«Privatizziamo la Valle dei templi». Per ora è poco più di un´idea, una proposta shock che porta però la firma di chi gestisce la politica dei beni culturali in Sicilia. Quella dell'assessore regionale Antonello Antinoro, che ha già abbozzato una ampia relazione sul tema: finirà presto sul tavolo della giunta Lombardo. Un'iniziativa annunciata ieri e che ha già scatenato un vespaio di polemiche. Raccogliendo, per ora, solo dissensi. «Per rendere il più possibile redditizia la gestione dei beni culturali in Sicilia dobbiamo affidare a un privato di qualità il pacchetto completo di un sito turistico per trent'anni. Penso ad esempio alla Valle dei Templi o al teatro greco di Siracusa», afferma Antinoro, uno degli uomini forti dell'Udc di Cuffaro in Sicilia, trentamila voti alle ultime regionali. Al piano l'assessore sta lavorando con Adele Mormino, il suo capo di gabinetto che è anche il sovrintendente dei beni culturali di Palermo. «In cambio della gestione del nostro patrimonio artistico - dice Antinoro - i privati dovranno garantirci un canone fisso e alcune opere da realizzare nell'indotto. Penso alle strade o a un certo numero di alberghi. Nel caso della Valle dei templi potremmo chiedere ai privati di migliorare la strada statale Palermo-Agrigento e un eliporto».
Ma non si ferma qui, l'assessore. E, in un'intervista rilasciata a un sito internet allunga la lista dei monumenti da privatizzare: «Potrebbero essere inseriti anche il teatro antico di Taormina, Selinunte o la Cappella Palatina. Ma l'elenco dei siti dovrà essere concordato con l'assessorato regionale al Turismo». Antinoro aggiunge: «Potremmo affidare a privati anche gruppi di opere, in cambio della realizzazione di un museo per ospitarle in Sicilia».
È una proposta che riapre nel modo meno atteso il dibattito attorno alla Valle dei templi, sito visitato ogni anno da 700 mila turisti, considerato patrimonio dell'umanità dall'Unesco ma indicato da anni, a torto a ragione, come uno dei simboli dell'aggressione del cemento alle bellezze monumentali del Paese. E salito alla ribalta, di recente, per piccoli e grandi disservizi. L'anno scorso, di questi tempi, l'irrigidimento burocratico dei custodi - che negarono l'ingresso a 38 bimbi stranieri perché il biglietto gratuito era previsto solo per i minori appartenenti all'Ue - fece gridare al razzismo il mondo politico, senza distinzione di bandiera.
In Sicilia capita non di rado che i turisti si trovino di fronte ai cancelli dei monumenti chiusi, specialmente di domenica o nei giorni festivi. Ma è la privatizzazione la soluzione alle difficoltà di gestione? Non ci crede Rosalia Camerata Scovazzo, presidente dell'ente che controlla il Parco dei templi. Nasconde a fatica l'imbarazzo per non essere stata neppure avvertita dell'iniziativa del governo regionale. Ma, nel corso di un sopralluogo al tempio di Giunone, lascia intendere il suo pensiero. «Voglio vedere il provvedimento prima di fornire una valutazione chiara - afferma la Camerata Scovazzo - Ma una cosa è certa: la tutela dei beni culturali non può essere oggetto di delega, da parte di un'amministrazione pubblica». E ovviamente l'iniziativa ha già scatenato una battaglia politica. Con il Pd siciliano pronto a dirsi «inorridito»: «È un paradosso che nella regione che ha il più altro numero di dipendenti, oltre ventimila, si pensi di affidare i beni pubblici a soggetti privati», dice Filippo Panarello, vicepresidente della commissione Beni culturali dell'Assemblea regionale. Panarello invita a «combattere sprechi e clientelismi, per mettere in piedi un credibile piano di fruizione dei beni culturali che deve prevedere orari di apertura più ampi, anche nei giorni festivi». D'accordo il collega di partito Mario Bonomo: «Quest'idea di provare a fare cassa in tutti i modi, di trasformare in business anche la nostra stessa memoria fa semplicemente inorridire».
Postilla
Se i fautori delle ragioni del centralismo statale avessero bisogno, in questi tempi di federalismo malamente inteso, ma ubiquo, di qualche elemento a sostegno delle loro tesi, eccoli accontentati. Già da tempo questa parte d'Italia, non certo dello Stato italiano, perchè per quanto riguarda la gestione dei beni culturali la Sicilia gode da decenni di un'autonomia praticamente illimitata, è divenuta exemplum proverbiale di pessima amministrazione, tanto che nelle discussioni spesso accese fra regionalisti e statalisti durante la stesura del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, le ragioni di questi ultimi sono state più di una volta rafforzate dalla semplice evocazione delle vicende siciliane per quanto riguarda la gestione del patrimonio culturale, tanto ricco quanto negletto. A ulteriore clamorosa testimonianza, ecco le dichiarazioni dell'assessore Antinoro: non è tanto la ritrita riproposizione del privato come panacea per tutti i mali del pubblico a stupire, ormai, quanto lo sbracamento ideologico che la sottende in questo caso. I beni culturali vengono ceduti al privato senza alcun progetto culturale, tanto è vero che neanche i responsabili e curatori dei beni stessi sono stati non solo coinvolti, ma neppure informati dei progetti dei politici. E il ritorno che si auspica da una operazione che per modalità appare il frutto di improvvisazione amministrativa ai limiti del lecito (oltre che del comune buon senso), è da svendita finale per cessata attività: la valle dei templi, il teatro di Siracusa, quello di Taormina in cambio di qualche albergo, una strada e, tocco di classe surreale, un eliporto. Nessun ritorno è previsto per la tutela e una migliore fruizione dei beni stessi, evidentemente considerati solo come limoni da spremere fino all'ultima goccia. In questa rincorsa alle meraviglie della privata intraprendenza, in verità, la Sicilia può vantare qualche illustre antecedente: anche in tempi passati, in fondo, ai privati erano delegati compiti di gestione erariale di non poco impegno. Erano i tempi dei fratelli Salvo di indimenticata memoria e sappiamo bene come andò a finire quella storia... (m.p.g.)
All’ingresso del ministero dei beni culturali, in via del Collegio romano a Roma, da qualche tempo i controlli per chi entra sono molto più rigidi. Chissà se dipende da un’aria cambiata o meno. Di sicuro le nomine fatte dal predecessore Rutelli in extremis prima della scadenza da ieri vanno a farsi benedire. Ben 216. Dirigenti, assegnati o talvolta confermati alle direzioni centrali, regionali, soprintendenze. Nomine fissate da un decreto ministeriale del 28 febbraio scorso che avevano suscitato critiche da più parti, soprattutto dai sindacati confederali (per Uil da un lato, Cgil e Cisl dall’altro, molte non erano date per meriti, anzi). Su quel decreto di riorganizzazione la Corte dei Conti ha fatto rilievi: avrebbe contestato 11 nomine.
Di conseguenza il decreto non è stato registrato e sulle osservazioni della Corte il capo di Gabinetto Salvatore Nastasi ha firmato il provvedimento che annulla gli incarichi. Nel ministero e soprattutto in tante soprintendenze c’è la sensazione di un ulteriore ribaltone dell’ingranaggio lasciando uno stato di precarietà permanente, di impossibilità a pianificare a lunga distanza, ad agire.
«Atto gravissimo», commenta l’ex sottosegretario ai beni culturali e ora senatore Pd Andrea Marcucci. Ma se Bondi agisce in una cornice legislativa, come prendere il neodeputato del Pdl Luca Barbareschi? Ringrazia il ministro e dice chiaro cosa vuole certa Destra: «questa scelta sottolinea lo spirito di squadra e di forte coesione con cui lavora il Popolo della libertà per il rilancio dell’azione di governo nella cultura». Tradotto: la cultura va occupata. Manca poco che dica militarmente. Formalmente le nomine saltano tutte. Magari non andrà proprio così. Alcune, eccellenti, come De Caro alla direzione archeologica o Carla di Francesco al paesaggio, non dovrebbero rischiare. Se sì sarebbe un errore. Non resterebbero Bruno De Santis, direttore generale per l’organizzazione, innovazione e altro, e l’attuale direttore regionale della Calabria Giuseppe Zampino, già soprintendente dei beni architettonici a Napoli, anni fa coinvolto in una vicenda di appalti partenopei dalla quale è stato assolto. Se Bondi voglia fare o meno piazza pulita, Barbareschi e chi spalleggia l’attore preme. Certo, ci sono cose da aggiustare, nel ministero. Sempre per fare esempi, in Campania con Rutelli si è sdoppiata una soprintendenza archeologica (una Salerno e Avellino, una Caserta e Benevento), operazione sulla cui utilità più di un archeologo dubita, mentre nella archeologicamente ricca Sardegna si è accorpato tutto a Cagliari con scelta poco lungimirante. E si potrebbe riflettere su quattro contratti esterni da soprintendente dati tempo fa a dirigenti di una regione del sud. Intanto Bondi ha detto al Corsera di volersi occupare del caso Monticchiello e Asor Rosa, che quel caso sollevò, se ne rallegra. Ma Tremonti cancellerà 15 milioni di euro stanziati da Prodi per abbattere ecomostri: dietro la facciata c’è molto da temere.
Postilla
L’episodio della revoca delle nomine al Ministero Beni Culturali non è grave in quanto ennesima manifestazione di spoil system. E’ questo in fondo un meccanismo cui siamo ormai assuefatti, pur nella versione del tutto italica e assolutamente bipartisan che ne fa una delle forme di occupazione del potere di tipo consortile più che politico, destinata a premiare non solo una consonanza ideologica, ma spesso soprattutto una disponibilità all’allineamento tanto più gradita quanto più prossima all’asservimento. Ma in questo caso nelle dichiarazioni di alcuni dei neoparlamentari si coglie una plateale e beatamente sbandierata ignoranza dei meccanismi istituzionali e amministrativi che preoccupa: le nomine sub iudice riguardano nella quasi totalità figure di funzionari già da anni impegnati in quei ruoli. Si tratta quindi di conferme o semplici spostamenti di sede, interni al personale in servizio, neppure lontanamente equiparabili a quelle dei grands commis o amministratori delegati di aziende o enti. Neanche in un rigurgito di bonapartismo quei funzionari potrebbero essere sostituiti sic et simpliciter con novelli esecutori della “cultura di destra”.
Questa pulsione a trasformare ruoli eminentemente tecnici in territori di possibile appropriazione è preoccupante come sintomo sia di distorsione della dinamica democratica che di assoluto disinteresse nei confronti dei parametri di competenza e capacità professionale: dietro queste affermazioni che ci auguriamo smentite nella pratica, vi è solo l’interesse ad occupare “caselle” sulla base di criteri di contiguità di appartenenza e di opportunismo clientelare. E’ status di pratica politica ben povero quello che, in cambio della costruzione di meccanismi di consenso anche a livelli davvero circoscritti quali quelli che può assicurare un funzionario statale di medio livello, non esita ad introdurre ulteriori, pesanti elementi di precarietà e disagio in una macchina, quella del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, già da anni strangolata da uno stillicidio progressivo di riduzione di risorse e la cui attività appare di fatto congelata da una perenne riforma che tutto cambia senza consolidare mai nulla.
Con quest’ultimo, ennesimo contraccolpo, sapientemente predisposto da una Corte dei Conti tempestivamente allineatasi all’evolversi del quadro politico, l’attività del Ministero, sia a livello centrale, che sul territorio è bloccata sine die, rendendo di fatto di enorme difficoltà una corretta azione di tutela del patrimonio culturale. In queste condizioni, organismi vitali di presidio come le Soprintendenze già da tempo minate da una lenta, ma progressiva asfissia in termini di mezzi e personale, sono financo politicamente delegittimate ad operare. E il tanto apprezzato Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio è destinato a rimanere semplicemente un bellissimo e prezioso documento, destituito di ogni efficacia operativa e quindi totalmente inutile. (m.p.g.)
Nell'intervista al neoministro Bondi alcune posizioni condivisibili, molta prudenza e sprazzi di cerchiobottismo. Dal Corriere della Sera , 29 maggio 2008 (m.p.g.)
Sandro Bondi è approdato al ministero fondato da Giovanni Spadolini. Ha cambiato stanza (addio a quella monumentale) ma ha confermato molti uomini che hanno lavorato con Urbani, Buttiglione e Rutelli (il capo di gabinetto Salvatore Nastasi, il capo dell'ufficio legislativo Mario Torsello).
Ministro, cominciamo dal paesaggio. Costruire ancora o procedere al riuso, come vogliono gli ambientalisti?
«La priorità è il recupero delle periferie degradate. Nelle città devastate si annidano fenomeni allarmanti di disagio sociale: la bruttezza genera mostri. Quindi: minor consumo di territorio e del poco verde ancora libero che assicura ossigeno alle città, priorità al recupero e al riuso delle aree già cementificate ma inutilizzate. Altrimenti le città si fondono in immense megalopoli indistinte. Il territorio in Italia è il bene scarso per eccellenza, e richiede un utilizzo attento, misurato e prudente. Questo non vuol dire che non si deve più costruire: evitiamo estremismi».
Un esempio concreto?
«Quello che Gianni Alemanno ha proposto per Roma: puntare sull'edilizia di riqualificazione, che rispetta l'identità della città e salvaguarda il verde. Nuove opportunità per l'ímprendítoria e l'edilizia, che troveranno nel recupero e nel restauro occasioni di sviluppo»
Mi può fare un esempio?
«Per esempio su Monticchiello e la difesa del paesaggio sono d'accordo con Alberto Asor Rosa. Anche se rifuggo da certe posizioni scandalistiche e vagamente ideologizzanti. Ma in una saggia applicazione del Codice dei Beni culturali c'è il giusto equilibrio tra sviluppo e tutela».
Pensa di parlarne con lui, di incontrarlo al ministero visto che presiede i Comitati di difesa del territorio toscano?
«Perché no? Volto volentieri. Farò tutto quello che può essere utile per difendere il nostro patrimonio. Asor Rosa ha rivolto critiche giuste all'amministrazione regionale toscana. E le stesse critiche io rivolgerò al presidente della Regione».
Apprezzava Asor Rosa già ai tempi di «Scrittori e popolo», cioè quando lei, ministro, militava nel Pci o preferisce l'ultima «versione» dello storico della letteratura?
«Per la verità ho sempre apprezzato Asor Rosa come storico della letteratura, attraverso l'imponente biblioteca di Storia della Letteratura pubblicata da Einaudi, anche se non sempre ho condiviso le sue predilezioni e scelte interpretative».
In quanto agli ecomostri?
«Al netto di certo sensazionalismo, ritengo giusta la battaglia per liberare i nostri paesaggi da brutture inaccettabili: i vecchi scheletri incompiuti che sfregiano coste e montagne devono essere abbattuti. Le norme esistono. Bisogna affinare gli strumenti operativi».
«Mai più condoni edilizi», disse Rutelli l'anno scorso per difendere il paesaggio. Condivide?
«Il condono, oltre che dannoso al territorio, ha dei costi gestionali elevati, anche se ne riconosco una necessità e utilità se pure limitata nel tempo e per via straordinaria. In ogni caso, la Corte costituzionale nel 2004 ha chiarito che un pezzo di competenza importante sul punto (tranne che per il profilo penale) è delle Regioni, non dello Stato».
Il suo portavoce Lino Jannuzzi rivela: «I registi di sinistra ora cercano Bondi, c'è curiosità...».Chi l'ha cercata?
«Posso confermare che c'è curiosità. Io non cerco palcoscenici. Desidero solo essere un interlocutore serio. E spero di essere giudicato dai fatti e dalla sincerità delle mie intenzioni».
I Beni culturali avranno un ruolo nell'audiovisivo?
«Dovremo far nascere iniziative comuni con la Rai e le aziende specializzate nell'audiovisivo per promuovere territorio e beni culturali con la promozione di un made in Italy del bello, della cultura e dell'arte. Anche fiction e cinema possono aiutarci in questo senso».
Luca Barbareschi ha polemizzato: «Perché Bondi ha reintegrato le 116 persone che Rutelli aveva tentato di assumere con la qualifica di dirigenti il giorno prima di lasciare i Beni culturali? Ci vuole una strategia comune del centrodestra».
«Non abbiamo preso decisioni. Forse si parla delle nomine della maggior parte dei soprintendenti di settore da parte del precedente governo in limine mortis, cioè dirigenti di ruolo dell'amministrazione e non di assunti. Molti loro contratti sono all'esame della Corte dei conti. Qualche rilievo c'è già stato e valuteremo con scrupolo e imparzialità le professionalità anche per correggere decisioni che sono sembrate alle volte affrettate e poco comprensibili. Spero si possa discutere con serenità e obiettività, e con uno stile misurato e costruttivo. Io sono pronto a farlo con tutti».
