loader
menu
© 2024 Eddyburg

Più volte proposto, altrettante volte ricacciato indietro, subissato dalle proteste di tutte le associazioni che tutelano il patrimonio artistico, torna l’archeocondono, la norma che depenalizza il possesso illecito di un bene archeologico in cambio di una modesta multa. Al momento circolano almeno due bozze di un articolo diviso in 11 commi intitolato «Disposizioni in materia di emersione e catalogazione di beni archeologici, nonché revisione delle sanzioni penali», entrambe maturate in ambienti parlamentari del Pdl. Modifiche sono ancora possibili, ma un punto in comune le varie versioni dell’articolo ce l’hanno: finire dentro la manovra finanziaria (all’interno del maxi emendamento con le modifiche che il governo presenterà) e giungere in porto blindate e sicure. In sostanza chiunque detenga un reperto mai denunciato, in Italia o all’estero, e dunque in violazione della legge, può ottenere dallo Stato una «concessione in deposito» della durata di trent’anni, rinnovabili, e può anche trasferirlo in eredità. Il tutto dichiarando il possesso e pagando una somma che si aggira intorno a un terzo del valore di quel bene.


Non è la prima volta, dunque, che si attenta a uno dei pilastri della tutela in Italia, introdotto dalla legge del 1909 e poi sempre confermato, quello per cui solo lo Stato può fare o autorizzare scavi e tutto ciò che viene rinvenuto è di sua proprietà. Qualcosa di diverso c’è, però, fra queste proposte di sanatoria e le precedenti. In quelle era previsto che si diventasse proprietari del bene. Stavolta si parla di un deposito (anche se non viene esplicitamente vietata la vendita). E poi più alta è la multa: nel 2004 si tentò di far passare un emendamento alla Finanziaria, firmato da Gabriella Carlucci e da altri suoi colleghi, che fissava il pagamento al 5 per cento del valore. Adesso, inoltre, si aggiunge che la Soprintendenza può contestare la valutazione fatta e chiedere un’integrazione.
Ma la sostanza è chiara, stavolta come allora. Il fine, dichiarano i proponenti, è quello di far emergere un patrimonio sommerso e di consentirne la catalogazione. Eppure il punto cruciale è un altro: in cambio di pochi spiccioli, che poco ristoro potrebbero portare al bilancio dello Stato e persino alle esangui casse dei Beni culturali, tutti quelli che possedevano al 31 dicembre 2009 un bucchero etrusco o un’anfora greca, recuperati chissà come, non saranno più punibili.
Anche se hanno violato l’articolo 712 del codice penale, che persegue chi ha acquistato oggetti di dubbia provenienza.

«Ottime notizie per tombaroli, depredatori e trafficanti di antichità, collezionisti finti e mercanti disonesti», scrisse su queste pagine Salvatore Settis quando venne presentato l’emendamento Carlucci. 
«Dopo aver mortificato il settore dei beni culturali in ogni modo e aver messo sul lastrico la cultura italiana, ora il ministro tenta di far cassa, letteralmente raschiando il barile», sostiene l’ex ministro Giovanna Melandri. E conclude: «Come dice un vecchio proverbio: al peggio non c’è mai fine».

Dal Borromini ai suini. Dai suini alle bietole. Che male c´è? La «Beni Culturali Spa» non si formalizza tra siti storici, musei, opere d´arte, statue, dipinti, archeologia e porcilaie. E persino campi di bietole per produrre agroenergia, nuova passione del direttore dei Musei Mario Resca. Attraverso le sorelline culturali Arcus Spa e Ales Spa, società pubbliche ma di diritto privato, si tratta di spendere centinaia di milioni di denaro pubblico in deroga, senza controlli di legittimità del Parlamento e della Corte dei Conti, in ossequio alla religione berlusconiana del fare e fare in fretta. Fare che? Soprattutto fare affari.

Come nel modello Protezione Civile Letta-Bertolaso. E come in quello dell´ex ministro Pietro Lunardi, che pare si sia portato via un palazzo nel centro di Roma a un quarto del suo prezzo, complice l´eccellente dominus vaticano Crescenzio Sepe, cardinale nella manica di Papa Wojtyla, ma esiliato subitaneamente a Napoli da Papa Ratzinger.

Per merito degli antichi predecessori Gregorio XV e Innocenzo X, fu il Borromini verso il secondo decennio del 1600 a disegnare la facciata del palazzo di Propaganda Fide a Roma in piazza di Spagna, la cui ristrutturazione a spese dell´Arcus, secondo i magistrati di Perugia avrebbe prodotto per riconoscenza la proprietà di un palazzetto vista Montecitorio all´ex ministro Lunardi, detto El Talpa per la sindrome incontrollabile che ha di progettare, ben retribuito con denaro pubblico, tunnel ferroviari e autostradali in tutta Italia, attraverso le sue società di famiglia. Non si sa bene invece chi fu a mettere in campo i suini, che pure hanno la loro indubitabile valenza culturale. Infatti la società di diritto privato Arcus, posseduta dal Tesoro italiano e controllata dai Beni Culturali, ha finanziato per 500 mila euro la Fondazione Pianura Bresciana per un risolutivo convegno sulle cinque razze autoctone di maiali. Cinque le razze suine? Forse sono anche di più. Ma accontentiamoci e rendiamo grazia al generoso ministero dei Beni Culturali.

Un deputato dell´opposizione, Vincenzo Vita, ha provato a chiedere conto del singolare finanziamento culturale, tra i tanti, al governo. Ma, come al solito, nessuno se lo è filato. La cultura è cultura, mica vorremo imbrigliarla in una storia di maiali. Così come sacrosanti sono i milioni distribuiti al Santuario della Madonna di Pompei, alle monache Clarisse di Santa Rosa, alla Fondazione Aquileia. O all´Università di Padova, dove opera, superba scienziata, la dottoressa Ghedini. Ghedini? Ghedini chi? Ma sì, è proprio lei, la sorella dall´avvocato onorevole del premier Niccolò Ghedini, l´ex giovane di studio che arrancava un po´ lento, come ricordano i suoi ex colleghi, nell´ufficio del principe del Foro di Padova Piero Longo e che oggi produce a getto continuo leggi dello Stato per conto del premier. Leggi che, con tutta la buone volontà, non passano neanche la prima prova di ragionevolezza e di costituzionalità. È lei, Elena Francesca Ghedini, archeologa, accreditata di scienza ben superiore a quella fraterna, ad assurgere a consigliere del ministro Bondi per le aree archeologiche, al Consiglio superiore dei Beni Culturali e ad ottenere fondi cospicui per le sue legittime esigenze di ricercatrice. Esaudita.

Arcus, fiore all´occhiello di quella che i vecchi funzionari esautorati dei Beni Culturali chiamano il braccio operativo della «Banda Bondi», ha una sorellina che si chiama Ales, che la prossima settimana, si impossesserà di fatto dei servizi museali, governando gli appalti per un business da 100 milioni l´anno, che le aziende operanti nel settore museale giudicano uno scippo. Di nascosto, con un emendamento al decreto sugli enti lirici, il governo ha abrogato la gestione integrata dei 190 musei, che avrebbe consentito l´accesso dei privati ai servizi e che ora lascia tutto nelle mani della Beni Culturali Spa, evoluzione della Protezione Civile Spa bloccata in extremis, pronta per intercettare «in deroga» anche i due miliardi e mezzo di euro di fondi europei per i beni e il turismo culturale.

Grande polmone finanziario dell´Italia berlusconiana del «fare», mondata da ogni controllo di legittimità, in onore di una suprema deroga appaltatrice, per teatri da ricostruire, zone archeologiche da ripulire, siti d´arte da salvare, monumenti da sbiancare, palazzi da ristrutturare, statue da rigenerare, quadri da restaurare, biblioteche da puntellare, musei da gestire, biglietterie, librerie, bar e ristoranti da affidare possibilmente agli amici e agli amici degli amici, la Beni Culturali Spa era pronta, con i buoni uffici di Gianni Letta, a un luminoso destino. Ma incalzato dalle inchieste sui fasti della coppia Lunardi - Sepe, il ministro Bondi, che al ministero impersona il ruolo del passante impegnato da par suo nella poesia e nell´esegesi poetica del Capo, ha bloccato i residui pagamenti per il palazzo di Propaganda Fide e ha appena nominato il nuovo presidente di Arcus. Gli innumerevoli rilievi della Corte dei Conti raccontano di spese per centinaia di milioni a pioggia, in modo opaco, in incarichi e consulenze clientelari e favori vari.

Quasi una scienza, ormai, certificata nella sua sofisticazione dalle gesta del cardinale Sepe e dall´ex ministro Lunardi. El Talpa ha cercato di difendersi con un´intervista - manifesto che dovrà restare nei libri di storia nei secoli dei secoli: «Che male c´è? », si è chiesto. Che male c´è per un uomo di Stato se, di questi tempi, favorisce se stesso e gli amici, approfittando del proprio potere pro tempore? Ma non speriate che le notizie un po´ nefande siano finite qui.

Dobbiamo riferirvi ancora delle bietole che, tra musei e razze suine, aleggiano quotidianamente nel ministero di via del Collegio Romano. Sì, perché il direttore generale del ministero Mario Resca, intimo di Berlusconi, ex amministratore delegato di Mc Donald´s Italia, santificato dal «Foglio» di Giuliano Ferrara in un ditirambo come un superbo benefattore dell´umanità, si è fissato che vuole produrre energia alternativa dalle bietole negli ex zuccherifici italiani. Ma non con i soldi suoi - cosa di cui gli sarebbero tutti grati - ma con quelli pubblici dei bieticoltori (centinaia di milioni, in gran parte fondi europei). I quali, alquanto incavolati, tramite la Coldiretti, spogliata surrettiziamente dei fondi Finbieticola, hanno appena fatto ricorso alla Corte dei Conti.

I ricorrenti sperano di vedere presto il deus ex machina della cultura condannato, perché, al di là degli scopi istituzionali, sta distraendo nel progetto di agroenergia tanti soldi loro, in combutta con Giuseppe Grossi, re delle bonifiche ambientali, finito in carcere con l´accusa di aver triplicato i costi della bonifica milanese di Santa Giulia, e Giancarlo Abelli, re della sanità lombarda. In tandem con Resca nelle multiformi attività viene dato anche Salvo Nastasi, giovane capo di gabinetto della Banda Bondi al Collegio Romano e pluricommissario in deroga a teatri e musei. Piccoli potenti crescono.

Le radici del "sistema Bertolaso" affondano nella terra del Giubileo, l’Anno Santo aperto nel 1994 e celebrato a Roma nel 2000, il padre dei Grandi eventi della modernità italiana. E il parcheggio della collina di Santo Spirito al Gianicolo, con le sue devastazioni archeologiche, le elusioni dei pareri degli uffici scomodi, la mancanza di un controllo su appalto e cantiere e (pure) un probabile falso storico, diventa l’opera che segna la nascita della turbo Protezione civile applicata all’ordinario. Il battesimo, appunto, del "metodo Bertolaso".

Nel suo ufficio deserto - la nazionale italiana sta giocando contro la Slovacchia – l’ex soprintendente ai Beni archeologici Adriano La Regina, nel Duemila granitico oppositore «della coppia Rutelli-Bertolaso» (il sindaco di Roma e il vicecommissario straordinario di Governo per il Giubileo), estrae da un dossierone nove pagine intestate ai Beni culturali.

È la sua relazione, inedita, con la quale il 22 novembre 1999 dichiarava un falso tutta la costruzione amministrativa che aveva definito l’area del futuro parcheggio del Gianicolo «nello Stato Vaticano», «sito in territorio vaticano», «in territorio vaticano». La copia che allunga, in particolare, è quella inviata all’attenzione del dottor Guido Bertolaso: «Ma lui è andato avanti senza colpo ferire, un caterpillar».

Citando libri di toponomastica antica, Patti lateranensi del 1929 e concordati dell’85, La Regina a pochi giorni dall’apertura della Porta Santa smontò l’architrave che aveva portato lo Stato italiano a finanziare per metà un parcheggio da 85 miliardi di lire che avrebbe dovuto ospitare, su sei piani, 90 pullman e 750 auto.

Per realizzare quell’autorimessa per pellegrini nel cuore della Roma oltretevere - nei dieci anni a seguire resterà quotidianamente deserta - gli operai di Impregilo e Dioguardi costruzioni sventrarono una collina rimuovendo 200 mila metri cubi di terra. Il progetto nel 1992 era stato bocciato dal severo soprintendente e, allora, nell’aprile ´97 il Comune di Roma scelse la strada dello «spostamento toponomastico» per saltare il visto archeologico, realizzare l’opera e inaugurare la futura strategia della "Protezione civile stazione appaltante": l’elusione dei controlli. Il Vaticano, d’altronde, in una lettera dedicata al parcheggio del Gianicolo aveva chiesto esplicitamente «l’esonero da controlli e approvazioni da parte della autorità italiane».

Si legge ora nella relazione La Regina: «Il provveditorato alle Opere pubbliche ha sempre dichiarato negli atti ufficiali che il parcheggio si trovava su territorio vaticano mentre si trova su territorio dello Stato italiano». Ancora, «il danneggiamento di beni di interesse storico o artistico appartenenti all’Italia, ancorché di proprietà della Santa Sede, non è considerato ammissibile da alcuna norma o trattato». Lo spianamento giubilare regalò, infatti, «l’asportazione incontrollata dei livelli archeologici e dei resti antichi nell’area del giardino del collegio di Propaganda Fide» - gli Horti di Agrippina, si teorizza - «e la distruzione di alcuni tratti di mura del Bastione di Santo Spirito realizzati da Antonio da Sangallo il giovane».

Su quel danno «rilevante e irreversibile per la conoscenza della topografia antica di una parte di Roma», nello scavalco del millennio si cementificò l’intesa di un blocco di funzionari pubblici che, cresciuti all’ombra dei 2.578 miliardi di lire stanziati per il Giubileo e sotto la spinta delle necessità del Vaticano, nei dieci anni a seguire avrebbero gestito 13 miliardi pubblici in libertà.

Attraverso la Protezione civile. Il sottosegretario Guido Bertolaso, abbiamo visto, nel Duemila era il braccio operativo di Rutelli. Angelo Balducci nel 1998 fu nominato provveditore alle Opere pubbliche del Lazio dopo la sconfitta rutelliana sul sottopasso di Castel Sant’Angelo (fermato proprio dal sovrintendente La Regina). Balducci, allora tra i più feroci sostenitori della demolizione della "domus" neroniana in nome del parcheggio, oggi è in carcere per associazione a delinquere nell’inchiesta grandi appalti.

Nel novembre del 1997, riannodando i fili, era diventato segretario generale del Giubileo Crescenzio Sepe: oggi è indagato per corruzione. All’ingegner Claudio Rinaldi, altro funzionario delle Opere pubbliche ora sotto inchiesta per corruzione, in quegli anni fu affidato il cantiere Tor Vergata, la grande adunata giovanile attorno a Papa Wojtyla. Ettore Figliolia era il consulente legislativo del commissariato guidato da Rutelli: diventerà capo dell’ufficio legislativo della Protezione civile. E di Francesco Silvano, l’amico che avrebbe girato a Bartolaso il pied-à-terre in affitto di via Giulia, all’epoca si ricordano lettere minacciose scritte al Comune per conto del Vaticano: bisognava accelerare la "pratica parcheggio".

La lettera che inchioda il Vaticano e Arcus porta la data del 16 dicembre del 2005. Monsignor Francesco Di Muzio, allora capo dell’amministrazione di Propaganda Fide, scrive a Francesca Nannelli, responsabile del procedimento per il finanziamento erogato alla Curia dalla società Arcus Spa, di proprietà del Tesoro ma controllata dai ministeri dello Spettacolo e delle Infrastrutture. Il carteggio tra Arcus e Vaticano che Il Fatto Quotidiano pubblica in esclusiva documenta i retroscena inediti e le bugie pubbliche raccontate per giustificare un contributo relativo al palazzo di Piazza di Spagna.

Quello stabile è la sede della Congregazione che oltre a occuparsi dell’evangelizzazione dei popoli nel mondo è dedita anche a una frenetica attività immobiliare nella Capitale. Ora la storia del contributo ha attirato l’attenzione della Procura di Perugia. I magistrati che stanno indagando sulla cricca dei lavori pubblici, hanno iscritto nel registro degli indagati il ministro delle infrastrutture dell’epoca, Piero Lunardi, e l’allora Prefetto della Congregazione di Propaganda Fide, Crescenzio Sepe, per corruzione. L’ipotesi dei pm Sergio Sottani e Alessia Tavernesi è che esista una relazione tra l’acquisto nel 2004 di un palazzo nel centro di Roma per “soli” 3 milioni di euro (ne valeva il doppio) da parte della famiglia Lunardi e il contributo di 2,5 milioni erogato nel 2005 di concerto con il dicastero delle Infrastrutture, retto in quel periodo dallo stesso Lunardi.

I magistrati ieri hanno preso contatto con il legale del cardinale Crescenzio Sepe perché vogliono interrogarlo per chiarire il giallo del finanziamento che era stato oggetto di polemiche e servizi televisivi di Rai e Mediaset e poi di un’inchiesta interna della Corte dei Conti. Allora, l’unica voce che si ostinava a denunciare lo scandalo di un finanziamento statale che fino a quel momento sembrava ammontare solo a 2,5 milioni di euro, pagati per un’opera pubblica mai realizzata, era quella del segretario generale della Uil per i beni culturali: Gianfranco Cerasoli. Ora quella tesi coincide con l’ipotesi investigativa dei pm perugini: il contributo sarebbe stato erogato da Arcus nonostante i lavori previsti nella convenzione tra la società del Tesoro e Propaganda Fide non sono mai stati realizzati.

La lettera di monsignor Angelo Di Muzio e il carteggio che pubblichiamo (comprendente anche una missiva firmata dal successore di Sepe, il cardinale Ivan Dias) sembrano confermare la tesi dell’accusa. Nella convenzione del 2005, il finanziamento statale è legato inscindibilmente ai lavori futuri per la realizzazione di una Pinacoteca e di un percorso museale che sarebbe stato fruibile dalla cittadinanza italiana. Mentre nelle lettere riservate tra Vaticano e Arcus il medesimo finanziamento è finalizzato a coprire le spese già sostenute da Propaganda Fide per un restauro che nulla ha a che vedere con la Pinacoteca. Monsignor Di Muzio, un personaggio legato all’Opus Dei e molto influente nella Curia, ex braccio destro dell’attuale arcivescovo di Napoli, Crescenzio Sepe e ben inserito anche nei ministeri grazie anche ad Angelo Balducci, scrive ad Arcus: “restituisco la bozza della convenzione con apportate piccole modifiche. In particolare segnalo che sarebbe opportuno che il finanziamento venga erogato secondo le scadenze indicate in bozza, in considerazione del notevole esborso sino ad ora sostenuto dalla Congregazione per l’avanzato stato dei lavori”.

