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In Italia, che è il paese con il più cospicuo patrimonio artistico dell’Occidente, «il restauro è un lavoro che possono fare tutti, e che persino tutti possono dirigere, fatto salvo il principio di pagarlo il meno possibile: il che, ovviamente, lo priva di qualsiasi vero contenuto scientifico»: la drastica sentenza è di Bruno Zanardi, che insegna Tecnologie per la conservazione e il restauro all´Università di Urbino.

Il restauro è un settore fra i più delicati nel delicatissimo mondo dei beni culturali. Ma il blocco delle principali scuole di formazione (di cui ha parlato ieri su Repubblica Cinzia Dal Maso) rischia di far disperdere un patrimonio di saperi e di competenze pratiche di cui l’Italia può - oppure poteva, secondo alcuni - vantare meriti indiscussi. Lo stallo delle scuole dell’Istituto superiore per la conservazione e il restauro (Iscr) e dell’Opificio delle pietre dure aggrava il disordine, nonostante ieri il ministero, in una nota, abbia ascritto a sé e a questo governo il merito di aver avviato una nuova disciplina per il settore: in Italia si diventa restauratori nei modi più diversi, con poca pratica di laboratorio, con poche norme di riferimento e si affidano incarichi, anche molto importanti, a ditte che hanno più competenze edili che artistiche.

Il pericolo, segnala Antonio Forcellino, fra i migliori restauratori italiani (dal Mosè di Michelangelo alla facciata del Duomo di Siena e all’altare Piccolomini nello stesso Duomo), è che sparisca la "bottega", il luogo in cui «si condividono e si imparano quella serie di gesti veloci fatti con il batuffolo bagnato che tolgono lo sporco e che a un certo punto bisogna interrompere perché si è arrivati al colore». Questa tradizione, insiste Forcellino, è messa in pericolo «da una trasmissione fredda del sapere, prevalentemente teorica, accademica, impostata più dagli storici dell’arte che non dai restauratori veri e propri».

L’intero settore è in crisi. La stessa in cui si dibatte tutta la tutela in Italia. Le ultime assunzioni all´Iscr risalgono al 2000 e ormai il più giovane restauratore dell´Istituto ha oltre quarant´anni. Diminuiscono gli stanziamenti e molta parte dell´attività eccellente che vi si svolge è concentrata all´estero. Anche il prestigioso Opificio delle pietre dure versa in cattive acque. «Fino a qualche anno fa i restauratori dell´Opificio erano 160, ora superano di poco i 100», racconta Giorgio Bonsanti, direttore dal 1988 al 2000.

Secondo Forcellino, la crisi del restauro e della formazione dei restauratori in Italia inizia negli anni Ottanta, quando si moltiplicano i luoghi che realizzano corsi. «Chiunque vuole apre una sua scuola: è la deregulation assoluta», insiste Bonsanti. Negli anni Novanta si impara a diventare restauratori anche all’Università, dove però è prevalente la parte teorica. Inoltre, dice ancora Bonsanti, che ora insegna Storia del restauro, «i professori ordinari o comunque strutturati sono pochi, la gran parte sono docenti a contratto».

Il punto più critico è il modo in cui vengono assegnati gli incarichi: i restauri, se superano l’importo di 45 mila euro, devono essere affidati con una gara, per vincere la quale conta di più offrire il massimo ribasso che non la massima competenza. Spiega Carlo Giantomassi, che ha restaurato gli affreschi della Basilica di Assisi e della Cappella degli Scrovegni a Padova: «Ormai tutto è in mano alle imprese edili. Per carità, ce ne sono anche di ottime. Ma non è richiesto che a dirigere il lavoro sia un restauratore. Molte di loro fanno indifferentemente un tratto di autostrada e il restauro di una pieve romanica. Per ottenere la certificazione necessaria a una gara, la cosiddetta S.o.a., è più importante il numero delle betoniere, anziché un curriculum da restauratore». Come Giantomassi, anche Forcellino non partecipa più a gare pubbliche: nessuno di loro sarebbe in grado di vincerle. Giantomassi è in procinto di smettere, Forcellino ha dovuto mandare a casa due preziosi collaboratori.

Le soprintendenze hanno sempre meno soldi per i restauri. Dominano il campo i restauri sponsorizzati da aziende private, molti dei quali benemeriti. Ma le aziende vogliono un ritorno d’immagine, cercano i capolavori. Così può capitare che una singola opera venga restaurata anche più volte e anche quando non ce n’è necessità effettiva. Ma per Zanardi - che ha lavorato alla Colonna Traiana e alle sculture di Benedetto Antelami a Parma - il problema sta proprio nello statuto del restauro. «I restauratori italiani sono stati i migliori del mondo grazie a Cesare Brandi, che osò l’inosabile, cioè far entrare dentro una griglia teorica una materia fino a quel momento di natura pratica. Restaurare significa non intervenire sull’aspetto creativo, ma adottare tecniche che, in seguito, possano essere rimosse senza danneggiare l’opera. L’obiettivo è solo la conservazione dell’oggetto». Da Brandi in poi si è iniziato a viaggiare in discesa, aggiunge Zanardi. E si è cominciati a precipitare, insiste il professore, quando si accantonò il progetto che Giovanni Urbani, direttore per molti anni dell’Iscr, mise a punto nei primi anni Sessanta e che prevedeva «la conservazione programmata del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente», un grande piano preventivo di salvaguardia dei beni culturali. Che, per esempio, avrebbe potuto funzionare nelle zone sismiche, consolidando e facendo quella manutenzione in grado di impedire i disastri dell’Irpinia o dell'Abruzzo.

La lettera di Giovanni Mazzetti

Caro Augias, una guida turistica ricorda, in un suo libro, che dei turisti americani, alla vista del Colosseo, hanno esclamato: "Ma qui hanno copiato tutto da Las Vegas". L'episodio serviva a sottolineare i limiti del turismo contemporaneo. C'è una cosa sfuggita alla guida. Il ruolo culturale delle antiche vestigia non è un qualcosa di intrinseco. Rinvia semmai al rapporto che gli individui instaurano con esse. Da questo punto di vista, direi che l'americano ignorante aveva molta più ragione della sua guida. Abito di fronte al Colosseo, ci sono nato e cresciuto ho vissuto il lento, sistematico degrado del rapporto con quel rudere. Bei tempi quando qualche disperato ci saliva sopra minacciando di suicidarsi, salvo provvidenziale arrivo dei pompieri! Da qualche anno il Colosseo si è trasformato in un misero fondale da scenario. Concerti di Capodanno, esibizioni di star sulla via del declino, addii al lavoro di stilisti, con tanto di colonne di plastica sul tempio di Venere e Roma, concerti, si pensava addirittura a una partita di pallone. La zona si sta trasformando in un gigantesco Luna Park, in fin dei conti peggiore di quelli di Las Vegas. Chi ricorda le ripetute promesse che quest'uso dei monumenti non ci sarebbe più stato?

La risposta di Corrado Augias

Accoppio a questa lettera un brano di quella dell'ingegner Aldo Cocchiglia di Padova (aldo. cocchiglia@m31. com) il quale ha deciso di lasciare l'Italia e così, tra l'altro, motiva: " La condizione della cultura, dei sistemi di valori e dell'ambiente nella quale i giovani italiani si trovano a crescere sono stati molto negativi, negli ultimi due decenni. La classe dirigente a partire dagli anni 80 ha modellato e poi gradualmente imposto una cultura mercantile, materialistica, egoistica, superficiale, affollata dai disvalori e, in molti suoi aspetti, violenta". Di questa violenza soffrono anche le vestigia di un passato del quale siamo ormai largamente immeritevoli. Nel suo bel libro "Rovine e macerie. Il senso del tempo", l'antropologo Marc Augé scriveva: " Siamo posti oggi dinanzi alla necessità di reimparare a sentire il tempo per riprendere coscienza della storia. Mentre tutto concorre a farci credere che la storia sia finita e che il mondo sia uno spettacolo nel quale questa fine viene rappresentata, abbiamo bisogno di ritrovare il tempo per credere alla storia. Questa potrebbe essere oggi la vocazione pedagogica delle rovine". Alla possibile vocazione pedagogica s'è sostituita invece la smania di sindaci e assessori di sfoggiare quelle eredità per farsene belli con gli elettori. Lo so, così dettano i tempi, ma se all'incalzare dei tempi non si è capaci di opporre una qualche resistenza, allora davvero meglio Las Vegas. E' più comoda.

ROMA - La Commissione cultura della Camera vota sì alla riforma del ministero dei Beni culturali voluta da Sandro Bondi. Ma la maggioranza si spacca e il relatore, Fabio Granata, si dimette: l´ex esponente di An non voleva che sparisse la direzione generale destinata alla tutela del paesaggio, che ora verrebbe accorpata ai beni architettonici e a quelli storico-artistici. Alla fine Granata, insieme ad altri cinque esponenti della maggioranza, si è astenuto. Il dissenso di Granata non sembra investa solo questo aspetto del nuovo regolamento. Secondo alcune voci, egli sarebbe perplesso anche nei confronti della direzione per la valorizzazione, affidata a Mario Resca, ex amministratore delegato della McDonald´s.

L´opposizione si è schierata contro il provvedimento. Secondo Giovanna Melandri, responsabile cultura del Pd, da questo momento «gli strumenti per la difesa del paesaggio italiano vengono fortemente ridimensionati».

Con la privatizzazione dei siti vesuviani, un intero patrimonio di saperi rischia l'estinzione. Ma un altro modello - pubblico, gratuito, refrattario alla monetizzazione della cultura - è possibile. Parla Annamaria Ciarallo, direttrice del laboratorio di ricerche applicate della Soprintendenza archeologica di Pompei

La grotta di Seiano sembra marcare il confine tra Napoli e un altro mondo. Attraverso gli ottocento metri di penombra scavata nel tufo, si sbuca sulla costa di Posillipo, si cammina ancora un po', lasciando alle spalle le villette dei veri ricchi, e si arriva ai due teatri romani sistemati sull'ultimo costone a precipizio sul golfo. L'odeon principale è fornito addirittura di una vasca per gli spettacoli acquatici, esemplare unico insieme al suo gemello in Turchia. Scenario da sogno per le notti del governatore Vedio Pollione, liberto della corte di Augusto, ricco e potente al punto da potersi permettere una villa sospesa nel mare, sull'isolotto della Gaiola, raggiungibile attraverso una scaletta immersa tra lecci e cespugli di lentisco, lasciata poi in eredità al suo augusto protettore. Oggi l'isolotto è area marina protetta, in passato però è appartenuto agli Agnelli e al miliardario americano Paul Getty.

«È un posto bellissimo, l'abbiamo sempre tenuto aperto, ma ora abbiamo risistemato i sentieri, messo la segnaletica e ripristinato il verde originario, invece di farci mandare olivi centenari dalla Grecia, come sembra essere di moda», racconta Annamaria Ciarallo, direttrice del Laboratorio di ricerche applicate della Soprintendenza archeologica di Pompei. In effetti, la villa di Pollione potrebbe richiamare alla memoria quella di Berlusconi in Sardegna, ma il recupero è avvenuto riportando alla luce l'acquedotto e due tempietti, salvaguardando le specie autoctone e la biodiversità. I fondi sono stati reperiti grazie ad «Archeologia e natura nella Baia di Napoli», un progetto che ha coinvolto i siti tra Pozzuoli e Punta Campanella, dieci percorsi tra natura e archeologia, con letture di classici affidate alle attrici Cristina Donadio e Iaia Forte. «Abbiamo avuto 200 mila euro dai Por europei attraverso l'assessorato regionale al Turismo - spiega Annamaria Ciarallo - e li abbiamo sfruttati per ripristinare la vegetazione, sistemare la segnaletica e fornire guide cartacee in italiano e in inglese. La manifestazione dura fino al 2 giugno ma gli interventi fatti servono a rendere i siti fruibili sempre, speriamo che ci facciano continuare a lavorare».

Continuare a lavorare sembra, invece, la cosa più difficile da ottenere da qualche anno a questa parte. Si potrebbe cominciare dal novembre 2007, quando venne creata la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei. Organismo periferico del Ministero per i Beni e le attività culturali, riunisce sotto un'unica gestione i siti vesuviani di competenza dell'ex Soprintendenza archeologica di Pompei (si tratta di miniere d'oro come le aree di Pompei, la più visitata al mondo, Ercolano, Stabia, Oplontis, e il museo di Boscoreale) accanto al Museo archeologico nazionale di Napoli, i siti archeologici dell'area flegrea e della penisola sorrentina, precedentemente gestiti dall'ex Soprintendenza archeologica di Napoli e Caserta. Una macchina da guerra in grado di fruttare moltissimo, che Berlusconi e i suoi ministri sembrano intenzionati a svendere ai privati.

Così nel 2008 parte la campagna a mezzo stampa che segue la denuncia del governo che si scaglia contro la scandalosa incuria in cui è lasciata Pompei. «Erbacce e cani randagi infestano i percorsi», tuonava l'esecutivo; «stato d'abbandono», titolavano i giornali. A luglio arriva puntuale la nomina del commissario straordinario con una dotazione di 40 milioni di euro, la soluzione standard del governo per ottenere i propri scopi. Non c'è Bertolaso, questa volta, in versione Batman dell'archeologia, ma l'ex prefetto Renato Profili (sostituito dopo appena otto mesi da Marcello Fiori). Non servono competenze tecniche ma manageriali, sottolinea il ministro per i Beni culturali Sandro Bondi, che tuona: «Il commissario serve a dire basta a una situazione che definire intollerabile è dire poco». Il nuovo incaricato, poi, dichiara a cuor leggero ai giornali: «Gli scavi da troppi anni sono stati gestiti con una certa artigianalità». E come primo atto cerca di affidare ai privati il servizio di vigilanza esterna, progetto bloccato dai sindacati e dal soprintendente Pietro Giovanni Guzzo, mentre il governo studiava quali pezzi pregiati della collezione Farnese spedire alla Maddalena per il G8. «Possiamo credere, vista la tendenza del contesto relativo ai Beni culturali in generale, che questa struttura miri a sostituirsi alla tradizione della Soprintendenza. Ma, a giudicare da quanto finora si è visto - dichiarava a settembre Guzzo - quello che manca alla struttura del commissario è la conoscenza, e la critica delle conoscenza, delle situazioni sulle quali è stato chiamato ad operare, in deroga a tutte le norme».