Professore, è pronto a tirarsi su le maniche? Finalmente le è stato comunicato il decreto che la nomina presidente del Parco dell'Appia.
«Mah, ci sono voluti quasi due anni per varare queste nomine per i Parchi. Se si voleva perdere tempo ci sono riusciti. Comunque, prima di cominciare, sento la necessità di fare il punto con i responsabili della Regione, assessorato all'ambiente in testa, con i residenti, con chi svolge attività e con chi è portatore d'interessi...».
Qual è il suo punto di partenza?
«E’ stato fatto un Ente, ma non il Parco».
Spieghi meglio.
«La persona che va a visitare il parco dell'Appia si immagina un parco, mica una bolgia. Nel mondo i parchi sono parchi, lì si entra in una esorta d'autostrada. Allora quel visitatore non capisce cosa si intenda in Italia per parco. Trova un bel bailamme di traffico e di attività incongrue. La sensazione è di un fallimento totale, il Parco non esiste. Come se ci arrovellassimo su una finzione...».
Poniamo che vi sia un ritardo. Di chi, però?
«Non so se sia stata mancanza di coraggio. Vedo piuttosto disinteresse. Argan diceva: "Non si è ancora capito che la cultura è un affare di stato". Ecco, se la politica non si occupa di queste cose, di che si occupa?».
Cos'è mancato innanzitutto al Parco dell'Appia?
«Ciò che gli dovrebbe stare intorno. Sono mancati investimenti infrastrutturali a sua difesa. La città ha bisogno di crescere. Bene. Però cresce male. Prendete la via Ardeatina. Era una via scorrevole, di non grande traffico.Ora è intasata ad ogni ora, è diventata l'unico collegamento delle nuove realtà crésciute oltre Tormarancia. Naturalmente tutto ciò tracima dentro il Parco dell'Appia, inquina ogni passaggio, ogni diverticolo. Ecco cosa strangola il Parco e l'Appia Antica...».
Perché, secondo lei, è successo tutto ciò?
«Per decenni sono mancati investimenti necessari, per decenni non è stata fatta a Roma una buona politica urbanistica. Si sono scagliati nelle aree circostanti milioni e milioni di metri cubi senza che crescesse una rete di sostegno, di sviluppo, di trasferimento. Guardate cosa succede a via di Fioranello...»
Abbiamo pubblicato la foto dell'Appia Antica, all'altezza di via di Fioranello, trasformata in un parcheggio auto a ridosso dell'aeroporto di Ciampino...
«Ed è ancora così. Nessuno ha fatto niente. Ciampino ha superato cinque milioni di passeggeri, erano meno di un milione pochi anni fa. I parcheggi tracimano auto, ecco allora che nell'indifferenza generale l'Appia Antica diventa un parcheggio di lunga sosta. Che dire?».
Le amministrazioni dormono?
«Un'urbanistica sbagliata può esserlo per vari motivi, compresi quelli intenzionali e dolosi. In ogni caso non ci si rende conto che i valori sfruttati senza riguardo vengono persi in modo irrecuperabile. A Roma hanno sempre comandato, fin dall'ottocento, i palazzinari. Vince la loro logica. Chi vuoi che s'interessi all'Appia Antica e al suo territorio.,.E poi, aggiungiamoci anche le omissioni volute, di organi dello stato...».
Cioè?
«C'è chi frena contro la tutela. La Sovrintendenza ai beni architettonici, a suo tempo, si battè contro la tutela di Tormarancia... Oggi ci sono uffici che quotidianamente si danno da fare per saccheggiare il carattere paesaggistico di questa città autorizzando ponteggi e occultamenti di monumenti per anni, col pretesto di restauri inconsistenti. Ma torniamo all'Appia. In questo momento è in bilico il vincolo sull'area intorno a Cecilia Metella. Ci si lavora da anni. Ma c'è una sorda opposizione, naturale finché viene da proprietà potenti e ammanicate, inquietante se affiora da altrove...».
Cosa si dovrebbe fare ora per far decollare il Parco dell'Appia? Prendiamo l'amministrazione comunale...
«Deve avviare le opere necessarie per sgravare il cuore del Parco, cioè l'Appia Antica, da quel traffico caotico che la distrugge. Basta impedirne l'attraversamento, lasciando il traffico di destinazione che è sopportabile. Come? Si entri nell’Appia da diversi punti, ma se ne esca solo da dove si è entrati. La soluzione a favore dell'Appia è semplicissima, la soluzione più generale della rete stradale tutt'intorno rientra nei problemi del traffico urbano. Così non si fa il deserto, si fa dell'Appia un luogo tutelato e visitabile...»,
E alla Regione cosa chiede?
«La Regione che ha avuto il merito di istituire l'Ente Parco adesso sarebbe importante che gli fornisse strumenti adeguati. Cioè finanziamenti. Sull’Appia nessuno ha mai pensato a espropri in senso diffuso, che non sarebbero gestibili. Però capitano buone occasioni e allora bisogna avere disponibilità per acquistarle. Inoltre bisogna investire per la valorizzazione degli aspetti naturalistici: prendiamo Tormarancia. Ma anche la Caffarella. Cioè400 ettari che devono essere messi a flutto, al riparo da assalti speculativi».
Infine lo stato, il ministero dei beni culturali...
«Che vari la legge sull’Appia. Sono state formulate varie ipotesi di legge, nella precedente legislatura e in questa. Il governo deve farla sua. Una legge intelligente in questa direzione aprirebbe in Europa una nuova stagione di possibilità, dalla via Francigena alle vie consolari alla rete dei nostri Tratturi. Con una legge sull’Appia anche noi a Roma ci sentiremmo più confortati. In fin dei conti, perché la gente va a parcheggiare sul!'Appia Antica a Fioranello? Anche perché non esiste una legge di tutela...».
Da settimane nella città di Sassari è andata crescendo una sorta di fibrillazione collettiva perché, durante la risistemazione della pavimentazione di piazza Castello, sono stati ritrovati resti di due piani della fortezza aragonese abbattuta nel 1877 e che, di giorno in giorno, vengono annunciati entusiasticamente sempre più sorprendenti. Attorno a questi ritrovamenti si è acceso un interessante dibattito ‘popolare’ che ha coinvolto studiosi e numerosi cittadini, avviato sulle pagine de La Nuova Sardegna e di cui si avvertono i suoni attorno alla piazza in questione e nei diversi ritrovi (per lo più di consumo) del centro storico. Ovviamente non mancano i pareri degli scettici e degli espliciti devastatori: vi è stato chi ha chiesto che il tutto venisse ricoperto e che la si finisse con tutto questo clamore. A parte alcune dichiarazioni un po’ grottesche, finalmente si è avviata una concreta riflessione collettiva sulla città e sul suo passato, seppure per ora limitata ad una minima porzione urbana. In relazione a questi ritrovamenti in progress, affronto quattro tipi di problemi:
il primo riguarda i luoghi e le modalità della discussione sul che fare del “castello ritrovato”. Pongo un primo interrogativo. Se La Nuova non avesse aperto le sue pagine alla cittadinanza, in quali altre sedi sarebbe stato possibile esprimere la propria opinione? Mi pare di poter affermare che la città manchi di luoghi di confronto aperti alla collettività, dove discutere sulle sue trasformazioni urbane, maturare progetti di interesse generale e sottoporli al confronto democratico. Questo dovrebbe essere un compito primario dell’amministrazione locale, al quale essa in parte assolve formalmente quando assume scelte eccezionali quali il piano regolatore; ma dovrebbe essere anche una finalità delle sedi primarie della politica (partiti), della cultura (università e formazione più in generale), dell’economia (attraverso ad esempio le associazioni di categoria e sindacali). La sede del giornale può essere un buon sostituto? Solo parzialmente, sia perché la scelta di partecipare per iscritto è di per sé selettiva sia perché è limitato il numero di coloro, almeno rispetto alla popolazione complessivamente intesa, che hanno capacità tecniche di accesso. Basti pensare che la maggior parte delle opinioni dei cittadini pervengono per sms e per e-mail, il che significa che diverse fasce di popolazione, anzitutto quelle anziane, sono escluse dal dibattito, il quale, più che un confronto, appare la sovrapposizione di singoli pareri che non possono avere alcuna incidenza sui reali processi decisionali.
Il secondo punto riguarda i contenuti del dibattito che, a distanza di settimane dai primi ritrovamenti, continuano ad essere limitati all’oggetto in questione. Pongo dunque questo interrogativo. Senza voler sottovalutare il valore culturale di questi ritrovamenti, che in qualche misura stanno mettendo in discussione la memoria urbana collettiva e alcune certezze sedimentate nel tempo, è sufficiente questo recupero per iniziare a riqualificare il centro storico? Sì, a condizione che la riflessione non si limiti a piazza Castello. Perché isolarla dal tessuto circostante non solo è sbagliato dal punto di vista urbanistico, ma soprattutto è la perdita dell’occasione di coinvolgere attivamente un insieme di attori sociali, culturali ed economici in un complessivo progetto di riqualificazione di una parte importante del centro storico, sotto i profili dell’abitazione, delle attività produttive e dell’intrattenimento. Coinvolgimento che va costruito subito, a prescindere dall’entità reale dei ritrovamenti, perché i tempi e le procedure della partecipazione sono molto più complessi dei ritrovamenti archeologici, in termini di finanziamenti e di idee progettuali, di peso degli interessi generali su quelli particolari e viceversa, e così via. A mio avviso, la riflessione ‘sul che fare’ si dovrebbe estendere a tutta quell’area ‘racchiusa’, per così dire, dalle piazze d’Italia, Tola, Università e dall’area antistante porta S. Antonio; all’interno delle quali c’è un variegato, e per questo interessante, patrimonio architettonico - si pensi ai diffusi segni settecenteschi e ottocenteschi presenti in corso Vittorio Emanuele con tracce dei secoli precedenti -, e un tessuto sociale altrettanto interessante, perché composito sotto il profilo generazionale, sociale ed etnico.
La terza questione riguarda la viabilità urbana, giacché è evidente che questi ritrovamenti pongono numerosi problemi al traffico di questa (e non solo) parte della città. La risoluzione del problema di dove far scorrere il traffico automobilistico, visto che i ritrovamenti si stanno estendendo da via Politeama verso la piazza, non può essere solo di tipo tecnico e limitata all’area in questione, ma abbisognerebbe di una chiara scelta politico-culturale finalizzata, finalmente, a pedonalizzare il centro storico, offrendo ovviamente delle soluzioni a chi vi risiede e lavora. Invece, il problema di ridurre il traffico automobilistico e adottare soluzioni eco-sostenibili a Sassari continua ad essere una ragione di forte conflitto non tanto da parte della popolazione astrattamente intesa, quanto da parte di alcune categorie economiche e che in città sono tra quelle che hanno più voce, in primis i commercianti. Pongo un terzo interrogativo. La città di Sassari può continuare ad ignorare le direttive dell’Unione Europea, a partire dalla Carta di Aalborg che data 1994 e che, al punto 1.9, tratta specificamente di Modelli sostenibili di mobilità urbana, sottolineando che «…È divenuto ormai un imperativo per una città sostenibile ridurre la mobilità forzata e smettere di promuovere e sostenere l’uso superfluo di veicoli a motore….»?
Il quarto ordine di problemi riguarda la necessità culturale che la città di Sassari si riconcili con i propri passati. Qualche anno fa durante le lezioni di sociologia urbana, uno studente di Siniscola disse “chissà come sarebbe stata più interessante questa città se avesse conservato il suo castello” ed io aggiunsi “e anche se avesse conservato il suo patrimonio di manufatti ottocenteschi e liberty”, ahimé in buona parte abbattuto quasi nella sua totalità appena qualche decennio fa e certamente non per ragioni di rivincita contro l’oppressore. Abbandono le analisi contro-fattuali - che possono essere sì delle ottime esercitazioni per un corso universitario, ma poco utili sul piano delle scelte politiche -, e pongo un quarto interrogativo. Possiamo ragionare senza finzioni sulla bruttezza di questa città e su come invece potrebbe diventare bella? Non assegno alle parole ‘bello’ e ‘brutto’ solo un valore estetico, ma le associo ad altri termini, quali cura e attenzione, e, di contro, sciatteria e degrado. Credo che anche Sassari possa diventare una città bella, risanando e riqualificando il suo patrimonio storico-architettonico, certo, ma anche curandosi degli spazi pubblici e privati, e ciò può avvenire soltanto se ogni singolo cittadino si sente attivamente responsabile e coinvolto in un progetto comune.
Per esplicitare il mio pensiero, mi limito ad un solo esempio. L’amministrazione locale sta risistemando molte strade del centro storico - devo dire con molta attenzione -, riportando alla luce ciottolato e lastroni di granito. Ebbene, finiti i lavori già nei giorni seguenti al ripristino dominano incontrastati sporcizia e degrado che non vanno attribuiti all’ente pubblico, bensì a tutti quei cittadini che nel loro transitare o lavorare non si preoccupano di tenere puliti i loro spazi pubblici. Eppure, se imparassimo ad acquisire il bello come valore, Sassari potrebbe persino uscire dal torpore che la attraversa ormai da molti decenni.
In conclusione, abbiamo scoperto che anche Sassari può avere una sua identità, ed il castello ritrovato (o meglio alcuni suoi pezzi) è certamente parte propulsiva di questa scoperta, più che per le sue pietre, per l’orizzonte di idee che si è aperto seppure limitatamente sulle pagine di un quotidiano. Il passo successivo dovrebbe essere quello di spostare questo dibattito nelle sedi preposte alle decisioni, magari mettendo in pratica tutti quei buoni propositi contenuti nel piano strategico di cui ci si è fin troppo rapidamente dimenticati.
L’approvazione definitiva e il varo con due decreti legislativi del Codice per il Beni culturali e il paesaggio, con un atteggiamento responsabile della stessa opposizione di centrodestra e delle Regioni più gelose di una propria (ma poco meritata) autonomia, rappresenta un indubbio successo, un premio alla tenacia: per il governo ancora in carica, per il ministro Francesco Rutelli e per il professor Salvatore Settis presidente della commissione per la revisione del Codice.
Ma anche per il sottosegretario Danielle Mazzonis delegata ai problemi del paesaggio che erano quelli dove le tribolazioni, i pericoli e i guasti emergevano drammaticamente.
Per i Beni Culturali infatti c’è una riacquisizione importante e cioè quella dell’impianto di fondo del cosiddetto Regolamento Melandri col quale nel 2000 si riuscì a rimediare ad un improvvido voto parlamentare che trasformava da non vendibili in vendibili tutti i beni culturali demaniali «salvo eccezioni». Il regolamento - che disciplinava con grande attenzione cessioni (a volte sacrosante) e cessioni in uso - venne travolto dal duo Tremonti-Urbani che invece puntava a dismissioni di massa (poi irrealizzate, o quasi). Averne recuperato l’impianto mi sembra un punto fermo nella legislazione di tutela del patrimonio. Così come aver chiarito le norme relative alla circolazione internazionale dei beni stessi e al patrimonio ecclesiastico che è tanta parte di quello nazionale.
Per il paesaggio il nuovo Codice Rutelli-Settis ha il merito di mettere finalmente ordine (in parte, diciamolo, l’aveva già fatto Rocco Buttiglione nel breve passaggio al ministero) nella selva di norme e di conflitti generati dalla stratificazione di leggi e soprattutto dal confusionario Titolo V della Costituzione, una delle maggiori colpe del centrosinistra ante-Berlusconi II, con una serie di concessioni alle Regioni di taglio pseudo federalista e con l’oscuramento sostanziale dell’articolo 9 della Costituzione (quella vera). E cioè «la Repubblica tutela il paesaggio della Nazione», cioè Stato, in primis, Regioni, Enti locali, armonicamente. E l’attuale Codice - che recita in modo tranciante «salva la potestà esclusiva dello Stato di tutela del paesaggio» - ridà pieno valore a questo articolo-cardine della tutela restituendo alle Soprintendenze statali un ruolo attivo e il potere di vincolo e di rigoroso rispetto del medesimo. Ruolo e potere che, nonostante le sentenze della Cassazione e della Consulta (fondamentale la n. 367 del 2007 sul paesaggio), era stato fortemente intaccato. Col duplice risultato negativo - verificabile in pieno nel caso esemplare di Monticchiello - di indurre le Soprintendenze territoriali al sonno e alla latitanza, e le Regioni alla più pericolosa delle sub-deleghe, quella ai Comuni. I quali ultimi, privati (bisogna rimarcarlo) di consistenti fondi erariali, hanno oggi assai più interesse ad incentivare l’attività edilizia che non a tutelare il paesaggio. Il Comune che ha incassato di più in Italia da oneri e da concessioni edilizie è stato quello di Lucca. Pensate quale frenetica attività edile vi si è scatenata.
