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Uno scandalo mondiale

Salvatore Settis

Nelle guerre si contano i morti e si dimenticano le cause. Il crollo della schola armatorum a Pompei è una notizia che sta facendo il giro del mondo, come è successo negli ultimi mesi a Roma coi crolli della Domus Aurea e del Colosseo.

Ma la vera notizia è che molto altro, a Pompei ed Ercolano come a Roma, ancora "regge", a dispetto dell´incuria, dei brutali tagli di bilancio, delle continue riduzioni del personale, della mancanza di turn over. Altri crolli, altre rovine, altri disastri arriveranno, immancabili. Il punto è se vogliamo rassegnarci a tenere il conto dei monumenti condannati alla distruzione, o interrogarci sulle cause.

Quando il governo annunciò, col decreto-legge 112 (luglio 2008), un taglio ai Beni Culturali per oltre un miliardo e 200 milioni di euro nel triennio, fummo in pochi a denunciare l´enormità dello scippo a un bilancio già drammaticamente inferiore alle necessità di un patrimonio enorme come il nostro. Ma quasi nessuno volle capire che a un taglio di tale portata non potevano che seguire disfunzioni e problemi d´ogni sorta; anzi, a ogni nuovo disastro non manca chi cade dalle nuvole e si chiede "come mai?", senza collegare gli effetti con le cause. Come se dovessimo fare le meraviglie per l´insorgere della carestia in una zona di estrema povertà. L´irresponsabile taglio dei finanziamenti è dunque una causa primaria di questi e altri crolli, ma non la sola. Da vent´anni governi di ogni colore hanno fatto poco o nulla per rinnovare i quadri delle Soprintendenze, lasciando invecchiare i funzionari senza sostituirli.

Si è fatto anzi di tutto per svuotare gli organici, spedendo in pensione d´autorità eccellenti archeologi e storici dell´arte allo scadere dei 40 anni di servizio. Emblematica la situazione di Pompei: andato in pensione Piero Guzzo, uno dei migliori soprintendenti italiani, si sono succeduti nel giro di un anno e mezzo ben tre soprintedenti ad interim (uno dei quali al tempo stesso doveva reggere la Soprintendenza archeologica di Roma), creando ovvie discontinuità di gestione.

Come se non bastasse, i soprintendenti di Pompei (e non solo) sono stati ripetutamente esautorati e delegittimati mettendo al loro fianco un commissario straordinario del Ministro: il primo fu un prefetto in pensione (Profili), il secondo un funzionario della Protezione Civile (Fiori). Come mai si possa affidare Pompei a un prefetto in pensione, e non invece ritardare di un solo giorno il pensionamento di un archeologo, è un mistero in attesa di soluzione. Pompei è fra i siti archeologici più visitati al mondo, e ha introiti annui di circa 20 milioni di euro. Nei corridoi del Ministero si ritiene evidentemente che siano troppi, dato che il 30% sono dirottati su altri poli museali; inoltre, il commissario ha incamerato almeno 40 milioni di euro destinandoli in buona parte non all´archeologia, ma a eliminare i cani randagi, a illuminare strade malfamate e ad altre operazioni di facciata, peraltro a quel che pare con scarso successo. È di pochi mesi fa l´apertura di un´inchiesta della Corte dei Conti sulle procedure di emergenza adottate a Pompei.

Anziché affrontare questi ed altri problemi, anziché reperire nuove risorse, chi ci governa si accontenta di annunciare periodicamente l´avvento di prodigiose Fondazioni (che non esistono), la pioggia di capitali privati (che non arrivano), gli imminenti miracoli della Protezione Civile, credibili quanto la fine dell´emergenza spazzatura in Campania. Ingabbiati in un effetto-annuncio autoreferenziale, ministri e sottosegretari forse non riescono più nemmeno a vedere il nesso elementare fra il taglio delle risorse e il crescere dei problemi; o forse sono ancor più colpevoli, perché lo vedono e lo nascondono ai cittadini. Non fanno nulla per rimediare alle crescenti, drammatiche carenze di personale. Intanto la delegittimazione delle Soprintendenze ha fatto un altro passo avanti: il Consiglio di Stato ha appena cestinato la tutela del sito archeologico di Saepinum (Molise), con una sentenza che offende il Codice dei Beni Culturali e la Costituzione, autorizzando una centrale eolica contro il divieto della Direzione Regionale ai Beni culturali.

