura che gli affida anche il patrimonio storico appare come l’unica soluzione possibile. Nella realtà non lo sarà, probabilmente. Anche se è una scelta che l’opinione pubblica, insomma quella degli non addetti ai lavori, osserverà con favore.

“Le Soprintendenze tra un parere e l’altro fanno passare mesi e intanto la distruzione prosegue. Finalmente ora ci sarà chi decide senza perdere tempo”, pensano in molti. E ognuno a citare un esempio. Per sentito dire, per esperienza diretta. Il vero problema è che a scegliere questa misura sia stato il Consiglio dei Ministri. Il guaio è che ad adottare questo provvedimento sia stato un Presidente del Consiglio e, considerate le competenze, il Ministro dei Beni culturali, con ogni probabilità ascoltato il parere del commissario per la ricostruzione. Hanno scelto di non scegliere. Facendo ricorso alla soluzione più demagogica e più irragionevole che ci fosse.

Una rapidità quella di Renzi e Franceschini sorprendente e peraltro utilizzata a intermittenza. Come non pensare ad esempio alla Soprintendenza unica speciale per il terremoto annunciata dal Ministro il 17 ottobre ma ancora in attesa di essere presentata? Ancora. Non sarebbe stato più utile rafforzare il ruolo delle professionalità all’interno delle Soprintendenze, facilitandone il lavoro, delineandone le strategie? In territori nei quali il sopraggiungere di eventi climatici sfavorevoli rischia di aggravare rapidamente le criticità provocate dal sisma, le esperienze delle professionalità delle Soprintendenza avrebbero potuto essere valorizzate. Finora si ha l’impressione che non sia accaduto. La crociata di Renzi e Franceschini contro la tutela tentata dalle Soprintendenze rischia di cancellare quel che resta.

Il Fatto Quotidiano, 5 novembre 2016 (p.d.)

C’è un forte scontento per il modo in cui il governo, e per esso il ministero dei Beni culturali, sta da mesi trattando (o non trattando) la scottante materia del dopo-sisma fra Lazio, Umbria e Marche. A settanta giorni dalla prima grave scossa del 24 agosto s’inizia soltanto ora a parlare di Soprintendenza speciale per le zone terremotate nella bozza del decreto bis sul sisma.

“Le chiese di Norcia e di Campi si potevano salvare”, s’indigna Bruno Toscano, storico dell’arte, il più penetrante conoscitore di quei territori, protagonista del dopo-terremoto del ’97. “Dopo il 24 agosto bisognava puntellare quanto si poteva, subito. Come si fece per la Basilica di San Francesco ad Assisi subito dopo la scossa del 25 settembre 1997 senza aspettare quella del 4 ottobre che sarebbe stata devastante. Qui i forti terremoti si susseguono a cadenza quasi regolare: 1958, 1969, 1997, 2016. E invece niente prevenzione”.

Era pure venuta qui, in missione, il segretario generale del ministero, Antonia Pasqua Recchia, architetto. Perché non ha deciso nulla di concreto? Perché non ha seguito l’esempio dell’ultimo, forse, grande segretario del ministero, Mario Serio, che nel ’97 si assunse col commissario straordinario Antonio Paolucci, assistito da strutturisti quali Giorgio Croci e Paolo Rocchi, la responsabilità totale delle grandi gru e della foresta di tubi d’acciaio montata fra Umbria e Marche, cominciando dal timpano della pericolante Basilica Superiore? Dove sono finiti i tecnici del ministero per i Beni culturali?

Hanno lavorato come matti per visitare, con un gruppo di ingegneri strutturisti – lo racconta uno di questi, Antonio Borri – quasi tutte le chiese della Valnerina. Misure concrete? Zero via zero. Con la frustrazione di veder crollare ciò che era salvabile dopo il 24 agosto. “Ce ne sono ancora di tecnici nelle Soprintendenze?”, si domanda scettico un grande archeologo, Mario Torelli, per decenni docente a Perugia. “I più mi risultano imbucati nei Poli museali dove lavorano meno e con meno responsabilità: in tutta l’Umbria è rimasto un solo archeologo dove cinque anni fa ce n’erano otto”.