Il passaggio del Codice su queste sub-deleghe non è dei più chiari e però comincia a porre dei limiti. Intanto all’idea che il paesaggio è una sorta di “proprietà” delle comunità locali e non invece dell’intera Nazione. E poi al lassismo (ammantato di democrazia di base...) di certe Regioni che in realtà “lasciano fare” ai Comuni, anche a quelli che non hanno nessun strumento tecnico valido per occuparsi di tali temi strategici.
Introduce invece essenziali elementi di chiarezza il passaggio sulla co-pianificazione paesaggistica regionale. La collaborazione delle Regioni con lo Stato, cioè col ministero, non è più auspicata ma diventa obbligatoria. Ministero e Regioni «definiscono d’intesa le politiche per la conservazione e la valorizzazione del paesaggio», «cooperano nella definizione di indirizzi e criteri riguardanti l’attività di pianificazione territoriale, Nonché nella gestione dei conseguenti interventi». Dunque, criteri univoci, piani paesaggistici regionali dettagliati e prescrittivi (e non di semplice indirizzo per gli Enti locali come il recente Pit toscano), elaborazione congiunta. Nei casi di interventi edilizi in aree vincolate - e sono tanti visto che il 47 per cento del Belpaese è coperto da vincoli paesaggistici - le Soprintendenze hanno il potere di esprimere un parere preventivo vincolante e comunque obbligatorio. Nel termine però di 45 giorni.
E qui nasce una questione centrale che nessun Codice può risolvere, quella cioè dell’inadeguatezza, a volte disperante, dei quadri tecnici delle Soprintendenze territoriali di settore, con pochi e malpagati architetti e ingegneri, gravati, ognuno, di centinaia di pratiche, e quindi di controlli, sopralluoghi, verifiche, pareri, ecc. Il ministro Rutelli ha fatto bene a inserire in questi atti legislativi anche il finanziamento, per 15 milioni annui, dell’abbattimento di abusi e di ecomostri. Ma chi verrà dopo di lui al Collegio Romano dovrà assolutamente dedicare i propri sforzi non alla moltiplicazione delle Soprintendenze, bensì al potenziamento esclusivamente tecnico-scientifico, strutturale degli organismi territoriali esistenti ai quali il Codice, in questa nuova e strategica versione, ridà un ruolo e un potere in nome della Costituzione e della bellezza. Ruolo che però va esercitato con quadri e strumenti adeguati. Altrimenti sarà la solita Italia che sforna buone leggi e poi non attrezza uomini e uffici per attuarle, provocando soltanto frustrazione e sfiducia. Oltre al massacro in atto del Belpaese. Provocato, come ognun sa, da un meccanismo infernale inserito nella legge finanziaria, in base al quale - cancellando una saggia norma della legge Bucalossi del 1977 - si consente ai Comuni di utilizzare gli introiti da oneri di urbanizzazione, Ici e altro al 50 per cento per la spesa corrente e al 25 per cento per manutenzioni e non esclusivamente, invece, per spese di investimento. Col risultato di seminare di cantieri edili i più straordinari paesaggi e di suicidarsi sul piano del turismo internazionale. Un bell’esempio di cretinismo politico-culturale. Quindi, a buone, magari ottime leggi come questa facciamo seguire tecnici e mezzi qualificati per attuarle seriamente e rapidamente. Nell’interesse pubblico e in quello privato.
Nei commenti generalmente entusiastici che si sono letti su tutta la stampa si avverte l’eco della dichiarazione trionfale del ministro Rutelli. In questa conclusiva revisione del “codice” Italia Nostra stenta a riconoscere “una svolta storica”. Si tratta invece di un assai cauto intervento correttivo che ripristina talune essenziali garanzie, come in tema di alienazione di beni culturali pubblici (non però nei controlli sui trasferimenti privati all’estero), ma non sa riconoscere nel “centro storico” un unitario bene culturale e, per talune sue disposizioni, segna perfino un arretramento rispetto alla precedente revisione. E’sanzionata infatti la opzione esclusiva per la “gestione” in forma indiretta al fine di assicurare il migliore livello di valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica (è così sancita la mortificazione della responsabilità istituzionale). Né più si vuole che il parere della soprintendenza rimanga in ogni caso vincolante (anche a regime) quando la regione abbia delegato i comuni a rilasciare l’autorizzazione paesaggistica. Bene invece che i nuovi piani paesaggistici (e l’adeguamento di quelli esistenti) siano redatti di intesa da regione e soprintendenze e che il ministero possa autonomamente riconoscere nuovi ambiti di tutela paesaggistica, dettandone la disciplina. Mentre contrasta con il principio costituzionale dell’esercizio unitario della funzione di tutela la previsione che, una volta approvati i piani paesaggistici, il parere delle soprintendenze sulle progettate trasformazioni fisiche dei luoghi cessi di essere vincolante. E’ un cedimento subito nella sede della conferenza unificata stato–regioni che contraddice il testo, sul punto rigoroso, elaborato dalla commissione presieduta da Salvatore Settis.
E se pure, in conclusione, ci si voglia dichiarare soddisfatti per il recupero di essenziali funzioni alle istituzioni di tutela dello Stato, non può essere ignorato il problema che gli uffici territoriali del ministero - le soprintendenze - a quelle funzioni non sono in grado di far fronte (perché mantenuti in vistosa carenza di energie professionali e mezzi) e dunque la effettiva salvaguardia del paesaggio esige misure straordinarie che rimandano alla responsabilità politica del nuovo parlamento e del governo che verrà. E non è segno confortante che questo tema (l’adempimento di un precetto costituzionale, nel celebrato anniversario dei sessant’anni) sia rimasto del tutto assente dal dibattito elettorale e che si stenti a riconoscere nel programma dei partiti un prioritario impegno al riguardo.
“Un’occasione decisiva per segnare una svolta nella vita della nostra collettività”. “L’inizio di una rifondazione ecologica del Paese, la prima pietra di una nuova Italia”. Giovanni Valentini, dalle pagine di Repubblica del 28 gennaio, non nasconde l’entusiasmo per quello che non esita a definire “un moderno rinascimento civile”. Poi si rende conto, abbassa il tiro e aggiunge “o quantomeno una fase virtuosa nella gestione dell’ambiente”.
A cosa si deve tutta questa estasi? Pensate, all’ennesima revisione del Codice dei Beni Culturali, che avrebbe il pregio di riaffermare la competenza dello Stato nella tutela del paesaggio.
Bene. L’entusiasmo fa sempre bene, e vorremmo poterlo condividere. Purtroppo il nuovo “rinascimento civile” di cui vagheggia Valentini non è proprio dietro l’angolo e la revisione del Codice dei Beni Culturali sembra l’ennesima caricatura delle gloriose leggi di tutela del 1939, predisposta da chi ignora – pressoché completamente – il lavoro di trincea svolto ogni giorno dalle soprintendenze.
I nuovi 184 articoli del Codice – praticamente tutti – non sono noti, ma a leggere l’articolo di Valentini sembrerebbe che la principale novità – che poi novità non è - consista nell’attribuire alla soprintendenze il compito di autorizzare le trasformazioni del Paesaggio.
La legge 1497 del 1939, varata dopo un dibattito culturale di alto respiro, già assegnava alle Soprintendenze questo compito e già il regolamento del 1940 indicava nel “piano paesistico” il mezzo per prevedere, graduare e valutare gli effetti sul territorio della sommatoria delle singole trasformazioni, limitando, tra l’altro, il potere discrezionale di chi avrebbe rilasciato le autorizzazioni, con evidente vantaggio per la certezza del diritto.
Dunque, nessuna novità. La vera novità è l’ammissione del fallimento di un malinteso spirito di democrazia e decentramento che portò, dal ’77 in poi, ad attribuire il potere di autorizzare le trasformazioni del paesaggio, a quegli stessi soggetti – i comuni – che in tanti casi si sono resi corresponsabili dei peggiori guasti ambientali. Insomma, fu come affidare le pecore al lupo e non è un caso che la peggiore, estesa ed incontrastata devastazione del territorio nazionale sia avvenuta in a partire da quegli anni e fino al parziale recupero di competenze operato, nel 1985, dalla benemerita legge Galasso. La recente, ennesima proposta di modifica del Codice assume, dunque, il sapore rancido di un tardivo ravvedimento operoso.
Ma andrebbe anche bene, e potrebbe addirittura essere convincente se appena gli estensori dell’ultimissima versione del Codice si fossero soffermati ad analizzare lo stato di pietoso degrado in cui versa l’amministrazione periferica del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Quella, cioè, che dovrebbe metter in pratica i nuovi-vecchi principi di tutela.
Personale insufficiente, invecchiato e mal pagato, ma tutto indistintamente “riqualificato”, cioè slittato verso profili superiori, con conseguente assenza totale delle figure una volta definite “ausiliarie”. Cronica carenza di fondi, anche quelli necessari per la vigilanza, sedi insufficienti, pericolose e malsane, mancanza di attrezzature, di cancelleria, perfino della carta igienica. Eppure, con il regolamento di riforma del Ministero, approvato solo qualche mese fa, non si trova di meglio da fare che spezzettare gli uffici periferici, duplicando evidentemente i costi. Cui prodest?
Le soprintendenze stanno morendo. Lentamente, senza darlo a vedere, stanno morendo, assassinate da scelte politiche distratte, inadeguate, spesso autocelebrative. Ma mentre le soprintendenze muoiono, mentre la normativa italiana si arricchisce, ogni giorno di più, di norme derogatorie che consentono a chiunque di realizzare qualsiasi cosa ovunque, mentre i provvedimenti di tutela emessi dalle soprintendenze vengono impallinati dagli ipergarantisti tribunali amministrativi, mentre, insomma, il paesaggio va a puttane e, con esso, il Bel Paese, l’orchestrina del Mibac-Titanic, con l’acqua alle ginocchia, continua a suonare “Nearer, My God to Thee”.
Dunque, ancora un nuovo Codice, con effetto salvifico incorporato. Nuovo, o lavato con Perlana? Vedremo.
L’autore è coordinatore del settore per il paesaggio delle Soprintendenza per i B.A.P.S.S.A.E. di Salerno e Avellino
La fine del governo nazionale di centro-sinistra ha evidenti riflessi nella politica sui beni culturali, dati alcuni aspetti che riepilogo per punti: 1. la Regione Autonoma della Sardegna impegnata nella richiesta del passaggio di competenze sui beni culturali; 2.Il ridimensionamento degli Uffici di Tutela; 3. la recente sentenza della Corte Costituzionale sulle competenze in materia di paesaggio; 4. le modifiche del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio operate in Consiglio dei Ministri prima della crisi. Mentre i recenti spostamenti dei Direttori del Ministero fanno percepire tensioni fra i partiti dell’ex-Unione e, anche da noi, fra senso dello stato e radicalismo regionalista, a sinistra ( e dintorni) serve un nuovo approfondimento della questione.
Dopo oltre mezzo secolo di fitta discussione sulla natura pubblica dei beni culturali, non possiamo dare tale natura per scontata, neppure per legge: le generazioni nate tra gli anni ‘20 e gli anni ‘50 e formatesi su questi temi sanno quanto sia complesso (e probabilmente dovrebbero/dovremmo farlo assai meglio e di più) comunicare alle nuove generazioni per quale motivo ‘la testimonianza avente valore di civiltà’ vada tutelata, perché ciò abbia senso.
Il concetto non è affatto scontato né di immediata o innata formazione, anche se la disponibilità di almeno parte delle generazioni giovanili al bene comune è più alta di quanto sembrano farci credere i coatti del Grande Fratello o delle platee di Maria de Filippi. Conservare opportunamente i beni culturali (non in scantinati o assurde vetrine senz’anima, ma cognitivamente in senso pieno) è una delle risposte più efficaci all’alienazione di una società molto più unidimensionale di quella raccontata da Herbert Marcuse, rendendo l’esistenza umana più ricca e profonda.
Dal punto di vista storico e politico vi è la natura devastante di una crisi che vede la frammentazione dei popoli italiani come segno attualizzato di un processo nazionale nato male e mai concluso, quasi sempre - tranne rari bagliori temporali come la Resistenza e la fine degli anni Sessanta - condotto e modellato da aree e interessi forti.
Questa tendenza si contrasta anche potenziando nel campo della cultura i valori del bene comune e le politiche nazionali conseguenti, con un sistema nazionale unitario della tutela dei beni culturali (e del paesaggio), contributo alla soluzione del dramma mai risolto della questione meridionale nel processo di unità nazionale.
L’indebolimento della tutela si sente particolarmente nel Mezzogiorno d’Italia e in Sardegna, nelle aree urbane ma soprattutto in quelle non urbanizzate dove permangono reti di documenti storici, archeologici e non, ai quali lo Stato deve un impegno maggiore, che significa una forma non secondaria di riconoscimento pieno della stessa ‘questione meridionale’.
Se nella Sardegna i territori restituiscono dense testimonianze reticolari (si veda, sul Manifesto Sardo, “Sito, monumento, paesaggio”), che dire delle altre reti diffuse, se vogliamo più fragili ma ugualmente preziose, nelle aree lucane, pugliesi, calabresi, siciliane, nei territori vasti della Campania e del Lazio, e dovunque la modernizzazione agricola e industriale nei secoli non abbia piallato le testimonianze storiche ed archeologiche e annichilito le culture orali? Il nostro paese, considerato un modello di tutela all’avanguardia, è in forte affanno concettuale. Un esempio: il processo politico e legislativo italiano, dalla legge 1089 del 1939 all’attuale Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio non ha ancora avuto la capacità di riconoscere vera dignità al patrimonio delle tradizioni popolari, non istituendo Soprintendenze né Direzioni apposite (solo miste, e da pochissimi anni). Verrebbe da dire, sapendo che le leggi vengono promulgate dai vincitori, che vi sia rappresentata la vittoria delle società a cultura scritta su quelle a cultura orale.
Ma il ministro Rutelli promuove, assieme a Maurizio Costanzo, lo spettacolo dell’etnografia con una selezione di 20 eccellenze fra le tradizioni popolari. Considerazioni che necessiterebbero di altri approfondimenti.
Torniamo perciò al dato immediato, con il quale dovremo velocemente misurarci in maniera drammatizzata grazie alla crisi politica: nell’attuale fase storica con il passaggio della titolarità alla Regione faremmo un grave danno ed errore politico, perchè la tutela è un dovere morale e finanziario dello Stato; faremmo un regalo ai teorici del contenimento della spesa pubblica colpendo la comunità nazionale. Ad essa servono i beni culturali e paesaggistici di un mezzogiorno nuragico, indigeno, italico, magnogreco, meridiano, per aumentare il benessere materiale e morale; per apprendere che una tutela non può limitarsi a pochi grandi episodi artistici e architettonici (di rarità e pregio selezionava l’ottica idealistica, mai abbandonata, di Bottai) ma a tutta la storia del territorio, senza cesure.
Battaglia indifferibile, tanto più che dagli anni ’90 si stanno affermando nuove e forti spinte alla rottura della natura pubblica dei beni culturali e del paesaggio, con responsabili di ogni provenienza politica; sembra che esista solo una ‘malintesa’ valorizzazione. La privatizzazione di una patrimonio in teoria indisponibile (ricordate il grave progetto delle cartolarizzazioni per fare cassa in direzione delle grandi opere, su tutte il Ponte sullo Stretto di Messina), ebbe antecedenti nei ministri di sinistra – oggi nel Partito Democratico - che precedettero ai ‘beni culturali’ l’ondata tremontiana basata sulle strutturazioni del poi ministro Siniscalco. Ed anche dopo: da noi in Sardegna c’è stato a sinistra il grave tentativo di vendita di un patrimonio culturale come quello minerario, sventato e infine corretto, e il profilarsi di un modello di gestione dei beni culturali e paesaggistici il cui impianto, migliorativo rispetto ai silenzi del passato, non manca di forti criticità. Ne parleremo nel prossimo numero, ma ora è necessaria una profonda riflessione, e sicuramente una battaglia affinché questi beni pubblici non siano indeboliti e frazionati in ‘gabbie culturali’ (come quelle ‘salariali’), e possano diventare bene comune di un territorio vasto e articolato, che non è composto solo dalle città d’arte, dalle coste pregiate dalle grandi mostre. Dal bene che è pubblico, classica condizione necessaria ma non sufficiente, dobbiamo andare verso l’obiettivo del bene comune, in modo che la coscienza lo difenda meglio delle leggi; che la pregnante origine economica della parola ‘bene’ perda, attraverso la natura ‘comune’, le sue connotazioni economicistiche conducendo finalmente alla comunità.