Italia Nostra ha già elevato in merito una vibrata protesta: l´affermata priorità di un permesso comunale sulle esigenze di tutela è gravissima non solo perché condanna a morte un sito archeologico di primaria importanza ma perché costituisce un pericoloso precedente, quasi il prevalere della Costituzione immaginaria vagheggiata da Tremonti, dove la libertà d´impresa sarebbe il principio supremo, sulla Costituzione reale e vigente secondo cui la libertà d´impresa non dev´essere «in contrasto con l´utilità sociale» (art. 41), e la «tutela del paesaggio e del patrimonio storico artistico della Nazione» (art. 9) è un valore primario e assoluto.

Per affrontare degnamente i problemi della tutela in Italia basterebbe recuperare meno dell´1% della gigantesca evasione fiscale (la più grande del mondo occidentale in termini assoluti e relativi). Di fronte a Pompei che crolla, a Saepinum invasa dalla pale eoliche, che cosa intende fare il governo? Fino a quando noi cittadini dovremo proseguire la conta dei disastri? Fino a quando sapremo tollerare?

POMPEI Crolla la Domus dei Gladiatori Napolitano: una vergogna per l’Italia

Stella Cervasio

Crolla Pompei, si sbriciola uno dei suoi edifici pubblici che più evocano il passato: la Schola Armaturarum (Domus dei Gladiatori), congregazione di giovani sportivi, dove venivano custoditi i trofei dei gladiatori. Alle sei di ieri mattina il palazzetto affacciato con due begli affreschi sulla frequentatissima arteria di via dell´Abbondanza, nella regio III e insula II, si è dissolto in una nuvola di polvere. Uno smottamento del terrapieno che custodisce altri resti di Pompei, alle spalle della casa dopo le piogge che hanno fustigato il sud nei giorni scorsi, la causa del crollo. «Quello che è accaduto dobbiamo, tutti, sentirlo come una vergogna per l´Italia», dice il presidente della Repubblica Napolitano, «e chi deve dare delle spiegazioni non si sottragga al dovere di darle al più presto e senza ipocrisie». Un monito raccolto dal ministro Sandro Bondi che oggi sarà a Pompei dove incontrerà i responsabili degli scavi.

Immediatamente transennata, anzi "oscurata" alla vista di turisti e cronisti, con l´aiuto di teli bianchi, la Schola distrutta, mentre il percorso veniva deviato nei vicoli circostanti. Dove pure si vedono cornicioni sbriciolati e pezzi di muri caduti proprio in zona pedonale: la manutenzione non è il forte di Pompei. Il crollo è avvenuto alle sei del mattino, più tardi avrebbero corso seri rischi tanto i custodi, che proprio lì timbrano il cartellino, quanto le tante scolaresche che visitano gli Scavi. Secondo le dichiarazioni del segretario generale del Mibac Roberto Cecchi, sarebbe andata distrutta la parte ricostruita dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale, mentre quella più bassa e affrescata dell´unico ambiente di otto metri per dieci, alto sei metri, che ospitava presumibilmente armadi con armi, si sarebbe conservata.

Ma una piramide di sassi e mattoni è quanto resta a prima vista del palazzetto dove la gioventù pompeiana si riuniva e che i gladiatori usavano come "show-room" per i loro trofei, raffigurati anche negli affreschi all´ingresso, con tuniche rosse, cataste di armi e una pelle di orso polare su un carro. L´edificio era chiuso ai visitatori, ma le pitture erano visibili all´esterno, e non c´era mai stato allarme. Anche se a gennaio e la scorsa settimana altri due crolli si erano avuti nella vicina Casa dei Casti Amanti, dove il commissario della Protezione civile Marcello Fiori, scaduto a giugno scorso, aveva creato un "cantiere-evento" visitato anche dal ministro Bondi per la Settimana dei beni culturali. Alle critiche della Uil, Fiori replica che l´edificio crollato «non era nella lista delle priorità indicate dalla soprintendenza». Ma a Pompei dal ‘96 esiste un "piano-programma" che scheda ciascun edificio indicando le priorità di intervento: in circa dieci anni quelli sull´area scavata sono passati dal 14 al 31 per cento. Nel 2006 la legge 41 effettuò il primo taglio di 30 milioni e nel 2008 saltarono altri 40.

