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Autorizzerà «il prestito» delle opere d´arte per le mostre. Dichiarerà se le esposizioni «sono di rilevante interesse scientifico». Assicurerà «l´incremento delle raccolte» statali «adottando i relativi provvedimenti di acquisizione». Sono solo alcune delle frecce che il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi ha infilato nella faretra della sua nuova creatura: il "Direttore generale per i musei, le gallerie e la valorizzazione".

roma - «Così nasce un super direttore che fagocita tutto e tutti», sono le critiche raccolte tra i corridoi del Collegio romano per la figura più importante della «rivoluzione» di Bondi, come il ministro ha definito lunedì scorso la sua proposta di modifica del dicastero ereditato dalle mani di Francesco Rutelli. Ed è proprio scucendo il Dpr del 21 novembre 2007 sulla riorganizzazione del ministero (unificazione delle soprintendenze, tagli nelle direzioni generali), che Bondi ha confezionato il vestito da dirigente per il manager che prenderà in consegna opere presenti e future delle 400 luoghi della cultura - musei, gallerie, siti archeologici, ville storiche - dello Stato. E che ha intenzione di scegliere al di fuori dei ranghi ministeriali, magari tra gli economisti della cultura, forse anche all´estero, passando però per un concorso pubblico.

«Ci viene presentata come una figura di coordinamento, ma la verità è che deve poter incidere. Ed avrà i poteri per farlo. Potrà dire: quei cinque quadri di Caravaggio vanno prestati per la mostra d´Oltreoceano, e non ci sarà santo né funzionario che potrà opporsi», racconta uno dei direttori (regionali e di settore) cui martedì il ministro Bondi ha illustrato a Roma il suo progetto. Che deve ancora prendere forma prima di volare. Ma intanto il ministro ha intenzione di spingere l´acceleratore sul modello del Louvre di Parigi, che ha affittato ad Abu Dhabi, al prezzo di 700 milioni di euro, il blasonato nome e alcune opere della raccolta statale. E la formula "rent-art" sembra ora una manna per le esangui e falcidiate casse dei Beni culturali.

Il testo (61 cartelle) della modifica voluta da Bondi veleggia verso l´approvazione del consiglio dei ministri del 28 novembre. Prevede anche la scomparsa di una direzione generale che contempli nel nome l´arte contemporanea (che il ministro non ha mai nascosto di «non capire»). Ed è stato inviato ai sindacati, ricevendo l´ok, ad esempio, di Gianfranco Cerasoli, segretario della Uil Beni culturali: «Così sarà possibile la valorizzazione dei musei, visto che tra i primi dieci tra i più visitati al mondo non ci sono gli italiani. Ma il direttore generale deve affiancarsi, non sovrastare, i regionali: la vera rivoluzione sono le strutture autonome sul territorio». Ma tra i funzionari ministeriali serpeggia lo spettro Cai-Alitalia: «È come creare una bad company, con dentro i reperti non musealizzati, come i magazzini di scavo, mentre la Direzione dei musei sfrutta i pezzi pregiati degli Uffizi, della Borghese, di palazzo Ducale e dei relativi, ricchissimi depositi».

L´articolo 8, al punto 1, precisa che la Direzione dei musei «svolge le funzioni e i compiti, non attribuiti alle direzioni regionali e ai soprintendenti ... relativi alla tutela e alla valorizzazione delle raccolte». Ma un manager (come Philippe de Montebello, che a dicembre lascia il Metropolitan di New York, o come Gianfranco Imperatori, segretario di Civita) che viene da fuori per mettere a reddito il patrimonio artistico, come può garantire la tutela di una tavola duecentesca o di un fragile vaso etrusco?

Sul piano economico, gli strumenti non mancheranno al super direttore ideato da Bondi. Esprimerà «la volontà dell´amministrazione nell´ambito delle determinazioni interministeriali concernenti il pagamento di imposte mediante cessione di cose, anche di arte contemporanea, o di beni destinati alle raccolte di musei, pinacoteche e gallerie». Quadri al posto delle tasse, uno scambio che in Italia non è andato mai a pieno regime.

Può sembrare anacronistico occuparsi di tutela dei beni culturali e del paesaggio mentre infuria una tempesta economica senza precedenti che diffonde incertezza, paura e sfiducia e chiede risposte urgenti ed efficaci. Eppure non si tratta d’un tema peregrino, tantomeno d’un pretesto per parlar d’altro evadendo quelli che più ci riguardano. Si tratta invece d’un tema estremamente pertinente. Viviamo giorni e mesi di decisioni radicali che da un lato tendono a mettere in atto misure di tamponamento che garantiscano nell’immediato i depositi bancari, il patrimonio di banche e di imprese, il sostegno della domanda e dei redditi più deboli. Ma dall’altro configurino nuovi assetti e nuovi equilibri nei meccanismi di produzione e di distribuzione della ricchezza. Configurino anche una società diversa da quella attuale, una maggiore trasparenza e più incisivi controlli per bilanciare il necessario rafforzarsi dei poteri rispetto ai diritti.

In questo profondo rimescolio esiste il pericolo che la cultura, cui si continua a tributare omaggio di parole, costituisca nei fatti l’anello debole e addirittura la vittima sacrificale. Cultura, ricerca, beni culturali, patrimonio pubblico, paesaggio, sono infatti considerati come altrettanti elementi opzionali dei quali si può tranquillamente fare a meno. I tagli di spesa più cocenti sono avvenuti proprio in questi settori non soltanto per eliminare sprechi ma per recuperare risorse dirottandole verso altre destinazioni. Non si è considerato che non si tratta di spese ma di investimenti che, proprio per la loro natura, non possono essere interrotti senza causare nocumento e deperimento gravissimi.

La totalità di questi beni, la loro salvaguardia e la loro valorizzazione, hanno tra l’altro effetti diretti sull’economia del Paese poiché sono connessi all’industria del turismo che rappresenta una delle maggiori risorse del nostro territorio. Il turismo, dal punto di vista della bilancia commerciale, equivale all’esportazione di beni e servizi, procura entrate di valuta nelle casse dell’erario, con una differenza: non escono merci e servizi dal territorio nazionale ma entrano persone e con esse ricchezza e sostegno della domanda interna. Una flessione del turismo comporta una flessione immediata della domanda e della ricchezza prodotta.

Fino a poco tempo fa l’alto livello dell’euro in termini di dollari scoraggiava il turismo internazionale verso l’Europa, ma è proprio qui che entrava in gioco la valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici di ciascuno dei Paesi europei con spiccata vocazione turistica. Abbiamo assistito negli anni di più elevato tasso di cambio dell’euro al decadimento del turismo diretto verso l’Italia a vantaggio di quello canalizzato verso la Spagna, la Francia, la Grecia: stessa moneta, quindi stesse difficoltà per i portatori di un dollaro debole rispetto all’euro, ma diversa attrattiva dovuta alla migliore valorizzazione del paesaggio, del territorio, dei beni culturali che lo animano.

Ora il cambio euro-dollaro è tornato a livelli meno penalizzanti per il turismo europeo, anche se la crisi economica internazionale ha provocato una diminuzione del movimento turistico complessivo. Proprio a causa di questa flessione congiunturale la concorrenza è diventata ancor più severa ed è quindi tanto più necessario investire sulla cultura in tutte le sue articolazioni. Ma questo non avviene, anzi sta avvenendo il contrario. Ho già accennato al problema d’una mentalità che considera i consumi culturale come un fatto opzionale. Si tratta d’una mentalità economicamente distorta che va denunciata e combattuta

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La condizione in cui versano ormai da anni le nostre Sovrintendenze preposte alla tutela dei beni paesaggistici e culturali è quanto di più misero si possa immaginare: personale ridotto al minimo, sedi vacanti da tempo, servizi pressoché inesistenti. Il ministro competente promette di colmare almeno i vuoti più drammatici e cerca soldi che compensino i pesanti tagli effettuati dalla Finanziaria triennale varata fin dallo scorso luglio. Li cerca ma finora non li ha trovati e dubito molto che possa riuscirvi nel prossimo futuro.

Il guaio è che, risorse finanziarie a parte, il ministro tergiversa anche a compiere alcuni adempimenti che non comportano spese ma che sarebbero necessari per chiarire una normativa confusa, fonte di abusi continui che hanno devastato il nostro territorio da almeno trent’anni in qua, disseminando mostri architettonici, lasciando deperire monumenti di importanza mondiale, occultando il mare con una cortina edilizia che ne ha confiscato la visibilità e la pubblica fruizione.

Questi abusi sono il frutto di inefficienza delle istituzioni di controllo, di scarsissima sensibilità nella pubblica opinione, dell’indifferenza dei «media» e, soprattutto, di una normativa che ha disperso i poteri di controllo tra tre diversi ministeri (Beni culturali, Ambiente, Lavori pubblici) e tre diversi livelli istituzionali: Stato, Regioni, Comuni.

Aggiungete a questa dispersione dei poteri di controllo e di programmazione la scarsità delle risorse e capirete le dimensioni di un disastro che ha mostrificato l’ambiente e si prepara a peggiorarlo ulteriormente con l’avvento di un federalismo che disperderà fino al limite estremo competenze e saperi.

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Il più attento conoscitore del disastro culturale e ambientale italiano è Salvatore Settis, che lotta da decenni per la tutela e la valorizzazione dell’immenso e negletto patrimonio che il Paese possiede e trascuratamente dilapida.

E’ sua la definizione dell’unicità concettuale e pratica di questa nostra ricchezza, della sua manutenzione, della sua fruizione pubblica, di ciò che potrebbe e dovrebbe essere e invece non è. La definizione è questa: Esiste un «territorio» senza paesaggio e senza ambiente? Esiste un «ambiente» senza territorio e senza paesaggio? Esiste un «paesaggio» senza territorio e senza ambiente?».

Da questo triplice interrogativo, retorico perché presuppone una risposta negativa alle tre domande, nasce l’esigenza di una politica di tutela e di valorizzazione che sia unificata nei poteri e nelle competenze; tale unificazione non può avvenire che in capo allo Stato, il solo tra i vari enti istituzionali che sia depositario d’una visione generale, che viene inevitabilmente persa di vista man mano che si discende nei livelli locali, la Regione e ancora di più il Comune.

Purtroppo la situazione attuale ha già attribuito gran parte delle competenze alle Regioni consentendo ad esse di delegare ai Comuni una parte rilevante delle competenze e dei poteri propri. Le Sovrintendenze sono state in larga misura svuotate dei loro poteri di controllo e totalmente dei loro poteri di valorizzazione. La pianificazione urbanistica da tempo ha preso il sopravvento su quella paesaggistica e ambientale; a loro volta gli interessi propriamente edilizi hanno stravolto la pianificazione urbanistica; in tali condizioni anche la collusione, la corruzione e il lassismo sono stati oggettivamente incoraggiati.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il disastro ambientale, paesaggistico, urbanistico che ha deturpato il paesaggio, l’ambiente e il territorio.

Il federalismo, in mancanza d’una normativa chiara e netta che si richiami all’articolo 9 della Costituzione («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione») e alla giurisprudenza costituzionale che ne è seguita, porterà inevitabilmente questo triplice scempio se l’opinione pubblica non ne farà un obiettivo prioritario del proprio impegno

Non ho ancora letto il nuovo saggio di Andrea Carandini su come "Vedere il tempo antico con gli occhi del 2000", ma mi sembra necessario commentare subito l'intervista all'autore di Paolo Conti apparsa pochi giorni fa sul Corriere della Sera. I riferimenti ironici agli archeologi delle Soprintendenze, "talebani" educati nelle "madrase della tutela", dediti ad un'ottusa forma di opposizione allo sviluppo del territorio con insensate richieste di scavi preventivi sono francamente fuorvianti. L'ironia è sempre simpatica, ed è per sua natura esagerata, ma non dovrebbe giungere al travisamento e a rischiare di minare la credibilità di una categoria di funzionari la cui azione in difesa del patrimonio archeologico è universalmente apprezzata.

E forse è anche vero che questi archeologi-talebani praticano la tutela con una passione quasi anacronistica in tempi di opportunismo travestito da realismo. Figuriamoci: la maggior parte di loro crede sul serio, quasi fosse una sura del Corano, che debba essere preso alla lettera l'articolo 9 della Costituzione che pone la tutela del patrimonio archeologico al di sopra di tutti gli altri valori, ivi compresi quelli economici!

Peccato però - afferma Carandini - che questi funzionari non assolvano bene a questo dovere in quanto i loro scavi di emergenza, non pubblicati, si risolvono in una perdita di dati, e quindi addirittura in una colpevole distruzione di strati archeologici.

Ma è proprio vero? In realtà è ben noto che non poche scoperte importanti sono avvenute proprio negli scavi di emergenza che rappresentano ormai quasi il 90 % dell’attività delle Soprintendenze, giacché quelli “di ricerca” hanno, ormai da tanto tempo, sempre meno risorse a disposizione. Senza dire che gran parte degli oggetti che riempiono i nostri musei sono frutto di questa stessa archeologia, preventiva o di emergenza, che consiste in quel poco fascinoso lavoro fatto di vincoli, di dispute sugli strumenti urbanistici, sui condoni edilizi, di procedimenti civili e penali. Va bene, ma perché molti degli scavi di emergenza – come giustamente afferma Carandini - restano inediti? La risposta più vera è: il ritardo o la mancanza di pubblicazioni dipende dall’esiguo numero degli archeologi delle Soprintendenze; dallo stato di precarietà dei loro collaboratori esterni; dall’insufficiente attenzione da sempre dedicata a questo problema da un Ministero strutturato su un modello burocratico-amministrativo piuttosto che tecnico-scientifico. Ma anche dal fatto che, perfino nel caso di un’opera pubblica, ricerca e scavo archeologici sono stati percepiti non come l’espressione di un valore preminente, ma come un impaccio di cui sbarazzarsi al più presto. Per cui si sostengono le spese per la loro esecuzione – anche chiamando costosi consulenti accademici a contrastare le richieste delle Soprintendenze e cercar di risparmiare -, ma una volta che l’area è, come si suol dire, “bonificata” dai resti archeologici, non c’è chi paga per la pubblicazione; tanto meno le Soprintendenze coi loro magri bilanci. E allora? “Non fate questi scavi, accontentavi delle prospezioni” sembra essere la risposta di Carandini. Mentre quella imposta dalla deontologia professionale (e dalla legge) può essere solo quella “talebana”: e allora non si può fare l’opera pubblica perché procedere alla cieca, solo vagamente intuendo da una prospezione che sotto terra c’è un monumento non servirebbe affatto ad impedirne la distruzione (e anche spendendo di più per le inevitabili sospensioni dei lavori). Per paradossale che sembri: meglio un’opera in meno che uno scavo non pubblicato.

Nessuna Soprintendenza opera per “avidità di scavo”, ma perché non se ne può fare a meno, per salvare il territorio almeno come memoria storica. Lo scopo del nostro lavoro è indagare e rendere pubblica la storia del territorio. Pubblicare uno scavo non è un inutile sfoggio di cultura, è la conclusione obbligatoria di un’attività scientifica e istituzionale che fin dal primo momento dovrebbe essere messa nel conto della programmazione delle opere, grandi e piccole, pubbliche o private.

In questi giorni il Ministero sta perfezionando il regolamento della legge sull’archeologia preventiva che prevede che si mettano in conto fin dall’inizio, almeno per le opere pubbliche, i costi della pubblicazione. Chi scrive sta istituendo, in collaborazione con l’Associazione Internazionale di Archeologia Classica, una rivista elettronica per la rapida ed economica edizione online degli scavi. Si possono studiare nuovi modelli di intervento, chiamando, ad esempio, le Università a concentrarsi sui problemi della tutela, rinunciando in parte a ricerche più gratificanti per prospettive mediatiche. La discussione su questi temi è più che mai aperta.

Tutto meno che lasciar passare l’idea che la ricerca archeologica preventiva sia un falso problema.

L'autore è Direttore Generale per i Beni Archeologici del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

1985. Inverno, la metà del mese di gennaio appena passata, una coltre immensa di neve, dappertutto nel nord d’Italia. Da qualche giorno aveva smesso di nevicare. Chi ha vissuto coscientemente quel tempo non può aver dimenticato quei giorni in cui la neve cadde, copiosa ed incessante, sino a raggiungere livelli difficilmente ricordati prima di allora.

Fu quella la prima volta che andai in visita a Vione, nel comune di Basiglio, sud Milano. Erano, in effetti, anche i miei primi sopralluoghi al Basso milanese. Provai intense emozioni di fronte al nucleo rurale, rimasi sorpreso di fronte ad un’organizzazione dello spazio che percepivo perfetta, da ogni punto di vista; quella cascina, quel paesaggio mi parvero sprofondati nel tempo, immutato da secoli. Nulla poteva ricondurmi al tempo esatto e reale se non la consapevolezza di trovarmi a distanza contenuta, certo, ma sufficiente a non percepirne l’impatto devastante, da quella insensata e faraonica opera ancora in costruzione che intendeva, velleitaria replica, proporre un nuovo modello insediativo. Milano 3, appena appena percepibile con le gru ancora in movimento si intravedeva da qualche punto della vasta azienda agricola.

Il sole già alto inondava tutto quanto di calda luce, ogni scorcio della campagna all’intorno della cascina risplendeva, tra umori di gore e freschi scrosci d’acque. Vione, cinta su tre lati da un fossato, era circondata da marcite, ancora non completamente sgombere dalla neve che, abbondantissima, ricopriva gli edifici. Tra questi, attraverso i varchi lungo il perimetro, potevo scorgere montagne di neve accumulata nei cortili per lasciare liberi i percorsi di smistamento all’interno del nucleo rurale, ad opera dei contadini che lì vivevano e lavoravano. Tutta la campagna più in là era in preda al gelo. Mi tornavano alla mente le parole del Cattaneo, camminando ne ripetevo i versi come a volerli commisurare a quanto andavo osservando: “Una parte del piano, per arte ch’è tutta nostra, verdeggia anche nel verno, mentre all’intorno ogni cosa è neve e gelo” (Carlo Cattaneo, Notizie su la Lombardia. La città, a cura di G. Armani, Garzanti, Milano 1979).

Osservata dall’esterno del suo ampio perimetro, la cascina mi parve immersa in un sonno profondo. Scorsi poche persone in movimento all’interno della cascina e, raggiunto il portale a nord, lo sguardo si perse sul lunghissimo asse di attraversamento. Rimasi colpito, “che luogo straordinario”, pensai. Al gorgogliare incessante dell’acqua che si disperdeva sulle ali fumiganti di marcita si sovrapponeva il muggito caldo delle mucche; percepii che dovevano essere veramente molte.

Rimasi lì attorno per almeno tre ore, girando e rigirando lungo la strada divenuta quasi una trincea tra cumuli di neve ai lati, mentre la roggia Speziana, che mi parve larghissima, placida conduceva le sue acque.

Quando tornai per la seconda volta, di lì a qualche giorno, le marcite scintillavano di verde, senza più alcuna traccia di neve che ancora, ed abbondante, copriva ogni cosa all’intorno.

Incontrai il conduttore del fondo che mi accompagnò nella visita alla cascina e alle sue otto corti. Seppi che nelle stalle erano allevate 450 bovine tra lattifere, manze e manzette, più un certo numero di tori e cavalli. In cascina, vivevano allora 62 persone, tutte – eccetto donne e bambini – impiegate nelle attività dei campi.

Ciò che appresi durante il sopralluogo non mi lasciò affatto tranquillo. L’azienda stava avviandosi ad un cambio strutturale che si sarebbe rivelato irreversibile e che avrebbe forse rappresentato la fine di un mondo, cresciuto e rafforzatosi nel corso di sette secoli. Vione, di cui si ha traccia nel 1086 ( locus de Villiono), fu in antico una grangia cistercense e l’oratorio dedicato a San Bernardo ne è preziosa testimonianza.

Nel volgere dei due anni successivi si compì il passaggio rivelatosi senza più ritorno. Il carico di bestiame scomparve e per me, che osservavo con approccio da studioso e animo da ricercatore, fu improvviso ed incomprensibile. Ma sapevo che la Comunità europea pagava un milione e mezzo di lire per ogni capo abbattuto. Ah, l’Italia anello debole della Comunità che aveva come seconda voce di deficit il bilancio agro-alimentare, subito dopo il settore energetico…

Dunque, scomparsi i bovini, già nell’inverno del 1987 le marcite non ricevettero più la vitale acqua; anzi, in quel momento le campagne a marcita più lontane dal nucleo rurale erano già state rotte.

Sì, rotte, così si usa dire in campagna quando si abbandona la pratica, sostituita con coltura cerealicola, mais prevalentemente, ma anche riso.

Sconforto, sincero sconforto nel constatare che quell’angolo di mondo che mi aveva incantato stava scomparendo, diventava altro che non volevo osare immaginare. Milano 3, castellum della middle class milanese, come lo definiva Lodovico Meneghetti che, maestro, seguiva gli sviluppi della mia tesi di laurea, sembrava completato. Attorno e un po’ più in là altri incomprensibili insediamenti: “il Girasole” acquattato tra le risaie; l’assordante cortina edilizia del “Ripamonti Residence” incombente su Viquarterio, un tempo Vilquarterio; un certo progetto su Tolcinasco di cui avevo sentito parlare (passato di mano e quindi divenuto, con l’azienda agricola, sede del green più esclusivo d’Italia); poi, ma certo, quella miriade di piccoli e meno piccoli episodi di residenza a ville, i capannoni come funghi e le strade, nuove strade e stradoni, tutto quanto inutilmente dispersivo e distruttivo di fertile campagna.

Il sacco delle terre compiuto, aziende agricole semplicemente passate di mano, mani immobiliari. Le più abili e potenti si muovevano con precisione e rapidità; nessun tentennamento, occorreva innanzitutto far presto per siglare la compravendita a prezzo agricolo, con investimenti peraltro tutt’altro che contenuti visto l’elevato valore agronomico e le enormi superfici in gioco. Poi, dopo, a tempo debito, la contrattazione con l’ente locale per la trasformazione, dal PRG alla lottizzazione, dal paesaggio agrario al cantiere edilizio. Dalla campagna alla (presunta) città. Tutto noto, tutto regolare, tutto timbrato al posto e al momento giusto.

Dunque Vione, e la sensazione di dovervi rinunciare per sempre. Basta, è finita anche per questa cascina. Come per tante altre nel Basso milanese: Rovido, Bazzana, Bazzanella, Tolcinasco, Coriasco, Romano Paltano, Ronchetto, Ronchettino e Ronchettone, Sestogallo. La lista è lunghissima, potrei continuare elencando cascine di grande e grandissima dimensione diventate altro, fantasmi del passato che abbiano mantenuto o meno la forma, senz’anima.

Processo irreversibile, dinamiche di mercato, la terra poco più che un orizzonte per nuove costruzioni. Milano da bere e campagna da mangiare, un unico devastante processo di speculazione. Gli attori sono noti, da un lato le mani potenti degli imprenditori del mattone, dall’altro le amministrazioni impegnate a perseguire rozzamente il malinteso concetto di sviluppo, quello che non annovera tra le specificità l’agricoltura, la campagna. Contadini a Milano, figura obsoleta, in via di estinzione, largo alla valorizzazione immobiliare.

Vent’anni e poco più di lenta agonia per Vione, velocissima a guardarla dal profondo lasso temporale che ne rappresenta la storia.

La cascina da allora – primi anni Novanta – è rimasta, di fatto, senza più alcuna manutenzione, schiacciata sotto il peso dei secoli; progressivamente abbandonata dalla sua popolazione contadina e svuotata repentinamente dalla sua funzione è andata di corsa incontro al suo destino. Destino che qualcuno aveva già scritto, deciso al tavolo del mercato immobiliare. Uno, due passaggi di proprietà, mero investimento per moltiplicare il valore, miliardi di lire prima, milioni di euro poi. Anche Paolo Berlusconi si propose come acquirente, senza successo; a lui interessava più che altro la terra, Milano 4, certo.

Stalle, corti di lavoro, case dei salariati, mulino, chiesa, asse di attraversamento, depositi, porticati, la casa padronale, il fossato, le aie, il forno, le scuderie, i caselli, i portali. Ecco Vione, otto corti attorno alle quali si è organizzata nei secoli la più vasta cascina di un territorio che va ben oltre il Basso milanese, caposaldo di una delle aziende più ampie della pianura irrigua, oltre 320 ettari. Le marcite estese su 82 ha, un quarto del totale della superficie agraria.

Dice oggi un fattore, che lì ha trascorso tutta una vita, che in Europa, avete letto bene, in tutta Europa, Vione rappresentava la seconda azienda agricola per quantità e qualità del prodotto. Lui l’aveva detto, “non vendete le mucche altrimenti tutto scomparirà”, finito per sempre.

Nove secoli di storia, serve un paragone? Avete presente la Sforzesca? Ecco cosa è Vione. Prima ancora che nel centro comunale di Basiglio, l’acqua sgorgava dai rubinetti delle case di Vione. Proprietà colta e ricca, attenta a soddisfare i bisogni primari già dal primo dopoguerra. E prima ancora che in paese, le abitazioni dei salariati avevano avuto il gabinetto, piccolo, ma dentro, non più fuori, in cortile.

Poi, col passar del tempo, l’abbandono, i crolli, gli sconquassi, il degrado strutturale, la morte.

Ora le cesate circondano il luogo, il cantiere è avviato. Parco agricolo sud Milano, ebbene sì, anche questo non basta, non serve a niente. Vione è persa, il monumento è perso.

