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L’ultimo pacco siglato «Cultura spa» porta in dote 200 milioni di euro. L’infornata è di questi giorni e permetterà al governo una distribuzione a pioggia in favore di centinaia di associazioni, enti, teatri e fondazioni. Più che di privatizzazione della cultura, l’operazione sa tanto di mancia di Stato, giusto a un mese dal voto, per amici, boiardi e parenti importanti. Succede così dal 2004. I tre ministeri di riferimento stanziano (Beni culturali, Economia e Infrastrutture) e i beneficiari graditi incassano. È un affare gestito da pochi, con fondi pubblici e scavalcando il controllo parlamentare.

La «Cultura spa» di impronta berlusconiana - assieme ad Ales - ha il volto di Arcus, più che un volto il vero braccio operativo, il braccio lungo della spartizione. «Società per lo sviluppo dell’arte» fondata nel 2004 (sotto il precedente governo del Cavaliere) a capitale interamente sottoscritto dal ministero dell’Economia. I suoi decreti operativi vengono adottati dal ministero per i Beni culturali di Sandro Bondi, di concerto con le Infrastrutture di Altero Matteoli. Una spa a tutti gli effetti - col suo cda di sette componenti per dieci dipendenti - che, come ha avuto modo di denunciare in ripetute occasioni la Corte dei conti, si è «trasformata in un una agenzia ministeriale per il finanziamento di interventi», spesso «non ispirati a principi di imparzialità e trasparenza». La storia torna a ripetersi. Nel silenzio generale, la spa Arcus ha adottato a febbraio il piano triennale di interventi: 119 milioni per quest’anno, 43 per il prossimo, 37 e mezzo per il 2012. Totale: 200 milioni, parcellizzati in 208 interventi.

La logica appare discrezionale, se non emergenziale, in stile Protezione civile. Nel calderone, dietro il Lazio con 23 milioni di euro nel 2010, la parte del leone la fa la Toscana dei ministri Bondi e Matteoli: 21,4 milioni, rispetto per esempio agli 8,5 della Sicilia o ai 12,5 della Campania, pur ricche entrambe di siti, chiese, monumenti. Ma quali sono gli interventi strategici sui quali il ministero punterà per i prossimi tre anni? Nel capitolo «varie», intanto, 500 mila euro vengono destinati alla «partecipazione dell’Italia all’Expo di Shangai 2010». A guidare la missione sarà Mario Resca, consigliere d’amministrazione della Mondadori, berlusconiano doc, direttore generale del dipartimento per la «valorizzazione del patrimonio culturale» al ministero. Solo coincidenze, ovvio. Come lo è il fatto che, in Veneto, Arcus finanzia con due capitoli per un totale di 600 mila euro il dipartimento di Archeologia dell’Università di Padova. Direttore è la professoressa ordinaria di Archeologia Elena Francesca Ghedini, sorella del più illustre deputato, avvocato e consigliere del premier, Niccolò. Altissime le sue referenze nel mondo culturale: dal 2008 il ministro Bondi l’ha voluta al suo fianco quale «consigliere per le aree archeologiche» e dal marzo 2009 quale membro del «Consiglio superiore per i beni culturali». Ma di bizzarrie nelle 18 tabelle del piano se ne scovano tante. Ad Amelia, in Umbria, l’Associazione culturale società teatrale riceverà 800 mila euro, la Fondazione teatro dell’Archivolto in Liguria 450 mila euro e via elargendo.

Generoso il finanziamento di decine di interventi su immobili ecclesiastici, anche del patrimonio vaticano, dunque extraterritoriali. È il caso del «restauro dei cortili interni della Pontificia università gregoriana» a Roma: 1 milione di euro nel 2010 e 500 mila nel 2011, sebbene lo Stato abbia già finanziato lo stesso restauro con 457.444 euro tratti dai fondi dell’8 per mille, lo scorso anno, e con 442.500 euro, nel 2007. Ma, anche qui, la lista di monasteri, campanili e basiliche beneficiati è sconfinata. Dal pozzo dei miracoli di Arcus il governo attinge per aiutare pure le amministrazioni comunali «amiche» in crisi finanziaria: 1 milione alla cultura del Comune di Roma di Gianni Alemanno, 1,5 milioni per la rassegna estiva «Kals’art» del Comune di Palermo (Diego Cammarata).

La spa del ministero tra il 2004 e il 2009 aveva già spalmato, su 300 interventi, finanziamenti pubblici per altri 250 milioni di euro. La storia non cambia. E dire che il ministro Bondi, presentando in Parlamento il suo programma, il 26 giugno 2008, annunciava l’intenzione di «restituire alla società Arcus la sua mission originaria, evitando interventi a pioggia» e promettendo di «privilegiare d’ora in poi interventi di notevole spessore». Dalla fondazione del 2004, a gestire la spa è il direttore generale Ettore Pietrabissa, già vice all’Iri e poi all’Abi. Presidente è un vecchio andreottiano, Salvatore Italia, classe ‘40, alla guida del cda composto da altri sei consiglieri. Vertice di tutto rispetto per una spa che vanta però solo 4 dipendenti distaccati dal ministero e 6 contratti a termine. Sebbene la sede legale sia in via del Collegio romano 27, nei locali del ministero, quella «operativa» si trova in via Barberini 86, in un elegante ufficio da 350 metri quadrati nel pieno centro di Roma, affittato per circa 16 mila euro al mese, 175 mila euro l’anno. Nel 2010, stipendi, sede, gettoni e quant’altro necessita al funzionamento di Arcus costeranno 2 milioni di euro.

«La spa è solo a uso e consumo dei gabinetti dei ministeri», racconta Gianfranco Cerasoli, responsabile cultura della Uil. «Un carrozzone da smantellare, che continua a finanziare beni extraterritoriali della Chiesa: le sue risorse potrebbero essere gestite dal ministero, tagliando spese che gravano inutilmente sui contribuenti». Resta il nodo dei controlli. «Arcus ha di positivo l’immediata operatività, finanzia anche opere importanti - spiega Fabio Granata, componente Pdl della commissione Cultura della Camera - tuttavia in due anni di legislatura mai un atto della spa è transitato in Parlamento».

Lo chiamavano l’uomo dal foglio d’oro. Non il vello d’oro, proprio il foglio, come quelli preziosi che Angelo Balducci volle come decorazioni al teatro Petruzzelli di Bari.

Dal Petruzzelli al San Carlo di Napoli: ricorrono sempre gli stessi nomi. E il nuovo superdirettore Mario Resca, ex ad di McDonald’s, con la società controllata Ales ora può gestire le gare come vuole.

Il business messo in piedi dall’alto funzionario Angelo Balducci e dai suoi amici appaltatori avrebbe suggerito la nomina di Bertolaso a ministro, al posto di Bondi, annunciata da Berlusconi.

Il deus ex machina dello Stato "in deroga" per realizzare "l’Italia del fare" di Berlusconi & Bertolaso, pronubo Letta, aprì sul campo un nuovo fronte di business miliardario: la Beni Culturali Spa. Un fronte così prodigo di soddisfazioni per i pubblici funzionari e per la cricca degli appaltatori da suggerire la nomina dell’uomo dei "decreti emergenziali" Guido Bertolaso a ministro dei Beni Culturali al posto di Sandro Bondi. Di qui l’annuncio di Berlusconi su «Bertolaso ministro» il 29 gennaio scorso, poco prima che lo scandalo deflagrasse. Poi, con l’arresto di Balducci e di altri "servitori dello Stato" la storia ha preso indirizzi diversi per l’inchiesta dei magistrati di Firenze sulla nuova Appaltopoli. Ma l’apparato predisposto è bello e pronto per intercettare "in deroga" i due miliardi e mezzo di euro (diconsi miliardi) di fondi europei per i beni e il turismo culturale. In principio furono per l’appunto i fogli d’oro che Angelo Balducci pretese invece di quelli di oro sintetico nell’apparato decorativo del teatro Petruzzelli, bruciato nel 1991, per la ricostruzione del quale fu commissario straordinario. Che volete che sia un milione di euro in più, di fronte a un costo globale cresciuto del 156 per cento?

Poca cosa rispetto ai 6 milioni di aggiornamento prezzi per le poltrone. Relativamente poco anche rispetto ai 650 mila euro per le "chianche" scomparse. Cos’erano? Erano le antiche basole tipiche del borgo antico di Bari, rimosse perché non andassero rovinate. Ma i soliti ignoti scoprirono il ricovero e se le portarono via. Conto totale del commissariamento di Balducci al Petruzzelli: cinquanta milioni contro un appalto iniziale di 23, secondo il calcolo di Antonio Cantoro, che sul "Teatro degli imbrogli" ha scritto un libro che sembra un giallo. Ma pazienza perché, come disse il sindaco di Bari Michele Emiliano, «il Petruzzelli è come il Vesuvio che se erutta fa danni». Se lo si placa fa invece la fortuna di politici, pubblici funzionari, commissari straordinari e appaltatori.

Non eruttò il teatro. Fu inaugurato a fine 2009 e con esso decollò il progetto per trasformare i Beni Culturali nel grande polmone dell’Italia del fare, mondati da ogni regola della legislazione ordinaria, da ogni controllo contabile e di legittimità, in onore di una suprema deroga appaltatrice per teatri da ricostruire, zone archeologiche da ripulire, siti d’arte da mettere in sicurezza, monumenti da sbiancare, palazzi da ristrutturare, statue da rigenerare, quadri da restaurare, biblioteche da puntellare, musei da gestire, biglietterie, librerie, bar e ristoranti da dare in concessione.

La Beni Culturali Spa, un’evoluzione della specie della Protezione Civile Spa, è già pronta a partire sotto i buoni auspici di Gianni Letta se non fosse per i magistrati fiorentini che inchiodano la cricca della bertolasocrazia tutta protesa alla conquista della prateria di appalti che si apre per la valorizzazione del patrimonio storico e monumentale.

È al Petruzzelli di Bari che si fa le ossa come sub-commissario un giovanotto rampante asceso infine a capo di Gabinetto del ministro Bondi. Trentasei anni, si chiama Salvo Nastasi e dalla tolda ministeriale controlla il partito dei commissari e l’annessa galassia di appaltatori del cuore. Egli stesso è stato commissario al Maggio Fiorentino e al teatro San Carlo di Napoli, dove ai lavori di restauro ha partecipato Pierfrancesco Gagliardi, quello che sghignazzava con suo cognato Francesco Piscicelli la notte del terremoto all’Aquila. Dipendente del ministero al settimo livello, questo Nastasi stava per diventare direttore generale senza concorso, per decreto, con un emendamento ad personam del senatore Antonio D’Alì. Nell’agosto scorso passò invece come un colpo di fucile la nomina a direttore generale per la Valorizzazione del patrimonio culturale di Mario Resca, che Berlusconi aveva già proposto in tutte le salse, anche come direttore generale della Rai o presidente dell’Alitalia. Ex amministratore delegato della McDonald’s Italia, ex presidente del Casinò di Campione e della Finbieticola, il suo sogno è fare una centrale elettrica alimentata dal sorgo nell’ex zuccherificio di Voghera. Ma Berlusconi e Letta l’hanno risolutamente voluto al Patrimonio culturale, anche se non ha mai visto un museo in vita sua. «I cheeseburger - ironizzò il New York Times all’atto della nomina - entrano nel dibattito sui musei italiani». Alla Pinacoteca di Brera, di cui Resca è commissario e dove spenderà almeno 50 milioni, potremo ordinare «un McCaravaggio e una coca»? si chiedeva il NYT. E spiegava che il governo italiano «al mandato costituzionale di proteggere il patrimonio culturale sembra voler sostituire un modello imprenditoriale finalizzato allo sfruttamento». Al genio stile McDonald’s dobbiamo lo spot pubblicitario che sull’immagine del Colosseo recita: «Se non lo visitate ve lo portiamo via». In che senso? Come in "TotòTruffa", il film del 1962 nel quale il principe De Curtis vende la Fontana di Trevi a un turista.

Regnante Berlusconi, il conflitto d’interessi, si sa, è un concetto desueto. Ma le società di gestione museale riunite nella Confcultura, aderente alla Confindustria e presieduta da Patrizia Asproni, sono infuriate perché tra i tanti incarichi Resca, che ha accasato i suoi consulenti in un palazzetto al numero 32-33 di via dell’Umiltà di proprietà di una immobiliare berlusconiana, è anche consigliere d’amministrazione della Mondadori, che controlla la Mondadori Electa, società leader nella gestione dei punti di vendita all’interno dei musei. Magari in un soprassalto di dignità Resca si dimetterà. Ma chi potrà impedire che l’Electa si aggiudichi i pezzi più pregiati del business? Oltre alla Pinacoteca di Brera, gli Uffizi di Firenze, le aree archeologiche di Roma e Ostia Antica, l’area archeologica di Pompei, tutti i siti più importanti sono già nelle mani del partito dei commissari.

Una compagnia di giro ben sperimentata e ottimamente retribuita. A Firenze c’è Elisabetta Fabbri, un architetto veneziano nella manica di Nastasi, già commissaria per il Parco della musica, da cui sono partite le indagini della Procura di Firenze. Tra i "soggetti attuatori", Balducci ha inserito Mauro Dellagiovanpaola, finito in galera insieme a lui. A Roma e Ostia Antica, dopo il commissariamento di Bertolaso, è subentrato Roberto Cecchi, direttore generale per il Paesaggio e in procinto di diventare segretario generale del ministero. A Pompei c’è Marcello Fiori, ex responsabile dell’Ufficio emergenze della Protezione civile, intimo di Gianni Letta. Ovunque ci siano i soldi pronti ci sono anche i commissari, che in deroga a tutte le leggi affidano i lavori e i servizi senza gare di evidenza pubblica. E non a caso nel 2009 i residui passivi del ministero, cioè i soldi non spesi, sono aumentati di 200 milioni, per dimostrare che per far funzionare le cose occorrono i commissari straordinari.

Tramite la società controllata Arcus, Resca ha affidato per 200 mila euro a due società di consulenza, la Roland Berger e la Price Waterhouse Coopers, il compito di redigere le nuove linee per le gare di concessione dei musei. Ma il gioiellino dell’uomo che vuole portar via il Colosseo è un altro. Si chiama Ales, Arte Lavoro e Servizi Spa, e serve a fare esattamente quello che Berlusconi, Letta e Bertolaso avrebbero voluto fare con la Protezione Civile Spa. Ma stavolta senza decreti, senza passaggi parlamentari, senza opposizione. Ex società per il reimpiego di lavoratori socialmente utili interamente controllata dal ministero dei Beni Culturali, la Ales ha ora la possibilità statutaria di fare quel che vuole, a cominciare dal drenaggio di fondi e dalla loro distribuzione con assoluta discrezionalità. Altro che l’Italstat, la società dell’Iri guidata da Ettore Bernabei che in epoca democristiana introdusse in Italia la concessione e l’appalto di opere di tutti i tipi, dagli uffici postali alle carceri, superando gli ostacoli burocratici e che con fondi Fio si occupò anche di beni culturali, girando gli "sfiori", che per i grandi partiti erano troppo modesti, ai ministri socialdemocratici dell’epoca Vincenza Bono Parrino, Ferdinando Facchiano e al segretario Psdi Antonio Cariglia. Fu attraverso la consociata Italstrade che furono costituiti centinaia di miliardi di lire di fondi neri, cui attinsero in molti prima. Tra questi, proprio Gianni Letta, che incassò un miliardo e mezzo e raccontò di averlo utilizzato per salvare il quotidiano Il Tempo, di cui era direttore e amministratore delegato. Ne uscì pulito, dopo che il processo fu scippato a Milano dalla Procura di Roma, come il successivo sulla legge Mammì e le frequenze televisive di Berlusconi. La storia si ripete nell’ex porto delle nebbie, come dimostra il coinvolgimento del procuratore aggiunto di Roma Achille Toro nello scandalo Bertolaso.