Si potrebbe cominciare dal 2007 oppure tornare indietro nei decenni: «Quando ho cominciato a lavorare a Pompei venti anni fa - racconta la Ciarallo - c'erano laboratori di falegnameria, c'erano fabbri, idraulici, giardinieri e operai specializzati, pagati dallo stato, che provvedevano alla manutenzione ordinaria. Se si rompeva una porta o una fontana la riparavano, l'impressione generale era di un sito curato. Poi hanno cominciato ad andare in pensione senza nuove assunzioni. Da undici giardinieri siamo arrivati a uno. Perché? Per far entrare i privati. Così se si rompe una porta bisogna aspettare che si arrivi a mille e poi fare una gara, intanto per due o tre anni rimaniamo con le porte rotte ed ecco che appare l'incuria».

Un intero patrimonio di saperi rischia l'estinzione, per fare posto a società che spesso non hanno le competenze necessarie e costano di più. A Pompei c'è la maggiore estensione al mondo di mosaici all'aperto: «Se ne occupavano addetti specializzati - prosegue - che li hanno mantenuti intatti per decenni. L'ultimo mosaicista rimasto, non potendo fare il lavoro da solo, li copriva con la sabbia in autunno e li scopriva in primavera. Poi anche lui è andato in pensione, il risultato è che si stanno rapidamente deteriorando. Lo stesso per gli affreschi, non c'è più nessuno che ci passi la cera. Ma la manutenzione ordinaria non fa notizia, al governo interessano solo le conferenze stampa plateali in cui annunciare mega restauri, come la Casa dei Vettii, soldi sprecati se poi non c'è chi li cura».

E le erbacce che infesterebbero Pompei? «Una polemica così sciocca che hanno dovuto smetterla subito. Il nostro laboratorio lavora a ripristinare la flora di duemila anni fa, rimettendo a dimora il verde autoctono, in grado di resistere meglio agli stress ambientali, oltre a salvaguardare la biodiversità. Si tratta di un prato spontaneo mediterraneo e non di un prato all'inglese, si risparmia acqua e basta un po' di pioggia perché diventi di una bellezza smagliante». Negli anni '70 c'era un'unica via accessibile, il resto era infestato da erbacce, oggi sono stati liberati dai rovi 44 ettari sui 66 complessivi: «Nella serra coltiviamo 20 mila piante, 10 mila impiegate per sistemare le aree archeologiche, evitando di ricorrere all'acquisto esterno, un risparmio di 40 mila euro all'anno». Rosmarino, lentisco, salvia, e poi vigneti, peschi, limoni, piante per unguenti, un patrimonio storico prima che botanico.

Il ministero, intanto, ha firmato un accordo di programma con la regione Campania affidandole gestione e valorizzazione dei siti dei Campi Flegrei, di Capri e dell'isolotto della Gaiola, sottraendoli alla Soprintendenza, a cui resterebbe la tutela. In molti, a cominciare dal soprintendente per il polo museale di Napoli, Nicola Spinosa, leggono la manovra come il primo atto dell'ingresso dei privati, e in particolare della Scabec, società mista regionale costituita nel 2003, il 51% pubblica, il 49% in mano a Electa Mondadori, Fiore Costruzioni, Pacifico, Nuova Lince. Si tratterebbe di siti-attrattori di prima grandezza come la Certosa, Villa Jovis, Villa di Tiberio, Villa di Damecuta e la Grotta Azzurra di Capri, il castello di Baia o il Rione Terra di Pozzuoli, l'isolotto della Gaiola di Napoli, accanto ad altri di minor fascino commerciale che finirebbero inevitabilmente gravemente penalizzati.

«Secondo me tutti i siti dovrebbero restare in mano agli enti pubblici, accessibili a tutti e senza biglietto d'ingresso - conclude Annamaria Ciarallo -, del resto al British Museum si entra gratis. La monetizzazione della cultura provoca la distinzione in siti di fascia A e B, anticamera della dispersione del patrimonio storico e culturale. Il guadagno deve arrivare dall'indotto che i beni culturali producono». L'isolotto della Gaiola, adesso, è uno scoglio piantato nel mare, tra il borgo di Marechiaro e la baia di Trantaremi, il giallo del tufo, l'azzurro del mare, il rosso del corallo. Archeologia e fauna in un'area marina protetta, il parco sommerso si estende per 41,6 ettari a stretto contatto con la città. Per ora il Csi Gaiola onlus gestisce le ricerche e le visite guidate: biologi, archeologi, naturalisti che, tra bird o sea watching, escursioni in barca e itinerari via terra, salvaguardano l'ecosistema. Ma non sono tranquilli, cominciano già a diffondersi le prime voci di linee di traghetti per i turisti e, magari, ipotesi di fitto per matrimoni da favola.

Finalmente sapremo a che cosa servono ruderi inutili e ingombranti come il Colosseo, l’Arco di Costantino, il tempio di Venere e Roma. Il momento della verità è arrivato, e a quel che pare dobbiamo esserne grati al Comune di Roma. Quello stupido e noioso pietrame grigiastro verrà finalmente messo a buon frutto: le finali della Champions League saranno allietate (23-27 maggio) da campi di erba sintetica a ridosso del Colosseo, l’arco di Costantino in asse con una delle porte del rettangolo verde. Intorno, stand gastronomici, grappoli di gabinetti chimici, megaschermi con pubblicità, son et lumière, e infine "un’azione di Guerrilla Marketing strategicamente realizzata da 3d’esign Communication: come accade allo stadio, così durante l’evento le persone si sentiranno parte integrante della squadra di campioni Sony", sponsor dell’evento. Finalmente un po’ di modernità, finalmente sconfitti i nostalgici che vedono nella tutela dei monumenti un dovere civile. Che importa se i duecentomila tifosi previsti, compresi gli hooligans, dovessero danneggiare quel vecchiume? Che importa se in quella zona sono vietati per legge i cartelloni pubblicitari? Che importa se il Colosseo è il monumento più visitato di Roma e forse del mondo? Che importa se negli stessi giorni nella basilica di Massenzio c’è il festival delle letterature?

Questo ennesimo episodio di barbarica incuria non è isolato. Predichiamo ogni giorno contro l’inquinamento ambientale, e ogni giorno dimentichiamo che la stessa identica battaglia va combattuta contro l’inquinamento acustico e visivo, che nei cittadini crea sempre più disagio e stress. Ci parliamo addosso sulla bellezza delle nostre città, sulla ricchezza monumentale dei nostri centri storici, sulle migliaia di anni di storia di cui ci vantiamo di essere eredi: e nelle piazze più belle, nei luoghi più ricchi di memoria e d’arte portiamo impunemente folle rumorose che ne deturpano l’immagine e ne inquinano la percezione, incuranti dei cittadini che ci vivono e lavorano, ma anche dei turisti che si aspettavano di godersele in pace.

Non riusciamo più a "vedere" i nostri palazzi e le nostre chiese, i templi e gli archi e gli anfiteatri: sempre più spesso ridotti a comodo fondale per inscenare spot pubblicitari o spettacolini d’ogni sorta. Abbiamo dimenticato facilmente gli orrori del concerto dei Pink Floyd a Piazza San Marco vent’anni fa, con danni molto più costosi degli introiti di biglietteria. Non vogliamo sentirci dire che la bellezza delle nostre città e dei nostri monumenti è fragile, va protetta con la cura amorevole con cui lo fecero le generazioni passate: preferiamo accorciarne la vita, incuranti del futuro, accecando la memoria storica per meschini guadagni immediati, senza nemmeno un pensiero ai nostri posteri. Inutile accusare sindaci, assessori, soprintendenti: se non sappiamo levare la nostra voce, siamo tutti colpevoli.

Anche in un contesto così degradato (che riguarda tutta Italia), Roma è un caso speciale. E’ il sito archeologico più vasto del mondo, e fra i più importanti; ed è insieme la capitale di una grande nazione moderna. Contiene memorie storiche uniche al mondo, per esempio l’arco di Costantino, che proclamandosi cristiano, primi fra gli imperatori, segnò una svolta epocale, la stessa per cui Roma è ancora la sede dei Papi. Impone una sfida senza pari, conservare per il mondo un patrimonio che è di tutto il mondo, e farlo con gli strumenti di un solo Paese. Titolare di questo compito straordinario dev’essere lo Stato o il Comune? C’è una sola risposta possibile: tutte le istituzioni pubbliche devono far convergere i propri sforzi, perché quanto accade a Roma è sotto gli occhi di tutto il mondo, e di tutte le generazioni future. Perciò l’argomento "il Colosseo è dello Stato, la piazza è del Comune" è spazzatura. I monumenti non sono soprammobili, esistono nel loro contesto: è il contesto che va protetto, e i monumenti con esso. A questo alto dovere il Comune è tenuto non meno dello Stato.

Da qualche mese si è svolta una strana diatriba sul commissariamento della Soprintendenza archeologica di Roma, affidato a Guido Bertolaso, che dopo mille polemiche si è da poco dimesso perché sa benissimo che il suo vero posto è in Abruzzo. Molti si sono chiesti, all’estero più che in Italia, che cosa ci stesse a fare un competentissimo esperto di protezione civile come commissario dell’archeologia di Roma. Il danno all’immagine della città, e i probabili danni ai monumenti che ci sta per ammannire la kermesse calcistica in arrivo sono, e saranno, una vera emergenza. Che fosse questa la vera ragione del commissariamento, il disastro non tellurico, ma umano a cui Bertolaso doveva porre riparo?

Per il Foro e il Palatino l’assessore all’urbanistica del Comune di Roma, già aspirante alla carica di commissario per il patrimonio archeologico della città, ha rivelato nel corso di un’intervista quello che sarebbe stato il suo programma: «un piano di interventi organici, perché oggi, al Foro, non ci sono neppure le indicazioni per individuare i monumenti. Lì la gente va a fare una passeggiata, le coppiette si baciano, si siedono su un sasso e non sanno neppure su che cosa si stanno sedendo».

Al di là di ogni banalità e semplificazione, che si possono pur concedere all’intervistato, viene riproposto il luogo comune del Foro privo di indicazioni idonee a facilitare la comprensione delle rovine. I monumenti recano tuttavia da molti anni targhe che ne consentono l’identificazione per dare modo al visitatore di leggerne la descrizione in una guida archeologica di sua scelta, con qualunque livello d’approfondimento e in qualsiasi lingua. Per illustrare il significato d’ogni rilevante segno della storia nel Foro Romano sarebbe necessario installare una selva di tabelloni scritti in più lingue e dotati di disegni, con il risultato di svilire inutilmente il fascino dei luoghi. Mentre tali informazioni sono facilmente reperibili in guide a stampa, l’aura infranta di un paesaggio amato e ricercato così com’è da tanti visitatori di tutto il mondo non sarebbe in alcuna maniera recuperabile.

Del resto la superficialità sembra essere di norma nelle vicende che stanno affliggendo il patrimonio archeologico di Roma. Sono state sbrigativamente adottate dal Governo, con il beneplacito della Regione, misure straordinarie previste dalla nostra legislazione per far fronte a gravi calamità nazionali. È stato necessario, per ottenere questo, rappresentare un’immagine alterata della realtà, e si è così reso ridicolo agli occhi del mondo l’impegno posto dall’Italia nella cura delle antichità di questa città. Si insiste infatti nel sostenere che il Palatino sia gravemente afflitto da problemi di stabilità, che i suoi monumenti principali, come il palazzo dei Cesari, siano a rischio di collasso, e che questo sarebbe dimostrato dal fatto che non sono più visitabili vaste aree una volta aperte al pubblico.

Ma le cose non stanno proprio così. Parte del Palatino è chiusa perché il personale di custodia non è sufficiente per il controllo dell’intera zona monumentale, la quale ha una superficie di 36 ettari. Si tratta quindi di una precisa, e antica, responsabilità governativa. In qualche caso si sono avuti distacchi di pietrisco o di frammenti di malta che, in attesa dei consolidamenti, rendono impraticabile qualche monumento senza tuttavia impedirne la piena osservazione dai percorsi di visita, che sono sicuri e agibili. Tale situazione si riscontra soprattutto per le arcate severiane, all’estremità sud-occidentale del Palatino. L’intera area palatina potrebbe essere resa accessibile facilmente e con poca spesa. Sarebbe però necessario desistere dall´incomprensibile criterio di lesinare le assunzioni del personale di custodia in un settore strategico per l´economia nazionale. La cosa è poi particolarmente insensata e miope nei riguardi di Roma.

Gravi rischi di crolli si ebbero in passato in seguito a dissesti che si erano manifestati nella domus Tiberiana sul fronte del Palatino verso il Foro e sul versante di S. Teodoro. Vi si pose riparo, con annosi, consistenti ma accorti lavori eseguiti nel rispetto dei caratteri monumentali. Non vi sono al momento preoccupazioni analoghe per le strutture prospicienti il Circo Massimo. Interventi di consolidamento restano tuttavia da fare sull’angolo nord occidentale, presso il tempio della Magna Mater.

Attualmente non sussistono per il Palatino problemi tali che possano giustificare l’adozione di procedure amministrative concepite per la protezione civile. La cura dei monumenti romani comporta cospicue esigenze di spesa per la manutenzione, per i restauri e per le opere di conservazione, come si è sempre fatto con le necessarie cautele. A queste esigenze si può oggi sopperire rendendo disponibili gli ingenti introiti che a Roma i monumenti stessi, e per primo il Colosseo, procurano con i biglietti d’ingresso e con altre forme di provento. L’elusione delle norme di trasparenza negli appalti, invocata per attuare interventi immediati in nome di un’inesistente emergenza, rischia non solo di favorire comportamenti discutibili, ma anche di provocare danni ai monumenti e ai suoli archeologici con opere ingiustificate e costose. Una fitta serie di carotaggi incautamente eseguiti alle falde del Palatino, verso il Circo Massimo, ha devastato la volta intatta e splendidamente decorata di un ninfeo già noto dal Rinascimento, ma di cui si era persa l’ubicazione esatta. Per vanità di gloria, risultata effimera e fallace, e sorvolando sui danni, il ninfeo è stato identificato con il Lupercale in una conferenza stampa tenuta il 20 novembre 2007 dal precedente ministro dei beni culturali.

Altre notizie non vere, riprese dalla stampa di tutto il mondo, riguardano presunti danni causati dal terremoto di questi giorni a una delle arcate delle Terme di Caracalla. Si tratta in realtà di una vecchia lesione consolidata definitivamente con un restauro di oltre mezzo secolo fa. La lesione sanata non è in alcun rapporto con i danni che sono stati accertati da qualche tempo e che sono dovuti alla mancanza di ordinarie manutenzioni, quali la caduta di frammenti di mattoni e di pietrisco dalla sommità di alcuni muri. Le Terme di Caracalla, come il Palatino e gli altri monumenti antichi di Roma, richiedono continuità di cure, che evidentemente in qualche caso sono venute a mancare. Non è bello, però, imputare questi danni ad eventi che altrove hanno procurato vere tragedie.