Il Parco sud, questo sconfitto, pure gioisce nell’annunciare il rinascimento di Vione, in pompa magna presentato al Circolo della Stampa lo scorso aprile. Ecco, Vione rinasce dalle sue ceneri e si appresta a divenire un esclusivo centro residenziale di gran lusso, con servizi condominiali a 5 stelle e 6.000 €/mq, con ogni comfort sia possibile immaginare per un modello abitativo per soli ricchi. Poteva mancare la SPA? Certo che no. Del resto, che cosa non potrebbe avere un nuovo, che cosa?, villaggio?, residence?, castello? borgo? che, a dispetto delle risaie e dei pioppeti circostanti, per ora salvaguardati, è presentato sul web come il luogo dove (ri)trovare l’esclusiva atmosfera di Portofino, la prestigiosa eleganza di Capri. Sicurezza garantita 24 ore su 24 con accessibilità limitatissima, la spesa consegnata direttamente a casa, i bimbi futuri da crescere in totale sicurezza, fuori dal mondo. Forse, con un parallelo forzato, come quelli dell’antica cascina che, chiusi i pesanti portoni, s’abituavano a vivere, appunto, fuori dal mondo.

Da ricordare, facendo finta ve ne sia bisogno, che il Piano di Recupero di Vione prese avvio negli anni Novanta, fu approvato dal Consiglio Comunale nel 2003 con i soli voti del centrosinistra, lista Basilium, mentre i consiglieri di opposizione – tra i quali l’attuale sindaco Marco Cirillo, giunta di centrodestra – gridavano alla cementificazione di Vione trasformata in lussuose abitazioni. Gli stessi che ora si sperticano di lodi nel presentare come rigoroso restauro conservativo la trasformazione dell’antica cascina, nuova città ideale. Anche tettoie e ricoveri aperti fanno volume.

In occasione del convegno su “Il futuro delle cascine lombarde”, 2003, Camillo Piazza, portavoce provinciale dei Verdi e Presidente provinciale degli Amici della Terra, denunciava il Piano di Recupero: "Mi auguro che chiunque vinca le elezioni amministrative non porti avanti il progetto di recupero di Vione in questo modo. Non si deve snaturare la vocazione agricola dell'antica cascina". Il lunghissimo applauso dei cittadini presenti pareva preludere alla mobilitazione per ridisegnare lo scenario, avvalorato dalle parole dell’allora Assessore regionale al Territorio e Urbanistica Alessandro Moneta, per il quale era “auspicabile che la ristrutturazione delle cascine lombarde dismesse, avvenga attraverso i programmi integrati di intervento. Le nuove funzioni devono tenere conto del patrimonio edilizio esistente, del pregio architettonico senza minimamente incidere sull'attività agricola."

Nota: di seguito scaricabile una presentazione descrittiva del complesso di Vione con belle e utili immagini molti altri articoli su temi territoriali nella cartella SOS Padania (f.b.)

«Con gli scavi d'emergenza non preserviamo alcunché, né immagazziniamo conoscenze per le generazioni future. Accumuliamo solo una congerie bruta, sparsa e caotica di indizi non tradotti in cultura, che col passare del tempo sarà impossibile redimere, per cui non rimarrà che il danneggiamento alla risorsa archeologica».

Un grande archeologo che se la prende con i colleghi archeologi, «colpevoli» di scavare troppo e, a suo avviso, inutilmente. Andrea Carandini, classe 1937, insegna Archeologia classica e Storia dell'arte greca e romana all'università La Sapienza. Ed è uomo che ama (quasi un paradosso per uno studioso della sua materia) pensare al futuro e preoccuparsi dei posteri.

Nel suo ultimo saggio in uscita domani da Einaudi ( Archeologia classica - Vedere il tempo antico con gli occhi del 2000, pagine XV-2008, € 24) si ritrova intatto il coraggio di un cattedratico che sfidò «i Talebani della conservazione», secondo lui identificabili in Italia Nostra e dintorni, schierandosi ad agosto a favore della realizzazione dei famoso parcheggio del Pincio a Roma: «L'Italia, da zero a quindici metri di profondità, presenta sempre vestigia romane o alto-medioevali. Cosa facciamo? Non viviamo più per le nostre civiltà sepolte?»

Poi del parking non se ne fece nulla, ma Carandini rimane della sua idea. E viene da- sorridere pensando a un piccolo conflitto in una illustre famiglia (il professore è figlio dell`ambasciatore Nicolò, campione dell'antifascismo, e nipote di Luigi Albertini, dal 1900 al 1925 direttore del Corriere della Sera).

Andrea Carandini è fratello di Maria Antonelli Carandini, per anni instancabile presidente della sezione romana di Italia Nostra e tuttora una delle sue attivissime animatrici. Al suo posto ora siede Carlo Ripa di Meana, protagonista della vittoriosa battaglia anti-Pincio. Ma questa è tutta un’altra storia. Ora Andrea Carandini nel volume godibilissimo per i continui rinvii letterari e non archeologici elegantemente collegati a alla sua disciplina (Proust, Sàndor Màrai, Gadda, Balzac, Calvino, e sono solo alcuni) contesta la scavo-mania del colleghi. Ovvero l'ansia di sottrarre alla terra ciò che è conservato da secoli nel caso si profili una «emergenza», cioè - per esempio - la necessità di decidere se permettere o meno un'edificazione. Meglio, scrive Carandini, «sfruttare le tecniche di indagine non distruttive. Cioè le foto aeree dell'area, la magnometria, il georadar, le tecniche della valutazione anche predittiva dei depositi archeologici per arrivare a una protezione e a un utilizzo controllato delle risorse storiche del sottosuolo».

In questo modo, argomenta Carandini, si può offrire una risposta senza scavare. Perché «. Gli archivi degli scavi d'emergenza, al contrario, sono tracce di documentazione da riscavare con possibilità di far rivivere il passato straordinariamente ridotte». Il professore ironizza con le abitudini di certi suoi colleghi: «Dopo tanti scavi d'emergenza l'archeologo funzionario, convinto di aver bene operato, va tranquillo in pensione anche se la documentazione riposa magari sotto il suo letto o nascosto in un angolo introvabile di un deposito di pratiche. Pubblicare vecchi scavi e vecchie documentazioni è opera meritevole, ma chiunque abbia pratica dello scavo e della sua edizione sa che si trova fra le mani un estratto esangue di quanto molto più riccamente la matrice terrestre preservava».

Un esempio tra tutti, i contestatissimi scavi di piazza della Signoria di Firenze: «Uno dei più gravi misfatti archeologici imputabili all'amministrazione statale».

Il giudizio finale di Andrea Carandini contro la sua categoria accademica è durissimo: «Questi scavi, più che contribuire alla costruzione della memoria, fanno parte essi stessi di un problema che contribuiscono ad aggravare. La sua distruzione». Perché gli scavi d'emergenza «più che mitigare perdite d'informazione sono protagonisti attivi di quelle stesse perdite, similmente alle distruzioni operate da sterri dovuti a un'edilizia incontrollata o all`usura lenta e nascosta del tempo». E ancora: «Gli innumerevoli scavi d'emergenza - nessuno sa calcolare quanti sono - sono dovuti ad avidità di conoscenze approssimative, al volersi mettere il cuore in pace rispetto alle maligne forze della vita e a prassi burocratiche consolidate e mai più ripensate». Carandini non abbassa la guardia nemmeno contro i «Talebani della conservazione» che lui ~ individua in funzionari statali formati in «madrasse della tutela» i quali «a tutto della vita si oppongono, in sterile e costosa resistenza, e che hanno l`unico scopo di vincolare l`intero Paese, come se separare dalla vita implicasse anche conservare». E poi (riecco la polemica «familiare») ci sono «associazioni benemerite e vecchiotte» (come non pensare a un identikit di «Italia Nostra») e «la sinistra radicale acriticamente venerata». Tutto carburante che può rinvigorire, secondo l'analisi di Carandini, il movimento di destra «favorevole alla deregulation che vorrebbe sbaraccare la tutela impoverendola e abbandonare il Paese a un`anarchia liberistica». Quindi attenzione, avverte il professore, all'universo in cui «lo sviluppo della vita appare sempre nemico della conservazione e dove il libero mercato è ritenuto comunque un satana: sono qui all'opera antiamericanismo, anticapitalismo, statalismo, avversione per una democrazia partecipata». Potrebbero essere loro i più forti alleati di un distacco tra Paese reale e universo chiuso della tutela, aprendo il varco ideale per la deregulation totale. I Talebani della conservazione, sorride Andrea Carandini, sono avvisati.

Postilla

E oplà, con l'ennesima capriola il principe del lupercale, Andrea Carandini, è atterrato dritto dritto nei territori dei sostenitori di una tutela "ammorbidita", più consona (asservita?) alle ragioni della moderna, progredita società capitalista, filoamericana e antistatalista. Per uno che era partito come apostolo di un'archeologia marxista dura e pura (v. Anatomia della scimmia , correva l'anno 1979), allievo di Bianchi Bandinelli, se non proprio fra i più apprezzati dal maestro, sicuramente fra i più rumorosi, che ha predicato a schiere di studenti l'osservanza senza compromessi di una archeologia del "coccio", la dedizione assoluta alla cultura materiale nel culto maniacale del più infimo frustulo di reperto (v. Archeologia e cultura materiale , 1979 e Settefinestre , 1985) si è trattato di un bel tragitto, ma si sa, solo gli stupidi non cambiano mai opinione e di questi tempi così flessibili e veloci, una giravolta in più è solo sintomo di capacità di adattamento allo Zeitgeist. Quanto poi ai contenuti del brusco cambio di rotta, sembrano in verità alquanto confusi oltre che del tutto ignari delle più elementari nozioni di legislazione e normativa in materia dei beni culturali. Oltre all'articolo 9 della Costituzione (ma forse è quello cui si allude con l'elegante perifrasi "prassi burocratiche"), a Carandini sfugge in toto il Codice dei Beni Culturali e il secolare dibattito che ha portato all'elaborazione normativa più avanzata forse di tutto il mondo occidentale: uno dei nostri pochissimi vanti moderni di civiltà, universalmente riconosciuto. L'archeologia preventiva non è quindi conseguenza ed esercizio di queste norme, ma "tigna" di funzionari frustrati, adepti della sinistra radicale, asserviti ai pericolosi guerriglieri di Italia Nostra. Cosa poi, nello specifico, egli intenda con l'affermazione "offrire una risposta senza scavare" è difficile cogliere, quando enumera una serie di tecniche, ben note e usate dagli archeologi da decenni (complicato, però, a nostro avviso, il ricorso alla foto area in ambito urbano...) e che costituiscono, come ben sa qualsiasi matricola di corsi umanistici, strumenti per il monitoraggio, che aiutano a scavare, ma non risolvono il problema del che fare una volta individuata l'evidenza archeologica. Insomma di fronte alle ruspe delle tante autostrade, tangenziali, porti turistici, linee di alta velocità in costruzione, par di capire che sarebbe meglio esimersi da azioni troppo "conservative" e lasciar riposare i reperti in qualche discarica, perchè, come afferma il professore, ex consulente a contratto TAV: "gli archivi sottoterra sono potenzialmente vivi, resuscitabili". Se la logica di tutto l'assunto appare un po' claudicante, non così lo spirito da vecchio tribunus plebis: il climax finale in un crescendo di furor demagogico sviluppista tutto rimescola alla vecchia maniera, sempre mediaticamente spendibile, affratellando tutela e anticapitalismo, conservazione e antiamericanismo e, touch of class di sublime non-sense, "avversione alla democrazia partecipata" (sic!). Certo per chi negli ultimi anni ci ha sottoposto a rivelazioni quasi quotidiane su straordinarie scoperte archeologiche (dai templi quirinalizi alla grotta di Romolo e Remo) - pur se regolarmente smentite dall'insieme del mondo scientifico - addentrarsi nei territori infidi e poco sfavillanti dei problemi connessi alla salvaguardia del nostro patrimonio nazionale è esercizio faticoso, ma necessario però a chi si dedica ad una difesa coerente e convintamente appassionata del libero mercato. Anche quello librario... (m.p.g.)

«Così l'Italia ha massacrato Palladio» è il titolo senza sconti dell'inchiesta realizzata da Edek Osser per The Art Newspaper e per Il giornale dell'Arte in occasione delle celebrazioni in corso per i 500 anni dalla nascita dell'architetto più global della storia. La tesi dell'inchiesta è che il contesto in cui sorgono parte delle 4.270 ville sulle quali ha competenza l'Istituto regionale delle Ville venete, delle quali una trentina sono state progettate da Palladio, sia stato stravolto negli ultimi decenni e sia a tutt'oggi sottoposto a improprie trasformazioni del territorio. Le ville sono soffocate da industrie, svincoli stradali, capannoni, cave e attività al limite del lecito. Duemila di queste ville non sono vincolate e, in assenza di piani paesistici, «restano in un cono d'ombra», scrive Osser. Le opere del Palladio sono criticamente incomprensibili al di fuori del contesto naturale nel quale l'architetto le ha realizzate. Ne sono convinti Mario Botta, che in un recente convegno ha definito Palladio «un contraltare degli attuali archistar che costruiscono con indifferenza al contesto» e ne è convinto anche Vittorio Sgarbi che nel recente libro «Palladio. La luce della ragione» parla di «opere chiaramente distinte dalla natura e dal paesaggio eppure ad essi legate da un rapporto indissolubile».

L'accusa di distruzione del contesto è sostenuta da varie testimonianze. Il geografo Francesco Vallerini parla di «disastro urbanistico che ha annullato il paesaggio». Lionello Puppi, storico dell'architettura, afferma che «villa Zeno a Cessalto è a rischio estremo, disabitata e chiusa e che la barchessa palladiana di Villafranca padovana non esiste nemmeno più: il colonnato cade a pezzi». Il problema, commenta Guido Beltramini, che con Howard Burns della Normale di Pisa è il curatore della mostra sui 500 anni dall'architetto vicentino (Palazzo Barbaran da Porto di Vicenza) è «che il paesaggio costruito intorno è stato consumato dallo sviluppo industriale». Davanti alla Malcontenta c'è un guardrail; villa Onesti Magrin a Grisignano è strozzata dalle strade; intorno a villa Valmarana dei Nani (affrescata da Tiepolo) e a Villa Chiericati sono sorti capannoni che alterano il contesto ben più delle villette di Monticchiello denunciate, tempo fa, da Asor Rosa. La fabbrica della Mira Lanza incombe da tempo minacciosa sulla villa di Mira mentre strutture industriali danneggiano il cono ottico di Villa Pesaro a Este (Collegio Manfredini) dell'altro grande maestro Baldassarre Longhena. Italia Nostra denuncia anche l'impatto della nuova autostrada A31 della Valdastico e altri l'impatto dell'ampliamento della caserma Dal Molin definito da Puppi, con una certa enfasi catastrofista, «cataclisma territoriale». Insomma, un brutto biglietto da visita sul quale è difficile intervenire.

Le ville sono quasi tutte private, nelle mani di grandi famiglie (Valmarana, Foscari, Dalle Ore, Innocenti, Piovene...); e sono anche ben conservate. Ma sui contesti doveva, o dovrebbero, intervenire i comuni con i piani urbanistici. «Di tutte le ville in pericolo c'è quella di Cerato, per la quale è intervenuta anche la procura e la barchessa di villa Trissino di Meledo», afferma il presidente della Ville Venete Nadia Qualarsa. L'istituto ha concesso mutui per oltre 125 milioni di euro a favore di 1.750 ville. «Dal 2000 al 2008 siamo intervenuti su 9 ville tra le 24 protette dall'Unesco per un totale di 4,5 milioni di euro». Insomma, lo sforzo sugli immobili è stato fatto dai proprietari e da chi li sostiene. Ma il territorio circostante non è stato tutelato. Chiude Beltramini: «Qualche provincia ha iniziato a chiederci consulenze per la salvaguardia del contesto, ma prima degli anni Settanta la cultura del restauro considerava solo gli edifici e non l'insieme. Ora il ministro Bondi, all'inaugurazione della mostra su Palladio, ha dichiarato che si finanzieranno anche progetti di tutela del paesaggio ». Ma salvo che si vogliano operare demolizioni, stando all'inchiesta siamo ormai fuori tempo massimo.

Non è vero che, dopo il blitz estivo della legge 133, la Finanziaria di fine anno non possa riserbarci più sorprese. Una ce n´è, almeno stando alle intenzioni dell´onorevole Gabriella Carlucci, che ha presentato due versioni di uno stesso emendamento (nrr. 2076 e 2077), pudicamente etichettato «Riemersione di beni culturali in possesso di privati». Basta una scorsa per accorgersi di che si tratta: una riedizione "dell´archeo-condono" già proposto dall´on. Gianfranco Conte, dalla stessa Carlucci e da altri deputati nel 2004 (nr. 5119), poi ritirato e ripresentato come emendamento alla Finanziaria 2005 (nr. 30.068), ma sconfitto, dopo una denuncia di questo giornale, anche per il deciso intervento di esponenti di spicco del governo Berlusconi di allora, come il ministro ai Beni Culturali Giuliano Urbani e il sottosegretario all´Economia Giuseppe Vegas. Vediamo di che si tratta: secondo la proposta Carlucci, «i privati possessori o detentori a qualsiasi titolo di beni mobili di interesse archeologico antecedenti al 476 d. C., non denunciati né consegnati a norma delle disposizioni del Codice dei Beni Culturali, ne acquisiscono la proprietà mediante comunicazione alla Soprintendenza competente per territorio».

Qualche documentazione che attesti la provenienza? Non c´è bisogno: basta che il dichiarante «attesti il possesso o la detenzione in buona fede», e paghi un piccolo balzello per le «spese di catalogazione». Ma niente paura, le spese di catalogazione non rovineranno nessuno, visto che vanno («in relazione al numero dei beni oggetto di comunicazione», e non al loro valore storico, artistico o archeologico) da un minimo di 300 euro a un massimo di 10.000. Non basta: con l´eccezione di quegli oggetti che la Soprintendenza dichiari di particolarissimo interesse culturale, tutti gli altri «possono essere oggetto di attività contrattuale a titolo gratuito o oneroso, e la loro circolazione è libera, in deroga alle disposizioni del Codice», e in particolare del Capo IV, sez. I (circolazione nel territorio nazionale) e del Capo V, sez. I e II (uscita dal territorio nazionale). Inoltre, «il censimento è esteso a tutti gli oggetti che i collezionisti detengono all´estero, purché li facciano rientrare all´interno dei confini nazionali», e naturalmente sulla base di un generale «principio di depenalizzazione», che si applica anche ai «non cittadini italiani che detengono i beni suddetti all´interno dei confini italiani».

Poiché questa proposta null´altro è se non la fotocopia di quella del 2004, possiamo commentarla con le parole usate allora alla Camera da due esponenti del Pdl. Il senatore Giuseppe Vegas, allora come ora sottosegretario all´Economia, definì la proposta «una sanatoria per i tombaroli» e invitò l´onorevole Conte a ritirarla. L´onorevole Gioacchino Alfano espresse «il timore che la norma finisca di fatto con l´incentivare il saccheggio del sottosuolo alla ricerca di reperti dei quali legittima l´appropriazione».

Questa è infatti la ratio della proposta Carlucci: in deroga (o in barba) al Codice dei Beni Culturali firmato da Giuliano Urbani, che è, o dovrebbe essere, fra i massimi vanti del governo Berlusconi (anche perché consolidato in una logica bipartisan dai piccoli ritocchi dei ministri Buttiglione e Rutelli), si propone qui di sanare migliaia di reati con un sol colpo di spugna, e si invitano tombaroli, depredatori e trafficanti di antichità, collezionisti finti e mercanti disonesti a mettere in vendita in Italia e all´estero i beni archeologici che fino a ieri avevano dovuto nascondere, tremando al pensiero di esser colti in castagna dai Carabinieri del Nucleo per la Tutela del Patrimonio.

Questa "licenza di uccidere" il patrimonio archeologico, senza alcun limite e alcun discrimine se non la dichiarazione che tombaroli e ricettatori operano "in buona fede" non contrasta solo con le leggi e col Codice, ma anche con l´azione intrapresa dal ministro onorevole Sandro Bondi in favore del patrimonio archeologico. Giustamente egli può vantarsi di aver continuato l´opera intrapresa dai suoi predecessori Buttiglione e Rutelli nel recupero dei beni archeologici trafugati all´estero. Giustamente abbiamo celebrato nella grande mostra Nostoi, nelle nobili sale del Quirinale, il ritorno in Italia di pezzi illegalmente esportati e finiti nelle collezioni di grandi musei a New York, Boston, Los Angeles.

Ma il principio etico e giuridico in base al quale i musei stranieri hanno cominciato a restituire all´Italia il maltolto si fonda sul fatto che essi, dopo enormi fatiche della magistratura, del Ministero, dell´Avvocatura dello Stato e dei Carabinieri, hanno finito col riconoscere la solidità giuridica e culturale del principio normativo secondo cui in Italia i beni archeologici, in quanto testimonianza di civiltà che forma contesti non segmentabili, sono di pertinenza dello Stato. Se passasse la proposta Carlucci, che legittima ogni possibile traffico e consacra la clandestinità come una virtù, con quale faccia potremmo insistere per la restituzione di altri oggetti da parte dei musei stranieri?

Non è pensabile che il Governo, e in particolare il ministro Bondi, possa accogliere, in nessuna forma nemmeno truccata o mitigata, un principio che cancellerebbe di colpo ogni regolamentazione o prerogativa statale nella conduzione dell´attività di ricerca archeologica, aprendo su tutto il territorio nazionale una gigantesca caccia al tesoro. Non è possibile che un Ministero preposto alla tutela venga (come vuole la proposta Carlucci) obbligato per legge ad «assicurare la più sollecita ed ampia diffusione della conoscenza della presente legge presso l´opinione pubblica, avvalendosi anche dei mezzi di comunicazione di massa», cioè a spendere i pochi spiccioli che restano dopo i giganteschi tagli d´estate per reclamizzare il commercio di reperti illegali. E´ sperabile che l´onorevole Carlucci, dopo aver distrattamente ripescato nei suoi cassetti del 2004 una proposta già allora bollata come impraticabile dai suoi colleghi di partito, sappia comprendere che non è il caso di insistere. Non può che andare in questo senso, lo scriviamo con fiducia, l´azione del Governo e in particolare del ministro Bondi, che tanto si sta prodigando per dare respiro e progettualità al suo Ministero pur nelle gravi difficoltà di bilancio. Ogni forma di "archeo-condono" non solo delegittimerebbe in modo irreparabile il Ministero e i suoi funzionari, e dunque anche il ministro), ma offenderebbe la secolare storia della tutela in Italia e violerebbe la Costituzione.

Nel 2004, un´identica norma fu bocciata (nonostante la fievole opposizione delle sinistre) proprio per la sensibilità istituzionale di membri del Governo. Non si vede perché non dovrebbe accadere anche adesso.

Nell’anno in cui si celebrano i sessant’anni della Costituzione (con l’innovativo articolo 9) e ha preso forma definitiva (conclusa la seconda revisione) il Codice dei beni culturali e del paesaggio, Italia Nostra dedica il proprio congresso nazionale a “Il primato della tutela”, per avviare (non certo per esaurire) una necessaria verifica: se e come, da un lato, quel principio fondamentale abbia trovato adeguata attuazione nella produzione legislativa ordinaria (il “Codice” innanzitutto e le altre norme che hanno definito le competenze e regolato l’esercizio della funzione di tutela); e, dall’altro, se nella prassi quel primato (sancito dalla Costituzione e sempre ribadito dalla Corte Costituzionale) sia stato fatto valere e sia osservato nei rapporti con l’esercizio di diverse attribuzioni pubbliche e nel confronto con altri interessi ai quali pur si riconosca pubblica rilevanza.

Perché il nostro congresso a Mantova. Prendemmo l’impegno oltre un anno fa quando la giunta di Italia Nostra si convocò in questa città per esprimere il suo sostegno alla Amministrazione comunale e alla Sindaco che avevano con determinazione preso atto di un errore urbanistico del recente passato e avvertivano il dovere di porvi rimedio. Un nuovo insediamento residenziale avrebbe infatti irrimediabilmente alterato il mirabile paesaggio storico che con la corona dei laghi costituisce l’intorno del nucleo monumentale urbano, fissato per sempre dalla rappresentazione mantegnesca. Fu Italia Nostra a suggerire la tutela della prospettiva anche oltre la riva del lago, da e verso l’emergenza monumentale del Castello di San Giorgio e del Palazzo ducale, ma il vincolo così disposto è stato contestato e la controversia ancora non è risolta. Per confermare le ragioni che impongono la salvaguardia dello storico paesaggio di Mantova (il sistema dei laghi che contornano la città secondo un complesso assetto idraulico merita in ogni caso il riconoscimento di bene culturale in sé e perciò una diretta tutela) Italia Nostra ha voluto qui il suo congresso nazionale.