La lettera è anomala per tre elementi. Non è normale che il soggetto finanziato da una società pubblica (solo formalmente privata come è la Spa Arcus) si permetta di dettare i tempi e le scadenze dei pagamenti al finanziatore. Inoltre Propaganda Fide non fa mistero di avere bisogno di un ingente pagamento in tempi brevi perché c’è stato “un notevole esborso per l’avanzato stato dei lavori”. La terza anomalia è che il soggetto che dovrebbe sorvegliare il corretto uso dei soldi pubblici è inquilino del sorvegliato. Infatti Francesca Nannelli abita in uno dei palazzi più belli di Propaganda Fide, in via del Governo vecchio, a due passi da Piazza Navona. Il nome della signora Nannelli era già emerso nelle cronache quando si era scoperto che l’appartamento (nel quale convive con il subcommissario della ricostruzione in Abruzzo, Luciano Marchetti) era stato ristrutturato da Diego Anemone e figurava nella sua lista.

A parte l’innegabile conflitto di interessi, anche i tempi non tornano: il decreto ministeriale che approva il programma di Arcus con il finanziamento di Propaganda Fide viene firmato dal ministro Buttiglione e dal collega Lunardi il 20 luglio del 2005. Il 29 novembre 2005 il consiglio di Arcus approva e appena 16 giorni dopo Propaganda Fide già parla di “avanzato stato lavori” e chiede un pagamento immediato per “l’esborso notevole già sostenuto”. Ancor prima che il contratto tra Arcus e Vaticano sia firmato. Nella sua mail, Di Muzio chiedeva all’inquilina di Propaganda Fide un’accelerazione dei pagamenti. Nella convenzione firmata il 23 dicembre del 2005 tra il direttore generale di Arcus Ettore Pietrabissa e il cardinale Sepe, Propaganda Fide ottiene un trattamento di lusso: un milione e mezzo di euro entro 30 giorni dalla firma, solo “previa comunicazione dell’effettivo avvio delle attività”; altri 500 mila euro entro 90 giorni salvo un generico “monitoraggio” di Arcus. Solo il restante mezzo milione di euro è legato alla “verifica dell’effettiva conclusione positiva delle attività connesse al progetto”.

Nell’articolo 6 della convenzione tra Arcus e Propaganda Fide, che Il Fatto Quotidiano ha ottenuto in copia, è previsto come termine del progetto il 31 dicembre del 2006. L’articolo 8 prevede che il finanziamento sia revocato in caso di utilizzo “per finalità diverse” oppure qualora il contraente “non completi il progetto nei termini”. Ancora oggi, quattro anni dopo i termini della convenzione, la Pinacoteca aperta al pubblico, prevista come ragione del finanziamento con i soldi dei contribuenti italiani, non esiste. Nel 2009 la trasmissione Presa diretta di Rai tre mostrò l’inadempimento di Propaganda Fide con le sue telecamere. Immediatamente Arcus pubblicò un comunicato nel quale si sosteneva che del “finanziamento complessivo di euro 2,5 milioni a oggi sono stati condotti e terminati i lavori pari a euro 2 milioni regolarmente rendi-contati. Fanno eccezione le sole attività relative alla Pinacoteca che non hanno ancora visto l’avvio.

Il relativo finanziamento”, sosteneva Arcus nel settembre del 2009, “di euro 500 mila (a saldo dell’intero finanziamento di 2,5 milioni) verrà erogato solo a seguito della positiva conclusione dei lavori”.

Il comunicato di Arcus presenta due incongruenze importanti e sembra nascondere la verità per annullare l’impatto negativo delle inchieste televisive. Innanzitutto il finanziamento previsto nella convenzione del dicembre 2005 era stato erogato interamente, come provato da un documento in possesso del Fatto Quotidiano: una lettera firmata dal cardinale Ivan Dias, nella quale il prefetto di Propaganda Fide e successore di Sepe, scrive al direttore generale di Arcus Ettore Pietrabissa: “mi pregio di comunicarLe che questa Congregazione ha ricevuto l’importo di 2,5 milioni di euro quale contributo relativo al primo finanziamento”. Tutto il contributo, quindi.

Ed ecco la seconda incongruenza: al contrario di quanto sostenuto allora ufficialmente da Arcus e Propaganda Fide, il contributo complessivo era di 5 milioni di euro, spalmati in due anni: 2005 e 2006. Anche perché la novità del doppio contributo (con una seconda convenzione stipulata nel 2007) è stata rivelata da Arcus solo pochi giorni fa. E i sospetti aumentano. Perché quando le tv si occuparono della Pinacoteca fantasma, Arcus e Propaganda Fide sostenevano la tesi del “finanziamento complessivo di 2,5 milioni erogato solo in parte”? Forse perché questa tesi era l’unica che non imponeva una seconda domanda: perché - se Propaganda Fide non aveva rispettato la prima convenzione - era stata pagata interamente e finanziata per altri 2,5 milioni di euro nel 2007? A queste domande risponderanno i pm di Perugia. Intanto il segretario dei radicali Mario Staderini chiede al ministero e alla Corte dei Conti di agire per l’integrale restituzione del finanziamento a causa dell’inadempimento contrattuale.

E Bondi "commissaria" la Arcus: bloccati i fondi per Propaganda Fide

Corrado Zunino, la Repubblica, 23 giugno 2010

Di prima mattina, lunedì mattina, il ministro Bondi ha chiamato il direttore generale di Arcus e, preoccupato dalle notizie che stavano salendo di quota sui finanziamenti pubblici concessi dal dicastero dei Beni culturali ai siti del Vaticano, sulle inchieste della Corte dei Conti e della Procura di Perugia sul palazzo di Propaganda Fide in Piazza di Spagna, a Roma, ha chiesto un rapporto dettagliato sull’attività dell’azienda privata controllata dal ministero del Tesoro che in sei anni ha speso – investito, sostiene il suo direttore generale, Ettore Pietrabissa – mezzo miliardo di euro. Ecco, quattro finanziamenti di Arcus – voluti e sottoscritti nel tempo dai ministri Lunardi, Rutelli, Buttiglione e quindi dallo stesso Bondi – erano stati indirizzati su opere del Vaticano.

La Corte dei conti, contestando l’attività generale di Arcus, aveva segnalato diverse incongruità proprio sui finanziamenti per progetti religiosi. E i magistrati di Perugia avevano contestato la corruzione all’ex ministro delle Infrastrutture, Pietro Lunardi, e all’ex prefetto di Propaganda Fide, Crescenzio Sepe, mettendo a fuoco proprio il finanziamento da 5 milioni per il palazzo di Propaganda Fide: finanziamento di Stato alla Chiesa, apparentemente illegittimo, concesso secondo l’accusa in cambio di benefici personali a Lunardi, che a inizio Duemila aveva comprato un palazzetto di proprietà proprio di Propaganda Fide. Lunardi acquistò i tre piani (occupati da otto persone) in via dei Prefetti – dietro Montecitorio – per 4,16 milioni. Gli inquirenti ritengono che per quei 720 metri quadrati il valore di mercato, in realtà, fosse almeno il triplo.

Studiata la relazione degli uffici di Arcus, il ministro Bondi si è accorto che dei 5 milioni pubblici dati per la ristrutturazione del palazzo borrominiano di piazza di Spagna, 500 mila euro dovevano essere ancora erogati. E lunedì ha chiesto che l’ultima tranche del finanziamento fosse fermata, almeno fino a quando non sarà inaugurata la pinacoteca interna e garantita la sua apertura al pubblico (oggi è stata annunciata per il prossimo venti ottobre). Di più, gli stessi uffici tecnici hanno segnalato al ministro che il finanziamento per il cortile dell’Università Pontificia Gregoriana doveva essere completato: agli 800 milioni concessi nel 2009 doveva essere aggiunto un milione per la stagione in corso. All’interno della struttura erano stati recuperati resti romani. Anche questo finanziamento è stato congelato. E poi il ministero dei Beni culturali è intenzionato a rivedere gli appalti sottoscritti con il Vaticano per ottenere condizioni migliori per lo Stato. Innanzitutto, i siti ristrutturati dovranno essere accessibili al pubblico (cosa, ad oggi, non prevista).

La Procura di Perugia, che in questi giorni ha sul tavolo il dossier sulla società privata controllata dal Tesoro, vuole capire alcune questioni controverse. Ed è probabile che nei prossimi giorni interrogherà i dirigenti di Arcus per chiedere, per esempio, perché nell’appalto tipo non era prevista una data di chiusura dei lavori, perché nel progetto iniziale di ristrutturazione del palazzo di Propaganda Fide non si fa cenno ad alcuna pinacoteca, perché nella prima fase dei lavori compare l’architetto Angelo Zampolini, il contabile delle tangenti dell’imprenditore Diego Anemone. E ancora, perché la direttrice dei lavori in piazza di Spagna, Francesca Nannelli, compagna del vice commissario dell’Aquila Luciano Marchetti, distaccata dai Beni culturali di Firenze ad Arcus, è affittuaria di un appartamento di Propaganda Fide nel centro di Roma (in via del Governo Vecchio).

Tutti corrono alla cuccagna Arcus

Stefano Sansonetti, ItaliaOggi, 24 giugno 2010

Chissà se il ministro dei beni culturali, Sandro Bondi, sa che tra i beneficiari delle erogazioni della Arcus spa c'è addirittura l'Associazione nazionale magistrati. Per carità, lo scopo è assolutamente ammirevole, trattandosi della «riqualificazione ambientale in un sito confiscato alla mafia nel territorio di Ciaculli a Palermo». Ma resta il fatto che la società ha già predisposto un finanziamento pubblico di un milione di euro che finirà dritto dritto all'Anm.

Certo è che a scorrere l'interminabile lista di interventi finanziati per il triennio 2010-2012 dalla Arcus, che opera sulla base di decreti interministeriali firmati dai dicasteri dei beni culturali e delle infrastrutture, si scopre veramente di tutto. E non manca qualche sorpresa, soprattutto alla luce del coinvolgimento della società (al 100% del ministero dell'economia) nella vicenda che vede indagato per corruzione il cardinale Crescenzio Sepe, all'epoca dei fatti responsabile di Propaganda Fide. Dall'elenco, approvato con un decreto interministeriale del 1°dicembre del 2009, emerge chiaramente che i finanziamenti della spa finiscono spesso dalle parti del Vaticano. Nel prossimo triennio, per esempio, sono già stati predisposti 1,5 milioni di euro (1 milione per il 2010 e 500 mila euro per il 2011) che serviranno a restaurare i cortili interni della Pontificia università gregoriana, la stessa che in passato ha beneficiato di versamenti per un altro milione di euro.

Oltre a questi, come emerso dalle cronache di questi giorni, erano arrivati dalla spa pubblica 2,5 mln per la ristrutturazione della sede di Propagande Fide. Ristrutturazione che poi non sarebbe intervenuta. Nella lista, inoltre, compaiono finanziamenti per 9 tra diocesi e arcidiocesi. In tal senso il gettone più corposo, ovvero 1 milione e 850 mila euro, è stato assegnato all'arcidiocesi di Altamura per il restauro della cattedrale di Gravina. Ma ci sono anche 800 mila euro destinati all'arcidiocesi di Napoli, ben conosciuta da Sepe, per attività del suo museo. A seguire ecco venir fuori 700 mila euro per la diocesi di Tivoli, 300 mila per la diocesi suburbicaria di Porto Santa Rufina, 500 mila per la diocesi di Palestrina, 400 mila per la diocesi suburbicaria di Albano e così via. Poi è il turno delle parrocchie. Gli stanziamenti della Arcus ne aiuteranno 8, con il gettone più ricco, 1 milione di euro, destinato alla parrocchia S.Maria della Scala in S.Fedele di Milano.

Curioso notare che dalla lista spuntano fuori anche finanziamenti diretti a enti che, sulla base degli elenchi inseriti in un primo momento nella manovra dal ministro Giulio Tremonti, avrebbero dovuto non godere più di sovvenzioni pubbliche. È il caso della Scuola archeologica di Atene, a cui sono stati destinati 500 mila euro, dell'Istituto Luigi Sturzo, che avrà 300 mila euro, e della fondazione Giorgio Cini, che incasserà 450 mila euro per il restauro del cenacolo palladiano nell'isola di san Giorgio Maggiore. E c'è addirittura un ente palesemente considerato inutile, e quindi soppresso dalla Finanziaria, come l'Ente teatrale italiano, a cui nel 2010 l'Arcus darà 1 milione e 290 mila euro. Tra le pieghe si possono anche scorgere 500 mila euro per la Comunità ebraica di Pisa.Insomma, il tutto vale 200 mln fino al 2012. Che si aggiungono ai 250 mln di valore dei 360 progetti deliberati a fine 2009. Per un totale di 450 milioni di euro.

Nello scorso numero abbiamo analizzato il problema dei residui passivi del Mibac. Quest’enorme questione non esaurisce però il tema della gestione delle risorse. L’altra faccia della medaglia è l’efficienza della spesa e la dolorosa impressione è che le inadeguatezze in entrambi i settori si sommino.

Tutti abbiamo letto sui principali quotidiani della nomina a direttore dei lavori (29 milioni di euro) per i Nuovi Uffizi di una persona, diciamo, inadeguata. Riproponiamo alcuni brani delle intercettazioni alla “cricca”. Salvatore Nastasi, capo di Gabinetto del Mibac ad Angelo Balducci: “Mi sembra una buona squadra”, commentando compiaciuto gli incarichi (Mauro Della Giovampaola soggetto attuatore, Enrico Bentivoglio, responsabile unico del procedimento, Riccardo Miccichè, direttore dei lavori) per i Nuovi Uffizi. Ma lo stesso Fabio De Santis, Provveditore alle opere pubbliche della Toscana (colpito in seguito da un ordine di custodia cautelare), non ne è convinto. “Non ci posso credere (ride). Quando lo vedo (Nastasi, Ndr) gli dico ‘siamo proprio dei cazzari, guarda, siete proprio dei cazzari, andate in giro a rompere il c...”. De Santis racconta di averlo fatto presente a Nastasi durante un viaggio in treno: “Quando stavamo soli gli ho detto ‘Salvo (Nastasi, Ndr) ma siamo sicuri di quel siciliano?”. “Sì, non ti preoccupare, poi c’ho un fatto personale che tu non c’hai’ “.

Ora, comprendiamo il desiderio del Ministro Bondi di non veder lordata la sua onestà, ma non volendo ricorrere al “non poteva non sapere”, ci vediamo costretti a chiedere chiare e inequivocabili delucidazioni sulla vicenda. Se è vero, come ci piace credere, che il Ministro è all’oscuro del “fatto personale” al quale si riferisce il potente Nastasi, non possiamo esimerci dal ribadire l’inopportuna e rischiosa acquiescenza del titolare del Mibac verso colui che da più parti viene definito il vero Ministro. Ricordiamo, inoltre, che il pluricommissario Nastasi (aspirante collaudatore per 750mila euro in quel di Venezia) è già stato più volte al centro di intercettazioni telefoniche, che ne hanno evidenziato la propensione alla concretezza. Si può capire che un poeta preferisca non occuparsi di lordure e di materie economiche, tuttavia tra i doveri di un Ministro, ahinoi, ci sono anche queste bassezze. Se l’esemplare Cavaliere, a malincuore, denuncia le malefatte del suo ex ministro Scajola e si lamenta della propensione affaristica di molti dei suoi seguaci, non potrebbe il fido Bondi seguirne le orme? Quiz per i lettori: “Dobbiamo mettere Elisabetta Fabbri, nominata Commissario dal Ministero perchè è donna, perchè risponde, è sveglia, è fuori dai giri nostri, è una brava professionista, non ha mai tradito in nessun senso, ascolta le cose che gli si dicono”. Chi ha detto una simile frase? a) don Vito Corleone nel Padrino parte II b) Tony Montana in Scarface c) Edoardo Nottola in Mani sulla Città? Nessuno dei tre. Queste parole sono di Nastasi, riportate nelle intercettazioni su altri affari toscani della “cricca”, quelli riguardanti i lavori per il Maggio fiorentino (del quale il capo di Gabinetto è stato commissario). Tutti noi parliamo molto liberamente nelle conversazioni private e forse è illegittimo trovarne traccia su un quotidiano. Tuttavia, il gergo usato evidenzia una mentalità e un modo di concepire l’azione di governo agli antipodi con qualunque corretta amministrazione della cosa pubblica, più adatti forse alla gestione di Cosa nostra.

Questi episodi (al di là dell’opportunità per il Ministro di continuare il rapporto fiduciario con il suo capo di Gabinetto, senza dover attendere conferme su eventuali responsabilità penali) evidenziano il grumo di opachi interessi che si addensa attorno agli appalti sui Beni culturali. Questo settore, fino a oggi, da parte di costoro che avrebbero dovuto indagare, i magistrati, e controllare, i Ministri, ha goduto di una considerazione e di un giudizio influenzati da una sorta di soggezione. Quasi come se gestire restauri, ristrutturazioni e interventi di tutela sul nostro patrimonio artistico comportasse un salvacondotto di merito e costituisse di per sè un lavacro nel quale le coscienze si mondavano da qualunque tentazione di sottrarre pubblico denaro. Così in questo porto franco della cultura hanno proliferato e proliferano corruzione, sprechi, abusi tali da infliggere colpi mortali alla più grande ricchezza di cui dispone l’Italia.

Come e più di quanto deve succedere in altri campi, nei beni culturali è necessario voltar pagina. Devono essere introdotti criteri scientificamente corretti per stabilire le priorità di intervento. E parimenti a quel che scrivevamo sull’amministrazione delle Soprintendenze, nelle quali servirebbe una conduzione manageriale, anche la “lista della spesa” dovrebbe esser compilata con un metodo di conservazione programmata, basata sull’analisi dello stato dei luoghi. Non è possibile continuare ad affidare i destini del nostro patrimonio artistico alle simpatie, i gusti, le relazioni, e ai vantaggi del portafoglio del funzionario di turno, troppo spesso concentrato solo a ingraziarsi il politico distratto.