Devo confessare che non mi scandalizza la nomina di un commissario straordinario per l'area archeologica di Roma e di Ostia antica.

Non c'è dubbio che esista, qui, un problema reale di coordinamento ed efficienza: i Fori sono divisi tra competenze nazionali e comunali, gli appalti sottoposti a leggi macchinose, i restauri eseguiti in tempi biblici. E quando occorrono procedure rapide e decisioni centralizzate, non si può negare che Guido Bertolaso abbia dimostrato grande capacità, anche nella cura di monumenti illustri come la Cattedrale di Noto.

Ma è anche evidente che la nomina a commissario del sottosegreta­rio alla Protezione civile, con ampi poteri di deroga alla normativa vigente, non può essere giustificata dall'emergenza: il patrimonio archeologico romano, benché trascurato, non presenta drammatici problemi di sicurezza e le recenti scosse sismiche lo hanno dimostrato.

Credo che la singolare decisione si spieghi, in fondo, alla luce della ventata di «valorizzazioni» di cui i nostri monumenti maggiori sembrano avere improvvisamente bisogno. È questo il nocciolo del problema. E non riguarda solo i Fori od Ostia antica, ma l'intero patrimonio storico.

Si sta consolidando l'idea di una pericolosa distinzione tra tutela e valorizzazione, tra beni culturali «ordinari» ai quali si possono dedicare attenzioni burocratiche e tempi lunghi, e «nobili», che possono rendere, per i quali le normali leggi non valgono.

Alle soprintendenze, dunque, sono affidati la cura scientifica ed i restauri, ma per la gestione dei monumenti più spettacolari ci vogliono attenzioni e poteri speciali. Una deriva pericolosa, che rischia di minare le basi stesse di una cultura diffusa del patrimonio storico unica, è bene ricordarlo, in Europa. Non c'è dubbio che occorra una svolta radicale. Ma, piuttosto che commissariamenti, serve una ristrutturazione profonda dell'intera gestione dei beni culturali, evitare sovrapposizioni e frammentazioni, snellire le normative. Per il bene di tutti i nostri monumenti, senza distinzioni.

Fra le tante previsioni che hanno accompagnato questo 2009, nell'ambito dei beni culturali una delle più facili riguardava l'arrivo dell'ennesima riforma ministeriale: negli ultimi dieci anni, fra i provvedimenti relativi al riordino della disciplina - Testo unico (1999), Codice e successive modifiche (2004, 2006, 2008) - e quelli sul riassetto organizzativo (oltre una ventina), il Ministero dei beni culturali ha vissuto in una perenne modifica degli assetti interni, oltre che del quadro giuridico di riferimento. Questa situazione di costante instabilità non ha mancato di creare difficoltà sia all'esterno - nei confronti degli interlocutori istituzionali nazionali e internazionali, costretti a interagire con amministratori che si succedevano, in taluni periodi, a ritmi vorticosi, per di più operanti sulla base di una cornice legislativa in perenne assestamento - sia all'interno, condannando di fatto i funzionari di via del Collegio Romano a operare in un clima di precarietà, sia organizzativa che normativa.

Problemi, pur gravi, che potrebbero essere controbilanciati da una effettiva e sostanziale riforma della macchina ministeriale, finalmente adeguata, come sarebbe indubbiamente necessario, ai mutamenti di assetto istituzionale (si pensi solo alla modifica del Titolo V della Costituzione), ma anche di più generale cornice legislativa nazionale ed europea (il riferimento, in questo caso, è all'adozione, da parte dell'Italia, della Convenzione sul paesaggio) e soprattutto di contesto culturale, nel senso ampio del termine. Mentre nel settore della disciplina di ambito culturale tale evoluzione è stata raggiunta, pur faticosamente e non senza critiche e rimpianti contrapposti, attraverso la definitiva approvazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio, che dopo le modifiche dello scorso anno ha assunto una versione "definitiva" e la cui efficacia quindi potrà finalmente essere verificata sul campo, non altrettanto può dirsi per l'assetto del Ministero, che continua a essere sottoposto a fibrillazioni, aggiustamenti, ripensamenti, spesso conseguenza delle vicende elettorali o comunque risalenti all'orizzonte politico (sono sei i ministri succedutisi negli ultimi dieci anni) e in ogni caso ancora lontano, a quanto pare, dall'aver trovato un ubi consistam che ne consenta la piena operatività.

Purtroppo tale situazione non è senza conseguenze per quanto riguarda la stessa applicazione del Codice, tanto che è stato facile profeta chi (fra i primi Marco Cammelli) già nel 2004, all'epoca della sua promulgazione, individuò nella struttura ministeriale lo snodo cruciale (e il punto di debolezza...) attorno al quale si sarebbe giocata la reale efficacia di un provvedimento normativo che, superate talune forzature ideologiche del primo momento, è attualmente riconosciuto come uno strumento positivo e in grado di garantire un adeguato livello di tutela e valorizzazione del nostro patrimonio, in sostanziale linea di continuità con una legislazione che rappresenta da molti anni un punto di eccellenza a livello internazionale.

Esempio di tale strettissima interconnessione è la Direzione generale del paesaggio: creata pochi anni or sono e abbinata per alcuni mesi, con non perfetta congruenza, all'arte e all'architettura contemporanee, ha visto l'alternarsi di mezza dozzina di direttori generali in pochi anni. Nella attuale configurazione, denominata PARC, pareva avere assunto un rilievo adeguato al ruolo, strategicamente basilare, che era chiamata a svolgere, vale a dire, in primis, la redazione, in collaborazione con ciascuna delle Regioni italiane (Sicilia, Valle d'Aosta e Province altoatesine escluse), dei piani paesaggistici prefigurati dall'attuale Codice come strumento di tutela e governo del paesaggio e preordinati, nell'intento dei legislatori e secondo quanto ribadito dalla Corte costituzionale, a qualsiasi altro strumento di pianificazione territoriale.

Un formidabile strumento di intervento sul territorio, insomma, che era nato per superare i limiti e le debolezze della legge "Galasso" e che avrebbe potuto essere utilizzato, altresì, come mezzo di costruzione di quella cooperazione istituzionale Stato-Regioni vitale, non solo in questo campo, perché questo nostro Paese possa uscire dalle pastoie di una conflittualità istituzionale che ha seminato soprattutto una vittima: il cittadino italiano. Purtroppo, però, la neonata PARC sta per essere soffocata nella culla, poiché l'ultimo progetto di riforma del Ministero attualmente in discussione la destina a essere risucchiata nel magma di una nuova direzione onnicomprensiva che si occuperà di beni storico-artistici, demo-antropologici, architettonici, arte e architettura contemporanee, paesaggio: tutti insieme appassionatamente.

Non è l'unico arretramento presente: nella definizione delle direzioni generali per i Beni storico-artistici, architettonici, eccetera, e per i Beni archeologici, il ritorno alle rispettive diciture di "Belle Arti" e di "Antichità" può solo apparentemente essere liquidato come una boutade lessicale un po' ridicola; suona invece, oltre che sintomo di provincialismo rétro, quale tentativo di circoscrivere il sistema dei beni culturali nell'alveo più rassicurante di attività destinate ai cultori di un umanesimo erudito e poco incline a misurarsi con le istanze della modernità.

Sospetto, questo, avvalorato dal fatto che nel progetto di riforma non trovano invece risposta alcuna i molti problemi e le carenze di cui soffre il Ministero, acuiti esponenzialmente negli ultimi anni, a cominciare dal rapporto fra strutture centrali e organizzazione sul territorio. Ancora a dir poco ambiguo e affidato a iniziative estemporanee risulta poi l'assetto del sistema di interazioni centro / regioni / enti locali / privati, la cui definizione il Codice si limita difatti a demandare a iniziative successive; come pure irrisolti risultano i problemi sullo statuto delle istituzioni museali e dei parchi archeologici.

E infine, a ribadire il carattere arretrato del disegno complessivo, neanche un cenno a quello che dovrebbe ormai porsi come interlocutore imprescindibile e privilegiato: l'Unione europea, vero e proprio convitato di pietra che si riaffaccia nei programmi ministeriali quasi solo alla stregua di erogatore di risorse, peraltro ormai vitali per la stessa sopravvivenza del Ministero. Con questo giungiamo al problema dei problemi: l'ormai irreversibile crisi di risorse, prima di tutto economiche. Una crisi che, maturata nel corso di più legislature, va assumendo in quest'ultima un carattere di emergenza tale da far parlare autorevoli intellettuali e osservatori politici, primo fra tutti Salvatore Settis, di dismissione de facto del Ministero nel giro del prossimo triennio.

A rendere ancora più drammatico il quadro complessivo si aggiunge l'ormai cronicizzata mancanza di personale, le cui carenze di organico, solo puntellate dalle ultime tornate concorsuali, ma soprattutto tramite il ricorso generalizzato al precariato, rendono a dir poco problematico l'esercizio quotidiano dei compiti di tutela e valorizzazione prescritti, in alcuni casi resi ancor più complessi dai nuovi incarichi attribuiti dal codice (uno fra tutti, la copianificazione in materia paesaggistica) o dall'evoluzione del sistema infrastrutturale nazionale (si pensi, in questo caso, alle attività connesse all'archeologia preventiva che dovrebbero accompagnare le cosiddette "grandi opere").

Per questo la discussione, per molti versi più che altro ideologica, sulla contrapposizione Stato/Regioni - che ha visto scontrarsi fino a pochi mesi or sono i fautori del centralismo duro e puro (in nome di una pretesa maggiore capacità regolatoria dello Stato nell'esercizio della tutela) e i fautori del regionalismo (in nome di un federalismo a volte un po' velleitario e di cui si continuano a fraintendere finalità e limiti) - rischia di essere totalmente scavalcata dall'evoluzione reale, a determinare la quale, molto più delle politiche culturali espresse dal Ministero, stanno incidendo processi decisionali presi in altre sedi istituzionali, a partire da quella di via XX settembre [il Ministero dell'economia e delle finanze, ndr], e non.

La regionalizzazione di determinate deleghe in campo culturale è un approdo ormai inevitabile, comunque lo si voglia giudicare, e in alcuni casi si sta già attuando attraverso la definizione di accordi di programma, convenzioni, programmi quadro: questo processo, così determinante per gli assetti futuri del nostro patrimonio culturale, sta però avvenendo in maniera del tutto episodica e verrebbe da dire estemporanea. Frutto non di un progetto d'insieme, ma di una contrattazione giocata su base locale, questa sorta di "federalismo strisciante", privo di linee-guida politiche alte, scaturite da una progettazione culturale allargata, rischia di risultare sminuito dall'appiattimento su logiche localistiche che finiscono per usare il patrimonio dei beni culturali non come risorsa per uno sviluppo territoriale condiviso, ma come merce di scambio per altre partite politiche.

In sostanza, quest'incessante attivismo riorganizzativo - al quale non sono estranee, spesso, le connesse pratiche di spoil system che esso legittima (a ogni riforma è possibile azzerare i vertici amministrativi del Ministero) e nel quale purtroppo non si intravede un disegno complessivo frutto di una visione culturale organica, per criticabile che sia - impedisce soprattutto il maturare di esperienze amministrative di una qualche rilevanza. Esempio macroscopico è, fra tutti, quello della copianificazione paesaggistica, compito nel quale il Codice, in seguito alle ultime combattute modifiche, riassegna al Ministero una leadership che, disattesa fino a questo momento, appare problematico riaffermare sulla base dello schema prefigurato nel disegno di riforma ormai in dirittura d'arrivo.

In compenso la riforma, con un anacoluto amministrativo che non ha mancato di suscitare polemiche molto vivaci, prevede la creazione di una direzione generale preposta alla valorizzazione dell'intero patrimonio (in una prima stesura limitata "solo" ai musei, ma con compiti anche di tutela sul patrimonio museale) e sulla quale, così come reiteratamente proclamato dai massimi organi politici del Ministero, si ripongono altissime speranze per risolvere i molti problemi che affliggono le nostre istituzioni museali. Che poi il principale obiettivo in questa direzione sia, come dichiarato, rendere maggiormente appetibile al pubblico di turisti più ampio possibile la nostra offerta museale complessiva, scalando le vette della top ten dei musei più visitati (che ci vede al momento esclusi), suscita qualche perplessità.

Intendiamoci: che il nostro patrimonio sia realmente fruibile da un pubblico vasto, è un obiettivo auspicabilissimo, ma ciò deve essere piuttosto il risultato di quell'opera di reale accessibilità alla cultura sulla quale molto deve essere ancora fatto, e che è comunque un processo complesso, lento e oneroso, i cui frutti più solidi non hanno maturazione improvvisa, quasi mai scaturiscono da iniziative che si vogliono immediatamente spendibili sul piano mediatico e sicuramente hanno poco a che fare con la filosofia dei Guinness.

Eppure, per chiudere con una nota di ottimismo, pur con i molti limiti vieppiù evidenti negli ultimi mesi e nella situazione di fragilità gestionale sopra descritta, il Ministero è tuttora in grado di produrre iniziative di rilievo culturale assoluto e internazionalmente riconosciuto: valga, come esempio per tutte, la splendida mostra in corso fino al 7 giugno a Roma, al Museo nazionale romano di Palazzo Massimo alle Terme. "Scopri il Massimo" è la celebrazione, con pochi mezzi e molta intelligenza, dei dieci anni di apertura di uno dei più importanti musei archeologici al mondo: evento illustrato non attraverso la classica esibizione di decine di prestiti di altri musei, ma quasi esclusivamente con il riallestimento, il restauro, la riproposizione, e quindi la valorizzazione, di materiali già patrimonio del museo stesso, a volte provenienti dai cantieri di scavo ottocenteschi aperti sul luogo stesso su cui sorge il museo, oppure esclusi per decenni dalla fruizione al pubblico, o semplicemente riletti attraverso una nuova illuminazione, in grado davvero di rilevarne la stupefacente grandezza artistica, così come nel caso del sarcofago di Portonaccio o del sistema di illuminazione "biodinamico" che restituisce agli straordinari affreschi della villa di Livia a Prima Porta la suggestione del succedersi delle gradazioni luministiche naturali.