Non vuole essere il consueto rituale omaggio, talvolta di maniera, all’articolo 9, ma il tentativo di approfondirne il significato nel complessivo disegno costituzionale dei compiti della Repubblica e di ricavare le implicazioni della posizione di assoluto rilievo che fa della tutela di patrimonio e paesaggio principio fondamentale. Dunque la Repubblica si fonda sulla tutela, perché patrimonio e paesaggio sono espressione della identità nazionale e motivano nel profondo le ragioni della unità della nazione, in essi ci riconosciamo partecipi di una comune cultura, della medesima cittadinanza. A una funzione così concepita come essenziale e primaria fu adeguata la costituzione di un apposito ministero, politicamente responsabile, quale lo volle Spadolini nel 1975 (creato addirittura per decreto-legge e l’urgenza potè dirsi giustificata dal grave ritardo). Come è noto Italia Nostra non aveva condiviso le conclusioni della Commissione Franceschini per una amministrazione autonoma che avrebbe pagato la riconosciuta autonomia degli speciali modi della tutela (cui non si addicono i modelli burocratici), con un destino di separazione se non di emarginazione, di esclusione in ogni caso dalle scelte di riforma economico-sociale. Un ministro, allora, che ha titolo per partecipare alla responsabilità di governo, che siede al tavolo della programmazione con il Cipe, se la tutela così ampiamente intesa, diretta alla promozione della cultura, non solo si esprime nelle istituzioni tradizionalmente deputate secondo le due leggi fondamentali del 1939 (oggi infine unificate nel Codice comprese le disposizioni della legge Galasso del 1985, prima legge di attuazione della Costituzione), ma è tensione di ogni scelta di indirizzo nel governo del paese e perfino di ogni determinazione di gestione degli interessi pubblici. La tutela insomma non come limite operante dall’esterno ma come istanza presente in ogni scelta destinata ad incidere sulla vita dei cittadini. (In una famosa circolare oggi in desuetudine Spadolini affermò la necessaria concorrente competenza degli uffici della tutela in ordine alla progettazione di ogni opera pubblica, fosse attuata dallo Stato o dal più piccolo dei comuni). Che poi di questo ruolo così penetrante della tutela siano stati consapevoli (e l’abbiano in concreto saputo rivendicare) i titolari che succedettero a Spadolini è legittimo dubitare e per molti anni (forse meno per i più recenti) quel ministero fu considerato, nelle logiche di composizione dei governi, di rilievo politico minore se non addirittura trascurabile.

In ragione della sua specialissima materia il ministero era stato voluto dunque e concepito secondo un modello originale e innovativo, fondato sulle competenze tecnico-scientifiche, libero dall’appesantimento di rigide strutture burocratiche, garantito nella autonomia di ogni sua determinazione. L’esercizio di una funzione cui la Costituzione assegna quel ruolo essenziale e primario esige la dotazione di adeguate risorse in mezzi e competenze, dovendo intendersi gli eventuali apporti privati come integrativi, mai sostitutivi dell’autosufficiente sostegno finanziario pubblico. A questo modello organizzativo della funzione - aderente al progetto costituzionale – è agevole constatare quanto sia lontana la effettiva condizione delle istituzioni di tutela, mortificate non solo dalla assegnazione di risorse inadeguate e in progressiva drammatica contrazione, ma strette dentro un regolamento (quello di recente approvato) che esaspera i profili burocratici e l’ordinamento gerarchico, attivando in pratica una mobilità parossistica nella assegnazione dei ruoli direttivi, non pochi dei quali rimangono tuttavia scoperti, mentre continua ad essere eluso il problema del ricambio, attraverso regolari concorsi, del corpo dei tecnici che costituisce un patrimonio di elevate competenze a rischio di inaridirsi. Sicché c’è chi non senza ragione intravede una linea di progressiva consapevole se non intenzionale liquidazione delle istituzioni di tutela.

La imputazione alla Repubblica è la conferma che una tutela così intesa e pervasiva impegna non solo lo Stato, ma tutti i soggetti dell’ordinamento secondo le rispettive differenziate attribuzioni. E al riguardo, come è ben noto, fin dalla prima attuazione dell’ordinamento regionale si è aperta una contesa talvolta perfino aspra tra stato e regioni per la definizione dei rispettivi compiti in tema di tutela per le riconosciute connessioni, innanzitutto, della disciplina del paesaggio con il governo del territorio, l’urbanistica, che è competenza primaria delle regioni. La riforma del titolo V della Costituzione, approvata frettolosamente in articulo mortis di quella legislatura, ha inteso risolvere quella contesa con l’artificiosa rottura della inscindibile endiadi tutela e valorizzazione (essendo la valorizzazione funzione interna alla tutela, la sua stessa finalità) per fondare su quella discriminazione il criterio di definizione delle rispettive attribuzioni e ha così riservato allo Stato la legislazione sulla “tutela” e la sola determinazione dei principi fondamentali della “valorizzazione”, che ha rimesso per altro alla concorrente legislazione e alla esclusiva potestà regolamentare delle regioni. Con insuperabili complicazioni, come subito si avvertì quando le regioni intesero esercitare la potestà regolamentare in tema di gestione, dunque di valorizzazione, dei beni culturali appartenenti allo Stato e la Corte costituzionale dovette risolvere con qualche difficoltà il conflitto a favore della potestà regolamentare mantenuta, in quei limiti, allo stato.

Non si dubita per altro che le funzioni di amministrazione attiva della tutela obbediscano all’esigenza dell’esercizio unitario e della adeguatezza tecnica degli organi che la esercitano (come vuole l’articolo 118 della Costituzione), perché paesaggio e patrimonio sono valori rigorosamente unitari e imputati alla collettività nazionale e implicano necessariamente la responsabilità di quel livello dell’ordinamento che è rappresentativo della istanza unitaria nazionale, dunque il ministero peri beni e le attività culturali con la trama territoriale delle sue soprintendenze. Conclusione questa che non contraddice il principio della diffusa responsabilità della tutela (la Repubblica, in ogni sua istanza istituzionale secondo l’art. 9), ma riflette la esigenza che essa sia esercitata nel nome della collettività nazionale. Regione, Province e Comuni non hanno la disponibilità di patrimonio e paesaggio che pur amministrano in funzione di tutela e valorizzazione e nella ipotesi di contrasto negli apprezzamenti di merito debbono prevalere le istanze rappresentative della dimensione nazionale, quindi le istituzioni dello Stato. E’ per questa ragione che il cedimento del ministro, allora Rutelli, alla rivendicazione delle Regioni, che ha comportato l’affermazione dell’efficacia non vincolante del parere del soprintendente in tema di autorizzazione paesaggistica, contrasta con il principio costituzionale dell’esercizio unitario delle funzioni di tutela.

L’attuazione del così detto federalismo fiscale (le misure che assicurano autonomia finanziaria a Regioni, città metropolitane, province e comuni per l’esercizio delle rispettive attribuzioni), oggetto del disegno di legge di recente definitivamente approvato dal consiglio dei ministri, non sembra che possa interessare l’ambito della tutela, se non per l’ulteriore prosciugamento delle disponibilità del bilancio dello Stato che indirettamente si riflette su quello specifico del ministero dei beni culturali (è caduto, infatti, come tra un momento vedremo, quel misterioso emendamento all’articolo dello stesso disegno di legge che detta l’ordinamento di Roma capitale).

Ma la materia della tutela è compresa tra quelle per le quali anche le singole Regioni a statuto ordinario possono chiedere (e ottenere con legge dello Stato approvata da maggioranze qualificate) “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” (è una innovazione introdotta con leggerezza nella riforma del titolo V), e già nella trascorsa legislatura si era attivato per l’attuazione di questa previsione un ampio fronte guidato dalla Regione Lombardia, fronteggiato, si deve riconoscere, con fermezza dal ministro Rutelli. Nei nuovi indirizzi di Parlamento e Governo è fondata previsione che quel movimento troverà più ampio riconoscimento. Ma un limite deve rimanere insuperabile. Il terzo comma dell’art. 116 (quello appunto che intende avviare un processo di così detto federalismo differenziato) non ha certo la forza di contraddire il principio fondamentale dell’articolo 9 e non potrà risultarne in alcun modo compromessa la dimensione unitaria della gestione dei valori di patrimonio e paesaggio, né potrà perciò derivarne l’indebolimento delle strutture che lo Stato, costituendo un apposito ministero, ha doverosamente approntato per adempiere a una funzione essenziale della Repubblica e che, inadeguate per dotazione di risorse a quel compito, debbono essere al contrario rafforzate, condizione essenziale per il primato della tutela.

Nella nuova formulazione del “Codice”sono state recuperate alle istituzioni della tutela – le soprintendenze – più incisive e dirette attribuzioni in tema di pianificazione urbanistica. La redazione dei piani paesaggistici e l’adeguamento di quelli che le Regioni si siano dati debbono essere infatti espressione della necessaria intesa tra Stato e Regioni. Copianificazione si dice. Ma le condizioni in cui versano le soprintendenze per i beni architettonici e per il paesaggio ne assicurano il paritario adeguato contributo? Le intese fino ad oggi siglate tra ministero e regioni sembrano infatti rimettere anche la disciplina del paesaggio agli strumenti propri della pianificazione urbanistica e, innanzitutto, al piano territoriale regionale al quale tutte le leggi urbanistiche regionali non attribuiscono la proprietà di dettare disposizioni immediatamente prescrittive, ma danno il compito di fissare gli indirizzi alla pianificazione sottoordinata di province e comuni. Sicché il piano paesaggistico risulterà infine dall’insieme, dal mosaico, dei piani comunali. Ma è un esito che contrasta con il modello del “Codice” che vuole uno strumento speciale, unitario e autonomo. Immediatamente prescrittivi sulle specifiche situazioni dei luoghi, necessariamente prevalente sulla generale pianificazione urbanistica. Lo ha più volte ripetuto la Corte Costituzionale, l’Urbanistica ancilla della tutela paesaggistica, piegata a realizzarla, tenuta cioè ad osservarne il primato.

Ricorderemo che la rivendicazione di nuove forme di autonomia nella tutela del paesaggio è da talune regioni fondata su una testuale (francamente, e non la sola, infelice) espressione della Convenzione europea del paesaggio (2000, ratificata dall’Italia nel 2005), secondo la quale “paesaggio” “designa una determinata parte del territorio come è percepita dalle popolazioni”. Espressione come ben si intende evasiva, perché non solo affida la identificazione dei valori del paesaggio ad apprezzamenti soggettivi, pur se collettivi, ma perché non dice e non può dire come si esprima quella percezione, quale soggetto sia legittimato ad interpretarla e quale sia il criterio di collegamento tra ambiti territoriali e popolazioni. Ebbene “le popolazioni” della convenzione dovrebbero intendersi quelle locali e da quella espressione si vorrebbe perciò ricavare l’impegno assunto dal nostro paese con la ratifica della convenzione a riconoscere l’attribuzione esclusiva dei compiti di identificazione e tutela del paesaggio ai Comuni come rappresentativi appunto delle popolazioni locali, quelle insediate nell’immediato intorno della “determinata parte del territorio”. L’argomento, come è facile intendere, è debolissimo ed è testualmente contraddetto dalla stessa convenzione (l’art. 4) la cui esecuzione si adegua alla ripartizione delle competenze secondo l’ordinamento di ogni stato e in conformità ai suoi principi costituzionali, con esplicito riconoscimento del ruolo nazionale.

Una rapida osservazione sull’emendamento al disegno di legge governativo in tema di federalismo fiscale che fonti non ufficiali ma accreditate davano approvato per conferire al comune di Roma e al costituendo ente di Roma capitale potestà esclusiva nella materia della tutela di patrimonio e paesaggio. Una amputazione colossale, è facile intendere, dell’unitario patrimonio culturale della nazione. Non è invece così e il sindaco di Roma, che lo aveva annunciato, era stato male informato. Ma l’equivoco (con le reazioni risentite subito suscitate) non deve essere stato consumato invano. La unitarietà di patrimonio e paesaggio della nazione esige, varrà ripeterlo ancora in questa occasione, unità di esercizio della tutela ed esclusivamente con leggi costituzionali (che vorremmo rimettere in discussione) sono state introdotte le sole eccezioni degli statuti “speciali” di Sicilia, Val d’Aosta, province autonome di Trento e Bolzano).

Dunque, si è detto e ripetuto, tutela come funzione essenziale della Repubblica, paesaggio e patrimonio come valori assoluti e prioritari che non tollerano di entrare in bilanciamento con altri interessi anche di rilievo pubblico sui quali debbono quindi sempre prevalere. Il primato appunto della tutela. Nel disegno costituzionale la tutela è presidiata da una straordinaria forza, della quale non sembrano sempre consapevoli non solo le soprintendenze ma perfino i comitati tecnico-scientifici, la massima istanza consultiva del ministero. Come nel caso dell’assurdo parcheggio sotterraneo che lambisce le fondazioni della Basilica di Sant’Ambrogio a Milano, giudicato incompatibile dal bravo soprintendente, ma infine licenziato sul parere del comitato tecnico scientifico che ha ritenuto di non potere resistere alla scelta politica e si è limitato a suggerire esornative mitigazioni. E anche il parcheggio nel cuore del Pincio era stato licenziato dal direttore regionale perché avrebbe migliorato la qualità urbana delle strade circostanti liberate dall’ingombro delle autovetture in sosta e dunque sopportabile il sacrificio degli strati millenari di fondazione della città sotto quell’assetto monumentale. E delle ragioni della tutela si sono invece investiti sindaco e ministro, negando lo sventramento del colle. Aprendosi così il delicato problema dei poteri del ministro in ordine ad uno specifico tema di tutela rispetto alla determinazione del competente organo tecnico-scientifico, intervento nella specie virtuoso, come per la tramvia che sfiora a Firenze Battistero e Santa Maria del Fiore, inconcepibile a giudizio del ministro (e per ragioni di ovvia coerenza per il parcheggio del Sant’Ambrogio a Milano e per il massiccio filobus, il Civis, nella Bologna medievale). Ma pure legittimo quando impone al dissenziente direttore del museo (è il caso dell’Annunciazione leonardesca promotrice e Tokyo del made in Italy) il prestito a una esposizione all’estero di un’opera dal direttore giudicata inamovibile?

La eccezione culturale è in linea di principio insuperabile e ha la forza di imporsi non solo sull’improprio insediamento residenziale sotto le mura di Monticchiello (e vi ha rinunciato), ma pure su altavelocità, autostrade, metropolitane, ponte sullo Stretto, eccetera; e pure quando il no del soprintendente e del direttore regionale nella sede della conferenza dei servizi rimane fermo e la questione sia stata rimessa al governo, neppure qui la politica può far legittimamente valere le sue prevalenti ragioni, perché anche il Consiglio dei ministri è chiamato a dare un apprezzamento di merito interno alle esigenze di tutela, che è tenuto a rispettare per precetto costituzionale. E’quanto non è invece avvenuto per il tracciato della autostrada Rovigo – Vicenza - Trento che sconvolge il paesaggio palladiano ed era stato fermissimamente contrastato da tutti i soprintendenti, ma il Consiglio dei ministri ha infine imposto con le superiori ragioni delle comunicazioni e dei trasporti. E il Consiglio di Stato non ha visto ragioni di censura. Perché non ha avvertito che il precetto della tutela dei beni culturali è rivolto anche al giudice (amministrativo e ordinario) che ben può, e anzi deve, direttamente applicare l’articolo 9, in ogni caso come criterio interpretativo della norma ordinaria. (Italia Nostra si propone di invitare a convegno magistrati ordinari e amministrativi per discutere con loro di “tutela e giurisdizione”). E se è vero in linea generale che le determinazioni politiche del governo trovano in se stesse, come espressione appunto della potestà politica, la ragion d’essere e dunque sono sottratte al dovere della motivazione che è requisito di legittimità dell’atto amministrativo, quando si tratti invece del destino del patrimonio culturale della nazione neppure il governo è sciolto dal precetto della tutela e deve dar conto di averlo osservato. L’amico Gianluigi Ceruti, alla cui competenza e generosità Italia Nostra affida la difesa nelle più impegnative controversie davanti al giudice amministrativo, constata con amarezza che l’aspettativa di tutela giurisdizionale dei valori di patrimonio, paesaggio e territorio è assai spesso delusa. E non è infrequente la decisione che pretende dal provvedimento di tutela (come requisito della sua legittimità) il bilanciamento tra l’esigenza di salvaguardia del bene culturale e l’interesse privato o pubblico che dalla tutela risulterebbe anche soltanto in parte sacrificato. Un giudice dunque non ancora consapevole del primato della tutela?

Certamente in contrasto con il principio di assolutezza della tutela è la norma del Codice dei beni culturali (art. 21), ereditata dalla legge del 1939, che rimette alla superiore decisione del ministero, dunque in sede di valutazione politica, “la demolizione delle cose costituenti beni culturali”, e questa competenza è stata invocata ed esercitata anche di recente per consentire alla metropolitana di Roma di travolgere lo strato archeologico con la prevista stazione di Piazza Venezia e alla metropolitana di Brescia di portar via le profonde fondazioni di una torre medievale.

Dall’articolo 9 discende la necessità per tutte la istituzioni della Repubblica di dotarsi di adeguate competenze tecnico - scientifiche e strutture organizzative per assicurare in proprio l’esercizio delle funzioni di tutela, certamente impegnate al più alto livello di responsabilità nella gestione dei musei pubblici che sono centrali, se così si può dire, nella strategia del “patrimonio”. L’aver artificiosamente sottratto la valorizzazione alla tutela apre la via alla privatizzazione di attività che sono invece espressione diretta della funzione di tutela, come appunto la gestione dei musei, che espressamente il Codice dei beni culturali e del paesaggio considera attività di valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica. Italia Nostra ha criticato con severità la formulazione dell’articolo 115 come è risultata dalla prima revisione, quella del 2006, e così è rimasta definitivamente. Gli enti cui i musei appartengono sono sciolti dall’imperativo di costituire in proprio “strutture organizzative interne alle amministrazioni, dotate di adeguata autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile, e provviste di idoneo personale tecnico”, perché “al fine di assicurare un miglior livello di valorizzazione dei beni culturali” ben possono ricorrere alla gestione indiretta e cioè per concessione a “terzi”, e la scelta tra gestione diretta e indiretta “è attuata mediante valutazione comparativa in termini di sostenibilità economico-finanziaria e di efficacia”. Insomma si esprime così una netta preferenza per soluzioni esterne: la rinuncia, inammissibile in linea di principio, ad assumere in proprio la responsabilità della gestione culturale (non più soltanto dei servizi aggiuntivi) del più prezioso, complesso, impegnativo bene culturale, le cui raccolte appartengono al demanio pubblico, perché “il miglior livello di valorizzazione” è raggiunto per concessione a “terzi”. Come se poi, prive di adeguate strutture tecnico-scientifiche interne, le amministrazioni proprietarie siano capaci di guidare e controllare la esecuzione del contratto di servizio che regola i rapporti con il concessionario. Una deriva verso la dismissione di una funzione essenziale, una grave offesa al primato della tutela. Non conforta la constatazione che in pratica la gestione di un museo ben difficilmente può essere remunerativa e non pare che vi sia convenienza economica al concorso di privati concessionari . Preoccupa invece che il contratto di servizio, nella ricerca di efficaci incentivi per il terzo concessionario, sacrifichi alla sostenibilità economico-finanziaria le finalità di ricerca e promozione culturale che animano il museo.

Né abbiamo dubbi che il primato della tutela non consenta le annunciate operazioni di vera e propria messa sul mercato dei nostri patrimoni museali, ai quali si riconosce un potenziale valore locativo da spendere presso i provvedutissimi musei di oltre oceano o con quelli costituendi fondati in Medioriente sul petrodollaro. Il modello, dichiaratamente, è quello oggetto della convenzione siglata dal Louvre con il governo di Abu Dhabi per un fantasmagorico museo dell’Emirato, progetto giudicato in Francia “dissennato” da Jean Clair, il direttore del Museo Picasso, che fu per oltre dieci anni conservateur general du patrimoin. Chiediamo al Ministro di richiamare i suoi consulenti dalle visite di promozione commerciale negli Stati Uniti, che troppo li avvicinano a piazzisti. E’ la mercificazione del bene culturale pubblico, non più fine, ridotto a mezzo di produzione di utilità economica (e non importa se per essere spesa a beneficio del museo). E neppure si è riflettuto che il “Codice” pone un alt insuperabile a simili operazioni con l’art. 67, che ammette, sì, l’uscita temporanea in attuazione di accordi culturali con istituzioni museali straniere e per la durata che non può essere superiore a quattro anni, ma soltanto in regime di reciprocità, con esclusivo fine di scambio, per ottenere cioè un analogo prestito che reintegri la raccolta secondo un ragionato progetto culturale e compensi la temporanea assenza. Non certo come manovra che valga a supplire le carenze degli ordinari e dovuti finanziamenti istituzionali.

Né crediamo che questa manovra possa essere programmata e governata in sede centrale, perché ogni singola iniziativa deve essere invece espressione di accordi culturali promossi dalla direzione scientifica del museo interessato e perché la realtà dei nostri musei, già lo osservammo in altra sede, è ribelle ad assetti organizzativi unitari che facciano gerarchicamente capo a una appositamente costituita direzione generale del ministero

Per concludere. Un primato difficile. Non generalmente riconosciuto. Insidiato. Perfino apertamente contestato. Credo che si possa parlare di un allarmante fenomeno di inadempimento costituzionale.

Quale il compito di Italia Nostra. La tutela ha bisogno di un forte sostegno nazionalpopolare, lo diceva Giorgio Bassani, proprio in senso gramsciano sottolineava lui, crociano di convinta osservanza, e proponeva all’associazione il compito di suscitare la partecipazione democratica alla responsabilità della tutela, di farsi strumento di questa diffusa coscienza. E’ un compito che credo l’associazione abbia saputo sia pure con difficoltà perseguire, anche se questo impegno non si è tradotto in un corrispondente sviluppo quantitativo della sua compagine sociale, ma diffusa e radicata in ogni parte del paese. Risultati non irrilevanti possiamo registrare, e anche nel vasto movimento dei comitati. Ed è compito ancora attuale che trova un recente riconoscimento nella esplicita apertura della riforma del titolo V della Costituzione (ma che stava già in nuce nell’articolo 3), come sussidiarietà orizzontale, diretto coinvolgimento, e dunque responsabilità, di cittadini e loro libere associazioni nella stessa gestione attiva degli interessi pubblici.

STRADELLA. Stop al progetto Montalino così come era: il provvedimento o meglio la notifica dell’avvio di un procedimento (così definito in gergo tecnico) da parte del Sovrintendenza ai beni paesaggistici della Lombardia, dovrebbe essere infatti notificato al Comune, entro pochi giorni. Poi si riunirà il consiglio che, entro il 12 novembre, dovrà recepire l’atto della Sovrintendenza.

La Sovrintendenza ha forti riserve sul progetto relativo a una lottizazione in vista della basilica romanica. Tutto ancora sotto il più stretto riserbo, anche se le decisioni prese sono state già sostanzialmente preannunciate e ribadite, ieri, dal sindaco di Stradella, Pierangelo Lombardi e dall’assessore all’urbanistica e vice sindaco, Antonia Meraldi che stanno seguendo da vicibno l’intricata questione urbanistica. Il taglio dei Beni culturali non azzera i cantieri, ma li taglia in modo drastico. Cala il sipario su almeno due terzi dell’originario progetto di espansione residenziale: per circa 14mila metri quadrati sul totale di 22mila (ma i dati precisi saranno comunicati con il decreto), infatti, dovrebbe, infatti, scattare il vincolo di tutela indiretta. Cosa significa? Niente costruzioni, ma possibilità di prevedere e realizzare strada di accesso, ad uso dei disabili, alla millenaria Basilica nonché un parcheggio. «E’ un punto importante, rilevano sia il sindaco Lombardi sia l’assessore Meraldi, perché ci consente di poter intervenire per due opere essenziali nell’interesse pubblico.» Sindaco ed assessori sono concordi nell’affermare: «qui non ci sono né vinti né vincitori perché non era una guerra. Noi siamo convinti che i presupposti iniziali erano validi perché ci avrebbe consentito di avere un parco, ad uso pubblico, di cinquemila metri quadrati a costo zero. Adesso si tratta di iniziare una nuova fase di contatti con la proprietà e verificare se, almeno in parte come ad esempio per il parcheggio, si potrà procedere». L’ok a costruire rimarrebbe per circa 6-7mila metri quadrati lungo la via Cairoli (parte alta) seppur con precisi vincoli, ancora non definiti ufficialmente, da parte della Sovraintendenza.

Lungo via Cairoli, del resto, già da anni, seppur in zona più defilata rispetto alla striscia di terreno attigua alla collinetta di Montalino, si è già costruito, compreso un condominio. L’impatto edilizio qundi già esiste. «Questo è l’esito di un confronto che si era aperto più di un mese fa, rilevano il sindaco Lombardi e l’assessore Meraldi, nessuno ha mai voluto forzare la mano e non è mai venuto meno l’interesse pubblico. Una dimostrazione? Volendo, avremmo potuto approvare il progetto, in consiglio comunale già lo scorso 30 settembre visto che il termine per la presentazione delle osservazioni era scaduto il 12 settembre e le controdeduzioni erano pronte. Ma in realtà era giusto e doveroso attendere l’esito del confronto con la Sovraintendenza, da noi iniziato il 4 settembre. E’ anche questa la ragione per la quale non si è ritenuto di organizzare alcuna assemblea pubblica.» Il sindaco smentisce che a livello di giunta, sul progetto Montalino, ci siano state diversità di vedute o peggior ancora dei contrasti.