La società pubblica Arcus è diventata protagonista delle cronache giudiziarie per il finanziamento da 2,5 milioni elargito alla curia di Propaganda Fide diretta dal cardinale Crescenzio Sepe quando il ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi con una mano firmava il via libera al pagamento di un progetto poi non eseguito e con l’altra comprava a prezzo stracciato dalla stessa Propaganda Fide di Sepe un palazzetto nel centro storico di Roma per 3 milioni di euro. Per scoprire questo moderno esempio di carrozzone pubblico non c’era però bisogno dell’indagine di Perugia né dell’iscrizione tra gli indagati del cardinale Sepe e di Lunardi. Arcus ha elargito e stanziato poco meno di 500 milioni di euro dalla sua nascita nel 2004, senza soluzione di continuità tra centrodestra e centrosinistra. La sua missione è “di sostenere in modo innovativo progetti importanti e ambiziosi concernenti il mondo dei beni e delle attività culturali, anche nelle sue possibili interrelazioni con le infrastrutture strategiche del Paese”.

L’arte del business

L’oggetto sociale abbastanza fumoso e la possibilità di elargire soldi senza gara per spettacoli, arte, restauri e mostre ne ha fatto un poderoso strumento clientelare in mano ai politici che volevano favorire i propri collegi elettorali, gli amici, i familiari e anche i parroci. Arcus è di proprietà del ministero dell’Economia al 100 per cento mentre il coordinamento sulla sua azione è rimesso ai Beni culturali retti da Sandro Bondi, che talvolta opera di concerto con le Infrastrutture di Altero Matteoli. In tempi di tagli di bilancio la Arcus Spa è diventata, come la Protezione civile, un canale privilegiato per dare soldi, consulenze e incarichi di ogni tipo. La Corte dei Conti nel 2009 ha condannato il suo ex presidente Giorgio Basaglia per una consulenza legale ridondante e le trasmissioni televisive Le Iene e Presa diretta, avevano già raccontato i rapporti incestuosi tra Arcus, politica e Vaticano che albergavano dietro il restauro del palazzo di Propaganda Fide a piazza di Spagna ora finito nel mirino della Procura di Perugia.

Le vere autorità di controllo sulla società in questi anni sono state più le trasmissioni televisive che le istituzioni come la Corte dei Conti e l’Autorità di vigilanza dei lavori pubblici. Il giudice della Corte dei Conti Mario Sancetta, ha scritto il regolamento di Arcus quando era al ministero con Lunardi e oggi è indagato per altre storie nell’indagine sulla cricca. Mentre nelle intercettazioni del Ros di Firenze spunta il nome di Arcus. Lo fa proprio un consigliere dell’Autorità Garante dei Lavori Pubblici. Si chiama Alessandro Botto, già consigliere di Stato e segretario generale dell’Agcom, non chiede maggiori controlli. Anzi, telefona a Fabio De Santis (che poi sarà arrestato) per chiedere di intervenire tramite il “capo”, cioè Angelo Balducci, per avere da Arcus un finanziamento. E ovviamente il beneficiario non era Botto stesso ma una chiesa, quella di Santa Maria in Aquiro. “Interessava a un amico parroco”, dice Botto oggi al Fatto in un amen, aggiungendo subito “ma non è mai stato approvato”. Vaticano, soldi pubblici e politica. È questo il mix che spesso si trova dentro le pratiche della società dello spettacolo. Un caso esemplare è lo stanziamento di mezzo milione di euro a beneficio della società “I borghi Srl” che gestisce l’Auditorium della Conciliazione a Roma. L’immobile è di proprietà del Vaticano che lo affitta ai Borghi, finanziata dallo Stato con Arcus. Quando ottiene il contributo, la Srl cattolica vanta tra i suoi soci due politici di destra e sinistra: Lorenzo Cesa, che poi diverrà segretario Udc e Francesco Artenisio Carducci, allora responsabile cultura della Margherita di Rutelli e ora transitato al centrodestra.

I soliti noti

Anche l’ascesa della professoressa Francesca Elena Ghedini, archeologa e sorella del più famoso onorevole-avvocato Nicolò si intreccia con quella di Arcus. La responsabile del dipartimento archeologia dell’Università di Padova ha ricoperto il ruolo di consigliere della società dal 2003 al 2006. Ma non è stata solo membro dell’organo decisionale di Arcus, la sua attività pubblica di archeologa ha beneficiato di milioni di euro di contributi. Ovviamente non privatamente come Cesa e soci ma in qualità di archeologa dell’università. Sul sito della sua facoltà si legge nel curriculum che “è codirettore degli scavi di Nora (dal 1990), direttore degli scavi sulla Via Annia (Roncade, Treviso) (dal 2000) e condirettrice del progetto Aquae Patavinae”. Ebbene Arcus ha stanziato più di due milioni per questi scavi. Nell’ordine: 200 mila euro per l’Università di Padova proprio per il progetto in Sardegna “area archeologica di Nora”; altri 800 mila euro sono partiti per “la valorizzazione dell’antica strada romana via Annia”, destinati alla Regione Veneto; altri 435 mila euro sono andati all’università di Padova per il progetto “Aquae Patavinae” che si sommano a un milione e 160 mila euro concessi per il medesimo progetto al comune di Montegrotto e alla Regione Veneto. A chi criticava queste scelte, Arcus ha risposto con un comunicato pubblicato sul sito Internet: “Noi che abbiamo avuto l’onore e il piacere di interagire con la professoressa Ghedini per motivi professionali e istituzionali, non possiamo non testimoniare della sua caratura morale e scientifica che, unitamente ad una grande passione per la ricerca, per la valorizzazione del nostro patrimonio culturale, per l’innovazione, ne fanno una persona capace di dare grande lustro al nostro Paese”. Un lustro costoso, però.

La Confederazione Italiana Archeologi manifesta profonda preoccupazione per il contenuto del comma 12 dell’articolo 6 della Legge Finanziaria 2010, che taglia i fondi per le missioni dei dipendenti della Pubblica Amministrazione. Nell’ambito della gestione della tutela del patrimonio archeologico, il personale tecnico delle soprintendenze non potrà più utilizzare mezzi privati per effettuare sopralluoghi nei cantieri e ispezioni sul territorio, per i quali dovrà usufruire esclusivamente mezzi pubblici.

“Il provvedimento contenuto nella Finanziaria - dichiara il Presidente Giorgia Leoni – è l’ennesimo attentato alle soprintendenze e al sistema di gestione della tutela del territorio. Le soprintendenze, che già operano con personale ridotto ai minimi termini a causa dei tagli agli organici e della esiguità di turn over, gestiscono territori molto vasti e complessi dal punto di vista geografico. I siti archeologici non sono sempre lungo strade statali o provinciali servite dai mezzi pubblici e i cantieri da sorvegliare sono spesso in aree non ancora urbanizzate, in campagna, in montagna...non raggiungibili con autobus, tram o treni.”

“Il taglio porterebbe delle conseguenze gravissime – continua il Presidente Giorgia Leoni – e mette a forte rischio la tutela del patrimonio archeologico e del paesaggio del nostro paese, specie in un momento in cui tornano a paventarsi proposte di condono edilizio.

In che modo si pensa che si potrà continuare a fare tutela? Forse dal finestrino di un autobus?”

La Confederazione Italiana Archeologi chiede un intervento urgente al ministro Bondi affinché si adoperi e interceda sul Governo, come già fatto per ridurre i tagli agli istituti di cultura, per ottenere una deroga alla Finanziaria che permetta al Ministero e alle soprintendenze di tutelare il patrimonio archeologico e il paesaggio del nostro paese nel rispetto del compito istituzionale affidato loro dalla Costituzione.

Nell’autunno del 2003 la facciata del palazzo di Propaganda Fide in piazza di Spagna viene completamente avvolta da un ponteggio esterno. «Manutenzione provvisoria e restauro» si legge sulla targa che segnala lo stato dell’opera. Il progettista è l’architetto Angelo Zampolini, che sette anni dopo diventerà noto per essere l’uomo di fiducia di Diego Anemone, il custode di molti dei suoi segreti. L’impresa a cui sono affidati i lavori è la ditta Carpineto, che in una recente informativa del Ros viene definita «vicina» ad Angelo Balducci, ex Provveditore alle Opere Pubbliche.

«Incongruo»

È solo l’inizio di quegli interventi che nel 2005 beneficeranno di un finanziamento statale da 2,5 milioni di euro, sul quale anche alcuni organi di controllo avevano sollevato molte perplessità. Il primo allarme, infatti, arrivò dalla Corte dei conti, sollecitata da una denuncia del sindacalista della Uil Gianfranco Cerasoli. L'iscrizione nel registro degli indagati del cardinale Crescenzio Sepe, presidente di Propaganda Fide del 2000 al 2006, e dell’allora ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi, è stata decisa dalla Procura di Perugia dopo l’acquisizione di una relazione della Corte dei conti nella quale si definisce «incongruo» e «non motivato» lo stanziamento della cifra, destinata a un palazzo extraterritoriale, essendo di proprietà del Vaticano. La stranezza di quella vicenda, e il fatto che i lavori non ebbero mai fine, hanno convinto i pubblici ministeri di essere in presenza di una contropartita concessa da Lunardi - firmatario del decreto insieme all’ex ministro della Cultura Rocco Buttiglione - in cambio dell’acquisto a prezzi decisamente vantaggiosi di una palazzina di Propaganda Fide in via dei Prefetti, a Roma. L’andamento di quel restauro ha sempre avuto una sorte accidentata. Il primo ponteggio venne smontato nel febbraio 2004. I lavori ripresero nell’estate del 2005, sempre con lo stesso progetto, dopo che all’interno degli «interventi in materia di spettacolo ed attività culturali» previsti per il varo di Arcus, la spa governativa che si occupa di edilizia culturale, venne deciso uno stanziamento di 2,5 milioni di euro per il restauro del palazzo. Cambiò la ditta appaltante, con l'ingresso della Italiana Costruzioni.

La Corte dei conti

Il totale delle spese previste per un secondo blocco di 26 lavori deliberato da Arcus era di 24,70 milioni di euro. La voce più alta nel capitolo riguardante gli ultimi 13 interventi previsti era proprio quella relativa alla palazzina del Vaticano. Al secondo posto, i lavori per la Metropolitana di Napoli, nelle stazioni Duomo e Municipio (1.5 milioni). In una relazione sul funzionamento generale di Arcus, la Corte dei conti critica pesantemente l’assenza di un regolamento attuativo, previsto in origine ma mai redatto. In questo modo, scrivono i giudici, le scelte non vengono mai fatte da Arcus, ma direttamente dai vertici dei ministeri, senza la necessità di alcuna spiegazione. «Il soggetto societario in mano pubblica è stato trasformato in un organismo che in concreto ha assolto prevalentemente una funzione di agenzia ministeriale per il sostegno finanziario di interventi, decisi in via autonoma dai ministri e non infrequentemente ed a volte anzi dichiaratamente, indicati come integrativi di quelli ordinari, non consentiti dalle ridotte disponibilità correnti del bilancio». La mancata esplicitazione della logica delle decisioni operate «dai ministeri e non da Arcus», scrive nel 2007 la Corte dei Conti, «avrebbe portato a decisioni apparentemente non ispirate a principi di imparzialità e trasparenza».

Il sospetto

L’episodio della palazzina di piazza di Spagna viene considerato importante perché fa emergere il contesto di presunte reciproche utilità tra il ministro e il religioso. Ma all’esame degli investigatori c’è la gestione complessiva del nutrito comparto immobiliare di Propaganda Fide ai tempi in cui la congregazione era presieduta dal cardinal Sepe. Tra il 2001 e il 2005 molti appartamenti e palazzi di Propaganda Fide vennero ristrutturati proprio da Diego Anemone. Nei giorni scorsi i carabinieri del Ros di Firenze hanno acquisito dal ministero delle Infrastrutture altri appalti e stanziamenti decisi da Lunardi, per verificare se tra quelle carte non vi sia qualche altra utilità fatta giungere tramite Balducci e il ministero a Propaganda Fide. Inoltre sarebbero in corso accertamenti sull’assunzione di un nipote del cardinal Sepe presso l’Anas, azienda pubblica dipendente dalle Infrastrutture. Candidamente, Lunardi ha raccontato che a gestire gli immobili della congregazione era Balducci insieme a Pasquale De Lise, ex presidente del Tar laziale, recentemente nominato presidente del Consiglio di Stato, e al genero di quest’ultimo, l’avvocato Patrizio Leozappa. Gli investigatori avevano già segnalato in una informativa gli «stretti contatti» tra Balducci e De Lise, senza ulteriori precisazioni. In una conversazione del 4 settembre 2009 l’alto magistrato chiama Balducci e gli accenna al fatto che, su input di Leozappa, si è anche «occupato» - le virgolette sono dei carabinieri del Ros - di un provvedimento di rigetto del Tar del Lazio che avrebbe favorito il Salaria Sport village, la struttura riconducibile a Diego Anemone dove Guido Bertolaso avrebbe usufruito di alcune prestazioni sessuali. È un provvedimento per il quale Leozappa incassa i complimenti telefonici di Anemone, per poi replicare: «Io il mio lo faccio». Neppure il nome di Leozappa è inedito. Appare nell’inchiesta fiorentina sulla presunta cricca, perché lavora spesso con l’avvocato d’affari Guido Cerruti, scelto da Balducci per aiutare l’imprenditore Riccardo Fusi in un suo contenzioso con lo Stato e arrestato lo scorso marzo.

Il magistrato

L’ultimo nome noto ricorrente in questa nuova fase dell’inchiesta perugina è quello di Mario Sancetta. Il regolamento di Arcus del quale la Corte dei conti lamenta la mancanza era stato affidato in origine proprio a lui, magistrato di quell’organismo, attuale presidente di sezione, indagato a Perugia per corruzione. Gli investigatori si stanno rileggendo alcune intercettazioni riportate in una informativa del Ros dello scorso settembre. Il 25 giugno 2009, Sancetta è al telefono con Rocco Lamino, socio del Consorzio Stabile Novus, di cui faceva parte anche Francesco Piscicelli, l’imprenditore che rideva la notte del terremoto dell’Aquila. Sancetta si lamenta dell’atteggiamento inconcludente che hanno nei suoi confronti Lunardi e «il cardinale», identificato poi come monsignor Sepe, perché «non sufficientemente solleciti al soddisfacimento di richieste di commesse» che il magistrato gli avrebbe fatto pervenire. «Non è che sia molto conclusivo, sto’ cardinale - dice -. Io spero allora di incontrarlo, così gli do sto’ depliant… perché l’altra volta gli diedi tutto quel fascicolo che non serve a niente, insomma… come pure ora devo vedere la prossima settimana a coso… Lunardi… anche lui, perché lui mi ha obbligato… ma la gente si piglia le cose degli altri e non gli fa niente… quella è una cosa indegna». Il canovaccio si ripete in altre telefonate, nelle quali Sancetta accenna alla possibilità di sfruttare il suo rapporto con Lunardi per far avere a Lamino qualche commessa da parte di Impregilo («Ma non so se dargli fiducia…») oppure nell’ambito dei lavori post terremoto, magari facendo leva sul fatto che l’ex ministro ha ancora un procedimento pendente presso la Corte dei conti. «Con Lunardi - dice - c’abbiamo una questione ancora in sospeso».

Cosa sta succedendo alla Villa Reale di Monza?

Stanno succedendo diverse cose dal cui svolgimento dipende il futuro anche a lunga scadenza della Villa. Anzitutto la nascita del consorzio tra gli enti proprietari (Comune di Monza, Comune di Milano, Regione Lombardia, Stato), uno strumento invocato da anni per snellire la gestione del patrimonio di Parco e Villa. Il consorzio nasce monco (non ha ancora aderito il Comune di Milano) e con uno statuto che penalizza Monza, la quale vede una sua rappresentanza inferiore alle quote di proprietà. Tuttavia la nascita del consorzio è un passo importante e occorreranno alcuni anni prima di poter dare un giudizio equilibrato sulla sua efficacia. In secondo luogo il concorso bandito da Infrastrutture Lombarde (braccio operativo della Regione Lombardia) per identificare un gestore privato della Villa per ben 30 anni. E qui le cose si complicano: perché creare un consorzio per la gestione della Villa per poi cercare un privato che la gestisca? È evidente a chiunque che c’è un passaggio di troppo e che se si voleva far gestire la Villa a un soggetto privato ciò poteva essere fatto direttamente dai proprietari, senza creare un consorzio che rischia di essere inutile e privo di reale potere. Non ci vedo molta logica in questi passaggi.



In che condizioni è oggi la Villa?

Le condizioni della Villa oggi sono grosso modo simili a quelle degli ultimi dieci anni. Il primo piano nobile del corpo centrale è interamente restaurato, mentre permane lo stato di abbandono del secondo piano nobile e di tutta l’ala nord. Ci sono state lodevoli iniziative di apertura al pubblico della Villa nelle ultime estati, ma ancora limitate e poco incisive (pare non si riesca a far aprire al pubblico gli appartamenti della regina Margherita e di re Umberto) e nel 2009 la Villa ha ospitato il forum dell’Unesco sulla cultura, un evento che tuttavia non ha coinvolto la città ed è rimasto interamente confinato agli addetti ai lavori.

Ci parli del bando di Infrastrutture Lombarde?

Ormai, dopo l’intervento del dirigente di Infrastrutture Lombarde al consiglio comunale di Monza, i contenuti del bando sono chiari. Il bando prevede di identificare un soggetto privato che restauri e gestisca la Villa per 30 anni, a fronte di un esborso iniziale di 5 milioni di euro (altri 18 li metterà la mano pubblica) e di un canone annuo di 30mila euro. Si fanno poi precise previsioni sulla destinazione d’uso di alcune parti della Villa: l’intero piano terra verrebbe ad ospitare non meglio precisati “negozi” e “laboratori”, mentre il Belvedere verrebbe trasformato in un ristorante. Nulla si dice sulle modalità dell’intervento di restauro né sulle attività che dovrebbero svolgersi in Villa e a chiunque appare evidente che sarà il privato a cercare il modo migliore di tutelare i propri interessi e investimenti.

Che rischi si corrono?