Lo statuto della Ales, di fatto la Beni Culturali Spa, è un capolavoro che, senza una legge, istituisce una sorta di Iri della Cultura. «A titolo indicativo e non esaustivo», svolge per il ministero «la gestione di musei, aree archeologiche e monumentali, biblioteche, archivi, la guardiania, le visite guidate, la biglietteria, il bookshop, la gestione dei centri di ristoro (con somministrazione di alimenti e bevande rivolta ai fruitori dei luoghi della cultura)... la gestione del marchio e dei diritti d’immagine, il supporto tecnico-operativo per le attività di prestiti. L’esercizio di attività di pubblicità e promozione in tutte le sue forme, anche attraverso l’organizzazione di uffici stampa e piani di comunicazione, di mostre, convegni, fiere promozionali, spettacoli e, in generale, di eventi culturali; l’attività di editoria in generale e in particolare la pubblicazione, produzione e coedizione di libri». E via così per tre pagine fitte fitte. Ecco il gioiellino "in deroga" che era bello e pronto per Guido Bertolaso ministro dei Beni Culturali della Repubblica berlusconiana "del fare". "Fare affari", naturalmente. Se non ci fossero stati quei magistrati di Firenze che secondo Berlusconi «si dovrebbero vergognare». Sì, del loro Paese.

Nella Relazione annuale dell’Ispettorato della Guardia di Finanzadel 2008si legge che nelle attività della Protezione civile si possono riscontrare numerose irregolarità e incrementi del costo degli interventi. Delle irregolarità si sta occupando la magistratura: passiamo agli «incrementi del costo». Per far digerire a Regioni ed Enti locali i commissariamenti viene fatto balenare l’arrivo con la Protezione civile anche di «risorse aggiuntive» del governo, che poi sfumano. Gianni Alemanno si è fatto commissariare l’intera soprintendenza archeologica di Roma e Ostia e perfino l’Opera di Roma ma in entrambi i casi è rimasto a bocca asciutta. Allora la strategia qual è? Dove sono i soldi veri, lì si getta famelica la Protezione civile: le soprintendenze autonome e ricche (Napoli-Pompei e Roma- Ostia), i lavori straordinari già dotati di fondi (Uffizi, Pinacoteca di Brera), la ricostruzione post terremoto. Alla strategia segue la tattica: dopo il prefetto Profili a Pompei come commissario è arrivato Marcello Fiori della Protezione civile e il costo dello staff commissariale è lievitato da 200mila agli attuali 800mila euro. Il commissario all’area archeologica di Roma è Roberto Cecchi: come funzionario del ministero dei Beni culturali prende solo una indennità. Il principe di questa tattica? Bertolaso stesso: dopo aver dichiarato che non voleva lo stipendio da sottosegretario poiché gli bastava quello della Protezione civile, avrà il 3,75% del budget dei lavori per la prossima Vuitton Cup (come da art. 2, comma 9 dell’Ordinanza del presidente del consiglio 3838 del 30-12-2009), una percentuale maggiore di quella percepita dal commissario Mario Resca per i lavori di Brera che dovrebbe aggirarsi intorno al 3%. Tutta roba affidata alla Protezione civile.

Assicurate le ricche prebende, qualcosa si dovrà pur fare, e a Pompei di fronte alla cinquantina di pacifici cani che abitavano le rovine dell’antica città flegrea Fiori ha lanciato la campagna «(C)ave Canem» (sic!) per la loro adozione, con tanto di sito internet e poderoso lancio stampa. Spesa in tre mesi 86mila euro, cani finora adottati 4. Non costava meno alloggiare i randa getti all’Hotel Hilton? Inoltre è stata stipulata una convenzione con la Croce Rossa e la Asl per il pronto intervento nel caso di malori per i turisti: costo 300mila euro, una volta lo faceva solo la Asl per 8mila euro al mese. Potevano mancare gli eventi? C’è già un preventivo di un milione di euro di spesa per un ciclo di spettacoli estivi del San Carlo da allestire nel teatro grande di Pompei, che sarà sottoposto a ulteriori «restauri ad hoc» su cui farebbe meglio a vigilare la direzione generale all’archeologia del Ministero. Non è la prima volta che si fanno spettacoli a Pompei, ci sono state le Panatenee su cui però il sito guadagnava e non spendeva. C’è da chiedersi se sia giusto investire una parte degli scarsi fondi destinati all’archeologia in spettacoli.

Con i recenti commissariamenti degli Uffizi e Brera, il processo faticoso e altalenante verso l’autonomia, intrapreso da qualche anno dalle principali Soprintendenze storico artistiche e archeologiche ha subito una battuta d’arresto probabilmente decisiva: ad oggi risultano di fatto commissariate le Soprintendenze di Pompei, Roma- Ostia Antica, Brera, gli Uffizi.

Si era trattato di un disegno che, pur non esente da molte criticità, aveva prodotto anche notevoli migliorie in termini di efficienza di gestione: il tentativo di aggiornare alle mutate esigenze almeno una parte, quella più esposta alla pressione turistica, del sistema territoriale della tutela del nostro patrimonio. Frutto di una visione non priva di incongruenze, ma che aveva cercato di fornire una risposta non di facciata ai molti problemi che si andavano addensando sui temi della tutela e valorizzazione del nostro patrimonio, è perfettamente legittimo che tale sistema possa essere ridiscusso e ribaltato, ma attraverso i commissariamenti ciò sta avvenendo con modalità assai contestabili, di dubbia efficacia organizzativa e che presentano forti rilievi di legittimità, come si sottolinea da più parti con sempre maggiore forza.

A distanza di oltre un anno dal commissariamento di Pompei (luglio 2008), con il dossier dedicato a questo tema, torniamo quindi ad interrogarci su queste operazioni , a partire dalle due Soprintendenze Archeologiche , (oltre a Pompei, Roma-Ostia: le più importanti d’Italia), entrambe commissariate. Nel frattempo gli incarichi dei Commissari sono stati entrambi prorogati, mentre in compenso sono mutati, per motivi diversi, i personaggi cui è affidato il ruolo: a Roma, Roberto Cecchi – Direttore Generale alle Belle Arti - ha sostituito Guido Bertolaso, il Capo della Protezione Civile, mentre a Pompei Marcello Fiori, dirigente della Protezione Civile, è subentrato al prefetto Renato Profili.

In entrambi i casi le fortissime critiche sollevate ai provvedimenti partivano dalla pretestuosità delle motivazioni indicate a loro sostegno: grave stato di degrado e incuria per quanto riguarda Pompei e addirittura gravissimi rischi strutturali e di imminente crollo per i monumenti dell’area archeologica centrale capitolina e del sito di Ostia Antica. L’inconsistenza delle motivazioni contrastava invece con per l’ampiezza del mandato affidato al commissario straordinario: deroga dalle norme sulla contabilità dello Stato, sul procedimento amministrativo, sul pubblico impiego, nonchè sulle norme del Codice dei contratti pubblici, quelle in materia di emergenza sanitaria ed igiene pubblica, oltre alle leggi regionali di recepimento e di applicazione; gli interventi costituiscono poi varianti ai piani urbanistici.

Anche se i provvedimenti risalgono a momenti diversi (luglio 2008 e marzo 2009) è però possibile un primo bilancio che, in entrambi i casi, è fortemente negativo. Pochi e superficiali i provvedimenti realizzati nel sito campano: qualche miglioria igienico sanitaria, l’adozione dei cani randagi, il marketing ai privati produttori di vino doc. Altrettanto inconsistente l’opera del Commissario a Roma: non è servita una pubblicazione autocelebrativa, dedicata a pubblicizzare i presunti successi dei primi mesi, a mascherare che dietro il presunto attivismo del nutrito staff commissariale si nascondono in realtà le normali attività di manutenzione e controllo da sempre svolte dalla Soprintendenza in modalità di ordinaria amministrazione, mentre si ignora a tutt’oggi quale sia l’agenda dei lavori del Commissario per quanto riguarda il sito di Ostia Antica. Appaiono così del tutto convalidati i sospetti, già espressi da Italia Nostra, secondo i quali uno degli obiettivi dell’ordinanza governativa di commissariamento consisteva nella annessione sic et simpliciter della Soprintendenza ostiense a quella romana, con il risultato della cancellazione, dietro il pretesto della emergenza, di decenni di autonoma storia culturale.

Mentre quasi del tutto inconsistenti appaiono i risultati sul piano scientifico archeologico, su quello delle risorse disponibili, non solo i commissariamenti non hanno apportato finanziamenti aggiuntivi, limitandosi ad utilizzare e vampirizzare quelli delle Soprintendenze di riferimento, ma hanno anzi provocato spese aggiuntive a causa dei costi di mantenimento delle strutture commissariali, costi, nel caso di Pompei, enormemente lievitati (da 200 a 800mila euro) senza motivazione nè riscontro.

Fallimentare negli esiti, tale esperienza è però lungi dall’essere esaurita ed anzi la gestione commissariale tende a stabilizzarsi e ad ampliarsi ad altre realtà (v. da ultimi, Brera e uffizi) . E’ una vera e propria cultura dell’emergenza quella che si va affermando: l’obiettivo immediato è senz’altro quello di liberarsi di “lacci e lacciuoli” per accellerare (aggirare) i normali percorsi amministrativi, supplendo in tal modo alle lentezze e inefficienze dell’amministrazione ordinaria . Inefficienze che pure esistono, ma che sono il frutto di carenze e rigidità organizzative e strutturali che non si risolvono affiancando a quella ordinaria un’amministrazione parallela di estemporanea concezione, dubbia efficacia e difficile monitoraggio.

La crescente complessità che attraversa anche il problema della tutela del nostro patrimonio culturale merita un’attenzione non rinviabile: i commissariamenti rappresentano però una risposta culturalmente rozza e democraticamente deficitaria. Ponendo le premesse, una volta che l’emergenza si sia stabilizzata, per un’amministrazione di diversa concezione, con pochi vincoli e di diretta nomina politica, questi organismi decretano la sostituzione del l’esercizio della competenza con il principio di autorità.

In quello che Cederna chiamava il Paese delle eterne emergenze, il ruolo destinato ad assumere dai Commissari straordinari è purtroppo crescente ed abnorme: l’azione di contrasto di Italia Nostra si prefigge non solo di ridurre una concentrazione di potere decisionale pericolosa sul piano della trasparenza amministrativa e inefficace sul piano operativo, ma di evitare il contestuale declassamento, in termini di risorse e capacità operativa, delle istituzioni deputate per legge e sulla base di competenze tecniche accertate ad applicare leggi e regolamenti. Questi organismi, le Soprintendenze, esercitano il loro ruolo in autonomia dal potere politico perchè custodi di funzioni che salvaguardano beni e interessi della collettività nel suo complesso e non solo di una parte: pretendiamo che continuino a farlo attraverso strutture e risorse finalmente adeguate al compito.

Qui dove i segni della dea lunare

vegliano i morti e parlano d'amore,

Qui dove i fiori esangui e senza odore

Vestono l'aspra roccia di calcare,

Qui nel cospetto dell'azzurro mare

Sotto i raggi del dio divoratore,

Piccola sfinge, esotico mio fiore,

Sopra la bocca ti vorrei baciare.

Mentre punica, immobile, infinita

Del meriggio l'arsura in alto tace,

La necropoli invita ai suoi recessi.

Stretta al mio cuore io vorrei trarti in essi:

Io vorrei trarti dove è fresco e pace

Soli tra i morti ad eternar la vita.

Francesco Tauro, "Tuvixeddu", Cagliari, 1 maggio inizio sec. XX

Ho vissuto per tutta la mia infanzia e l’adolescenza sulla collina di Tuvixeddu a Cagliari, proprio ai piedi della nota necropoli fenicio punica. Mi riferisco al periodo tra gli anni 60 e primi anni 80, quando Tuvixeddu era una sorta di villaggio composto prevalentemente dalle famiglie di operai che lavoravano nel cementificio che sfruttava la collina per l’estrazione di cava, e da quelle degli ultimi pescatori dello stagno di Santa Gilla, che si trova proprio davanti al colle; nonché da una umanità di poveri, diseredati e rifiutati dalla società, alla quale quel colle, con le sue millenarie “grotte”, ha sempre dato rifugio.

Ritengo di essere stato un privilegiato per aver potuto passare una importante parte della mia esistenza a Tuvixeddu e di aver fatto parte, insieme alla mia famiglia, a quel sottoproletariato estremo che con dignità ha abitato le povere case del colle. Noi sottoproletari di Tuvixeddu non sapevamo nulla dell’importanza storica e archeologica del luogo in cui abitavamo. Ma sapevamo che quello era un antichissimo cimitero in cui erano sepolti i nostri antenati e nella nostra quotidiana sopravvivenza cercavamo di instaurare con quelle millenarie tombe una forma pratica di convivenza. Le usavamo per coltivarci i fiori o allevarci le galline, per arrostire la carne e il pesce o per gettarci l’immondezza. Mai a nessuno è venuta l’idea di cancellarle con colate di cemento per creare il parcheggio alla propria utilitaria.

Bande di bambini scorrazzavano per Tuvixeddu, luogo prediletto per i giochi, le avventure e le esplorazioni; ogni mattina poi tutti i bambini del quartiere, amavano usare la strada della necropoli come scorciatoia per andare alla scuola elementare che si trovava al di là del colle. Eravamo consapevoli della bellezza di quelle bianche rocce di calcare traforate e ricoperte da folti cespugli di capperi selvatici e di quella campagna così sobria, aspra e silenziosa. Nel punto più alto del colle, immersa in un boschetto di pini e cipressi, quasi a strapiombo sulle rocce scavate dalle antiche tombe, dominava misteriosa una villa in stile liberty.

In seguito, come studente d’arte, ho capito quanto quello scorcio di paesaggio fosse simile alla famosissima opera “L’isola dei morti” di Arnold Böcklin e come a Tuvixeddu, nonostante le ferite del cementificio e il degrado dell’urbanizzazione che avanzava, continuasse a sopravvivere una dimensione paesaggistica fortemente romantica. Ogni tanto un pastore col suo gregge di pecore attraversava la necropoli e percorreva tutto il colle. I rumori della città sembravano lontani e ovattati.

Prima dell’imbrunire le ruspe del cementificio che divorava una parte della collina, coi loro lamentosi cigolii rientravano nel cantiere e appena faceva buio Tuvixeddu diventava il luogo appartato in cui arrivavano le prostitute coi loro clienti. Tuvixeddu era un altro pianeta: bastava salire il centinaio di scalini del vico 2 del viale Sant’Avendrace per trovarsi improvvisamente catapultati in un’altra dimensione spazio-temporale, lontana dalla grigia urbanizzazione che cresceva schizofrenicamente intorno al colle. Tutti avevamo giardini molto belli ed orti rigogliosi che fungevano anche da barriera ai palazzi del quartiere che inesorabilmente, negli anni, avanzavano nel loro assedio.

Agli inizi degli anni 80, con la chiusura del cementificio, le famiglie degli operai che abitavano le casupole di Tuvixeddu vennero sfrattate. Quella già fragile dimensione popolare che viveva sulla collina, scomparve definitivamente, così come definitivamente avanzò il degrado in cui Tuvixeddu venne abbandonato. I cosiddetti “abitatori delle grotte” di Tuvixeddu, nel corso degli anni, si susseguirono scandendo anche quelli che erano i cambiamenti antropologici e sociali di una città che nel bene e nel male mutava nella sua crescita. Da rifugio per sfollati di guerra, quelle “grotte”, ovvero quelle grandi tombe a parete di epoca romana, ospitarono man mano persone sempre più povere, barboni e disperati, gente in preda all’alcolismo, rifiutata dalla società, e poi giovani freakkettoni, tossici, punkabbestia…

Interrotta l’aggressione già devastante del cementificio, è cresciuta una incivile urbanizzazione proseguita senza pausa sino ad oggi e che ha finito per nascondere quasi completamente Tuvixeddu al resto della città, come se il colle fosse qualcosa di cui la stessa città si vergognasse. EppureTuvixeddu rappresenta il luogo da cui ha origine l’identità storica, culturale e antropologica della città di Cagliari ed è una delle più importanti testimonianze archeologiche del mediterraneo.

Forse questo “Tuvixeddu” che conservo e coltivo nei ricordi potrebbe risultare un pò idilliaco per chi non ci ha mai vissuto o messo piede. E forse questo “Tuvixeddu” non ha mai trovato spazio nelle ambizioni di una città provinciale e piccolo borghese come Cagliari, che ha sempre aspirato ad uno sviluppo urbanistico in grado di darle l’illusione di diventare una grande metropoli e in cui gli speculatori e i palazzinari di alto livello hanno sempre trovato un ambiente estremamente favorevole e particolarmente accondiscendente sia nella politica che nell’opinione pubblica.