«Spesso la vicenda è èstata trattata, riferendosi ad altri al di fuori della giunta e del consiglio comunale, un po’ al di sopra delle righe» ha aggiunto Lombardi. Una volta che sarà pervenuto il decreto della Sovraintendenza, i proprietari dell’area potranno, se lo riterranno opportuno, fare ricorso. Ma si preannuncia, già dalle prossime settimane, una fase di mediazione e trattativa fra Comune e proprietari per una soluzione senza strascichi e sempre nel fermo obiettivo dell’interesse pubblico. Intanto resta vigile l’attenzione dei movimenti ambientalisti.

Nota: QUI una descrizione del "caso" Stradella/Montalino con qualche immagine ; rimane sconcertante l'atteggiamento culturale dell'Amministrazione, che continua a ribadire la "correttezza" delle proprie scelte con un linguaggio che appare più adatto a un geometra che non a chi dovrebbe rispondere dell'uso del territorio in senso lato. Sul sito del Comune di Stradella si può infatti leggere la lettera con cui l'Ente risponde alle critiche piovute praticamente da tutte le direzioni, salvo quella ovvia dei costruttori interessati. (f.b.)

Che il federalismo d’impianto leghista si prestasse ad aggravare i guasti apportati dalla modifica del titolo V della Costituzione ad opera delle sinistre, era stato denunciato più volte su queste colonne. La rubrica scorsa, appunto, lamentava come i post comunisti, nell’ansia di cancellare le proprie radici, avessero finito per gettare via, oltre a Marx e Stalin, anche Garibaldi e Cavour. Ed ora se ne vedono i frutti velenosi. Il «Comitato per la bellezza», un organismo dedito alla difesa artistica e paesaggistica, presieduto da Vittorio Emiliani, mi ha inviato in proposito una mappa delle fasi di fioritura di una di queste «mele stregate», destinata non certo ad avvelenare Biancaneve. L’11 settembre il governo presenta il disegno di legge sul federalismo fiscale che, sottoposto alla Conferenza Stato-Regioni, passa quasi indenne. Il 3 ottobre il medesimo testo arriva al Consiglio dei ministri. A fine seduta viene inserito un copioso articolo aggiuntivo di cui non si era parlato fino a quel momento, neppure con le Regioni, col quale viene, tra le altre cose, trasferita all’Ente Roma Capitale «la tutela e la valorizzazione dei beni storici, artistici, ambientali e fluviali», sin qui di competenza statale o demaniale, nonché le funzioni di urbanistica e pianificazione finora devolute alla Regione.

Appena venuto a conoscenza dell’inserimento dell’«articolo aggiuntivo» su Roma Capitale nella legge sul federalismo fiscale il sindaco Alemanno se ne rallegra pubblicamente: «E’ un risultato storico. La città avrà uno statuto europeo. I più importanti processi decisionali - inclusa la tutela dei beni culturali e ambientali - invece di passare per tre diversi livelli Comune-Provincia-Regione (e Stato) sono concentrati nell’assemblea capitolina. Così si potranno prendere con più rapidità le decisioni». Contemporaneamente il ministro per i Beni culturali, Sandro Bondi, dice di non saperne nulla.

La cosa, però, non finisce qui. Prima di proseguire vorrei, però, premettere che la legge su Roma Capitale è un obbiettivo da lungo tempo giustamente atteso. Non è possibile, infatti, governare con gli stessi strumenti regolamentari di un qualsiasi capoluogo, una metropoli dove, oltre alla amministrazione comunale, sono installate tutte le istituzioni di governo e di rappresentanza della Repubblica, nonché quelle vaticane. Ciò non significa, però, che Roma debba essere sottratta ad ogni vincolo di controllo, soprattutto in tema di salvaguardia ambientale e culturale. E qui l’articolo approvato dal Consiglio dei ministri entra in conflitto con la stessa Costituzione, laddove, all’art. 9, proclama che «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Non si tratta, si badi bene, di una proclamazione retorica ma di una direttiva pratica: se questa tutela fosse stata delegata ad enti, altri dallo Stato, e in special modo a quelli locali, ne sarebbero derivati continui conflitti d’interesse per la presenza sul territorio di forze potenti, capaci di influire direttamente e indirettamente sulle rappresentanze, per loro natura più permeabili ad operazioni clientelari. Lo scandalo esploso a Roma, allorquando venne permessa la costruzione dell’Hilton sui crinali di Monte Mario, si sarebbe ripetuto ovunque e su più larga scala. Gli scempi ci sono stati egualmente ma senza il potere vincolante autonomo delle Sovrintendenze, ripreso anche dal Codice attuale dei Beni culturali sulla scia di tutti quelli precedenti, dalla legge giolittiana del 1908, a quella di Croce del ‘22, dalle due leggi Bottai del ‘39 al Testo unico del 1999, ebbene l’intera Penisola sarebbe uscita devastata.

Ricordato tutto questo, torniamo alla vicenda del famigerato articolo aggiuntivo di cui sopra. Ebbene, uscito da Palazzo Chigi il 3 settembre, si perde per strada e non arriva al Quirinale. Al presidente della Repubblica, che deve firmare il testo prima di avviarlo all’iter parlamentare, viene sottoposta la stesura precedente, quella sancita dalla Conferenza Stato-Regioni, che non contiene la corposa aggiunta su Roma Capitale, malgrado, nel frattempo, i ministri Calderoli e Matteoli dichiarino di averla approvata. Cosa c’è dietro? Probabilmente la stessa tattica seguita con l’emendamento salva-manager infilato di soppiatto nel decreto Alitalia: si nasconde la «mela stregata» agli occhi del Quirinale per non incappare in una possibile obiezione ostativa del Presidente, quindi la si ripresenterà, come emendamento, nel corso della discussione parlamentare sul federalismo. Come dice Andreotti a pensar male si fa peccato, ma si indovina. Del resto gli interessi in gioco sono enormi.

Con legge ordinaria, con un emendamento, il governo Berlusconi rivoluziona la strategia della tutela, chiaramente nazionale, dei beni culturali e paesaggistici togliendola allo Stato, quindi al ministero per i Beni culturali, ed assegnandola al Comune di Roma o al nuovo Ente Roma Capitale.

In tal modo, aperta una clamorosa breccia nell’articolo 9 della Costituzione, spiana la strada per l’attribuzione della tutela ai Comuni. Nemmeno alle Regioni, come da anni alcune di esse chiedevano (la Sicilia la esercita già, malissimo), ma addirittura ai Comuni. Un altro colpo di clava alla unità culturale e politica della Nazione. Una autentica follia anche dal punto di vista gestionale.

Il nostro sistema di tutela, che rimonta addirittura alla lettera-manifesto di Raffaello a papa Leone X, poi ad Antonio Canova gran consigliere di Pio VII, al ceto politico giolittiano che ne raccolse la forte trama legislativa, allo stesso Giuseppe Bottai che intelligente riutilizzatore di quelle norme nelle due leggi del 1939, alla Costituzione e alle normative più recenti (come la legge Galasso e il Codice Settis-Rutelli), era e rimane un modello invidiato e imitato all’estero. Malgrado i finanziamenti scarsi, malgrado i concorsi rinviati per anni, malgrado mille acciacchi operativi, l’idea-forza di far esercitare la tutela ad organismi tecnico-scientifici il più possibile autonomi dal potere politico (tanto più da quello locale) e dalle sue pressioni ha salvato il Paese da disastri molto maggiori rispetto a quelli, pur gravi, intervenuti. I nostri centri storici si presentano, sin qui, abbastanza preservati. La rete dei musei è nettamente migliorata, semmai bisogna crederci, investire di più in essa. Il paesaggio, certo, ha subito e subisce duri colpi dal cemento, specie dopo che ai Comuni è stato sciaguratamente consentito di usare per la spesa corrente i denari incassati con gli oneri di urbanizzazione. Ma, ripeto, il sistema è valido, i soprintendenti (nonostante stipendi da 1.500-2.000 euro) sono spesso autorevoli. Negli anni di Tangentopoli non uno di loro è stato inquisito e condannato.

Si può, si deve potenziare questa struttura voluta come Ministero da Giovanni Spadolini. Invece la si intacca e la si demolisce, facendo oggi del nuovo Ente Roma Capitale e domani degli 8.101 Comuni gli organismi che decideranno tutto sul patrimonio storico-artistico, sull’archeologia, sul paesaggio, ecc. I controllati diverranno anche i controllori diretti. Gli organismi tecnico-scientifici saranno alle dirette dipendenze dei politici municipali. Fate voi.

Certo, l’articolo 9 della Costituzione parla di tutela in capo alla Repubblica, cioè allo Stato (come hanno riaffermato le sentenze, ma quanto contano oggi?, della suprema Corte) in uno, armonicamente, con Regioni ed Enti locali. Ma l’autonomia dei presidii rappresentati dalle Soprintendenze non è mai stata messa in discussione. Mai. Oggi basta un emendamento ad una legge ordinaria. È vero, Roma ha anche una Soprintendenza Capitolina. Fu una sorta di omaggio di Corrado Ricci alla capitale d’Italia quando disegnava con altri la rete delle Soprintendenze. È stata retta da studiosi come Carlo Pietrangeli e, di recente, come Eugenio La Rocca. Non ho nulla contro Umberto Broccoli, archeologo, da poco nominato dopo lunghi anni di lavoro come intelligente divulgatore culturale in Rai. Ma la sua prima intervista televisiva mi ha lasciato di sasso: ritiene di poter fare soldi prestando in giro statue e altri reperti archeologici di magazzino. Non sembra il massimo dei programmi scientifici. Sembra anzi una porta aperta all’idea fissa di “sfruttare” commercialmente il patrimonio.

E il ministro Bondi, che fa? Ha assistito docile a tagli che - lo denuncia la Cisl - riducono le risorse da 625 a 73 milioni in quattro anni e ne fanno perciò una sorta di “commissario liquidatore” del Ministero e dei suoi beni. Nelle Soprintendenze, dopo la pubblicazione del testo per l’Ente Roma Capitale e sue prerogative c’è fermento, allarme, indignazione, come nelle maggiori associazioni per la tutela. «Una autentica rovina», commentano storici dell’arte, archeologi, architetti, paesaggisti, urbanisti, bibliotecari, musicologi. Ma anche una clamorosa fesseria dovuta a quelli che Raffaello profeticamente chiamava «li profani e scelerati barbari», ma anche il suicidio di un Paese che vive sempre più di turismo e di turismo culturale. Bondi si occupa di tutt’altro: cliccate sul sito del ministero (www.mibac.it) e vedrete che il ministro-poeta occupa la prima pagina con ben tre rubriche: i suoi Appunti di viaggio (un must internazionale), la sua post@ coi cittadini e, udite udite, le sue recensioni librarie, la prima parla anche di Eros. Non di Thanatos, del suo moribondo ministero naturalmente. Ma si è accorto di fare la parte del necroforo per giunta sorridente?

«Chilometri e chilometri sopra le nostre teste gli aerei sfrecciano carichi di quadri di Tiziano e Poussin, Van Dyck e Goya... Gli amministratori calcolano quale sarà il probabile impatto sul deficit del bilancio annuale, rammaricandosi che la scelta non sia caduta su Monet o Van Gogh. Intanto gli editori fanno gli straordinari per far uscire in tempo i loro voluminosi cataloghi».

Con queste parole l'inglese Francis Haskell (1928-2000), indagatore della storia sociale dell'arte, docente a Oxford, introduceva nel 2000, poco prima di spegnersi, la raccolta

postuma di saggi ora tradotta in italiano (La nascita delle mostre. I dipinti degli antichi maestri e l`origine delle esposizioni d'arte, Skira editore, 222 pagine illustrate, 25

euro). Da allora la girandola europea e nordamericana di rassegne d'arte antica ha contagiato il Giappone, sta contagiando la Cina, arriverà nei paesi degli sceicchi, là dove portano soldi e

potere. Una pratica planetaria che per Haskell non significava affatto una democratizzazione della cultura. Lo prova il libro di saggi che ha sistemato, con una cura anche affettiva, Nicholas

Penny, direttore di uno dei musei più ricchi di dipinti e più visitati al mondo, la National Gallery di Londra (4 milioni 160 mila ingressi nel 2007).

Mr. Penny, nel volume Haskell scriveva che le mostre d'arte antica crescono a danno dei musei.

«Sì, e probabilmente fu il primo a capirlo. È solo negli ultimi 20-30 anni che tutti i musei hanno iniziato ad allestire mostre».

Cosa li ha scatenati? Perché?

«L'ossessione di dover fare mostre di successo. I musei sono tenuti sotto pressione dai media, dall`amministrazione locale, dal ministero, e se una rassegna riesce o meno lo si misura solo dal numero dei visitatori».

L'unico metro di giudizio, nella cultura, nei libri, nello spettacolo, sembra diventato quanta gente compra, vede, c'è. Anche i musei si sono assogettati a questo pensiero unico?

«Sì, purtroppo. A Londra il British, la National Gallery o la Tate ogni anno vogliono avere più visitatori di quello precedente. E oggi quando si pensa a una mostra su un artista non ci si chiede se è davvero valido e va fatto conoscere, bensì quanto sarà apprezzato: è paralizzante».

Ma le mostre non sono proliferate anche perché un visitatore comprende, o pensa di capire, meglio un artista o un movimento in una selezione circoscritta che in un museo dove deve spaziare nei secoli e stili restando magari disorientato?

«E' verissimo. Ma un'esposizione ti impacchetta cosa vedi, ti dice cosa dovresti vedere dandoti la sensazione di aver capito. Invece in una raccolta devi inventarti un tuo percorso, metterlo

in relazione con il resto: è un'esperienza più impegnativa eppure più libera, più autonoma».

Le esposizioni continueranno a livello esponenziale?

«Non è detto. Ora i costi sono schizzati come razzi, le spese di assicurazione sono fuori controllo, è più difficile trovare sponsor, e poi le opere non sono più così disponibili. Anni fa

la National Gallery di Londra allestì in un quinquennio seguitissime mostre su Raffaello, Tiziano, Caravaggio e Velazquez generando due effetti: il pubblico ne voleva altre analoghe, il

che era impossibile, e per avere quei maestri il museo dovette promettere molte opere in prestito negli anni. Il fenomeno è chiaro: non ricevi grandi dipinti se non presti i tuoi in cambio.

Danneggiando chi viene al museo».

Nel saggio «Botticelli al servizio del fascismo» Haskell parla della mostra d`arte italiana del 1930 che portò a Londra, via nave superando una tempesta al largo della Bretagna, la Venere di Botticelli, la Tempesta del Giorgione, capolavori di Masaccio, Carpaccio, Tiziano e molti altri capolavori. Mussolini intendeva la mostra come utile propaganda. Pochi anni fa il ministro della cultura Buttiglione pensò di spedire, invano, Botticelli in Giappone, l'anno scorso Rutelli, su parere dei tecnici, inviò l'Annunciazione di Leonardo a Tokyo nonostante l'opinione contraria del direttore degli Uffizi Natali.

«Per me Natali aveva completamente ragione ma il punto più interessante sollevato da Haskell è che anche da un punto di vista politico spedire tesori all'estero serve a poco. Mussolini

prestò la grande arte italiana credendo di dimostrare quanto era grande l'Italia, alla fine si rese conto di non aver avuto l'impatto politico desiderato. Prestare arte all'estero anche diplomaticamente è un'idea pessima, in realtà è un omaggio alla potenza che ospita le opere.

Così rinascono gli Scavi

Stella Cervasio - la Repubblica, ed. Napoli, 27 agosto 2008

"I rovi occupavano il sessanta per cento dell´area archeologica, oggi è tornata la natura" Alla faccia dell’inquinamento, ci sono luoghi in Campania che possono diventare vere oasi ecologiche. È il caso di Pompei, che proprio in questi giorni ha avuto un segnale incontrovertibile, più ancora del risultato di un´analisi dell´aria: il ritorno dell’upupa. L’uccello dei poeti, dal piumaggio spettacolare a righe bianche e nere e con una grande cresta a ventaglio sulla testa, rossa puntinata di nero, mancava da anni dalla zona degli Scavi, ma prima dell’eruzione il suo becco ricurvo a Pompei era di casa, come testimoniano le pitture murarie delle domus: nel bestiario pompeiano il suo volo simile a quello di una farfalla è tra quelli che più hanno colpito gli artisti che trasferirono la natura sulle pareti delle lussuose case patrizie. L’Upupa epops è stata avvistata nell’area archeologica e la sua presenza è stata documentata fotograficamente. Il ritorno sta a significare un’ottima qualità dell´habitat naturale, dal punto di vista delle condizioni del verde e della purezza dell’aria. In quanto migratore, l’upupa soggiorna solo dove le conviene, dove cioè tra ambiente naturale e catena alimentare c’è un rapporto equo. Altrimenti, vola via e sceglie altre mète. Gli esperti del laboratorio scientifico dell’area archeologica hanno preso la sua apparizione come un palmares che ricompensa oltre 15 anni di attività. Il lavoro di Anna Maria Ciarallo, paleobotanica, e della sua équipe che opera a Pompei nella soprintendenza di Pier Giovanni Guzzo, è volto a creare un equilibrio fra natura e resti di un´antica civiltà che proprio dalla natura fu distrutta. Il risultato è anche una risposta alle denunce di degrado in cui verserebbero gli Scavi di Pompei, secondo gli esperti. «Gli sforzi compiuti per liberare Pompei dai rovi - dice Anna Maria Ciarallo - che quindici anni fa occupavano per il sessanta per cento l’area archeologica, hanno dato i loro frutti. Con pazienza certosina, mettendo a punto tecniche di intervento diventate esemplari per l’archeologia di tutto il mondo, si è cercato di coniugare le esigenze di conservazioni del bene archeologico con quello naturalistico, poco noto al grande pubblico, ma altrettanto importante. Si è creato così uno straordinario equilibrio tra archeologia e natura, unico al mondo».

Che vuol dire? Una ventina di anni fa Pompei incarnava il gusto "romantico"delle rovine dove la natura ha preso il sopravvento, con erbe infestanti e rovi cresciuti disordinatamente dappertutto, come si vede nelle vecchie foto degli Scavi. Dove le pietre mancavano, il verde incolto riempiva i vuoti. Sotto la guida di Guzzo, si è formulato un progetto per la ricostruzione dei giardini come li volevano e li vedevano i pompeiani, proprietari delle case. Gli spettacolari spazi verdi delle case di Loreio Tiburtino, della Venere in Conchiglia, della Casa del Menandro e di quella del Profumiere, dell´Orto dei Fuggiaschi o della Grande Palestra oggi sono un valore aggiunto offerto ai visitatori, parte integrante dell’itinerario storico e di utilità per il restauro archeologico. All’estero se ne sono accorti prima di noi. I giardini recuperati sono infatti stati inseriti in una guida europea sugli spazi verdi più belli del mondo.

«Abbiamo sperimentato tecniche molto innovative di conservazione - spiega la botanica - come alcune malte per il restauro capaci di contrastare l’infestazione di erbe pericolose per la stabilità dei ruderi. Sono state protette rarissime specie vegetali adottando tecniche avanzatissime per la difesa ambientale, utilizzando i prati autoctoni per contrastare gli stress idrici legati alle condizioni climatiche che ormai caratterizzano le nostre zone».

Vigneti, siepi curate, piante in fiore, come nei giardini degli Amorini dorati (come si vede nella foto del ‘98, in precedenza erano preda delle sterpaglie, dove anche camminare per un visitatore era proibitivo), della bella Casa del Citarista, la preferita di Robert Harris, che qui scrisse nel 2003 il bestseller "Pompei", anche nell’area della necropoli di via Nocera, le cui immagini storiche parlano - quelle sì - di un degrado che oggi appare datato.

La verità di Bondi: «Pompei? Era uno strazio»

Enrico Paoli – Libero, 27 agosto 2008

Ministro, il nostro patrimonio storico e artistico è, forse, unico al mondo. Eppure non riusciamo a tutelarlo e valorizzarlo a sufficienza. Come intende intervenire?

«Sto lavorando ad un piano nazionale dei Musei italiani. Voglio dimostrare che è possibile realizzare un importante progetto di tutela e di valorizzazione dei musei italiani, destinando ad esso risorse adeguate, sia pubbliche che private», dice il ministro ai Beni Culturali Sandro Bondi, intervendo sulla polemica sollevata da Libero. «Ho deciso di bandire un concorso aperto anche agli stranieri per ricoprire il posto di direttore generale per i musei italiani. Accanto a questo progetto, sto lavorando, in stretta collaborazione con il sottosegretario Michela Brambilla, ad un piano per la valorizzazione degli itinerari turistico culturali, con particolare attenzione all`Italia cosiddetta minore, alle piccole città d`arte che rappresentano una ricchezza diffusa e nascosta senza paragoni nel mondo. Desidero, infine, sostenere particolarmente l`arte contemporanea».

Nel Mezzogiorno d`Italia i siti storici e archeologici sono ammalati di degrado e incuria? Perché? C`è una differenza fra nord e sud?

«Non credo che il Nord abbia una natura diversa dal Sud, dettata quasi dal Fato. Detto questo, le differenze ci sono, tra Nord e Sud, e si vedono. Ma la risposta la devono sempre dare i sistemi socioeconomici e culturali complessivi dominanti nelle singole aree del territorio nazionale. Dobbiamo avere la giusta attenzione in questi casi e valutare le singole realtà. Faccio poi presente che, ad esempio, la Sicilia è, di fatto, la punta di diamante dell`autonomia istituzionale ed operativa in queste materie ed è Regione autonoma, ma i problemi ci sono, in questa, come in altre Regioni d`Italia. Nel caso della Sicilia, direi che dovrebbe essere la Regione a investire soldi per il recupero dei luoghi e, quindi, per la successiva valorizzazione. Occorre sempre distinguere per non incorrere in facili schematizzazioni ed errori di analisi».

Per alcuni aspetti la Sicilia, anche se il patrimonio di quella regione non dipende direttamente dal suo ministero, rappresenta un caso limite. Ma è davvero impossibile porre un argine allo strapotere delle soprintendenze, in Sicilia come nel resto d`Italia?

«Guardi, io non parlerei di strapotere. Il Ministero dei beni culturali del quale le soprintendenze rappresentano le articolazioni territoriali rispondono ad una missione: quella di tutelare e custodire il patrimonio storico artistico e paesaggistico della nostra Nazione. È una missione che si fonda sulla Costituzione, che pone lo Stato a fondamento della tutela e della valorizzazione dei beni culturali. Questa missione ha formato una vera e propria élite burocratica, costituita da funzionari, storici e archeologi di grande preparazione culturale t di grande esperienza. Io, comunque, sono impegnato in una riforma che rifugga dagli estremi: sia un interventismo delle soprintendenze che può apparire a volte irragionevole e statalista, sia una libertà assoluta che metta in pericolo il nostro patrimonio culturale. I giornali stessi stigmatizzano alternativamente sia il degrado, del nostro territorio dovuto ad una malintesa libertà di costruire, sia il freno allo sviluppo conseguente a divieti e ad una burocrazia impermeabile al buon senso. Basta partire dal Codice dei beni culturali voluto dal mio predecessore Giuliano Urbani, e successivamente integrato dai ministri Buttiglione e Rutelli, rappresenta già un punto di equilibrio molto avanzato. Io ho cominciato ad agire sulla base del Codice del beni culturali e delle innovazioni costituzionali più recenti allestendo dei tavoli di lavoro con le Regioni e con gli enti locali che stanno dando già degli ottimi risultati in tema di collaborazione istituzionale».

Su Pompei invece è intervenuto, ma il grosso resta ancora da fare. Anche lei ha la percezione che questo sito archeologico non venga considerato una priorità per il nostro paese? L’industria dei turismo vive grazie a queste bellezze storiche...

«Pompei, che è una delle aree archeologiche più importanti del mondo, è stata lasciata in condizioni indescrivibili. L`immagine dell`Italia che ne ricavavano i turisti era straziante. Perciò ho adottato un provvedimento unico nella storia del nostro Paese. II Commissario sta operando con efficacia, e credo che in poco tempo l`area archeologica sarà riportata in condizioni di piena efficienza. Questa è la condizione essenziale per affrontare la fase successiva che prevede una gestione più manageriale del sito e della sua migliore valorizzazione turistica Per il futuro, sto riflettendo sulla migliore gestione dei beni culturali del nostro Paese. La forma delle gestioni autonome, come quella delle Fondazioni, sta offrendo indicazioni utili e positive. La Reggia di Venaria, l`area archeologica di Aquileia e la Villa Reale di Monza rappresentano modelli nuovi di gestione dei beni culturali. Non c`è dubbio, inoltre, che queste innovazioni indicano la necessità di separare e distinguere la sfera della tutela dei beni culturali affidata alla soprintendenze, da quella della loro vaio rizzazione turistica che può essere meglio affidata a strumenti autonomi di gestione».

L’altro aspetto eclatante riguarda le grandi opere, come la metropolitana a Roma il parcheggio del Pincio. Sono stati eseguiti gli scavi, sono emersi dei reperti archeologici che, con tutta probabilità, finiranno nello scantinato di qualche museo. L’unico risultato concreto, alla fine, è quello di bloccare i lavori. Ma è davvero impossibile superare questa logica dei veti?

«Sono assolutamente convinto del ruolo positivo della cultura per lo sviluppo del Paese, per questo il ministero per i beni e le attività culturali non deve essere più identificato come quello che frena la modernizzazione e lo sviluppo del Paese. Per queste ragioni, sono stato proprio io, senza che nessuno me lo chiedesse, a proporre al Presidente Berlusconi di nominare un commissario straordinario per superare tutti gli ostacoli, anche di natura burocratica, alla realizzazione delle linee metropolitane di Roma e di Napoli; due opere straordinarie per il rilancio e la modernizzazione di queste due città e a cui il governo tiene molto».