Per capire quello che accade oggi occorre tornare indietro di qualche anno e cioè al cosiddetto progetto Carbonara, vincitore del concorso internazionale bandito dalla Regione Lombardia sulla base di un dettagliato documento preliminare. Pochi lo sanno, perché si trattava di un progetto oggettivamente imbarazzante e che perciò venne quasi secretato, ma il progetto Carbonara prevedeva la trasformazione della Villa in un colossale residence di lusso al secondo piano nobile e nell’ala Nord, mentre le stanze piermariniane del primo piano nobile sarebbero diventate uffici di rappresentanza del governatore regionale. Con in più l’idea – buffa di per sé ma perfettamente compatibile con l’impostazione del progetto – della beauty farm nei giardini reali. Insomma, è allora che nasce la strategia di rinunciare al ruolo prettamente storico-culturale della Villa in favore di una Villa “produttrice di reddito”. Quello che accade oggi è solo la logica conseguenza di quella sciagurata impostazione. Per “produrre un reddito” conviene la si affidi ad un privato che sappia fare bene il suo mestiere e chiudere un occhio (e magari due) sulla destinazione culturale del complesso. E qui faccio una previsione: il privato manterrà intatto il primo piano nobile – già restaurato - destinandolo alla più svariate attività convegnistiche e di rappresentanza, mentre darà seguito al progetto Carbonara sul secondo piano nobile, trasformandolo in hotel di lusso, col ristorante annesso nel Belvedere, negozi al piano terra e magari anche la beauty farm. Tutto ciò verrà giustificato dalla necessità di rientrare nei costi e non è impedito dal bando. E così la Villa verrebbe trasformata in un gigantesco chateau relais sul modello francese per ricconi desiderosi di un prestigioso soggiorno: una fine molto triste e contro la quale occorre battersi con ogni mezzo.

La presenza del privato è indispensabile?

La domanda è mal posta. In tutto il mondo civile i privati vengono chiamati a collaborare alla gestione di patrimoni artistico-storici laddove ne nasca la necessità. Ma sempre in posizione subordinata e dipendente dalla mano pubblica, che ha come compito istituzionale la tutela del patrimonio storico-artistico nazionale. Qui invece le parti si sono invertite e la filosofia del bando di Infrastrutture Lombarde è quella di “toh, prenditi questa cosa, fanne quello che vuoi, basta che mi paghi il canone a fine anno”. Tanto per chiarire: è mai possibile che il bando - in molte parti assai dettagliato - non intervenga nel merito della gestione della Villa, indicando e specificando le attività che vi si dovrebbero svolgere, le destinazioni d’uso, le finalità dell’intervento sotto il profilo culturale? Nulla è detto di tutto ciò. Tutto è lasciato alle scelte e alla volontà del privato. E in questo quadro appare sconcertante anche la clausola del bando che prevede che gli enti pubblici proprietari possano impiegare la villa 36 giorni l’anno per loro scopi: come a dire, per un mese l’anno cerchiamo di fare qualcosa noi in Villa, per i restanti 11 tu privato hai mano libera.



Cosa pensi delle manifestazioni delle scorse settimane all'interno e nel cortile?

Sono sempre stato favorevole a che la Villa e il suo cortile ospitassero manifestazioni musicali, cinematografiche o altro. È un modo concreto per farla vivere. Però anche qui occorre capire che un conto è se queste manifestazioni sono a compendio di un progetto culturale di una Villa viva e aperta al pubblico, un conto se la Villa deve solo servire da muta scenografia ad un concerto che potrebbe anche svolgersi altrove. A questo proposito sarei molto favorevole a spettacoli son et lumière, che potrebbero collegare una manifestazione spettacolare con la storia della Villa stessa e attirare molto pubblico.

Davvero l'ISA è incompatibile con il futuro della Villa?

Se parliamo in generale niente impedirebbe in linea di principio che un complesso come la Villa ospiti in una sua porzione secondaria una struttura educativa per di più di tipo artistico. E che potrebbe peraltro collaborare fattivamente ad una positiva gestione della Villa progettandone l’immagine coordinata, il materiale informativo, fotografico, filmico, ecc. A mio parere occorrerebbe però che l’ISA diventasse davvero una scuola d’eccellenza, a numero chiuso e con esame d’ammissione attitudinale e magari chiamata nominativa degli insegnanti. Tutto ciò per valorizzarne gli scopi e la funzione, giustificando la sua permanenza negli attuali spazi. Non so dire se ciò sia possibile stante l’ordinamento scolastico vigente, ma certo sarebbe una prospettiva interessante ed affascinante.

postilla

privatizzazione dello spazio pubblico aggravata: suona come un reato, e lo è, soprattutto da parte di chi il “pubblico” dovrebbe rappresentarlo perché a ciò delegato dal voto popolare, e invece ritiene che il proprio mandato sia far rendere la bottega, e magari far qualche piacerino agli amichetti più uguali degli altri. Già si è detto e stradetto del discutibile modello di riqualificazione urbana in cui con la scusa di bonifiche ambientali, sicurezza, economicità gestione e compagnia bella, si producono tessuti urbani di fatto meno permeabili delle attività ex nocive che vanno a sostituire, e accessibili solo a chi paga: proprietario o cliente che sia. Almeno però (non è una scusante, ma facciamo conto che lo sia per scopi retorici) lì c’è un investimento, le aspettative di resa, il rischio, il fatto che in fondo la città si riqualifica, magari i posti di lavoro ecc. ecc.

Ma nel caso di un monumento storico, pubblico da sempre (o quasi), con una collocazione prestigiosa, centrale, perfetta per funzioni di alto profilo culturale e rappresentativo … farne l’ennesimo baraccone “esclusivo” per shopping, massaggi, insomma quella roba che si vede nei film coi nababbi evasori asiatici-caucasici persi nei vapori o spupazzati da geishe plurilaureate poliglotte … quello è spudoratezza pura. Ovvero la cosa a cui stanno cercando di farci abituare, facendo la classica faccina come il culo e spiegandoci pazienti che è il mercato. Concetto cangiante il cui senso è deciso volta per volta, arbitrariamente, da lorsignori, of course (f.b.)

Un decreto interministeriale a doppia firma del 20 luglio 2005 fa comprendere perché Propaganda Fide, la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, il ministero degli Esteri del Vaticano, a Roma sia diventata l’immobiliare dei potenti e, lo sta srotolando ogni giorno l’inchiesta sulla Protezione civile, un luogo di scambio di beni e utilità, un centro primario d’affari per l’imprenditore Diego Anemone, l’ancora di salvezza per gli alibi domiciliari di Guido Bertolaso. In quel decreto, licenziato da Pietro Lunardi, allora ministro delle Infrastrutture, e Rocco Buttiglione, ministro dei Beni culturali per un anno e nove giorni nel Berlusconi Ter, si approvò il largo programma d’intervento speciale di Arcus, società per azioni nata per sveltire le questioni dell’edilizia culturale, rapidamente trasformatasi in una "protezione civile" per gli appalti nei musei, nei siti archeologici, nelle chiese.

Già. Nel lungo elenco che accompagnò il decreto - 87 lavori sparsi in Italia, 51 milioni e 900 mila euro di finanziamenti, in buona parte elargizioni ad amici del centrodestra – c’erano anche luoghi sacri. Alla riga 29 del Piano interventi di Arcus, società privata di Stato, si prevedeva il finanziamento del restauro del palazzo seicentesco realizzato da Bernini e Borromini, oggi allocato in piazza di Spagna 48. Restauro del palazzo più realizzazione di una pinacoteca: 2,5 milioni di euro pubblici. Il palazzo, però, cresceva in territorio vaticano, lo ricordano l’insegna e la bandiera. Ma i buoni rapporti tra il Governo Berlusconi e la struttura allora guidata da Monsignor Crescenzio Sepe si scoprono, oggi, leggendo le carte della magistratura di Perugia.

L’anello di congiunzione tra i laici ministeri e l’ente di evangelizzazione era al solito Angelo Balducci, allora gentiluomo del Papa e uno dei tre gestori del patrimonio immobiliare di Propaganda Fide (duemila appartamenti nella capitale). Come è noto, Balducci era anche il più importante funzionario italiano del mattone pubblico, aveva saldato un rapporto oltretevere grazie al grande cantiere del Giubileo del Duemila e, come ha raccontato a "Repubblica" Pietro Lunardi, era l’omo di fiducia del ministro delle Infrastrutture, il "tecnico" che gli suggeriva il ristrutturatore edile (Anemone) per le sue tenute di campagna e gli forniva l’elenco delle case di Propaganda Fide da cui scegliere la dimora romana (sarà in via dei Prefetti, un palazzo di tre piani acquistato dal ministro Lunardi per la metà del suo valore). In quelle stagioni anche al consigliere politico di Lunardi, Vito Riggio, oggi presidente dell’Enac, fu assegnata una "casa Fide": era in via della Conciliazione 44, immobile di pregio normalmente destinato all’alloggio dei cardinali.

Ma perché Propaganda Fide a partire dal Duemila ha organizzato una rutilante attività immobiliaristica d’élite? Perché ha voluto consegnare appartamenti di lusso ai potenti d’Italia a prezzi scontati? Gli inquirenti, nell’interrogatorio che nei prossimi giorni si svolgerà a Perugia, chiederanno all’ex ministro Lunardi anche dell’eventuale rapporto tra i suoi beni privati e i decreti firmati, innanzitutto quello che ha stanziato 2,5 milioni per restaurare il palazzo di piazza di Spagna (la pinacoteca è annunciata pronta per il prossimo ottobre). Successivamente, Arcus - con ministro Sandro Bondi - avrebbe finanziato il restauro dei cortili interni della Pontificia università gregoriana di Roma: 1,5 milioni tra 2010 e 2011 (nonostante lo Stato fosse già intervenuto con 899.944 euro presi dai fondi dell’8 per mille).

È interessante notare come il capo dell’Ufficio legislativo di Lunardi, colui che avrebbe dovuto emanare il regolamento Arcus, era Mario Sancetta, oggi indagato per corruzione nell’"inchiesta Anemone". Il Consiglio di amministrazione di Arcus negli anni 2004-2008 era invece composto, tra gli altri, da Elena Francesca Ghedini, sorella dell’avvocato-deputato Pdl, destinataria di diversi finanziamenti per il suo dipartimento di Archeologia dell’Università di Padova, ed Ercole Incalza, oggi responsabile della struttura di missione del ministro Altero Matteoli, noto per l’appartamento romano comprato alla figlia grazie a un contributo dell’architetto Zampolini. Ecco, Zampolini, mancava lui per colorare questo estratto anemoniano in territorio vaticano. Nel 2003, come ricorda il sindacalista Uil Gianfranco Cerasoli, gli venne affidata la facciata dell’oratorio borrominiano: la Sovrintendenza lo fermò. Sulla ristrutturazione, ora, si è aperta un’inchiesta della Corte dei conti.

La Villa Reale di Monza? “La stanno regalando ai privati”. Una delle dimore storiche più importanti del nord Italia sarà gestita per trent’anni da un’azienda privata. L’allarme è stato lanciato da alcuni politici lombardi del Pd. Si sono convinti che la privatizzazione sarà il futuro di Villa Reale, dopo aver ascoltato le parole di uno degli uomini più potenti del gruppo ciellino che attornia il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni: il grande capo di Infrastrutture Lombarde, Antonio Rognoni.

È successo la settimana scorsa nel consiglio comunale di Monza. Rognoni è stato interrogato dai consiglieri durante un’audizione che aveva per tema, appunto, il futuro della Villa Reale. Dopo anni di incuria e abbandono, la Villa sarà finalmente restaurata. Chi la rimetterà a nuovo? Lo deciderà una gara realizzata da Infrastrutture Lombarde, l’azienda controllata dalla Regione che fa da stazione appaltante. Per ora partirà la riqualificazione del primo lotto, 9 mila metri quadrati del corpo centrale, cortile, primo piano, piano nobile, belvedere, in cui saranno realizzati spazi per mostre ed eventi, laboratori, bookshop, caffè, ristorante. Costo: 23 milioni di euro. Chi ce li mette?

E qui arriva il bello, ovvero il brutto, della storia. La Villa Reale dovrebbe essere curata da un consorzio di gestione di cui fanno parte il Comune di Monza, il Comune di Milano, la Regione Lombardia, il ministero dei Beni culturali. Diciamo dovrebbe, perché il Comune di Milano non ha mai formalizzato il suo ingresso nel consorzio e non ha mai pagato neppure un euro di spese, comportandosi come un condomino che neppure risponde alle lettere dell’amministratore. Il ministero di Sandro Bondi ha promesso un milione di euro, ma finora nessuno ha visto un centesimo. Il Comune di Monza ha la guida del consorzio, affidata al sindaco della città Marco Mariani, ma non ci ha messo i soldi.

Gli unici che si sono dati da fare sono stati gli uomini della Regione. Hanno stanziato 20 milioni e affidato a Infrastrutture Lombarde la guida della ristrutturazione. Con un’ideona: far pagare almeno una parte dei lavori ai privati, che ci metteranno 5 milioni di euro (sui 23 totali) e in cambio avranno per trent’anni la gestione della Villa Reale. A un canone irrisorio (30 mila euro all’anno, più uno 0,5 per cento del fatturato). Lo ha confessato Antonio Rognoni durante la sua audizione. Così gli enti pubblici, i Comuni di Monza e Milano, la Regione e il ministero, saranno di fatto esautorati dalle decisioni su come utilizzare la Villa Reale.

“È l’unica soluzione possibile”, replica il sindaco Mariani, “che un privato ci guadagni dalla gestione è tutto sommato una cosa normale”. Reagisce Roberto Scanagatti, capogruppo del Pd al Comune di Monza: “La realtà ha superato i nostri peggiori timori. Rognoni ha confermato che in cambio della propria quota, i privati gestiranno per i prossimi trent’anni il corpo centrale della Villa, il più pregiato”. E Giuseppe Civati, consigliere regionale del Pd, aggiunge: “Il consorzio avrà pochissimi margini per decidere l’offerta culturale e museale di uno dei complessi monumentali più importanti della Lombardia. È una svendita ai privati orchestrata da Formigoni”.

Foto choc, dossier ai magistrati: guardate lo scempio di Pompei

Vincenzo Esposito

Fosse biologiche per i bagni, scavate a pochi metri dalle mura innalzate oltre duemila anni fa. Massetti e colate di cemento tra le colonne delle antiche dimore. Prefabbricati incastrati nei locali che furono la palestra dei gladiatori. Il Peristilio del quadriportico invaso da trapani elettrici, martelli pneumatici e levigatrici. Colonnati corinzi e archi in reticolato romano che diventano appendipanni per giacche e giubbotti, magari con qualche chiodo inserito all’occorrenza dagli operai. Nessuno controlla, nessuno sa, nessuno vede. Eppure è lo scempio di Pompei, degli Scavi archeologici. Unici al mondo. Guardare le foto e ricevere un pugno nello stomaco della propria sensibilità, è un tutt’uno.

Le opere vengono definite ufficialmente come il restauro del teatro antico. Omeglio «Restauro e sistemazione per spettacoli del complesso dei teatri in Pompei scavi». Più che una sistemazione, però, è un rifacimento ex novo. Le gradinate, che esistevano solo in parte, sono state integrate con pietre di tufo giallo. Sostituiti i supporti di ferro sui quali venivano poste assi di legno rimovibili per far sedere gli spettatori. «Il teatro antico non è più il teatro antico, è una nuova struttura - spiegano all’Osservatorio del patrimonio culturale - che lascia più che perplessi. E intorno l’invadenza di questi lavori selvaggi lascia sgomenti». Dieci giorni fa l’Osservatorio ha scritto al ministro dei Beni culturali Sandro Bondi. Ora quelle foto choc fanno parte di un corposo dossier inviato alla Procura della Repubblica. L’inchiesta, spiegano, dovrebbe scattare immediatamente perché su quello che è stato fatto non ci sono dubbi. E i magistrati dovranno capire chi ha autorizzato quei lavori e chi doveva soprintenderli.

Come è Il Teatro oggi: mattoni di tufo per formare le gradinate. La struttura è stata ricostruita con materiali anomali

Questo, infatti, è un giallo. Il commissario straordinario di Pompei, Marcello Fiori, ha spiegato: «Quello è un progetto redatto dal precedente soprintendente Pietro Giovanni Guzzo e approvato dal ministero generale per l’Archeologia, dal segretario generale, dal capo gabinetto del ministero, dal capo gabinetto della Regione Campania. Nel teatro così restaurato suonerà il 10 giugno il maestro Riccardo Muti». Come dire: non chiedete a me. Va bene, ma allora? Chi deve controllare quali ditte entrano e mettono le mani in uno dei tesori dell’umanità. Secondo i sindacati le gare per l’aggiudicazione dei lavori hanno subito ribassi fino al 40 per cento.

«L’evidenza della gravità degli interventi - ha scritto al ministro Bondi l’Osservatorio del patrimonio culturale - è facilmente e banalmente dimostrabile attraverso una rapida ricognizione dell’attuale consistenza del teatro, in particolare della cavea, che, rispetto ad una qualsiasi foto o disegno di diversi momenti della vita degli scavi, risulta completamente costruita ex novo con mattoni in tufo di moderna fattura. L’intervento sul teatro è un vero e proprio inconcepibile scempio compiuto all’interno del monumento archeologico tra i più significativi dell’umanità». E non si chiede solo ai magistrati di intervenire, ma al mondo intero di condannare lo scempio di Pompei. Per gli archeologi, infatti, gli interventi compiuti sono in evidente contrasto con i principi internazionali sulla conservazione del patrimonio storico artistico e con le norme che regolano e tutelano il patrimonio archeologico italiano e mondiale. Gli esperti del pianeta si mobilitano, su internet nascono gruppi che protestano con corpose petizioni. L’ultimo è «Stop killing Pompei ruins», su Facebook che lievita ogni giorno di adesioni. E di sdegno.

Appello degli archeologi a Muti: difendiamo l’antica città

Antonio Irlando - Osservatorio Patrimonio culturale

opcitalia@gmail.com

Caro direttore,

gli scavi di Pompei sono ancora sotto la scure del vandalismo di lavori di edilizia civile, spacciati per interventi di restauro del Teatro Grande e della Palestra dei Gladiatori. Stanno facendo in fretta e male per inaugurare il «Nuovo Teatro degli scavi di Pompei», con un concerto di Riccardo Muti. Si, è proprio un «Nuovo Teatro», sorto sull’area di quello romano. Quello antico, originale, autentico, non c'è più. Chi ha visto lo scempio è sbigottito. Quasi nessuno crede a ciò che vede, perché è tutto ferocemente assurdo. Hanno selvaggiamente sostituito molto di quello che c’era (e soprattutto che non c’era) con una cavea quasi completamente nuova, con materiale in tufo di moderna fattura. Il Corriere della Sera in un’inchiesta pubblicata il 25 maggio scorso spiegava molto bene, quanto è in corso al teatro romano di Pompei. E non è servita ad arrestare la barbarie (autorizzata?) una dettagliata relazione al ministro per i Beni culturali da parte dell’Osservatorio Patrimonio culturale, con un elenco dettagliato degli scempi (quello al teatro non è l’unico) perché si lavora cementificando superfici archeologiche per realizzare le infrastrutture del nuovo teatro con pale meccaniche, martelli pneumatici, levigatrici ed altro ancora.