Il budget per la gestione commissariale, affidata a due diversi responsabili, prima all´ex prefetto Profili e poi a Fiori, ammonta a 79 milioni di euro. Profili ne ha impegnati 40, di cui oltre il 90 per cento per restauri e messa in sicurezza con progetti redatti dalla soprintendenza di Pier Giovanni Guzzo. A Fiori sono andati 39 milioni di euro (18 che la Regione Campania deve ancora dare), ma per i restauri ha impiegato il 25 per cento.

«Il nostro è il museo all´aperto più grande del mondo - dichiara il sindaco di Pompei Claudio D´Alessio, che protesta per il mancato coinvolgimento del Comune - ma viene trascurato: il cedimento dell´edificio è un crollo annunciato, la Schola attendeva da anni un restauro». Critici anche gli ambientalisti: «I milioni di euro spesi per lo smaccato falso del teatro restaurato - dichiara il presidente di Italia nostra di Napoli Guido Donatone - potevano essere utilizzati per monitorare le strutture di Pompei».

Lavori e manutenzione a singhiozzo: la lenta agonia degli scavi-gioiello

Francesco Erbani

Monitoraggio. Manutenzione. Sono le parole che ricorrono cercando le cause del crollo a Pompei. E tentando di capire ciò che è mancato, oltre alle risorse finanziarie e a una guida stabile e sicura. Si può cominciare da qui: gli scavi più famosi al mondo sono retti da una soprintendente, Jeanette Papadopoulos, che però è in carica da settembre e lo sarà sino alla fine del 2010. È la terza in poco più di un anno ed è ad interim, vale a dire che deve badare anche ad altro. Inoltre fino al 31 luglio, accanto al soprintendente, si sono succeduti diversi commissari, nessuno dei quali archeologo, tutti con poteri straordinari e in deroga. L’ultimo, Marcello Fiori, era un dirigente della Protezione civile. Prima di Pompei si era occupato del termovalorizzatore di Acerra e del G8 a L’Aquila.

«Il lavoro fondamentale a Pompei», dice Pietro Giovanni Guzzo, archeologo di fama e soprintendente dal 1994 al 2009, «consiste nella manutenzione. È un compito che non dà lustro, ma è il solo in grado di contenere il deperimento di quell’organismo urbano. Dal 1997 abbiamo messo in sicurezza oltre il 30 per cento dell’intera area». Un lavoro, avrebbero detto i vecchi muratori, di "cuci e scuci": analisi e mappatura dei rischi e quindi interventi che vanno dai più impegnativi restauri alla riparazione di tegole, grondaie e alla canalizzazione delle acque.

Ecco: l’acqua è uno dei più temibili agenti di degrado. Infiltrazioni d’acqua sarebbero anche all’origine del crollo di ieri. Aggiunge Guzzo: «A gennaio, a un centinaio di metri dall’Armeria dei Gladiatori, sullo stesso versante di via dell’Abbondanza, è venuto giù un muro presso la Casa dei Casti Amanti. Anche allora un’infiltrazione d’acqua. Oltre, credo, al movimento di alcuni mezzi meccanici. È una zona a ridosso di un terrapieno che con le piogge si imbeve d’acqua. In questi dieci mesi si è fatto un controllo accurato?».