E sul caso del parcheggio del Pincio?

«Per quanto riguardala questione del Pincio a Roma, non c’è stato alcun intervento ostativo alla realizzazione del parcheggio da parte delle competenti soprintendenze. Semmai ci sono stati interventi e prese di posizione da parte della società civile per richiamare l’attenzione sulla necessità di salvaguardare un possibile grande patrimonio archeologico. Ci sono stati gli interventi a questo proposito molto intelligenti dei Professor Carandini e del sottosegretario Francesco Giro. Lo stesso mio amico Fabrizio Cicchitto mi ha invitato a recarmi sul posto e di valutare bene la situazione. Lo farò certamente. Questo per dire che la situazione è più complessa di come la si voglia far credere. E che le soluzioni non sono mai semplici, ma richiedono obiettività, conoscenza, buonsenso. Sempre che non vi siano interessi economici prevalenti che sono legittimi ma che devono avere dei contrappesi se si tratta di tutelare il patrimonio della Nazione. Molti esperti di cui ho fiducia mi hanno detto che per il Pincio è possibile sia realizzare il parcheggio che musealizzare i reperti archeologici. Esaminerò con attenzione questo problema, dopo aver sentito il sindaco Alemanno, i funzionari del ministero e i rappresentanti della società civile».

A proposito di modernizzazione a Firenze per non scavare sottoterra, ha rinunciato ad una vera metropolitana per una tramvia che dovrebbe correre a pochi metri dal Battistero. Le sembra una soluzione accettabile?

«La tutela del patrimonio storico del nostro Paese é una funzione che lo Stato deve continuare a svolgere sia pure con la partecipazione determinante degli enti territoriali. Ho espresso preoccupazione per l`impatto che la tramvia potrebbe avere sul Duomo e sul Battistero. Resto di questo avviso. E questa posizione del ministero verrà comunicata al comune di Firenze quando si riunirà per la prima volta il tavolo tecnico che abbiamo deciso di costituire su questo ed altri argomenti».

Postilla

L’intervista del ministro Bondi che riportiamo merita senza dubbio un commento non affrettato, che rimandiamo ad altra occasione, non solo per le risposte, ma anche per le domande, esemplari, nella rozzezza culturale e antropologica che esprimono, di un’intera concezione del nostro patrimonio cui purtroppo il ministro non sembra contrapporre una radicale diversità.

Ma in questa sede interessa sottolineare soprattutto il contrasto, non solo di contenuti, ma anche di toni, dei due articoli odierni sulla situazione di Pompei: la realtà che raffigurano è talmente in contrasto da domandarsi se si tratti dello stesso sito. Certo, come ci hanno insegnato schiere di filosofi, la verità “oggettiva” non esiste e come insegnano fior di epistemologi di alto livello, la complessità degli elementi che costituiscono un sistema come può essere quello di Pompei è tale che le interpretazioni possono divergere anche profondamente, eppure…a noi di eddyburg, sospettosi per natura, è venuto in mente di controllare l’agenda del capo del ministro Bondi: ad ottobre è prevista una sua visita agli scavi pompeiani, in pendant mediatico-politico di quella ormai “cult” di qualche settimana fa in una Napoli finalmente “risanata” dalla monnezza. E una Pompei rifiorita con un colpo di bacchetta magico commissariale è assai più vendibile e spettacolare di un sito che dopo lunghi anni di ricerche, analisi, restauri, cure (per di più originate in “regime” di centro sinistra…), rinasce non solo dal punto di vista culturale, ma addirittura anche da quello naturalistico.

A pensar male, come si sa, si fa peccato, ma…(m.p.g.)

A volte anche nella nostra provincia italiana (intendendo l’Italia come profonda provincia d’Europa) si parla di concetti come aree metropolitane, sviluppo suburbano o addirittura esurbano … ma poi si scopre che è tutto uno scherzo. E dai! Queste sono cose americane, magari inglesi, o francesi, ma “da noi” non succede. Ed è vero, sacrosanto, giuro: almeno dal punto di vista delle culture.

Nel senso che le cose succedono, identiche, anche da noi, e tra l’altro fanno molti più danni perché lo sviluppo della città diffusa (poco città ma parecchio diffusa) qui avviene sovrapponendosi a tessuti storici molto più delicati. Ma mentre succedono, le cose, non se ne accorge nessuno, e anche quando se ne accorge gli rispondono sempre “ma dai!”. Una pacca sulla spalla e via. Salvo poi, quando i danni sono fatti, aggiungere “ma noi non potevamo sapere”.

Questo non significa che delle cose non si parli. Anzi gli stessi documenti di pianificazione del territorio traboccano di travolgente slang disciplinare e ficcante terminologia, salvo poi – magari nel paragrafo immediatamente successivo – contraddirne il senso e/o la sostanza. Ad esempio il piano provinciale di Pavia che quando descrive l’asse della Padana Inferiore fra Voghera e Stradella parla di un insediamento che minaccioso “mostra un continuum urbanizzato”, salvo poi scordarsene, o comunque limitarsi a questa osservazione, di uno stato di fatto sui cui non si può in alcun modo incidere.

Per restare a Stradella, che ahimè rappresenta l’oggetto privilegiato di questa nota, proprio dalla zona del minaccioso continuum a nastro si diparte un percorso verso la collina, che funge da circonvallazione accessoria al nucleo centrale abitato. Come racconta il piano di governo del territorio ora in discussione, “lungo il tratto urbano della … Strada Panoramica l’insediamento si struttura con una omogeneità di funzioni a carattere prevalentemente residenziale in un tessuto periferico non consolidato” (Analisi del suolo urbano, p. 70). Il problema, come si vuole argomentare di seguito, sono i modi e le forme in cui questo non consolidamento vuole poi consolidarsi.

Se si dà un’occhiata al territorio di Stradella, anche solo con Google Earth, si nota facendo un po’ di attenzione come questa discontinuità dell’insediamento ad un certo punto sul versante a sud del centro assuma contorni piuttosto precisi: una “goccia” di spazio verde aperto definita sui due lati da percorsi stradali curvi che scendono verso il nucleo compatto storico, e che culmina a sud in un piccolo edificio ben individuabile. Quell’edificio è la basilica romanica di Montalino, dell’anno Mille più o meno, debitamente restaurata e tutelata. C’è un breve percorso a scalinata che sale alla chiesa, dall’angolo fra la Panoramica e la via Montalino, e man mano si percorrono i pochi gradini si inizia a capire meglio il senso di quel nome, “panoramica”, perché si apre sulla pianura padana, e anche oltre il grande fiume sino alle Prealpi. Cosa curiosa, però: arrivati in cima nel piccolo spazio che corre attorno al restauratissimo edificio, lo stesso panorama scompare, schermato da una fitta muraglia di verde, evidentemente lasciata crescere a bella posta. Perché?

Forse perché, tornando a prospettive più ravvicinate delle Prealpi o dei campi pezzati sino agli argini del fiume, attorno alla basilica non è un gran bel vedere. Nel dibattito sulla formazione del nuovo piano comunale una rappresentante del Lions Club parla di “criticità all’azzonamento dell’area posta ai margini dell’edificato in via Cairoli, dove è in corso di realizzazione un edificio pluriplano …” ( Verbale dell’incontro di presentazione degli obiettivi strategici del Piano di Governo del Territorio, 19 settembre 2007). Usando parole decisamente meno diplomatiche, come quelle di Giorgio Boatti, quello che si vede guardandosi attorno è “la gentile chiesa di Montalino stretta d’assedio da fitte costruzioni e da villette di una Hollywood dei poveri” ( La Provincia Pavese, 3 luglio 2008).

E suona comunque assai benevolo anche Boatti, scendendo per una passeggiata di qualche minuto tra le vie Montalino, Cairoli e Vena che definiscono la “goccia verde”. Dal rumore costante di fondo dei rigogliosi cantieri di costruzione mono o multipiano che tintinnano di macchinari in questa estate 2008, spunta tutto il campionario di una classica periferia strapaesana, dove l’urbanistica se mai è arrivata l’ha fatto solo col piglio dell’imposizione burocratica di malavoglia, o al massimo di qualche intervento tecnico.

Gli edifici si allineano compatti e continui sulle vie, con o senza marciapiede, con arretramenti minimi ma senza dare alcun senso urbano a quelle strade. Che erano, sono e resteranno per un pezzo viottoli che salgono verso la collina, ma dove nei decenni recenti si è consentito di scaraventare un po’ di mattoni impilati, a dire “questo è mio”.

Nessuna ostilità pregiudiziale verso chi abita quelle case, per carità! Se le sono fatte, pagate, sudate e tutto il resto. E decisamente quella “idea di città” (senza offesa per le città o per le idee, neh?) che esprimono non è peggiore di tante altre frange di piccolo centro, di mezza collina, di pianura, di montagna. Ma basta camminare verso valle qualche decina di metri, non di più, per cominciare a vede assai di meglio là dove il centro storico se non altro per inerzia ordinatrice – o ritmi più lenti di crescita – ha prodotto fasce esterne compatte, vie dove non ci si vergogna istintivamente passando a piedi, cortine più continue e compatte, interrotte da qualche slargo che non sembra un parcheggio, ecc. E invece il nuovo piano di lottizzazione per l'area attorno alla chiesa romanica, eredità del piano regolatore generale ancora vigente, appare come coerente con quel “tessuto periferico non consolidato”, e soprattutto sembra volerlo consolidare eventualmente nel modo peggiore: ovvero completando l’accerchiamento del green wedge di Montalino e riducendo la basilica, in una specie di parodia di uno sventramento d’altri tempi, a simulacro della sua storia, strappata al contesto dell’ambiente collinare. In questo senso davvero una Hollywood dei poveri, che replica in piccolo e virtualmente quei ruderi di castelli comprati a peso in Toscana dal classico americano arricchito, e rimontati magari nella Napa Valley per farci la tavernetta di lusso …

Il testo del piano di lottizzazione APR2 Località Montalino è candido nella sua volontà di “ridefinizione del bordo edificato … con la formazione di un tessuto edilizio con tipologie prevalentemente mono e bi-familiari”. Ovvero accerchiamento, trasformazione definitiva della goccia verde in uno di quei cosi residuali che si vedono ogni tanto, giusto perché la Sovrintendenza si è impuntata. E perché? Per costruire una manciata di villette, in un comune dove da anni la popolazione diminuisce, e che le onde lunghe della spinta suburbana dalla regione metropolitana milanese ancora trascurano. C’è da tremare, al pensiero di cosa si inventerebbero se ci fosse davvero una seria e motivata pressione insediativa!

Per questo, perché con un approccio ridicolo ai temi dell’urbanizzazione si rischia di buttare al vento la traccia ancora viva e presente di mille anni di storia, va firmata la petizione che chiede di ripensarci. Va coltivata una diversa cultura dello sviluppo locale, anche soprattutto in centri che (APR2 Montalino e simili a parte) sono un ottimo modello: compatti, inseriti nell’ambiente, buon equilibrio fra ambiti pubblici e privati e nel complesso per nulla arcaici. Basta confrontare la Stradella compatta cresciuta nei secoli, sino ad oggi, sul fianco della collina, con la strip definita dalla Padana Inferiore, dalla ferrovia, dall’autostrada e dal guazzabuglio degli scatoloni commerciali. Insomma l’esempio c’è, e basta copiarlo.

Fra gli obiettivi spaziali del nuovo piano di governo del territorio in corso di formazione si legge quello di uno “sviluppo edilizio posto in continuità fisica con la maglia urbana esistente, saturando in tal modo sia le aree di una certa consistenza già parzialmente escluse dalla filiera produttiva agricola e posizionate ai margini dell’abitato sia le aree posizionate in ambiti interclusi all’interno dei tessuti edificati” (Relazione, 4.1.2.3 A, Obiettivi del Piano nel settore insediativo residenziale, p. 284). Una bella frase, che fa decisamente a pugni con la sostanza, se non con la forma, di quella “ridefinizione del bordo edificato”. Ripensiamoci: non c’è niente da guadagnarci per nessuno.

Di seguito si può scaricare il pdf di questa nota con qualche immagine e il piano di lottizzazione. QUI invece si firma per evitare che la "Hollywood dei poveri" travolga noi e loro (f.b.)

Nonostante i meritori tentativi del ministro Bondi, la manovra finanziaria d'estate si chiude con tagli assai pesanti ai Beni culturali. Un miliardo di euro in meno nel prossimo triennio peserà sull'Amministrazione come un macigno, riducendone drasticamente la funzionalità: e ciò all´indomani di una riforma del Codice che le assegnava nuovi e più impegnativi compiti nella difesa del paesaggio. Cresce a ogni giorno che passa l´età media dei funzionari (oltre i 55 anni), e senza soldi di turnover non se ne parla. Il già ridicolo finanziamento della Cultura (0,28% del Pil, ai livelli più bassi d´Europa) è stato ulteriormente falcidiato.

Eppure, chi trova questa situazione preoccupante viene accusato di "statalismo". Interessante rimbrotto, che si può interpretare in due soli modi: o nel senso che proteggere beni culturali e paesaggio è di per sé deplorevole, e dunque sarebbe meglio distruggere e svendere ogni cosa a man salva; o nel senso che la necessaria tutela del nostro patrimonio culturale e paesaggistico può farsi lo stesso, anche se i finanziamenti dello Stato si riducono in modo così massiccio. Nessuno è tanto cinico (o barbaro) da sostenere la prima di queste due tesi. Molti invece i sostenitori della seconda, che tuttavia puntano su quattro diverse strategie. Vediamole.

Secondo alcuni, come l´onorevole Aprea, il Ministero avrebbe «accumulato qualcosa come 4.000 miliardi di vecchie lire di residui passivi», e perciò basta pescare in questo salvadanaio e «rimodulare i meccanismi di spesa», e il gioco è fatto: i tagli della manovra d´estate sarebbero solo un invito alla virtù. Peccato che le cose non stiano così: questa cifra è aggregata su più anni, per giunta considerando "residui passivi" le somme già spese ma non liquidate, dunque dà un´idea distorta della realtà (sarebbe giusto che fosse lo stesso Ministero a chiarirlo).

Seconda teoria: se lo Stato si dilegua, arriveranno i privati a gestire musei e parchi archeologici. Ma quali privati? La favoletta secondo cui in America i musei vanno a gonfie vele perché privati ha già fatto il suo tempo, ma giova ripetere perché: nessun museo d´America ha il bilancio in attivo (il Getty, che è il più ricco, copre con gli introiti meno del 10% delle spese), ma tutti possono contare su beni patrimoniali investiti (endowment). Sono donazioni di uno o più mecenati, il cui frutto è obbligatoriamente investito in attività culturali, a fondo perduto: nulla di comparabile con l´assetto dei musei italiani, che di endowment non ne hanno proprio. Ma perché tanti generosi donatori in America, in Italia quasi nessuno? Facile: in quel grande Paese vige un sistema fiscale efficiente, che prevede fra l´altro la detassazione totale delle quote di reddito che vengano donate a musei, teatri, università, istituti di ricerca. In tal modo, gli Usa e i singoli Stati federati rinunciano a introiti significativi, e i cittadini-donatori stabiliscono un legame di fidelizzazione con le istituzioni che sostengono. Donazioni private sì, ma rese possibili dalla lungimiranza dello Stato. Perché invece di parlare di un inesistente modello americano di gestione redditizia dei musei non si adotta il concreto modello americano di un sistema fiscale efficiente? Forse perché il fisco italiano (che il governo sia di destra o di sinistra) non rinuncia a un centesimo di tasse, né può farlo, dato lo stratosferico livello dell´evasione fiscale nell´infelice Penisola. L´adozione del "modello americano" comporterebbe in primis la lotta all´evasione fiscale, perciò non se ne parla. Meglio qualche chiacchiera a vuoto sul "museo come azienda", che non tocca gli interessi di nessuno (salvo che dei musei).

Terza strategia per sostituire lo Stato in ritirata: le Fondazioni museali a partecipazione mista, pubblico-privata. Buona idea, se funziona. Ma funziona? A dieci anni dalla legge in merito (Veltroni-Melandri, con regolamento Urbani), c´è una sola fondazione nata intorno a un museo statale (l´Egizio di Torino), un´altra (Aquileia) sta nascendo. Il freno principale è precisamente la difficoltà di trovare capitali di provenienza non pubblica: se a Torino si è potuto contare su due grandi fondazioni bancarie, in quasi tutte le città italiane non è così. Il meccanismo è forse efficace, ma di lentissimo rodaggio. Un´Italia che si converte in massa alle Fondazioni per colmare i tagli che devasteranno il Ministero non è plausibile, si accettano scommesse.

Quarta ipotesi, la devoluzione dei beni culturali alle Regioni, che l´infelice riforma del Titolo V della Costituzione tortuosamente sembra consentire. Proposte in tal senso sono state avanzate dalla Toscana nel 2003, da Lombardia e Veneto nel 2007, dal Piemonte un mese fa: cioè sempre da regioni governate da una coalizione politica diversa da quella del governo nazionale del momento. Verrebbe così a crearsi per i beni culturali una situazione simile a quella della sanità, dove dal 2001 (secondo "Cittadinanza Attiva") «una distorsione del concetto di federalismo declina il diritto costituzionale alla salute in 21 modalità diverse». Con due aggravanti: primo, mentre i malati possono spostarsi – quando possono– – da una regione all´altra (nel 2007 lo ha fatto il 51% dei cittadini, e il dato è in salita), monumenti e paesaggi sono inchiodati in situ. Secondo, le regioni più povere avrebbero ben poco da destinare alla tutela: in regime di "federalismo fiscale", solo sette regioni sarebbero autosufficienti, nessuna al Sud; e al Sud va solo il 5% delle contribuzioni liberali delle Fondazioni bancarie. Ma la devoluzione dei Beni culturali comporterebbe un risparmio di spesa a parità di servizi? C´è da dubitarne: la sanità "federale" non solo è distribuita in modo diseguale, costa anche di più: «nel ´98 costava 55 miliardi, oggi ne brucia il doppio» (G. Trovati, Il Sole, 4 agosto). Che cosa accadrebbe ai beni culturali? E al paesaggio? La risposta è chiara: o il moltiplicarsi della spesa, o un drammatico affievolirsi della tutela.

Insomma: se lo Stato dovesse dileguarsi, il rimedio per i Beni culturali è ancora da trovare. Sandro Bondi ha scritto (Il Giornale, 3 agosto) che la tutela «è un formidabile generatore di senso comunitario, di creatività, di crescita civile e produttiva», e che perciò «non dev´essere compresso il finanziamento alla cultura, all´istruzione e alla ricerca». «Un Paese come l´Italia che non scommette sulla cultura e l´istruzione è un Paese che non ha futuro». Non si può che essere d´accordo con lui. Ma basterà «incoraggiare l´intervento dei privati e delle autonomie locali» per tappare l´enorme buco di bilancio creato dalla manovra d´estate?

Intanto, i nostri vicini di casa ci giudicano. La Süddeutsche Zeitung del 5 agosto commenta questi tagli col titolo «La minacciata liquidazione della tutela dei beni culturali assesta il colpo di grazia alla cultura italiana e devasta i tesori più preziosi d´Europa». La situazione, scrive Volker Breidecker, «non è drammatica, è catastrofica», e l´Europa non può disinteressarsene, dato che l´Italia è «culla della classicità, luogo d´origine del Rinascimento e della civiltà comunale, civiltà a cui si devono quasi tutte le idee-guida della politica e della vita pubblica, e per questa ragione sede di un patrimonio archeologico, architettonico, paesaggistico e artistico senza paragoni sulla Terra». Che cosa accadrebbe, si chiede Breidecker, in caso di devoluzione? La privatizzazione, come quella dei templi di Agrigento, progettata dalla Sicilia? O la vendita del patrimonio culturale pubblico, come a Verona va facendo il Comune?

Consigliamo la lettura di questo articolo al presidente Berlusconi e al ministro Tremonti. Vi troveranno un giudizio durissimo, ma che tradisce a ogni parola un amore senza riserve per l´Italia, per la sua tradizione e per il suo futuro. Anche questo amore, condiviso da tanti in Europa e fuori (anche in Italia? anche in Parlamento?), è un asset su cui contare. I tagli alla Cultura non solo mettono a repentaglio il futuro del nostro patrimonio, ma costituiscono un immediato, grave danno d´immagine per il Paese. Chi saprà correggerlo? E come?

CAGLIARI. Il trasloco gli è stato imposto in fretta e furia dal ministero ai Beni culturali. Dopo appena quattro mesi, alla fine di luglio, Fausto Martino si è visto sfilare la poltrona e l'incarico di soprintendente per i beni architettonici e paesaggistici della Sardegna. Scelta punitiva, ha detto chi in lui - arrivato da Salerno - aveva visto un intransigente servitore dello Stato.

- Soprintendente, è stato cacciato via?

«La mancata riconferma era nell'aria. Due i motivi: il decreto Rutelli, con cui ad aprile ero stato nominato, ha incassato da subito i rilievi della Corte dei conti e il ministro lo ha azzerato».

- Ma non tutti i soprintendenti dell'era Rutelli sono stati rimossi da Bondi.

«È vero, ma bisogna ammettere che il decreto aveva in sé alcuni peccati originali e questo è bastato al nuovo ministro per rivoluzionare le Soprintendenze di mezza Italia».

- Il secondo motivo della sostituzione?

«Lo spoil system. Nuovo governo, nuovi uomini di fiducia, nuove nomine. Succede».

- Il che vuol dire: Fausto Martino non sta con il centrodestra.

«Può esserci anche una lettura geopolitica ma non spetta a me entrare in argomento, fare e disfare. Posso dire soltanto: non so se il mancato rinnovo sia dipeso più dalle cose che ho fatto o da quelle che avrei voluto fare».

- Altri dicono: Martino non era gradito neanche al centrosinistra, colpa di quel suo intervento, a gamba tesa per alcuni, sul Piano paesaggistico e i controversi beni identitari.

«In quell'occasione, ho soltanto ribadito i poteri dello Stato, che non può essere un semplice testimone nella tutela del patrimonio architettonico e paesaggistico».

- La "Salvacoste" è una buona legge?

«Mi rifaccio a quanto detto dalla Confindustria in proposito: il Piano va rivisto, sono necessarie alcune varianti. Mentre in quattro mesi ho visto soprattutto interpretazioni su questo o quell'articolo. E sono state proprio le interpretazioni a scatenare il conflitto con l'autorità giudiziaria che poi ha portato al sequestro di alcuni cantieri».

- Vuol dire che, a suo tempo, non c'è stata chiarezza.

«Significa che sarebbe stato meglio affrontare i problemi nel rispetto reciproco delle competenze, in armonia e senza imporre nulla».

- La Regione voleva imporre qualcosa allo Stato?

«Di certo lo Stato non può essere relegato a un ruolo secondario e subordinato».

- La Soprintendenza ha sempre vigilato?

«Abbiamo fatto il massimo anche se più di contraccolpo c'è stato dopo l'accorpamento territoriale e la divisione delle competenze: beni storico-artistici da una parte, architettonici e paesaggistici dall'altra. Poi va detto che gli organici sono al minimo mentre il lavoro è aumentato. Ma in tutti i collaboratori ho trovato grande entusiasmo e voglia di fare. Sono sicuro che il mio successore (Gabriele Tola) troverà la stessa disponibilità che io ho riscontrato da aprile a luglio».

- A gennaio entrerà in vigore il nuovo Codice dei beni culturali: le Soprintendenze avranno più poteri.

«Esatto. Il nostro parere non sarà più di legittimità, come adesso, ma entrerà nel merito, diventerà preventivo, obbligatorio e vincolante con il rilascio dell'indispensabile autorizzazione paesaggistica».

- Può essere per questo motivo che qualcuno non ha voluto un intransigente servitore dello Stato tra i piedi?

«Anche questa è una lettura geopolitica. Non la posso fare certo io».

- Se la facesse qualcun altro?

«Io non potrò che ascoltare. Da Salerno».

Arte e Cultura, cronache di una disfatta totale: l’Italia precipita ancor più lontano dagli altri Paesi avanzati dove quelle due voci sono considerate un investimento sociale, e non un costo (da tagliare). La scure «rivoluzionaria» - ieri l’hanno detto in coppia Gianni Letta e Giulio Tremonti - calata sulla spesa pubblica si è infatti abbattuta più pesantemente del temuto anche sul ministero per i Beni e le Attività Culturali.