Inizia, però, a crescere l’indignazione (ovviamente con i tempi di reazione all’italiana) tra chi è informato su quanto si consuma ai danni del patrimonio archeologico di Pompei e, soprattutto, nella comunità internazionale che spesso ama Pompei più degli italiani. Il 10 giugno il maestro Riccardo Muti è in calendario per inaugurare la stagione dei concerti a Pompei. Viene da chiedersi, ma il maestro Riccardo Muti è a conoscenza dello scempio compiuto al Teatro Grande di Pompei? È a conoscenza il maestro Muti che non inaugurerà il «restaurato Teatro Grande», ma un «Nuovo Teatro» edificato negli scavi di Pompei? Certamente non sa nulla, impegnato com’è in giro per il mondo o forse ha letto il Corriere della Sera. Dal grande artista internazionale, dall’icona della cultura e dell’arte italiana nel mondo, sarebbe utile per l’intero Paese se arrivasse un forte segnale di sintonia tra la conservazione del patrimonio archeologico e il patrimonio musicale italiano, magari evitando di inaugurare proprio lo scempio agli scavi di Pompei.

Trivelle e cemento a Pompei Questa non è «valorizzazione»

Tomaso Montanari

Cosa possono aggiungere le parole all'immagine pubblicata qui sopra e a quelle della pagina interna? Verrebbe da dire che nessun ragionamento può rendere più chiara la situazione, più tangibile la devastazione, più terribile la barbarie. Come sempre, invece, le immagini sono ambigue: e anche le più evidenti hanno bisogno di essere tradotte. Prendiamo le fotografie del martello pneumatico in azione, per esempio quello brandito dall'operaio col casco azzurro, che fa le tracce per i tubi squarciando la colata di cemento appena gettata tra il muro e la colonna antichi. Quello non è un martello pneumatico, ma una trivella petrolifera. E’ la trivella che cerca il «petrolio d'Italia»: quei giacimenti culturali che da quasi trent'anni vengono magnificati (a sinistra quanto a destra) come la grande risorsa che il nostro Paese dovrebbe imparare finalmente a «sfruttare».

Abbiamo cessato di parlare di «opere d'arte» o di «belle arti», per celebrare invece i «beni culturali», il «patrimonio», la «valorizzazione»: e tutto questo ha finito con lo spostare insensibilmente, ma fatalmente, il discorso dalla dimensione culturale, gratuita, a quella economica. Sotto il ministero di Sandro Bondi la retorica della valorizzazione ha raggiunto il suo apice: se da una parte si sottrae al bilancio del ministero dei Beni culturali l'enorme cifra di un miliardo e trecento milioni di euro, dall'altra si istituisce la nuova Direzione generale per la valorizzazione, e la si affida all'amministratore delegato di McDonald's Italia. Il disegno è chiarissimo: lo Stato non vuole più investire sul «patrimonio artistico», ma vuole invece metterlo a reddito. Come? Per esempio sostituendo i soprintendenti archeologi o storici dell'arte con commissari che provengono dalla Protezione civile, e che sono abituati a gestire i grandi eventi con il disinvolto efficientismo ormai noto alle cronache.

Se il fine è fare soldi, e farli in fretta, le cautele, le competenze e il senso storico degli studiosi non sono che un intralcio. I politici «del fare» non possono perdere tempo a guardare, a leggere o a pensare. E questa non è forse la mentalità che conduce alla rovina l'ambiente naturale e culturale di un Paese al cui orizzonte c'è sempre un condono che, proprio come la confessione, lava via tutte le colpe? Dunque, ciò che succede al Teatro di Pompei non è un incidente, o un caso: è l'esemplare applicazione della dottrina del petrolio d'Italia. E quel martello pneumatico è una delle mille trivelle che stanno devastando il nostro tessuto culturale. La marea nera che sgorgherà da quei pozzi non rischia di cancellare solo il Teatro di Pompei e gli altri mille monumenti violati, ma minaccia di sommergere la nostra stessa identità. Stiamo sacrificando Pompei sull'altare del marketing di Pompei. Le prossime generazioni potranno perdonarci?

Ora la scure per il taglio dei contributi statali agli enti culturali è nelle mani del ministro Bondi. Se seguirà i criteri clientelari utilizzati per i pingui fondi Arcus (molto ai “fedeli”, del clan Ghedini ad esempio, nulla ai meritevoli), saremo alla “bassa macelleria culturale”. Targata MiBAC. Il suo “pupillo” Sgarbi deve insediarsi a Venezia, al Polo Museale, ma è sospeso per 10 giorni per la condanna definitiva a 6 mesi e 10 giorni di reclusione del ‘96, “per produzione di documenti falsi e assenteismo” ai danni dello Stato. E poi? Alla faccia dei tagli, avrà un robusto contratto “esterno”, da dirigente di prima fascia pari a direttore generale, firmato Bondi da lui definito un incrocio fra don Abbondio e Massimo Boldi. Morta la commedia dell’arte? Per niente. Sopravvive nel cuore dello Stato. Coi nostri soldi.

C’è un altro ministro ormai “storico”: Maria Stella Gelmini. E’ riuscita a ridurre o eliminare le rare ore di Storia dell’arte elemento, si sa, trascurabile in Italia (ignoranti che fate la fila per Caravaggio: era un pittore francese, borgognone, Le Caravage…). Via pure negli Istituti Professionali destinati a formare le nuove guide per il turismo culturale. Le quali così faranno la figura di quelle abusive che presentano il Colosseo “opera di Giulio Cesare”. Via anche lo studio del diritto per i geometri. Così potranno dire di non sapere nulla di vincoli e di altre bubbole sul paesaggio. E la musica, la sua storia? Inessenziali, zero via zero. E pensare che Radio3 Rai ha aumentato del 60% gli ascolti da quando è di nuovo, con Marino Sinibaldi, rete culturale, e che Rai3 ha segnato uno splendido 15,5 % di share con Barenboim/Chopin da Fazio. La domanda culturale c’è, da fame autentica. Ma a cosa ridurranno l’offerta?

La lista nera di un banditore

Arianna Di Genova – il manifesto

Dopo aver finto di essere caduto dalle nuvole e aver recitato la parte dell'offeso con il suo stesso governo («mi hanno esautorato», si lamentava di fronte alla imponente lista di tagli che di fatto censurava ogni manifestazione culturale in Italia) ora il ministro Bondi gongola e ha ritrovato il sorriso. Di più, si lancia in sperticati elogi: «Ringrazio il presidente del consiglio Silvio Berlusconi, il ministro Tremonti e il dottor Gianni Letta per la sensibilità che hanno dimostrato», stralciando la black list di fondazioni e istituti.

Ha anche assicurato i suoi di non sentirsi per nulla arrabbiato e di essere pronto a mettersi «al lavoro come sempre, con l'assoluta convinzione della necessità e giustezza della manovra, coinvolgendo tutti i colleghi ministri, presidenti dei gruppi parlamentari e l'intero mondo della cultura su come e in che modo ridurre le spese inutili, salvaguardando le eccellenze...».

Questo il suo editto pauroso. Perché non è poi così vero che i tagli agli istituti di cultura e al pensiero libero tout court siano stati scongiurati o ridotti di importanza: la discrezionalità politica e ideologica non è preferibile al calderone caotico della lista. Il ministro, infatti, deciderà quali rami recidere, in base a motivazioni imperscrutabili e certamente non tarate su ragioni economiche. Bondi potrebbe disporre che i fondi non debbano più andare alla Casa Buonarroti perché magari ama più Raffaello che Michelangelo; oppure, che Galileo sia ormai desueto con quell'ossessione della terra rotonda che gira intorno al sole o ancora che la Magna Grecia sia da cancellare perché le generazioni future si «istruiranno» con l'iPad e non spolverando antichi reperti di civiltà sepolte.

In un teatrino politico alla ricerca del consenso acritico (le parole di Mariastella Gelmini sulla manovra sono illuminanti al riguardo: «le promesse di Berlusconi sono state tutte confermate. Tutela dei ceti deboli, senza tagli alle pensioni, alla sanità, alla scuola, ai centri di ricerca e al fondo per l'università...»), un paese colto, costituito di individui consapevoli e formati non è augurabile, è anzi fattore urticante. Assoggettare è una ricetta migliore. Così come l'editoria costretta a rimettere i suoi diritti nelle mani del governo di turno. E va ribadito che non è un'umiliazione per la cultura ricevere contributi e sostegni pubblici perché il suo campo magnetico non è esattamente il mercato, ma la ricerca, la libertà degli studi, la passione intellettuale. E un welfare serio non si sognerebbe mai di abbrutire un paese lasciandolo al palo, deprivato del futuro e a corto di cervelli (dopo averli istigati alla fuga). Per non toccare poi il tasto dell'occupazione in questo settore e dei livelli agghiaccianti di depauperamento e depressione raggiunti già oggi, con il progressivo dimagrimento (fino in alcuni casi alla sparizione) dei finanziamenti.

Non siamo di fronte a una manovra economica, ma a una farsa politica in cui l'arma di Tremonti è un silenziatore delle coscienze. Basta mettere in fila i termini del «confronto con la crisi»: editoria, scuola, ricerca, università, cultura. E come mai nelle voci «contabili» sono sparite le spese militari?

Un attacco alla storia e al patrimonio d’Italia

Il Tirreno

La scure del taglio dei contributi a enti culturali colpisce indirettamente anche Grosseto, almeno in un caso, che ci riguarda. Nella lista dei 232 c’è l’Istituto nazionale per la storia del Movimento di Liberazione in Italia, cui l’Isgrec è associato e di cui da anni la direttrice è membro del consiglio di amministrazione. Oggi è annunciato lo stralcio di questo capitolo della finanziaria, per intervento del Presidente della Repubblica. Rimane la consapevolezza che la cultura può continuare a essere il luogo verso cui far convergere i primi tagli della spesa pubblica. Ricerca scientifica, università, scuola sono oggetto non di investimento sul futuro, ma di riduzione di un impegno statale, che la comparazione con l’Europa rivela tra i più bassi.

Abbiamo letto, nella lista: Domus Galileiana, Accademia Chigiana, Gabinetto Vieusseux... Una volta cancellata la regolare tabella in cui sono iscritti gli enti di rilievo nazionale sostenuti dal Ministero dei beni culturali, il 30% dei risparmi sarebbe stato distribuito a chi Premier e membri del Governo scegliessero di sostenere, a loro arbitrio. Non vi leggiamo, come qualcuno ha sostenuto, un sovrappiù di libertà, in quanto rinuncia della politica al controllo sulla cultura, inevitabile se la finanzia. È l’opposto: cancellazione di regole e cultura sotto tutela. Ma anche il segno di un processo di desertificazione della cultura, che asseconda - o produce? o è prodotto da? - un dilagare di modelli veicolati da un brutto mercato. L’Insmli, di cui siamo parte, conserva e gestisce un pezzo non piccolo di patrimonio dello Stato: archivi storici consegnati nel 1949 al suo fondatore, Ferruccio Parri. Analogamente, l’Isgrec nel suo territorio rende fruibili fondi archivistici di interesse collettivo. Quanto vale il patrimonio pubblico in beni culturali per chi ha pensato questi tagli? Non più del Comitato per la celebrazione del quarto centenario dalla morte di Alberico Gentili, che cadeva nel 2008! Non sappiamo prevedere, ora, il seguito di questa storia; niente ci autorizza ad essere ottimisti.

Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea

Su questa vicenda, l’opinione su eddyburg: Il colore della cultura

Nuova attenzione per il Colosseo assediato dal traffico e afflitto da problemi di manutenzione è stata manifestata in questi giorni da autorità governative e cittadine. Questo lascia ben sperare nella disponibilità di maggiori finanziamenti e nell’attuazione di nuovi interventi. Se ne avverte infatti la necessità per garantire la conservazione del monumento e per assicurargli la possibilità di sostenere il crescente afflusso di visitatori e di raggiungere le condizioni di decoro che esso merita. Sono compiti non facili se si considerano la mole, la vetustà, le menomazioni inferte all’anfiteatro nel corso dei secoli da parte di eventi naturali e dall’uomo. Il compito più delicato consiste però nel porre attenzione a quanto vi è ancora da studiare riguardo ai caratteri strutturali, funzionali ed alle trasformazioni subite dall´edificio nel tempo.

Allo studio, alla manutenzione ed all’agibilità del Colosseo si è provveduto per molto tempo quasi esclusivamente con una liberalità della Banca di Roma, ora UniCredit Banca di Roma, la quale con una convenzione stipulata nel 1994 assegnò alla Soprintendenza 40 miliardi di lire per attività riguardanti il Colosseo. Quell´importo, rivalutato, corrisponde oggi a circa 30 milioni di euro. Per circa dieci anni tale disponibilità ha consentito di tenere aperto il Colosseo, garantendone tra l’altro il funzionamento quotidiano, i lavori necessari per la sua completa apertura, l´adeguamento alle norme di sicurezza, la videosorveglianza interna, le biglietterie automatizzate, gli ascensori per il pubblico. Si riuscì a ripristinare una porzione del piano ligneo dell’arena, individuando e seguendo l’antico schema costruttivo, per rendere praticabile lo spazio su cui si eseguivano i combattimenti gladiatorii e le altre rappresentazioni anfiteatrali. Un lavoro assai rilevante, di carattere sperimentale, fu eseguito poi sulla facciata del Colosseo, nella parte prospiciente la via dei Fori Imperiali, per l’ampiezza di tre fornici e per l´intera altezza dell’edificio, al fine di individuare i criteri più efficaci e meno aggressivi per la ripulitura delle superfici dalle incrostazioni accumulatesi nel tempo e in parte dovute all’inquinamento atmosferico. L’intervento aveva anche la finalità di ottenere una stima reale dei costi per la ripulitura di tutto il monumento. Queste attività furono studiate con grande perizia scientifica e poi dirette da architetti, archeologi e restauratori della Soprintendenza con la partecipazione di numerosi tecnici esterni. A tutti si deve anche lo svolgimento di ricerche e la predisposizione di progetti per interventi da eseguirsi successivamente, come le cancellate esterne del monumento. Di queste sono stati realizzati prototipi in ferro battuto sulla base delle tracce e degli incassi lasciati nei travertini dai cancelli antichi per riproporne la forma e per determinarne i costi.

Il programma degli interventi finanziati dalla Banca di Roma prevedeva tra l’altro indagini su aspetti statici, architettonici nonché di ordine storico e archeologico la cui conduzione fu affidata ad una commissione costituita da rappresentanti delle Facoltà di Ingegneria, Architettura e Lettere delle tre università di Roma, che per anni hanno dedicato la loro attenzione allo studio del Colosseo. A tal fine furono eseguiti sondaggi intesi a verificare la situazione idrogeologica, il rischio sismico con numerose altre ricerche che consentirono di acquisire un’ingente mole di informazioni e di formulare indicazioni sugli interventi necessari per la conservazione del monumento. Indagini furono svolte anche con la collaborazione di istituzioni scientifiche, quali l’Istituto Archeologico Germanico, a cui si deve la ricostruzione del sistema di elevazione degli animali feroci dai sotterranei al piano dell´arena mediante ascensori e botole che si aprivano sul pavimento ligneo.

La convenzione con l’UniCredit Banca di Roma è ancora attiva: l’erogazione delle somme ha infatti proceduto secondo i tempi necessari allo svolgimento di indagini minuziose, alla realizzazione di interventi conservativi molto complessi, all’esecuzione di lavori sperimentali, agli studi per la ricostruzione del piano dell’arena, alla progettazione per il delicato inserimento di impianti e strutture di servizio, come gli ascensori per il pubblico, senza offesa per l’integrità fisica del monumento e per i suoi caratteri formali. I risultati sono ben evidenti, a cominciare dai travertini della facciata ripuliti dalle incrostazioni nere dell´inquinamento senza cancellare patine e variazioni cromatiche dovute all’azione del tempo ed alla storia del monumento. Il criterio adottato dovrebbe costituire un modello alternativo alla pratica della drastica rasura a cui sono periodicamente sottoposti i travertini delle chiese romane per finalità del tutto estranee alla loro conservazione. La perdurante disponibilità dei fondi concessi dall’UniCredit Banca di Roma a puro titolo di liberalità, di cui restano ancora da impegnare almeno tre milioni e mezzo di euro, rende anche evidente l’attenzione con cui sono stati impiegati i finanziamenti. Su nessun monumento antico è possibile eseguire lavori ingenti in tempi brevi senza fare più danno che bene.

Il teatro della gens Flavia è un colosso malato, il tempo, l’inquinamento, l’assurdo traffico che lo circonda come un micro-terremoto continuo e costante, lo hanno reso fragile, a rischio. Per salvarlo è pronto un piano da 23 milioni di euro, soldi italiani e anche giapponesi sembra, per provare a togliere il colore del buio dalle pietre bianche, a 18 anni dal primo grande tentativo di restauro, finanziato nel 1992 dalla Banca di Roma.

Quattro giorni fa, proprio accanto ai resti di una bellissima statua equestre di recente ritrovata ed esposta, il distacco di cinquanta centimetri di malta romana ha fatto tornare alto l´allarme sulle condizioni del Colosseo, la paura che qualcosa di peggio possa accadere nel monumento più visitato del mondo. Ma l’intero cuore monumentale della città eterna è a rischio, divorato dallo smog e dalle polveri corrosive, da quell’effetto "antropico" che vuol dire passaggio, mano e calore dell’uomo. Sono a rischio la Domus Aurea e le Mura Aureliane, il Palatino e i Fori, ma anche, ricorda Giuseppe Proietti, soprintendente ai Beni Archeologici di Roma, «gli antichi acquedotti romani, chilometri e chilometri di resti da mettere in sicurezza, quei ruderi che ci sembrano belli e suggestivi, ma in realtà versano in condizioni drammatiche, e in alcuni punti minacciano ferrovie e abitazioni». Una scacchiera difficile dove i monumenti sono gestiti dallo Stato e le "aree" che li circondano dal Comune di Roma, dal Campidoglio, con una mai risolta querelle di responsabilità che di fatto ha lasciato che il traffico continuasse ad assediare capolavori delicatissimi, patrimonio dell’umanità.