La Soprintendenza unica voluta a tutti i costi dal ministro Dario Franceschini fra proteste diffuse ha qui come segretaria una distinta archivista. Del resto del terremoto se ne occupa non il ministro alle Infrastrutture Graziano Delrio, con Franceschini e con magari il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti, ma Matteo Renzi in prima persona, con al fianco l’archistar Renzo Piano. Non lo vedrete mai con un soprintendente. Il premier detesta “la figura più mediocre e grigia della burocrazia”; “un potere assurdamente monocratico”, come ha scritto pochi anni fa.

Per questo il ministero dei Beni culturali è ormai un vecchio corpo, indebolito dalla fame e dai continui interventi chirurgici, otto riforme, ultima la riforma-killer Renzi-Franceschini: conta appena 539 architetti per tutta Italia, un pugno in Umbria e Marche, ancor meno archeologi (384) e storici dell’arte (397), con una percentuale altissima, la metà, oltre i 60 anni e una bassissima di trentenni, fra il 2 e il 7 per cento. Da piangere. Tutti accorpati o in via di accorpamento ora nelle Soprintendenze uniche e quindi impegnati a disfare uffici, a trovarne altri, a dividerseli coi musei scissi dalle Soprintendenze perché valorizzazione e promozione non vengano “contaminate”, guai mai, dalla tutela.

Ora il commissario straordinario Vasco Errani – che viene da una situazione emiliana dove la ricostruzione delle fabbriche è stata rapida, mentre non pochi ritardi emergono per i centri storici – ha deciso di affidare la tutela ai Comuni. Gesto disperato. Sono i Comuni, in testa il sindaco di Matelica (Macerata), a reclamare più Stato, più interventi ministeriali efficienti e competenti. “Purtroppo si è sprofondati ovunque nell’ignoranza e nell’incompetenza”, commenta lo storico dell’arte spoletino, Bruno Toscano.

“Con Michele Cordaro, allora direttore dell’Istituto centrale del restauro, facemmo realizzare vicino a Spoleto, a Santo Chiodo, un grande magazzino di 22 mila metri cubi, pagato dallo Stato, per il pronto intervento e il non meno pronto ricovero delle opere d’arte nelle chiese, nei conventi, nei palazzi terremotati. Sa cosa ci ha messo dentro la Regione Umbria? Le cartacce del proprio archivio”.

E ora molte opere d’arte sono ancora lì in mezzo alle rovine. Né si sono montati quei grandi tendoni impermeabili che, coprendo le macerie, le riparano dai furti e soprattutto dalle piogge, dalle intemperie, consentendo, loro sì, di recuperare colonne, capitelli, pezzi di tortiglioni e di sculture, cornici, fregi, e quant’altro servirà a una ricostruzione il più possibile filologica.

Una misura ormai di routine. E ora sono arrivate le piogge. Quel “ricostruiremo com’era e dov’era” rischia di essere, con questo personale politico e scientifico, soltanto una vaga promessa.

La Repubblica online, blog "articolo 9", 3 novembre 2016

Pubblico di seguito una lettera del professor Antonio Borri, Ordinario di Scienza delle Costruzioni nella Università degli Studi di Perugia e Presidente del Centro Studi Mastrodicasa.

«Caro Prof. Montanari,

ho letto i suoi articoli riguardanti la mancata tempestività del MiBACT ad intervenire con le messe in sicurezza delle chiese nell’Italia centrale, in particolare in Valnerina, e le scrivo per dare un contributo a questo tema.

Conosco, almeno in parte, la situazione, dato che in questi ultimi due mesi ho coordinato una squadra di ingegneri strutturisti che a partire dai primi di settembre ha fornito un supporto tecnico ai funzionari del MiBACT incaricati di effettuare i rilievi dei danni al patrimonio culturale colpito dal sisma.