Soprattutto non ha mai trovato abbastanza spazio negli interessi nazionali di un’Italia che nel bene e nel male ha sempre considerato i beni culturali e paesaggistici da tutelare all’interno di un atteggiamento “centralista”, in base al valore “turistico” di ciò che va salvaguardato e ciò che può essere anche lasciato andare in rovina. Così in Italia si grida allo scandalo se un turista ubriaco si fa un bagno in una delle fontane delle nostre cosiddette città d’arte, ma è passato in secondo piano o è stato del tutto ignorato lo scempio e i progetti nefasti di cementificazione su Tuvixeddu, a ridosso della necropoli fenicio punica più importante del mediterraneo, e in un ambiente unico, ricco di specie faunistiche e botaniche addirittura protette.

“(...)Non si riesce a intravedere nessun panorama né alcuno spettacolo di particolare bellezza.(…) la zona si presenta brulla e ha l'aspetto di una cava abbandonata circondata da alti edifici residenziali sorti in oggettivo disordine (…) appare priva di qualunque pregio paesistico visivamente apprezzabile(…).”

Queste furono le considerazioni dei giudici del Tar dopo un sopralluogo effettuato per decidere se bloccare o meno la colata di 300.000 metri cubi di cemento sul colle. La burocrazia sostituì il parere autorevole di associazioni ed esperti dell’ambiente, del paesaggio, dell’urbanistica e dell’archeologia di livello internazionale che hanno sempre chiesto di fermare ogni forma di cementificazione e una tutela integrale del colle. E quando si chiese un intervento dello stato, dei beni culturali e addirittura del Presidente della Repubblica, in sostanza la risposta fu che si trattava di un problema “regionale” quindi da risolvere “in casa”.

(…)Abbiamo di fronte al mondo, la responsabilità di salvaguardare questo grande patrimonio comune. E d'altronde a ciò ci chiama l'articolo 9 della nostra Costituzione, che è uno dei suoi principi fondamentali :"La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione" tutelare il paesaggio e il patrimonio storico e artistico è responsabilità che dobbiamo, sì, sollecitare i poteri pubblici ad assolvere pienamente ; ma è anche responsabilità che dobbiamo assumerci noi cittadini, ciascuno di noi, dovunque viviamo e operiamo, specie se in luoghi di inestimabile valore per l'umanità intera. Contano i comportamenti di ciascuno, che debbono essere rivolti non al cieco soddisfacimento di interessi particolari, ma alla salvaguardia della ricchezza comune, anche nell'interesse dei nostri figli e delle generazioni future.(…)

Queste furono alcune frasi del discorso che il Presidente della Repubblica Napolitano pronunciò durante la cerimonia celebrativa delle Dolomiti come patrimonio dell’umanità. Purtroppo pare che l’articolo 9 della Costituzione Italiana citato dal Presidente, e il suo auspicio affinchè in Italia conti la salvaguardia della ricchezza comune e non il “cieco soddisfacimento di interessi particolari”, abbiano faticato non poco per essere presi in considerazione anche nei confronti di Tuvixeddu, che è sempre stato una periferia in tutti i sensi, un luogo “sporco”, frequentato da una umanità ai margini della società, importante solo per quegli enormi interessi economici e speculativi di palazzinari e politici che definivano i loro affari col titolo di “Progetto di Riqualificazione Urbana ed Ambientale dei Colli di San Avendrace”.

E solo oggi, dopo le indagini della Procura della Repubblica di Cagliari e una serie di intercettazioni telefoniche rese pubbliche dai quotidiani sardi, viene alla luce la reale spazzatura che ricopriva le candide rocce di Tuvixeddu deturpandone tutta la bellezza.

Tra l’imprenditore del progetto immobiliare sul colle e una serie di personaggi facenti parte dell’humus politico, amministrativo e giuridico della città, personaggi che avrebbero dovuto applicare tutte quelle forme possibili di tutela in nome del bene comune, vi erano invece rapporti impostati proprio su quel “cieco soddisfacimento di interessi particolari”, di cui parlava il Presidente Napolitano.

Così in questi giorni arriva una sentenza del Consiglio di Stato che accogliendo il ricorso della Sovrintendenza per i beni architettonici e paesaggistici, si oppone alla costruzione degli edifici privati su una parte significativa di Tuvixeddu. Possiamo solo augurarci che i cittadini di Cagliari siano sempre vigili, non dimentichino questa vicenda e che siano più accorti nello scegliere i loro amministratori e che su Tuvixeddu venga applicata definitivamente una tutela integrale affinchè torni ad essere il luogo del silenzio, della pace e della poesia.

Manager d'oro, esperti all'angolo: l'agonia della cultura

Luca Del Fra

«Se non lo visiti lo portiamo via»: recitava così la pubblicità presentata in pompa magna al Ministero dei Beni Culturali lo scorso dicembre, corredata da inquietanti immagini del Colosseo, del Cenacolo e del David di Michelangelo.

Una campagna voluta dal supermanager Mario Resca, chiamato dal ministro Sandro Bondi alla valorizzazione del patrimonio culturale, e sembra molto ben pagata ma a quanto pare risultata respingente. Di sicuro il messaggio conteneva inconsapevolmente una verità: lo smantellamento del Ministero dei Beni Culturali negli ultimi due anni, da quando Bondi regge le sorti di questo dicastero, ha subito una devastante accelerazione.

Saltano i compiti istituzionali come la tutela e la programmazione, il personale è scarso e mal pagato, demotivato di fronte all’arrivo di agguerriti manipoli di manager privati o commissari straordinari super pagati - alla faccia delle difficoltà economiche -, con la Protezione Civile che praticamente ha «agguantato» tutte le vere iniziative dei prossimi anni nei Beni Culturali - Pinacoteca di Brera, aree archeologiche di Roma e Ostia, di Napoli e Pompei, oltre alla ricostruzione del centro storico de L’Aquila -, attraverso commissariamenti che permettono appalti assai più disinvolti che nella normalità. Nel frattempo Giuseppe Proietti lascia la carica di segretario generale - il ruolo più alto “non politico” del ministero - e al suo posto arriva Roberto Cecchi: un archeologo è sostituito da un architetto e si assiste alla progressiva sparizione degli storici dell’arte dagli alti ranghi ministeriali.

Incapace di reagire ai feroci tagli economici operati da Giulio Tremonti, poco competente in materia, incline a intendere il suo ruolo in maniera censoria, decidendo lui cosa sia da finanziare e addirittura cosa sia bello e cosa no, vittima spesso di falsi luoghi comuni, Bondi si sta dimostrando un ministro non all’altezza neanche di confrontarsi con le categorie - agli incontri con i sindacati viene portato via sotto braccio dal suo capo gabinetto Salvo Nastasi con la scusa che non ha tempo. E non è tutto. «Bondi ha applicato meccanicamente il decreto Brunetta che manda in pensione i dipendenti dello Stato con 40 anni di contributi».

Questa la denuncia Gianfranco Cerasoli, segretario della Uil per i Beni Culturali, che aggiunge: «Nei prossimi 4 mesi andranno via 6 direttori regionali e 16 soprintendenti o direttori di musei e archivi. L’idea di fare un ricambio generazionale nei livelli alti del ministero può anche essere condivisibile, ma non si fanno assunzioni: così tra qualche settimana ci troveremo con dirigenti che avranno 3 soprintendenze, altri con due regioni da seguire, oppure con una direzione centrale e una regionale».

Insomma il caos. La norma di Brunetta non era cogente e ogni ministro poteva applicarla in maniera più o meno rigida. Applicandola in maniera meccanica Bondi ha inferto un colpo mortale a un ministero già da tempo sotto organico: «Solo nella vigilanza dei musei mancano 6000 persone - insiste Cerasoli -, ma il fatto più preoccupante che porterà alla paralisi riguarda il settore tecnico-scientifico. Dal 1° gennaio la tutela del paesaggio è passata sotto il controllo dei Beni Culturali, ci sono soltanto 500 architetti già oberati di lavoro per affrontare le richieste di autorizzazioni paesaggistiche: ne occorrerebbe almeno il triplo. Senza considerare poi altri settori sotto organico e perciò in crisi: i tecnici e i restauratori».

Uno dei nodi scottanti è proprio la tutela del paesaggio: che in base al nuovo codice dei Beni Culturali spettasse alla direzione al paesaggio del Ministero dei Beni Culturali era stata salutata come una vittoria, e dopo molti rinvii da quest’anno la cosa è operativa. «Forse una vittoria di Pirro - osserva amaramente Maria Pia Guermandi di Italia Nostra -: le regioni che prima si opponevano hanno mollato la presa perché sanno che la situazione si è ammorbidita. Il Ministero ha abbassato la guardia perché mancano le risorse soprattutto umane e culturali.

Oltre a un personale scarsissimo è mancato il salto di qualità: un’occasione unica per passare dal funzionario borbonico, il burocrate che nuota nelle carte, al tecnico che entra nel merito. I piani regionali sono lettera morta, e i governatori si guardano bene dall’avviarli, poiché sanno che poi tutto dovrebbe svolgersi in quella cornice, anche i piani regolatori. Preferiscono il regime transitorio, con le soprintendenze regionali non in condizione di controllare realmente la situazione, con la direzione al paesaggio del Ministero degradata sotto le Belle Arti e senza più autonomia». S’alza in crescendo la musica delle betoniere del cemento armato nella grande partitura varata dal governo e intitolata “Piano casa”.

In questi ultimi 18 mesi spesso si è sentito parlare di commissariamento a proposito di molte aree d’interesse culturale: in realtà a essere “commissariato” è lo stesso ministro Bondi, considerando che perfino nelle attività culturali la presidenza del consiglio gli ha scippato la legge sul cinema. Tuttavia la politica perseguita dal governo di concedere superpoteri ai super commissari della protezione civile non sta avendo risultati positivi: l’ultimo caso è Brera, dove oggi si trovano l’Accademia di belle arti e la Pinacoteca. Entro il 2015 si dovrà trovare una nuova dimora per la scuola e trasformare l’intera sede in spazio espositivo per la Pinacoteca, e i lavori di ristrutturazione sono stati affidati al commissario straordinario Mario Resca. Già l’anno scorso la sua nomina a direttore generale per la valorizzazione del patrimonio culturale aveva destato molte perplessità: Resca è manager di notevole esperienza nel settore privato, tra cui McDonald’s, ma per sua ammissione di pochissima esperienza nella cultura, come non bastasse siede attualmente nel Cda Mondadori - da cui dipende Electa che fornisce servizi al Ministero e anche alla Pinacoteca di Brera -, dunque secondo molti in palese conflitto d’interessi.

La Uil conti alla mano sostiene che Resca per il solo commissariamento di Brera percepirà un compenso di circa 2,5 milioni di euro: una cifra spropositata per i nostri beni culturali e che nessun dirigente del Ministero, anche al massimo della sua anzianità e con molteplici funzioni, ha mai percepito. Inoltre Resca finora ha presentato un piano di grande vaghezza, asserendo che in 90 giorni sarebbero partiti i lavori seguendo il progetto dell’architetto Bellini. Al di là della disinvoltura che occorrerà per concedere appalti in così breve tempo, quello di Bellini è uno schema di progetto, che andrebbe sviluppato con cura, magari in accordo con i tecnici della Pinacoteca per capire a fondo le esigenze dello spazio. Come molti commissari di questo governo, Resca sembra più motivato ad aprire cantieri per milioni di euro, senza porsi troppi problemi sulla congruenza dei lavori.

Cultura al tramonto

Vittorio Emiliani

Sul sito del Ministero per i Beni culturali il faccione curiale di Sandro Bondi non compare più: ha smesso di recensirvi libri, il suo congedo dal Collegio Romano è vicino. Nemmeno gli anni di Giuliano Urbani, segnati dalla tremontiana Patrimonio SpA (facciamo cassa coi gioielli di famiglia), erano stati gloriosi, Ma, almeno, Urbani aveva cercato di tenersi fondi e competenze. Bondi si è comportato come un guardaportone: «Prego, accomodatevi». Chi si accomoderà ora al suo posto? L’ultima ipotesi che gira è Guido Bertolaso uno dei più potenti fra gli uomini di Berlusconi.

Bondi ha fatto entrare le accette di Tremonti amputando i già magri fondi del Mi.BAC: 1/3 in meno per la tutela del paesaggio; pura sopravvivenza per Soprintendenze, Istituti e Musei; servizi ridotti nell’archeologia e ipotesi di chiusure; indebolimento generale delle biblioteche; meno investimenti per i derelitti archivi; addio formazione e perfezionamento. Su queste macerie si è stagliato un sorridente Super Mario Resca nuovo direttore generale, ex McDonald’s, ex Casinò di Campione, tuttora nel CdA di Mondadori (controllante di Electa che fa business nei musei, e chi lo schioda?), presidente di Finbieticola e altro ancora. Incaricato di valorizzare, valorizzare e valorizzare, ha lanciato la campagna “terroristica” «Se non lo visiti, lo portiamo via» e si vedono degli operai che portano via il povero Cenacolo, un livido Colosseo smontato, il David. Che genio comunicativo! Intanto l’Istituto Centrale per il Restauro, gloria planetaria, lo portano via davvero da San Pietro in Vincoli, sfrattato dai frati Paolotti.

In compenso i bocconi migliori del patrimonio vengono sottratti alla regia del Ministero e commissariati con elementi spesso esterni: meno controlli, fondi propri, via libera agli appalti. Prima l’area archeologica di Roma e di Ostia (col Colosseo che pompa euro) col pretesto che il Palatino crolla, una mezza bufala: per buttare fuori la Soprintendenza e metterci il plurimedagliato Bertolaso. Poi, l’impegno aquilano e la compatta protesta (l’unica, temo, in tutta l’Amministrazione) degli archeologi romani ci hanno messo una pezza. Commissariata Pompei, altra rendita: subito in pensione il bravo Piero Guzzo. Commissariata Brera dove si spenderanno 50 milioni di euro (2,5 per Super Resca). Una vera e propria Amministrazione parallela. Ricca però. A fronte di un Ministero impoverito, frustrato, con stipendi da travet. E ora entra in funzione il Codice per il Paesaggio, con regioni inerti e altre, come la Sardegna, dove i piani salvacoste di Renato Soru sono stati subito cancellati dalla destra, i cementificatori ringraziano e ogni tecnico della tutela ha già 4-5 pratiche al giorno da sbrigare.

Emma Marcegaglia vuol portare al 20%, cioè raddoppiare, il Pil del turismo che in buona parte viene dal turismo culturale. Ma come si fa, se paesaggi, città d’arte, ville e parchi storici vengono assediati e imbruttiti da quell’edilizia che solo Berlusconi, rimasto all’800, considera il motore del mondo? Spunta la parola d’ordine salvifica: Eventi! Ma che mediocrità provinciale.

Dirigenti e funzionari la sperequazione degli stipendi

Luca Del Fra.

Gli stipendi nel settore del Ministero dedicato ai Beni Culturali presentano una netta scissione tra dirigenti e funzionari: entrambi dovrebbero avere competenze specifiche, ma i primi sono di nomina politica - alcuni non sono entrati in graduatoria ai concorsi -, mentre i secondi tutti assunti per concorso pubblico lavorano sul campo. Gli stipendi dei funzionari, che svolgono anche compiti di dirigenza di musei e scuole, sono bassissimi, in media un terzo delle altre realtà europee: a fine carriera il direttore di un museo celeberrimo come gli Uffizi o la Galleria Borghese arriva a prendere 1700 euro al mese, un dirigente dell'istituto superiore del restauro 1500.

I NEO ASSUNTI Singolare appare anche il compenso dei tecnici appena assunti: con paghe che superano di poco i 1000 euro al mese: molti di loro si troveranno a dover affrontare le pressioni esterne, come nel caso del controllo del paesaggio dove pesano gli interessi delle grandi imprese edili. In questo panorama non poche perplessità e polemiche ha destato lo stipendio di Mario Resca, l'ex manager di McDonald's nominato direttore alla valorizzazione dal ministro Bondi: l60mila euro all'anno cui aggiungere, secondo la Uil, 2,5 milioni di euro per la ristrutturazione della pinacoteca di Brera, un compenso mai elargito dal Ministero à nessuno dei suoi dipendenti.