Al “MiBac” sono stati tolti - secondo le cifre fornite dalla Uil Beni Culturali - 355, 369 e 552 milioni di euro rispettivamente nel 2009, 2010 e 2011. Il totale sottratto sale così, nel triennio, a un miliardo 276 milioni. Un terzo delle cifre tagliate è stato amputato alla voce Tutela e valorizzazione: nel prossimo triennio il MiBAC e le sue Soprintendenze si limiteranno a pagare gli stipendi e poco più, secondo la logica dell’ente inutile “perfetto” che si mangia in costo del personale tutto ciò che incassa e/o riceve. Saranno quindi possibili chiusure o drastiche riduzioni di orario in musei e aree archeologiche e pertanto la stessa voce “turismo culturale” ne sarà colpita al cuore, con minor capacità di attrazione dell’Italia, minori entrate dirette e soprattutto minor indotto turistico-culturale. Un bel contributo alla rianimazione della nostra indebolita economia. Non basta: i tagli hanno spazzato via i 45 milioni preventivati in tre annualità dal ministro Rutelli per l’abbattimento di altri “ecomostri”, ma se uno spulcia i singoli capitoli, vede, per esempio, che viene ridotta pure la spesa ordinaria destinata al comando dei carabinieri per la tutela del patrimonio: ladri e rapinatori dell’arte e dell’archeologia - tombaroli in testa - facciano dunque festa. Questo ministero viveva già al limite: i tagli, tutt’altro che lievi, decisi dal Berlusconi IV lo mettono su una strada. O lo conducono alla chiusura. Cosa potranno fare le Soprintendenze che già nel recente passato verso metà anno non avevano più fondi per i telefoni, per i francobolli, per pagare le imprese di pulizia (bagni dei musei inclusi)? Quali missioni sul posto potranno organizzare quelle Soprintendenze ai Beni architettonici nelle quali ogni tecnico si ritrova alle prese con un migliaio di pratiche delicate all’anno? Le amputazioni vanno a minare l’attuazione stessa del Codice per il paesaggio, reso ben più stringente e severo, dalla gestione Rutelli-Settis, ragion per cui il saccheggio del nostro paesaggio riprenderà con grande vigore. La scure (“rivoluzionaria”, beninteso) di questo governo, che considera la cultura un optional e che ha affidato la custodia dei Beni culturali ad un personaggio come Sandro Bondi, senza alcun peso specifico (infatti le sue deboli proteste hanno contato meno di zero), si abbatte su settori già più che “francescani”, come gli archivi e le biblioteche, l’Istituto centrale per il catalogo, la Scuola Archeologica Italiana di Atene che partirà, nel triennio prossimo, con 157.000 euro in meno di finanziamento statale e arriverà con 307.000, in meno naturalmente. Poi ci sono le somme e i contributi previsti per una miriade di associazioni, istituzioni e fondazioni che, con qualche eccezione, certo, rappresentano il sistema capillare della ricerca culturale, la storia stessa del nostro Paese: le antiche Accademie locali, le Deputazioni di storia patria (già vedo Bossi sorridere contento), le Fondazioni politiche (Sturzo, Turati, Nenni, Gramsci, ecc.) e quelle musicali, ecc. Anche in questo caso, spesso, verrà meno l’ossigeno. Tanto più che enti locali e Regioni, anch'esse mutilate, non potranno subentrare in nulla. Ma passiamo al tanto discusso e però fondamentale Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus). Il taglio per le Fondazioni lirico-sinfoniche parte dai 51,7 milioni dell’anno prossimo e arriva, in progressione, agli oltre 101 del 2011. Il fondo per le attività musicali perde inizialmente 15,2 milioni e arriva a 29,8 milioni, mentre l’altro per le attività teatrali di prosa da va da 17,7 a ben 34,6 milioni. Ma ci saranno riduzioni di contributi anche per la già deperente danza classica. Tornando agli ex Enti lirici e sinfonici, è vero che devono essere riformati nel senso di una maggiore snellezza gestionale e di minori bardature burocratiche. Vi sono Enti infatti che registrano incidenze assurde del personale sui costi totali: l’Opera di Roma col record del 70,9 per cento, seguita dal Massimo di Palermo col 67,3 e dal Carlo Felice di Genova col 66,7, fino a scendere all’incidenza minima (encomiabile) del Regio di Torino: 42,3 per cento. Ma non sarà il drastico e per niente finalizzato taglio delle risorse a curare le situazioni più malate. Così si ammazzano il melodramma, la musica, il balletto, punto e basta. O si mettono le Fondazioni musicali di fronte ad un bivio: ridurre le produzioni ed abbassarne il livello (sovente già scaduto), oppure portare il prezzo dei biglietti a quote inarrivabili dai più, a cominciare da giovani e giovanissimi. Significa inoltre sterilizzare la spesa per la didattica artistica e musicale, negando, per decenni, al Paese di uscire dal gorgo di ignoranza e di maleducazione nel quale è precipitato rispetto all’Europa, ex Paese dell’Arte, della Musica e del Bel Canto. Il Consiglio Superiore dei Beni culturali, all’unanimità, aveva espresso, il 16 scorso, la più viva preoccupazione per una «temuta deriva che rischia di annichilire la tutela e il governo del patrimonio culturale e paesaggistico» invitando a «considerare la spesa per la cultura nel suo pieno valore economico per l’impatto generale che essa ha sul sistema economico e sociale del Paese, dall’industria del turismo al cosiddetto Made in Italy, all’immagine complessiva della Nazione». Tremonti ha accelerato la macellazione della cultura. Parole al vento, dunque. Come le patetiche proteste del ministro Bondi. Il quale (al pari della collega dell’Ambiente, Prestigiacomo, per i Parchi Nazionali) ha già una sua idea: assumere, magari a New York, un super-direttore dei musei statali con più “polpa” e affidarne la gestione a società private. Il trionfo del privato sul pubblico. La fine della cultura come valore fondamentale per tutti. Specie per chi ha minor reddito e minori chances di partenza. Un futuro radioso.

Per il ministro Prestigiacomo, visto che, dopo i colpi di mannaia di Tremonti, non ci sono più fondi per l’ambiente, è utile dare in gestione i nostri 23 Parchi Nazionali (e magari pure quelli regionali) ad agenzie private per tirare su un po’ di soldi. Per il ministro Bondi, visto che, passata la sega elettrica di Tremonti, non ci sono fondi per la cultura e per l’arte, è utile allargare l’area di intervento delle società private per i servizi aggiuntivi nei maggiori Musei, in modo da incassare un po’ di soldi. Privatizzate, dunque, e siate felici. L’onorevole Prestigiacomo lo dice col sorriso della signora borghese che non sa quel che si dice. L'onorevole Bondi lo dice un po' piangendo e un po' no perché risparmiare bisogna, l'ha detto il Capo. Comunque sia, si tratti di insipienza, di sottocultura o di dilettantismo, il risultato è lo stesso: il nostro patrimonio storico-artistico-naturalistico-paesaggistico è affidato a queste mani e a queste menti, dietro le quali grandeggia ("Mamma mia!", titolò l'Economist) Berlusconi, Silvio/Nerone affiancato da Tremonti e da Brunetta. Con Matteoli al Cemento&Asfalto.

Nella giornata di oggi, 22 luglio, nei nostri musei, nei siti archeologici, nelle antiche biblioteche, custodi e tecnici si asterranno parzialmente dal lavoro premurandosi però di distribuire, "contro i nuovi barbari", volantini di protesta (della Uil e, separatamente, grave errore, di Cgil e Cisl) in cui si spiega ai visitatori italiani e stranieri - circa 36.000 milioni - che quello potrebbe essere il loro ultimo ingresso nei magnifici luoghi della nostra storia: se al Ministero per i Beni e le Attività Culturali verranno inferti, da qui al 2011, tagli di finanziamenti per 1,2 miliardi di euro, il personale delle Soprintendenze, dal più alto in grado all'ultimo entrato, riceverà lo stipendio (modesto) ma non avrà risorse per fare in pratica alcunché. E poiché il nostro turismo è mosso, per buona parte, dalle città d'arte, con musei e siti archeologici chiusi o semichiusi, coi restauri bloccati, con l'attività di tutela sospesa, coi vandali non più sorvegliati, con gli abusivi che la fanno franca assieme ai "tombaroli", quella fonte di reddito nazionale verrà presto impoverita e disseccata. Complimenti: ci volevano genii assoluti come Berlusconi, Tremonti & C. per portare al suicidio finale il Belpaese.

Analogo discorso si può fare per i Parchi di ogni ordine e ampiezza: sono costati decenni di lotte, coprono ormai il 10 per cento di un Paese altamente dissestato e inquinato e costituiscono un'altra molla essenziale dello stesso turismo di massa, il solo Parco Nazionale d'Abruzzo viene visitato da oltre 2 milioni di persone l'anno. Un movimento anni fa impensabile che ha concorso a consolidare una vera e diffusa "economia dei parchi", fatta di agricoltura e zootecnia compatibili, di prodotti tipici del bosco e sottobosco, di marchi di qualità. Frutto di una azione di tutela pluriennale, tenace, rigorosa, contro abusi di ogni genere, come e più di quella che ha riguardato i nostri centri storici largamente salvati. Ma che richiede investimenti pubblici, personale qualificato, tecnici preparati, mezzi nuovi.

Qual è la logica del duo Prestigiacomo&Bondi, ispirati, devotamente, dall'esempio del Capo? I beni culturali e ambientali non sono un patrimonio permanente, fondante dell'Italia (articolo 9 della Costituzione), non sono valori primari "in sé e per sé", ma sono, quelli che lo sono, macchine per fare soldi. E gli altri? Semplicemente non sono, e dunque vadano in rovina. Punto e basta. I parchi, per lor signori, non formano una parte strategica dei paesaggi italiani, non rappresentano i luoghi nei quali ricostituire una natura che disboscamenti secolari hanno distrutto o rattrappito, nei quali conservare e tornare ad arricchire la biodiversità della flora e della fauna per decenni dissipata, nei quali i cittadini possono incontrare e ritrovare la Natura, ossigenando il corpo e la mente. Per il ministro Prestigiacomo sono, evidentemente, simili ai parchi-diventimenti, nei quali far pagare un biglietto, lasciar costruire di nuovo case e ville, reintrodurre la caccia, dai quali insomma spremere soldi attraverso la logica privatistica, aziendale (par di vedere il Cavaliere, sullo sfondo, che sorride beato), del profitto.

Analogamente i luoghi dell'arte, i musei, le aree e i monumenti archeologici, i castelli, magari le chiese, le abbazie, i palazzi civici ed ecclesiastici: mettiamoli a reddito, facciamoci dei begli incassi. Macché ingressi gratuiti o ridotti per scolaresche, studenti e studiosi, macché didattica museale per abituare i più piccoli a capire quadri e sculture, macché mostre ispirate a criteri scientifici, macché valori della cultura del contesto e loro trasmissione ai nostri figli e nipoti. E per i centri storici? Basta con le ubbie della conservazione, delle ZTL, largo ai commercianti, agli esercenti, alle pizze-a-taglio, ai pub, ai protagonisti del Divertimentificio notturno, ai Suv parcheggiati ovunque. A Roma il sindaco Alemanno ha già aperto questa strada e vedrete che, se la protesta dei cittadini (e degli intellettuali) non salirà chiara e forte, andranno avanti. A tutto Suv.

Per la cultura "le risorse sono poche, bisogna fare delle scelte". Così il ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi nel suo intervento durante l'assemblea annuale dell'associazione Civita. "Si dovrebbe limitare l'uso deficiente delle risorse, spendendole male o per niente - ha spiegato il ministro -. L'unica cosa da fare è destinare quei fondi, anche se pochi, a progetti qualificati. Intanto, la cultura non deve essere sottovalutata come mezzo di rilancio economico, neanche dalla classe dirigente politica". Restando in termini di economia della cultura, Bondi ha aggiunto: "l'unica soluzione per uscire da questa situazione di stallo economico è la cooperazione tra pubblico e privato, senza antagonismi. bisognerebbe tornare alla gestione autonoma dei beni culturali e rimuovere gli eccessivi vincoli che ostacolano chi vuole aiutare a rilanciare il patrimonio. Penso anche ad una defiscalizzazione dei sostegni che provengono dai privati". Come esempio di collaborazione tra pubblico e privato, il ministro ha detto: "Civita sta lavorando ad un piano d'innovazione tecnologica per i musei italiani, è possibile una collaborazione. Intanto il ministero - ha ricordato - sta pensando ad un piano nazionale per la valorizzazione dei quasi 4000 musei italiani".(ANSA).

Postilla

L’ottimismo quasi senza riserve manifestato oggi dal Presidente del Consiglio Nazionale dei Beni Culturali, riconfermato dopo la bufera, si scontra con le dichiarazioni che in più sedi (Civita, FederCulture, lo stesso Consiglio Nazionale) in queste ultime ore lo stesso ministro ha rilasciato e di cui riportiamo ad exemplum il comunicato ANSA.

Al di là delle consuete dichiarazioni di maniera, peraltro inevitabili dopo lo scontro politico sull’articolo del Sole del 7 luglio, la direzione prioritaria cui ispirare la politica del Ministero è chiarissima: largo ai privati.

In queste affermazioni non ci sembra proprio di cogliere alcuna intenzione di proporre una battaglia politica e culturale per provocare non dico un’inversione, ma neanche un semplice ridimensionamento dei tagli brutali prefigurati dal DL 112: si dà anzi per scontato che le risorse saranno ridotte e che, quindi, si dovrà ricorrere a finanziamenti non pubblici e sicuramente non solo statali.

Certo considerazioni drasticamente negative non possono essere tratte da poche note di agenzia stampa (ma le cronache di ieri erano sufficientemente concordi al riguardo, come risulta dalla rassegna stampa di patrimoniosos): attendiamo il ministro nella sede deputata, la discussione parlamentare sul Dl 112: passaggio cruciale al quale eddyburg si prepara, con le poche forze di cui dispone, per produrre il massimo sforzo di conoscenza e di sollecitazione politica. (m.p.g.)

Due eventi hanno turbato negli scorsi giorni gli eleganti corridoi del Collegio Romano, sede centrale dei Beni Culturali. Primo evento, i recenti tagli al bilancio del Ministero: il Dl sull’Ici ha cancellato i 45 milioni di euro per il ripristino dei paesaggi degradati; 105 milioni sono stati dirottati a compensare mancati introiti Ici e al "Fondo per la politica economica"; infine, il Dl 112/2008 taglia nel prossimo triennio quasi un miliardo, di cui 761 milioni dalla "tutela dei beni culturali e paesaggistici".

Il secondo evento è assai più banale: sul Sole-24 ore del 4 luglio ho commentato queste cifre, citandole dalla Gazzetta Ufficiale. Non ci vuol molto a capire che il primo di questi due eventi è assai preoccupante, il secondo è irrilevante. Eppure è sul mio articolo, e non sui tagli che lo hanno provocato, che si sono concentrati quasi tutti i commenti di senatori e deputati (fra cui un sottosegretario), e di molti giornali. Nessuno ha contestato la correttezza dei dati che avevo addotto; in compenso, più d’uno ha chiesto le mie dimissioni da presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. Perché? Perché la preoccupazione per questi tagli rivelerebbe «scarso rispetto per le istituzioni» (sen. Amato), «disinvoltura e gusto per la polemica» (on. Giro), «non condivisione della linea di rilancio delle attività culturali del Ministro» (on. Carlucci). Perché, insomma, chi presiede il Consiglio Superiore dei Beni Culturali è tenuto a non manifestare preoccupazioni sui Beni Culturali, che potrebbero suonare critiche verso il governo. Anzi, soggiunge il sen. Amato, il carattere strumentale di tali critiche è dimostrato dall’«assordante silenzio» che avrei osservato all’epoca del governo Prodi.

Il presupposto di queste esternazioni sembra essere: la presidenza del Consiglio Superiore è un incarico politico, e comporta fedeltà al governo; ergo, ogni preoccupazione del presidente non può che essere "strumentale", cioè da oppositore politico. Quanto al mio preteso silenzio durante il governo Prodi, ricordo al sen. Amato solo la normativa sul silenzio-assenso. Quando fu proposta dal ministro Baccini (governo Berlusconi), ne scrissi sulla prima pagina di Repubblica dell’8 marzo 2005 (Beni culturali, ultimo scempio); quando una norma assai simile fu riproposta dal ministro Nicolais (governo Prodi), il mio articolo Per i Beni Culturali ritorna lo scempio, ahinoi molto simile al precedente non solo nel titolo, uscì sulla prima pagina di Repubblica dell’11 settembre 2006 (in ambo i casi, la proposta fu ritirata).

Altri esponenti della maggioranza hanno preso per fortuna la strada opposta: l’on. Granata, per esempio, mentre lo stesso Ministro Bondi ha riconosciuto «l’urgente necessità di intraprendere un cammino comune per limitare il più possibile il temuto ridimensionamento delle risorse», e ha dichiarato di non aver «mai messo in dubbio la legittimità di esprimere liberamente le proprie opinioni da parte del presidente del Consiglio Superiore».

Ma è vero che, come alcuni han detto, chi ricopre questa carica è obbligato al pubblico silenzio su ogni questione che riguarda i beni culturali? No, non è vero. Il Consiglio Superiore dei Beni Culturali è, come altri Consigli Superiori (dei Lavori Pubblici o della Magistratura), uno degli organi tecnico-scientifici (non politici) che l’Italia liberale istituì come mediatori fra il governo, il parlamento e la società civile, convocando competenze dal mondo dell’università, della ricerca, delle professioni. Perciò la presidenza del Consiglio Superiore comporta la massima discrezione sui documenti su cui il Ministro chiede pareri, ma non comporta l’obbligo del silenzio sugli atti ufficiali del governo né il divieto di citare dati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale, né tanto meno la proibizione di esprimere opinioni. Il carattere tecnico-scientifico e non politico del Consiglio è stato pienamente riconosciuto dal Ministro Bondi, quando, davanti alle (doverose) dimissioni del presidente e dei membri nominati da Rutelli, ha chiesto a tutti di restare al loro posto.

L’atteggiamento responsabile del Ministro e la sua dichiarazione alle Camere che intende «impegnarsi per una progressiva crescita dell’intervento economico dello Stato a favore delle politiche culturali, attualmente attestato sulla troppo modesta percentuale dello 0.28%» consentono di accantonare le polemiche inutili, per tornare al cuore del problema. Quale che sia la manovra economica del governo, a chiunque abbia una qualche competenza specifica sui beni culturali, o un ruolo istituzionale connesso, spetta non la facoltà, bensì l’obbligo di dire nel modo più chiaro che questo è un settore (come del resto l’università e la ricerca) in cui tagli troppo drastici e non compensati da credibili meccanismi di recupero possono generare conseguenze di lungo periodo. Il deterioramento del patrimonio e del paesaggio per carenza di tutela, così come la forzata chiusura di una linea di ricerca o l’emigrazione di giovani talenti, educati in Italia a caro prezzo, verso Paesi più interessati alla ricerca, innescano processi irreversibili, danni economici e culturali non più sanabili.

Il Paese non può permettersi tagli tanto gravi ai Beni Culturali da mettere a rischio l’obbligo costituzionale della tutela, tanto più d’attualità oggi di fronte alla selvaggia aggressione al paesaggio da parte di comuni e regioni di ogni colore politico. Oggi e non domani è il momento di dirlo, prima che il Dl venga convertito in legge (entro l’8 agosto). Una discussione aperta, trasparente, limpida (dunque pubblica) sui fatti è richiesta dal pubblico interesse e dalle regole della democrazia. E poiché il Ministro (ha ragione l’on. Carlucci) ha una chiara «linea di rilancio delle attività culturali», protestare contro i tagli che ne impedirebbero l’attuazione è segno di rispetto per lui, di condivisione delle sue dichiarazioni alle Camere, e non il contrario. Il Ministro, intanto, sta lavorando per limitare il danno che verrebbe al suo Ministero da quei tagli: infatti, all’assemblea di Federculture ha parlato della «carenza di risorse che attanaglia il Ministero». Dopo gli 80 milioni per il cinema già recuperati, dopo i 20 milioni che verranno da Arcus, non si può dubitare che egli si adoprerà sia per ridurre la portata dei tagli al suo bilancio sia per attivare altre fonti d’introito.

Il Parlamento, al cui esame è ora il Dl 112, non può, non deve sottoscrivere tagli ai Beni Culturali della portata ipotizzata. Lo ha ripetuto ieri all’unanimità il Consiglio Superiore al Ministro, esprimendo il proprio apprezzamento per le sue dichiarazioni e per l’intenzione di promuovere donazioni mediante misure di defiscalizzazione, ma anche «piena solidarietà e appoggio allo scopo di scongiurare la temuta deriva che rischia di annichilire la tutela e il governo del patrimonio culturale e paesaggistico». Una preoccupazione grave che nasce dal massimo rispetto per la Costituzione, per gli interessi del Paese, per i funzionari della tutela, per il Ministro che vi è preposto e per i progetti che egli ha dichiarato alle Camere. Con ostinato ottimismo rivolgiamo al senso di responsabilità istituzionale del Governo e del Parlamento un accorato appello perché le cifre dei tagli previsti dal Dl 112 vengano rivedute sensibilmente al momento della sua conversione in legge; anzi perché, pur nella difficile congiuntura economica, venga avviato un piano per una progressiva, necessaria crescita delle risorse.

Due recentissimi articoli di tema apparentemente distante, esemplificano con grande chiarezza i due lati della stessa medaglia, intendendo come tale la situazione dell’archeologia in Italia, ma non solo.

Sulle pagine culturali del Corriere della Sera di domenica 8 giugno, un articolo dal titolo "Italia ad Atene: cent'anni in solitudine" si concludeva con un appello al buon cuore degli italiani di nobile sentire perchè intervengano a risollevare le sorti della centenaria Scuola Archeologica Italiana d'Atene, minacciata, già da qualche anno, dalla scure delle ultime finanziarie alla perenne ricerca di sacche di risorse da recuperare ed etichettata come ente inutile. In realtà la “gloriosa e benemerita” (binomio laudativo di prassi in casi consimili) istituzione rappresenterebbe un risparmio di scarsa entità, vivacchiando con un budget annuale di poche centinaia di migliaia di euro che consente a malapena di elargire la dozzina di borse di studio che giustificano la denominazione e permettono ad una ristretta lobby di professori universitari di gestire corsi di specializzazione non proprio classificabili come eventi culturali. Quanto agli scavi, un tempo attività di grande risonanza e ottimi risultati scientifici, probabilmente per le ristrettezze economiche, anche in questo settore sono lustri che la Scuola d'Atene non può annoverare risultati significativi: in tutto l'accorato articolo del Corriere che ne perora le sorti, uno dei pochi elementi a favore del suo mantenimento, oltre all'esiguità dell'onere finanziario e alla vetustà dell'istituzione (che si voglia vincolarla come reperto archeologico?), risiede nell'affermazione che esistono numerosissime scuole archeologiche straniere ad Atene e quindi sarebbe un'onta nazionale che sparisse quella italiana: una sorta di versione culturale della vicenda Alitalia, insomma. Effettivamente, come per le compagnie aree di bandiera, non tutte le Scuole Archeologiche straniere attraversano un’uguale fase di decadenza, anche se tutte hanno dovuto affrontare un radicale ripensamento del loro ruolo. Nate come coté culturale di politiche neppure troppo velatamente originate dall’ideologia colonialista, alcune hanno saputo diventare, nel tempo, centri di ricerca di primo livello e forniscono, ad Atene come a Roma, servizi culturali all’intera comunità internazionale degli studiosi. Altrettanto non è avvenuto per la Scuola Italiana d'Atene che, da alcuni decenni a questa parte, invece di affrontare questo passaggio cruciale, sta attraversando una lunghissima fase di stagnazione che l'ha resa molto simile ad un periodico buen retiro sia pure con motivazioni culturali, ormai totalmente svincolato dalle primigenie finalità di formazione per il personale dell'amministrazione statale e scosso periodicamente da querelles di basso potere accademico. Certo questa non è la sola italica istituzione culturale che vivacchia in dorato isolamento nelle lagune protette dell'erudizione e della ricerca per “specialisti”, tenendosi ben al riparo dalle maree della cultura contemporanea, ma come le altre “gloriose e benemerite” è un sintomo evidente di una incapacità dell'archeologia nostrana ad affacciarsi al mare aperto della ricerca e ad affrontare i molti nodi che ancora la confinano fra le discipline di erudizione. Per festeggiare il prossimo centenario non come una commemorazione un po’ funerea di passati splendori, occorrerebbe all’attuale Direttore che ha ereditato una così pesante situazione, prima che un aiuto economico, uno sforzo di ripensamento intellettuale, urgente e radicale per superare questa lontananza evidente e pericolosa dalla contemporaneità di una disciplina, quella archeologica, che in Italia appare ancora incapace, nel suo complesso, di proporsi come una scienza in grado di confrontarsi e interagire con la post-modernità e i suoi problemi.