Il Presidente del Consiglio ha firmato il 12 marzo un'ordinanza di Protezione Civile per fronteggiare la «grave situazione di pericolo» nell'area archeologica di Roma e provincia. L'avevamo detto ed è successo. Dopo aver presentato un'interrogazione, ancora in attesa di risposta, sul commissariamento dell'area archeologica di Pompei per una emergenza «catastrofica» come l'incuria e il degrado, avevamo previsto che non sarebbe finita lì perché ormai l'uso dell'ordinanza di Protezione civile è diventato uno dei piatti più succulenti del tavolo sempre imbandito del governo della Destra di questo Paese. Tutto è cominciato il giorno dopo l'avvento del precedente governo Berlusconi, quando uno dei primi interventi del nuovo Esecutivo fu la chiusura della neonata Agenzia di protezione civile.

In realtà si tornava, con volontà di restaurazione, al Dipartimento della Protezione Civile alle dirette dipendenze del Presidente del Consiglio dei Ministri. Così Berlusconi si riservava l'utilizzo del potere di ordinanza, attraverso il quale derogare all'universo delle regole. E l'ordinanza, si sa, è sprecata se la si utilizza solo per i terremoti e le alluvioni, che si sperano rari. Allora, contestualmente alla riesumazione del Dipartimento e alla scelta di Guido Bertolaso alla sua guida, il colpo di genio fu quello di istituzionalizzare i «grandi eventi» che potevano così usufruire, attraverso il solito potere d'ordinanza, di prerogative analoghe a quelle invocabili per le catastrofi. Quello che poi successe è ben noto: con i grandi eventi si è fatto di tutto, manifestazioni religiose e popolari, regate veliche, esequie, raduni giovanili, olimpiadi della neve e altro ancora. In questi primi mesi del terzo governo Berlusconi si sono fatti ulteriori «passi avanti» nel rafforzamento del privilegio di gestire la cosa pubblica senza quegli inutili lacci e laccioli che si chiamano regole.

A Napoli, la questione rifiuti è stata «risolta» non solo con un’ordinanza in deroga a 43 norme di tutti i tipi, ma anche sottoponendo le aree di discarica e di trattamento ad una inusitata dichiarazione di «interesse strategico nazionale». Di fatto porzioni di territorio risultano così militarizzate, blindate di fatto all'accesso di chiunque, con una palese caduta dei livelli di controllo democratico nel Paese. Quindi il mondo della cultura ha avuto un sussulto per l'ordinanza su Pompei, già ricordata. Il ministro Bondi, sponsor dell'iniziativa, prima ha applaudito all'attribuzione di un fondo di 40 milioni di Euro al budget commissariale ed ora festeggia la sottrazione di 37 milioni di euro dal bilancio del suo ministero, di cui circa un milione saranno spesi per finanziare la struttura commissariale creata con l'ordinanza relativa ai siti archeologici romani e di Ostia antica. L'«emergenza» questa volta, consiste nella gestione d un po' tutto il patrimonio archeologico di Roma e dintorni, in barba ai poteri di tre Soprintendenze.

L’autore è Senatore PD

Qualche settimana fa, nel raccontare della decisione del Cavaliere di prendere delle sculture antiche dai depositi del Museo Nazionale Romano per decorare alcune sale di Palazzo Chigi, ritenute troppo spoglie per gli splendori del nouveau régime, ricordavo che con i miei studenti mi sono servito di questa vicenda per illustrare aspetti ideologici e storici di un precedente famoso di due millenni or sono, quello costituito dal continuo uso da parte di grandi generali e imperatori romani, che solevano ordinare il saccheggio di santuari e di piazze pubbliche del mondo greco per decorare ville e palazzi dell’Urbe.

Sappiamo da una lettera famosa di Cicerone che le povere statue greche, requisite con metodi spicciativi sovente ricostruiti in dettaglio dagli archeologi, venivano ricollocate nelle nuove sedi con colossali effetti kitsch, propri di tanta parte della cultura dei conquistatori del mondo: la ricostruzione dei "programmi decorativi", ossia delle linee guida dei nuovi significati assunti dalle sculture rapinate, rappresenta uno dei temi più importanti della ricerca contemporanea di storia dell’arte romana, di grande utilità per comprendere la mentalità dei committenti, che di rado si distingue da quella dei parvenus di tutte le epoche e di tutte le latitudini.

Mi chiedevo allora quale fosse il "programma decorativo" alla base di quel "delicato prelievo" dai depositi del Museo Nazionale Romano: ho ricordato l´episodio analogo del secondo governo Berlusconi.

Protagonista l’allora ministro per i Beni e le Attività culturali Urbani, il quale inviò a Bruxelles un busto di Adriano, figura archetipica – a detta dell´allora ministro – di quel Buongoverno che era in quegli anni la parola d´ordine della destra al potere e cara, sempre secondo Urbani, al nostro premier, conquistato dalle pagine della Yourcenar.

Quando scrivevo questa mia recente nota ignoravo le scelte del Cavaliere e a maggior ragione quale fosse "il programma" del nuovo arredo imperiale. Ora il nodo è stato sciolto. I giornali di sabato 14 marzo ‘09 sono pieni di articoli che, non senza alcune imprecisioni e vaghezze, ci informano sui materiali prescelti e persino sulla futura collocazione, se non di tutte, almeno delle principali sculture.

Il pezzo forte del "prelievo" è un gruppo raffigurante Marte e Venere, le cui teste sono in realtà i ritratti di un Marco Aurelio molto giovanile e della sposa di questi Faustina Minore. Il pezzo forte è veramente tale e è lungi dall’essere opera secondaria, trattandosi di un raro pezzo di scultura che immagina entrambi gli Augusti sotto spoglie divine, un’iconografia nella quale è facile trovare uno solo dei due imperatori, ma di rado l’augusta coppia: il gruppo fu trovato ad Ostia nelle cosiddetta "Basilica" agli inizi del secolo scorso, quando la sede naturale per questi trovamenti era il grande museo romano (nulla di simile esisteva ad Ostia): ora la sua nuova sede sarà il pianerottolo dello scalone principale di Palazzo Chigi. Poi si parla di due altri ritratti imperiali, mentre il "Corriere della Sera" afferma che le altre statue sarebbero invece un Ercole e una figura muliebre.

Ma per noi, curiosi della psicologia (e dei gusti) del Capo, il silenzio sulle motivazioni della scelta resta purtroppo assordante. Fortunatamente per noi la luce ci giunge dalla lontana Catania, contenuta in un articolo apparso sempre sabato 14 sul quotidiano "La Sicilia", dovuto alla penna colta e delicata di Michele Nania, il quale spiega tutte le profonde motivazioni del "programma decorativo" concepito per Palazzo Chigi. Con un titolo che trasuda cultura ("Quanto baccano per quattro statue... "), Nania testualmente così ci informa: "tanto per cominciare le statue sono tre e non quattro come sostiene la disinformazia comunista. Imparino a contare, lorsignori: c’è un gruppo marmoreo con Venere e Marte (tema peraltro di cui il signor premier può fare scuola e doposcuola) che sarà collocato alla sommità dello scalone d’onore, dove passano potenti e capi di Stato in visita ufficiale. Poi ci sono altre due cosuzze: una statua di Marco Aurelio e una della moglie Faustina Minore (bravo presidente, la famiglia innanzi tutto), che andranno nello studio privato". Basta con "la solita opposizione cattocomunista, maldestra e disinformata", si lascia sfuggire la sobria e informata penna di Nania, il quale di sfuggita accenna che la discussa trasferta sarda dei Bronzi di Riace per deliziare gli ospiti del G 8 sarebbe ormai cosa fatta ("….. il concitato imperio e il celere ubbidir…."): a noi che credevamo che la cosa fosse ancora in discussione e soprattutto avevamo fiducia che tutti quegli archeologi da poco nominati dal ministro nel Consiglio Superiore avrebbero ben ponderato il da farsi, senza preoccupazione di dar torto al Presidente, finalmente Nania ci fa ora sapere notizie di fonte sicura e soprattutto unica. D’ora in poi la stampa, seguendo l’esempio dotto e informato de "La Sicilia", potrà esplicitare motivi reconditi delle scelte autorappresentative del Cavaliere, messe in atto con i suoi napoleonici "prelievi". Finalmente sappiamo che il gruppo di Marte e Venere è lì, al termine del solenne moto ascensionale dello scalone, per ricordare ad illustri visitatori che il nostro Presidente del Consiglio è tutto armi ed amori: come dice Nania, sul tema Berlusconi può fare "scuola e doposcuola". Ma ci assale il dubbio di essere scarsamente informati sull’augusta biografia: se l’aneddotica sulla galanteria del Cavaliere è ricchissima, confessiamo la nostra pochezza cattocomunista nel sussurrare che ci sfuggono i suoi fatti d’arme.

Alla fine l'ordinanza è arrivata. Il commissariamento dell'area archeologica di Roma e di Ostia antica è stato presentato ieri dal ministro per i beni culturali Sandro Bondi. Con l'assenso della Regione e del suo presidente Marrazzo (rivendicato più volte come «atto coraggioso» dal sindaco Alemanno) e con due aggiustamenti di tiro. Nel primo, il Comune «capitola», uscendo definitivamente dall'operazione come soggetto in causa, evitando così gli scenari più cupi prospettati nei giorni precedenti (l'annessione dei siti); nel secondo, viene ridimensionata l'idea della commissione esterna, riconsegnando così nelle mani del soprintendente (in questo caso, Angelo Bottini) la presidenza del comitato scientifico preposto a indicare un indirizzo e a coordinare le attività del commissario.

Da parte sua, il responsabile della protezione civile Guido Bertolaso entra in scena come «tutore delegato» a tutto campo, un salvatore universale, dai rifiuti campani alla cattedrale di Noto fino alla Maddalena per il G8. E qui, a Roma, con circa 40 milioni di euro al suo attivo da spendere entro il 31 dicembre 2009. «Sono un servitore dello stato, ho accettato a titolo gratuito questo incarico - ha esordito - Da normale cittadino, ho visitato il Colosseo, il Palatino e i Fori, toccando con mano quelle bellezze e la loro vulnerabilità». A sentire le parole del sottosegretario Francesco Maria Giro, il patrimonio archeologico romano somiglia a un bollettino di guerra. Esondazioni, scavi abbandonati da decenni, discariche di immondizia vicino a templi come quello di Romolo, domus pronte al crollo. Secondo Gianfranco Cerasoli della Uil, l'emergenza però sarebbe soltanto un «falso mediatico». L'obiettivo reale? «Riprodurre le tentazioni autoritarie che mirano a superare le legislazione e le regole non solo dei Lavori pubblici, ma anche dello stesso Codice dei beni culturali». E lancia un allarme: «Nell'arco di pochi mesi il soprintendente Bottini verrà pensionato d'ufficio e la gestione rimarrà nelle mani della struttura commissariale».

Per il sub-commissario, i giochi sono aperti. In realtà, il candidato del governo già esiste: è Marco Corsini (venne impiegato nella ricostruzione del teatro della Fenice quando era assessore a Venezia), ma Bertolaso ha risposto picche. «Non abbiamo nessuna esigenza di allargarci. Per gli stati di emergenza abbiamo i nostri ingegneri, gli idraulici, i geologi che si occupano di queste cose».

Se al momento si è riusciti ad evitare la prevaricazione dei funzionari e la sostituzione di ruoli, resta una incognita la nomina ministeriale (quindi politica) di altri due esperti che dovranno lavorare in collaborazione con il presidente-soprintendente. «Non c'è nessun commissariamento della soprintendenza - tiene a sottolineare Bottini - Non è come avviene per i comuni sciolti, dove si cacciano i consoli. La procedura non ci spaventa: l'avevamo già chiesta al precedente governo per la Domus Aurea. Nell'ordinanza che parte «dagli eventi climatici di natura eccezionale verificatisi nei mesi di novembre e dicembre» rimarrebbe in piedi una supervisione statale dei siti archeologici, ma si specifica anche che Bertolaso può far ricorso a liberi professionisti e destituire altri lavoratori qualora ritenuti inefficienti allo scopo. Sarà lui a individuare i soggetti e a dare gli appalti. Per i sindacati, si preannunciano tempi duri durante i mesi dell'emergenza.

Il commissario sarà un «esecutore», potrà avvalersi delle risorse economiche in maniera veloce e avviare la messa in sicurezza di zone pericolanti. Non va comunque dimenticato, spiega ancora Bottini, che fuori dall'ordinanza il tema scottante rimane «la gestione di queste aree. Il Palatino è in parte chiuso non soltanto per problemi di sicurezza dei visitatori, è inaccessibile soprattutto per mancanza di fondi. Si vogliono privatizzare dei servizi?». Per nulla scandalizzato dalla richiesta di statue di Berlusconi per le sue stanze del potere («l'abbiamo già fatto anche per la Corte dei Conti; a Palazzo Chigi avrebbero funzione di rappresentanza sculture comunque negate alla fruizione pubblica e solo per quattro anni»), Bottini chiede invece «grande prudenza» quando si parla di spostamenti di massa, come nel caso delle opere d'arte che dagli Uffizi potrebbero emigrare a Abu Dhabi. «Si tratta di collezioni organiche, non si può menomare una raccolta pubblica di tale rilevanza».

L'idea del trasloco negli Emirati è accarezzata dal direttore generale Mario Resca («lanciata» dal presidente della Regione Toscana) che ieri è finito al centro di un contenzioso fra Consiglio di stato e ministero per i beni culturali: i magistrati incaricati di sorvegliare l'amministrazione hanno restituito a Bondi lo schema di regolamento di riforma del suo dicastero, sospendendo il parere e chiedendo ulteriori chiarimenti. Se un primo rilievo riguarda il numero delle direzioni generali (c'è stata una riduzione del 20% degli uffici dirigenziali), l'altro investe proprio Resca: sarà adatto un manager di casinò e McDonald's a valorizzazione il patrimonio culturale? La domanda resta aperta, nonostante Bondi si sia dato un bel sette in pagella e abbia accettato i tagli furiosi della finanziaria.