Ma oltre alla dimensione nazionale, nella drammatica crisi attuale, vi è il più vasto scenario del mondo globale, la dimensione europea e planetaria. Grandi battaglie da condurre per rispondere all’Europa capitalistica con la nostra ricchezza culturale, contrastando la forza delle legislazioni liberiste di molti paesi, non orientate verso il bene comune e di fatto conniventi col traffico internazionale dei manufatti archeologici ed artistici. Vi è ‘semplicemente’ da impostare una politica mondiale sulla tutela. Una sinistra europea che non si misuri su questi temi è destinata alla sconfitta, poiché l’assenza di un pensiero politico condiviso e sviluppato nella materia è spia di un economicismo speculare a quello capitalistico, definito anche dalla maniera con la quale si intende e si ‘tratta’ il patrimonio culturale, e che non vede i nessi con le nuove irrompenti forme del lavoro culturale.
Lo spazio della questione è affascinante, da coniugare con le moltitudini che credono in un mondo diverso, sostenibile, senza guerre, dove le tematiche di liberazione e coscienza proprie del lavoro cognitivo possono intrecciarsi con la difesa, lo sviluppo e l’uso di quel bene comune che sono i cosiddetti beni culturali.
il manifesto sardo è raggiungibile qui
Sulla concordia ordinum fra ministri della repubblica, pubblici amministratori, imprenditori e bel mondo assortito quanto alla necessità di un maggior impegno del privato nella gestione del nostro patrimonio culturale (v. gli articoli riportati su eddyburg), è davvero esercizio vano sprecare qualche stupore. E all’enciclopedica saggezza del Presidente di Confindustria che nella fattispecie propone ricette sui destini del nostro patrimonio culturale solo i più pervicaci e faziosi spiriti radical bolscevichi possono ormai opporre qualche critica. Quanto alla soluzione indicata - il ricorso al privato come soluzione unica delle inefficienze del pubblico - in tempi di neoliberismo arrembante, appare scontata, anche se riproposta, nell’occasione, davvero in forme così rozzamente datate e con slogan di tale provincialismo ideologico da consigliare per lo meno un rapido avvicendamento di ghost-writer: speravamo di aver superato la visione dell’Italia “padrona” e “a gratis” del 50% del patrimonio culturale mondiale, ma a quanto pare nulla dell’armamentario d’antan ci è stato risparmiato, e dunque “privato è bello e buono” e di tale generosità da aver sborsato, complessivamente e sull’intera area torinese, come è stato orgogliosamente ribadito, ben 16 milioni di euro in venti anni!
Mentre la munificenza della Consulta per la valorizzazione dei beni artistici e culturali torinesi (che comprende, fra gli altri, Fiat e Pirelli, Toro e Bancaintesa) celebrava i propri fasti, a pochi kilometri di distanza, si inaugurava una delle imprese più rilevanti degli ultimi tempi, di recupero del nostro patrimonio culturale; proprio nelle stesse ore tornavano a risplendere, per il piacere di tutti noi, le meraviglie barocche della Venaria Reale: 200 milioni di euro in meno di 10 anni. Tutti soldi pubblici.
Intendiamoci, Venaria è solo un esempio, fulgido, meno isolato di quello che si voglia credere, ma non così normalmente diffuso come si possa sperare: quotidianamente eddyburg sottolinea, senza sconti “di parte”, come la gestione pubblica del nostro patrimonio sia largamente carente su più fronti. Anche da parte di chi scrive è stato sottolineato, a più riprese, come, fra gli aspetti positivi del nuovo Codice dei Beni culturali e del paesaggio sia da annoverare la maggiore apertura nei confronti dei privati: la partita per una tutela davvero attiva ed efficace del nostro patrimonio è tanto difficile e complessa che il ricorso al più ampio numero di risorse è non solo auspicabile, ma pressoché indispensabile.
Ma, come sempre, in un quadro in cui gli attori in gioco aumentano e le interrelazioni si complicano, altrettanto indispensabile appare il richiamo all’adesione di un insieme di regole condivise che salvaguardi, in primo luogo, la specificità del bene culturale e ne garantisca il suo statuto di bene pubblico.
In questo senso l’adesione incondizionata del ministro Rutelli alle affermazioni assai poco culturalmente attrezzate della kermesse torinese, appare a dir poco contraddittoria rispetto agli ondivaghi atteggiamenti del suo Ministero nei confronti di proposte assai equilibrate e rigorosamente regolamentate nella ripartizione dei ruoli di collaborazione fra enti pubblici e privati (il caso Campania su tutti).
E poi, proprio a Torino, il richiamo alla città sabauda come esempio di rinascita urbana attraverso la cultura rappresenta davvero un clamoroso effetto di fallacia causale: la città, regno incontrastato degli italici sovrani dell’auto, dal secondo dopoguerra fino a qualche lustro fa, durante tutta la fase di sviluppo industriale è rimasta prigioniera di una cappa di conformismo culturale che ne ha ingrigito il clima sociale e urbano per decenni e dal quale solo robustissime dosi di investimenti pubblici l’hanno risollevata in questa faticosa fase di riconversione postindustriale. Il successo non effimero di cui gode attualmente Torino sul piano culturale e sociale si deve quasi esclusivamente ad oculate e lungimiranti strategie di governo pubblico (soprattutto sul piano locale). In questo ambito agli Agnelli, davvero padroni della città (e non solo) per decenni, sono ascrivibili probabilmente, negli anni, molte elargizioni che difficilmente, in un computo anche solo volgarmente quantitativo, potranno mai lontanamente equiparare i cospicui aiuti pubblici, finanziari e non, cui la stirpe imprenditoriale ha attinto a piene mani ogni qualvolta (molto, molto spesso), la propria gestione privata dimostrava la sua inadeguatezza anche in termini di cultura industriale. E lo “scrigno” del Lingotto: un insieme senz’anima e senza eleganza di costosissime tele radunate a consacrare l’epopea di un capitalismo provinciale e approssimativo, che ha estrinsecato le sue migliori virtù intellettuali nell’applicazione dell’assunto “socializzare le perdite e privatizzare i profitti”.
Proprio per questo, la pretesa di inversione dei ruoli che si intravede in filigrana, ma distintamente, dietro lo slittamento lessicale reiteratamente ribadito dal consesso imprenditorial-finanziario – non più mecenati, ma “sponsor attivi” e superamento del “semplice” mecenatismo, a favore di “strategie aziendali”, che vuol dire, in soldoni, largo ai privati non solo come finanziatori, ma con un ruolo di vero e proprio indirizzo “strategico”, induce i nostri incoercibili spiriti malevoli, a nostalgie quasi inconfessabili: “aridàtece Giulio II”.
Mi ha stupito l’esecrazione e la condanna esagitata ed esagerata della tintura in rosso con l’anilina delle acque di Fontana di Trevi. A parte che Totò la vendeva, come tutti dovrebbero sapere dalla lettura di Gianburrasca, l’anilina è un colorante innocuo, tanto che nel collegio Stanislao ci si tingeva, per renderla più attraente alla vista, la minestra “di risciacquatura dei piatti” del giovedì destinata agli scolari. Al limite si poteva denunciare il plagio, perché le acque della Fontana erano già state tinte di rosso, per protesta contro la guerra in Vietnam, nel 1966, in occasione della visita del vice presidente americano Humphrey a Roma. Il degrado del luogo non dipende da simpatici gesti neo futuristi, che non arrecano nessun danno al monumento, ma dal volgare uso turistico di tutti i giorni. Per città e monumenti non è l’eccezionale il problema, ma il quotidiano.
Il sito di Luigi Prestinenza Puglisi è raggiungibile qui. Vi raccomando in particolare la lettura delle cartoline di Renato Nicolini, che trovate qui.
Abbiamo segnalato in molte rubriche quali siano stati gli effetti dell’aver affidato al solo mercato il governo delle città. Il caso che raccontiamo questa volta potrà in tal senso sembrare meno scandaloso. Si tratta di un atteggiamento da ancien regime da parte delle elites al potere. La sua gravità risiede nel fatto che segnali cambiamenti profondi nel funzionamento dello Stato: ad alcuni è ormai permesso tutto e diritti che sembravano universali si differenziano in relazione alla capacità economica.
Raccontiamola così, un gruppo di facoltosi amici e sodali vuol festeggiare il compleanno di attività di uno del gruppo. Avrebbero a disposizione luoghi esclusivi e inaccessibili agli sguardi indiscreti. Palazzi e giardini dove festeggiare nella discrezione. Ma a costoro è venuta in mente un’idea esclusiva: festeggiare all’interno del Foro romano, tra le rovine che tanto colpiscono l’immaginario collettivo. L’attenzione si è posata del tempio di Venere e Roma voluto da Adriano su uno spalto che domina il Colosseo. L’imperatore l’aveva voluto decastilo corinzio, e cioè formato da 10 x 9 colonne. Ai creativi della moda viene così in mente di ripristinare un tempio intero, sullo stesso luogo che le ospitava in origine. Una location mozzafiato, altro che la ricostruzione negli studi del Circo massimo per le scene di Ben Hur. E per sottolineare la propria classe e il fatto che non si bada a spese, il gruppo dei simpaticoni ha pensato bene di far ricostruire il tempio da un grande artista, Dante Ferretti, premio Oscar per la scenografia.
Ma lo Stato ha le sue regole e, come noto, alcuni edifici sono tutelati per consentirne la conservazione, per tramandarli alle future generazioni. Una di quelle fissazioni burocratiche, di quegli intollerabili lacci e laccioli inventati dallo stato liberale, devono aver pensato i sodali. Così la Soprintendenza archeologica di Roma dopo il primo scandalizzato rifiuto a concedere quel luogo è venuta a più miti consigli, ci dicono, per l’intervento dei potenti politici di turno. Segno appunto che lo Stato è finalmente diventato più moderno, più sensibile e più attento alle ragioni dell’economia. La presenza di Francesco Rutelli a capo del dicastero sembra dare i primi buoni frutti, l’esperienza dello scempio dell’Ara Pacis ha evidentemente insegnato qualcosa.
Così, come nelle più belle favole, all’allegra brigata è riuscito un colpo da manuale: festeggiare i quarantacinque anni della carriera dello stilista Valentino all’interno di un tempio e il Colosseo davanti agli occhi. La sera del sei luglio 2007, trecentocinquanta esponenti “della prima fila” tra cui spiccavano Carolina di Monaco, Claudia Schiffer, Anne Wintour, direttrice di Vogue america, solo per fare alcuni esempi, e tanti altri, ad iniziare dall’incontenibile delegazione dei politici di turno, potevano godere di un luogo da sempre chiuso al pubblico. Le esigenze del mercato consentono di poter disporre di tutto, di ogni cosa, di ogni luogo. Se chiedete perché sia stato concesso di far svolgere una festa privata in un luogo tutelato, vi spiegheranno infatti che il ritorno d’immagine dei video che invaderanno il mondo porterà colossali fortune al popolo romano.
A cento metri dal luogo del misfatto, il piano terra del Colosseo è chiuso da decenni da vecchi e ossidati tubi innocenti il cui unico merito è quello di consentire il passaggio della blasonata colonia felina. Ma sono vergognosamente brutti. Eppure il Colosseo è meta di interminabili code di visitatori, in media 3 milioni e mezzo all’anno, per un introito di almeno 21 milioni di euro. Una parte di questo tesoretto poteva essere almeno utilizzata per realizzare una chiusura dignitosa, ma forse quei soldi sono serviti a finanziare le imprese. E se il comparto pubblico è stato messo in condizione di non fare nulla, all’iniziativa privata non si deve frapporre alcun limite. I furbetti del tempio di Venere hanno vinto. Del resto, i problemi delle città non esistono più, si limitano soltanto la fastidiosa presenza di lavavetri e accattoni. Tutto il resto va benissimo.
Sull'argomento vedi anche Pecunia non olet e Valentino & monumenti.
Privati, sponsor attivi di cultura
Andrea Casalegno -Il Sole 24 ore, 13 ottobre 2007
«Torino, che sa fare sistema, è un modello da imitare» ha detto ieri Luca Cordero di Montezemolo, presidente di Confindustria e della Fiat, alla giornata di studi sul «Finanziamento privato dei beni culturali» che celebrava vent'anni di attività della Consulta per la valorizzazione dei beni artistici e culturali torinesi, presieduta da Lodovico Passerin d'Entrèves. «L'Italia da dieci anni cresce meno di ogni altro Paese europeo - ha proseguito -, riceve solo il 2% degli investimenti extra Ue, contro il 7% della Francia e il 9% di Gran Bretagna e Spagna, non attrae gli studenti stranieri e persino nel turismo, dopo essere stata la prima al mondo all'inizio degli anni 70, oggi sta scivolando al settimo posto, benché possieda il 50% del patrimonio artistico mondiale. Ma oggi parlerò del bicchiere "mezzo pieno ". Finalmente si torna a discutere di semplificazione burocratica, di "meno tasse, meno spese e più investimenti", di energia nucleare. Anche il patrimonio artistico è un atout per il Paese; ma solo se, invece di ridursi a mera rendita di posizione, diventa un fattore di promozione del territorio, prezioso in particolare per le piccole imprese. Per valorizzarlo però, senza gravare sulla spesa pubblica, è essenziale l'apporto dei privati».
Inventata da sei imprenditori torinesi, tra i quali Passerin d'Entrèves, la Consulta ha realizzato il modello di "sponsor attivo" richiamato ieri, in chiusura dei lavori, da Maurizio Costa, amministratore delegato della Mondadori e presidente della commissione Cultura di Confindustria. «Oggi - ha concluso Costa - siamo impegnati, insieme al ministro per i Beni culturali Francesco Rutelli, nella creazione di un Osservatorio sulla cultura d'impresa e sul patrimonio storico-culturale che analizzerà quantità, qualità e tipologie di tutti gli interventi degli imprenditori».
Invece di sponsorizzare singole iniziative, secondo la vecchia formula del mecenatismo, la Consulta, alla quale partecipano, tra le altre imprese, Fiat e Skf, Ferrero, Lavazza e Martini & Rossi, Pirelli e Telecom, Toro e Vittoria Assicurazioni, IntesaSanpaolo e Crt, oltre all'Unione industriale e alla Camera di commercio di Torino, si richiama alla grande tradizione torinese di Riccardo Gualino, che creava cultura. La Consulta non si limita a finanziare restauri, ma recupera e valorizza, d'intesa con gli enti locali e la Soprintendenza per i beni artistici, i simboli del passato, consolidando il senso d'identità e di appartenenza. E ce n'era bisogno. «Vent'anni fa - ha ricordato Passerin d'Entrèves - visitare il centro con ospiti stranieri era imbarazzante per il degrado». In vent'anni la Consulta ha speso 16 milioni di euro per un milione di ore di lavoro divise in 20 progetti, tra cui il Parlamento subalpino (dal 1861 primo Parlamento italiano), il monumento a Vittorio Emanuele II («Sono particolarmente affezionato a quell'iniziativa - ha detto il sindaco Sergio Chiamparino - perché è legata alla mia prima uscita pubblica come sindaco»), le statue della Venaria (ieri c'è stata anche l'inaugurazione della Reggia), il complesso monumentale, con giardino settecentesco, della Villa della Regina, le statue del Po e della Dora in via Roma, le due chiese di piazza San Carlo e, non ultime, due cancellate monumentali: a Palazzo Reale e al Teatro Regio. I progetti continueranno con la Biblioteca Reale, la Galleria Sabauda e una grande mostra storica sulla fabbrica Lenci.
Per il finanziamento privato dei beni artistici l'attività della Consulta e, in generale, il modello Torino sono apparsi esemplari. Louis Godart, consulente del Quirinale per i beni culturali, ha lodato il nuovo allestimento delle statue del Museo Egizio («Nessuno le aveva mai viste così») e Mario Turetta, direttore generale per il Bilancio e le risorse umane del ministero per i Beni culturali, ha rivelato i numeri del successo: «II turismo italiano perde colpi ma quello nelle città d'arte, composto per il 57,7% da stranieri, è in crescita. E’ rispetto al dato generale (+6% nel 2005), il risultato del Piemonte è eccezionale (+63% contro il +12% della Lombardia). A Torino le presenze aumentano, dalla Fiera del libro al Salone del gusto e al turismo; al Museo Egizio si raddoppia addirittura: +93%», «Un successo - commenta il presidente della Fondazione Museo Egizio Alain Elkann - cui hanno contribuito vari fattori, dall'allestimento innovativo della statuaria all'intensa attività di comunicazione. E persino gesti semplici come la collocazione di una guardia giurata nell'atrio del Museo, per impedire l'accesso ai venditori abusivi che prima vi bivaccavano indisturbati».