Secondo Italia Nostra, due anni di commissariamento hanno concentrato le scarse risorse della Soprintendenza «su iniziative mediatiche o di cosiddetta valorizzazione». A Pompei, replica Fiori, si è riusciti ad investire 65 milioni di euro per la messa in sicurezza dell’area. La Soprintendenza di Napoli e Pompei attraversa ora una fase delicata: sta vagliando i progetti avviati dal commissario, contro il quale sono stati presentati esposti alla Procura e sulla cui opera molte riserve ha sollevato la Corte dei Conti. Alcuni di quei progetti li prosegue, altri li boccia. È il caso di un contratto con Wind per un impianto di videosorveglianza che prevede di collocare pali alti 4 metri. La Soprintendenza ha avanzato molte obiezioni e ora arriveranno a Pompei gli ispettori del ministero.

Un monitoraggio degli edifici di Pompei fu avviato dopo il terremoto del 1980. Vennero impiegati militari sotto la guida degli archeologi. Si iniziò una schedatura, cercando di stabilire quanto potesse durare un pavimento in quercia o un tetto in cemento armato. Oppure se erano necessari drenaggi nei terrapieni. Il lavoro è proseguito negli anni, ma sarebbe dovuto durare ancora, aggiornando i dati e intensificando i controlli. Basta poco per tornare indietro e per non accorgersi del rischio che sta correndo una domus.

Da molti viene indicato l’esempio virtuoso di Ercolano, dove da dieci anni va avanti un piano di manutenzione coordinato dalla Soprintendenza e dalla British School di Roma e finanziato dal Packard Humanities Institute, la fondazione americana presieduta da David Packard, magnate della finanza mondiale. Packard, senza aspettarsi utili e neanche ritorni di immagine, finora ha speso 16 milioni. Ma non per restauri, bensì, per esempio, per il recupero del sistema fognario antico, che ora agevola lo smaltimento delle acque. Ancora l’acqua: ma a Ercolano di crolli non ce ne sono.

E nel vuoto di potere avanza la fondazione

Stella Cervasio

Ad accorgersi del crollo è stato un custode che ha fatto il giro di via dell´Abbondanza, come ogni giorno. Quando ha capito che la Casa dei Gladiatori non c´era più, è corso in soprintendenza e ha cercato di contattare un funzionario archeologo di quelli che di sabato di solito sono di turno. Non ha trovato nessuno. A un certo punto è arrivata l´archeologa di Boscoreale Grete Stefani, in attesa dell´arrivo del direttore Antonio Varone, che veniva da Vietri sul Mare. Ma sul posto tra i primi ad arrivare c´era Nicola Mercurio, dello staff di Fiori finché era commissario, ma ancora prima collaboratore del sottosegretario Nicola Cosentino.

Non si trovava invece Jeannette Papadopoulos, soprintendente nominata a ottobre, che vive a Roma. L´archeologa stessa ha annunciato che andrà via a dicembre, anche lei in pensione come chi l´ha preceduta a capo di Pompei, Giuseppe Proietti (che ha ricoperto due mandati), e chi ha a sua volta preceduto lui, e cioè Rosaria Salvatore. Nel frattempo, è diventato un pensionato anche il direttore generale per le antichità del Mibac, Stefano De Caro, pompeiano doc che non ha mai ricoperto una carica nella soprintendenza degli Scavi, se non nei primi anni Ottanta, quando soprintendente era Baldassarre Conticello.

L'area archeologica, che fino al 30 giugno scorso era commissariata da Marcello Fiori, braccio destro di Bertolaso e uomo chiave della Protezione civile, ha oggi soltanto un direttore, Antonio Varone. Ma in realtà la struttura commissariale, si dice in soprintendenza, non sarebbe stata del tutto smontata, anzi a San Paolino presso le cui case demaniali sono stati trasferiti alcuni uffici della soprintendenza, lavorerebbero ancora persone come quel Nicola Mercurio, prontamente accorso sul posto del crollo ieri mattina.

Fiori, da direttore generale del ministero con delega su Pompei, governerebbe di fatto ancora gli Scavi, pur non avendo più la carica di commissario. Un vuoto di potere che avrebbe un motivo, secondo indiscrezioni. Una mancanza di responsabilità creata se non ad arte, poco ci manca. Basta guardarsi intorno a Pompei: ovunque sono state collocate transenne in metallo che recano la scritta "Pompei Viva", e lo stesso per una presentissima segnaletica. Una sorta di anticipazione di quella che dovrebbe essere la fondazione che si occuperà delle sorti di Pompei nel futuro. Esautorando soprintendenti e direttori.