RESTAURO - Rissotto «Restauri sfrattati e senza più sede»

Luca Del Fra

L'Onu ha descritto i nostri restauratori come i Caschi blu della cultura: quella italiana è una lunga tradizione che ha raggiunto risultati epocali. Ennesimo tassello del disfacimento dei Beni culturali italiani, oggi l'Istituto Superiore Centrale del Restauro (Iscr) di Roma è sotto sfratto e gli sarebbe stata data un'altra sede, al San Michele: «Dove non esiste lo spazio per essere operativi» esordisce secca Lidia Rissotto. «Quello che chiediamo - prosegue - è un posto che permetta di lavorare e di non essere annientati». Direttore coordinatore presso l'Iscr, distaccata come direttore alla scuola di Alta formazione e restauro di Venaria (Torino), Rissotto descrive così la situazione: «Dopo che le regioni hanno istituito una miriade di corsi in conservazione, non sempre ineccepibili, magari dando l'illusione di un attestato che avesse un valore, l'art. 182 dice che tutti coloro che non hanno frequentato Iscr o l'Opificio delle pietre dure devono dimostrare di avere una esperienza sul campo di 8 anni o sostenere un esame.

La cosa ha creato malumori, soprattutto tra i privati che sono soggetti a una anacronistica legge sugli appalti analoga a quella edilizia: le gare le vincono le grandi ditte, sul campo più aggressive, e poi subappaltano a loro per pochi soldi». La creazione di un albo dei restauratori con regole precise fa presagire l'ennesima sanatoria che contenti tutti. «La formazione di un restauratore - continua Rissotto - è fatta di un 50% di teoria e un 50% di laboratorio. Poi c'è la pratica sul campo accanto a un maestro di esperienza. La mancanza di personale a cui si aggiungono i pensionamenti forzati sta creando un vuoto di trasmissione, pericoloso. Il restauro, che era un nostro fiore all'occhiello, sta appassendo».

«Ressa di privati dopo i tagli»

Luca Del Fra

«I Beni Culturali sono un Ministero a forte vocazione tecnica. Il danno epocale che stanno causando la scarsità di personale e la valanga di pensionamenti decretati dal tandem Brunetta-Bondi è presto detto: senza il progressivo ricambio attraverso gli affiancamenti del personale si colpisce il cuore delle competenze. «Quello che chiamiamo restauro dei monumenti e siti archeologici è, o almeno dovrebbe essere, manutenzione sistematica, conservazione preventiva: insomma basarsi su una programmazione». Così Irene Berlingò, presidente di Assotecnici che riunisce le competenze tecnico-scientifiche del Ministero descrive quel diuturno lavoro di chi conserva i nostri beni architettonici: «Tuttavia - continua -, il drastico taglio dei fondi operato in questi anni ha avuto come conseguenza due il restauro sia finalizzato a degli eventi. Si chiamano gli sponsor per avere fondi e poi vista la scarsità del personale e la necessità di finalizzare il lavoro entro una data ci si affida essenzialmente ai privati, senza adeguati studi preventivi». Le parole pacate e misurate di Berlingò fanno intravvedere il tramonto di una grande tradizione italiana negli scavi archeologici che il mondo ci invidia, o forse ci invidiava. Il caso di Pompei è emblematico: nell'area archeologica vicino Napoli il 14 gennaio è avvenuto un crollo presso la casa dei Casti amanti, probabilmente causato anche dalla fretta. In altri tempi, quando a Pompei cadeva una tegola scoppiava il finimondo, con lunghi articoli su tutti i giornali. Ma oggi il sito è commissariato dalla protezione civile, ed è stato fatto di tutto per seppellire la gravità dell'incidente sotto la lava del segreto.

Si addensa la nebbia sugli scavi di Pompei. Solo ieri sera, dopo una settimana di silenzi, fra voci che si rincorrevano e inviti perentori a star zitti, arrivano i primi sprazzi di una versione ufficiale sul crollo avvenuto lunedì della scorsa settimana nei pressi della Casa dei Casti Amanti, che si affaccia su via dell’Abbondanza. In mattinata il direttore generale dei beni archeologici del Ministero, Stefano De Caro, tenuto all’oscuro della vicenda, ha chiesto alla Soprintendenza di Napoli e Pompei una dettagliata relazione. Un secco fax con una richiesta di chiarimenti a chi per legge ha il compito di tutelare gli scavi. Ma intanto nel tardo pomeriggio il commissario all’area archeologica, Marcello Fiori, e il direttore del sito, Antonio Varone, hanno fornito una versione di quanto accaduto. Poche righe in un lungo comunicato che esalta le meraviglie della Casa, di cui si annuncia l’apertura in febbraio. Grazie ai lavori nel cantiere in cui sarebbe avvenuto l’incidente.

È solo «un piccolo smottamento», assicura Varone, che non avrebbe provocato danni significativi. La causa? Le piogge. Che avrebbero fatto franare parte di un terreno «nell’insula adiacente a quella della Casa dei Casti Amanti». Comunque si ammette «il crollo di alcuni metri di un muro perimetrale dove non vi erano affreschi». Muro perimetrale, inutile aggiungere, d’epoca romana.

Molte cose restano, però, avvolte nella nebbia. Al crollo hanno assistito gli operai della ditta che eseguiva i lavori (il cantiere è stato subito dopo blindato). Ma alcune testimonianze concordano sul fatto che nella parte superiore del lato est dell’Insula IX, 11 (sono questi i riferimenti toponomastici di Pompei) stessero lavorando con un escavatore girevole di 30/40 quintali, in direzione di via dell’Abbondanza. È il mezzo più appropriato per muoversi in una zona così delicata? Tanto più che, sempre secondo alcuni racconti, l’escavatore stava togliendo terra in uno strato dove si dovrebbe procedere solo con le mani. Quest’opera di "terrazzamento", riferiscono le stesse fonti, avrebbe messo in luce la parte posteriore di un’altra casa, in particolare l’ambulacro est del peristilio e sette colonne. Il crollo avrebbe riguardato la parte superiore del muro di confine est dell’Insula IX, 11. C’entra qualcosa l’escavatore? È quello che deve essere accertato. Come pure il perché di tanta fretta, come se quello fosse un cantiere edile e basta e non gli scavi di Pompei. E poi: il cantiere ha una vasta copertura, com’è possibile che la pioggia abbia provocato lo smottamento? E, infine, perché tanto mistero? Chiarimenti chiedono ora Italia Nostra, che per prima ha denunciato la vicenda, e un’interrogazione parlamentare di Luisa Bossa del Pd.

Il punto chiave della vicenda è comunque il rapporto fra il commissario e la Soprintendenza. Andato in pensione Pietro Giovanni Guzzo, che ha diretto l’ufficio per quindici anni, è stata nominata Maria Rosaria Salvatore, archeologa di grande esperienza, alle soglie della pensione. Ma il vero soprintendente è Fiori, al quale la Salvatore avrebbe lasciato molte competenze. Pompei è una macchina enorme, complessa sia dal punto di vista amministrativo, sia perché resta un grande cantiere di studi e di indagini. È la Soprintendenza che ha in carico la tutela e la ricerca archeologica. Non il commissario, che pure ha svolto importanti lavori, come il completamento del restauro all’Antiquarium.

Crollo o non crollo, la storia pompeiana rilancia la polemica sui commissariamenti decisi da Sandro Bondi. I commissari, provenienti dalla Protezione civile (come Fiori), ma non solo, tendono a esautorare le soprintendenze, a corto di finanziamenti, con poco personale e con funzionari sempre più anziani. Ma cosa succede con i commissari? «Succede che le procedure vengono semplificate», rispondeva Guzzo poco dopo aver lasciato il suo incarico, «introducendo, per esempio, criteri assolutamente discrezionali nella distribuzione degli appalti, in deroga a tutte le norme vigenti. Insomma si creano postazioni che godono di maggior fiducia, politicamente molto utili».

Commissariamenti a catena. L'arte continua a finire sotto sorveglianza mentre si elargisce una pioggia di soldi a chi si trova a gestirla - saltando le altre competenze - investito di poteri straordinari in situazioni di emergenza. I commissariamenti che piacciono tanto alla coppia Berlusconi-Bondi stanno alla cultura come la fiducia eternamente richiesta da questo governo (o il decreto-legge-lampo) sta al Parlamento. L'ultimo è quello di Brera, «il Louvre italiano», come lo chiama il ministro, che sfoggerà la sua imponenza entro il 2015, in parallelo all'Expo. Per motivazioni imperscrutabili, arriverà al traguardo soltanto da «bene commissariato». L'importante è esautorare - che siano le sovrintendenze, i deputati o la Costituzione stessa - le impalcature democratiche di uno stato, agendo senza intralci. Così lo stipendio d'oro (il cui ammontare, come segnalato dai sindacati, si potrebbe aggirare intorno ai 2,5 milioni di euro) del super manager Mario Resca, già direttore generale ai beni culturali e ora anche tutore con poteri speciali del polo museale Grande Brera può far sussultare (se corrisponde a verità), ma non è il solo punto dolente.

La vera follia gestionale è quella che utilizza come carta vincente i commissariamenti. Come è finito, ad esempio, quello propagandato come ineluttabile ai Fori romani e al Colosseo? Bertolaso e la Protezione civile hanno avuto altro da fare (sisma in Abruzzo) e a Roma sono subentrati nuove guide per contrastare il «degrado irreversibile» dei siti archeologici. Eppure avere finanziamenti cospicui e facili non risolve con la bacchetta magica i problemi preesistenti. Qualcosa però insegna: mette in campo i grandi appalti - è stato dimostrato perfettamente all'Aquila nel corso della «non politica» di risanamento attuata nel centro storico - e soprattutto accontenta molti imprenditori. Se poi le «isole protette» intorno ai beni stentano a decollare, poco importa. Meglio incassare intanto i consensi nel settore degli affari.

È stato previsto che il progetto del nuovo polo museale milanese - con la sistemazione della Pinacoteca e il trasferimento dell'Accademia nella caserma di via Mascheroni - costerà all'incirca 50 milioni di euro. Il 5% del totale sarebbe destinato al direttore dei lavori, in questo caso «il commissario» Resca. Emilia De Biasi e Emanuela Ghizzoni, deputate Pd in commissione cultura, hanno chiesto con un'interrogazione parlamentare al ministro Bondi di chiarire «sia il progetto per il museo di Brera sia le motivazioni del commissariamento che hanno portato alla nomina di Mario Resca». Dal Mibac si sono affrettati a smentire i numeri esorbitanti: «Il compenso è equiparato a quello del direttore dei lavori, ossia, in base a quanto prevede la normativa, al massimo corrisponderà al 20% dello 0,5% dell'importo dei lavori posto a base di gara; inoltre tale cifra è dilazionata nell'arco della durata del cantiere». Ma nessuno ha spiegato la necessità dell'ordinanza del Presidente del consiglio che ha designato Resca unico «intestatario» di Brera.

Propongo di istituire il premio "Attila per la Comunicazione" e di assegnarlo al Mibac, Ministero per i beni e le attività culturali. È in corso, infatti, una delle più sgraziate e peregrine campagne di comunicazione dell'anno. Non si è ancora spenta l'eco del formidabile slogan delle Ferrovie dello Stato (voi portate coperte e panini, ai treni ci pensiamo noi?) che arriva quello del ministro Bondi: se non lo visiti, lo portiamo via.

Questo è lo spot televisivo messo in onda dal ministero. Arrivano quattro elicotteri, stile Apocalypse now. Compare, tra le nuvole e agganciato a lunghi cavi, il David di Michelangelo. Si riconosce, in basso, il centro di Londra. Irrompe la scritta: se non lo visiti, lo portiamo via. Stacco, altra scritta: In Italia ti aspettano da sempre i più grandi capolavori della storia dell'arte. Riscoprili.

Altro spot, altro soggetto, stesso stile e modo. È notte, alcune enormi gru lavorano alla luce di potenti fotoelettriche: stanno smantellando il Colosseo, pezzo per pezzo. La chiusa del breve comunicato (15 secondi) è la solita: se non lo visiti, lo portiamo via!

Per par conditio geografica e culturale, medesima triste sorte toccherà al Cenacolo di Leonardo su giornali, riviste e su poster stradali.

Sugli obiettivi dell'iniziativa, nulla da eccepire. Da tempo ci si augura che, dopo la lunga stagione della conservazione fine a se stessa, si mettano in opera strategie e attività per una moderna valorizzazione economica e una più efficace e democratica comunicazione della cultura e del suo patrimonio. D'accordo anche sul fatto che sarebbe bene aumentassero i visitatori dei musei e che le famiglie e i giovani avessero più dimestichezza con pinacoteche e gallerie. Giusto che, a fronte di una crescente domanda di cultura e di arte, l'offerta debba essere più attenta e sensibile alle esigenze del visitatore.

Ma, a parte il fatto che i simboli culturali scelti dal ministero come "testimonial" dell'infelice campagna di comunicazione sono tra i luoghi e i beni più amati e frequentati in assoluto e che accostare il claim minatorio "se non lo visiti lo portiamo via" al Colosseo (4 milioni di visitatori l'anno!) provoca un effetto tragicomico, non ci si poteva sforzare un poco e trovare un'idea creativa migliore? Una comunicazione un tantino più raffinata o, perlomeno, più cordiale e gentile?

Proprio in questi giorni, per fare un esempio, moltissime persone hanno investito alcune ore del loro tempo e tanta umana sofferenza a causa del gelo di Milano per poter vedere un solo quadro: il Battista di Leonardo. Ebbene, quei signori (24 mila solo negli ultimi due giorni di apertura) sono andati a Palazzo Marino perché una corretta comunicazione ha fatto loro sapere, gentilmente, che quel capolavoro sarebbe stato ospite del nostro Paese, solo per poco tempo, e poi se ne sarebbe tranquillamente tornato al Louvre.

Così, di solito e a tutte le latitudini del mondo, funziona la comunicazione culturale. Senza elicotteri, senza gru e, soprattutto, senza minacce.

La "sindrome di Stendhal alla rovescia" (grave insensibilità alla cultura, all'arte, al bello) ha colpito duramente il ministro Bondi e i suoi collaboratori. Ne avevamo avuto, più volte, il sospetto. Ora, questo stile di comunicazione, lo conferma in modo certo.

*L’autore è consulente e docente in Comunicazione e Marketing della Cultura.

Natale a Beverly Hills è un film di interesse culturale. Avete capito bene, non è una battuta alla Crozza: il cinepanettone di Neri Parenti che sta invadendo le nostre sale natalizie è stato riconosciuto - dalla Commissione cinema del ministero con delibera dello scorso 4 dicembre - film di «interesse culturale». Decisione da confermare, dopo la «visione della copia campione del film». Se la commissione preposta all’erogazione dei finanziamenti pubblici al nostro cinema, confermerà tale decisione, la «gastroenterica» commedia della Filmauro di De Laurentiis potrà accedere - sia ben chiaro - non a contributi in denaro, ma a tutta una serie di agevolazioni, create per sostenere il cinema di qualità. Per esempio sgravi fiscali (tax credit), il riconoscimento di film d’essai, la possibilità per il distributore di accedere ad un fondo - questo sì in denaro - in relazione agli incassi.

«Si tratta di un precedente di una gravità estrema», dice Citto Maselli dell’Anac, la storica Associazione degli autori. «In questo modo, infatti, si permette ad un film, di legittimo e straordinario valore commerciale, di accedere a quei circuiti riservati, invece, ai film italiani ed europei di qualità che soffrono di una visibilità limitata».

PICCOLI ESERCENTI IN RIVOLTA

Lo sanno bene quegli esercenti eroici, resistenti alle lusinghe del cinema commerciale, che si battono per tenere aperte le loro piccole sale di provincia, programmando, appunto, cinema di qualità. Come Arrigo Tumelleri, per esempio, proprietario del Cinema Verdi di Candelo, paesino di 8mila anime in provincia di Biella, «sgomento» alla notizia del riconoscimento di «film culturale» per Natale a Beverly Hills. «Posso capire - dice - che un tale “bollino” sia dato, magari, ad una commedia d’esordio di Ficarra e Picone. Ma un film di Neri Parenti che incassa milioni perché dovrebbe ottenere certe agevolazioni?».

CIARPAME CULTURALE

Nell’Italia del «ciarpame culturale», insomma può capitare anche questo. Come pure che, il «bollino doc» del ministero, venga rifiutato - è accaduto nella stessa sessione del 4 dicembre - ad un film che di «culturale» avrebbe tutti i crismi: Morire di soap di Antonietta De Lillo, la regista del pluripremiato Il resto di niente che qui propone una riflessione sul contemporaneo, stravolto dal soffocante potere televisivo. Troppo «culturale», evidentemente per i nostri tempi. Meglio le Winx che, infatti, hanno ottenuto il riconoscimento del ministero.