«Pompei? Ai privati» II piano delle imprese
Raffaella Polato - Corriere della Sera, 13 ottobre 2007
Sergio Chiamparino, il sindaco di una città che da Olimpiadi e patrimonio culturale ha costruito la propria rinascita, lo chiama «nuovo mecenatismo: e non è fatto di questue ma di vera collaborazione pubblico-privato». Luca Cordero di Montezemolo, presidente di Confindustria che del circuito arte-cultura-storia-turismo parla da sempre come di «un asset trascurato, ed è un delitto perché dopo l'industria potrebbe essere il secondo grande fattore di crescita per il Paese», ovviamente sottoscrive. E rilancia.
Esempi ne avrebbe mille. Però, per dire, «pensate a Pompei». Non fa il nome (ma dev'essere Tony Blair) dell'«importante ex premier straniero» che, dopo una visita agli scavi, «era alquanto stupito, ed è un eufemismo, di quel che ha visto intorno. Non un albergo, non un negozio, non una grande libreria: erbacce e carta».
Morale: «Usciamo dalla demagogia del "pubblico". Perché sé poi il pubblico non ce la fa, allora si passi la mano ai privati. Con tutti i controlli e le regole, ovvio. Ma abbiamo patrimoni enormi che, soprattutto al Sud, sono totalmente abbandonati a se stessi. E non è possibile». Tanto meno accettabile.
L'«esempio virtuoso» può essere proprio Torino, quella collaborazione pubblico-privato che ha usato il volano delle Olimpiadi ma ieri, per esempio, ha finalmente riportato allo splendore che merita la Reggia di Venaria. E da vent'anni — con enti e imprese raggruppate nella Consulta presieduta da Ludovico Passerin d'Entrèves — «adotta» e restaura beni storico-artistici.
Una visione di sistema che, dice Montezemolo, dimostra «quali siano poi le ricadute anche sull'economia e sull'occupazione». Ci aspettiamo turisti, «ci aspettiamo cinesi e indiani?». Se li vogliamo, diamo loro strutture e infrastrutture: «Rendiamoci conto che anche il patrimonio culturale ne fa parte. E non ci è costato nulla: è un'enorme risorsa che abbiamo ereditato, è la storia del nostro Paese», insiste al convegno organizzato per il ventennale della Consulta.
Poi certo, a una frecciata il presidente di Confindustria non rinuncia: «Vogliamo i turisti, ma non abbiamo una compagnia aerea in grado di portarli. E noi che abbiamo ricevuto tante lezioni dallo Stato su come gestire le nostre imprese...». Però non è giorno di polemiche, al di là delle battute «mai come oggi occorre sottolineare le cose positive che comunque il nostro Paese ha». «Spirito costruttivo», insomma, che si traduce nella proposta «formalizzata» per Confindustria da Maurizio Costa (numero uno Mondadori e presidente della Commissione cultura di Viale dell'Astronomia) : «Noi siamo già passati dalla fase del mecenatismo a quella delle strategie aziendali. Il passo avanti, la chiave di sviluppo auspicabile per il futuro, sarebbe una vera e propria partnership tra il pubblico e il privato».
Piace a Francesco Rutelli la proposta di Confindustria. «Montezemolo ha assolutamente ragione», sottolinea il ministro dei Beni Culturali. E qualcosa si muove. «Nella Finanziaria ci sono già innovazioni importanti», ricorda il vicepremier che aggiunge: ora servono incentivi.
Un nuovo scossone agita gli scavi di Pompei. Il ministero per i Beni culturali ha designato il direttore amministrativo della Soprintendenza archeologica, il city-manager che dovrebbe governare i custodi e tutti gli altri dipendenti, facendo funzionare una delle macchine più imponenti e anche più arrugginite dell´intero patrimonio artistico italiano, inceppata da incrostazioni clientelari e da inefficienze - dai cani randagi che razzolano fra i ruderi alla conflittualità esasperata, agli scioperi e alle assemblee che impediscono ai visitatori di entrare. Il nuovo direttore amministrativo si chiama Antonio De Simone. È un archeologo, qualifica che appare appropriata se non fosse, come fa notare qualcuno, che il direttore amministrativo deve occuparsi di conti e di gestione del personale e non deve decidere cosa scavare e cosa restaurare.
La nomina ha colto di sorpresa il soprintendente di Pompei, Pietro Giovanni Guzzo. Guzzo ha scritto una lettera al ministero in cui contesta la scelta, che appare come una duplicazione del suo incarico, una specie di soprintendente-ombra. De Simone, docente universitario, ha in corso vari scavi a Pompei ed ha collaborato strettamente con Baldassarre Conticello, che a Pompei fu il primo soprintendente, e dai cui metodi di ricerca Guzzo si è distaccato con nettezza. La nomina di De Simone sarebbe stata fortemente sostenuta dal vescovo di Pompei, monsignor Carlo Liberati, che, caso piuttosto irrituale, appena saputo della designazione, ha scritto alla Soprintendenza un vibrante telegramma di plauso. I vescovi di Pompei sono sempre molto sensibili alle vicende degli scavi, e tanto più ora che un grande edificio di proprietà della Curia verrà ristrutturato con i soldi della Regione Campania (12 milioni di euro) e ospiterà un complesso museale e di assistenza ai turisti, i cui ricavati dovrebbero andare, in parte, alla Curia stessa.
Nel dicembre scorso Guzzo aveva presentato le sue dimissioni al ministro Rutelli per una vicenda che ha molte analogie con quella di questi giorni. Rutelli aveva infatti confermato al suo posto di direttore amministrativo Luigi Crimaco, archeologo anche lui, ex direttore del Museo civico di Mondragone, vicino, si è sempre detto, ad Alleanza nazionale. Cambiato il governo, a molti sembrò naturale sostituire Crimaco, che invece alla fine del 2006 si vide confermato il contratto fino al luglio successivo.
A favore di Guzzo si erano mobilitati archeologi italiani e stranieri, oltreché funzionari della Soprintendenza pompeiana. Prima di arrivare a Pompei, nel 1994, Guzzo aveva diretto il Museo Nazionale Romano e il Colosseo. Ad accrescere la sua autorevolezza una ricchissima bibliografia, sia sui temi specifici dell´archeologia sia sulla tutela e l´organizzazione dei beni culturali. Un lungo colloquio con Francesco Rutelli aveva poi indotto Guzzo a ritirare le dimissioni. Crimaco sarebbe rimasto al suo posto, ma a fine estate sarebbe stato rivisto l´assetto dell´intera Soprintendenza pompeiana.
E in effetti qualcosa si è mosso. Crimaco è andato via a fine luglio. Inoltre, nel progetto di riorganizzazione complessiva del ministero, approvato da Rutelli, è stato previsto che la Soprintendenza di Pompei e quella archeologica di Napoli si unificassero e che venisse abolita la figura del direttore amministrativo. Contemporaneamente, però, uno strano cortocircuito ha portato a designare un archeologo per un posto che ha caratteristiche prettamente amministrative e che, per di più, sta per essere abrogato. E per Pompei si è aperta l´ennesima fase di incertezza.
Titolo originale: Italy resorts to telethon to protect antiquities – tradotto da Maria Pia Guermandi
Gravato dall'onere di restaurare e salvaguardare centinaia di siti archeologici e culturali in rovina, il governo italiano, in penuria di cassa, ha fatto ricorso ad un appello diretto agli italiani perchè offrano contributi attraverso una tre giorni televisiva di telethon. Con l'obiettivo di raccogliere tre milioni e mezzo di euro nel corso del week-end, cantanti lirici, attori e conduttori italiani sono stati arruolati per perorare elargizioni durante una kermesse sulla rete televisiva pubblica, la RAI, in cui si susseguivano gli annunci e i richiami sulle disastrose conseguenze degli eventuali mancati restauri in siti come la casa dell'imperatore Augusto sul colle Palatino.
Giovedì scorso, lanciando la maratona di raccolta dei fondi, il ministro della cultura Francesco Rutelli, ha raccontato al pubblico televisivo i pericoli derivanti dalla mancata protezione contro i tombaroli di scavi e monumenti, in un paese che ospita 41 siti segnalati dall'Unesco, ma che può stanziare solo 300 dei 700 milioni necessari per la loro manutenzione annuale.
Col sottofondo vibrante della musica di Ennio Morricone, sette siti sono stati reclamizzati in comunicati televisivi a rotazione, compresa la villa di Augusto dove affreschi e pavimentazioni stanno andando in rovina, la necropoli punica di Sulky in Sardegna, risalente al quarto secolo a.c. e una fortezza normanna abbandonata vicino a Cosenza.
Gli organizzatori hanno dato spazio anche a siti di epoche più recenti come il giardino reale di Racconigi nel cuneese, dove l'intervento di restauro è necessario per salvare le serre del diciannovesimo secolo dove sono cresciuti i primi ananas italiani. Fra i beneficiari è inserito anche il centro di restauro di antichi strumenti musicali a Cremona, così come una vecchia linea ferroviaria del diciannovesimo secolo che collega i centri siciliani barocchi di Siracusa, Modica e Ragusa. Se i telespettatori sganceranno, il treno sarà trasformato in un museo viaggiante per i visitatori.
Il sito più moderno fra i candidati è stato sostenuto dal cantante lirico Andrea Bocelli: un museo per non vedenti ad Ancona dove i visitatori possono toccare le riproduzioni di sculture e reperti archeologici.
Il ministro della cultura italiano ha evidenziato che gli italiani hanno donato nel 2006 solo 42 milioni di euro per la tutela del loro patrimonio culturale, a confronto con i 350 milioni elargiti dai francesi.
Mentre la maratona si avvia alla conclusione, le donazioni stanno raggiungendo l'ammontare auspicato, anche se 300.000 euro dell'insieme provengono da una fondazione americana.
Il telethon arriva in un momento di crescente risentimento, in Italia, nei confronti delle costose consuetudini e dei privilegi della classe politica.
Nel tentativo di fornire un esempio di onesta impresa da parte dei politici, Rutelli ha mostrato alcune delle opere d'arte che l'Italia ha reclamato in quanto frutto di furti e contrabbando dai suoi territori ottenendone, attraverso i tribunali, la restituzione dal Getty Museum di Los Angeles.
Rutelli ha dichiarato che le opere saranno esposte in una mostra gratuita a Roma, al Quirinale, l'esteso palazzo presidenziale che si è ritrovato nel mezzo della protesta contro gli sperperi dei politici dopo che è stato reso noto come i costi del mantenimento del presidente e del suo esercito di corazzieri, giardinieri e lucidatori di argenti è più alto di quello di Buckingham Palace.
I funzionari e i sovrintendenti del Ministero dei Beni Culturali sono tra gli impiegati statali meno pagati in Italia. Vengono disprezzati dai costruttori, che spesso cercano di corromperli, e dalle amministrazioni comunali e regionali, che li giudicano superflui. Ma dobbiamo quasi soltanto a loro se, in questi ultimi trent´anni, le chiese, i palazzi, le strade e i paesaggi sono stati conservati, non sempre, nel migliore dei modi.
Se non ci fossero i sovrintendenti, è probabile che la Villa romana di Piazza Armerina, coi suoi meravigliosi mosaici del quarto secolo, verrebbe trasformata in un condominio con abitazioni di tre camere e doppi servizi: ognuna con un frammento del mosaico romano, ora in salotto, ora nella camera da letto, ora davanti allo specchio del bagno, ora splendidamente in cucina.
Le regioni a statuto speciale, o una parte di esse (la Sicilia, il Trentino e il Sudtirolo) non obbediscono in nessun modo (per legge) ai pareri dei sovrintendenti e del Ministero dei Beni Culturali. In queste tre regioni (conosco meno bene la situazione in Val d´Aosta e nel Friuli-Venezia Giulia), le giunte comunali, gli assessori e i sindaci possono fare tutto quello che vogliono: abbattere chiese e palazzi, stravolgere piazze e strade, violare paesaggi. In fondo, questo è il desiderio di tutte le regioni italiane, che vorrebbero trasformare le città e i paesi a loro capriccio, senza ascoltare i pareri (ritenuti conservatori e pedanteschi) delle autorità centrali.
Tutti sanno quello che è accaduto in Sicilia, attorno alla zona archeologica di Agrigento. Lo stesso avviene in regioni che sembrerebbero più attente al proprio passato. Due anni fa, il sindaco di Monguelfo, nel Sudtirolo, ha fatto abbattere la pretura, ambientata in un edificio del quindicesimo e sedicesimo secolo, malgrado il parere del tribunale di Bolzano. La vicenda di Monguelfo si ripete in questi giorni a Trento. Le vecchie, eleganti carceri sono state costruite tra il 1876 e il 1890 dall´architetto Karl Schaden in quello stile che ancora oggi, se andiamo a Vienna, o a Praga, o a Zagabria, o a Lubiana, o a Dubrovnik, ci fa sentire il profumo dell´Austria-Ungheria: il luogo, diceva Joseph Roth, dove "quello che era straniero diventava domestico senza perdere il suo colore, e la patria aveva l´eterno incanto dell´estero". Ora, il comune di Trento ha deciso di demolire le vecchie carceri, sebbene, come suggerisce la delegazione del FAI, esse potrebbero venire trasformate in un edificio a destinazione pubblica o privata.
Non so come si concluderà la storia delle carceri di Trento: probabilmente nel peggiore dei modi, malgrado l´opposizione dei cittadini. Le regioni a statuto speciale ricordano appassionatamente di appartenere allo Stato italiano, quando ne incassano i finanziamenti troppo grandiosi. Negli ultimi mesi abbiamo assistito allo spettacolo grottesco di Cortina d´Ampezzo, che ha deciso di trasmigrare nel Sudtirolo, sebbene non abbia nulla a che fare col Sudtirolo, per prendere parte al gioioso festino. Ma queste regioni dimenticano all´improvviso di essere italiane, quando desiderano distruggere edifici antichi, o rovinare paesaggi, contro il parere del Ministero dei Beni Culturali, che non ha il potere giuridico di intervenire. Questa situazione non può durare più a lungo. Lo Stato deve imporre la propria volontà, modificando leggi e consuetudini, in modo che una stessa legge difenda tutto il nostro territorio dai suoi distruttori.
Se c’è un settore, in ambito culturale, in cui l’Italia gode di indiscusso prestigio internazionale per il livello di conoscenze acquisito negli anni, esercitato sui mille cantieri nazionali ed esteri di salvataggio e recupero del patrimonio culturale, consolidato e sistematizzato attraverso il magistero dell’Istituto Centrale del Restauro, fondato da Cesare Brandi, è proprio quello del restauro: davvero rarissimo caso di esportazione di sapere in un paese in cui, come noto, innovazione e ricerca sono la cenerentola ipocritamente blandita in ogni programma politico e regolarmente negletta al momento della spartizione delle risorse. Sulla capacità e competenza dei nostri restauratori e sulla qualità complessiva dei loro interventi, quindi, è davvero ingeneroso sollevare critiche generalizzate. E inoltre, sia detto en passant, si tratta di un settore di altissima specializzazione tecnica su cui la critica dovrebbe essere esercitata, in primis, da “addetti ai lavori”.
Certo è vero che qualche incidente di percorso, negli anni, si è verificato e che, purtroppo, in questo campo, quasi sempre il ripristino dello status quo antea è, per natura stessa dell’intervento, impossibile; e altrettanto vero è che l’impressione che si respira al momento dell’inaugurazione di ogni nuova mostra è ormai ricorrente, questa essendo una delle occasioni principali in cui, in presenza di risorse esterne – gli sponsors – curatori e soprintendenti possono mettere in cantiere restauri anche importanti: i quadri rifulgono nei loro colori brillanti, creando un effetto complessivo di omologazione che più di una critica ha sollevato. Annettere questo effetto, dovuto soprattutto alla compresenza di molte opere restaurate e, per scelta espositiva, legate per contiguità stilistica alle pressioni dei finanziatori che spingerebbero, per tornaconto mediatico, per ottenere effetti “shock”, significa però sminuire fortemente, e ingiustamente, il ruolo di elaborazione scientifica che i funzionari competenti del Ministero per i Beni Culturali esercitano in interventi di questo tipo. Ogni operazione di restauro è esito finale di un’istruttoria compiuta da storici dell’arte, archeologi, architetti che, sulla base delle rispettive competenze, programmano e decidono necessità e priorità di tutela e quindi di restauro del nostro patrimonio: può evidentemente accadere che le uniche risorse economiche per procedere a interventi di recupero siano preferibilmente elargite in talune direzioni (è inevitabile che il finanziatore preferisca legare il proprio nome a Raffaello piuttosto che a Cagnacci) e che quindi siano le opere più “famose” a ricevere le prime cure, ma è davvero eccessivo e in certa misura denigratorio, ritenere che alcuni quadri siano sottoposti a restauri non necessari solo per rincorrere i desideri degli sponsors. Il problema non sono i restauri che si fanno, ma quelli, tantissimi, che non si fanno per mancanza sistemica di risorse. Mancanza che costringe, per l’appunto, i curatori del nostro patrimonio culturale, a drastiche selezioni, in cui l’elemento esterno rappresentato dalla disponibilità di un finanziamento agisce, caso mai, in seconda battuta, quando cioè si debba scegliere fra opere tutte ugualmente bisognose di interventi conservativi.