L'altro, speculare sintomo di questa involuzione è ben esemplificato dalla rincorsa sempre più convinta agli aspetti più effimeri di tale modernità e quindi alla necessità di una visibilità mediatica: frenesia che si manifesta nella ipertrofica realizzazione di eventi in serie (dalle conferenze di stile holliwoodiano agli scoop giornalistici) in cui, nella grande maggioranza dei casi, l'antico viene utilizzato soprattutto per il suo potere di richiamo fascinoso ed esotico. L’ultimo, in questa direzione, ci viene preannunciato dall’odierna esternazione su la Repubblica dello studioso che da anatomo patologo dei primati, ha recentemente (post 13 aprile, per intenderci) ribadito l’assoluta neutralità ideologica della disciplina (“l’archeologia non è né di destra né di sinistra”). Andrea Carandini dunque, dopo aver rivendicato alle università italiane il possesso di un patrimonio documentale misconosciuto (e c’è da domandarsi come mai organi deputati alla diffusione della conoscenza abbiano sinora svolto così male uno dei loro compiti statutari), sprona l’attuale amministrazione capitolina ad abbandonare ogni timidezza (sic) e a lanciarsi nell’impresa del nuovo costituendo Museo della città di Roma, attraverso il quale la capitale d’Italia, finalmente allineata alle altre metropoli europee, riuscirebbe a raccontare la storia del proprio passato. Dall’articolo pare di capire che si tratti in primo luogo di un museo di storia dell’architettura (antica?) abbinato a un meno magniloquente museo della “vita quotidiana”. Un altro museo dunque, dai caratteri ancora non precisati, ma per il quale, in compenso esiste già una sede bella e pronta in via de’ Cerchi e come ognun può capire non mancherebbe certo, a Roma, il materiale archeologico per riempire le sale: dove sta il problema? Il problema sta esattamente nello strumento adottato, il museo, che alle nostre latitudini attraversa da anni una crisi di funzione testimoniata da una perdurante disaffezione di pubblico. Si vada a leggere il professor Carandini le cifre degli accessi ai tre musei citati nel suo intervento (Cripta di Balbo, Mercati di Traiano e della Civiltà romana), scoprirà che si tratta di luoghi disertati non solo dai grandi flussi turistici, ma incapaci di attirare se non poche migliaia di visitatori l’anno. In Italia, come ogni operatore culturale minimamente informato sa bene, escludendo pochissime eccellenze (in campo archeologico al di fuori di Pompei e il Colosseo, che non sono musei, solo L'Egizio di Torino e i Capitolini reggono dignitosamente), i visitatori non frequentano i musei e questi ultimi, specialmente in alcune realizzazioni recenti, sono diventati spesso cattedrali nel deserto destituiti di ogni impatto culturale, ridotti alla mera funzione conservativa e con costi di gestione proibitivi per la collettività. E’ assolutamente vero che esiste una domanda crescente di informazione da parte di flussi di visitatori sempre maggiori e che Roma e il suo passato meritano uno sforzo culturale in campo comunicativo. Ma che sia davvero innovativo: non solo e non tanto dal punto di vista tecnologico ( e certo in questo settore gli esempi stranieri non mancano), ma da quello intellettuale. Forse nel “basta Roma a raccontare sé stessa” di Salvatore Settis (pur se accusato di disinformazione, sic!) era contenuta una più profonda verità: Roma è essa stessa un museo a cielo aperto e come tale va “comunicata”, non allestendo l’ennesimo museo, ma magari collegando fra loro quelli che già ci sono (alcuni di recentissima realizzazione) e facendoli dialogare con i monumenti della città, con quel “tessuto continuo e cangiante dell’abitato” che Carandini cita, ma che, in quanto tale, non può certo essere confinato e spiegato per exempla nelle sale di un museo. Al contrario va fatto leggere nella fisicità originaria di un contesto unico al mondo.

Il museo, insomma, può essere uno strumento di una strategia culturale, uno dei tanti, non necessariamente l’unico o il più efficace…certo rimane uno dei più mediaticamente spendibili.

E così fra questi due estremi in fondo contigui e in taluni casi sovrapposti dell'isolamento accademico e iperspecialistico da un lato e della rincorsa all'evento in sè dall'altro, mi sembra che questa nostra disciplina si riveli spesso incapace di misurarsi con l'urgenza e la violenza dell'oggi che scortica e brucia, le scorie innanzi tutto, ma non solo, e che però è l'unica via possibile per superare il guado e tentare di traghettare il passato nel presente e nel domani. In questa situazione di impotenza culturale siamo in buona compagnia: in fondo, pur con qualche forzatura, questa condizione è assimilabile a quella che contraddistingue l'attuale vicenda della sinistra in Italia, fra radicalità attardata su modelli arcaici e con strumenti interpretativi tutti da reinventare e un riformismo disperso nella rincorsa di una modernità di facciata anche a costo di trasmutazioni genetiche forse irreparabili e in grado di cancellare identità storiche in cambio di maschere indecifrabili e labili.

Anche in questo caso vaghiamo dunque, alla ricerca di risposte, in una notte caliginosa: eppure, come ci ha insegnato Hegel, “la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo”.

Il ministro Sandro Bondi ha reso alle Camere e alla stampa dichiarazioni encomiabili sul futuro dei beni culturali e del paesaggio. Si è impegnato a un rigoroso rispetto dell`articolo 9 della Costituzione («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione») sottolineando, come già hanno fatto dal Quirinale Ciampi e Napolitano, lo stretto nesso fra i due commi e il ruolo dello Stato. Ha considerato il Codice dei Beni culturali e del paesaggio, dopo i tre "passaggi" coi suoi predecessori Urbani, Buttiglione e Rutelli, il frutto positivo di un lavoro genuinamente bipartisan, e si è impegnato ad attuarlo attivando un tavolo di coordinamento ministero-Regioni.

Ha insistito sulla necessità di potenziare le Soprintendenze mediante nuove assunzioni, di ripristinare i paesaggi degradati, di migliorare la capacità di spesa del ministero, di rilanciare la cultura italiana del restauro.

Con questi lodevoli propositi, della cui sincerità non c`è motivo di dubitare, contrasta tuttavia in modo stridente la politica economica del Governo. Il decreto sull`esenzione dell`Ici per la prima casa (Dl 93/2008) azzera i 45 milioni che la Finanziaria aveva destinato al ripristino dei paesaggi degradati; inoltre, accantonamenti di bilancio dei Beni culturali per oltre 15 milioni dal 2008 al 2010 sono utilizzati a copertura dei mancati introti Ici, e 90 milioni nel triennio confluiscono nel «Fondo per interventi strutturali di politica economica». A questi tagli già cospicui (in totale 150 milioni) si aggiungono le misure ancor più drastiche del recentissimo Dl 112, che sottrae ai Beni culturali 228 milioni nel 2009, 240 milioni nel toto e 423 milioni nel 2011: un taglio complessivo di quasi un miliardo che, aggiungendosi ai 150 milioni già menzionati, infliggerà un colpo mortale a un`amministrazione già in grande sofferenza per mancanza di risorse (invano Prodi aveva promesso di portare il bilancio dei Beni culturali dal misero 0,28% all`1% del bilancio dello Stato). Di più, come ha scritto Luigi Lazzi Gazzini sul Sole 24 Ore del 26 giugno, il Dl 112 capovolge d`autorità, «stiracchiando la Costituzione», la gerarchia delle fonti normative, demandando al Governo (anzi al ministro dell`Economia) il potere di modificare per decreto gli stanziamenti approvati dalle Camere per legge.

I tagli ai Beni culturali non vengono operati su attività marginali né su progetti opzionali: la maggior parte della riduzione di spesa prevista per il triennio 2009-11 grava infatti sulla voce «Tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici», cuore e "ragione sociale" del ministero. I tagli alla tutela sono 198 milioni su 228 nel 2009, 207 milioni su 240 nel 2010, 366 milioni su 423 nel 2011. Se prendiamo come anno di riferiménto il 2011, in cui al taglio più massiccio si sommerà

l`effetto incrementale del decurtamento 2008-2010, si può dire che resteranno sul bilancio del ministero solo gli stipendi per il personale residuo, del resto in via di esaurimento visto che l`età media dei funzionari tecnico-scíentifci ha ormai varcato la soglia di guardia dei 55 anni, e che le pochissime nuove assunzioni in vista non bastano nemmeno a coprire il 10% del turn over.

In queste condizioni, non solo non sarà possibile ripristinare i paesaggi degradati, ma neppure proteggere quel poco che ancora c`è di intatto. Non solo non si potrà promuovere il restauro, ma si stenterà a lasciare aperti musei e monumenti. Forse migliorerà la capacità di spesa: ma solo perché resterà ben poco da spendere.

Il disegno politico sotteso a questi provvedimenti del Governo appare diametralmente opposto a quello che l`onorevole Bondi ha delineato alla Camera. Tagli di tale entità configurano la messa in mora del ministero fondato da Spadolíni, che ereditò la gloriosa tradizione italiana di tutela e l`ha fatta sopravvivere con dignità fino ad oggi.

Si può avanzare l`ipotesi che alla messa in mora debba seguire, nell`intenzione del Governo odi una sua parte, l`abolizione del ministero (o, che è lo stesso, la sua riduzione allo stato larvale) e forse la devoluzione della tutela alle Regioni, secondo la proposta avanzata nel 2007 dalla Lombardia e dal Veneto. Un progetto come questo presupporrebbe un`interpretazione assai forzata del Titolo V della Costituzione (articolo 116), infelicemente riformato nel 2ooi con esigua maggioranza. Se questo è il progetto, il Codice dei Beni culturali, che prevede una forte interazione fra Soprintendenze e Regioni, è già lettera morta, e il "tavolo di coordinamento" Stato Regioni voluto da Bondi segnerebbe la resa incondizionata di un ministero in via di liquidazione.

L`articolo 9 della Costituzione, che assegna alla competenza esclusiva dello Stato la tutela dei beni culturali e del paesaggio (come la Corte Costituzionale ha ribadito da ultimo nella sentenza 367/2007), verrebbe in tal modo svuotato, anzi capovolto. Ma se questo è il disegno, perché non dirlo subito?

E se il disegno non è questo, chi ci spiegherà come potrà mai funzionare la tutela in Italia con le casse vuote e il personale in costante decremento?


Pompei il crepuscolo delle rovine

Patrizia Capua – la repubblica, ed. Napoli, 6 luglio 2008 (m.p.g.)

Primo giorno dell'emergenza. Nella Città degli scavi posta sotto tutela dal governo, la sola novità ieri è stata una disinfestazione negli uffici deserti della direzione, programmata da tempo. Mercoledì prossimo il ministro Bondi firmerà l'ordinanza con la nomina del commissario. Esce di scena, così pare, il prefetto Mario Mori, chiamato come capo di gabinetto del sindaco di Roma, Alemanno. Un commissario, approva il critico d'arte Vittorio Sgarbi, neo-sindaco della cittadina di Salemi: «Bisogna salvare il sito archeologico. L'ho detto recentemente al ministro. Servono interventi necessari e urgenti per impedire che la mancanza di tutela e di controllo distrugga questi luoghi».

«Sarebbero 95 euro, ma vi faccio lo sconto: cinquanta, che ne dite, eh?». Guide a caccia di turisti a Porta Marina Inferiore. Il "patentino" rilasciato dalla Regione Campania bene in vista sul petto. Se li accaparranno, e li portano in giro, a volte, come fossero un bagaglio personale. Turisti in balìa delle guide. In questo posto unico al mondo, straordinario e potente, non c'è un tariffario esposto all'ingresso, un presidio che garantisca il visitatore, controlli accurati.

Come districarsi? Il giro della città romana, con l'accompagnatore a pagamento, dura in media due ore, meno e non più. Pompei è una città grandissima, pochi ne hanno consapevolezza prima di addentrarsi. «Il turista arriva qui disarmato, pieno di fiducia, esposto a tante variabili e qualche sorpresa», dice una guida "fuori del coro", «per alcuni Pompei è una miniera di affari. Un esempio frequente: la guida entra con due persone, e poi fa "trombetta", come si dice in gergo, strada facendo raccatta visitatori disorientati. A dieci euro ciascuno, in una giornata il guadagno di 500, 600 euro è assicurato». Abusi. Capita che a metà del giro, mollino il gruppo dicendo: l'uscita è quella. I turisti per lo più si accontentano, si lasciano portare fiduciosi. Ogni tanto qualcuno si ribella, denuncia e finisce in lite, come testimoniano le denunce al posto di polizia. «Ci sono organizzazioni illegali», tuona l'assessore regionale Velardi, «che agiscono in modo paracamorristico».

Inefficienze e limiti. La Casa di Trittolemo è chiusa per restauro, così la casa di Romolo e Remo. Sul cartello è indicata la data di chiusura dei lavori: l'altroieri. Area chiusa per "caduta pietre" nel vicolo degli Augustali, puntelli arrugginiti dal terremoto del 1980. In fondo a via della Fortuna, lastricata come tutte di pietre di basalto, c'è la Casa di Marco Lucrezio Frontone, cantiere chiuso due mesi fa e non ancora aperta al pubblico, come le case di Obelio Firmo, restaurata con i Por, di Cecilio Giocondo, di Trebio Valente, dei Quattro stili. La folla si assiepa ai cancelli dei Granai, museo all'aperto, con due telecamere puntate all'interno. Calchi originali, anfore, un'arca, le sagome dei fuggiaschi, una statua funeraria trovata nella necropoli di Ercolano. In lontananza l'isola di Capri, la brezza di mare soffia tra i vicoli e fa scordare l'arsura. «Ci vorrebbero migliaia di interventi» commenta Ciro Mariano, storico custode, alle Terme del Foro, dove i turisti vengono accolti dai cani randagi che spadroneggiano tra le rovine. Nel Foro la folgorazione, l'incontro con il Vesuvio ritagliato sullo sfondo. Mette in pace gli animi. A dispetto di lucchetti e transenne.

«Il commissario è quello che mette in moto tutto. Precondizione per il ripristino della legalità, sicurezza, agibilità», dice l'assessore Velardi, «prima di passare a un progetto di cambiamento». Piano che, spiega, riguarda Pompei e tutta Stabia, con un accordo di programma magari da fare insieme con la Tess. Un vero programma di sviluppo dell'area: dentro gli Scavi e fuori di essi, per offrire accoglienza ai turisti. «Con un progressivo ingresso del privato e del mercato». Tra Scavi e Santuario, Pompei ha quattro milioni di visitatori l'anno.

Si occuperà di Pompei anche la senatrice del Pdl, Diana De Feo, componente della commissione Beni culturali, moglie di Emilio Fede. «Dalla Comunità europea arriveranno per la Campania 900 milioni di euro per gestire l'arte e la cultura. Il sovrintendente Giovanni Guzzo ha lasciato languire nella casse milioni destinati a Pompei. È ora di voltare pagina, anche politicamente».

Pompei sempre più in rovina: arriva il commissario

Stefano Miliani – l'Unità, 5 luglio 2008

L'unico bar chiuso, problemi alle fogne, case restaurate ma alcune non visitabili perché mancano i custodi oppure perché pochi sorveglianti, rappresentati da sindacati minori (una sigla pesa solo qui), possono bloccare molto, incuria e degrado costanti e di lunga data, un anno fa una colonna crollata e fu un avvertimento, non il vento. Per questo il sito archeologico di Pompei viene commissariato. Per un anno almeno. Su proposta del ministro dei beni culturali Sandro Bondi accolta in pieno ieri dal consiglio dei ministri. Questo mentre, denuncia la Uil, grazie al decreto legge 112 Brunetta-Tremonti il ministero vede dimezzare la dotazione finanziaria 2008 (a 279 milioni di euro) e nel triennio 2009-11 subirà «tagli vicini al miliardo». Un disastro.

Il provvedimento su Pompei incontra il plauso dell'assessore campano al turismo Velardi, Pd («Decisione coraggiosa, mi sono preso rimbrotti quando ho indicato la necessità di un cambio radicale nella gestione del sito»), e del sindaco Claudio D'Alessio, Margherita, il quale rimprovera alla soprintendenza un totale «rifiuto» alle sue proposte di collaborazione. Il commissario sarà nominato a giorni e dovrà risistemare la gestione amministrativa e l’ordine pubblico del sito. Un provvedimento senza precedenti per un luogo culturale, tanto più clamoroso perché riguarda il «museo a cielo aperto» statale più visitato del nostro paese con 2 milioni e mezzo di ingressi l'anno, benché nei primi sei mesi del 2008 siano scesi a 1 milione 243mila rispetto al milione 424mila del primo semestre 2007, causa la non proprio invitante pubblicità nel mondo del caso-rifiuti. Eppure la rete di abitazioni romane, di vie in pietra, di resti di templi e anfiteatro soffre anche per i tanti turisti: l’ingresso costa 11 euro, il giro di soldi intorno alla città distrutta dal Vesuvio nel 79 d.C., dove pullulano bancarelle e vendita abusiva di guide, fa gola anche alla criminalità organizzata.

«Ferme restando le competenze in materia di tutela del soprintendente Guzzo, avrà compiti in materia di ordine, sicurezza pubblica e controllo sull'attività amministrativa», recita una nota del ministero. Che così vuole «proteggere» Guzzo, archeologo tra i più competenti in circolazione, al quale Bondi rinnova piena fiducia. Il soprintendente si rallegra della decisione, da sempre denuncia problemi, e però viene «commissariato». Va spiegato che Pompei ha una struttura particolare: è una soprintendenza autonoma con 20 milioni d’incasso l’anno e ha, o dovrebbe avere perché così aveva stabilito a suo tempo Veltroni quando era ministro, un city manager. Un amministratore per gli aspetti amministrativi qui più complicati che altrove (si parlò anche di ingressi non sempre regolari). Quello nominato da Veltroni, Gherpelli, funzionò bene e risolse diversi problemini. Poi arrivarono, voluti da Urbani, il generale dell’aeronautica Lombardi e Crimaco, e funzionò meno bene: i rapporti con il soprintendente non sono stati idilliaci (così come non lo sono stati con l’archeologo De Simone, scelto da Rutelli nel 2007, durato un soffio e contestato da Guzzo) e senza un’intesa ai vertici non si procede. «Mi auguro che il commissario non sarà un mero ragioniere, serve una gestione ordinaria, nelle casse giacciono 70 milioni di euro inutilizzati», denuncia il presidente dell’Osservatorio campano sul patrimonio culturale Antonio Irlando.

"Stato d'emergenza per gli Scavi di Pompei"

Patrizia Capua – la repubblica, 5 luglio 2008

Un commissario straordinario per Pompei, basta con l'incuria e il degrado. Il governo annuncia lo stato di emergenza per la Città degli scavi, il sito archeologico più visitato al mondo. Per una situazione che «definire intollerabile è poco». Un provvedimento, spiega il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi, che è «un atto d'amore nei confronti della cultura». Arriverà un commissario straordinario, precisa il ministero, che dovrà occuparsi dei conti, ma anche dell'ordine pubblico e della sicurezza.

Chi sarà non è ancora deciso, anche se nel dicastero di via del Collegio Romano circola il nome del prefetto Mario Mori. «Decideremo in settimana», taglia corto Bondi, e sarà una decisione, spiega, presa di concerto con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta e il sottosegretario all'emergenza rifiuti Guido Bertolaso. Nessun commissariamento per il soprintendente archeologico Pietro Guzzo, assicura, che rimane responsabile della tutela e le cui competenze non vengono toccate. «Mi ha assicurato che collaborerà con il commissario». Da Pompei, Guzzo conferma: «Mi sento rafforzato e grato». Ma dietro le quinte sono in molti a leggere in questa decisione del governo un giudizio non proprio positivo dell'operato del soprintendente. Dai sindacati al sindaco di Pompei, Claudio D'Alessio, del Pd, che sottolinea «la pervicace volontà della soprintendenza nel rifiuto di qualsiasi collaborazione utile nella complessa azione della valorizzazione del patrimonio culturale presente nel territorio cittadino». Nella cerchia dei collaboratori più vicini a Guzzo, invece, la decisione suscita preoccupazione e sdegno: «È un'ingiustizia, qui lavoriamo per sopperire alle mancanze del ministero, che non integra il personale che va in pensione e della Regione Campania, che promette soldi per le aperture straordinarie e non mantiene». E azzardano: «C'è un disegno che va verso la privatizzazione. Pompei fa gola, ci sono grossi interessi, specie da quando la sovrintendenza è stata unificata a quella di Napoli. Guzzo sta facendo uno sforzo enorme per ripristinare anche la legalità».

Con il commissariamento, i riflettori si accendono ancora sull'incuria, l'inefficienza, il degrado nell'area della città romana, un'estensione di 66 ettari di cui 44 già riportati alla luce e 22 ancora da scavare. L'emergenza sono i servizi igienici insufficienti e mal tenuti, come scrivono i turisti nel libro blu dei reclami all'ufficio informazioni. Protestano perché le audio guide non funzionano, non ci sono le mappe per visitare il sito, mancano i custodi, non c'è il posto di guardia medica, e troppi cani randagi che invadono il percorso dei visitatori. «Quello che fa più arrabbiare i turisti», dice Mattia Buondonno, che ha guidato i Clinton a spasso tra le rovine, «è trovare i cancelli chiusi delle più belle case di Pompei». L'ultima casa aperta, dopo il restauro, è quella dei Ceii, una conquista di maggio. Chi arriva in questi giorni, in maggioranza turisti spagnoli e russi, trova chiusa per restauro la Casa dei Vettii, nel Foro, l'edificio di Eumachia, dove c'era il mercato della lana. Lavori di iniezioni di cemento sul tetto pericolante, nel Macellum, che conserva le teche con i calchi dei fuggiaschi in cerca di salvezza dall'eruzione. Chiusa, ma visitabile con prenotazione on line la Casa degli Amorini Dorati. Restano sempre aperte al pubblico le case del Fauno, della Caccia antica, della Fontana piccola, le Terme, gli edifici del grandioso Foro, il piccolo e il grande teatro, Villa dei misteri.

Velardi applaude la decisione di Roma: "Una vittoria, ora apriamo ai privati"

Ottavio Lucarelli -la repubblica, ed. Napoli, 5 luglio 2008

«Una decisione importante da parte del governo. Una decisione coraggiosa, un aiuto per lo sviluppo dell'area archeologica. Direi anche una mia vittoria, che ora apre la strada all'ingresso dei privati nella gestione». Esulta Claudio Velardi, assessore regionale del Partito democratico con delega al turismo che del caso Pompei in pochi mesi ne ha fatto una crociata.

Esulta e non dimentica i suoi nemici: «Ho incassato molti rimbrotti per le mie idee quando ho indicato la necessità di un cambio di rotta radicale nella gestione di uno dei siti archeologici più importanti del mondo. Mi hanno attaccato, c'è chi ha ironizzato, qualcuno mi ha preso per matto. Bacchettoni di ogni genere sono scesi in campo per difendere una situazione insostenibile fatta di sciatterie, corporativismi, piccole e grandi illegalità».

Esulta Velardi. E accusa i «bacchettoni di ogni genere» riferendosi soprattutto a professori e opinionisti che su diversi giornali lo hanno attaccato a ripetizione: «Il governo ha preso una decisione importante e coraggiosa proclamando lo stato d'emergenza nell'area e scegliendo di intervenire seriamente in difesa della legalità e del decoro di Pompei. Ma non solo. Con questa scelta si gettano anche le basi per una gestione innovativa e moderna del sito».

Intesa Governo-Regione che, del resto, è indicata esplicitamente nel comunicato ufficiale di Palazzo Chigi dove si legge: «Il Consiglio dei ministri ha deliberato lo stato di emergenza nell'area archeologica di Pompei (come richiesto dal ministro per i beni culturali Sandro Bondi, dal prefetto e dalla Regione) per intervenire con mezzi e poteri straordinari in difesa dell'immenso patrimonio artistico, minacciato da crescenti e gravi criticità».

«Ad un'azione indispensabile di ripristino della civiltà - conclude l'assessore Velardi che ha commentato la vicenda sul suo blog battezzato "Mission impossible" - dovrà poi seguire un grande progetto di sviluppo in cui coinvolgere importanti risorse pubbliche e private, italiane e internazionali. Se si lavorerà bene insieme sarà possibile fare di Pompei in pochi anni un sito in grado di accogliere degnamente milioni di turisti con informazioni adeguate, servizi efficienti, percorsi fruibili. Per l'intera area che va da Pompei a Stabia si presenta una grande occasione di crescita e sviluppo del turismo. Non ce la dobbiamo fare sfuggire. Istituzioni centrali e periferiche, imprenditori, operatori turistici».

Spazio ai privati, dunque. Claudio Velardi rilancia e Gianni Lettieri, presidente degli industriali napoletani, raccoglie l'assist: «Sono d'accordo con l'assessore. Se Pompei, in queste condizioni, è uno dei siti più visitati al mondo, figuriamoci cosa si potrebbe fare coinvolgendo i privati. Sono d'accordo con Velardi. È evidente che con i privati la gestione degli Scavi funzionerebbe molto meglio e io credo che a Pompei ci siano tutti i presupposti per questo passo in avanti. Un discorso che, ovviamente, vale per l'archeologia così come per tanti altri campi dell'economia».

Il governo di destra dichiara lo stato di emergenza e non solo l'assessore regionale Velardi ma anche il sindaco di Pompei Claudio D'Alessio, esponente del Partito democratico di area Margherita, approva la decisione presa dal Consiglio dei ministri: «Il degrado dell'area archeologica di Pompei è di tale evidenza da giustificare un provvedimento mai adottato nella storia d'Italia quale la dichiarazione dello stato di emergenza. Sulla deprecabile situazione dell'area archeologica, del resto, la nostra amministrazione comunale ha più volte espresso da tempo una posizione critica, sottolineando la pervicace volontà della Sovrintendenza nel rifiuto di qualsiasi collaborazione utile a valorizzare il patrimonio culturale del territorio cittadino».

Secondo il sindaco Claudio D'Alessio «Il degrado degli Scavi incide negativamente anche sull'aspetto della città moderna, come dimostrano i lavori senza fine lungo il margine meridionale della città antica con l'ingombro di impalcature lungo i marciapiedi di via Plinio, estesi fino a piazza Anfiteatro, da dove si ammirano gli ingombranti volumi di costruzioni moderne edificate sul suolo archeologico, immediatamente a ridosso delle antiche mura». Per non parlare della «carenza dei servizi minimi essenziali, quali punti di accoglienza e di ristoro».