«Interventi urgenti di protezione civile». Così recita il decreto legislativo per il commissariamento straordinario dell'archeologia romana di venerdì scorso. Ma qual era l'urgenza effettiva se è stato annunciato un mese e mezzo prima? Nel frattempo poteva crollare il Palatino e andare sott'acqua irreparabilmente la Domus Aurea. E poi, se questi sono i due punti critici, perché si parla di «grave situazione di pericolo in atto nell'area archeologica di Roma e provincia»? Dunque, non soltanto il Comune di Roma e quello di Fiumicino, ma pure Palestrina, i Castelli, Civitavecchia e chissà cos'altro ancora. L'appetito vien mangiando. Inoltre, se si chiama addirittura il capo della Protezione Civile a svolgere questo ruolo strategico, i danni saranno sicuramente ingenti. Così la pensano quanti sono lontani da Roma (e non possono constatare de visu che tutto questo disastro non c'è). Negli Stati Uniti - ne ha parlato il New York Times - penseranno che è meglio tenersi alla larga da questa Roma (e provincia) tanto disastrata. Un bel servizio reso al turismo romano che boccheggia per la latitanza di americani e giapponesi e a rianimare il quale non serviranno né il Parco tematico sulla finta romanità così tenacemente voluto dal nuovo genio del turismo, il vice-sindaco Mauro Cutrufo (e al quale anche la Regione Lazio, orrore, sembra disponibile), né i bolidi della Formula 1 che, fra qualche anno, sequestreranno l'Eur per settimane fra lancinanti rombi di motori. Grande è la confusione sotto il cielo di questa Roma affidata a Bondi, a Giro e ad Alemanno. Tanti gli annunci (spesso sballati), zero le decisioni utili. Oggi capiremo meglio cosa contiene il decreto d'urgenza per il commissariamento. Ma le previsioni promettono poco di buono. Il professor Carandini non sarà più a capo dei superesperti di Bertolaso, essendo stato premiato con altri allori. E’ già qualcosa.

, così come appare chiaro dalla sequenza degli interventi riportati, appare suddivisa fra due eventi prevalenti: la vicenda Englaro usata a pretesto dell’ennesimo attacco alla carta costituzionale e quelle del commissariamento dell’area archeologica più famosa al mondo: si tratta di situazioni distanti per ambito, ma forse non così tanto per ciò che raccontano di questa triste realtà italiana al di là delle cortine fumogene di cui, entrambi, sono ammantati.

Le polemiche, infuocate, che stanno accompagnando la decisione del Ministro Bondi, di concerto con il Sindaco Alemanno, di proporre un commissariamento delle Soprintendenze di Roma e Ostia, sono state ben illustrate, nelle loro motivazioni, dagli interventi ripresi da eddyburg: dal comunicato di Italia Nostra nazionale, agli articoli sulla stampa (Emiliani, l'Unità, La Regina e Torelli, la Repubblica, ed. Roma).

A tali testi rimandiamo per l'illustrazione delle molteplici ottime ragioni che giustificano l'opposizione più netta ad una decisione di questo tipo, a partire dalle risibili motivazioni di straordinaria emergenza apportate a pretesto dell'operazione, così come successe a Pompei, come pure per le modalità prescelte, inopportune sotto il profilo amministrativo (l’assessore all’urbanistica del Comune, investito di compiti di controllo su chi, per legge, dovrebbe controllare gli atti da lui emanati) e approssimative sotto quello istituzionale (neppure un’informazione a Regione e Provincia, in spregio alle più elementari regole di collaborazione fra amministrazioni che operano sul medesimo ambito territoriale).

Ma soprattutto, la gravità di una simile operazione si cela in quel Comitato Scientifico che, affiancando il commissario, dovrebbe, si intuisce, guidarne l’azione sotto il profilo culturale (e quindi di sostanza), esautorando il personale scientifico della Soprintendenza da ogni attività progettuale e di fatto circoscrivendone le competenze a mere mansioni tecnico-burocratiche, poiché nella concezione più volte riaffermata di colui che pare indicato quale capo di tale Comitato, a questo di fatto si riduce l’esercizio della tutela.

La reazione, fermissima, del personale scientifico della Soprintendenza, dal 2 febbraio in stato di agitazione permanente, ha conseguito il primo importantissimo risultato di mettere allo scoperto le molte distorsioni sulle quali poggiano le motivazioni di una simile iniziativa, riaffermando, con giustificato orgoglio, la lunghissima tradizione di straordinari risultati conseguiti dalla Soprintendenza romana in decenni di esercizio della tutela inteso nel senso più completo e ampio del termine e riconosciuto ai massimi livelli dal mondo scientifico internazionale, pur nella situazione di costante, progressivo depauperamento delle risorse cui sono sottoposte tutte le soprintendenze sul territorio.

Prima vittima della disinformazione sulla reale situazione dell’archeologia romana ci pare proprio il Commissario designato, Guido Bertolaso, a giudicare da talune sue piccate reazioni. Il supercommissario degli italici disastri dichiara di aver ricevuto da una lettera del Ministro Bondi informazioni su una situazione "a rischio di instabilità, di degrado irreversibile, di dissesto che possono compromettere l'area più bella e importante del mondo": poiché, vista la reazione dei funzionari della Soprintendenza nel loro complesso, compresi i diretti responsabili delle aree interessate, non è certo da costoro, e quindi dai canali istituzionalmente deputati al monitoraggio dell’area stessa, che Bondi ha ricavato la documentazione che ha scatenato una decisione simile, da quale fonte provengono queste indicazioni?

Adriano La Regina, che di quelle aree e della situazione complessiva della Soprintendenza ha una certa conoscenza, nel suo articolo di domenica scorsa ha tentato di ripristinare con l’evidenza dei dati storici e delle cifre una realtà ben diversa, rivendicando, al personale da lui diretto per lunghi anni, tutte le capacità non solo gestionali, ma anche scientifiche e culturali necessarie per operare in autonomia di fronte a ogni "emergenza".

Siamo facili profeti, dunque, a immaginare che quando il Commissario procederà in primis, come dichiara, ad una ricognizione sui luoghi per verificare lo stato delle cose, avrà probabilmente qualche sorpresa e si accorgerà che le uniche situazioni, per dir così, approssimative, sono da imputare non agli scavi e alle attività direttamente condotte dalla Soprintendenza, ma a quelli generosamente e per lungo tempo dati in concessione a universitari troppo impegnati nella pubblicizzazione di presunti scoop scientifici per occuparsi di manutenzione ordinaria. Per il resto vedrà i segni dei lavori incessanti di restauri infiniti, come inevitabile in aree di così ampia estensione e di situazione geologica così compromessa come quelli dell’area centrale; opere che si potrebbero facilmente accellerare e concludere con procedure ordinarie e l’assegnazione di fondi adeguati, così come successe in anni non lontani di fronte a situazioni per lo meno altrettanto gravi.

Che poi, come nota Bertolaso, a Pompei non vi sia stata, di fronte al commissariamento, uguale reazione di protesta da parte del personale della Soprintendenza, ciò è imputabile alla presenza, alla guida del sito campano, di un Soprintendente del livello culturale e del carisma personale di Piero Guzzo, in grado quindi di tutelare gli spazi di azione e le competenze della Soprintendenza stessa, operazione nella quale è stato infatti costretto a impegnare le proprie energie per lunghi mesi, mentre, come è ormai chiaro a tutti, stampa e mondo scientifico internazionale compresi, il commissariamento non ha finora prodotto che qualche miglioria igienico-idraulica e qualche danno archeologico.

Nel suo articolo sul Corriere, Bertolaso elenca infine una lunga serie di interventi in ambito culturale cui la protezione civile è stata chiamata nel corso degli ultimi anni: quell’elenco sta a dimostrare, nella maniera più efficace, quanto sia ormai reiterata e diffusa la pratica del ricorso ad un organismo creato per altri obiettivi e di sicuro non per sostituirsi alle normali pratiche di manutenzione ordinaria, di restauro e gestione del patrimonio.

Dunque la pretesa emergenza romana può essere ricondotta all’interno di un’operazione ben più ampia che, anche se a volte appare scomposta e approssimativa nelle modalità istituzionali, è ormai diffusa in molti diversi ambiti e rappresenta il tentativo reiterato di scardinamento complessivo del sistema di regole e principi attualmente vigente sul piano della legittimità giuridica, sistema che, continuamente rimesso in discussione, soprattutto per questo risulta minato costantemente nella propria efficacia istituzionale.

Questo accade sul versante della riforma del sistema della giustizia, su quello dei diritti civili sistematicamente negati ai non cittadini, sulle questioni delicatissime della bioetica e, allo stesso modo, in quello della tutela del nostro patrimonio culturale.

I meccanismi sono assai simili: la creazione di un’emergenza fittizia che funga da pretesto per operare attraverso scorciatoie amministrative e un allentamento dei controlli ordinari. E assieme, e strettamente connesso, il tentativo di ingabbiare e svilire l’operato di chi è preposto a determinati compiti non per nomina politica ma per competenza legalmente riconosciuta (medico, giudice o archeologo che sia) e quindi non sufficientemente affidabile perché non dipendente da una volontà che non sopporta opposizioni o rallentamenti e che anzi trasforma coloro che resistono in nemici da sconfiggere e punire.

Un'ultima considerazione: in questi tempi pericolosi e difficili in cui si sta svolgendo uno scontro pesante fra chi cerca di tutelare le regole più elementari e fondanti di una civile democrazia e chi, d'altro lato, si scaglia eversivamente contro la nostra Costituzione, anche questa partita, apparentemente marginale, ci riporta al cuore di un conflitto che non appare più rinviabile.

E questa vicenda non riguarda quindi semplicemente il futuro prossimo dell’archeologia romana, né è circoscrivibile ad un ambito municipale, ma investe necessariamente il destino dell’intero patrimonio culturale nazionale.

Per questo siamo tutti chiamati a una tenace resistenza, ciascuno nel proprio ambito.

A esortazione per tutti noi, mi sembrano cupamente adeguate le parole di Eugenio Scalfari nel suo editoriale di domenica scorsa, allorchè ripercorreva, con qualche brivido, le fasi dell’ascesa della dittatura fascista:

"In quel passaggio del 3 gennaio ´25 dalla democrazia agonizzante alla dittatura mussoliniana, gli intellettuali ebbero una funzione importante.

Alcuni (pochi) resistettero con intransigenza; altri (molti) si misero a disposizione.

Dapprima si attestarono su un attendismo apparentemente neutrale, ma nel breve volgere di qualche mese si intrupparono senza riserve.

Vedo preoccupanti analogie. E vedo titubanze e cautele a riconoscere le cose per quello che sono nella realtà. A me pare che sperare nel "rinsavimento" sia ormai un vano esercizio ed una svanita illusione."

Ciascuno faccia la propria parte.

Per aderire all’appello delle Soprintendenze di Roma e Ostia contro il commissariamento

Beni culturali, opposizione in stato confusionale. Dalle opere a Palazzo Chigi all'ok per il commissariamento delle aree romane

Un'interrogazione al ministro Bondi per chiedere informazioni sul destino delle quattro statue che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha chiesto per sé e il suo parterre, a «decoro» delle stanze del potere a Palazzo Chigi. A perderle, sarebbe il Museo delle Terme di Diocleziano e a condurle fra gli scranni del Parlamento è stata ieri la capogruppo del Pd, Manuela Ghizzoni. Peccato che la questione del tour didattico (così come quello annunciato dei Bronzi per il G8) sia noto già da circa un mese e non si capisce perché l'opposizione se ne accorga solo in punta di primavera. Una delle statue richieste sarebbe in realtà un magnifico gruppo marmoreo, quello di Marte e Venere, rinvenuto durante gli scavi di Ostia. La «scusa pubblica» per quest'atto di spoliazione governativo è che le suddette sculture giacciono impolverate in bui depositi museali. La notizia è falsa: le opere sono allestite in sale chiuse e sprangate da tempo a causa della cronica mancanza di fondi, della carenza di guardiania e dell'impossibilità di far fronte ai costi di gestione del museo. E come ha risposto a tutto ciò il governo? Non certo offrendo alla fruizione collettiva (italiana e straniera) quei capolavori cercando di «oliare» la macchina dei beni culturali con un qualche flusso finanziario; al contrario, ha chiuso i rubinetti, tagliando ulteriormente le risorse del patrimonio culturale, lo stesso che a più riprese i suoi rappresentanti non perdono occasione di definire, con enfasi mediatica, «il grande giacimento petrolifero del nostro paese».

In più, il trasferimento delle statue, in perfetto stile napoleonico, finisce per avere un alto valore simbolico, essendo il museo interessato da quella «rapina» il primo a costituirsi dopo l'unità d'Italia. Potrebbe essere uno degli ultimi atti dell'era Bondi - corta, incisiva e nefasta - prima che il ministro prenda il volo per coordinare le attività del Pdl. Dietro di sé, lascia in eredità ai posteri il direttore generale Mario Resca (esperto in hamburger e casinò) e probabilmente un'idea di trasformare i reperti in slot machine da far fruttare a ogni giro di manovella. Sull'uso di quelle manovelle si destreggerà, come ventilato, Quagliariello? Sicuro è invece che chi salirà al timone del dicastero dovrà farsi un viaggetto a Abu Dhabi. Certo, se l'arte deve fatalmente vagabondare per il mondo, Palazzo Chigi è una mèta meno impervia e più vicina degli Emirati...

Sulle varie questioni scoppiate intorno al caso «beni culturali», la cosa pià grave è che l'opposizione sembra essere entrata in stato confusionale. Se l'archeologo Andrea Carandini, un tempo spirito libero della sinistra, risponde sollecito alla chiamata di Bondi, non perde un minuto e corre ad occupare la poltrona ancora calda dell'(ex) amico Salvatore Settis al Consiglio superiore, dall'altra parte, la Regione Lazio «crolla» sul commissariamento dell'area archeologica romana e di Ostia, ritenuta da molti un nuovo «sacco di Roma».

Dopo una lotta quotidiana - fino a ieri mattina ancora in corso - condotta dall'assessora alla cultura Giulia Rodano contro l'emergenzialità che rischia di cancellare le figure dei soprintendenti (coadiuvata da Giovanna Melandri, responsabile cultura Pd e da Cecilia D'Elia, assessora alle politiche culturali della Provincia, pronte entrambe a non accettare la messa sotto «tutela politica» di insigni studiosi e esperti di settore), il presidente Piero Marrazzo ha pensato bene di sparigliare la sua stessa giunta - e quelle «amiche» - nel tardo pomeriggio. Con un lancio di agenzia ha fatto candidamente sapere a tutti di aver dato l'assenso al commissariamento, purché a tempo limitato e purché Bertolaso rispetti le regole, non spazzi via le competenze dei soprintendenti. Una scelta avvenuta dopo il pressing del decreto della protezione civile che paventa possibili crolli nell'area del Palatino, resi più concreti dalle abbondanti piogge della stagione. A ruota, si sono congratulati con Marrazzo il sottosegretario Giro, il sindaco Alemanno, l'assessore Croppi. La sua è una posizione «non ideologica», hanno detto. Resta il fatto che la Regione non ha poteri decisionali, elargisce solo pareri. Che bisogno c'era allora di srotolare quel tappeto rosso? «L'importante - afferma Giulia Rodano - è vigilare che non venga toccato l'equilibrio dei poteri sul territorio e che, surrettiziamente, il commissariamento non sia una consegna delle aree al Campidoglio». Infatti, il commissario esiste già e non è Bertolaso: si chiama Angelo Bottini, soprintendente statale.