Questo modo di procedere determinato dalle condizioni ormai sempre più consolidate di emergenza perenne in cui le nostre soprintendenze sono costrette a muoversi, naturalmente è ben lontano da quel principio di “conservazione programmata” che Salvatore Settis e Carlo Ginzburg ricordavano come sintesi del pensiero di uno dei maestri del restauro, Giovanni Urbani; nella stessa direzione e ancor più drasticamente, Manfredo Tafuri affermava che "il restauro si fa quando la conservazione è fallita". Come non essere d’accordo? Certo, in tempi in cui la parola “pianificazione” ha ormai assunto solo un risvolto sinistro di vetero sovietismo, l’espressione “conservazione programmata” pare riservata ai territori inattingibili dell’utopia. Eppure certo, anche in questo caso, un’efficace operazione di tutela può essere raggiunta solo dove si proceda ad una programmazione scientificamente mirata. Ma se questo non succede e se il nostro patrimonio culturale è ancora così fragile e così esposto ai rischi del degrado e l’opera di chi è preposto a salvaguardarlo resa sempre più difficile e complessa da un convergere di elementi negativi che vanno dalla asfissia di mezzi e risorse alle pressioni sempre più forti di interessi di parte, ciò non si deve certo all’ “eccesso di cura” rappresentato da pratiche generalizzate di restauri impropri.
Alquanto apodittica appare quindi questa richiesta di moratoria incondizionata propugnata da Settis e Ginzburg e soprattutto lontana dalle reali emergenze cui si trovano esposti i nostri beni culturali. E fors’anche un po’ antistorica: ogni epoca stabilisce il proprio rapporto con il patrimonio artistico tramandatoci, e in questo rapporto, anche un atteggiamento nei confronti della conservazione che si esprime in un complesso di regole e di pratiche. Può anche darsi che il nostro modello conservativo non sia il migliore possibile in assoluto e che quindi venga superato in un futuro anche prossimo, ma se, come nel caso italiano, è il frutto più avanzato delle nostre conoscenze attuali, abbiamo il dovere-diritto di utilizzarlo per realizzare l’obiettivo, comunque condiviso, di trasmettere questo patrimonio alle generazioni future.
* vicedirettore di Eddyburg
Nell'ultimo quarto di secolo la fisionomia di opere capitali, che appartengono al patrimonio artistico non dell'Italia soltanto ma dell'umanità, è cambiata profondamente. Al restauro del soffitto della Cappella Sistina e del Giudizio di Michelangelo, preceduti da quello della Camera degli sposi affrescata da Mantegna a Mantova, sono seguiti i restauri dei cicli di Masaccio e Masolino a Santa Maria del Carmine, di Giotto a Padova, di Piero della Francesca ad Arezzo: un lungo elenco che potrebbe continuare, includendo tavole e tele altrettanto importanti conservate in chiese e musei.
Si è trattato di restauri diversi per natura e per risultati. Essi sono stati discussi, e continueranno ad esserlo, da parte degli addetti ai lavori. Ma il fenomeno ha richiamato da tempo un'attenzione più vasta da parte dell'opinione pubblica internazionale. Come cittadini vogliamo esprimere una profonda preoccupazione. Chiediamo una pausa di riflessione, che nasce dalle seguenti considerazioni.
1) Il concentrarsi dei restauri su opere celeberrime come quelle citate, riprodotte in tutti i manuali di storia dell'arte, non ha bisogno di spiegazioni.
I gruppi industriali o finanziari che appoggiano quei restauri investono ingenti somme di denaro in cambio di pubblicità: chiedono risultati visibili, possibilmente clamorosi; all'eliminazione di ciò che può aver prodotto il degrado sono meno interessati. Una conseguenza inevitabile è che opere meno note, ma altrettanto o più bisognose di restauro, vengono spesso ignorate. Una conseguenza possibile (ma tutt'altro che irrealistica) è che opere notissime vengano sottoposte a restauri non urgenti che le rendano ancora più fragili. L'incuria e l'accanimento terapeutico sono due facce della stessa medaglia.
2) Ogni restauro costituisce un'interpretazione storica, anche quando si nasconde dietro l'alibi di una presunta scientificità «asettica» e senza tempo. Ma l'interpretazione di un testo scritto (una cronaca, un atto notarile ecc.) non è irreversibile; un restauro in molti casi lo è. Togliere una velatura da una tavola, un ritocco a secco da un affresco, un elemento che fa parte della stratificazione storica dell'opera, equivale a bruciare la pagina di un testo che ci è arrivato in un unico manoscritto. Quella tavola, quell'affresco non torneranno mai più quello che erano: e d'altra parte la restituzione dell'opera al suo stato originario, quando uscì dalle mani dell'artista, è per definizione inattingibile. E' giusto che una generazione si arroghi il diritto di intervenire drasticamente, trasformandola in maniera irreversibile, su una parte così cospicua, qualitativamente e quantitativamente, della tradizione artistica italiana, sulla base di una cultura figurativa specifica - la nostra, modellata dalle fotografie a colori e dai faretti, dalle sciabolate di luce elettrica che trasformano il gioco delle luci e delle ombre in carte da gioco? E' giusto correre un rischio del genere?
Come l'ambiente naturale, anche l'ambiente artistico è diventato estremamente fragile. In entrambi i casi la riflessione arriva forse troppo tardi, in una situazione ormai compromessa. Ma come il proverbio ci ricorda amaramente, il peggio non è mai morto. Dobbiamo chiederci quale patrimonio artistico ci apprestiamo a lasciare alle generazioni future, e in quali condizioni. Non dobbiamo dimenticare che, quando era direttore dell'Istituto Centrale per il Restauro, Giovanni Urbani propose di sostituire alla strategia del restauro come terapia d'urto quella della «conservazione programmata»: un continuo, capillare, diffuso monitoraggio delle opere d'arte teso a impedirne o rallentarne il degrado.
E' un'indicazione preziosa, a patto che si tenga presente, al di là della lettera, lo spirito che l'ha dettata. Una pausa di riflessione, una discussione ampia e non convenzionale su questi temi sono necessarie. Chiediamo una sospensione di tutti i restauri ad eccezione di quelli a fini di mera conservazione. Una moratoria è necessaria.
«Le colonne in vetroresina? Sono semplicemente orribili, specie in alcune ore del giorno quando la luce le rende semitrasparenti come un calamaro». Arnax, così si firma il lettore internettiano, usa un paragone alla "Ventimila leghe sotto i mari" per rispondere al quesito lanciato dal sito di roma repubblica.it ai suoi lettori. E cioè: «Le false colonne sopra il Tempio di Venere - quelle utilizzate per la coreografia della cena di gala durante la festa di Valentino a luglio, e ancora non rimosse - vi piacciono o no?». Una domanda che ha scatenato un vortice di critiche tra il popolo del blog. Ultima coda di una polemica cominciata già dai primi giorni dopo la loro installazione. Con l’ex soprintendete ai Beni archeologici Adriano La Regina, che aveva definito tutta l’operazione «un modo sciatto e incolto di gestire i monumenti»; il successivo ordine dell’attuale soprintendente Angelo Bottini, di togliere subito le finte colonne a festeggiamenti finiti. Poi, il contrordine. Quello della dottoressa Silvana Rizzo, consigliere culturale del ministro Francesco Rutelli: «Rimarranno lì sicuramente fino ai primi di ottobre».
E lì stanno a tutt’oggi. Fotografate dai turisti, mal sopportate dai romani. Romani che sul blog si sono scatenati: «A me le colonne non piacciono, sono un pugno ad un occhio. Lì dove il tempo si è fermato vedere «quelle cose di plastica» fa veramente un brutto effetto», scrive sul sito una lettrice dal nome in codice Maxgala. E d’accordo è anche Lamalmedy che alle 8,20 manda in rete il suo verdetto: «Assolutamente da togliere e al più presto!». Anche Robecas2007 non le manda a dire: «Le colonne hanno lo stesso impatto visivo degli scarabocchi sui muri». E giù a dissertare sul senso dell’opera, firmata dal premio Oscar Dante Ferretti che si erge su un sito archeologico come il Tempio di Venere, bisognoso di consolidamento. E dove invece, hanno banchettato in 400 brindando ai 45 anni della maison dello stilista: «Non riesco a capire il senso di trasformare il Foro Romano in una sorta di Caesar´s Palace nostrano - scrive Moniq - Mi sfugge il significato di una colonna di cartapesta accanto a ricordi della storia del mondo... «. Critica a tutto campo per l’internettiana Ele02: «Sono invasive, riducono le rovine ad una pista circense e avrei molte altre cose da dire rispetto all’esposizione di Valentino all’interno dell’Ara Pacis. Scandalosa».
Ma non tutti sono d’accordo. Come Lamuzazie, un po’ cybernauta un po’ poeta, che sulla rete esprime la sua: «E invece, le colonne in vetroresina sono interessanti perché si trovano lì in quello scenario rimasto immobile nel tempo, E loro se la ridono, gaie. Tendono al cielo pure loro. Perché non dovrebbero farlo? Perché sono di plastica? O solo perché a Roma le uniche scenografie concesse sono quelle che hanno smesso di respirare da tempo. Poveri capolavori del passato, se guardate bene, i fori sono contenti di queste nuove intruse, hanno familiarizzato, il contrasto sottolinea ancor di più il loro splendore. E rende anche meno monotona e ripetitiva ogni visita in blocco dei turisti. Io passo lì davanti e mi incuriosisco, mi volto, rifletto, reagisco. Le colonne non sono finte, sono più che reali, e diverse. Per questo vi danno fastidio».
Sulle "Valentiniadi" in eddyburg
"Ora togliete le colonne di plastica"
Carlo Alberto Bucci – la Repubblica, ed. Roma, 2 settembre 2007
La festa dei vip è finita da mesi, ora è tempo che anche le colonne di Valentino lascino il tempio di Venere e Roma. «Ho dato da tempo disposizione ufficiale di procedere alla loro rimozione», la risposta secca del Soprintendente Angelo Bottini. Che per domani attende l’arrivo degli operai dello scenografo Dante Ferretti, o di quelli della maison di Valentino: dovranno smontare i luminosi cilindri in vetroresina dal podio dell’edificio sacro che s’affaccia sul Colosseo. Proprio la base del tempio - sulla quale hanno banchettato i 400 invitati nella cena di luglio - è del resto al centro degli indispensabili interventi di consolidamento per contribuire ai quali Valentino ha donato 200mila euro. Criticato dall’ex soprintendente La Regina per l’mpatto sul monumento antico (che non è accessibile al pubblico), il colonnato è stato difeso dall’archeologo Carandini, «a patto che sia tolto in tempi ragionevoli». Lo stesso Bottini pose un limite all’uso del tempio che dal ministero gli era stato chiesto di concedere: «Sì, solo perché è per un evento eccezionale, irripetibile ...».
Ai Fori restano le false colonne fino a ottobre
Renata Mambelli – la Repubblica, ed. Roma, 7 settembre 2007
Per ora restano. Le colonne in vetroresina che fanno bella mostra di sé sopra i ruderi del Tempio di Venere, in faccia al Colosseo, non saranno smantellate con la fine dell’estate, come aveva dichiarato il ministro dei Beni Culturali Rutelli. Nonostante le polemiche suscitate e la richiesta di rimozione del sovrintendente Bottini, l’installazione curata dallo scenografo Dante Ferretti nata come sfondo per la cena di gala per i 45 anni della maison di Valentino verrà prorogata. «Si andrà avanti sicuramente per tutto settembre, forse fino ai primi di ottobre», ci spiega la dottoressa Silvana Rizzo, consigliere culturale del ministro, che anticipa anche nuovi eventi che si terranno nella cornice delle colonne: sono in programmazione per gli inizi di ottobre due o tre incontri aperti al pubblico, a numero chiuso, con i più illustri studiosi che stanno lavorando ai restauri del Palatino.
«Non capisco perché tante polemiche sulle colonne del tempio di Venere», continua la dottoressa Rizzo, «Si tratta di una scenografia, tra l’alto di un premio Oscar, che si presta al gioco di far vedere com’era un tempio nell’antica Roma. Durante questi mesi abbiamo avuto molti apprezzamenti, su richiesta sono state tenute diverse visite guidate. Fare un allestimento così solo per una serata sarebbe stato uno spreco di denaro, in questo modo si è offerto qualche cosa a tutti i romani». Quanto ai lavori di consolidamento e agli scavi nell’area del tempio, ai quali Valentino ha contribuito con 200 mila euro, se non sono iniziati non è colpa delle colonne di Ferretti: «Per gli scavi, che saranno condotti dall’Università La Sapienza in collaborazione col Ministero dei Beni Culturali e con la Sovrintendenza, bisogna aspettare l’erogazione dei fondi», spiega ancora la dottoressa Rizzo, «non se ne parlerà prima dell’inizio dell’inverno». E poi, aggiunge, «possibile che con tutti gli orrori che ci sono ai Fori Imperiali, compresi i falsi gladiatori e i furgoni abusivi e no che vendono panini, quello che sembra dare più fastidio siano proprio queste colonne in vetroresina?»
La breve nota di domenica scorsa sembrava quasi scontata, nella sua ragionevolezza, una “non” notizia, appunto: finita la festa, anzi la “celebration”, spentisi gli echi accortamente rimbalzati per giorni e giorni sui media di mezzo mondo delle crapule di vipperie e politicanti assortiti, come si conviene, occorrerebbe “sparecchiare”. In questo caso, alle desuete regole di educazione e buon gusto, si aggiungevano, en passant, le determinazioni del responsabile istituzionale dell’area in oggetto, il Soprintendente Archeologo di Roma. Ma si sa, viviamo in tempi di flessibilità giuridica e relativismo culturale latamente inteso: l’opinione dell’attuale Soprintendente, di quello precedente e di un cospicuo e sempre più perplesso numero di studiosi non solo nazionali è sembrata forse frutto di rigidità burocratiche un po’ bacchettone. Così appare per lo meno dal tono di quasi disarmante meraviglia che traspare dalle dichiarazioni riportate della consigliera Rizzo, talmente risibili nei contenuti culturali e nell’innocente inconsapevolezza dei meccanismi istituzionali da suscitare, lì per lì, solo un sorriso distratto e indulgente nei confronti dell’evidente stress da rientro postvacanziero.
Non ad altro si potrebbero addurre le analogie acrobatiche fra Dante Ferretti e l’architetto del tempio di Venere, gli involontari ossimori degli “incontri aperti” a “numero chiuso”, la trasmutazione degna delle migliori alchimie di un evento di marketing commerciale divenuto operazione didattica di successo. A ulteriore scusante della consigliera (che, è noto, è mestiere ingrato, di incerti destini e labili contorni tematici) si può d’altro canto aggiungere la consacrazione delle celebrazioni valentiniane ad opera del Sovraintendente ai Beni Culturali del Comune di Roma che nella prefazione culturale al catalogo della kermesse in Ara Pacis abbina il sarto di Vigevano allo scultore augusteo: “due classicità a confronto” (sic!).
E se le colonne in vetroresina, pare di capire che, forse, fra un mese, verranno rimosse, l’allestimento di decine e decine di manichini che circondano l’altare romano si prolungherà ancora almeno fino alla fine di ottobre, soffocando fin quasi all’asfissia il monumento, ormai divenuto accessorio e incongruo, con chilometri di chiffon e quintali di paillettes e perline (come quelle dei conquistadores…) e nascondendo per mesi parte dell’apparato didattico (il plastico e le copie di ritrattistica giulio-claudia).
La sortita settembrina, però, ad un occhio attento rivela anche altri elementi: ad esempio inaugura un nuovo stile di comunicazione ministeriale, più rilassato (in ogni senso), per cui le iniziative del Mibac relative alla più famosa area archeologica mondiale sono anticipate e pubblicizzate a mezzo stampa anche se in contrasto con quanto stabilito dal supremo responsabile della tutela dell’area stessa.
E che stile: quelle poche righe sono davvero un concentrato di equivoci e ambiguità forse non del tutto inconsapevoli, come quella di accreditare a Valentino, novello mecenate, la sponsorizzazione dei restauri e degli scavi archeologici. In realtà i 200.000 euro (pagabili in comode rate diluite in molti mesi) sono il prezzo stabilito per l’uso privato del monumento e del sito, cifra che, considerati i tempi dilatati (ma nel contratto non erano stabilite date certe?) e il ritorno mediatico ottenuto, si può a pieno titolo dichiarare come molto modesta. Ad una cena privata con celebrità di vario conio e origine erano funzionali le colonne di Dante Ferretti, non certo ad una ricostruzione filologica per visite didattiche. All’opposto, il perdurare dell’allestimento avrebbe richiesto una adeguata segnalazione di segno contrario, ai visitatori ignari e spesso sconcertati.