Credo sia giusto riconoscere anzitutto l'abnegazione e la competenza di questi funzionari del Ministero e delle Soprintendenze che si sono resi disponibili a fare i sopralluoghi in condizioni di notevole rischio, spesso rimettendoci peraltro di tasca propria, sotto la formula – già questa fonte di molte perplessità – del “volontariato”.

Noi strutturisti universitari che li abbiamo accompagnati ci siamo presi, insieme al rischio fisico, anche la responsabilità di valutare l’agibilità o meno di queste costruzioni e di indicare le eventuali necessità di provvedimenti di pronto intervento. Il tutto, ovviamente, a titolo gratuito e volontaristico, come peraltro avevamo fatto nei sismi degli anni passati.

In questi ultimi due mesi abbiamo visto quasi tutte le chiese della Valnerina, e in molti casi erano necessari interventi rapidi, quanto meno per mettere in salvo i beni mobili.

Spesso, purtroppo, a queste indicazioni e a queste proposte di provvedimenti non è seguito alcunché.

L’ultima scossa di magnitudo 6.5 ha causato il crollo di moltissime di quelle chiese che avevamo esaminato, e, guardando indietro, non posso evitare di fare un amaro bilancio: tutto il lavoro svolto, con tutti i rischi connessi, non è servito assolutamente a nulla.

Posso dire che mai, nel futuro, ci presteremo ancora a supportare filiere così inefficienti e inadeguate.

Adesso è giusto domandarci: se fossero stati fatti subito interventi di prevenzione nei confronti di eventuali nuove scosse (peraltro previste dai sismologi) si potevano evitare questi crolli?

In molti casi la risposta è negativa; l’intensità dell’evento del 30 ottobre è stata elevatissima ed intervenire in emergenza su questi manufatti, specie quando sono così numerosi, è davvero problematico, se non impossibile. Al di là dei problemi burocratici per avviare le procedure amministrative per i progetti ed i lavori (come sappiamo, quando in Italia si vogliono fare i lavori di urgenza si fanno…) non sarebbe stato comunque possibile trovare tecnici ed imprese che in poco tempo potessero intervenire dappertutto.

È vero però - e qui mi riallaccio alla sua indignazione - che per molti casi si poteva realisticamente sperare in esiti migliori. Ad esempio, se fin dall’inizio fossero state individuate le chiese maggiormente significative e rilevanti, si poteva intervenire in modo adeguato almeno su queste.

Difficile dire come sarebbe andata, ma certo era assolutamente doveroso tentare.

E sarebbe bastato salvarne uno, anche solo uno, di questi capolavori storico-architettonici, per poter dire, adesso, che (almeno) qualcosa avevamo fatto. E invece: nulla, e quello che è avvenuto supera purtroppo di gran lunga, per quanto riguarda i crolli delle chiese, i danni sismici dell’Aquila.

Certamente colpisce la lentezza e la farraginosità del processo decisionale al Ministero, con rallentamenti, sovrapposizioni, rimbalzi e stasi che sono inaccettabili per situazioni come queste.

Non si capisce, francamente, come mai, dopo una serie continua di eventi drammatici e distruttivi (Umbria-Marche, L’Aquila, Emilia) il MiBACT ancora non abbia messo a punto, come invece ha fatto da tempo la Protezione Civile, una macchina operativa efficiente e snella.

Sino ad ora tutto sembra procedere invece, almeno dal punto di vista sistemico-burocratico (non come impegno, encomiabile, dei singoli) come se fossero nell’ordinario, ovvero “bradipo-like”.

Concludo facendole io una domanda: la ricostruzione di queste chiese ridotte a rovine, che peraltro costerà centinaia di milioni di euro, cosa ci restituirà di quel patrimonio che avevamo?

Temo di conoscere già la sua risposta….

Un cordiale saluto.

Antonio Borri»

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