Signori, si chiude. La Cultura, i Beni culturali, le Soprintendenze, la tutela del Belpaese, intendo. Mentre Obama investe, come misura anti-crisi, in cultura, Zapatero pure e Sarkozy alza a 500 milioni di euro i fondi per i restauri, Berlusconi e Tremonti tagliano le risorse ordinarie per i Beni culturali di 1 miliardo e 403 milioni di euro in tre anni (quest’anno si comincia con 498 milioni in meno). Al CIPE di venerdì l’ultimo schiaffo al fido Bondi (dato ormai in uscita dal Collegio Romano): neppure un euro ai Beni culturali dai fondi generosamente elargiti, sulla carta, ad opere grandi e meno grandi. Nel contempo però parte, contro le Soprintendenze e i vari uffici ministeriali, una campagna strumentale sui residui passivi che ammonterebbero a meno di mezzo miliardo (in realtà sono pure di più, se non ci si ferma alle contabilità speciali), comunque risultano addirittura dimezzati rispetto a pochi anni or sono. Intento della campagna?

Screditare Ministero dei beni culturali e tecnici che si lamentano dei tagli e non sono neanche buoni a spendere i fondi... «Pura demagogia, una strumentalizzazione propagandistica», la definisce Paolo Leon, docente a Roma 3, uno dei rari economisti a conoscere a fondo i beni culturali. «Quei residui passivi fanno spesso parte di somme stanziate in passato, anni e anni fa, e che sono state già impegnate. Credo che ci siano ancora residui del Fondo investimenti occupazione e addirittura dei Giacimenti culturali di De Michelis...». Quindi roba di una ventina di anni or sono. «E comunque riguardano spese in conto capitale», chiarisce ancora Leon, «cantieri che ci mettono molto ad avviarsi e che vanno per le lunghe, ma che hanno generato opere, restauri, occupazione. Magari attingendo a leggi speciali di difficile utilizzazione». Mentre coi tagli odierni la mannaia cade sulla spesa corrente, quindi su quanto rimane del funzionamento quotidiano dell’Amministrazione, che risulterà sempre più inceppata anche sul versante dei lavori, dei restauri, degli appalti, ecc. Scriveva in modo competente nel luglio scorso Antonello Cherchi sul Sole 24 Ore: «Beninteso, non è certo con tali cifre che si può pensare di risolvere i problemi strutturali del ministero. Né, tantomeno, quelle disponibilità rendono giustificabili gli attuali tagli al budget ministeriale». Ineccepibile. Pur restando l’esigenza di rendere molto più funzionale la macchina senza depotenziarla in corsa.

IL QUADRO DEL DISASTRO

Mercoledì si è tenuto il primo Consiglio superiore del dopo-Settis e i vari direttori generali vi hanno rovesciato le loro doglianze. Ben riassunte in documento della Uil-Bac riassume. Francesco Prosperetti, direttore generale per la Qualità e la tutela del Paesaggio: «La consistenza delle risorse vede una drastica riduzione tra 2008 e 2009 del 46,34 %, con un abbattimento del 35,08 per la tutela e addirittura del 93,97 per la ricerca». Roberto Cecchi, Beni architettonici e storico-artistici: «Le risorse del 2009 non saranno sufficienti a ricoprire le spese legate al quotidiano funzionamento degli Istituti, delle Soprintendenze, e dei Musei». Stefano De Caro, Beni archeologici: «La riduzione dei fondi ha indotto già alcune Soprintendenze, nel corso del 2008, a rappresentare la necessità di ridurre alcuni servizi, fino a prefigurare la chiusura di alcune sedi», cioè di talune Soprintendenze, siti e musei archeologici. Maurizio Fallace, Beni librari: «Indebolimento delle biblioteche pubbliche statali in tema di conservazione, preoccupazione per biblioteche dotate di autonomia come la Nazionale di Firenze e per il Centro per il Libro», a zero fondi. Luciano Scala: «La riduzione riguarda gli affitti di sedi di archivi e di Soprintendenze archivistiche, e gli investimenti”. Antonella Recchia, Formazione del personale: «Colpite le spese per formazione, aggiornamento e perfezionamento e la stessa Scuola di Oriolo Romano». Con la riduzione di questo capitolo fondamentale di spesa a 0,6 centesimi per dipendente. Elemosine.

Cominciano le intimazioni a pagare le bollette inevase pena il distacco della corrente elettrica: succede alla Soprintendenza di Lucca - racconta Gianfranco Cerasoli, segretario della Uil-Bac - debitrice per 90.000 euro che non ha in cassa. Presto negli uffici mancheranno i soldi per gli straordinari, per i telefoni, per la cancelleria, per i francobolli, per la carta delle fotocopie e per quella igienica nei bagni dei musei. Allegria. Mentre si parla a tutto spiano di «valorizzazione» turistica dei Musei. Mentre resta quanto meno opaca la gestione, separata e grassa, di Arcus. Mentre gira insistente la voce che si voglia commissariare, dopo Pompei e (decisione attesa da oltre un mese) dopo Roma e Ostia, Soprintendenze speciali con forti somme in cassa, anche Brera. Dove ad un esperto di recente acquisizione avrebbe dato, si sussurra, molto fastidio la vista dei ponteggi alzati per restaurare (finalmente) l’arioso cortile del Piermarini. Secondo lui, «disturbavano i turisti». Si commissariano le Soprintendenze, magari con personale della Protezione civile svilendole e svuotandole di funzioni. Mercoledì il Consiglio - convocato dal vice-presidente Antonio Paolucci, tuttora in carica - ha votato all’unanimità due mozioni: una per consentire alla Direzione generale per la Qualità e la tutela del Paesaggio di vivere; l’altra per condannare questi tagli feroci che mettono in pericolo la tutela e il funzionamento stesso dei beni culturali. Ma quanto servirà? O non occorrono azioni più incisive, anche contro questa strumentale polemica sui residui passivi?

Tagli di spesa nei Beni Culturali (in euro)

2009: - 498 milioni

2010: - 412 milioni

2011: - 493 milioni

Totale 2009-2001: - 1 miliardo 403 milioni

Taglio di spese per la tutela nel 2009

- 35,08 per cento

Taglio di spese per la ricerca nel 2009

- 93,97 per cento

Visitatori Musei, Aree archeologiche e Circuiti Museali (in unità)

1996: 25.029.755

2000 : 29.798.728

2005 : 33.048.137

2006 : 34.574.591

2007 : 34.439.011

Var. % 1996/2007 + 37,59

Visitatori primo sem. 2008 (rispetto al primo sem. 2007)

- 3,65 %

Introiti di Musei, Aree Archeologiche e Circuiti Museali (in milioni di euro)

1996: 52,7

2007: 106,0

Var. % 1996/ 2007 + 101,14

Centinaia di turisti in fila davanti al Colosseo. Ma a bocca asciutta. L’nfiteatro Flavio ieri è rimasto chiuso tutta la mattinata, insieme con Palatino, Caracalla, Foro e Museo nazionale romano. Non succedeva da anni che il Colosseo di Roma rimanesse chiuso fino a mezzogiorno. Solo in situazioni gravi i lavoratori non aprono i cancelli. Stavolta, erano tutti in assemblea. Per protestare contro il commissariamento dell’area archeologica centrale, e di Ostia, deciso dal ministro dei Beni culturali Bondi che ha indicato in Guido Bertolaso, capo della Protezione civile, il commissario.

Archeologi, impiegati, custodi, si sono riuniti ieri a palazzo Massimo alle Terme. E si sono dati appuntamento per un sit-in giovedì prossimo. Proprio davanti al Colosseo, che rischia di rimanere un’altra volta chiuso per lo stato d’agitazione indetto un mese fa. Stavolta però, sul banco degli imputati, i lavoratori della Soprintendenza speciale di Roma hanno messo anche il soprintendente Angelo Bottini, "che non ha mai convocato ufficialmente il personale né i rappresentanti sindacali - sostengono gli archeologi - per condividere informazioni e strategie sulle ipotetiche, future forme di gestione e organizzazione".

Secondo il piano del ministero - preparato dal sottosegretario Francesco Giro - il commissariamento servirà a debellare il degrado delle aree archeologiche di Roma e Ostia e a intervenire rapidamente, saltando le lungaggini delle leggi sugli appalti pubblici, sulle emergenze, come Palatino e Domus Aurea. "Queste motivazioni non sono sufficienti" hanno ribadito i dipendenti di Roma e Ostia antica. Che, tra l’altro, domandano a Bondi: "Perché è stata proposta la nomina di un commissario proprio nella riunione di insediamento della Commissione Stato-Comune, in cui si decide il passaggio della valorizzazione dei Beni Archeologici dello Stato al Comune di Roma?" Polemica con il ministro l’assessore alla Cultura della Regione, Giulia Rodano: "Non servono commissari, ma risorse agli uffici tecnici di cui lo Stato è già dotato. Ovvero, le soprintendenze archeologiche".

Baricco nei giorni scorsi si è posto, e ci ha posto, delle giuste domande, che anche la politica, quella sinceramente interessata alla cultura, dovrebbe porsi. Ma non tutte le sue risposte mi convincono. Baricco ci ricorda che le più importanti agenzie culturali del nostro tempo sono la scuola e la televisione, ci invita, dunque, a concentrare la nostra attenzione su entrambe. Lasciamo al mercato, dice poi, la produzione di un’offerta che incontri una domanda di cultura più esigente. Si può essere d’accordo con la tesi di Baricco, a due condizioni però. Primo. Non nutrire illusioni sul fatto che una ritirata dello Stato dalla promozione e finanziamento della cultura coincida con una consistente avanzata del privato. Nella mia esperienza di ministro dei Beni Culturali ho verificato che le risorse pubbliche e private o crescono insieme o insieme deperiscono.

Secondo. Non accaniamoci a colpire il bersaglio sbagliato: ovvero le scarsissime risorse che lo Stato destina allo spettacolo e alle attività culturali. In tal senso, trovo poco convincente la risposta del ministro Bondi che propone una rete Rai finanziata interamente dal canone e dedicata alla cultura. Il rischio è di ridurre uno dei canali nazionali del servizio pubblico a televisione tematica (per realizzare la quale, c’è dietro l’angolo la tanto attesa transizione al digitale terrestre). Piuttosto, facciamo un salto vero nel cuore irrisolto del sistema mediatico televisivo. Togliamo del tutto, o gradualmente, la pubblicità dal servizio pubblico. Liberiamo le risorse pubblicitarie con un meccanismo antitrust che agevoli lo sviluppo di nuovi operatori, uscendo dal giurassico duopolio Rai-Mediaset. Facciamo coraggiosamente un servizio pubblico di qualità che torni a essere la più importante agenzia culturale del nostro Paese.

Qui Baricco ha ragione da vendere. Poi, certo, innoviamo, razionalizziamo e snelliamo le procedure per l’accesso al Fondo unico dello spettacolo. Sapendo però che stiamo parlando di 320 milioni, meno cioè di quelle risorse che ogni anno vanno in fumo in residui passivi nei Beni Culturali: denaro stanziato ma non speso a causa della lentezza delle procedure amministrative. E usciamo dalle vecchie dicotomie che imprigionano le politiche culturali: conservazione versus promozione, pubblico versus privato. Uno Stato in fuga dalla Cultura, mette in fuga da essa anche i privati. L’Italia rischia di essere un Paese fuori sincrono, lontano da ciò che avviene attorno a noi. Negli Usa dopo 15 anni di riduzione Obama aumenta gli stanziamenti per la cultura. Sarkozy davanti alla crisi stanzia 100 milioni di euro in più per i monumenti, oltre ai 300 già deliberati per il patrimonio artistico. Le politiche culturali, nei tempi della crisi, non sono un problema, piuttosto un’opportunità. Allora, caro Bondi se proprio vogliamo fare come Sarkozy troviamo il coraggio di farlo fino in fondo.

Al grande pubblico e ai turisti la protesta delle Sovrintendenze archeologiche diventerà «visibile» venerdì. Monumenti chiusi, almeno dalle 9 del mattino a mezzogiorno, in tutta Roma. Gli archeologi insieme al resto del personale della Sovrintendenza si riuniscono in assemblea, promossa dalle rsu (le rappresentanze sindacali unitarie): all'ordine del giorno ancora il no al commissariamento decretato dal ministro dei beni culturali per le prestigiose aree archeologiche di Roma e Ostia. Ma non solo: anche il contestato avvicendamento tra Settis e Carandini a capo del Consiglio dei beni culturali rientra nella protesta, insieme alla politica dei prestiti di beni (a Roma è in ballo quello di quattro statue del Museo delle Terme chieste da Palazzo Chigi).

E così venerdì chiudono monumenti come il Colosseo, i Fori, il Palatino, la Casa di Augusto, le quattro sedi del Museo nazionale romano, le Terme di Caracalla, le vestigia sull'Appia a partire dalla Villa dei Quintili. Insomma tutta la grande Roma monumentale dell'archeologia classica. La protesta già in corso da un mese, scattata subito dopo la decretazione ministeriale, interessa anche Ostia Antica. Anche lì archeologi e personale si riuniscono in assemblea. L'assemblea di Roma si terrà nella sala del Museo di Palazzo Massimo. A Ostia prevista la partecipazione dei vertici del Municipio XIII. In un testo diffuso gli archeologi hanno ricordato lo smacco subito: «Nelle nostre aree archeologiche, come possono constatare i visitatori, non si trovano situazioni oggettive di degrado e di emergenza tali da giustificare il ricorso a poteri straordinari, perfino di protezione civile. Nè ravvisiamo sovrapposizioni di competenze tra stato ed enti locali che, sempre secondo il comunicato del ministro Bondi, debbano essere risolte con l'istituzione di un tavolo tecnico deputato ad individuare un “comune indirizzo di tutela, valorizzazione e promozione” ». Ancor più piccata la reazione espressa dagli archeologi di Ostia Antica. «Il preannunciato provvedimento, che, giova ricordarlo, ha per oggetto le aree archeologiche più prestigiose e considerate a più alto “reddito” della nostra regione - avevano denunciato nella scorsa assemblea - , mortifica la professionalità di tutto il personale di Ostia (dai tecnici, agli ammini-strativi, agli addetti alla vigilanza) e svuota, di fatto, di contenuti l'attività della soprintendenza».