Il crollo dell’Armeria sorprende i turisti "I tesori vanno custoditi"

Stella Cervasio

Peppino è una guida di quelle antiche, cartellino al petto e giacca d’ordinanza. Ieri mattina, per lui, pessimo risveglio. É crollato quello che oggi si direbbe l´"atelier" dei gladiatori, l´Armeria, lo show-room dei combattenti da spettacolo degli antichi romani, il veterano dei tour guidati lo ha appreso dal sito di "Repubblica".

«Quaranta milioni di euro, ed ecco che ne hanno fatto di Pompei». Vuol ripeterlo alla telecamera, per favore? «Io non sono nessuno, ma - accetta Peppino - se volete faccio la voce fuori campo». Mentre registra con aria triste, passa una famiglia di turisti di colore, lei modello Michelle Obama, due bambini, e il marito: «Scusate», dicono, scansando un cagnetto minacciato da un cane più grosso. C´è chi parla di un crollo annunciato («Troppe omissioni, c´era da aspettarselo»), come il sindaco di Pompei Claudio D´Alessio mentre i turisti in coro dicono che «i tesori vanno custoditi. É un disastro, il patrimonio mondiale va difeso».

Casa crollata dopo un anno di Protezione civile e commissariato Fiori. Progetto anti-randagismo - uno dei motivi che fecero proclamare l’emergenza nel 2008 - fallito: i cani abbandonati a Pompei dovevano avere collare, microchip e trovare padrone in poco tempo. Pochissimo di tutto questo si è realizzato. Soldi stanziati e spesi: poco più di 100 mila euro. Una madre e una figlia guardano insistentemente verso la fine della via dell’Abbondanza, dove gli operai si danno da fare intorno al crollo della Schola Armaturarum. «Ma come, ieri c’era, ti ricordi, l’abbiamo vista». «Era quella bella, con gli affreschi all’esterno?». Intanto gli operai trasportano alte transenne a maglie strette. Non paghi, le ricoprono con teli bianchi.

La finalità non può essere solo la sicurezza dei visitatori. L’obiettivo principale è fare schermo ai fotografi dei giornali e alle telecamere. «Sono in giro da stamattina - dice all’Ansa una turista di Ravenna che è a Pompei da qualche giorno - non mi sono accorta del crollo, sennò l’avrei subito disegnato: non uso macchine fotografiche, sono una disegnatrice».

La Schola era su via dell’Abbondanza, strada principale di Pompei, ma verso la fine, in direzione dell’Anfiteatro, a due passi dalle due vigne che fanno rivivere il vino dell’antichità.

In genere arrivati qui, si svolta per il vicolo della Nave Europa e si segue lo stradone delimitato dai pini secolari, che riporta all’anfiteatro. Sfugge la bellezza dei due affreschi ai lati della porta d’ingresso di quella che ai turisti viene presentata come la "Casa dei Gladiatori", mai visitabile perché consistente in un unico ambiente vuoto e spoglio. Peccato, ora si vedrà solo in foto. Aggirata l’insula ci troviamo dalla parte opposta: il transennamento va avanti anche lì, il crollo a minuti non sarà più visibile da nessuna parte. Perché? Passano due tedeschi, marito e moglie, e domandano ironici: «Protezione civile?». «Io cerco la Casa di Venere - dice una signora di Milano, mostrando la piantina - ma lì che cosa è successo? È caduta una casa?». I custodi vanno e vengono, l’unica funzionaria della Soprintendenza che è stato possibile reperire sull’istante, Grete Stefani, dà perentorio ordine di non far passare nessuno. «L’abbiamo scampata bella noi sorveglianti». Gli fa eco una collega: «Ogni giorno passano centinaia di scolaresche. Se fosse accaduto qualche ora più tardi...».