Bisogna allora salire sul secondo corridoio del Colosseo per ritrovare la luce, ma lo sguardo subito viene ferito da gigantesche reti metalliche color ruggine che proteggono l’anello esterno, mentre le teche di una bella mostra sui gladiatori sono così sporche che si fa fatica a vedere l’interessante ricostruzione di abiti ed armi che racchiudono. Ancora più scarno è il bookshop, pochi libri, pochi titoli, anche i gadget sembrano poveri, e nonostante tutto la gente di mette in fila, compra, spende. Ma è da qui, dal corridoio più alto finora visitabile, che si vedono i restauri in corso finanziati dalla soprintendenza, e che porteranno alla fine dell’estate all’apertura del terzo anello, e di una parte dei sotterranei.

E infatti basta seguire gli sguardi dei visitatori per capire che sono i corridoi e i sotterranei dell’antica cavea a catturare l’attenzione, là dove si svolgevano le lotte dei gladiatori, e gli animali sbucavano nell’arena larga 3.357 metri quadrati da botole interrate, attraverso un ardito e complesso sistema di ascensori. Un circo inaugurato nell’80 d. C. dall’imperatore Tito, con ottanta giorni di feste e giochi venatori e i cui effetti speciali sono stati restituiti soltanto forse da Ridley Scott, con la descrizione delle venationes, vere e proprie danze di morte tra uomini e animali, vietate poi, nell’era cristiana, dall’imperatore Teodorico.

Ma il Colosseo, grande vecchio dell’arte mondiale, ha bisogno di attenzioni e di cure permanenti. Già oggi la manutenzione ordinaria costa circa 700mila euro l’anno, ma sono questi fondi, spiega Adriano La Regina, a lungo soprintendente ai Beni Archeologici di Roma, «che dovrebbero essere raddoppiati e mantenuti costanti». «Il Colosseo - dice La Regina - soffre dei suoi quasi duemila anni di Storia, ha bisogno di un monitoraggio incessante, molte volte ci siamo trovati di fronte ad episodi gravi che ci hanno costretto a chiudere intere parti del monumento. Ricordo un episodio davvero drammatico, quando nella parte che si affaccia su Colle Oppio sembrava che stessero crollando alcuni pilastri... Fummo costretti a chiudere, consolidare. Certo, oltre alla vecchiaia, ci sono i mali di sempre che affliggono il Colosseo, lo smog che corrode i travertini e deturpa l’ambiente tutto intorno, e che per decenni ha fatto sì che il Colosseo, oltre ad essere il simbolo di Roma, fosse anche uno gigantesco spartitraffico...».

Adesso, sembra, l’area intorno all’anfiteatro Flavio dovrebbe finalmente diventare una sorta di archeo-isola, anche se non ancora quel giardino archeologico immaginato e sognato da ambientalisti come Antonio Cederna. «Uno degli interventi più urgenti per il Colosseo - aggiunge Adriano La Regina - è la ripulitura. Un’opera già iniziata con i restauri degli anni Novanta e di cui sono visibili alcuni spicchi più chiari degli altri. L’altro intervento fondamentale, per l’estetica del monumento, sarebbe la sostituzione delle cancellate. Allora fu necessario costruirle in quel modo, ma oggi non sono più accettabili. Ma forse, prima di tutto, se davvero si riuscisse a creare un’isola pedonale attorno a tutta l’area monumentale centrale, sarebbe un risultato straordinario».

Certo è difficile pensare ad una "zona franca" con il volume di auto che assedia Roma. E che violenta con il rumore anche i visitatori del Colosseo, almeno nei corridoi esterni. All’interno invece è come se il frastuono venisse assorbito, i simboli e i fantasmi del passato sono forti e potenti, gli spettacoli, le belve, ma anche la via crucis, le croci di ferro, la Roma cristiana, e poi l’abbandono, l’anfiteatro che viene saccheggiato, il primo terremoto che nel 1349 ne mina le fondamenta, papa Sisto V che nel 1550 trasforma il Colosseo in una filanda. Le prime campagne di scavo che nell’Ottocento svelano la presenza degli ipogei. I visitatori passeggiano, con le audioguide nelle orecchie, sono migliaia in queste primavera tardiva che spesso promette pioggia, i ragazzi delle scuole si fanno le foto con il telefonino, i portatori di handicap possono salire con i loro ausili fino al secondo anello e da qui vedere le rovine. Tra le cui pietre cresce una vegetazione antica, dove i botanici trovano ancora tracce di piante esotiche, altrove scomparse. Un altro segreto, tra i tanti, del Colosseo.

Il crollo di una volta traianea della Domus Aurea, nel centro di Roma e a pochi metri dal Colosseo, appare sempre più come una sorta di maledizione del suo ideatore e primo inquilino, l’imperatore Nerone. Ma da quando un pezzo della Roma antica si è sbriciolata (e i cosiddetti esperti parlano di almeno altri centocinquanta ambienti archeologici della struttura che non sono stati impermeabilizzati e che potrebbero cadere da un giorno all’altro), è trascorsa solo questa manciata di giorni di aprile. Al capezzale della Domus Aurea sono subito accorsi il commissario straordinario Luciano Marchetti, quello per l’intera area archeologica romana Roberto Cecchi, il sovrintendente dei Beni culturali di Roma Umberto Broccoli e persino Francesco Giro, unico sottosegretario di Sandro Bondi al Mibac e grande appassionato del passato remoto della Capitale.

Tutti allarmati, un po’ fatalisti e determinati (a parole) a trovare rimedi al più presto. “Mah, qui staremo chiusi almeno quattro-cinque anni”, allarga le braccia uno dei custodi della Domus Aurea. Abbiamo allora il tempo per attraversare il cuore di Roma. E scoprire che, probabilmente, sessanta mesi neanche saranno sufficienti. Colpa dei sovrintendenti, in teoria messi tutti insieme appassionatamente da alcuni accordi tra il sindaco di Roma e il ministro dei Beni culturali che finora hanno prodotto solo l’illuminazione dei Fori imperiali per il Natale di Roma 2009 e qualche altro piccolo evento prontamente e frettolosamente concluso? No, c’è dell’altro.

Il freno a mano tirato per i grandi resti archeologici di una Capitale che non ha trovato nel bilancio del proprio comune neanche i soldi per tappare le buche nelle strade del centro storico, si chiama – banalmente – “scoordinamento”. Gli studiosi (e i burocrati ) del comune di Roma non sanno che cosa fanno i loro colleghi del ministero. Tanto che quando lo scorso 7 aprile il sindaco Alemanno annuncia nuovi interventi dell’architetto Richard Meier sulla propria Teca dell’Ara Pacis, scoppia una lite furibonda tra comune di Roma (sovrintendente, Umberto Broccoli) e ministero dei Beni culturali (soprintendente ai Beni architettonici, Federica Galloni). Lei accusa lui, davanti a telecamere e cronisti, di non essere stata invitata, se non all’ultimo minuto, all’iniziativa del Campidoglio. Il sottosegretario Francesco Giro non si ritrova neanche il cartellino sul tavolo dei relatori, i burocrati dei due schieramenti si salutano a denti stretti.

Questione di galateo istituzionale non rispettato? Macché. Il più recente crollo nella Domus Aurea – riaperta nel 1999 da Walter Veltroni, allora ministro dei Beni culturali, e Francesco Rutelli, all’epoca sindaco di Roma, sbarrata nuovamente nel 2005 a causa di gravi infiltrazioni d’acqua, quindi riaperta nel gennaio 2006, di nuovo chiusa per precauzione nel dicembre 2008 e infine restituita in parte al pubblico – va attribuito anche al fatto che comune di Roma e Mibac non si parlano. Non è, però, solo un problema di funzionari che non funzionano. La cosiddetta competenza della Domus Aurea è del ministero.

Ma quella dei giardini che la circondano e dell’intero Colle Oppio è del comune. Se allora il Campidoglio decide di proteggere, ad esempio, alcune aree della Domus di Nerone ma non informa dettagliatamente il ministero, ecco che scoppiano non solo tubature o sacche d’acqua, ma anche tante, italianissime, polemiche. Per capire meglio questo meccanismo perverso e grottesco basta spostarsi di qualche centinaio di metri e raggiungere, a pochi metri dalla Bocca della Verità, l’Arco di Giano e, quasi di fronte, il tempio di Ercole vincitore. Sono gioielli architettonici straordinari: ma non si possono visitare. Perché – anche qui – le strutture sono dello Stato e i giardini che le circondano sono di competenza comunale. Perché lì sotto corrono le alimentazioni di acqua e corrente elettrica. Risultato: alte cancellate ne nascondono la vista. E i turisti (almeno quelli più appassionati) si appoggiano alle grate come detenuti in attesa dell’ora d’aria. Oppure rinunciano, guadagnando a piedi quel Colosseo dove lo spettacolo più frequente è quello di un gruppo di figuranti-centurioni sempre in litigio tra loro per guadagnarsi (letteralmente) la foto con il turista più sprovveduto.

“Forse non c’è più modo d’illudersi su di una seria opportunità di vedere pianificata e programmata una politica di salvaguardia monumentale a Roma. Questo ultimo crollo, in qualche modo annunciato può infatti non essere incidentale. Si sapeva delle intense piogge, dei cedimenti parziali, di una sostanziale povertà strutturale e delle condizioni geologiche del complesso che circonda l’antica Velia”, ragiona Michele Campisi, architetto e studioso, esperto di Italia Nostra. E ancora: “Forse una legge regionale a riordino dei molteplici ambiti che per virtuali opportunità si sono oggi prodotti potrà almeno consentire la necessaria riflessione sul tema”. Come dire: così non si può proprio andare avanti.

Altri esempi? Eccoli. La Villa Adriana di Tivoli, a ridosso della quale d’estate si organizzano alcuni concerti e qualche happening teatrale, ha mosaici e pavimenti che rischiano ogni giorno di scomparire un po’. Incuria, il famoso conflitto di competenza tra governo e istituzioni locali, alcuni episodi di turismo selvaggio la stanno distruggendo.

E allora? In attesa che il dialogo tra sordi venga riaperto – magari con stanziamenti di fondi che non si fermino agli annunci in pompa magna – occorrerà accontentarsi del cartello esposto tranquillamente alle Terme di Traiano, proprio sopra la Domus Aurea. C’è una mappa e persino una legenda. La quale indica al punto 6, “Crolli strutture pertinenti al settore occidentale delle Terme”. Insomma, a quei disastri non si è posto rimedio e allora tanto vale segnalare i crolli nelle cartine ufficiali. Diventeranno anche loro reperti archeologici?

Allarme per la Domus Aurea crolla la volta di una galleria

Carlo Alberto Bucci, Massimo Lugli – 31 marzo 2010

ROMA - Un rumore sordo, un boato che ha squassato i giardini di Colle Oppio. E una valanga di terra è venuta giù di schianto nella galleria numero 15 del complesso della Domus Aurea, la principesca dimora voluta da Nerone e sovrastata dalle Terme della damnatio memoriae dell' imperatore incendiario voluta da Traiano. Tragedia sfiorata alle 9,29 di ieri mattina, perché il giardino degli anni Venti piantato sopra i resti antichi è aperto al pubblico e frequentato da una folla eterogenea che va dai clochard alle mamme con i bambini. Non basta: la galleria crollata (fa notare l' Associazione nazionale archeologi) era adibita a deposito di marmi antichi schedati dagli esperti e a laboratorio per gli studenti della Sapienza. Un episodio inquietante, spia del fragile stato di salute di molti gioielli architettonici di Roma: dalla domus tiberiana sul Palatino, agli acquedotti Claudio e Felice, alle Mura Aureliane, che ieri hanno registrato un ennesimo distacco di mattoni all' altezza dell' Arco di via Nola.

L' allarme è lanciato dal Fondo ambiente italiano: «Il crollo alla Domus Aurea sottolinea il gravissimo problema di mancanza di risorse e di personale» dichiara la presidente Ilaria Borletti. «In Italia - ricorda - la cifra destinata dallo Stato ai Beni Culturali corrisponde appena allo 0.28% del bilancio statale». Per il restauro della galleria crollata, elemento delle fondamenta addossate dagli architetti di Traiano a ciò che restava della dimora di Nerone, si parla di una spesa di 800mila euro. Non si sa da quale fondo verranno prelevati. Forse dai due milioni messi da parte per la salvaguardia del primo lotto della "Casa dorata" vera e propria, quella con la sala ottagona e le altre principesche sale le cui volte sono imbevute dell' acqua piovana che i giardinetti non drenano.

Lavori urgentissimi, tanto che nel 2006, un anno dopo la chiusura al pubblico per pericolo crolli, fu nominato un commissario straordinario, Luciano Marchetti. «C' è pericolo di altri crolli, anche immediati. E per mettere tutto in sicurezza ci servono circa 10 milioni - spiega l' ingegnere - ma sei lavori non sono ancora partiti dipende anche dal fatto che il Comune non ci ha ancora consegnato le aree sovrastanti». Al Campidoglio spetta la cura dei giardini, allo Stato quella della Domus che sta di sotto. E su quel limite di terra inzuppata d' acqua va avanti da anni il palleggio delle responsabilità sullo stato di incuria di questa meraviglia dell' arte romana. Quello di ieri mattina è il più grave smottamento, negli ultimi cinquant' anni, all' interno del complesso, un sito archeologico ad altissimo rischio. «Il problema è la natura stessa del terreno, che, anno dopo anno, si impregna d' acqua con le piogge e aumenta la pressione sulle volte - spiega l' architetto della Soprintendenza Antonello Vodret, responsabile del monumento - anche le radici degli alberi possono avere un ruolo nel rendere le gallerie più instabili». Le volte della galleria crollata sono pavimentate a mattoni e, spesso, ricoperte d' intonaco ma non sono abbellite - come quelle di Nerone - da alcun fregio, decorazione o mosaico.

L' altezza da terra è di circa 11 metri. La galleria numero 15 si inoltra per circa 100 metri quadrati di cui una sessantina sono stati interessati dal crollo. «Lo squarcio nel fianco del complesso - rivela Vodret - sta immettendo nel cuore della Domus un vento caldo che altera il microclima e mette a repentaglio la già precaria salute degli affreschi». I vigili del fuoco hanno messo in sicurezza l' area e sbarrato l' accesso ai giardini soprastanti, molto frequentati anche dai turisti che fanno una pausa sulle panchine dopo la visita al Colosseo. «Collaboreremo con la massima sollecitudine» ha assicurato il sindaco Gianni Alemanno durante un sopralluogo: «Più risorse arriveranno, anche dagli sponsor, e più l' intervento sarà ampio». Sul posto è arrivato ieri anche il ministro per i Beni Culturali, Sandro Bondi: «Sono preoccupato: abbiamo fondi ragguardevoli e questo episodio può indicare al governo che ci vuole un piano straordinario per salvaguardare il patrimonio storico del Paese - ha spiegato Bondi - soprattutto quello di Roma».

Domus Aurea, restauri in ritardo

Carlo Alberto Bucci – 31 marzo 2010

Al capezzale della Domus Aurea la ridda di dichiarazioni sui rimedi per questo grande malato dell' archeologia, ha cercato di attutire per tutto il giorno il tonfo che alle 9.29 di ieri ha mandato in polvere la volta di una delle gallerie traianee, seppellendo il sottostante deposito di antichità. Promesse di soldi, di interventi, di celerità nei lavori. Ma la questione centrale dei ritardi negli interventi di messa in sicurezza di ciò che resta della dimora di Nerone, e dei muri eretti da Traiano per farne la piattaforma delle sovrastanti Terme, rimane il palleggio delle competenze tra Stato e Campidoglio: il primo proprietario e responsabile dei resti; il secondo dei giardini messi come cappello sulla Domus durante il Ventennio. Da luglio scorso è pronto il progetto esecutivo per intervenire scoperchiando quei tre metri di terra che ricoprono ovunque i resti della dimora neroniana propriamente detta, chiusa al pubblico da quando nel dicembre del 2005 ci furono piccoli distacchi di intonaco dalle volte affrescate e imbevute ormai d' acqua piovana.

Ma il cantiere è ancora fermo. «I lavori non sono ancora partiti - ha dichiarato Luciano Marchetti, nel 2006 nominato dalla presidenza del Consiglio commissario straordinario per il monumento - a causa di qualche problema burocratico ma anche dal fatto che il Comune non ha ancora consegnato le aree sovrastanti, indispensabili al cantiere, poiché sulla Domus si deve intervenire dall' alto». Il progetto da mandare in gara prevedeva gli studi sulla salute dei muri, sul microclima ma soprattutto sulla ricca vegetazione che con le radici degli alberi minaccia le antiche vestigia. Ed ebbe il parere favorevole nel 2008 della giunta Veltroni. Il progetto esecutivo, prodotto dall' impresa vincitrice dell' appalto integrato, aspetta ancora l' ok del Campidoglio. Da ieri sera però, oltre alle transenne per tenere lontani i passanti dalla voragine - e dal pericolo «di nuovi crolli che potrebbero seguire anche nell' immediato», secondo l' opinione del commissario Marchetti e del neo soprintendente Giuseppe Proietti -, il Comune ha consegnato l' area, almeno quella del crollo. E i primi lavori possono partire.

In attesa che ci si decida a chiudere tutti i giardini al pubblico e a fare "lo scalpo" alla Domus. Sul colle Oppio ieri sono saliti il sindaco Alemanno, che ha promesso la ricerca «di uno sponsor»; l' assessore Croppi, che ha parlato del «bisogno di un monitoraggio costante»; il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi, che ha rievocato i «32 milioni stanziati per intervenire»; il sottosegretario Francesco Giro, portatore di «due milioni subito, la stessa cifra prevista per il primo lotto di restauri»; più economico invece il sovrintendente comunale Umberto Broccoli, che ha parlato di «circa 800mila euro per il restauro». L' archeologo del Campidoglio riconduce alla vetustà dei resti la causa del crollo: «Né allarme né gravità, sono monumenti di 1900 anni fa. Non è la Domus Aurea ma una galleria delle Terme di Traiano». Annuncia fondi straordinari «per l' indispensabile manutenzione», da parte di tutte le istituzioni. E l' impermeabilizzazione dei resti? «Non si può impermeabilizzare tutto il terreno di Colle Oppio - ha detto Broccoli - perché l' isolamento totale creerebbe nuovi problemi»

Da Villa Adriana a Pompei tutti i capolavori a rischio

Carlo Alberto Bucci - 1° aprile 2010

I trecento metri quadrati di terra zuppa d´acqua che martedì mattina hanno schiantato la volta della galleria traianea della Domus Aurea non sono l´unico peso insostenibile sulla schiena spezzata del patrimonio italiano. Una mappa dell´archeologia a rischio crolli evidenzia una situazione grave nella Roma dei palazzi imperiali e degli acquedotti, sull´Appia antica come a villa Adriana, a Pompei, a villa Jovine a Capri, a piazza Armerina in Sicilia, fino in Puglia.