Ma alla base di certe scelte, diciamo così, surreali, c’è soprattutto un meccanismo di legge, per accedere ai finanziamenti pubblici, che fa acqua. Stiamo parlando, infatti, del «reference system» che fu introdotto, ai tempi, dal ministro Urbani. Per ottenere l’accesso ai fondi pubblici, infatti, bisogna avere già in tasca degli ottimi «voti». Tipo: premi, cast famoso, buoni incassi. Se la «pagella» vale si è idonei per accedere al denaro pubblico, che può essere anche il riconoscimento di interesse culturale, appunto, con o senza denari. In questo modo, va da sè, che un certo cinema meno allineato sulla «medietà» italiana ha più difficoltà. Ricordiamo, anni fa quando, parlando appunto di «reference system», suscitammo le ire del ministro Urbani chiedendo: ma non si richiesca in questo modo che il denaro pubblico, invece di aiutare il cinema d’autore, vada a finanziare i cinepanettoni? Ebbene ci siamo arrivati. Il prossimo passo sarà Il Grande fratello sotto l’alto patrocinio del Capo dello Stato.

Postilla

All’amaro sorriso che accompagna questa notizia, aggiungiamo due considerazioni minime a commento della dilagante insipienza che alberga al Collegio Romano (sede Mibac). L’evidente corto circuito di cui quest’ultimo episodio è riprova, è il frutto di un sistema appiattito in partenza sui meccanismi quantitativi: se un film ha buoni incassi, ha maggiori probabilità di accedere alle agevolazioni ministeriali.

Non solo da questo episodio risulta chiaro come la logica imperante cui l’ultima gestione ministeriale si è adeguata, sia quella del numero e della quantità: i numeri delle top list e l’aumento quantitativo dei turisti sembra essere d’altronde l’unico obiettivo culturale del Direttore Generale alla Valorizzazione così come trionfalmente dichiarato nell’autocelebrativa conferenza stampa di due giorni fa.

E’ il processo di trasformazione del bene culturale in merce che, come segnala da sempre eddyburg, caratterizza questa fase politica della gestione del territorio e dei beni comuni nel loro complesso e che si accompagna, come in questo caso, inesorabilmente, all’inversa sublimazione della merce in bene culturale: il cerchio si chiude. (m.p.g.)

Un altro commissariamento (quello di Brera) e un altro incarico per Mario Resca da poco al Mi.BAC quale direttore generale “valorizzatore” dell’intero patrimonio storico-artistico. La strategia del governo è chiara: “commissariare” l’Italia, con proconsoli liberi di assumere decisioni importantissime senza dover rispettare le normali procedure, di spendere forti somme senza il controllo della Corte dei conti, di appaltare grandi lavori accorciando i normali e trasparenti percorsi.

Dopo Pompei, le aree archeologiche di Roma e Ostia (col pretesto di vari disastri ambientali...), i lavori per gli Uffizi, tocca alla “grande Brera”. I soprintendenti in carica (e quindi scaricati) obietterebbero facilmente – se non fossero colti da afasia (a parte i compattissimi e ammirevoli archeologi di Roma e Ostia Antica) – che, con quelle scorciatoie e quei fondi, loro avrebbero fatto altrettanto senza dover stipendiare un altro ben pagato Commissario straordinario. Il quale: a) di musei sente parlare solo da qualche mese; b) ha tanti altri incarichi che si tiene ben stretti.

Mario Resca – pur essendo stato oggetto di pungenti interrogazioni parlamentari (Giulietti, De Biasi, Ghizzoni, Melandri, Adamo, ecc.) – è tuttora incollato alla poltrona di consigliere della Mondadori SpA controllante in toto di Electa, la maggiore impresa di servizi museali.

Per i quali è lui ad avere la delega specifica (gare d’appalto incluse). È inoltre presidente di Confimprese, dell’American Chamber of Commerce in Italia, di Finbieticola (dismissione di zuccherifici e di maxi-aree), promotore di centrali elettriche nel Vogherese, consigliere di Arfin, ENI, UPA e Finance Leasing SpA. Ora pure vicerè a Milano per Brera.

A quando Commissario straordinario del Ministero trasformato in ipermercato?

Se è vero che l’identità di un paese si rispecchia nelle sue biblioteche, la fotografia nazionale appena prodotta dal ministero dei Beni Culturali ci restituisce il ritratto di un’Italia smarrita, priva di memoria, che volge le spalle alla sua stessa tradizione. Nell’arco di cinque anni, le risorse finanziarie per l´attività delle biblioteche pubbliche statali - quarantasei istituti, tra cui la Braidense, la Laurenziana, la Malatestiana, l´Angelica e la Casanatense - sono state ridotte della metà (da trenta milioni a sedici milioni di euro), con un depauperamento ancora più marcato per le due Biblioteche Nazionali Centrali di Roma e Firenze, custodi delle stesse fonti dell’identità nazionale italiana. Dall’acquisizione dei libri alla valorizzazione, dalla prevenzione alla tutela, dai servizi per il pubblico all’informatizzazione, non c’è passaggio nell’attività delle biblioteche che oggi non mostri limiti e disfunzioni. Il confronto con la British Library di Londra o la Bibliothèque Nationale de France finisce per essere mortificante. E per l’istituto romano di viale Castro Pretorio, si rischia la chiusura.

Il merito di aver prodotto un quadro aggiornato del "costume bibliotecario degli italiani" è della stessa Direzione generale per le Biblioteche. «Mi auguro che sia lo strumento per ottenere maggiore attenzione politica e soprattutto un incremento di fondi», spiega il direttore Maurizio Fallace. Il rapporto redatto da una commissione di esperti non è sospettabile di ambiguità: la situazione appare molto critica, quasi disperata. Diminuisce la qualità dei servizi, decresce di conseguenza anche la domanda, ossia il numero dei prestiti e delle persone ammesse al servizio. «Se non si aggiornano le collezioni librarie e se non si ha la possibilità di catalogare tempestivamente il materiale acquisito, anche l’utenza è scoraggiata», recita il rapporto del ministero. Per inquadrare il malessere, basterà qualche cifra.

Se nel 2005 si spendeva per il patrimonio bibliografico 8.263.311 euro, la previsione per il 2010 è di 3.605.877. La spesa per il funzionamento del servizio bibliotecario informatico passa da cinque milioni a meno di quattro milioni di euro, mentre per la tutela dei libri e dei documenti la perdita è ancora più secca: da 3.525.966 a 650.000 euro (consentita appena la manutenzione degli impianti di sicurezza, antifurto o antincendio, mentre mancano le risorse per i lavori di spolveratura, rilegatura, disinfestazione). Anche la catalogazione nel Sistema Bibliotecario Nazionale mostra una vera emorragia: dagli 823.821 euro del 2005 agli 84.645 euro previsti per il prossimo anno. Cifra del tutto inadeguata: solo per il materiale del Novecento, sono almeno cinque milioni i volumi non ancora catalogati (il loro recupero costerebbe circa venti milioni di euro).

Emblema del grave declino è rappresentato dalle due Biblioteche Centrali, di Roma e Firenze. Quella romana risulta oggi la più sacrificata, con una dotazione di 1.590.423 euro (rispetto al 2001 la decurtazione è pari al 50 per cento): per un buon funzionamento occorrerebbero almeno trenta milioni di euro. Il paragone con le sorelle europee è schiacciante: la dotazione annua della Bibliothèque Nationale de France è 254 milioni di euro, quella della British Library supera i 159 milioni. Se riferiti al personale, i dati sono ancora più clamorosi. Anche in questo caso, la comparazione può essere utile: alla Bibliothèque Nationale lavorano 2.651 persone, in quella inglese 2.011, a Firenze 205, a Roma 264: complessivamente le due biblioteche nazionali italiane hanno un patrimonio librario equivalente a quello parigino - circa 14 milioni di volumi - ma vi lavora meno di un quinto del personale impiegato a Parigi.

Le conclusioni del rapporto non fanno presagire niente di buono. Per la Biblioteca Nazionale di Roma, «le risorse attualmente disponibili non bastano a garantire neppure la pura e semplice sopravvivenza dell’istituto». Come distruggere la propria carta d’identità, quella in cui siamo venuti meglio.

Giapponesi infuriati che assaltano il Louvre in un estremo tentativo di tornare a casa dopo aver omaggiato la Gioconda. Lavoratori museali francesi in sciopero dal 2 dicembre contro i prossimi tagli occupazionali. Alcuni musei (tra cui il Louvre) che oggi per forza maggiore riaprono. Altre istituzioni irriducibili (tra cui il Beaubourg e la Sainte-Chapelle) che rimangono sprangate. Caos a Parigi nel weekend pre-Immacolata.

E una diffusa, forse non imprevista sensazione: che le opere d’arte, anche se da lungo tempo nell’era della loro riproducibilità tecnica, siano un servizio essenziale. Che la cultura sia un servizio essenziale in Paese civile; come i trasporti pubblici, per dire. Il che darebbe ragione a tutti: ai turisti che dopo un lungo viaggio vogliono vedere i quadri, agli operatori culturali che non vogliono essere decimati, a chi vive di turismo nelle città d’arte. Dove la cultura — mai scordarlo — è un motore dell’economia.

Specie in paesi come la Francia e l’Italia. E in tutta quell’Europa che ha perso peso economico ma resiste (anche) trasformandosi in un’Eurodisney per visitatori grandi e piccini. E magari dovrebbe moltiplicare le attrazioni invece di ridurre i fondi come se si trattasse di biglietti d’auguri dei ministeri. È un problema in Francia come da noi (chiedere ai sovrintendenti delle nostre strapelate Belle Arti, in caso).

Ma è un guaio/opportunità che non si risolve solo trovando sponsor per restaurare attrazioni note ai giapponesi e aprendo nei musei ristoranti e bookshop. Ci si dovrebbe (in Francia e da noi) inventare dell’altro. Non solo far vedere, fare capire. Spendere qualche euro anche per stimolare la creatività. E tentare di ridiventare un laboratorio. I musei sono un servizio essenziale ma non sufficiente. Non basta guadagnare rifocillando i turisti. Non basta produrre qualche erudito che — genere colonnello Hans Landa di Bastardi senza gloria — conosca a menadito arti e lettere e poi vada sereno a caccia di ebrei. La cultura europea ha ancora parecchio da dire e da dare, anche partendo dai suoi errori. Per questo serve.

Il caso Mario Resca si fa sempre più imbarazzante. Ieri ha esposto i dati della crisi degli ingressi nei musei e le linee-guida della “sua” valorizzazione. Per i servizi aggiuntivi egli ha una delega specifica del ministro e però si tiene stretto un posto nel CdA della Mondadori SpA che controlla (100 per 100) Electa SpA capofila fra le imprese appaltatrici dei servizi museali medesimi. Quindi - nota la Confsal-Unsa - come Ministero, Resca prepara le nuove gare alle quali, come Mondadori-Electa, poi parteciperà. Conflitto di interessi da manuale. Ma il ministro Bondi e il sottosegretario Giro lo negano. Forse temono che, ammettendolo, “offenderebbero” il Grande Capo che ne ha uno gigantesco.

Intanto però dai Beni Culturali – sostiene Confsal - Resca percepisce 160.000 euro lordi l’anno (un direttore di grande museo non arriva ad un quarto), ma ha mantenuto pure la lucrosa presidenza di Finbieticola (che dismette gli ex zuccherifici) e quella di Confimprese. Fioccano le interrogazioni. Rispondendo all’on. Giulietti, il sottosegretario Giro ha negato ogni possibile incompatibilità con Finbieticola, annunciando: “con grande senso istituzionale, il dott. Resca comunicherà, nei prossimi giorni, la sua disponibilità agli azionisti della società a sospendere il proprio mandato”. Attenzione: sospensione, non dimissioni. E ci sono voluti mesi di polemiche e una interrogazione. Su Mondadori-Electa ha presentato un’interrogazione circostanziata l’on. Giovanna Melandri (Pd). Aspettiamo la risposta.

La vicenda di Finbieticola si complica. I proventi della vendita dell’area di Casei Gerola (500mila mq all’incrocio fra le autostrade To-Pc e Mi-Ge) sono stati prosciugati dalla bonifica. Eseguita dal rag. Giuseppe Grossi oggi ospite di San Vittore per l’altra di Santa Giulia a Rogoredo (Mi) “gonfiata” – lo accusano - per creare supposti fondi neri. Lui poi ha acquistato l’area di Casei (per un maxi-centro commerciale?) e lui doveva, con la Finbieticola di Resca, costruire una centrale elettrica a sorgo al posto dell’ex zuccherificio (55 milioni di fondi Ue). Ma i Comuni di Silvano e di Casei ed ora anche quello di Voghera dicono no alla centrale, accusando Resca di comportarsi “come un signorotto locale”. La Forestale indaga sulle bonifiche di Grossi in Oltrepò, inclusa Casei. Si concilia tutto ciò con la dignità di un direttore generale ai Beni culturali? Chi valorizza chi? e che cosa?

Nuova spallata al Codice dei Beni Culturali, con l’aggravante di conflitti interni al ministero. Dopo le dismissioni di Patrimonio Spa, dopo sanatorie e condoni edilizi e ambientali, dopo il rinvio delle norme di tutela del paesaggio, dopo le deroghe e i trucchi del "piano-casa", è il turno del patrimonio mobile. Il casus belli è (per ora) uno splendido comò del Settecento, opera di Antoine-Robert Gaudreaus, ebanista del re di Francia Luigi XV (valore dichiarato 15 milioni di euro). È un mobile di altissima qualità le cui tracce in Francia si perdono nel 1794, finché rispunta a Roma verso il 1980, e viene immediatamente vincolato dalla Soprintendenza. Altri mobili francesi di tal pregio raggiunsero le corti italiane, per esempio Parma (una figlia di Luigi XV andò sposa al duca Filippo di Borbone), anzi uno assai simile è al Quirinale. Non c’è da stupirsi che un pezzo come questo sia stato vincolato pur essendo di proprietà privata. Il Codice dei Beni Culturali, come già la legge Bottai del 1939, inserisce fra i beni culturali vincolabili «le cose mobili e immobili che presentano interesse artistico particolarmente importante» di proprietà privata (art. 10).

Che la commode sia stata prodotta da un artista francese, non importa: la legge italiana si fonda sui caratteri intrinseci delle opere da tutelare, e non sulla nazionalità, l’etnia o il sangue degli artisti che le hanno prodotte. Perciò sbalordisce che l’istanza di rimozione del vincolo, avanzata sin dal 1999 e più volte respinta dal ministero dei Beni Culturali, sia stata ora accolta con una motivazione giuridicamente insussistente: il mobile non apparterrebbe al patrimonio storico-artistico italiano in quanto di produzione francese. Più ancora stupisce la procedura: il 6 luglio il direttore generale per le Belle Arti ha chiesto il parere dell’ufficio legislativo del ministero, che ha prontamente risposto ribadendo la legittimità del vincolo sulla base di valutazioni di merito e di diritto; ma senza nemmeno citare questo parere, il direttore generale ha annullato il vincolo (1 ottobre). Doppiamente giustificati, dunque, tanto il ricorso contro l’annullamento avanzato da Italia Nostra quanto l’interrogazione alla Camera presentata dall’on. Giovanna Melandri.

Una motivazione come quella del decreto di annullamento scavalca di molto la commode e i suoi proprietari recenti (fra cui Edmond Safra, il finanziere di origine libanese ucciso a Monaco in circostanze misteriose nel 1999), anzi spalanca un abisso, affermando un principio che rischia di estendersi a tutte le opere di artisti stranieri presenti in Italia. Saranno esportabili i quadri di artisti portoghesi, fiamminghi, provenzali, catalani presenti nelle nostre chiese, collezioni e musei? Non fanno parte del patrimonio artistico italiano i van Dyck di Genova, i Rubens di Mantova e di Roma, l’Innocenzo X o il Francesco I d’Este di Velázquez? Diventeranno ipso facto esportabili le centinaia di arazzi fiamminghi in musei, chiese, case e collezioni private? Dovremmo disfarci anche dei bronzi di Riace, visto che sono indubbiamente opera di artisti greci? E il grande modello per il monumento a Innocenzo XI in San Pietro (1701), premiato un mese fa come la più bella scultura della Biennale dell’antiquariato a Firenze (e a quel che pare non ancora vincolato), è forse esportabile, dopo secoli in casa Odescalchi, solo perché l’autore, Pierre-Étienne Monnot, non era italiano ma francese?