Tra gli “istituti e luoghi di cultura”, il museo è la “struttura permanente che acquisisce, cataloga, conserva, ordina ed espone beni culturali per finalità di educazione e di studio”, così vuole il codice dei beni culturali e del paesaggio (art. 101). E il codice civile nelle “raccolte”, come insiemi inscindibili, dei musei pubblici riconosce natura demaniale (art. 822). Il vincolo unitario alla finalità esclusiva di educazione e studio (la speciale pubblica fruizione dei musei) si oppone necessariamente alla estrazione da quell’insieme di un singolo o più beni per una diversa destinazione. E deve perciò ritenersi abrogata la disposizione regolamentare (r.d. n. 1917 del 1927) che prevedeva la concessione in uso “ad altre amministrazioni” “per fini di arredamento e decoro” di oggetti anche compresi nelle raccolte museali (ampiamente praticata in passato, ha comportato una non irrilevante dispersione: converrà ora progettare il generale rientro).

E’ compito dei direttori dei musei, consegnatari, secondo il lessico burocratico, delle raccolte, assicurarne la integrità e, nella loro riconosciuta autonomia tecnico-scientifica, difenderla da ogni contraria pretesa. Anche se avanzata da superiori gerarchici (il direttore generale), da chi sia investito dei più elevati ruoli istituzionali e perfino dal presidente del consiglio. Il quale oggi, come si è appreso dalla stampa, intende arredare le stanze della propria sede in palazzo Chigi con quattro celebri statue del Museo nazionale romano delle Terme, come se ne avesse la libera disponibilità. Pretesa del tutto arbitraria (perciò resistibile) che non può certo dirsi legittimata dalla considerazione che la grande aula in cui quelle statue sono conservate non è ancora, nella operazione di generale riordino del museo, aperta al pubblico. Si è letto che la passione di Berlusconi per le statue delle Terme sia stata accesa nella occasione della conferenza stampa di annuncio del G8, ospitata appunto nell’Aula XI del complesso monumentale delle Terme di Diocleziano che vanta interventi architettonici michelangioleschi ed è sede del primo museo archeologico nazionale.

Ma l’ambizione di arredi di statuaria romana della più alta qualità per la stanza del presidente del consiglio non può essere soddisfatta per sottrazione dal Museo delle Terme, lo vietano ragioni di cultura che sono divenute interdizioni assolute del Codice dei beni culturali. E in uno stato di diritto non disperiamo che esista una autorità, sia infine un giudice, che quel divieto farà in effetti valere.

Analoga preoccupazione e sorpresa desta il progetto di convocare per il G8 all’isola della Maddalena i due “famosi” Bronzi di Riace che, dopo un restauro assai delicato e impegnativo, sono stati integrati, e sono esposti, nel Museo nazionale di Reggio Calabria. Si è letto che l’idea sia stata di Mario Resca, il manager designato alla costituenda direzione generale alla “valorizzazione” (se questa è valorizzazione). Il progetto è discusso tra Sindaco reggino (dapprima contrario, poi convinto che la cosa giova al buon nome della città che li conserva) e Ministro per i beni culturali, ma è avversato dal neoeletto presidente sardo che rifiuta l’invasione straniera e offre più pertinenti, autoctone, statue nuragiche di Monti Prama. Avvilente la schermaglia. Si odono appena le riserve del Direttore del Museo reggino, ben a ragione preoccupato per la stessa fisica integrità a rischio.

Neppure le così intese esigenze del prestigio nazionale, che si vuole esaltato con la esibizione alla adunanza dei paesi più ricchi del mondo degli unici originali bronzi greci del V secolo posseduti dai nostri musei, possono valere a superare il divieto di usare i beni dei musei (e che beni nella specie) per fini che non sian quelli di studio ed educazione. Sia convinto il direttore del Museo, di cui si intuisce il disagio, che neppure il presidente del consiglio ha il potere di superare il suo motivato e responsabile diniego alla insulsa, offensiva, pericolosa trasferta dei Bronzi di Riace.

Qualcosa tiene insieme le dimissioni di Settis e molti altri studiosi dal Consiglio Nazionale dei Beni Culturali; le spallucce con cui il ministro Bondi ha risposto; la soppressione della Darc/Parc (architettura, paesaggio e arte contemporanea) e la nomina di Mario Resca (presidente del Casinò di Campione, da cui non si è dimesso - come Umberto Broccoli, neo sopraintendente del Comune di Roma, resta giornalista Rai) a un'indefinita Direzione generale per la valorizzazione dei beni culturali; il viaggio dei Bronzi di Riace alla Maddalena per mostrarli ai «grandi della Terra»; lo spazio con cui La Repubblica ha lanciato la proposta di Alessandro Baricco di sopprimere i finanziamenti pubblici al teatro.

Il risultato è un attacco - forse più grave che nello stesso Ventennio fascista, quando Mussolini ogni tanto correggeva i vari Ojetti e Farinacci pronunciandosi per l'«arte del proprio tempo» - alla cultura intesa come interesse generale, valori condivisi, patrimonio artistico e culturale «che appartiene alle generazioni future», dunque non da preservare da operazioni pubblicitarie di dubbio gusto. In particolare alla nuova produzione artistica: Baricco poco tollera il costoso teatro di regia, per lui la musica contemporanea non deve proprio essere più eseguita perché incomprensibile; Bondi appena arrivato al Collegio Romano ha dichiarato di non capire gli artisti contemporanei...

Il bersaglio è l'autonomia delle competenze e del sapere tecnico scientifico, che devono essere rigidamente subordinati al governo e alla managerialità (un idolo che dovrebbe generare qualche perplessità nella grande crisi). Il filo dell'autoritarismo, dell'insofferenza per critiche e dissenso, lo lega ad altre grandi manovre: contro la magistratura, o contro l'Università e la scuola, cui si tagliano potere e risorse presentandole contemporaneamente all'opinione pubblica sul banco degli imputati per tutte le colpe della politica e per tutte le ragioni del declino italiano. Questo senza troppo contrasto dell'opposizione. Esemplare la vicenda del decreto Gelmini sull'università, dove sono state ottenute - esaltandole come una vittoria contro le «baronie» - farraginose nuove norme concorsuali; mentre è dovuto intervenire Napolitano per denunciare all'opinione pubblica i rischi dei tagli feroci previsti per il 2010 al bilancio delle università, che di fatto aboliscono la possibilità stessa di nuovi concorsi...

Settis ha fatto benissimo: i beni culturali non sono una merce, non da loro direttamente ma dall'indotto che generano si può sviluppare un'economia virtuosa, che non si esaurisca nella sorpresa pubblicitaria, ma sappia entrare in sintonia in modo durevole con il bisogno di produzione d'immaginario. Che potrebbe nascere ancora dai centri storici italiani. Da Roma, Firenze, Napoli, se, anziché shopping mall a cielo aperto tornassero ad essere i luoghi del desiderio per il mondo intero ( lo aveva un po' fatto William Wyler con Vacanze romane)... Vanno sottratti al mercato ed alla politica, sono patrimonio di tutti, devono autogovernarsi attraverso organi tecnici. Questo non può avvenire senza il massimo di autonomia e di libertà, la liberazione della cultura dalle pastoie della (cattiva) managerialità e politica.

Un tempo l'Italia aveva uno straordinario sistema policentrico di Sopraintendenze, sorrette da Istituti Centrali, che esaltavano il potere del sapere. Il mondo ce l'invidiava, e l'abbiamo distrutto, riducendo alla metà i bilanci, non bandendo più concorsi per rinnovare gli organici, non adeguando le retribuzioni, subordinandolo sistematicamente a controlli burocratici, pretenziosità manageriali e politiche, umiliandolo con immotivati commissariamenti (che finora non hanno risolto, vedi Pompei, nessuno dei problemi per cui sono stati istituiti).

L'opposizione non è senza gravi responsabilità. È stato Rutelli ha sottrarre al Consiglio nazionale dei Beni culturali la nomina del proprio presidente riservandola al ministro. Sono stati Bettini e Veltroni a calcare la mano (il modello Roma) sull'uso della cultura come vetrina pubblicitaria per la politica (il tappeto rosso alla Festa del Cinema). È stato Veltroni ministro a varare in pochi giorni la trasformazione dello stato giuridico degli enti lirici in fondazioni private, svendendo così al privato potere, ma ottenendo in cambio un aumento di risorse inferiore al 10%.

La storia degli enti lirici ricorda la svendita del patrimonio pubblico attraverso la Scip... Siamo abituati al terzismo degli editorialisti del Corriere della Sera; l'affare Baricco inaugura un nuovo terzismo, sulle pagine culturali di Repubblica? Baricco rovescia Pasolini, che voleva «abolire la tv e la scuola dell'obbligo«, responsabili dell'omologazione e del «genocidio culturale». Per Baricco, che cova un lungo rancore contro il teatro dai fiaschi di Davila Roa all'Argentina e dal molto modesto successo della sua Iliade senza Dei allestita dal RomaEuropa Festival, si può lasciar fare ai privati, che oggi purtroppo avrebbero «margini di manovra minimi». Davvero? «Chi oggi non accede alla vita culturale abita spazi bianchi della società che sono raggiungibili attraverso due soli canali: scuola e televisione».

Di nuovo, davvero? L'idea di una convivenza civile che si sviluppa negli spazi pubblici della città, che è fatta di esperienze e scelte dirette non mediatizzate e non necessariamente educative o pedagogiche, che è frutto del diritto all'espressione di tutti i cittadini, che produce discussione, dissenso, anche polemiche e conflitto, gli è estranea. I filmclub e le cantine teatrali romane degli anni sessanta e settanta Baricco non le ha frequentate né tanto meno comprese. Dovremmo ragionare sul perché l'Italia spende per la cultura (scuola e università comprese) le briciole residuali del proprio bilancio, anziché contribuire a presentarla come «uno spreco» da tagliare.

La vittoria alle elezioni sarde ha vieppiù accresciuto la bulimia bonapartista della destra al potere. L’ outing fascista del Cavaliere sulla Costituzione della Repubblica come documento “sovietico” non è stato, come molti hanno sostenuto, una sostanziale excusatio non petita di Berlusconi per prevenire ogni futura contestazione della più che presumibile incapacità del governo a far fronte alla crisi, che nei prossimi mesi morderà terribilmente tutto l’Occidente ed anche l’Italia. Secondo questi analisti, l’attacco berlusconiano alla carta costituzionale e al sistema di contrappesi che caratterizza tutte le costituzioni democratiche, avrebbe voluto in realtà dire che quel sistema gli impedisce di governare, bloccando ogni intervento e diminuendone la tempestività.

Nulla di più sbagliato: la violenta uscita del premier si configura come una vera e propria dichiarazione d’intenti sul futuro assetto delle istituzioni formalmente presidenziale, di fatto autoritario. Berlusconi vuole fare il presidente della Repubblica, ma da capo dell’esecutivo, non da personalità di garanzia, quale è il ruolo attuale dell’inquilino del Quirinale. Questo l’obiettivo finale del progetto.

Il suo raggiungimento tuttavia ha bisogno di conseguire una serie di obiettivi intermedi, che assicurino l’addomesticamento dell’intera società, dai telespettatori del Grande Fratello fino ai vertici del mondo accademico, un processo che passa necessariamente attraverso vari stadi e diverse forme, dall'evirazione dei sindacati (cancellata la contrattazione nazionale, hanno messo il mordacchio ai sindacati dei trasporti) all’intimidazione nei confronti di quegli intellettuali che non si possono comprare, per mettere a tacere le sempre più frequenti critiche.

Di queste tappe una è certamente quella costituita dal controllo incondizionato di tutto ciò che ruota attorno ai Beni Culturali, con particolare attenzione per il settore dell’archeologia, che del complesso di beni che costituiscono il patrimonio amministrato dallo Stato, oltre ad essere quello più ricco, è anche quello più delicato per le implicazioni che il controllo di quei beni comporta. in termini sia di vincoli alla disponibilità di suoli che di potenzialità economiche, dal turismo alla circolazione di oggetti di interesse archeologico e artistico.

Tutto il vecchio assetto del Ministero dei Beni Culturali è sotto attacco. L'offensiva è cominciata con l’articolo che Bondi ha scritto per il quotidiano di famiglia, “Il Giornale” dello scorso lunedì 23, che si configura come una durissima provocazione "a freddo", una vera e propria dichiarazione di guerra nei confronti del presidente del Consiglio Superiore per i Beni Culturali, massimo organo scientifico di consulenza del Ministero, nella persona di Salvatore Settis, Direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, uno dei nostri più grandi storici dell’arte antica di fama internazionale.

Già nello scorso autunno Settis aveva avuto con Bondi uno scontro assai duro, solo a fatica ricomposto dai soliti pompieri dell'entourage del Cavaliere, generato dalle proteste da Settis sollevate contro i terribili tagli ai fondi del settore, 1350 milioni di euro tolti da Tremonti nel DPEF del 2008 per il bilancio del prossimo triennio. Nell'attuale circostanza, Bondi ha chiesto di fatto le dimissioni di Settis, accusandolo di manifestare pubblicamente le sue critiche all'operato del governo, nel caso specifico le due ultime decisioni, la nomina del general manager della McDonald italiana Resca all'inedita carica di Direttore Generale per la Valorizzazione (in realtà zar di tutte le mostre, con licenza di far circolare liberamente gli oggetti delle collezioni statali), il commissariamento delle soprintendenze archeologiche di Roma, in nome di una asserita incapacità di queste di gestire fondi, tutela e valorizzazione. In una parola, una soluzione autoritaria, mascherata da esigenze "manageriali", che in un colpo, nel centenario della legge di tutela, datata appunto 1909, e della prima organizzazione di tutela dello Stato, colpisce al cuore un servizio che un secolo e mezzo di lavoro dell'Italia unitaria ha creato e che molte nazioni ci invidiano.