«Quello che è successo ieri alle Terme di Traiano temo che possa succedere anche a Villa Adriana a Tivoli. Lì il pericolo è ancora maggiore» ha detto ieri il presidente del consiglio superiore dei Beni culturali Andrea Carandini presentando la mostra "Villa Adriana. Una storia mai finita". Più cauta la padrona di casa, la soprintendente del Lazio Marina Sapelli Ragni: «Rischi immediati di infiltrazioni non ce ne sono, però è vero che abbiamo muri alti anche 20 metri e che dobbiamo tenere sotto controllo la vegetazione rigogliosa. Attenzione e preoccupazione sono costanti». I fondi per la manutenzione ordinaria dei 30 edifici e degli 80 ettari sono una bazzecola: 900mila euro l´anno mentre prima del Giubileo del 2000 in quattro anni ebbero 44 miliardi di lire.

Il commissario per l´archeologia di Roma, Roberto Cecchi, ha lanciato il piano di "manutenzione programmata" che prevede interventi minimi e costanti, controllo capillare per evitare che si arrivi al restauro. E il commissario della Domus Aurea Luciano Marchetti ha scoperto ieri che i pozzetti di scolo dei giardini sopra la zona del crollo non erano stati mai svuotati: ma il verde di Colle Oppio spetta al Comune.

Racconta Beatrice Basile, che guida la Soprintendenza di Enna: «Alla villa romana del Casale a Piazza Armerina il degrado è stato fortissimo per anni e anni. Sarebbe bastato curare meglio i resti per evitare di spendere tanto nel restauro. Per la manutenzione di tutto l´Ennese avevamo 150mila euro l´anno. Fino al 2009. Ora? Nulla». Stessa cifra, «zero euro», avuta da Rita Cosentino, direttrice delle 1000 tombe etrusche di Cerveteri (40 le visitabili): «Le piogge hanno messo a rischio i tumuli in tufo. Abbiamo tenuto pulito il sito, ma grazie a dipendenti e volontari. Meno male che ora arrivano 250 mila euro di Arcus».

Già, Arcus. La società interministeriale è stata più munifica con le terme patavine di Montegrotto: 3,5 milioni negli ultimi anni per un piccolo, certo importante, sito non particolarmente a rischio. Ma lì a scavare c´è l´archeologa Elena Ghedini, sorella dell´avvocato del premier e membro del consiglio superiore Beni culturali. A Canosa gli ipogei ellenistici, come quello de Lagrasta o del Cerbero, hanno bisogno di cure continue. Ma per la manutenzione di tutta la Puglia la Soprintendenza archeologica guidata da Teresa Cinquantaquattro ha meno di 200mila euro. Quanto arriva a Canosa? «Poco o nulla». Ricchissima perché autonoma, ma con una marea di case, affreschi e templi da curare, è la Soprintendenza speciale di Pompei. Ieri il commissario Marcello Fiori ha presentato uno stanziamento di 39 milioni di euro. «Il 90 per cento andranno in restauri» assicura il direttore generale per l´Archeologia, Stefano De Caro. Che sottolinea: «A Ercolano abbiamo fatto scuola per la manutenzione. La programmazione è la nuova frontiera della tutela».

Domus Aurea: un crollo annunciato

Corrado Augias – 2 aprile 2010

Caro Augias, la Bbc, che ha quasi snobbato le vicende elettorali italiane, ha invece dedicato ampio spazio al crollo della Domus Aurea. Questo inestimabile patrimonio storico è stato esaltato in tutta la sua bellezza; seguiva una domanda implicita: come è stato possibile? Non sono un esperto ma scommetto che altri paesi farebbero carte false per avere un decimo della nostra ricchezza artistica.

Marco Lombardi lombardimarco77@libero.it

Caro Augias, che pensa di ciò che sta capitando al patrimonio archeologico? Non mi riferisco solo al crollo della galleria nella Domus Aurea per altro evitabile, ma a tutte le antichità classiche di Roma. L'anfiteatro Flavio, i Fori, le mura Aureliane, gli acquedotti... E il Palatino? Il cryptoportico Neroniano versa in condizioni indecenti. E la casa di Augusto? E quella di Livia?

Alessandro Cerioli Bellagio (CO) silla81@hotmail.it

Il problema segnalato è da un lato politico perché riguarda le iniziative, ma aggiungerei la premura e potrei dire l'ansia, che il ministro e il suo staff vorranno dedicare al patrimonio del Paese tra una riunione di partito e l'altra. Uguale rimprovero, tanto per pareggiare il messaggio, meritò il ministro Fabio Mussi quand'era alla Pubblica istruzione. Poi c'è l'aspetto tecnico e qui aiuta a capire la situazione una lettera del prof Salvatore Settis, archeologo e rettore della Normale di Pisa. Settis ricorda che alcuni anni fa il prof Giorgio Macchi, insigne strutturista, aveva previsto, in un documento presentato al Ministero, il crollo delle volte traianee, perché caricare tonnellate di terra sui resti della Domus, quando continua l'infiltrazione di acque resta la soluzione peggiore.

L'illusione di poter impermeabilizzare sotto metri di terra non può migliorare a lungo lo stato delle volte. Invece, pare che l'impresa abbia cominciato a scavare il giardino proprio a questo fine. Se poi si riverserà sulle volte un sovraccarico di terreno che, con i resti traianei, raggiungerà 7,3 tonnellate al metro quadrato, il risultato sarà un disastro epocale. Settis conclude così: «Macchi aveva invece suggerito, in modo (a mio avviso) molto appropriato, di togliere totalmente il giardino sovrastante e realizzare un accesso dall'alto, mostrando anche quanto trovato del secondo livello in scavi che poi vennero risepolti». Non ho commenti da fare salvo quello di segnalare la competenza del prof Settis a fronte di tante vacue pretese di 'valorizzazione commerciale' del nostro patrimonio.

Napoli, siamo nel bookshop del museo della Certosa di San Martino, gestito in concessione da Electa-Mondadori. La legge prevede che la libreria (concessionaria) debba vendere almeno il 50% di titoli di altri editori; ma qui non è così.

I libri riconducibili alla Mondadori saranno, a occhio, oltre l’80% del materiale in mostra. Alla ricerca di spiegazioni, le sorridenti impiegate del bookshop oppongono un mutismo quasi omertoso. Non sanno niente; fa tutto Mondadori, quando vengono i suoi uomini ad allestire le esposizioni.

Le impiegate non conoscono il nome di alcun responsabile; possono solo darmi il numero di un centralino che, in seguito, non mi risponderà o non saprà dirmi nulla. Ma come vengono gestiti i beni culturali, oggi, in Italia, e chi controlla i concessionari?

Dalla legge Ronchey del ’93, infatti, si è fatto largo un nuovo approccio manageriale alla gestione della cultura che ha previsto, in primis, l’ingresso dei privati nel settore e, anche, l’istituzione di “società pubbliche” che organizzassero il settore con l’efficienza dei privati.

L’ultimo step di questa rivoluzione copernicana è il “federalismo del patrimonio”, grazie al quale gli ex beni pubblici dello Stato vengono gestiti con gli strumenti privatistici della “programmazione negoziata” da privati e Regioni. Ma, alle “rivoluzioni”, possono seguire le restaurazioni.

Secondo l’ultima relazione dell’Antitrust del presidente Antonio Catricalà, il nuovo mercato istituito dal legislatore ha fallito miseramente: c’è una collusione fra privati e società pubbliche che non ha apportato benefici in termini di efficienza, e si delineano le distorsioni tipiche degli oligopoli.

«Otto società concessionarie gestiscono in Italia il 90% dei servizi - sostiene la relazione di Catricalà - una è addirittura presente in 24 musei con ricavi che si avvicinano al 24% del totale».

«Il 30% delle concessioni è riferibile a un unico gruppo imprenditoriale», secondo il Libro Bianco di Confindustria.

Il primo gruppo è proprio l’Electa Mondadori, di Marina Berlusconi; l’altro soggetto dominante è la Pierreci, del gruppo Legacoop. Il mercato, quindi, sarebbe stato spartito con logiche bipartisan. Terzo incomodo è Civita, un’associazione partecipata da privati ed enti pubblici che nel suo stesso organigramma sembra rispondere a logiche di spartizione consensuale. Di Civita, non a caso, fanno parte (a vario titolo e fra i tanti) Province, Casse di risparmio, gruppi come Impregilo, Cremonini, Acea di Caltagirone, Berlusconi, (tramite Mediaset, Medusa e Banca Mediolanum), Telecom, Rcs, gli armatori Paolo e Cesare d’Amico e finanche Anas e Fs; nell’organigramma figurano il sottosegretario Gianni Letta, l’ex ministro del governo Prodi Antonio Maccanico, Albino Ruberti, figlio dell’ex ministro socialista Antonio, e il presidente di Bnl Luigi Abete.

La relazione dell’Antitrust dipinge un caso di privatizzazioni senza liberalizzazioni. Pochi privati che si spartiscono la torta con lo Stato che, invece di fare il regolatore esterno, gioca la partita sotto varie vesti: con spa appositamente create, come nel caso Scabec, la società campana dei beni culturali; partecipando ad associazioni, come Civita; attraverso società municipali, come nel caso Zetema, che gestisce 12 musei capitolini, di proprietà del Comune di Roma e con Albino Ruberti, di Civita, come amministratore delegato.

Tanti giri di valzer, dove imprenditori e amministratori pubblici ballano tutti insieme, cambiando partner a ogni nuovo ballo. Quello che, con linguaggio tecnico, si chiama cross-directorship. Proprio l’Antitrust, infatti, rileva che, in Italia, si creano continuamente situazioni “di monopolio o di ingiustificato vantaggio competitivo a favore di imprese che, grazie alla proprietà pubblica delle stesse potrebbero essere avvantaggiate nell’assegnazione dei servizi aggiuntivi in musei e siti anch’essi di proprietà pubblica”.

La creazione di società miste, infatti, è l’escamotage attraverso il quale si cooptano i privati e si procede ad affidare i servizi senza bandire alcun pubblico incanto, il solo strumento in grado di confrontare offerte e produrre l’abbassamento dei costi. La giustificazione è che un dato Ente appalta a se stesso un certo lavoro pubblico. è proprio il caso, documentato dall’Antitrust, della Scabec, o della Zetema, sulla quale si espresse negativamente il Tar del Lazio, nel 2006, proprio con riferimento ad un ricorso in seguito ad un affidamento diretto. Il caso campano della Scabec, d’altronde, è eloquente e potrebbe spiegarci perché la Regione non controlli l’effettiva organizzazione del bookshop Electa. Regione ed Electa, infatti, non sono regolatore e regolato, ma soci della stessa Scabec dove, oltre al 51% di proprietà della Regione, figurano la stessa Electa e la Pierreci.

Quando Electa e Pierreci non occupano “il mercato” tramite Scabec - allorquando, cioè, lo Stato non appalta direttamente (anche) a se stesso la gara - comunque vincono il bando sotto forma di Ati (associazione temporanea d’imprese): Electa, Pierreci e Civita lavorano insieme nei principali musei campani, come Capodimonte, San Martino, Sant’Elmo e l’Archeologico di Napoli.

Non a caso, due anni fa, il presidente Napolitano inaugurò personalmente il Museo Archeologico dei Campi Flegrei presso il castello di Baia, insieme a Bassolino. Quel museo sarebbe dovuto essere il fiore all’occhiello della gestione Scabec-Regione Campania, a seguito dell’accordo di programma firmato pochi mesi prima da Bassolino e Bondi.

Oggi, a distanza di due anni, verifichiamo personalmente la situazione: cinquanta stanze su cinquantadue sono chiuse, nel castello fa freddo perché non c’è l’allaccio elettrico e non c’è un piano di sicurezza omologato.

Inoltre, non c’è personale sufficiente per tenere aperte anche le terme di Baia. Ma perché lo Stato, dopo aver “liberalizzato” i mercati, esce dalla porta e vi rientra dalla finestra attraverso le spa? Le Spa statali rappresentano un’occasione di spesa che può servire a consolidare il potere del politico di turno, al di fuori dei controlli ai quali sono sottoposti gli organismi di diritto pubblico.

Nelle spa pubbliche si fanno infornate di assunzioni senza concorso, per gli amici degli amici e, qualora il meccanismo delle assunzioni sia esplicitamente bloccato dalla legge costitutiva della società - il meccanismo delle consulenze è assolutamente incontrollabile.

I beni culturali, oggi, versano in una condizione di “fallimento del mercato” e di cronico conflitto d’interessi. A peggiorare la situazione è intervenuta, dal 2008, la nomina del governo a Direttore generale dei musei italiani del Cavalier Mario Resca, ancora attualmente legato, a vario titolo, ad aziende in conflitto d’interesse con la sua carica pubblica, come Eni, McDonald’s, Fiat e, ancora una volta, Mondadori, per la quale è consigliere. E se il mercato non funziona e si determinano delle situazione dominanti, dove forti gruppi vincono tutto, per consolidare questi privilegi c’è sempre il trucco delle “proroghe infinite”. In Italia, ci sono attualmente circa cinquanta proroghe delle concessioni, e poco importa che le Authority abbiano precedentemente consigliato alle amministrazioni di riscrivere i contratti, al fine di far realmente funzionare il mercato. Nonostante la legge comunitaria 2004 (la 62/2005), recependo le direttive Ue, abbia chiaramente negato l’istituto della proroga automatica. Ecco che mala gestione e spregio delle regole la fanno da padroni.

Saranno le indagini fiorentine e, soprattutto, i processi che ne scaturiranno a spiegarci se il singolare connubio tra Protezione Civile e Beni Culturali abbia davvero generato corruzione. L’interrogativo più importante, tuttavia, non riguarda il frutto di quel rapporto, bensì il rapporto stesso.

Cosa c’entrano, infatti, i Beni culturali con la Protezione civile?

Evidentemente persuaso dell’inadeguatezza delle leggi ordinarie, o dei funzionari che devono applicarle, il ministro Bondi ha affidato ad alcuni commissari la gestione di importantissime amministrazioni: dalle aree archeologiche di Roma e Pompei, alla realizzazione della Grande Brera e (fino all’altro ieri) dei Nuovi Uffizi.

Lo stile, ed in alcuni casi anche le persone, dei commissari hanno evidenti legami con la «cultura del fare» propugnata da Guido Bertolaso: e non a caso molti sostengono che il ministero destinato a quest’ultimo sarebbe stato proprio quello per i Beni e le attività culturali. Anche la creazione di una direzione generale per la Valorizzazione dei beni culturali affidata a Mario Resca (già amministratore delegato di Mc Donald’s Italia) si inquadra perfettamente in questo stile apparentemente efficientista.

E anche se ora (ma solo per cause di forza maggiore) la guida dei Nuovi Uffizi torna alla gestione della Soprintendenza, il vento che spira da Roma rimane quello di un interventismo centralista ansioso di controllare, e possibilmente spremere direttamente, l’immenso patrimonio monumentale.

Da parte sua, il ministro Bondi ha ragione a ricordare che «in Italia esiste da anni una potente lobby dei servizi aggiuntivi». Egli allude alle società e alle cooperative che hanno in concessione molti dei servizi erogati da musei, ivi comprese le mostre e l’editoria scientifica e didattica promossa da queste istituzioni.

Tuttavia, l’obiettivo non può essere semplicemente quello di sostituire i concessionari attuali con altri più graditi: al contrario, lo Stato dovrebbe riappropriarsi della titolarità della politica culturale, che non può e non deve essere appaltata a privati che hanno il legittimo fine del lucro.

Il problema è che da tempo i governi hanno cessato di pensare alla cultura come ad un servizio gratuito e indipendente da offrire ai cittadini (al pari della scuola o della sanità), ritenendo piuttosto che il patrimonio culturale pubblico debba non solo automantenersi, ma anzi generare un reddito, e che dunque esso debba essere gestito non da uomini di cultura, ma da uomini di impresa.

Ed è proprio per questo che le scelte di Bondi non sono un fulmine a ciel sereno: al contrario, esse sono il logico completamento di una politica dei Beni culturali ormai assai ben radicata, e del tutto bipartisan. La parola chiave di tale politica è «eventi», anzi meglio: Grandi Eventi. Per animare un marketing capace di «vendere» i beni culturali, è necessario dirottare i pochissimi fondi su grandi mostre, acquisti-simbolo e restauri-spettacolo, rinunciando così, inevitabilmente, alla manutenzione ordinaria del patrimonio diffuso.

Un caso simbolo di questa perversa dinamica è stato l’invio del David di Donatello da Firenze alla Fiera di Milano: cioè lo sradicamento di un singolo «capolavoro», che è stato isolato dal suo contesto culturale ed artistico per essere usato come fondale di un evento commerciale. E chi aveva finanziato il restauro del bronzo del Bargello, aprendo così la strada all’«evento»? Guarda caso, la Protezione Civile.

Da parte sua, il Ministro per i Beni culturali difese la scelta in questi termini: «La movimentazione di alcuni capolavori simbolo, come il David, è una scelta che il ministero sta perseguendo con coraggio e ostinazione per avvicinare ampi strati della popolazione al nostro enorme patrimonio artistico». «Movimentazione», «popolazione»: perfino la deriva lessicale tradisce l’identificazione tra politica culturale e gestione dei Grandi Eventi.

Il caso del Donatello è significativo anche per il silenzio, anzi per l’attiva complicità, del Polo Museale fiorentino. Se il bilanciamento dei poteri funzionasse, gli storici dell’arte o gli architetti delle soprintendenze dovrebbero costituire un argine che faccia valere le ragioni della tutela — non solo materiale, ma anche culturale — delle opere d’arte. Al contrario, i soprintendenti (sentendosi, a torto, dei meri esecutori tecnici delle volontà politiche) assecondano, e addirittura cavalcano vistosamente, la politica degli «eventi culturali». Ma se i soprintendenti si trasformano in organizzatori di eventi e in manager dei beni culturali, possiamo davvero stupirci se qualcuno decide di sostituirli direttamente con commissari scaturiti dalla Protezione Civile, o dal mondo delle imprese?

Proprio gli storici dell’arte non dovrebbero dimenticare che alla copia si finisce sempre per preferire l’originale.