L’annullamento del vincolo della commode fa di peggio: onde consentirne l’esportazione, si appella alla normativa sulla circolazione dei beni negli stati dell’Unione europea. Ora, si sa che sul patrimonio artistico le leggi dei singoli Stati membri divergono profondamente: la tradizione di tutela, tipica dell’Italia o della Grecia, si contrappone alla deregulation di Stati (come la Gran Bretagna), che non per niente sono il paradiso dei mercanti d’arte. Ma la circolazione dei beni di pertinenza italiana all’interno della Comunità non può includere il patrimonio artistico senza violare l’art. 9 della nostra Costituzione, che è sovraordinato a qualsivoglia convenzione europea. Come ha scritto Giuseppe Severini, lo statuto giuridico dei beni artistici nell’ordinamento italiano «fa eccezione ai principi generali della piena proprietà e del libero commercio» (così l’art. 42 Cost.). La disciplina della tutela, anche dei beni di proprietà privata, si impernia sulla priorità del pubblico interesse, che si esprime mediante la «dichiarazione di interesse culturale particolarmente importante» prevista dal Codice. Questa la strada sempre seguita dal ministero, e ribadita poche settimane fa dall’ufficio legislativo. Demolirla in nome del libero commercio, anche per una sola commode, apre una falla pericolosissima, su cui si avventeranno come avvoltoi mercanti e legulei, presto in caccia di opere "esportabili perché non italiane" su cui speculare. La domanda è: questa spallata al Codice è un incidente di percorso, o segnala all’interno del ministero l’esistenza di un "partito" votato allo smantellamento delle norme di tutela? C’è davvero qualcuno che vuol rinunciare alla gloriosa cultura italiana della tutela in nome di un immiserito neoprovincialismo?

Ma quanto lavora questo Mario Resca. Vabbè, è un supermanager e tiene vicino a sé il ritratto di Super Silvio, però mettere d’accordo la premiata ditta Raffaello, Michelangelo, Caravaggio & C. con gli ex zuccherifici, le aree fabbricabili da dismettere e magari le virtù energetiche del sorgo non dev’essere semplicissimo. Lui però dal Collegio Romano, o dal San Michele, zompa come niente al Municipio di Voghera dove “alza la voce” per convincere il sindaco ad accogliere in quel territorio agricolo un’altra centrale elettrica, la “sua”.

Ma non era stato reclutato per valorizzare il patrimonio artistico italiano con un contratto privato, con ogni probabilità sontuoso, almeno per i Beni Culturali (dove il direttore di un grande Museo non arriva a 1.800 euro al mese)? In effetti sì. Senonché al multiforme Resca (ex Mc Donald’s, ex Casinò di Campione) la Finbieticola – erede di Italiana Zuccheri da lui presieduta – dev’essere rimasta nel cuore oltre che nella dichiarazione dei redditi. Al punto da non poterla lasciare. Con qualche conflitto di interesse. Ad esempio, come la mette se contro la Centrale da lui perorata – coi fondi dell’ex zuccherificio – vengono invocati vincoli paesaggistici? Come la mette col suo coinquilino direttore generale che decide, appunto, di quei vincoli? Più in generale: è legittimo che un supermanager di Stato detenga in un sol colpo incarichi pubblici strategici e incarichi privati con interessi così corposi? E’ legittimo che vada da un sindaco a convincerlo della bontà della “sua” Centrale? In questo Paese succede di tutto, però un qualche paletto, magari, ancora c’è. O forse il nostro è il solito “complotto della sinistra”? Il solito subdolo “accerchiamento”?

La tutela degli interessi paesaggistici resta affidata, per ora, alla magistratura amministrativa che continua ad emanare sentenze che confermano la validità giuridica e tecnica delle disposizioni del piano paesaggistico approvato dal precedente governo di centrosinistra sardo, rigettando uno dopo l'altro i ricorsi presentati da più parti. Circa 150 ricorsi al giudice amministrativo, almeno cento quelli straordinari al Presidente della Repubblica. Approvato nel 2006, il piano paesaggistico - che salvaguarda le coste sarde e ne disciplina rigorosamente le trasformazioni compatibili con la tutela ambientale al fine di lasciare alle generazioni future interi territori incontaminati tentando di spostare gli interessi turistici verso l'interno per valorizzare i numerosi centri storici e le aree agricole sarde - è di fronte a due paradossi.

Il primo,che nonostante la dichiarata avversità, la nuova amministrazione regionale è costretta a difendere attraverso i suoi legali le scelte del piano Soru, che vorrebbe - se potesse - cancellare con un colpo di spugna. Il secondo, che nel gioco degli interessi «antagonisti» alla tutela dell'ambiente una buona percentuale di ricorsi sono stati presentati dai comuni che dovrebbero avere più di altri a cuore la tutela del territorio e non solo dai privati lesi nei loro interessi proprietari. Il TAR Sardegna (sentenza n.979/2009) ha rigettato il ricorso del Comune di Arzachena e il Consiglio di Stato (sentenza n. 5459/2009) ha definitivamente rigettato il ricorso dal Comune di Villasimius. A questi ricorsi potrebbero aggiungersi anche quelli soccombenti del comune di Cagliari e di molti altri comuni della costa sarda. Il difficilissimo lavoro di integrazione tra conoscenza dei luoghi, elementi cartografici e norme giuridiche di disciplina dei beni paesaggistici da tutelare ha resistito ancora una volta all'attacco degli enti locali che - in nome di una equivoca sussidiarietà - rivendicano l'autonomia delle scelte sul proprio territorio, dimenticando che non esistono salo gli interessi locali ma anche e soprattutto quelli regionali e nazionali da salvaguardare in nome della protezione del paesaggio sardo, che resta ancora - tra i pochi - espressione dell'identità ambientale insulare da tramandare alle generazioni future.

Che poi gli interessi «locali» siano, in realtà, rappresentati da interessi economici provenienti dal «continente» ovvero dalle numerose imprese edilizie nazionali che vedono nelle terre costiere sarde occasione di speculazione cui le amministrazioni locali prestano ascolto, barattando il futuro dei sardi con il consumo quotidiano del territorio, è cosa fin troppo nota per essere ancora una volta denunciata. La miopia di alcune amministrazioni locali, attraversate ormai dai «flussi» degli interessi che nulla hanno a che fare con la Sardegna, mostra ancora una volta come la tutela del paesaggio non possa che essere materia statale cui la Regione dà attuazione attraverso le regole del Codice del paesaggio del 2004.

La tutela dell'ambiente è in contrasto - si sa - con la cultura del consenso ed è per questo che non può essere invocata la sussidiarietà poiché essa cela l'egoismo territoriale e non la solidarietà nazionale. Non potendo modificare le norme paesaggistiche ipso facto, poiché oggi la tutela paesaggistica va esercitata d'intesa con l'amministrazione dei Beni culturali, e questo richiede tempi lunghi ed incerti risultati, la Regione di centro destra sta provando ora con il piano casa, ovvero con quel provvedimento legislativo contrattato da tutte le regioni nei suoi contenuti con il Governo nell'intesa del maggio 2009 che, «per rilanciare l'economia», prevede alcune premialità edilizie (del 20% per gli aumenti di volumetria e del 35% per la demolizione e ricostruzione). E dove pensa il governo Cappellacci di localizzare questi incrementi di volumetria? Essenzialmente sulle coste sarde oggetto di vincoli paesaggistici, riavviando anche alcuni progetti di lottizzazioni che il piano paesaggistico aveva provvidenzialmente dichiarato decaduti. Legge che se approvata con questi contenuti è sospetta di palese incostituzionalità.



Tanto tuonò che piovve: dopo le ripetute scampanellate di Giorgio Napolitano e le incursioni polemiche di Ernesto Galli della Loggia e di altri storici, sembra proprio che la mongolfiera delle celebrazioni per il l5oesimo anniversario dell'Unità d'Italia (2011) stia finalmente per mollare gli ormeggi e sollevarsi da terra. Mercoledì prossimo, i6 settembre, si riunisce il Comitato dei garanti presieduto da Carlo Azeglio Ciampi per discutere le proposte di Sandro Bondi, cui il presidente del consiglio ha affidato il timone. Il testo del documento è pronto e già circola tra gli addetti ai lavori. Il ministro dei Beni culturali parte da una domanda di fondo: «Che cosa è l'Italia per noi?». «Credo che ilnostro governo si risponde Bondi ha sempre pensato alle molte Italie, perché la caratteristica principale del nostro paese è di avere storie diverse.

E sono queste storie che hanno prodotto il patrimonio culturale di cui l'Italia è oggi orgogliosa» Le proposte del ministro hanno dunque di mira un obiettivo essenziale: «Valorizzare l'Italia delle città, dare valore alle differenze in chiave federale, e questo nel rigoroso rispetto dell'unità e dell'autorità dello Stato nazionale, che solo può dare al nostro Paese un ruolo in Europa e nel mondo e garantire l'eguale tutela dei cittadini e la valorizzazione della cittadinanza». Commemorare l'unità esaltando la diversità: l'ossimoro tradisce la preoccupazione di non riacutizzare i mali di pancia antistatalisti della Lega, ma anche lo sforzo di rassicurare il Capo dello Stato, che ha più volte auspicato «progetti di carattere prevalentemente culturale, pedagogico e comunicativo, diretti a rappresentare e rafforzare la nostra identità nazionale», con la conseguente bocciatura della «celebrazione edilizia» messa in cantiere dal precedente governo di centro-sinistra. Tutto bene, dunque? Vediamo.

Tra le iniziative di carattere culturale proposte dal ministero, al primo posto troviamo i convegni dedicati alla «valorizzazione delle molte anime del Risorgimento... che non furono soltanto quella monarchica quella democratico-liberale... ma anche quella federalista (Cattaneo, Gioberti)». Gioberti? Qui non si sa se per fretta, superficialità o eccesso di zelo filo-Carroccio l'estensore del documento ha mescolato il diavolo con l'acqua santa, perché non si può mettere in uno stesso calderone il federalismo del laico Cattaneo, che guardava alla Svizzera e all'Europa futura, col neoguelfismo del pur benemerito Gioberti, che teneva l'occhio fisso ai domini pontifici e all'Italia degli staterelli preunitari. Si prevedono poi letture sui padri della patria, una grande mostra delle regioni, un approfondimento sul Mezzogiorno, un recupero dei luoghi della memoria tra cui la casa di Garibaldi a Caprera, un'antologia degli statuti comunali, concorsi nelle scuole su episodi, figure e luoghi rappresentativi dell'unificazione nazionale, cori scolastici con musiche operistiche («Va' pensiero»?) legate all'epopea del Risorgimento.

Ma le proposte più singolari riguardano la nascita di un centro per lo studio delle catastrofi naturali all'Aquila (definita ombelico d'Italia), del quale francamente è difficile cogliere il nesso con il centocinquantenario dell'unità, una «banca dati delle lapidi commemorative» e annessa «caccia alla lapide» da parte delle scolaresche e soprattutto un «censimento dei dizionari dialettali», che negli intenti dei funzionari ministeriali «fotograferebbe la variegata realtà linguistica del dopo Unità e risponderebbe anche ad una esigenza avvertita». Avvertita da chi? Provate a indovinare... A parte il fatto che per censire i dizionari dialettali basta consultare online la biblioteca nazionale di Firenze, non sarebbe più urgente e importante ricostruire gli sforzi fatti e i risultati ottenuti in questo secolo e mezzo per alfabetizzare gli italiani e unificare il paese sul piano linguistico?

E come si può ignorare, nel quadro delle celebrazioni, un fenomeno come le migrazioni interne, che hanno portato al Nord soltanto negli ultimi dieci anni ben sette-centomila meridionali (per lo più diplomati e laureati)? È legittimo il timore che, per compiacere un partito della coalizione a forte vocazione regionalistica, si mettano in risalto più le cose che ci dividono che non quelle che ci uniscono. Dopotutto, se l'Italia ha conquistato un suo posto di rilievo tra le nazioni più progredite del mondo lo deve agli uomini e alle donne (settentrionali e meridionali) che hanno fatto il Risorgimento, costruito lo Stato unitario, che hanno combattuto e sono morti nelle guerre di indipendenza, nelle due guerre mondiali, nella resistenza, e poi a tutti quelli che, dal 1945 in poi, sono stati artefici della rinascita democratica e della ricostruzione economica. Vogliamo ricordare degnamente tutti questi eroi grandi e piccoli, o ci accontentiamo di dare la caccia alle lapidi? Nel suo promemoria, il ministro Bondi precisa saggiamente che «tutte le iniziative saranno sottoposte al Comitato dei garanti affinché possa esprimere la propria valutazione». Valutate, signori garanti, valutate bene.

Domani a Roma ci sarà la notte bianca. Notizia di per sé trascurabile, se non fosse che l'avvenimento provochi nel sindaco Alemanno un moto di acuta irritazione. Non foss'altro perché, abolire quella che nel passato era stata la fastosa vetrina di chi l'aveva preceduto, era stato il primo provvedimento del suo mandato. E dunque il fatto che, nonostante i suoi proclami, in alcuni Municipi si perseveri in questa per lui malsana attività, incrina sensibilmente la sua alquanto traballante autorevolezza.

Che il sindaco non sia contento, dipende poi anche dalla sottolineatura politica che le iniziative di sabato notte contengono.

Tutte rivolte a contrastare l'atmosfera incattivita che si è diffusa in città, con le aggressioni agli stranieri, alle donne, agli omosessuali e più in generale con l'affiorare di squadracce di farabutti che si sentono autorizzati a spargere lacrime e sangue in ogni angolo di città. «Più cultura meno paura» è il titolo della notte bianca del X Municipio, quello di Cinecittà, che poi è la più estesa e articolata negli eventi e negli spettacoli. Tra i quali, non casualmente, è previsto nel suggestivo spazio delle Officine Marconi un white party di Muccassassina, organizzato dal Circolo di cultura omosessuale «Mario Mieli».

Il senso originario

Offrire un'occasione per vivere le piazze tutti insieme, tra un sorriso e un applauso, in fondo, è il senso originario di questa manifestazione, che nel passato, con il suo gigantismo tutto concentrato nella città storica, era stato progressivamente disperso. Non più costringere le periferie a raggiungere gli eventi in centro, ma organizzare gli eventi nelle periferie stesse, permettendo così una partecipazione più autentica e coinvolgente: una riappropriazione sociale di spazi e luoghi consueti, per una volta accesi e splendenti, un antidoto alle diffidenze e ai rancori che animano (e turbano) i sentimenti popolari. E a Roma proprio di tutto ciò c'è bisogno. Di una nuova politica culturale che dia un impulso coraggioso, uno slancio generoso nei quartieri di bordo, proprio laddove è necessario ricreare coesione sociale, senso di appartenenza, il conforto insomma di sentirsi comunità: che poi non è altro che riattivare la relazione sociale.

E una delle (tante) cose che la sinistra non capisce più è che la politica è proprio (soprattutto) relazione sociale: quel misurarsi concretamente con le pulsioni che agitano le persone. Soprattutto quando tali sentimenti appaiono difformi, se non opposti, al proprio sentire. Ci si ritrae, un po' infastiditi e spesso anche avviliti, se il confronto con il senso comune prevalente rimanda ostilità e rifiuto verso il proprio modo di essere e di pensare. Se ne capiscono anche le ragioni, politiche e culturali. Ma, ugualmente, di fronte a chi dice che la sinistra fa schifo, che il sindacato è inutile e che insomma è meglio vivere di ronde e veline piuttosto che pagare le tasse e mischiarsi con romeni e senegalesi, il riflesso è quello di offesa estraneità e la conseguenza è quella di uscire di scena. Consolandosi con qualche improperio contro Berlusconi e Bossi che hanno narcotizzato le coscienze e monopolizzato il consenso.

A che serve questa tiepida lezioncina? A confermare uno dei tanti vizi che a sinistra sembrano ineliminabili, e cioè che basta raccontarsela in una qualche forma analitica per spegnere le proprie dolorose inquietudini? Ma no, non è così, non è soltanto così. È anche per provare a superare questa crescente catatonia politica, che ci ha un po' contagiato tutti. Del resto, ritrovarsi a sinistra isolati e minoritari, nel passato ha avuto perfino risvolti tragici: è insomma successo tante volte e tante volte succederà ancora.

E quindi chiedersi cosa fare, come fare e soprattutto perché fare, continua ad avere un senso e molte ragioni.