Il commissariamento di Roma ha già dei precedenti: l'altro grande centro dell'archeologia italiana, Pompei, diretto non a caso da una grande archeologo di sinistra, Pier Giovanni Guzzo, è stato affidato ad un prefetto (che come primo atto ha distrutto un soffitto dipinto di epoca romana), così come commissariati sono gli interventi per le metropolitane di Roma e di Napoli. E altri seguiranno. Sullo sfondo ci sono vari interessi. Nel caso di Roma c'è la gestione dei beni archeologici dell'Urbe, sui quali Alemanno vuole il controllo assoluto, anche perché il Colosseo, con i suoi due milioni e mezzo di visitatori, rappresenta una gallina dalle uova d'oro che fa gola alle dissestate finanze comunali; per quanto riguarda l'intero Paese, c'è la prospettiva di una sostanziale abolizione delle soprintendenze. Il disegno è chiaro e va nel senso vagheggiato da tutte le destre, quello dello "Stato leggero": la vasta rete delle soprintendenze dovrebbe essere sostituita da piccoli uffici con pochissimo personale scientifico al centro delle regioni, una struttura prefigurata da una sciagurata innovazione del centro-sinistra, le attuali direzioni regionali, che in futuro dovrebbero essere dirette da managers e non da scomodi tecnici capaci di pensare, come accade oggi, mentre la maggior parte dei servizi dovrebbe essere esternalizzata, "messa sul mercato", come ama dire la destra.

Per realizzare questo disegno tuttavia c'è bisogno di un certo numero di intellettuali e di tecnici servizievoli, presto trovati, visto il tradizionale camaleontismo degli Italiani. Mercoledì 25 Settis non aveva finito di leggere la sua preannunciata lettera di dimissioni, che Bondi aveva già firmato la nomina a nuovo presidente del Consiglio Superiore dei BBCC di Andrea Carandini, professore di archeologia alla “Sapienza”, una figura di intellettuale emblematica della nuova situazione determinata dal trionfo della destra. Come una parte non secondaria del ceto politico del PdL, da Ferrara allo stesso Bondi, Carandini ha seguito un itinerario che lo ha condotto dall'estrema sinistra al cuore dell'attuale maggioranza. Responsabile nazionale per i BBCC del PCI negli anni 1977-80 ed autore de "L'anatomia della scimmia", edito da Einaudi nel 1978, un voluminoso saggio di scolastica esegesi del pensiero di Marx (ma si legga il duro giudizio di Carandini marxista formulato dal grande storico antico Arnaldo Momigliano, nell'articolo "Marxising in Antiquity", pubblicato nel "Times Literary Supplement" del 31 ottobre 1975, pag. 1291), lo troviamo nel 2006 esponente della Margherita: in quest'ultima veste, io stesso, in qualità di membro della Commissione per la stesura del programma dell'Unione, ho avuto la ventura di ascoltarlo, nel corso di un’audizione, vagheggiare quella che a suo giudizio sarebbe l'unica via di salvezza per i BBCC, l'abolizione delle soprintendenze.

Un futuro annunciato dunque. D'altronde, il passaggio ufficiale di Carandini ad intellettuale organico della destra al potere è stato anticipato di qualche giorno dalla sua nomina a consigliere scientifico di Guido Bertolaso, sottosegretario di Stato per la protezione civile e commissario per l'archeologia di Roma. Carandini aveva già tentato di ritagliare per sé il ruolo di padrone dell'archeologia della Capitale, sollecitando due anni or sono dall'allora ministro per i BBCC Rutelli la nomina a presidente di una commissione per l'archeologia del centro storico di Roma, che Rutelli tuttavia aveva voluto fosse solo consultiva. Ora come presidente del Consiglio Superiore può ben dire di essere al vertice dell'archeologia italiana, un ruolo paragonabile solo a quello rivestito da Giulio Quirino Giglioli durante il ventennio.

Arianna Di Genova

L'effetto terremoto nel Consiglio superiore sta procedendo a ondate successive, con una serie di dimissioni a catena. Gli "scranni" dell'organo consultivo per i beni culturali si stanno progressivamente svuotando. Anche l'economista Walter Santagata ha abbandonato il suo incarico. Se "l'epicentro" del sisma è stato il presidente Salvatore Settis, a lasciare il parlamentino dei beni culturali sono stati anche lo storico dell'arte Andrea Emiliani, Cesare De Seta, Andreina Ricci e Mariella Guercio. E per il 4 marzo, quando il Consiglio tornerà a riunirsi su convocazione di Antonio Paolucci (in odore di dimissioni), si prevede un altro scossone. Il ministro Sandro Bondi però non ha perso di lucidità, anzi. Così come aveva provveduto prontamente a sostituire il presidente Salvatore Settis con Andrea Carandini, ha tirato fuori dalla manica il suo tris d'assi di nomine nuove di zecca (evidentemente pronte da tempo).

A beneficiare della posizione saranno Elena Francesca Ghedini (docente di archeologia presso l'università di Padova nonché sorella dell'avvocato Niccolò Ghedini, difensore di Berlusconi), Emanuele Greco (professore di archeologia all'Orientale di Napoli e direttore della Scuola archeologica italiana di Atene) e Marco Romano, ordinario di estetica nelle facoltà di architettura di Venezia e Genova.

Al momento, rimangono al loro posto di resistenza, i rappresentanti degli enti territoriali (sono tre), i "sindacalisti" e gli studiosi di nomina universitaria, fra gli altri, Marisa Dalai Emiliani, presidente dell'associazione Bianchi Bandinelli e Giovanni Carbonara, docente di restauro architettonico. Il loro compito è arduo: arginare la disfatta e frenare in qualche modo quegli intellettuali che sono una diretta emanazione politica.

Il vero punto scottante che riguarda il Consiglio superiore è che ha perso del tutto la sua autonomia di pensiero e la dialettica con il ministro si è azzerata. Ma la deriva barbarica era già insita nell'ultima riforma voluta dal precedente "timoniere", Francesco Rutelli. Fu lui, come spiega Marisa Dalai Emiliani, a stravolgere la struttura del Consiglio, diminuendo i membri dei comitati di settore da cinque a quattro e cambiandone anche le modalità di elezione (due esperti scelti politicamente e due provenienti dagli ambienti scientifici e universitari; prima, c'era anche un funzionario dei beni culturali). Inoltre, il presidente, un tempo eletto democraticamente dagli altri membri del Consiglio, venne trasformato in una nomina prettamente politica, selezionato secondo i gusti del ministro in carica. "Avevo messo in guardia Rutelli sul pericolo di quella procedura - afferma Dalai Emiliani - Lui mi rassicurò, ma io gli risposi che non era eterno. Ha dato il colpo di grazia, ora si raccolgono i frutti...".

Da questa settimana, il Consiglio superiore, una volta espressione di eminenti studiosi che per una sorta di volontariato culturale mettevano al servizio del ministero le loro specifiche competenze per la tutela dei beni, si trasforma in uno scrigno politico, pronto a praticare il "silenzio-assenso".

L'archeologa Licia Vlad Borrelli manifesta una grande preoccupazione per il patrimonio e la sua gestione, anche rispetto ai "commissariamenti facili". "Come sta accadendo con la magistratura, siamo di fronte a una lenta erosione dei poteri. I commissariamenti esautorano le figure dei soprintendenti che perdono la loro autonomia di giudizio. Molto grave è anche la divisione tra valorizzazione e tutela. La nuova direzione generale istituita (quella di Mario Resca, ndr.) disgiunge i due termini e se la valorizzazione prevarica la tutela può accadere che i Bronzi di Riace, tanto per fare un esempio, vadano in giro per il mondo. I beni culturali non sono una risorsa economica solo per il presente, devono essere conservati per le generazioni future... Credo che in questo momento, tutti noi esperti del settore dobbiamo essere uniti e fare fronte".

Ma il suo collega-archeologo Andrea Carandini, neo-presidente del Consiglio superiore, non tentenna. "Io e Settis abbiamo un punto fermo in comune, che è il rispetto del Codice dei beni culturali, ma anche posizioni diverse sulla gestione del patrimonio che non possono essere scomunicate a priori".

La sua prima uscita pubblica, domani, per il settimo incontro nazionale di Archeologia Viva (al Palacongressi di Firenze), sarà l'occasione per un chiarimento riguardo la sua scelta di accettare l'incarico offertogli dal ministro Bondi, dopo le dimissioni del direttore della Scuola Normale di Pisa, Salvatore Settis.

Un diavoletto maligno sembra aver convinto il ministro Bondi che sia necessario, per gestire al meglio qualcosa, non avere di essa la minima competenza.

Di qui la scelta di affidare la nuova direzione alla valorizzazione del patrimonio ad "un manager di chiara fama come Mario Resca": per poi rammaricarsi che Salvatore Settis esprima il suo dissenso, per giunta "sulla stampa di opposizione".

Del resto, trattare i Beni Culturali come un problema di marketing, da promuovere come si fa con gli hamburger, fa il pari con il considerare l’archeologia come un affare da protezione civile: un cataclisma da affidare al maggior esperto delle calamità naturali e umane: come dire, da Chiaiano ai Fori Imperiali.

Perchè questa scorciatoia non può funzionare per i Beni Culturali?

Perchè in questo campo lo stimolo alla fruizione non nasce da operazioni di marketing, o comunque non si esaurisce del tutto in esse, bensì dalla capacità di penetrare a fondo il significato storico-culturale di ciò che deve essere valorizzato: il prodotto consiste nella diffusione di conoscenza attraverso la conservazione di un patrimonio immenso quanto fragilissimo, la cui sopravvivenza passa attraverso la protezione del paesaggio in cui si inserisce.

Un esercizio faticoso, talora ingrato, ma che non ammette scorciatoie.

Dalla forza di questo enunciato lapalissiano scaturì in G. Spadolini il convincimento che fosse necessario creare per i Beni Culturali un ministero sui generis, nel quale le pur necessarie intermediazioni di carattere amministrativo non contrastassero l’esigenza che la responsabilità finale e l’onere di pianificare il rilancio e la valorizzazione, come ripetono i nostri politici con vacuo compiacimento autoassolutorio, restassero saldamente dipendenti da valutazioni tecnico-scientifiche.

Che cosa è mancato? O meglio che cosa ha remato contro? La velleità tutta italiana di celebrare le nozze con i fichi secchi, tagliando i fondi e moltiplicando commissari e "figure nuove, con specifiche competenze manageriali", in grado addirittura "di leggere un bilancio, stilare un programma finanziario, elaborare un piano costi-benefici".

L'organico dei funzionari, archeologi, storici dell'arte, architetti, archivisti, bibliotecari, si è andato immiserendo di giorno in giorno senza che si facesse alcuno sforzo per integrare le pur stitiche piante organiche predisposte a suo tempo. Ci si è riempiti la bocca di geremiadi sulla decadenza di Pompei, o dei Fori a Roma, facendo finta di non sentire le banalissime considerazioni dei nostri Soprintendenti, tra i più qualificati tecnici del mestiere, come dimostra il caso di P.G.Guzzo a Pompei : senza tecnici, senza custodi, senza idonei stanziamenti destinati alla manutenzione ordinaria e straordinaria, senza i necessari supporti tecnologici, nessun supermanager di MacDonalds sarebbe in grado di assicurare una tenuta decente dei nostri immensi parchi archeologici.

Eppure questa tenuta è stata assicurata, e non in modo passivo: Pompei ha conosciuto una stagione di studi e ricerche senza precedenti, e l'accumulo di sapere è cresciuto con progressione geometrica: e questo grazie ai "lavori senza gloria" dei nostri funzionari di Soprintendenza, e non certo per merito di chi favoleggiava della realtà storica di Romolo.

Si poteva, con la gestione ordinaria, salvaguardare i nostri parchi archeologici? Certo che si: lo dimostra l'esempio di Ercolano, una operazione discreta di grande collaborazione internazionale con uno sponsor privato, condotta in riserbo ammirevole dalla Soprintendenza Archeologica.

Che cosa occorreva? Non certo un commissario straordinario, ma competenza, costanza e disponibilità di risorse adeguate, vera managerialità.

A che serve allora un commissario? Chiedetelo a chi confonde l'efficienza con l'autoritarismo, la valorizzazione con la mercificazione: ha visto il ministro Bondi la Mostra su Ercolano? No? Fa ancora in tempo a vederla, al Museo Nazionale di Napoli, proprio in quello che viene indicato come un luogo di sfascio e di abbandono. Forse gli servirebbe ad imparare il rispetto di chi sa lavorare senza risorse, senza riflettori, e -quel che è peggio - senza il supporto del proprio Ministero.

Ida Baldassarre, Istituto Universitario Orientale, Napoli

Bruno d’Agostino, Istituto Universitario Orientale, Napoli

Luca Cerchiai, Università degli Studi di Salerno

Il Ministro Bondi ha frainteso il ruolo del Presidente del Consiglio superiore per i beni culturali e paesaggistici. Lo considera come il consigliere del principe, a lui legato da un rapporto di solidarietà e fiducia, tenuto dunque alla disciplina e a mantener riservato l’eventuale dissenso, perché risponde al ministro che lo ha prescelto tra le "otto eminenti personalità del mondo della cultura" da lui nominati. Non ha tollerato che Salvatore Settis, da uomo di scuola e studi, cittadino civilmente impegnato, esprimesse liberamente quel che pensa degli indirizzi generali del ministero (imputabili dunque alla responsabilità politica del ministro) e della amministrazione attiva delle istituzioni dei beni culturali e lo ha accusato appunto di infedeltà, invitandolo ad andarsene con uno scoperto scatto retorico ("non potevi trovare un espediente migliore per rassegnare le dimissioni", ha in sostanza dichiarato in un’intervista). E Settis, che non era certo tenuto a dimettersi per aver perduto la fiducia del ministro, ha creduto che la pretestuosa accusa di lavorare contro le istituzioni e di muoversi secondo logiche di schieramento avesse alterato irrimediabilmente il corretto rapporto funzionale tra ministro e presidente della più alta istanza consultiva del ministero. Determinazione dettata da viva sensibilità istituzionale e a Settis va la solidarietà di Italia Nostra che ne condivide i preoccupati giudizi sugli indirizzi generali del ministero. Ma il ministero si priva di una voce di alta competenza e di disinteressato impegno. Che tuttavia, sappiamo, Settis manterrà viva nella partecipazione, che ritiene doverosa, di cittadino e uomo di cultura alla tutela di patrimonio e paesaggio.

Settis è stato sostituito con sorprendente prontezza (nelle stesse ore in cui comunicava al Consiglio le sue dimissioni) da chi aveva saputo meritare la fiducia del Ministro, assicurando pubblicamente di condividere in tutto proprio le scelte che Settis aveva contestato (come l’affidamento della direzione generale per la valorizzazione a un manager aziendale, il commissariamento di Pompei e dell’archeologia romana, la convocazione dei Bronzi di Riace al G8 della Maddalena) e di giustificare i drastici tagli al bilancio del ministero. Un presidente dunque certamente "eminente personalità del mondo della cultura", ma che offre in più al Ministro la garanzia di un sicuro allineamento.

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