E al limite del comico, infine, appare il parallelismo fra il colorito teatrino di gladiatori e ambulanti che circonda i luoghi della romanità per il sollazzo e il dileggio dei turisti e le scenografie allestite al tempio di Venere sulla base di accordi istituzionali sottoscritti al massimo livello di responsabilità istituzionale.
Di fronte a simili enfatiche smargiassate mediatiche, contrabbandate per operazioni culturali, seppur mitridatizzati dall'ossessivo e stucchevole ritornello del "bene culturale come risorsa", riaffiorano alla memoria le parole, fastidiosamente attuali, di Cederna sarcastico censore dell'uso retorico e superficiale della romanità che bollava come inequivoco sintomo di: "ripiegamento su un assetto politico-economico arcaico, rifiuto della cultura e della tecnica, di ogni pianificazione nell'interesse pubblico" (Mirabilia Urbis, X). m.p.g.
Sulle "Valentiniadi" in eddyburg
In Toscana vive e si diffonde a tutti i livelli una cultura che conserva, propone e si mobilita per la difesa del paesaggio e del territorio inteso come eccellente bene comune. Al professor Salvatore Settis che contro l’alienazione selvaggia dei cosiddetti "gioielli di famiglia" si è sempre coraggiosamente battuto, avanzando proposte innovative sia sul piano istituzionale che su quello più propriamente culturale, poniamo alcune domande su temi che hanno animato e acceso aspre polemiche su come dovrebbe essere gestito il patrimonio culturale toscano. Una battaglia che non ha mai risparmiato nessuno, ma, senza cadere in facili banalizzazioni, le scaramucce tra destra e sinistra nelle varie sedi istituzionali, nulla hanno a che fare con ciò che anima il lavoro di Settis: la difesa del patrimonio culturale è una battaglia di quotidiana civiltà.
La politica di vendita del nostro patrimonio culturale è sostanzialmente fallita. Ma non i tentativi di depredare il nostro più prezioso bene comune da parte di spregiudicati immobiliaristi. Come impedire che tali scempi possano accadere?
Occorre agire su due fronti: il rigore nelle regole e la diffusione della consapevolezza di questo problema tra i cittadini. Solo un'efficace azione educativa (a cominciare dalle scuole) può far sperare che gli egoismi dei singoli vengano bilanciati e frenati dalla preoccupazione del bene pubblico.
Eppure anche in Toscana basta un trucchetto come quello del "cambio di destinazione d'uso" o qualche autorizzazione azzardata e la si dà vinta ad una visione d'insieme speculativa. Il ruolo dell'intellettuale in questa battaglia qual è?
Non assuefarsi, non accettare il compromesso, richiamare ai principi, argomentare con rigore, non piegarsi alle regole della politica spicciola, ma intendere la politica nel suo significato originario: il governo della cosa pubblica nell'interesse generale, e non il piccolo cabotaggio delle micro-pattuizioni elettoralistiche.
Nuovi poteri alle soprintendenze: è la via maestra per salvaguardare il nostro patrimonio culturale?
Bisogna mettere le Soprintendenze in grado di rispettare le norme esistenti, attraverso il rinnovamento e rinvigorimento degli organici. Da troppo tempo non si fanno più assunzioni, e quando si ricomincerà devono esser fatte puntando sulla competenza e sul merito, e su nient'altro.
Creare dei centri di eccellenza che siano in grado di esaltare quanto di specifico il territorio per poi affidarli a chi ha appena conseguito una laurea triennale. Non le sembra un contradditorio?
È contraddittorio, per temi tanto delicati la laurea triennale non basta, occorre non solo un percorso quinquennale ma anche qualcosa di più, la specializzazione o il dottorato di ricerca su questi temi.
A ciascuno il suo compito: al Ministero la "tutela" e alle regioni la "gestione" del bene culturale e paesaggistico. Va bene così o si tratta di un modello superato e da trasformare?
Tutela, valorizzazione e gestione sono un continuum inseparabile. Chiunque gestisca i vari segmenti, è bene che intorno vi sia uno stretto coordinamento per evitare duplicazioni, dispersioni di energie, conflittualità diffusa.
Possiamo ancora sperare di veder tronare nel nostro paese almeno una parte delle opere d'arte illegittimamente esposte nei principali musei del mondo?
È un processo bene avviato, che sta dando i suoi frutti, e spero che continui positivamente nei prossimi anni: fermo restando che possiamo legittimamente richiedere indietro solo ciò che è stato illecitamente esportato dopo le convenzioni Unesco in materia di patrimonio culturale, e non prima.
E sulla stesura del Nuovo Codice dei beni culturali può darci qualche anticipazione?
Abbiamo presentato al Ministro Francesco Rutelli una bozza, e per la fine di luglio speriamo di avere la proposta definitiva della Commissione che se ne occupa. Poi la cosa andrà naturalmente nelle mani del Ministro per la sua definitiva approvazione.
Le "Valentiniadi" sono appena finite. Lasciando per tutta l´estate un colonnato di vetroresina issato sui resti del tempio di Venere e una folla di manichini variopinti intorno e addosso all´immacolata Ara Pacis. Ma lasciando anche uno strascico di polemiche - accese, come il rosso dello stilista giunto al 45esimo anno di attività - sull´impiego dei beni archeologici per una cerimonia di compleanno. Contrastate dall´opinione di chi esalta il valore artistico dell´evento organizzato sul modello della festa barocca e, comunque, assolutamente effimero.
S´indigna l´archeologo Andriano La Regina: «È un modo sciatto e incolto di gestire i nostri monumenti. Non ho nulla contro le feste ma penso che le colonne trasparenti sarebbero state benissimo in un quartiere povero di opere d´arte. Non su un monumento che ogni giorno viene visitato da migliaia di persone. Dobbiamo avere più rispetto per chi fa chilometri e chilometri per venire ad ammirare l´archeologia romana. E non umiliarla con interventi incongrui che ne alterano la forma e il contenuto».
Di tutt´altra idea il professor Andrea Carandini: «A Roma la dimensione della festa c´è sempre stata. L´importante è che l´apparto effimero sia tolto in tempi ragionevoli». L´archeologo che scava sul Palatino non crede «alla sacralità dei monumenti». Piuttosto ritiene che interventi come quello dello scenografo Dante Ferretti «attirino l´attenzione su un edificio di straordinaria importanza. Come studioso non sono molto interessato all´evento Valentino. Ma l´Italia deve promuovere i suoi uomini. E, in quest´epoca di spettacolo, non si può non passare attraverso il rito della festa».
Sulla stessa lunghezza d´onda il soprintendente Angelo Bottini, che ha dato l´ok all´utilizzo del tempio. «È un evento eccezionale, irripetibile e che non va banalizzato con altre operazioni del genere», sostiene l´archeologo mettendo un freno ad altri spettacoli pirotecnici, «allestiti comunque senza rischi per i monumenti», tra i Fori. E il suo no all´incontro di boxe del mese scorso? «Quello sì che comportava una banalizzazione per il Colosseo e per l´Arco di Costantino».
C´è un precedente all´operazione "Nascita della Bellezza" (grazie alla quale, ha spiegato il ministero Beni culturali, Valentino ha donato 200mila euro per il restauro del tempio di Venere) ed è la retrospettiva del 2004 di Armani alle terme di Diocleziano. «Ma quello è uno spazio congruo, vuoto, dedicato alle mostre, e tale era l´esposizione dello stilista milanese» sottolinea La Regina, allora soprintendente. «Nessuna differenza - ribatte Carandini - ed è stato La Regina il primo a concedere il Colosseo per la musica, perché ora si meraviglia?».
E la mostra con 300 capi storici aperta fino al 28 ottobre all´Ara Pacis? Tuona La Regina: «Ma come si può sottrarre per tutti questi mesi l´ara di Augusto alla visione corretta del monumento da parte dei visitatori? Abiti bellissimi, certo, ma esponeteli in una sede adatta!». Che nel museo progettato da Richard Meier non manca. «Se mi chiedessero di esporre all´Ara Pacis io non invaderei lo spazio dell´opera antica», interviene Mimmo Paladino, autore del grande mosaico presente nell´edificio inaugurato nel 2006. «C´è il piazzale e c´è un bellissimo museo di sotto: perché interrompere la contemplazione dell´Ara da parte del pubblico con un segno invadente?».
Con deliberazione del Consiglio dei Ministri del 3 agosto 2004 è stata promossa presso la Corte costituzionale[1] la questione di legittimità costituzionale di alcune disposizioni del nuovo Statuto della Regione Toscana [2].
Tra le suddette disposizioni figurano quelle specificamente indicate ai punti 3) e 4) dei motivi di impugnativa esposti nella succitata deliberazione.
Con il primo si eccepisce che la lettera l) del comma 1 dell’articolo 4 del nuovo Statuto regionale toscano prevede che la Regione persegua, tra le finalità prioritarie, “la tutela dell’ambiente e del patrimonio naturale, la conservazione della biodiversità, la promozione della cultura del rispetto per gli animali”. E si sostiene che “tale disposizione esula dalla competenza legislativa della regione, ponendosi in contrasto con l’articolo 117, comma 2, lettera s), della Costituzione, che riserva alla competenza esclusiva dello Stato la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema”.
Con il secondo si eccepisce che la lettera m) del medesimo comma 1 dell’articolo 4 del nuovo Statuto prevede che la Regione persegua altresì, sempre tra le finalità prioritarie, “la tutela del patrimonio storico, artistico e paesaggistico”. E si sostiene che anche “tale disposizione risulta invasiva della competenza esclusiva statale nella materia della tutela dei beni culturali prevista dall’articolo 117, comma 2, lettera s), della Costituzione, [...] attribuita alla potestà legislativa esclusiva dello Stato.
In effetti, a norma della lettera s) del secondo comma dell’articolo 117 della Costituzione (come modificata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3) lo Stato ha legislazione esclusiva, tra l’altro, nelle materie denominate “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”.
Il fatto è che le surriportate impugnate disposizioni del nuovo Statuto nè asseriscono, nè tampoco implicano, che la Regione Toscana intende invadere le competenze legislative dello Stato nella materie di cui alla lettera s) del secondo comma dell’articolo 117 della Costituzione.
L’articolo 4 del nuovo Statuto regionale toscano, infatti, si limita a esporre un lungo elenco (pari alle ventuno lettere dell’alfabeto) di “finalità prioritarie”, della più diversa natura, che “la Regione persegue”. Tra di esse sono citate anche “il rispetto dell’equilibrio ecologico, la tutela dell’ambiente e del patrimonio naturale, la conservazione della biodiversità, la promozione della cultura del rispetto per gli animali”, e “la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, artistico e paesaggistico”.
Ma nulla è detto circa i modi, cioé le forme, in cui tali finalità debbano essere perseguite.
Talché avrebbe dovuto, come deve, pacificamente assumersi che l’intendimento (e per converso l’obbligo, che sarebbe stato assolutamente pleonastico esplicitare) sia quello di perseguirle nel pieno e assoluto rispetto delle competenze costituzionalmente assegnate (e garantite) a ognuno dei soggetti che, a norma del comma 1 dell’articolo 114 della Costituzione (come modificata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3), costituiscono la Repubblica: i Comuni, le Province, le Città metropolitane, le Regioni, lo Stato.
Quindi non legiferando nelle materie riservate alla competenza esclusiva dello Stato come denominate dalla Costituzione (“tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”) e, necessariamente, meglio specificate dalla legislazione statale di settore.
Ma invece anche legiferando non soltanto (come riconosciuto legittimo – e ci mancherebbe! - dal Consiglio dei Ministri) in materia di “valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, materia “di legislazione concorrente” (in cui spetta alle regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato) a norma del terzo comma dell’articolo 117 della Costituzione (come modificata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3). Ma anche in materia di “governo del territorio”, materia anch’essa “di legislazione concorrente”, nel contesto della quale le tematiche della tutela dell’ambiente, del patrimonio naturale, del paesaggio, del patrimonio storico (artistico, o semplicemente testimoniale), cioé di quanto si può riassumere sotto le voci dell’”integrità fisica” e dell’”identità culturale” del territorio”, hanno avuto, e debbono avere, valenza ampia, e prioritaria.
A meno che non si voglia dare della dizione “governo del territorio” una definizione (quale, a esempio, “un’attività che concerne l’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati”) ben più riduttiva di quella alla quale si era pervenuti, con riferimento alla dizione “urbanistica”, nella legislazione statale antecedente alla riforma del Titolo V della Costituzione, e cioè con l’articolo 80 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n.616, per cui “le funzioni amministrative relative alla materia urbanistica concernono la disciplina dell’uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell’ambiente”.
E, per l’appunto, le contestate disposizioni del nuovo Statuto regionale toscano potrebbero addirittura alludere a un perseguimento delle indicate finalità essenzialmente (quand’anche non esclusivamente, per i motivi appena sopra esposti) mediante atti amministrativi, di natura regolamentare, o pianificatoria, ordinaria o specialistica, quale, per esempio, l’attività di pianificazione paesaggistica tassativamente richiesta alle regioni dall’atto legislativo recante la quasi totalità della vigente legislazione (“esclusiva”) statale in materia di “tutela dei beni culturali”, cioé dal decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42, recante “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, e meglio noto come “Codice Urbani”!!! e allora, dove sussisterebbe la lamentata invasione della competenza legislativa statale???
Quantomeno sotto l’ultimo profilo sopra trattato, le contestate disposizioni del nuovo Statuto regionale toscano potrebbero, e presumibilmente dovrebbero, comparire come finalità da perseguire in tutti gli statuti non soltanto delle regioni, ma anche delle province, delle città metropolitane (quando ci si deciderà a costituirle, anziché cacciarle, assieme alle farfalle, sotto l’Arco di Tito), dei comuni.
Non foss’altro che per rispettare il secondo comma dell’articolo 9 della Costituzione (inserito tra i Principi fondamentali della stessa, talchè le restanti parti della medesima devono, all’occorrenza, essere interpretate così da non contraddirlo), a norma del quale “la Repubblica [...] tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. La Repubblica, per l’appunto: la quale, secondo l’originaria (e da chi scrive amaramente rimpianta) stesura della Costituzione “si riparte in Regioni, Provincie e Comuni”, mentre secondo la versione novellata “è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni, e dallo Stato”.
In effetti, quando l’Italia non era “federalista”, e vigeva la Costituzione del 1948, tutte le regioni a statuto ordinario inserirono, negli anni ’70, nei rispettivi statuti, l’enunciazione di finalità omologhe a quelle oggi contestate al nuovo Statuto regionale toscano (e lo stesso fecero, negli anni ’90, dopo l’entrata in vigore della legge 8 giugno 1990, n.142, sull’”Ordinamento delle autonomie locali”, un’enorme numero di province e di comuni).
E quasi tutte le regioni dettarono norme legislative volte ad assicurare che nell’attività pianificatoria d’ogni livello fosse adeguatamente presente la tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio (usando in proposito i termini più diversi, talvolta scombiccherati, spesso sinonimici, frequentemente pletorici). E molte regioni legiferarono in materia di tutela dei centri storici, e dell’edilizia storico-artistica e storico-testimoniale sparsa. E in materia di salvaguardia dell’equilibrio degli ecosistemi, e dei geotopi e biotopi rari, e perfino dei singoli esemplari arborei di pregio. E così via tutelando, salvaguardando, disciplinando.
Sempre troppo poco. Nella legislazione, nella regolamentazione, nella pianificazione, e ancor più nell’attività quotidiana di autorizzazione e controllo.
Talvolta, sia le regioni che gli enti locali, in contrapposizione con le amministrazioni statali (o “miste”) specialisticamente competenti all’amministrazione delle tutele. In tali casi, avendo, prevalentemente, torto, e peraltro vedendoselo, prevalentemente, dare. Salvo qualche clamoroso caso contrario (sotto entrambi gli aspetti).
Ma, tutto sommato, abbastanza spesso “concorrendo” (nel significato più etimologicamente e giuridicamente proprio del termine) al medesimo scopo: la tutela.
E oggi? e domani? non è che questo Governo, autore o promotore del maggior numero, e con la maggiore gravità, di attentati alle qualità del Paese concepito e realizzato da almeno un secolo, si prefigge, con un esibizione di muscoli “centralistici” che non sarà certo contrastata dai pseudo-federalisti e dai quasi(?)-secessionisti che costituiscono buona parte della sua maggioranza, di inibire a regioni, province e comuni di porre “vincoli” a tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio? del resto, si può immaginarsi un Jefferson Davis che protesta perché Abramo Lincoln vorrebbe, con legge federale, introdurre la schiavitù negli Stati del Nord?