Tra i vari luoghi comuni che ci diciamo, più per malinconia che per disappunto, è che la destra ha vinto prima sul terreno culturale e poi sul versante politico. Aggiungendo subito dopo che l'uso spregiudicato della televisione commerciale è stato lo strumento principale attraverso cui si è consumata la storica sconfitta dell'egemonia culturale della sinistra e determinata una progressiva passivizzazione sociale. Vero. Ma ciò che non si coglie (non si vuol cogliere) è che il successo di tale formula ha a che fare più con l'irruzione dei nuovi linguaggi culturali, con lo sviluppo tecnologico dei mezzi di comunicazione, che non con un destino avverso e malvagio. E la formuletta struttura/sovrastruttura (che oggi potremmo sintetizzare economia/cultura) non è più così scientificamente certa, e aiuta solo in parte a spiegare cosa sia successo lungo il transito da un secolo all'altro; un passaggio gestito da un capitale sempre meno manifatturiero e sempre più rarefatto, e forse proprio per questo attrezzato, oltreché abile, a comporre intorno a sé modelli sociali e contenuti simbolici.

È passato quasi un secolo da Benjamin (e mezzo secolo da Wharol) e stiamo ancora qui a stupirci se l'immaginario diffuso oggi si nutre in prevalenza di sottoprodotti culturali, se non di peggio. È stato inevitabile che la produzione artistica e culturale venisse riprodotta sempre più impoverita e sterilizzata, e poi veicolata da mezzi di comunicazione più immediati e più accessibili, che nel frattempo qualcuno s'era incaricato di accumulare. Fino a comporre un indistinto e promiscuo tessuto mediatico, dove tutto diventava uguale a tutto e tutto si teneva intorno a una regressiva ordinarietà. Disperdendo la qualità, indebolendo l'impatto: e pertanto formando un modello culturale modesto e soprattutto neutrale, che nel tempo è precipitato nella rinuncia a tutto ciò che alzava i toni, impegnava l'intelligenza, graffiava le coscienze, contrastava la stabilità emotiva, svelava l'inganno dell'auto-consolazione.

Al cuore della coscienza sociale

Ora, si può continuare ad agire la politica culturale rivendicando il proprio angoletto nel sottoportico della Rai, difendendo le postazioni ai vertici delle istituzioni culturali, rifugiandoci dietro la nobile produzione repertoriale e antologica, osando sempre meno sperimentazioni e innovazioni, chiedendo più finanziamenti per cinema, teatro, danza, ecc. E d'accordo, facciamolo pure. Ma l'impressione è che se non si torna a discutere, a ragionare, ad accapigliarsi perfino, nel cuore vivo della coscienza sociale, tra le persone in carne e ossa, non solo miglioreremmo solo di poco lo stato delle cose esistenti, ma non riusciremmo più ad afferrare quegli esili fili che ancora ci tengono legati ai cambiamenti sociali.

La sinistra non produce più immaginario. Appare stanca e anche un po' sgradevole. Ma certo se rinuncia a esprimersi dove farlo è più difficile, nelle piazze e per le vie, se non ha più la voglia e la forza di mettere su un palco e parlare con il linguaggio dell'espressività artistica, magari valorizzando quelle tante esperienze e soggettività che si agitano purtroppo invano nei territori e nelle metropoli, diventa francamente difficile sperare in una sua rinnovata capacità di attrazione politica e seduzione culturale.

Nel loro piccolo, le notti bianche dei Municipi romani non sono solo forme resistenziali o, peggio, retaggi nostalgici, ma contengono soprattutto un desiderio politico. Che speriamo venga raccolto. Arrivederci a domani.

Molte sono state le “città ideali” di derivazione platonica pensate, disegnate o dipinte fra ‘400 e ‘500. Basti pensare alle tre tavole, tutte urbinati, la più bella delle quali esposta in Palazzo Ducale, volta a volta attribuita a Laurana, a Francesco di Giorgio, o all’Alberti (con un pensiero a Piero). Poche invece quelle realizzate, fra cui spicca la gonzaghesca città-Stato di Sabbioneta (Mantova), assieme allo stesso “palazzo in forma di città” di Urbino, a Palmanova, a Pienza (Siena) “firmata” dal Rossellino, alla Ferrara rinascimentale, alla piazza di Vigevano.

Patrimonio conservato. Come lo sono, per lo più, migliaia di centri storici murati di origine remota. Non più offesi direttamente dagli anni del fascismo o del dopoguerra. Appena fuori le mura però, li stringe d’assedio un’edilizia brutta e volgare (legale o abusiva che sia) che sconcia il paesaggio circostante. Vogliamo vivere anche di turismo culturale e ci diamo la zappa sui piedi distruggendone le premesse, la “materia prima”. Un Paese di cretini.

Appena fuori le mura della metafisica, intatta Sabbioneta si vuole ora ampliare una fabbrica per la lavorazione del legno che, secondo gli abitanti, inquina pesantemente l’aria oltre che la vista della mirabile “città ideale”. Prima favorevole, ora perplessa la giunta Pdl. Contrario un comitato di cittadini che, denunciando i pericoli del doppio inquinamento, suggerisce saggiamente di spostare tutto in un’altra area della stessa società. Se fossimo in un Paese davvero “europeo”, il governo regionale avrebbe già orientato l’ampliamento in modo da rispettare Sabbioneta “patrimonio dell’Umanità” Unesco da appena un anno. Non si può essere un po’ meno ciechi?

L´Egitto vuole salvare i suoi tesori dal turismo di massa, anche a costo di vietare l´accesso ai siti più visitati. «Dobbiamo dimezzare il numero dei visitatori. Dagli attuali 8-10 milioni all´anno bisogna arrivare a 4-5 milioni», annuncia dal Cairo Zahi Hawass, l´archeologo a capo del Consiglio supremo per le antichità egiziane. Tremila anni di storia vacillano infatti sotto al peso di 10 milioni di turisti. Se necessario, dice Hawass, non si deve esitare a sbarrare i siti più fragili e imporre biglietti-capestro all´intera area di Luxor, come già avviene per l´interno delle piramidi di Giza, le tombe del faraone Tutankhamon e della regina Nefertari.

Drastiche le misure annunciate da Hawass per il futuro. Presto la maggioranza delle tombe di Luxor e dintorni potranno essere chiuse per salvarle dagli effetti del turismo mordi e fuggi: «Centinaia di visitatori ogni giorno, il fiato, il sudore, per non parlare di chi tocca tutto o usa il flash sfuggendo alla sorveglianza. Tutto questo sta facendo sparire le pitture, la cui brillantezza e definizione si perdono a vista d´occhio». La soluzione secondo Hawass - ma non si conosce ancora il parere del ministro del turismo - è puntare ad avere in Egitto la metà dei visitatori, ma disposti a pagare di più. Tutti gli altri, ha annunciato l´archeologo egiziano, potranno godere delle meraviglie del regno dei faraoni tramite una ricostruzione virtuale. Pitture a grandezza naturale e un sistema di videoriproduzione laser restituiranno fra breve l´atmosfera della tomba di Tutankhamon. Successivamente il progetto sarà esteso alle sepolture di Nefertari e Seti I.

Il patrimonio archeologico della Valle del Nilo pone al Cairo seri problemi di conservazione. Tanto che Hawass un paio di settimane fa aveva lanciato il primo allarme. «Fino a oggi il 18 per cento del nostro patrimonio archeologico è andato perso a causa della mancanza di restauri», ha dichiarato al quotidiano al Masry al Yom. «Ci siamo sempre concentrati sull´avvio di nuove campagne di scavo e sugli annunci sensazionali delle scoperte. Lasciando al proprio destino i monumenti già famosi».

Resta da vedere se le misure auspicate da Hawass verranno accettate da tutto il governo: il turismo in Egitto è la prima industria del paese, una fonte di reddito di 5 miliardi di euro, alimentata proprio dai pacchetti a basso costo e dai numerosi voli charter.

Qualche perplessità in realtà viene sollevata anche dagli esperti. Le idee di Hawass non convincono ad esempio Maria Casini, responsabile della sezione archeologica del Centro culturale italiano al Cairo. «Non credo che aumentare i prezzi dei biglietti sia la soluzione giusta. Tra l´altro il paese già si avvale del contributo di moltissimi restauratori stranieri, fra i migliori al mondo. Anche gli italiani sono presenti con decine di progetti».

Intanto, per rimediare alla sovrappopolazione delle aree di Luxor, Karnak, della Valle dei Re e di quella delle Regine, dal 2 dicembre verranno trasferite 3200 famiglie acquartierate fra i monumenti, in quella che i giornali egiziani hanno definito «la più grande migrazione organizzata dalla costruzione della Grande Diga». Gli abitanti che ora vivono tra centinaia di sepolture dell´età faraonica, saranno trasferiti a una decina di chilometri di distanza, nel villaggio di Qurna al Gadida, la "nuova Qurna".

Il Tempo

Arte che rende. Bel Paese fabbrica di ricchezza

Chi se lo ricorda un capo del governo al Collegio Romano, austera sede del ministero più povero d'Italia?

Berlusconi ha spezzato l'incantesimo e ieri ha riempito come mai il Salone del Consiglio Nazionale dei Beni Culturali per tenere a battesimo la rivoluzione firmata dal mite e deciso ministro Bondi e dal lesto supermanager Mario Resca, re Mida di McDonald chiamato otto mesi fa a raddrizzare le sorti grame del dicastero che potrebbe essere la gallina dalle uova d'oro del Bel Paese.

Per lui al Collegio Romano è stata creata la Direzione Generale per la valorizzazione del patrimonio culturale. Da dopodomani pienamente in vigore. Dunque, il premier al Collegio Romano.

Entra con mezz'ora di ritardo, mentre in platea lo aspettano archeologi e volti tv, direttori di musei e di archivi (da Marzullo a Strinati, da Alessandro Nicosia allo storico Aldo G. Ricci).

«Ho tardato perché Bondi mi ha portato a vedere la biblioteca del ministero. Lo invidio, al confronto io lavoro in un retrobottega», attacca frizzante Berlusconi.

È l'avvio di un incontro fitto di annunci, un'antologia di interventi su spettacolo e archeologia, su istituti di restauro e scuole, su televisione e cinema. Tutto sotto il comun denominatore «cultura». E sotto la filosofia: le risorse vanno impiegate razionalmente, su progetti qualificanti, non disperse con contributi a pioggia.

Con preciso obiettivo, uscire dall'assistenzialismo, perché la «cultura, che non è né di destra né di sinistra, come è successo da Bottai a Gramsci, ma solo cultura, meno dipende dallo Stato e più è libera», dice Bondi, seduto alla destra del premier, mentre alla sinistra c'è Resca.

Allora come finisce la storia del Fus, il Fondo Unico per lo spettacolo del quale da mesi si aspetta il reintegro?

«Lo incrementeremo con il prossimo decreto legge - promette Berlusconi - La Scala e gli altri teatri non possono chiudere. Se Tremonti dice no non lo fa perché è un mostro, glielo impone la realtà dei conti».

E però «andremo a un reintegro verso i 60 milioni di euro. L'anno prossimo cercheremo di spostare qui qualche risparmio sulla spesa».

Bondi allarga il ragionamento: «Non è solo necessario aumentare gli stanziamenti, ma lasciare il campo all'iniziativa privata. La defiscalizzazione può essere uno strumento».

Ma è tutto il sistema Bel Paese che ha bisogno di emulsionarsi.

«Serve un drizzone dalla politica, l'Italia deve promuovere di più il patrimonio artistico, non può continuare a spendere in questo settore un ventesimo di quanto spende la Spagna. Quando confronto il numero dei visitatori dei musei in Francia o in Inghilterra con quelli italiani mi cadono le braccia», si sfoga il Cavaliere.

Che fare? «Pubblicità in tv e manifestazioni, come l'Expo del 2015», la sua ricetta.

«Quando ho visitato il Colosseo con il presidente cinese Hu Jintao, mi ha confermato che la nostra civiltà non ha pari al mondo».

E qui il premier rilancia i progetti del Ponte sullo Stretto e della Tav, «così i turisti potranno velocemente sostarsi da Firenze a Roma, da Roma a Napoli e più a Sud».

Basta poi con «gli introiti dei musei all'erario, vadano ai direttori, avranno una spinta a promuovere la loro struttura». Resca, tempestato di polemiche appena nominato, dice di essere ancora più motivato dopo la ricognizione nei musei stranieri e italiani. E sciorina cifre e strategie.

«La domanda turistica legata ai beni culturali è passata in 10 anni dal 18 al 35 per cento ed è qui che bisogna mirare, perché un euro investito in cultura si moltiplica per sei nell'indotto. Bisogna capire e comunicare le esigenze del visitatore-cliente. E serve un'alleanza tra pubblico e privato».

Insomma, la tattica dell'efficienza e del sorriso. Ma intanto il rilancio dei musei conterà su 40 milioni di euro e dieci milioni andranno agli istituti di restauro: «eccellenze italiane», dice il ministro.

Soldi in arrivo da Arcus, la spa in condominio col ministero delle Infrastrutture che gestisce per la cultura il 3 per cento delle spese per Grandi Opere. Berlusconi sollecita anche l'apertura serale dei musei. Ribattono il sindacato: «Le facevamo dal 2001. Ma Urbani le bloccò. Seguito da Buttiglione, Rutelli e Bondi».

APCOM

Berlusconi: Per musei faremo una vera rivoluzione.

"Quando vedo il numero dei visitatori dei musei di Londra e Parigi e li confronto con quelli di Roma e Milano mi cadono le braccia". Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, nella conferenza stampa al fianco del ministro dei Beni culturali Sandro Bondi, ribadisce il suo sconforto per la mancata valorizzazione del patrimonio artistico italiano e dice: "Così non si può più andare avanti, serve una vera e propria rivoluzione, un 'drizzone'". Per Berlusconi dunque "è ora di cambiare" ed introdurre "una nuova mentalità" nella gestione del patrimonio artistico e in particolare dei musei: "Devono stare aperti fino a sera e anche il sabato e la domenica, devono essere accoglienti e offrire tutte le facilities", e poi affaccia la possibilità di un cambio radicale anche nell'incasso dei biglietti: "Oggi gli incassi vanno tutti all'erario e quindi i direttori dei musei non hanno una spinta a promuovere la loro struttura". Un compito che il premier è sicuro possa essere svolto con successo da Mario Resca: "Ha girato il mondo, ha visto tutti i musei più importanti, senza pretendere una retribuzione dallo Stato, ed è tornato con la convinzione che serva un'inversione di rotta a 180 gradi".

Anche per intercettare l'aumento del flusso turistico mondiale atteso nei prossimi anni: "Noi attiriamo una quota risibile" rispetto alle potenzialità, lamenta Berlusconi. E questo anche perchè "spendiamo un ventesimo di quello che la Spagna spende in promozione".

Nel mondo, osserva il premier, "c'è grande curiosità per l'Italia", ma poi serve che scatti lo stesso meccanismo che "fa allungare la mano di una massaia sullo scaffale di un supermercato per prendere un certo prodotto invece di un altro".

E dunque "la curiosità va supportata con la pubblicità: sulle televisioni ma anche con le manifestazioni", per esempio sfruttando "l'Expo di Milano del 2015". Infine Berlusconi ha avuto parole di elogio per Bondi, "ho grande stima per lui e la sua onestà intellettuale", ma anche di invidia bonaria: "Gli ho espresso il mio compiacimento, la mia ammirazione e invidia per la biblioteca del Collegio Romano che mi ha fatto visitare: al confronto io lavoro in un retrobottega. E lo pagano pure... è una situazione di ingiustizia totale".

Postilla

Simile caleidoscopio di sciocchezze e banalità alla rinfusa, non meriterebbe che un no comment sdegnato. Ma il fatto che tali affermazioni provengano dalle più alte autorità governative e siano state pronunciate nella sede ufficiale del Ministero, le connota, purtroppo, di un peso politico quasi drammatico.

Le parole di Berlusconi e Bondi sanciscono in via definitiva il passaggio del nostro patrimonio allo status di merce, “la gallina dalle uova d’oro” bisognosa di null’altro che di “pubblicità” affinchè il “visitatore-cliente” allunghi la mano, come la massaia, per afferrarla sullo scaffale dell’offerta turistica.

In questo contesto “filosofico”, di desolante povertà, anche dal punto di vista dell’innovazione manageriale, appare la sequenza delle ricette sfoderate per fare la “rivoluzione”: Berlusconi, ringalluzzito dalle rassicurazioni di Hu Jintao che gli ha “confermato” (lui, il premier cinese a quello italiano) la primazia del nostro patrimonio, ingiunge l’apertura serale dei musei (sperimentata dal 2001 e annullata per mancanza di fondi), mentre Bondi, da parte sua, per stornare da sé ogni sospetto di richiesta nei confronti di Tremonti, fa appello all’iniziativa privata e rispolvera la defiscalizzazione, che in tempi di evasione fiscale arrembante appare concetto quasi metafisico.