Il crollo clamoroso a Pompei della Casa dei gladiatori fa il paio (in peggio) col cedimento, recente, di un soffitto dell’ambulacro centrale del Colosseo. Sono i due siti archeologici più visitati d’Italia. Li si vuole spremere per sempre maggiori incassi. Ma li si lascia deteriorare, non si avviano gli indispensabili restauri (25 milioni di euro per il Colosseo), non si fa nemmeno manutenzione ordinaria. Una politica suicida. Questi guasti ci dicono che l’intero ministero voluto nel 1975 da Spadolini si sta sfaldando. 1) per i tagli feroci di Tremonti a Soprintendenze già boccheggianti, con un ministro, Bondi, più occupato a tamponare le falle del Pdl che quelle del suo dicastero. 2) per una dissennata politica dirigenziale: da un lato si assume con un contratto principesco un direttore generale alla valorizzazione come Mario Resca (ex McDonald’s e Casinò di Campione) che poco sa del nostro specialissimo sistema museale «a rete»; dall’altro si pensionano a soli 67 anni personaggi di rara competenza come il soprintendente di Pompei, Piero Guzzo e il direttore generale per l’archeologia, Stefano De Caro.

Di più: un decreto Brunetta manda a casa alti dirigenti con 40 anni di carriera, entrati con merito a poco più di 20 anni ed ora poco oltre i 60. Uno scialo. Poiché non si sono fatti concorsi, dilagano gli interim: la stessa Pompei è ora gestita da una soprintendente che governa Napoli e si occupa pure del recupero dello opere d’arte rubate e d’altro.

Una pazzia. Come il divieto per ispettori e soprintendenti di usare la propria auto per le missioni sul posto. Ci sono mezzi pubblici di cui servirsi? No. Quindi non si va a controllare gli scavi (e i tombaroli ringraziano), i siti già aperti, i cantieri esterni, favorendo speculazione e malaffare. Così va nel Paese degli oltre 2000 siti archeologici. Ricchezza enorme senza investimenti.

A Pompei poi - dove esiste, come a Roma, una speciale Soprintendenza destinata a gestire i propri incassi - la diarchia fra soprintendente e city manager non ha mai funzionato granché. Il secondo, di nomina «politica», poteva pestare i piedi al primo quando voleva. E c’erano circa 700 dipendenti per tre quarti non assunti direttamente dalla Soprintendenza e organizzati per clan famigliari, centinaia di cani randagi che nessuno ricoverava né rendeva innocui, ecc. Guzzo ha chiamato a collaborare i migliori studiosi, lavorando sull’intero contesto urbano e sull’approfondimento del già scavato.

A camorra, corruzione e clientele ha opposto regole e legalità. «Ma - mi diceva poco tempo fa - non ho mai avuto l’appoggio del vertice politico che tiene molto ai voti».

Poi a Pompei è arrivato un commissario, Marcello Fiori, fedelissimo di Guido Bertolaso. Invece di concentrare i fondi sulla tutela più urgente, ha puntato a “spettacolarizzare” Pompei, dando al teatro romano una «cavea completamente costruita ex novo, con mattoni in tufo di moderna fattura» (denicia della Uil), O - come denuncia indignata l’Associazione nazionale Archeologi - ha speso in ologrammi virtuali e pannelli fotografici addirittura milioni. Che potevano evitare a Pompei di sfaldarsi. Al pari del ministero.

Italia Nostra

La rovina di Pompei è il risuotato

di scelte politiche disastrose

Il disastroso crollo dell’Armeria dei Gladiatori avvenuto stamane a Pompei testimonia l’urgenza della denuncia di Italia Nostra sulla gestione del più importante sito archeologico italiano.

Due anni di commissariamento non solo non hanno risolto i problemi del “degrado quotidiano” (servizi al visitatore di scarso livello, cani randagi, ecc.), ma concentrando le risorse della Soprintendenza esclusivamente su iniziative mediatiche o di cosiddetta valorizzazione (eventi al teatro grande, ologrammi e multimedia), hanno smantellato quel programma di manutenzione programmata faticosamente elaborato negli anni precedenti dagli organi della tutela, sicuramente meno spendibile in termini pubblicitari, ma indispensabile per la tutela del patrimonio stesso e quindi per la sua stessa sopravvivenza.