[1] Ai sensi dell’articolo 123 della Costituzione, come modificata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3.
[2] Approvato dal Consiglio regionale in prima deliberazione il 6 maggio 2004 e in seconda deliberazione il 19 luglio 2004.
Vedi anche l'eddytoriale n, 52
La straordinarietà, quantitativa e qualitativa, del patrimonio culturale di cui dispone l’Italia spiega come, già a partire dal 1800, il legislatore italiano, anche se a singhiozzo e conformemente alla mutevole e contingente sensibilità verso la materia, sia intervenuto per definire i principi, gli istituti generali e l’assetto istituzionale relativo alla amministrazione dei beni culturali e ambientali.
Il rinnovato entusiasmo recentemente manifestato anche in ambito europeo, unitamente alle esigenze di adeguamento della disciplina conseguenti alla riforma costituzionale italiana del 2001, hanno prodotto il D.Lgs. 22.1.2004 n. 42 (così come successivamente modificato ed integrato dai D.Lgs. n. 156 e D.Lgs. n. 157 del 24.3.2006) - meglio noto come Codice Urbani - che rivaluta e riorganizza l’intera materia secondo criteri di organicità, sistematicità e completezza.
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio sembra ispirato ad una filosofia nuova: l’accresciuta, generalizzata, sensibilità verso la tutela mira alla realizzazione concreta della funzione propria dei beni culturali e ambientali, ossia l’elevazione spirituale dell’uomo e il progresso della civiltà. Le esperienze passate, probabilmente, hanno chiarito che ciò è possibile solo a condizione che la tutela e la valorizzazione siano effettive, efficaci e capaci di garantire una protezione attiva e diffusa dei beni. Obbiettivo, quest’ultimo, che il Codice tenta di perseguire predisponendo un sistema di garanzie che, col supporto di un articolato impianto sanzionatorio, impegna soggetti istituzionali (Ministero per i beni e le attività culturali, Soprintendenze, Regioni, Enti pubblici territoriali) e privati (proprietari, possessori, detentori dei beni e associazioni portatrici di interessi diffusi). Detto coinvolgimento si esplica attraverso la previsione di divieti, doveri, diritti, poteri e facoltà individuali [1] e di forme di partecipazione, intesa, coordinamento, cooperazione e sostituzione [2].
Ma è nella applicazione pratica dei suoi principi, che spesso ha evidenziato vistose contraddizioni, che si può cogliere appieno la portata innovativa del Codice rispetto alla disciplina previdente.
L’esperienza Sarda, tutt’ora in corso, ne costituisce un esempio lampante.
Karalis - Cagliari – deve il suo nome alla conformazione collinare del suo paesaggio urbano. In pieno centro cittadino è situato il Colle di Tuvixeddu-Tuvumannu, che occupa una superficie di circa 48 ettari ed ha il privilegio di custodire (nel versante sud occidentale) la più grande necropoli punico-romana del Mediterraneo: centinaia di sepolture scavate nella roccia, impreziosite da decorazioni ed arricchite da corredi funerari, disseminate in uno spazio di circa 10 ettari, è ciò che rimane dopo l’attività di cava e le devastazioni edilizie incontrollate degli anni ’70.
Ebbene, i recenti esperimenti di tutela di quest’area, di eccezionale valore storico-paesaggistico, evidenziano molto bene i mutamenti di prospettiva e la conseguente diversa incisività degli interventi pre e post codicistici.
Complice la travagliata esperienza Sarda in tema di pianificazione territoriale paesistica, il vincolo paesaggistico imposto nel 1997 [3], si è rivelato incapace di conferire all’area una adeguata tutela. Tant’è che l’Accordo di Programma sottoscritto qualche anno dopo dalla Regione Autonoma della Sardegna e dal Comune di Cagliari [4] (attuale proprietario della porzione di area sulla quale insiste il realizzando Parco), al fine di concordare le modalità di programmazione, esecuzione e coordinamento delle rispettive competenze nell’ambito di un vasto progetto di riqualificazione ambientale e urbana dell’intera zona, interveniva su luoghi il cui aspetto originario era già fortemente compromesso. Oltre alla realizzazione di un Parco archeologico-naturalistico denominato “Karalis”, l’Accordo prevedeva l’esecuzione di una serie di iniziative immobiliari, rientranti nell’ambito del Piano Integrato d’Area – P.I.A. [5], a sua volta recepito integralmente dal Piano Urbanistico Comunale di Cagliari del 2004, con la conseguente sottomissione a vincolo archeologico diretto di solo 20 dei 48 ettari costituenti estensione totale dell’area. Sulla restante porzione insisteva il progetto di sviluppo edilizio e stradale che, essendo ritenuto compatibile e fattibile, otteneva il nulla osta paesaggistico[6].
L’entrata in vigore del Codice Urbani (risalente al 1.5.2004) si è abbattuta furiosamente sulla esasperante lentezza degli iter amministrativi necessari alla emanazione dei provvedimenti miranti alla salvaguardia e sulle scelte di tutela approssimativa dei relativi beni. Così, dopo essere stato consegnato ad anni di abbandono e degrado, il colle di Tuvixeddu-Tuvumannu ha improvvisamente acquisito una posizione centrale nell’ampio dibattito sulla nuova concezione di tutela culturale e ambientale. Le problematiche intorno alle quali si incentra la disputa sono tante quanti sono i soggetti coinvolti e i relativi interessi contrapposti, e sono tanto più accese quanto più l’inversione di rotta, rispetto al vecchio sistema di protezione, si è dimostrata repentina ed intransigente.
In particolare il Codice [7] si è rivelato sia uno strumento utilissimo per rafforzare gli obbiettivi di tutela del patrimonio culturale che una occasione imperdibile per adottare il tanto sperato Piano Paesaggistico Regionale[8] che, classificando il Colle di Tuvixeddu-Tuvumannu quale bene paesaggistico di interesse storico culturale, è stato solo il primo di una lunga serie di interventi ispirati al Codice Urbani.
Infatti, sulla scorta di questa disciplina, il vincolo è stato rafforzato imponendo la misura cautelare della inibizione o sospensione dei lavori, comunque riferibili alle opere (pubbliche e/o private) intraprese sull’area di Tuvixeddu, in quanto ritenuti idonei a recare pregiudizio all’area tutelata[9]. Al fine di superare l’efficacia interinale del provvedimento, la neonata Commissione regionale per il paesaggio[10], ha proposto la dichiarazione di notevole interesse pubblico ex art. 140 e la ripartizione dell’area in quattro zone con decrescente intensità di tutela. L’attività della Commissione è, poi, confluita nell’intervento diretto della Regione da esplicarsi essenzialmente nella rimodulazione del P.I.A., la cui approvazione è stata equiparata a dichiarazione di pubblica utilità ai sensi dell’art. 98 del Codice [11].
Questi fatti esprimono l’aspetto più determinato, quasi “intransigente”, della filosofia di tutela fatta propria dal Codice applicata al caso concreto, di cui è un chiaro segnale anche l’iniziativa Regionale volta all’attivazione delle procedure di esproprio (ex art. 96) per causa di pubblica utilità e per fini strumentali, di edifici ed aree limitrofe ai beni ed alle aree oggetto di tutela, al fine di “…assicurare luce e prospettiva…” nonché “…garantire o accrescere il decoro o il godimento da parte del pubblico e facilitarne l’accesso”. Dal punto di vista pratico questa prolifica attività deliberativa si è tradotta in una stratificazione di vincoli che, ancora oggi, convivono sopra la stessa area: un vincolo di natura storico-culturale, uno (più esteso) di natura paesaggistica ed il terzo di conservazione integrale [12].
A tutti questi interventi, complessivamente valutati in vista dell’importante risultato che si propongono di perseguire, non si può se non riconoscere il valore della grande conquista, tuttavia è necessario essere coscienti del fatto che i frutti di questi sforzi (anche in termini di effettivo godimento dei beni da parte della collettività) si potranno cogliere (ad essere ottimisti) non prima del medio-lungo periodo. Infatti, lungaggini burocratiche a parte, rimane il fatto che porsi l’obbiettivo di tutelare e valorizzare il patrimonio culturale secondo uno spirito che non ha precedenti, potrebbe non bastare o addirittura produrre conseguenze dannose, se il regime rivoluzionario che ne scaturisce è destinato ad operare in un contesto – in termini di struttura organizzativa e sociale - non adeguatamente, preventivamente e gradualmente preparato ad accogliere i rinnovati principi. Ciò vale, a maggior ragione, se si vuole introdurre un regime che, rispetto al precedente, appare rivoluzionario.
L’esperienza che qui si sta analizzando, offre diversi spunti di riflessione anche sotto questo ulteriore profilo.
Si è visto che gli interventi protettivi sul patrimonio di Tuvixeddu, seppure tardivi nella prospettiva di evitare i danni (passati e presenti) oramai subiti dall’area, rivelano la chiara intenzione di avviare l’adeguamento tempestivo al Codice Urbani, il che rende auspicabile sia il recupero (nei limiti del possibile) dei beni già danneggiati sia, soprattutto, l’assunzione di scelte che (almeno per il futuro) possano scongiurare nuovi eventi dannosi.
In termini generali (anche se non è certamente questa la sede per approfondire la questione) è utile ricordare, in proposito, che l’impianto sanzionatorio predisposto dal Codice Urbani (che in gran parte raccoglie l’eredità della L. 1089/1939, successivamente trasfusa nel D.Lgs. 490/1999), contempla una notevole varietà di comportamenti illeciti in quanto dannosi e/o pericolosi per il patrimonio culturale, rilevanti dal punto di vista penale e amministrativo [13].
Per entrare nello specifico della realtà che si sta analizzando (e senza presunzione di fornire un quadro completo di tutti gli effetti patologici, scaturiti o scaturibili) sin d’ora sembra potersi affermare con certezza che il danno derivato dalla modifica irreversibile dell’assetto morfologico–ambientale e storico-culturale dei luoghi, causato dagli interventi già intrapresi sulla zona a vario titolo è, praticamente, inestimabile. Stesso discorso vale per il danno da mancata fruibilità collettiva delle bellezze dell’area, causato dapprima dall’abbandono e dal disinteresse e, successivamente, da un interesse soffocante che, in definitiva, ha determinato il blocco degli interventi di completamento del parco archeologico.
Dal lato opposto, ma sempre nella prospettiva di una battaglia in cui tutti abbiamo perso qualcosa, lo stravolgimento dei principi che, sino all’era Urbani, avevano caratterizzato le scelte di convivenza tra interessi legati allo sviluppo urbano e interessi di tutela ambientale e culturale, non poteva se non scatenare una forte reazione da parte di chi, nel pregresso sistema, aveva maturato delle aspettative, tanto più se legittime, degli interessi o peggio acquisito dei diritti e intrapreso degli investimenti. L’importanza dei danni, di natura eminentemente patrimoniale, che ne scaturiscono è tale che sarebbe inverosimile aspettarsi un sacrificio silenzioso, anche se in gioco vi è la tutela di un bene costituzionalmente protetto.
L’esperienza Sarda (che sicuramente non è l’unica) sembrerebbe mostrare come i buoni propositi contenuti nel Codice Urbani, non solo possono essere vanificati dalla carenza di un idoneo supporto organizzativo, ma addirittura possono rivelarsi controproducenti se imposti senza la preventiva, adeguata ricognizione (obiettiva e realistica) delle caratteristiche che distinguono il contesto ambientale e sociale destinato ad accoglierli che, spesso, deve confrontarsi con la difficoltà di percepire il patrimonio culturale come un bene comune, come plusvalore per la collettività che lo detiene.
È certo che una seria iniziativa di vincolo sulla base del nuovo Codice “non poteva se non scatenare una forte reazione da parte di chi, nel pregresso sistema, aveva maturato delle aspettative, tanto più se legittime”. Ma non sembra affatto che tali aspettative possano configurarsi come l’acquisizione di diritti. Ciò è confermato, oltretutto, dal fatto che il TAR ha rifiutato la sospensione dell’atto di vincolo. Se l’amministrazione dovesse poi ristirare il “danno patrimoniale” subito dai proprietari di “un bene costituzionalmente protetto”, questo non potrebbe essere superiore alle spese sostenute dai proprietari per realizzare gli interventi legittimamente autorizzati, sulla base della loro rigorosa documentazione. A nostro parere, di fronte alla portata del’obiettivo perseguito dai fautori della tutela, non è utile avanzare dubbi poco fondati sulla benefica iniziativa della Regione Autonoma della Sardegna, che certamente ha colto tutte le potenzialità del Codice e della sua impostazione innovativa, giustamente sottolineata dall’Autrice.
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[1] Quali, ad esempio, il divieto di distruzione, danneggiamento e di uso incompatibile con la funzione culturale di cui all’art. 20; il divieto di uscita definitiva dei beni dal territorio della Repubblica, di cui all’art. 65; il divieto di alienazione di beni culturali demaniali, di cui all’art. 54; gli obblighi conservativi ed il relativo diritto alla erogazione di contributi, di cui agli artt. 29-37 e 146-152; la facoltà di proporre ricorsi amministrativi, di cui agli artt. 16 e 146.
[2] In proposito significativi appaiono gli artt. 5 e 6, relativi al patrimonio culturale nel suo complesso, gli artt. 132 e 135, 143-145, specificamente dedicati alla tutela e pianificazione paesaggistica e l’art. 141 relativo alla procedura per la dichiarazione di notevole interesse pubblico.
[3] Il provvedimento venne adottato dalla Commissione provinciale per la tutela delle bellezze naturali ai sensi della L. 1497/1939.
[4] L’Accordo, siglato ex art. 27 L. 142/1990, come modificato dalla L. 127/1997, ora confluito nell’art. 34 D.Lgs. 267/2000, è stato sottoscritto il 3.10.2000.
[5] Ossia del programma di cofinanziamento pubblico – Regione, Provincia, Comune – e privato, adottato con L. Reg. n. 14/1996 e succ. mod. e int..
[6] Il relativo provvedimento è stato adottato ex art. 12 L. 1497/1939, con determinazione del 27.5.1999 del Direttore Generale dell’Assessorato Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport.
[7] Precisamente si tratta degli artt. 143 comma 3 e 156 del D.lgs. 42/2004.
[8] Il Piano Paesaggistico della Regione Sardegna, elaborato sulla base dell’intesa stipulata tra Ministero per i beni e le attività culturali, Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e Regione Autonoma della Sardegna, è stato effettivamente adottato il 5/9/2006 secondo le procedure previste dalla L. Reg. 8/2004 (di recente assolta dalle accuse di illegittimità costituzionale con sentenza n. 51 del 6.2.06).
[9] Il provvedimento, adottato ai sensi dell’art. 150, comma 1, lett. a) e comma 3, del D.Lgs. 42/04, dal Direttore del Servizio beni culturali dell’Assessorato Pubblica istruzione consente l’esecuzione dei soli lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria ex art. 3 DPR 380/2001
[10] La Commissione è stata istituita con delibera della Giunta Regionale Sarda del dicembre del 2006, ai sensi dell’art. 137 del Codice. Insediatasi ai primi del gennaio 2007, il suo primo compito su specifica richiesta della Regione formulata ai sensi dell’art. 138 del Codice, è stato quello di attivare l’istruttoria avente ad oggetto la tutela del colle di Tuvixeddu.
[11] Detta revisione, dapprima programmata, come attività da svolgersi d’intesa con il Comune nella deliberazione n. 5/23 del 7.2.2007, è stata, successivamente, avocata completamente a sé dalla Regione.
[12] I vincoli sono stati, rispettivamente, imposti ai sensi e per gli effetti dell’ art. 10 e ss. D.lgs 42/2004, dell’art. 142, comma I, lett. m) D.lgs. 42/2004 e della L. Regionale Sarda n. 23/1993.
[13]Agli illeciti di tipo penale contemplati dal Codice fanno riferimento gli artt. 169-180, quanto alla tutela dei beni culturali e l’art. 181 per i beni paesaggistici. Accanto ad essi sopravvivono le fattispecie criminose previste e sanzionate dal Codice Penale, in particolare l’art. 733 c.p. relativo al danneggiamento del patrimonio storico-artistico nazionale, l’art. 635 comma 2 n. 3 c.p. in tema di danneggiamento comune aggravato e l’art. 639 c.p. in tema di deturpamento ed imbrattamento aggravato. Gli artt. 160-166, per i beni culturali e 167-168 per i beni paesaggistici considerano, invece, illeciti di tipo amministrativo.