Solo un passaggio merita adesione, laddove il ministro afferma che “la cultura non è né di destra, né di sinistra, ma o è cultura o non lo è”.

Appunto, questa di sicuro non lo è. (m.p.g.)

Comunicazione di servizio per Sandro Bondi, ministro dei Beni culturali: il più bel bagno dei musei italiani è quello del Mart di Rovereto. Marmo nero e crema di sapone fucsia. Neanche quello del Louvre è tanto elegante. Così, forse potrà passare l'informazione a Mario Resca, il suo super consulente, l'uomo che diventerà centrale nel nuovo ministero riformato. Uno che a ogni riunione non fa che protestare per lo stato delle toilette di quei musei che visita e rivisita con l'obiettivo di rilanciarne l'immagine. In un anno di lavoro, molti viaggi, da New York a Berlino. Ma, a parte l'hit parade dei wc (a Napoli ha raccontato ad allibiti studiosi di aver preferito il cesso di un bar a quello dell'Archeologico) e la disdicevole mancanza di uniformi per i custodi, zero idee. E nemmeno si è vista la promessa capacità di attrarre il mondo imprenditoriale verso le disastrate finanze della cultura pubblica. Eppure, Resca è stato promosso: lo aspetta la poltrona di capo della neo direzione generale per la Valorizzazione del patrimonio culturale.

L'ennesima operazione mancata del dicastero firmato Bondi. Alla vigilia della rivoluzione. Quella della mega riforma prevista per i primi di agosto che sembrava essere l'asso nella manica del soffice ministro. Un progetto partito malissimo fin dalla presentazione alla commissione Cultura della Camera: maggioranza spaccata, dimissioni di Fabio Granata, relatore del Popolo della libertà (ex An), in disaccordo con lo smantellamento di una struttura che, in fondo, ha retto fin dagli anni Trenta. Peccato. Per Bondi doveva rappresentare il segno del suo passaggio nella storia della cultura italiana. L'imprinting sulla polverosa macchina del palazzo del Collegio romano.

E il sigillo di un anno vissuto alla guida di un ministero infernale, cenerentola fra i ministeri per l'Italia del fare, un tempio per l'intellighenzia gauche non solo caviar. Un pachiderma che governa sui nuraghe e sul cinema d'autore, sulla Biennale di Venezia e sulla dinastia Orfei, sugli artisti di strada e sugli affreschi del Quattrocento. Ovvero 3500 musei di Stato,100 mila tra monumenti e chiese, 2000 siti archeologici, più tutto il mondo dello spettacolo: 250 mila lavoratori e 6000 imprese, a occhio e croce. In questo impero, Bondi è entrato con le fanfare annunciandosi come il profeta del "recupero della bellezza" e perfino come il primo fra i ministri capace di essere un ponte tra la cultura della sinistra e l'efficenza imprenditoriale della destra. Da un certo punto di vista, ce l'ha fatta. In una coreografia mai vista prima, sono scesi in piazza contro di lui attori, registi, autori, cantanti, intellettuali e saltimbanchi. Di destra come di sinistra, da Luca Barbareschi a Citto Maselli, tutti uniti nel chiedere la sua testa. Un miracolo politico, per carità. Un vero disastro gestionale.

Incudine (di gomma, però) tra due martelli (d'acciaio) il povero Bondi ne ha di dolori. Da una parte, Renato Brunetta, ministro della Pubblica amministrazione, lo insegue per abbattere i costi del personale. Dall'altra, Giulio Tremonti, ministro dell'Economia, gli falcidia i fondi. Bondi che fa? Deplora e rassicura. Promette e si dispiace. Sventola ipotesi di dimissioni che non dà mai. Intanto, tra crisi economica, stanziamenti per il terremoto d'Abruzzo, i soldi sono diventati davvero pochi. Il Fus, fondo unico per lo spettacolo, istituito negli anni Ottanta, da allora si è ridotto a un terzo e per il 2009 al solo 0,1 del Pil: in tutto 398 milioni contro i 471 del 2008. Il finanziamento ordinario per la manutenzione del patrimonio, già insufficiente si è ridotto del 30-40 per cento. Al punto che se il tetto di una chiesa fa acqua, nessuno potrà sostituire le tegole. Per non parlare del blocco delle assunzioni e dello stop ai concorsi voluto da Brunetta in un organico già carente di restauratori e di ispettori ministeriali.

Qualcuno dirà: che c'entra Bondi? Giusto. Infatti lui cerca di entrarci il meno possibile. "È troppo devoto a Silvio per alzare la voce e creare dei problemi alla Lega che se ne sbatte della cultura, vista come roba romana e di sinistra" sussurra un Bondi boy. La verità è che il ministro non sa o non vuole prendere posizione. E tanto meno presentare un piano alternativo. "La legge per il cinema è del 1965. Quella per la musica del 1967. Una normativa vecchia di quarant'anni. Invece di riformare, l'unica risposta è tagliare. A questo sistema spettacolo servono 700 milioni di euro " sostiene Alberto Francesconi, presidente dell'Agis. " Invece ce ne sono meno di 400. Forse sarebbe il caso di sapere quale sistema spettacolo immagina il governo. Quattro sole fondazioni liriche? Un pugno di film l'anno? La fine della danza e dei circhi? Che qualcuno abbia il coraggio di scegliere su cosa puntare. Oppure cercare altri finanziamenti come ha fatto Jack Lang in Francia. Si è inventato la tassa sulle tv per sostenere la cultura raccogliendo 560 milioni di euro l'anno".

Ma per il found raising non c'era il mago Resca, lo sdoganatore del Mac Donald d'Italia, il manager che il Cavaliere doveva pur sistemare da qualche parte, e che ora è uno degli uomini forti del ministero? Uno di quegli uomini che rassicurano e blindano l'ondivago Bondi, come anche Gaetano Blandini, direttore del Cinema e Salvo Nastasi, l'enfant prodige della direzione Spettacolo dal vivo, commissario del Teatro San Carlo di Napoli. Uomini forti, dicevamo. Sicuramente poco loquaci. Visto che nessuno di questi gli ha suggerito che non è bene per un ministro promettere quello che non può mantenere. Bondi non sarebbe dovuto andare alla presentazione dei David di Donatello al Quirinale garantendo un reintegro al Fus prendendosi anche i complimenti di Giorgio Napolitano. Né avrebbe dovuto mandare il suo sottosegretario Francesco Giro a spargere cose analoghe alle Giornate del teatro. Tantomeno tagliare il nastro della Biennale arte con lo sguardo nostalgico di chi già pregusta il ritorno al coordinamento del partito. "Mesi fa, in una riunione con gli enti lirici il ministro arrivò a dire che se le risorse non fossero state sufficienti sicuramente avrebbe restituito il mandato" racconta Walter Vergnano, sovrintendente del teatro Regio di Torino."Allo stato attuale non abbiamo nemmeno i quattrini per pagare gli stipendi, e non mi sembra che tiri aria di dimissioni".

L'insostenibile leggerezza del ministro, più ancora della scure di Hannibal Tremonti, irrita a tal punto gli animi da scatenare una guerra tra poveri. Gli enti lirici piangono ma i cineasti rispondono che sono proprio loro a mangiare quasi metà del Fus.

Chiuso nella sua stanza, Bondi si guarda bene dal convocare tutti e trovare una soluzione decorosa. Sogna, invece, via dell'Umiltà, sede romana del Pdl di cui è uno dei tre coordinatori con Denis Verdini e Ignazio La Russa (anche se la sua nomina era stata solo formale). "Sandro, si sente la tua mancanza", a un certo punto lo aveva galvanizzato Berlusconi. Così per dire, come fa spesso il Cavaliere. Ma il ministro ci aveva creduto, tanto da essere lì lì per lasciare il dicastero, prima di capire che era stata una boutade e che Verdini avrebbe alzato le barricate. Invece ad alzare le barricate è ora il mondo della cultura che pretende cose impossibili per lui: non poesie ma riforme, non il "recupero della bellezza" ma quello dei soldi, non l'abilità comunicativa di un Resca ma un dicastero all'altezza del patrimonio più grande del mondo. Quello che un tempo vantava fior fiore di sovrintendenti come Andrea Emiliani, ora in pensione, Antonio Paolucci, scritturato al volo dal Vaticano o Nicola Spinosa, artefice del rilancio internazionale di Capodimonte, pre-pensionato di prestigio a causa della riforma, e ancora in attesa di conoscere il nome del suo successore, il quale commenta: "Se di fronte ai tagli non si ha la forza di difendersi e rafforzare la macchina del ministero, la battaglia è perduta".

A dir la verità, almeno una volta Bondi i muscoli li ha mostrati. Alleandosi con la sovrintendente Federica Galloni che ha posto dei vincoli su un pezzo di agro romano laddove il Piano regolatore di Veltroni prevedeva un milione di metri cubi da edificare. Un siluro per il Pd. Ma anche una bella grana per il sindaco Gianni Alemanno che, travolto dai forti malumori dei potenti costruttori, ha scongiurato Bondi di tornare sui suoi passi. Ma il ministro, per una volta, sembra di ferro. Per forza: la tattica è pura politica. In vista delle elezioni regionali 2010, l'obiettivo è portare l'attenzione, la premura, e gli interessi dei poteri forti della capitale nell'orbita berlusconiana. Certo così di far cosa gradita al Cavaliere. In fondo, Silvio è quel che gli interessa di più. Molto più del Fus, del patrimonio, degli Stati Generali della cultura, dei cineasti che urlano, degli enti lirici che boccheggiano, delle orchestrali a spasso, e persino del "recupero della bellezza".

Questo documento è la trascrizione di una lunga conversazione, promossa dal nostro Giornale, nel salotto di casa Crespi.

Protagonisti sono i due personaggi probabilmente più noti a quella (piccola) parte della popolazione italiana che presta attenzione alle vicende e al futuro del patrimonio artistico del Paese, senza limitarne il significato alla sola funzione di richiamo turistico o, peggio, al solo valore intrinseco di mercato.

Giulia Maria Crespi, discendente della famiglia milanese di industriali tessili, già proprietari del «Corriere della Sera», è la fondatrice nel 1975 del Fai, Fondo Ambiente Italiano, l’organizzazione senza fini di lucro che non solo annovera tra le sue proprietà sceltissime località naturalistiche e dimore storiche alle quali assicura un’esemplare conservazione e l’apertura al pubblico, ma catalizza il sostegno di 80mila aderenti, sul modello del National Trust inglese. Questo rende il Fai un’associazione molto qualificata a rappresentare una parte significativa dell’opinione pubblica, quella cosciente dell’eccezionale importanza del patrimonio artistico in un Paese come il nostro.

Salvatore Settis, archeologo, direttore della Scuola Normale di Pisa, editorialista di «la Repubblica », dopo la scomparsa di Federico Zeri è senz’altro il principale e più vigoroso tutore pubblico del nostro delicatissimo patrimonio, per proteggerlo dalla trascuratezza ma, ancor peggio, dagli usi impropri e dannosi e dagli abusi ai quali è facilmente soggetto da parte di quanti non riescono ad avere una visione diversa da quella del rendimento quantitativo.

Abbiamo promosso questo incontro per avere la vostra opinione sulla situazione attuale, i rischi, i problemi. Opinioni che peraltro sono già state espresse più volte da Giulia Maria Crespi in ogni suo discorso pubblico e da Salvatore Settis nei suoi fondamentali articoli. Quello che ci interessa è proprio il confronto delle vostre autorevolissime opinioni, fare con voi il punto della situazione.

C: Aveva ragione Bob Kennedy, che nel 1967 fece il celebre discorso in cui disse che il Pil (Prodotto interno lordo) così come abitualmente calcolato è del tutto sbagliato perché non tiene conto di infinite cose. Per esempio dello stress, dello squallore delle periferie, dell’ignoranza diffusa. Per esempio, del non pensare alla bellezza, o allo smog. Tutto questo dovrebbe rientrare nel calcolo del Pil di un Paese. Tutto ciò mi pare perfettamente congruente con la situazione della finanza e dell’economia internazionale, la cui idea distorta di sviluppo e di globalizzazione temo ci porterà verso la catastrofe. Penso anche che dopo questo dramma, ci sarà una sorta di purificazione e l’umanità ritroverà se stessa.

S: Con riferimento specifico alla situazione italiana, ma tenendo presente il quadro globale, dobbiamo mettere insieme due aspetti: uno è evidenziato sempre di più dalle ricerche mediche, l’importanza delle patologie da disagio ambientale. Il riferimento non è soltanto all’inquinamento dell’acqua o dell’aria, ma al disagio che coglie il cittadino, che vede il suo mondo trasformarsi, che è obbligato ad abitare in periferie squallide, che vede il paesaggio intorno a lui via via devastato: il paesaggio che amava, in cui si identificava. Da tutto questo nascono delle patologie che sono psicologiche, ma anche psicofisiche. Un altro aspetto (e continuo intenzionalmente a citare ricerche non di storici dell’arte o di «tutelatori» di professione) riguarda le ricerche degli economisti. Un numero sempre maggiore di economisti (cito per tutti il premio Nobel Amartya Sen) hanno via via elaborato nuove teorie sullo sviluppo economico, in particolare le teorie cosiddette della «crescita endogena », che vuol dire la crescita che una popolazione è in grado di portare avanti dal proprio interno, non perché stimolata da grandi imprese multinazionali, ma perché riesce a svilupparsi autonomamente. Questo è importantissimo, ad esempio, per i Paesi dell’Africa. Le teorie della crescita endogena vanno prendendo piede e includono fra i maggiori fattori di produttività l’identità culturale. Quindi, la distruzione dell’identità culturale diminuisce la produttività, e la riaffermazione dell’identità culturale accresce la produttività. Appare dunque del tutto evidente quanto, anche da altri punti di vista extradisciplinari (medico, economico ecc.), la cura del paesaggio, dell’ambiente, del patrimonio storico-artistico e dell’identità culturale siano dei fattori essenziali. Questo i nostri padri, i nostri nonni, gli italiani di 200 anni fa l’avevano già capito, anche senza aver elaborato questa teoria. L’idea della tutela dell’ambiente e del paesaggio è nata in Italia. Ma oggi il nostro Paese sta dimenticando tutto questo, o rischia di dimenticarlo. Come mai il luogo in cui è nata l’idea della tutela contiene oggi delle forze distruttive per questa stessa idea?

Osserviamo le reazioni seguite al terremoto in Abruzzo e le ipotesi emerse sulla ricostruzione: il pericolo che è stato paventato in questa circostanza è proprio quello della perdita d’identità. Ci piacerebbe che da questa conversazione emergesse la risposta alla domanda: «Che cosa sta cambiando o è cambiato in questi ultimi anni per cui dovremmo, forse, cambiare il nostro atteggiamento, le convinzioni nelle quali avevamo creduto negli ultimi 10, 20, 50 anni?»

C: Una persona, prima di qualunque altro sentimento, deve avere la pancia piena. Poi, deve ricercare le ragioni di quanto avviene di sbagliato, e per me la ragione prima è l’avvento del materialismo. Questo materialismo si è diffuso alla fine del Medioevo, e da Cartesio l’uomo è sempre più sprofondato nella materia allontanandosi dalla spiritualità. Quanti grandi artisti lavoravano per pochissimo, o addirittura non venivano pagati? Eppure lavoravano. Beato Angelico dipingeva in ginocchio. Lei immagina un artista moderno che dipinge in ginocchio?

S:Vorrei proporre una riflessione di carattere più storico. Se giriamo nelle zone meglio conservate delle nostre campagne, o anche in certe città piccole o grandi, credo che tutti abbiamo notato come, fino a un certo momento, diciamo per intenderci l’inizio del Novecento, gli italiani, ricchi e poveri, dal contadino al principe, non sbagliassero. Non si vede un oggetto brutto. Da quel certo momento in poi si è persa questa cultura comune. C’era un legante che univa i ricchi e i poveri, anche quelli con la pancia non tanto piena. Il contadino che faceva un fienile, lo faceva in un modo per cui si inseriva nel paesaggio meravigliosamente bene.

L’articolo integrale è disponibile nell’edizione stampata de Il Giornale dell’Arte

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