Un intreccio di incarichi, consulenze, nomine, collaborazioni tra i Beni culturali e la Protezione civile. Per una pioggia di milioni

È l'asse delle consulenze. A un capo c'è il ministero dei Beni culturali (Mibac) di Sandro Bondi. All'altro c'è la Protezione civile di Guido Bertolaso. I due estremi sorreggono una rete di incarichi, collaborazioni e nomine distribuite in un arcipelago di più o meno famosi. Presi singolarmente, sono contratti nell'ordine di decine o, più di rado, centinaia di migliaia di euro. Bisogna fare i conti con le ristrettezze dei tempi e con le rivalità interministeriali. Bisogna considerare l'occhio censorio di Giulio Tremonti e l'operazione trasparenza lanciata dal ministro per la Funzione pubblica Renato Brunetta. Per non parlare delle rituali proteste della Corte dei conti. Eppure il flusso di denaro pubblico distribuito in forma privata segue il suo corso. Per evitare impicci è sufficiente non rispondere alle interrogazioni parlamentari dell'opposizione o ritardare la messa on line di una tabella.

Il comparto consulenze del Mibac, ad esempio, non brilla per essere troppo aggiornato. Dal sito del ministero mancano gli incarichi assegnati di recente da Mario Resca, direttore generale alla valorizzazione del patrimonio del ministero nonché uomo forte di Cultura Spa, la nuova società di diritto privato ricavata dalle ceneri della scatola vuota Ales alla fine di gennaio, a insaputa del Parlamento e del titolare delle partecipazioni di Stato, il ministro dell'Economia Giulio Tremonti.

Al momento, Resca avrebbe concesso contratti per 500 mila euro. Fra i beneficiari certi ci sono tre delle principali società di consulenza internazionali. Si tratta di Roland Berger, Price Waterhouse Coopers e Boston Consulting group con un finanziamento di 100 mila euro per una. Questi advisor hanno il compito di tracciare le linee guida sull'impiego di centinaia di milioni di euro di fondi. Magari valutando la possibilità, molto concreta, che Resca, commissario ai lavori della Grande Brera, si trovi in conflitto di interessi rispetto ai suoi numerosi incarichi privati: consigliere dell'Eni, della Mondadori, presidente di Confimprese, l'associazione che tutela gli interessi delle catene commerciali.

Nello stesso modo, non c'è ancora traccia sul sito del Mibac degli incarichi attribuiti ai tre nuovi consiglieri ingaggiati dall'ex commissario straordinario della Cirio. Si tratta di Claudio Strinati, già soprintendente al Polo Museale romano, di Giuliano Urbani, presidente del museo della Scienza e della tecnica di Milano e titolare del ministero dei Beni culturali dal 2001 al 2005, e di Paolo Peluffo, già responsabile stampa al Quirinale con Carlo Azeglio Ciampi e consigliere della Corte dei conti con la responsabilità delle relazioni esterne.

Proprio l'area della Corte dei conti sembra interessata in modo particolare dal gioco strategico delle consulenze. Dai documenti della presidenza del Consiglio risulta che il 15 gennaio la dirigente del Mibac Marina Giuseppone è stata indirizzata a un incarico di consulenza, studio, ricerca e supporto degli uffici di diretta collaborazione del ministro Bondi. La dottoressa Giuseppone, che nel 2005 era stata incaricata presso il dipartimento Prevenzione e Comunicazione del ministero della Salute, è figlia di Vittorio Giuseppone, magistrato che lavora alla Corte dei conti per l'ufficio di controllo legittimità sui servizi alle persone e beni culturali. Appunto la sezione che vigila, fra l'altro, sulle attività del Mibac.

Anche il capo di gabinetto Nastasi, del resto, è figlio di un giudice della magistratura contabile, Enrica Laterza. Il suo è lo stipendio più alto dello staff (187 mila euro) mentre Marina Giuseppone, che è a quota 141 mila euro annui, si troverà a lavorare fianco a fianco con una folta pattuglia di consiglieri del ministro. Alcuni, come i giornalisti Angelo Lorenzo Crespi, ex direttore del 'Domenicale' di Marcello Dell'Utri, e Raffaele Iannuzzi ('L'Occidentale'), ex pupillo di Gianni Baget Bozzo, sono consulenti a pagamento (60 mila per il primo e 35 mila euro per gli altri due, rispettivamente). Altri lavorano a titolo del tutto gratuito come Maurizio Costanzo, Sabino Acquaviva e Raffaele Iannuzzi detto Lino, ex parlamentare (nessuna parentela con il suo omonimo). Fra i consulenti impiegati con la formula del rimborso missioni, c'è la docente di Archeologia dell'università di Padova Elena Francesca Ghedini, sorella di Nicolò, deputato e principale consigliere legale di Silvio Berlusconi.

Il gabinetto e le direzioni generali del ministero sono di sicuro i più promettenti sotto il profilo degli incarichi. Ma anche il fronte di Cinecittà rimane effervescente, a dispetto di un contesto economico piuttosto mediocre e delle restrizioni imposte da Tremonti. La nuova holding creata con la fusione fra Cinecittà e Istituto Luce ha presentato una lista della spesa a fine 2009 con oltre 3 milioni di euro distribuiti fra amministratori fra i quali i nuovi vertici Luciano Sovena (142 mila euro di emolumenti), Roberto Cicutto, il vicedirettore del 'Giornale' Nicola Porro. L'autonoleggio con conducente per il presidente della spa statale è costato da solo 31 mila euro. Fra i nomi di spicco nella lista degli incarichi c'è l'ex lobbista di Sky Tullio Camiglieri retribuito con 29 mila euro per "formulare una proposta di riforma strategica del gruppo pubblico cinematografico" e "assistenza nella realizzazione di una giornata celebrativa dei diritti umani". Il giovane fratello di Piero Marrazzo, Giampiero, ha preso invece appena 12 mila euro per servizi di ufficio stampa. Una consulenza fra le più consistenti (200 mila euro) è toccata a Comunicare organizzando, la società di mostre d'arte ed eventi che gestisce il complesso del Vittoriano in piazza Venezia.

A capo della holding da 15 milioni di euro di ricavi annui ci sono Alessandro Nicosia, da sempre vicino ai due ex sindaci di Roma Francesco Rutelli e Walter Veltroni. Nicosia amministra il suo gruppo in partnership con la moglie Maria Cristina Bettini, cugina del fedelissimo veltroniano Goffredo. Fra i committenti di Comunicare organizzando c'è anche Arcus, la società che gestirà per conto di Mibac e ministero delle Infrastrutture 100 milioni di euro di fondi. Il presidente di Arcus, Salvatore Italia, ha presentato le sue dimissioni a Bondi martedì 2 marzo. Formalmente, l'amministratore di area Alleanza nazionale adduce motivi personali. In realtà, è da mesi che si sente parlare di un suo allontanamento per contrasti con il capo di gabinetto di Bondi. E chi si mette contro Nastasi, si mette contro il ministro.

Nastasi è stato, nello scorso luglio, uno dei presenti all'inaugurazione dei concerti di Campi Sonori, organizzati in Abruzzo dalla Protezione Civile e conclusi dall'esibizione di Claudio Baglioni, il 29 gennaio scorso alla caserma della Guardia di finanza di Coppito in Abruzzo. Nelle zone del terremoto si sono esibiti gratuitamente anche Ennio Morricone, Claudio Muti, Nicola Piovani, Gilberto Gil e Renzo Arbore. Lo show di un mese fa a Coppito ha posto fine alla prima fase del progetto. Finiti i concerti, rimarrà il workshop musicale e multimediale per gli studenti aquilani.

L'iniziativa di Campi Sonori è stata patrocinata dalla Protezione civile assieme a Rai educational, al Festival del cinema di Venezia e ad alcune case di produzione cinematografica, ed è stata affidata a Co2-The crisis opportunity, una onlus specializzata in comunicazione sociale fondata da una pattuglia di giovani. C'è Giulia Minoli, 28 anni, figlia del direttore di Rai educational e neo-presidente del museo di Rivoli Giovanni. Minoli junior è nipote di Ettore Bernabei e fidanzata di Salvo Nastasi, che ha incominciato la sua carriera al Mibac come direttore generale per lo spettacolo dal vivo, con la benedizione di Gianni Letta. La rappresentante di Co2 in Abruzzo è stata Sara Tardelli, figlia della leggenda juventina Marco ed esordiente qualche anno fa proprio nei programmi di Rai educational. Fondatori sono inoltre Simone Haggiag, rampollo della famiglia azionista di Cinecittà Studios, la società con Luigi Abete e Diego Della Valle che ha in affitto i teatri di posa del cinema statale, e Daniele Ciccaglioni, figlio del proprietario delle diciannove librerie romane Arion.

I progetti della onlus contemplano anche Pompei Viva, un altro workshop musicale in collaborazione con la Protezione civile e con la Soprintendenza archeologica di Napoli e Pompei, dove è commissario Marcello Fiori, ex vicecapo di gabinetto di Francesco Rutelli e braccio destro di Bertolaso. Co2 ha un ruolo organizzativo anche in Napoli teatro festival, con il supporto della Farnesina, e due anni fa ha messo in piedi il Palermo Sole Luna festival in collaborazione con la Regione siciliana e con la direzione generale cinema del Mibac, allora retta dall'altro uomo di Letta Gaetano Blandini, che in ottobre si è trasferito alla Siae.

I lavori di scavo al Foro della Pace sono stati bloccati. Ferme anche le indagini nei cantieri della villa dei Quintili sull’Appia e in altri siti della Regina Viarum. E nessuno più che riversi nel grande archivio telematico le centinaia di schede di scavo redatte su carta per catalogare il tesoro venuto alla luce nel centro storico e nel suburbio.

Non bastano i tagli che il governo ha imposto ai Beni culturali. Ora ad affossare l’archeologia romana ci si è messa la burocrazia interna. Che ha messo alla porta un centinaio di archeologi collaboratori: quegli studiosi che costituiscono la forza lavoro senza la quale la macchina ministeriale, depauperata dal blocco delle assunzioni, si ferma. E questo perché la Soprintendenza archeologica speciale di Roma ha rimandato indietro «quasi un milione di euro di fondi già impegnati nel 2009 in contratti, affidamenti e collaborazioni esterne», denuncia nell’interrogazione alla Camera la parlamentare pd Manuela Ghizzoni.

Un milione dimenticato. Mentre la società ministeriale Arcus spa ne destina uno e mezzo (nei prossimi tre anni) per "le attività culturali al Complesso monumentale del Vittoriano" facendo passare come beneficiario il Commissario straordinario per l’area archeologica di Roma e Ostia. Più un altro milione per Ostia antica. E niente per l’area archeologica centrale.

A bloccare i fondi della Soprintendenza ci sarebbe il cosiddetto "decreto Brunetta" che, in nome della trasparenza, ha limitato al 30 per cento del bilancio gli stanziamenti previsti per le consulenze esterne. Ma lo stop sul 2009 è arrivato dagli uffici amministrativi a gennaio. Quando proposte e contratti degli esterni erano stati già accettati e vistati dai vari funzionari della Soprintendenza che operano sul territorio. In molti i casi i lavori erano già stati avviati. Lavoro gratuito, scoprono adesso. «La nostra paura è che il problema si riproporrà anche nel 2010», dice Giorgia Leoni, presidente della Confederazione italiana archeologi. Tanti gli Indiana Jones con la partita iva a Roma. Erano la maggior parte dei 5000 che nel 2008 parteciparono all’ultimo concorso nazionale, dopo 25 anni, per 30 posti da archeologo. Requisiti: laurea, specializzazione e dottorato. Super esperti e precari a vita. Ora anche senza stipendio.

Rita Paris, responsabile dell’Appia e della Catalogazione, dà una speranza ai collaboratori: «Attenzione, tutti i lavori per i quali vi erano le proposte non rientrano nelle "consulenze". Redigere inventari, catalogare, fare assistenza nei cantieri di scavo: si tratta di attività istituzionali della Soprintendenza che vengono date all’esterno per mancanza di personale. Siamo stati fermi un anno. Speriamo di riuscire a recuperare nel 2010». Avverte Rossella Rea, responsabile del Colosseo: «Al Foro della Pace il blocco dello scavo archeologico sta creando problemi e ritardi anche alla metro C». Il marciapiede di via dei Fori imperiali deve essere smantellato per lasciare il posto al cantiere dell’omonima stazione. «E per questo - spiega la Rea - abbiamo studiato un percorso pedonale alternativo: una passeggiata suggestiva e inedita sopra il Foro della Pace e dietro Massenzio». Ma gli scavi sono fermi.

Il segreto di Arcus La cassaforte dei ministeri

Luca Del Fra

Cade la manna dal cielo, sotto forma di un diluvio di 200 milioni di euro distribuiti da Arcus lungo il triennio 2010–2012: c’è già chi parla di un miracolo della Madonna di Pompei, per il suo santuario infatti arriveranno 3 milioni di euro, 16 per Cinecittà Luce, 3 e mezzo per la Valorizzazione del patrimonio diretta da Mario Resca. Niente miracolo però per la regione piegata dal terremoto e poi abbandonata: all’Abruzzo nel prossimo triennio vanno appena 3 milioni di euro, meno che alle istituzioni con cui collabora Elena Francesca Ghedini, ordinario di archeologia di Padova nonché sorella dell’avvocato di Silvio Berlusconi, il deputato Niccolò Ghedini. Gridano allo scandalo i sindacati Cgil e Flp Bac, e non senza motivo: a fronte dell’abbandono del centro storico de L’Aquila, oramai ridotto in poltiglia dall’inverno e pronto per ospitare una “new town” di quelle promesse a suo tempo da Berlusconi, il Lazio nei prossimi tre anni porta a casa circa 31 milioni di euro, 21 la Toscana del ministro Bondi, poi staccate le altre regioni, 14 il Piemonte, 12 la Campania.

Per ultime: 3 l’Abruzzo, 2,8 la Basilicata, 1 la Calabria. Fanno il pieno gli enti ecclesiastici che, oltre a cospicui restauri sempre pagati da Arcus e affidati alle Sovrintendenze o agli enti locali – è il caso del non bello (litote) santuario pompeiano –, ottengono finanziamenti per altri 20 milioni di euro direttamente erogati a parrocchie, conventi, congregazioni, ordini, diocesi e arcidiocesi. Qualcuno dietro questi fondi sente il passo felpato di Gianni Letta, una specie di risarcimento per le bagatelle del premier e per la campagna contro l’ex direttore di «Avvenire»: orate fratres. Ma anche le sorelle non se la passano male, e non pensiamo solo alle Clarisse di Santa Rosa (500 mila euro in tre anni), ma anche alla sorella di Niccolò, Francesca Ghedini, dal momento che l’università di Padova dove è ordinario ottiene 3 finanziamenti per il totale di 1 milione e 800 mila euro, ma anche la Scuola Archeologica di Atene e la fondazione Aquileia di cui è collaboratrice – come da pagina web della stessa Ghedini sul sito dell’ateneo patavino –, avranno rispettivamente 500 mila e un milione e mezzo di euro: totale 3 milioni e 800 mila. Quasi un milione più dell’Abruzzo. Spesso i progetti finanziati hanno titoli oscuri: «Roma fuori dai fori» oppure «Studi Cinetelevisivi Rodolfo Valentino».

E non sorprende: fondata nel 2004 Arcus è una Spa dello stato che ridistribuisce il 3% degli stanziamenti previsti per le infrastrutture, da investire in cultura. Inizialmente lo statuto prevedeva dovesse finanziare non la regolare attività delle istituzioni, ma progetti specifici e dal carattere innovativo. Una formula vaga, resa ancor più incerta da successivi ritocchi: nella prassi Arcus è la cassaforte dove i ministri che si sono succeduti alla cultura e alle infrastrutture hanno attinto per operazioni di facciata, disinvolte e talvolta anche opache. Tanto che nel 2007 Arcus è stata commissariata, e si scoprì che i soldi venivano erogati perfino per una tappa del giro d’Italia.

Ancora una volta la disinvoltura non manca: si finanziano teatri commissariati come il Carlo Felice di Genova o il San Carlo di Napoli, Mario Resca l’uomo assunto dal ministro Bondi alla Valorizzazione del patrimonio museale per attirare i capitali dei privati, per ora si prende quelli di Arcus, cioè dello stato, per la sua Direzione Generale e per l’Expò di Shanghai. I 16 milioni per Cinecittà vanno a un generico progetto di «Valorizzazione e rilancio della attività», senza considerare i 500 mila euro per la Fondazione Pianura Bresciana, in passato promotrice dell’indimenticabile Convegno sulle cinque razze autoctone dei suini. Ultimo paradosso, attraverso Arcus foraggia anche la Fondazione Banco di Napoli, vale a dire una di quelle fondazioni bancarie private che avrebbero per statuto quello di finanziare la ricerca, la cultura e così via. Altro che intervento dei privati nella cultura: questa è una pioggia gelatinosa di danaro pubblico.

ARCUS - La saga dei fratelli Ghedini

Vittorio Emiliani

Nella saga dei fratelli Ghedini l’avvocato del Cav, nonché deputato, Niccolò ha la faccia sempre più triste di chi proprio non la sfanga, poveraccio, con ‘sti giudici talebani, nonostante i “mavalà” lanciati in tv.

Sale invece e riluce vivido l’astro della sorella Elena Francesca, archeologa dalle mille attività ministeriali, a partire dal 2002. Prima di allora soltanto alcuni titoli accademici. Dal 2002, una fiumana, un’“esplosione”. E’ contemporaneamente nella commissione Infrastrutture con Lunardi ministro (l’uomo dei trafori), in quella della Protezione civile per i Beni culturali e nel CdA di Arcus, la “cassaforte” della cultura irrorata a pioggia. Di nuovo in ombra dopo il 2006, riemerge con le elezioni 2008: subito consigliere del ministro Bondi per le aree archeologiche; cooptata nel Consiglio Superiore quando Carandini rattamente accetta di subentrare al dimissionario Settis. Ma presiede pure la commissione per la gestione/valorizzazione dei Parchi Archeologici e figura nel gruppo di lavoro per riformare la Scuola di Atene.

Tralascio qualcosa? Certamente. Si fa prima a dire che, senza di lei, i beni archeologici non sanno stare. L’ambizione della superattiva Elena Francesca? “Riportare l’Italia al ruolo che le spetta nel panorama dei Beni culturali mondiali”. Una vera italiana, perbacco. E l’archeologia? “Salvo poche eccezioni, musei e aree archeologiche sono in condizioni disastrose”, poi si rende conto che le è scappata la mano e precisa: ”soprattutto per la comunicazione: didascalie spesso illeggibili e quasi sempre solo in italiano”. E se i milioni di Arcus li usassimo per ’ste benedette didascalie? Che dice, se po ffà?

© 2024 Eddyburg