Un luogo che comunque, tra degrado e assenza di servizi minimi essenziali, continua ad avere un richiamo fortissimo. Pompei, nonostante un calo dovuto all'emergenza rifiuti che ha penalizzato tutta la Campania, resta infatti il primo sito al mondo per numero di visitatori.

Un'area in cui ha lavorato a lungo il giornalista Luigi Necco, amministratore dal 2002 al 2006 dell'azienda di Soggiorno e turismo di Pompei, che è però molto scettico sulle reali possibilità di ripresa legate alla decisione del Consiglio dei ministri: «Non credo che questa decisione del governo vada verso la privatizzazione della gestione degli Scavi e, a mio parere, l'assessore Velardi in queste ore esprime solo la gioia che il presidente della Regione Antonio Bassolino gli ha detto di esprimere. Il punto è che il male di Pompei è negli Scavi ma non si esaurisce negli Scavi. I nomi dei custodi di Pompei, quelli che non aprono i cancelli ai turisti, che non tutelano il sito e fanno ammucchiare torme di cani selvaggi anche per disturbare gli spettacoli notturni, sono gli stessi nomi dei bancarellari che serrano in una morsa gli Scavi e che strozzano il turismo».

Luigi Necco rispolvera quindi un piano di sviluppo per rilanciare Scavi e turismo. Un piano messo a punto negli anni scorsi e mai decollato: «Stavamo per avviare un grande progetto con un palazzo messo a disposizione dalla Curia e con fondi delle Regione stanziati dall'ex assessore Marco Di Lello per realizzare il grande Museo di Pompei, Ercolano, Stabia e Oplonti che, con 15 milioni di euro, avrebbe fatto compiere un salto di qualità enorme all'intera area. In più, puntavamo a trasformare in hotel a cinque stelle il "Seminario" e l´albergo "Rosario" chiuso ormai da decenni e di proprietà della Curia che era d'accordo. Tutto sembrava pronto, poi dalla sera alla mattina fui mandato a Napoli in un'altra azienda, un'azienda di turismo carica di debiti e quel progetto svanì»

Stato d'emergenza a Pompei: un commissario per gli scavi

Alessandra Arachi - Corriere della Sera, 5 luglio 2008

Il provvedimento di Palazzo Chigi ieri è stato un decreto, espresso: dichiarazione dello stato di emergenza per gli scavi di Pompei. Non era mai successo. Che un governo italiano trattasse un sito archeologico come fosse uno tsunami. «Ma non si poteva più tollerare oltre la situazione di degrado di un bene incommensurabile come quello di Pompei», garantisce Sandro Bondi, ministro per i Beni Culturali. Che ha persino faticato a credere a quanto scritto e documentato proprio sulle pagine del Corriere, qualche giorno fa.

«Sono grato alla denuncia del Corriere sullo stato deprimente in cui versano le rovine », dice Bondi, spiegando che ieri mattina il provvedimento dello stato di emergenza per gli scavi archeologici di Pompei non ha avuto soltanto l'unanimità del Consiglio dei ministri: «È stata un'approvazione entusiastica ».

Incuria, degrado, furti, sfregi, danneggiamenti: bisogna girarli gli scavi di Pompei per crederci e capire. Un patrimonio dell'Umanità (e dell'Unesco) che il mondo ci invidia, sta andando alla deriva come una zatterina in preda al maremoto. Ed ecco lo stato di emergenza: durerà per un anno. Ecco l'arrivo di un commissario straordinario. Sarà nominato mercoledì prossimo dal ministro Bondi, insieme con i sottosegretari alla presidenza Gianni Letta e Guido Bertolaso, con un decreto che ne preciserà anche le competenze.

Il nome che è più circolato in questi giorni è quello del prefetto Mario Mori, ex capo dei Ros e del Sisde. «Vogliamo una personalità autorevole che abbia poteri di emergenza concreti, reali», dice il ministro Bondi. E spiega: «Il commissario dovrà occuparsi della gestione e dell'amministrazione. Ma anche, e soprattutto, delle questioni legate all'ordine pubblico e alla sicurezza. Verranno impiegate le forze dell'ordine per tutelare l'intera area. Ci sono anche le mani della criminalità organizzata sopra gli scavi di Pompei».

Quarantaquattro ettari di scavi e altri ventidue ettari di beni archeologici mai portati alla luce che oggi sono in balìa dei tombaroli. Ma non solo: sopra quei 22 ettari mai scavati di Pompei, negli anni, si sono accumulate discariche abusive e, in più, sono state costruite le serre di contadini che con acqua e concimi potrebbero aver definitivamente deteriorato il patrimonio rimasto ancora sotto terra.

«Questo commissariamento è stato concordato con la Regione Campania, con Antonio Bassolino, con il quale c'è assoluta condivisione», garantisce il ministro dei Beni Culturali. E aggiunge: «Ho anche telefonato al soprintendente Giovanni Guzzo, al quale va la mia stima personale e che rimarrà a Pompei a ricoprire il suo ruolo, quello di archeologo». Convenevoli a parte, il ministro Bondi è molto molto deciso: «Voglio lavorare su Pompei come il presidente Berlusconi sta lavorando su Napoli».

Non mancano certo le cose da fare. E anche, o soprattutto, le cose da capire. Come quei 70 milioni di euro nel bilancio degli scavi: come mai non sono stati mai spesi? Ce ne erano altri 30 di milioni di euro: nel 2006 l'allora ministro ai Beni Culturali Buttiglione decise di riprenderli indietro, chissà se infastidito dagli sperperi.

Ma adesso si cambia registro. L'attuale titolare dei Beni Culturali non ha dubbi: «Questo grande interesse del governo su Pompei deve servire a dirottare sulle rovine tutte le risorse possibili. Quelle private, innanzitutto, anche straniere. Per questo andrò io, di persona: il prossimo 18 luglio sarò alle rovine di Pompei insieme con il nuovo commissario straordinario».

Anche Claudio Velardi, assessore regionale al Turismo, aveva pensato di aprire gli scavi di Pompei ai privati. E dalle colonne del Corriere del Mezzogiorno aveva annunciato di aver già preso contatti con colossal come Google e Microsoft per sponsorizzazioni e partnership.

Non c'è molto tempo da perdere: tra le rovine di una delle Sette meraviglie del mondo se ne è già perso fin troppo. Basti pensare ai trent'anni che non sono stati sufficienti per ultimare i restauri dell'Antiquarium, il museo. O ai ventuno trascorsi senza che venissero conclusi gli ultimi scavi fatti a Pompei, quelli della Casa dei Casti Amanti.

Tutto questo è bastato a Roman Polanski per fuggire a gambe levate dalle rovine. Con un paradosso davvero triste: il suo film su Pompei, il regista lo sta girando in Spagna.

Pompei, Bondi benedice la «rivoluzione»

Intervista di Carlo Franco all'assessore Velardi Corriere del Mezzogiorno, ed. Napoli, 5 luglio 2008

Assessore Velardi, vuole darci il nome del Commissario di Pompei?

«Non scherziamo, nessuno è in grado di farlo».

Neanche lei?

«Io posso dire solo che si tratterà di un Prefetto».

È già molto, basta a far partire la caccia al reggente. La fantasia galoppa: garantisce Claudio Velardi, l'assessore con la maglietta. Il piglio con il quale risponde al cronista è quello dei giorni migliori: «Questo, dice, non è che l'inizio, la precondizione, faremo pulizia della gestione ordinaria, metteremo ordine nei conti, poi preparemo l'ingresso dei privati e il vero salto di qualità».

L'annuncio del commissariamento di Pompei segue i tempi della «rivoluzione » anticipata al nostro giornale dal responsabile regionale della politica turistica, ha provocato, insomma, uno sconquasso. Solo il Soprintendente Piero Guzzo conserva imperturbabile il suo aplomb e a chi gli chiede se si sente «commissariato » replica: «No, rafforzato perché finalmente potrò lavorare alla tutela del sito che è il vero lavoro di un archeologo, lontano dalle scartoffie». Tutti, a Roma e a Napoli, gli confermano la stima, ma i sindacati picchiano duro: Gianfranco Cerasoli, segretario generale della Uil, avanza dubbi sulla gestione Guzzo e sulla stessa strada si pone l'Unsal che chiede anche l'istituzione di una polizia di settore per salvare non solo Pompei ma anche Paestum, i siti dell'Etruria meridionale e del Palatino.

Ma torniamo a Velardi. L'assessore, che ha sentito il Governatore Bassolino ricevendo tutte le coperture del caso, ha nomi altisonanti da proporre. «Affideremo la gestione dei diritti d'immagine ad una azienda di carattere internazionale, la Pixar o la Warner Bros. Pompei deve diventare un laboratorio vivo, quando avremo ottenuto le giuste condizioni di sicurezza e di agibilità, i privati ci faranno fare il salto di qualità. Grandi eventi ma sempre dopo aver ottenuto garanzie sull'uso corretto del territorio e degli straordinari monumenti ospitati. C'è tanto da fare, compreso operazioni di marketing e di merchandising ».

La «pratica» cammina veloce. Mercoledì il Ministro Bondi s'incontrerà con Velardi per siglare un accordo istituzionale, sulla falsariga di quello stipulato con il sottosegretario al Turismo, Michela Brambilla.

In cosa consiste l'accordo?

«Stabiliremo le condizioni per strategie comuni che avranno come unico obiettivo quello di migliorare la produttività di Pompei gravemente offuscata».

È vero, chiediamo a bruciapelo, che esistono venti milioni di euro non spesi?

«Non lo so, risponde l'assessore, ma ne sarei felice perché significherebbe che avremmo anche i soldi per partire. Parliamo, invece, delle cose possibili, cioè dei passi che faremo. Dopo l'accordo con il Ministero incontreremo la Tess e i Comuni che gravitano su Pompei: dobbiamo procedere insieme, finora ognuno è andato per conto suo e i risultati si vedono».

Si dice anche che la Scabec, l'azienda regionale che gestisce alcuni siti museali, sarà della partita. Le risulta?

Breve pausa per riordinare le idee, poi la risposta: «Potrebbe occuparsi della gestione delle biglietterie che in questi anni è stata particolarmente carente e si è tirata addosso molte critiche».

Ha visto il Soprintendente Guzzo?

«No, ma non ce n'è bisogno, Guzzo sarà il garante culturale di tutta l'operazione».

Un'ultima informazione al limite del paradosso: la National Galleryof Art di Washington sta lavorando al lancio di una mostra sugli scavi che si inaugurerà ad ottobre. Servirà a rilanciare in America l'immagine di Pompei: speriamo che si arrivi in tempo.

Le mani dei privati sui beni culturali

Nino Alongi – la Repubblica, ed. Palermo, 6 luglio 2008

Da qualche tempo sullo scenario politico nazionale la Sicilia è tornata a far notizia. E questo accade anche grazie al livello dei suoi uomini insediatisi (provvidenzialmente, dice qualcuno) nei palazzi romani del potere. Sono in molti in Italia a riconoscere l'«equilibrio» del presidente Renato Schifani, specialmente adesso nel suo nuovo ruolo, ma anche l'fficienza e la dedizione del giovane ministro Angelino Alfano, la discrezione, fino al silenzio più assoluto, della ministra Stefania Prestigiacomo e l'ntusiasmo dirompente del ministro della difesa (o della guerra?) Ignazio La Russa. Il futuro ci dirà quanto la loro presenza in quei palazzi sia utile e proficua per la Sicilia.

Intanto registriamo che l'Isola ha un posto di rilievo nel panorama nazionale anche per l'attività, mai banale e sempre piena di eccessi, del suo parlamento, l'Assemblea regionale guidata adesso da Francesco Cascio del Pdl, succeduto al leader forzista della prima ora Gianfranco Miccichè. Nella settimana che ci siamo lasciati alle spalle, malgrado la cronaca parlamentare nazionale sia stata ricca di colpi di scena, due notizie provenienti dalla nostra città hanno bucato d´incanto lo schermo dei telegiornali con l'effetto straordinario di sorprendere i telespettatori evidentemente non ancora del tutto assuefatti alle intemperanze della casta. È successo che, mentre il procuratore generale della Corte dei conti relazionava sul bilancio catastrofico della Regione, gravato dall'ulteriore aumento delle retribuzioni dei deputati che affollano Sala d'Ercole - ben 70 su 89 godono di gettoni aggiuntivi - l'assessore regionale ai Beni culturali Antonello Antinoro, per nulla turbato dalla requisitoria del giudice contabile, prendeva una clamorosa iniziativa.

E proponeva candidamente, per risanare gli esausti bilanci del suo assessorato, di trasferire ai privati la gestione dei beni culturali esistenti nell'Isola. Per di più il governatore Lombardo rincarava la dose. Ipotizzando - certo con involontaria ironia - la «cessione» dei siti archeologici in Val di Noto alla compagnia petrolifera russa Lukoil e l'affidamento della Venere di Morgantina (il cui ritorno in Sicilia è previsto per il 2010, dopo un contenzioso durato anni) al Paul Getty Museum: cioè all'stituzione pescata con le mani nel sacco per averla acquistata da un ricettatore. Il Paul Getty, nel vaneggiamento estivo di Lombardo, dovrebbe costruire un museo ad Aidone.

Una mera coincidenza, ma le due notizie messe insieme sono rivelatrici di una tendenza politica portata avanti dalla classe dirigente isolana con lucidità suicida. A fronte di una spesa pubblica che cresce in modo incontrollato (è salita a 15 miliardi di euro) e con un «parco impiegati» che ha raggiunto la modica cifra di 21.104 persone di cui 2.245 dirigenti, l'amministrazione regionale pensa non a tagli drastici, non a una gestione finalmente rigorosa, ma a nuove risorse da cercare e da bruciare con la faciloneria di sempre.

E così, dopo aver contribuito a privatizzare le coste, desertificare i boschi, abbandonare l'agricoltura e inquinare parti rilevanti del territorio, la Regione vuole adesso liberarsi dei Templi di Agrigento, del Teatro greco di Siracusa, dei vari siti archeologici sparsi per la Sicilia, dei musei e delle città d´arte, cioè liberarsi dei beni rimasti.

Non ci vuole molto a comprendere che privatizzare significa entrare nella sfera delle leggi di mercato, passare dalla cooperazione alla competizione, dalla fruizione al profitto. Una forma particolarmente significativa della mercatizzazione - sostiene Giorgio Ruffolo - è il declino dei beni collettivi rispetto si beni privati. Il mercato tende a favorire nettamente la produzione e il consumo di beni competitivi rispetto a quelli collettivi anche perché la loro gestione incontra un aumento insostenibile di costi molto prima di raggiungere un grado diffuso di soddisfazione.

«Ben vengano i mecenati - ha sostenuto il presidente Raffaele Lombardo d'accordo col suo assessore - non vedo nulla di straordinario se un privato, con i propri soldi, vuole valorizzare una parte del nostro patrimonio culturale che oggi è sottoutilizzato». In giro, però, più che mecenati disposti ad impegnare risorse si vedono speculatori alla ricerca di profitti. «L'importante è intendersi - aggiunge Lombardo per nulla turbato - su quello che si deve fare e su come farlo. Tutto è chiaro deve avvenire sotto il controllo del pubblico, cioè della Regione». Il presidente si ferma qui, non spiega a esempio come la Regione, che non riesce a governare neppure la sua struttura interna, possa domani controllare il rispetto dei contratti di beni culturali dati in concessione. Le reazioni a queste proposte e non solo da parte dell'opposizione non si sono fatte attendere. Speriamo bene.

Si sono intanto concluse, purtroppo nell'indifferenza generale, le ultime procedure elettorali. Tra le poche novità emerse dalle urne, va sottolineata la elezione a sindaco di Salemi di Vittorio Sgarbi. Una scelta interessante, il paese potrebbe ricavare da questa nomina indubbi vantaggi e non solo sul piano dell´immagine. Sgarbi ha esperienza amministrativa e un'ottima preparazione artistica. Le sue prime dichiarazioni, tuttavia, ci hanno sorpreso. Egli ha detto: «Il nome del paese d'ora in poi non sarà più associato alla mafia o al terremoto del 1968. Grazie a me, Salemi uscirà dall´isolamento». Gli ricordiamo che nell'Isola, per antica consuetudine, non si è mai creduto ai salvatori della patria. I siciliani, come tutti sanno, hanno molti difetti, ma non sono creduloni. Lo sanno bene: o si salvano da soli o non si salveranno mai. A Sgarbi consigliamo di guardare, andando in giro per l'Isola, le bellezze artistiche e naturali, ma anche le croci numerose che segnano il nostro impegno civile.

Valle dei Templi: una faccenda privata

Vittorio Emiliani – l'Unità, 4 luglio 2006

Povera Sicilia, povera Valle dei Templi, quale altra offesa si prepara per voi (e quindi per noi)? Per ora, c’è questa idea genialissima di affidare a privati la Valle agrigentina, e il Teatro greco di Taormina, affinché la Regione Sicilia ne tragga un pingue canone. Così altre infrastrutture (eliporto incluso) potrebbero venire costruite dentro o nei pressi di una fra le più strepitose aree archeologiche del mondo intero già violentata da una strada che l’attraversa, da numerose case, anzi ville, abusive con piscina- per le quali si è parlato di “abusivismo di necessità” - con un paesaggio urbano che incombe come un incubo sui templi antichi e solenni. È la proposta, sfornata calda calda dall’assessore alla Cultura della Regione Sicilia, Antonello Antinoro (Udc), nella giunta presieduta dall’iperautonomista Lombardo. Sostenuta dal neo-sindaco di Salemi, Vittorio Sgarbi che, per renderla meno indecente, la gira subito al Fai. Ovviamente riceve un secco “no” da Giulia Maria Mozzoni Crespi, presidente del Fondo per l’Ambiente Italiano, la quale si augura al contrario che «lo Stato non abdichi ai suoi doveri primari».

Lo Stato, in questo caso, non è il ministero: la tutela dei beni culturali isolani spetta infatti alla Regione Sicilia in forza di una specialissima autonomia concessale nel 1947, prima di votare la Costituzione, temendo che il movimento separatista potesse prevalere. Così abbiamo un caso, pressoché unico (le altre Regioni a statuto speciale si comportano in genere più saggiamente della Sicilia), di tutela, si fa per dire, e di gestione autonoma regionale del patrimonio storico-artistico-paesaggistico.

oi risultati disastrosi che sono sotto gli occhi di tutti: coste devastate da un abusivismo ormai pluridecennale, oasi naturali invase dal cemento, i mosaici di piazza Armerina danneggiati dai vandali, nessun piano paesaggistico, musei archeologici, come l’ “Orsi” di Siracusa, per la cui realizzazione ci sono voluti vent’anni e «oggi abbiamo difficoltà enormi a tenerlo aperto. Ci sono gravi carenze nello staff tecnico-scientifico. Mancano archeologi, restauratori, geometri, fotografi, custodi. Ogni giorno è una scommessa». Parole scolpite dal soprintendente siracusano di lungo corso Giuseppe Voza in una recente intervista. Quando allo stesso professor Voza, archeologo, l’intervistatore ha chiesto dei privati, ha così risposto: «Sono favorevole all’intervento dei privati, ovviamente nel rispetto di alcune regole dettate dal superiore interesse pubblico. In trentacinque anni, però, l'offerta più cospicua che ho ricevuto in Sicilia ammonta a cinque milioni di lire. Buoni per la birra...».

Ecco il quadro, impietoso ma realistico, dipinto da uno dei soprintendenti di spicco che già dieci anni fa, ad un convegno sulla ricostruzione di Noto, mi confidava tutte le difficoltà e le ambasce di una amministrazione tecnico-scientifica sottoposta alla pressione ravvicinata dei politici regionali. Ne sa qualcosa l’archeologa Graziella Fiorentini, tempo fa soprintendente, la quale patì persino l’arresto per essersi opposta ad altre devastazioni nella Valle dei Templi. A lei Desideria Pasolini dall’Onda, presidente nazionale di «Italia Nostra», volle attribuire in Senato il prestigioso premio Umberto Zanotti Bianco.

Di recente la stessa presidente del Fai, Giulia Maria Mozzoni Crespi ha guidato un lungo elenco di intellettuali e di politici (pochi) illuminati i quali chiedono al Presidente della Repubblica, Napolitano, di evitare lo scempio di un enorme rigassificatore a Porto Empedocle, insediato proprio sull’Altipiano delle argille azzurre dove sorge la casa natale di Luigi Pirandello (con parco debitamente vincolato), direttamente nel paesaggio verso il mare che si ammira dalla Valle Templi. Il cui disastroso abusivismo, così giustamente avversato, «al confronto del suddetto mostro sarebbe poca cosa» poiché «in questo scorcio di mare e di terra potremmo vedere la fila di navi gasiere di 350 metri ciascuna posizionate di fronte alla contrada Caos e le torri-torcia di circa 40 metri di altezza con fiamma perenne». Un altro disastro paesaggistico.

E adesso arriva bel bello l’assessore Antonello Antinoro a completare l'opera (che potremmo intitolare «Come ti concio uno dei più straordinari siti del mondo») con la proposta di rinunciare a tutelare la Valle dei Templi dandola in gestione a privati che però costruiscano strade, alberghi di lusso, eliporti e quant’altro ancora si può coi piccioli ricavati. Del resto, non l’ha ripetuto tante volte il Cavaliere che “ognuno è padrone a casa sua”? L’assessore siciliano l’ha preso in parola e, forte dell’essere temporaneamente “padrone” (o “padroncino”) dei beni culturali siciliani, ha pensato bene di cominciare a privatizzarne uno o magari due. Dei più straordinari naturalmente. Per il nuovo ceto di potere il passato è business e basta. A quando l’idea di cedere il Colosseo ai privati come centro di un mega luna-park? Ci siamo vicini: il neo vice-sindaco di Roma, Mauro Cutrufo, ha già proposto un enorme “parco divertimenti” ispirato all’antica Roma. Geniale, da gemellare subito con l’assessore Antinoro.

Coi risultati disastrosi che sono sotto gli occhi di tutti: coste devastate da un abusivismo ormai pluridecennale, oasi naturali invase dal cemento, i mosaici di piazza Armerina danneggiati dai vandali, nessun piano paesaggistico, musei archeologici, come l’ “Orsi” di Siracusa, per la cui realizzazione ci sono voluti vent’anni e «oggi abbiamo difficoltà enormi a tenerlo aperto. Ci sono gravi carenze nello staff tecnico-scientifico. Mancano archeologi, restauratori, geometri, fotografi, custodi. Ogni giorno è una scommessa». Parole scolpite dal soprintendente siracusano di lungo corso Giuseppe Voza in una recente intervista. Quando allo stesso professor Voza, archeologo, l’intervistatore ha chiesto dei privati, ha così risposto: «Sono favorevole all’intervento dei privati, ovviamente nel rispetto di alcune regole dettate dal superiore interesse pubblico. In trentacinque anni, però, l'offerta più cospicua che ho ricevuto in Sicilia ammonta a cinque milioni di lire. Buoni per la birra...».

Ecco il quadro, impietoso ma realistico, dipinto da uno dei soprintendenti di spicco che già dieci anni fa, ad un convegno sulla ricostruzione di Noto, mi confidava tutte le difficoltà e le ambasce di una amministrazione tecnico-scientifica sottoposta alla pressione ravvicinata dei politici regionali. Ne sa qualcosa l’archeologa Graziella Fiorentini, tempo fa soprintendente, la quale patì persino l’arresto per essersi opposta ad altre devastazioni nella Valle dei Templi. A lei Desideria Pasolini dall’Onda, presidente nazionale di «Italia Nostra», volle attribuire in Senato il prestigioso premio Umberto Zanotti Bianco.

Di recente la stessa presidente del Fai, Giulia Maria Mozzoni Crespi ha guidato un lungo elenco di intellettuali e di politici (pochi) illuminati i quali chiedono al Presidente della Repubblica, Napolitano, di evitare lo scempio di un enorme rigassificatore a Porto Empedocle, insediato proprio sull’Altipiano delle argille azzurre dove sorge la casa natale di Luigi Pirandello (con parco debitamente vincolato), direttamente nel paesaggio verso il mare che si ammira dalla Valle Templi. Il cui disastroso abusivismo, così giustamente avversato, «al confronto del suddetto mostro sarebbe poca cosa» poiché «in questo scorcio di mare e di terra potremmo vedere la fila di navi gasiere di 350 metri ciascuna posizionate di fronte alla contrada Caos e le torri-torcia di circa 40 metri di altezza con fiamma perenne». Un altro disastro paesaggistico.

E adesso arriva bel bello l’assessore Antonello Antinoro a completare l'opera (che potremmo intitolare «Come ti concio uno dei più straordinari siti del mondo») con la proposta di rinunciare a tutelare la Valle dei Templi dandola in gestione a privati che però costruiscano strade, alberghi di lusso, eliporti e quant’altro ancora si può coi piccioli ricavati. Del resto, non l’ha ripetuto tante volte il Cavaliere che “ognuno è padrone a casa sua”? L’assessore siciliano l’ha preso in parola e, forte dell’essere temporaneamente “padrone” (o “padroncino”) dei beni culturali siciliani, ha pensato bene di cominciare a privatizzarne uno o magari due. Dei più straordinari naturalmente. Per il nuovo ceto di potere il passato è business e basta. A quando l’idea di cedere il Colosseo ai privati come centro di un mega luna-park? Ci siamo vicini: il neo vice-sindaco di Roma, Mauro Cutrufo, ha già proposto un enorme “parco divertimenti” ispirato all’antica Roma. Geniale, da gemellare subito con l’assessore Antinoro.

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