Come per le frane e le alluvioni che hanno devastato ampie zone del nostro territorio (dal Veneto alla Calabria) negli ultimi giorni, questo disastro non era imprevedibile, ma è frutto dell’incuria dell’uomo.

Pompei è patrimonio non italiano, ma mondiale: Italia Nostra richiede al Ministro Bondi di affidare immediatamente agli organi scientifici del suo Ministero l’elaborazione di un piano di conservazione del sito quale premessa indispensabile, non solo delle elementari ed irrinunciabili esigenze della tutela, ma altresì del rilancio culturale di Pompei.

Gli avvenimenti di oggi dimostrano, nella loro drammatica evidenza, la necessità di rafforzare l’opera degli organismi della tutela: Pompei deve diventare un laboratorio a cielo aperto dell’eccellenza italiana nel campo del restauro e della conservazione e non una Fondazione mirata al lancio di eventi estemporanei e dagli incerti valori culturali.

Come per difendere il nostro territorio non servono le “Grandi Opere”, ma la quotidiana, incessante opera di ripristino e contenimento del rischio idrogeologico, così per salvare il nostro patrimonio culturale non abbiamo bisogno di iniziative effimere e culturalmente risibili o addirittura controproducenti, bensì di restituire la piena operatività alle Soprintendenze - a Pompei come a L’Aquila - in termini non solo di risorse economico finanziarie, ma di efficienza amministrativa e di riconoscimento istituzionale.

Maria Pia Guermandi – Consigliere nazionale Italia Nostra

Corriere della sera.it

Pompei. Crollata la Domus dei gladiatori

Gravissimo danno al patrimonio artistico italiano a seguito di un crollo verificatosi nel sito archeologico di Pompei dove è crollata l'intera Domus dei Gladiatori, così chiamata perchè al suo interno si allenavano gli atleti nell'antica Pompei. L’edificio era una sorta di palestra dove i gladiatori si allenavano e nella quale deponevano le armi all’interno di alcuni incassi ricavati nei muri. Secondo quanto si apprende dalla Sovrintendenza, vi erano anche dipinti nella parte sottostante il perimetro della sala. L’edificio, che si apre su via dell’Abbondanza, la strada principale della città sepolta dall’eruzione del Vesuvio del 79 d. C., era visitabile solamente dall’esterno ed era protetto da un alto cancello in legno.

AREA TRANSENNATA - Il crollo, secondo primi accertamenti, è avvenuto intorno alle ore 6 ed è stato notato dai custodi appena arrivati al lavoro verso le ore 7.30. L'area al momento è transennata e non è possibile accedere. La Domus è sulla via principale, via dell'Abbondanza, quella maggiormente percorsa dai turisti, in direzione Porta Anfiteatro. Predisposto un percorso alternativo per i tanti turisti.

LE CAUSE - «Questa mattina presto - spiegano i custodi - è crollato prima il muro della Domus, e poi, data la pesantezza del soffitto che è in cemento armato, è crollata l'intera Domus dei Gladiatori. Sembra - dicono - che siano state le infiltrazioni d'acqua a causare il danno». Anche secondo quanto si apprende dalla Sovrintendenza le cause del crollo possono essere attribuite o alle piogge che hanno creato delle infiltrazioni all’interno di un terrapieno esistente al lato della Schola, oppure al peso del tetto della palestra stessa. La casa, infatti, fu bombardata durante la Seconda guerra mondiale e la copertura è stata rifatta tra gli anni ’40 e gli anni ’50. È probabile - fanno sapere dalla Sovrintendenza - che le mura antiche, dopo anni, non abbiano più retto al peso del tetto.

DENUNCIA IGNORATA - Oltre alle inchieste portate avanti dal Corriere sullo stato di salute degli scavi di Pompei, numerose erano state le denunce portate avanti da diversi esponenti politici sullo stato di degrado dell'area archeologica. «Sono mesi che denuncio, con articoli ed interrogazioni, il degrado allarmante degli scavi di Pompei. Il gravissimo crollo di stamattina è la dimostrazione che il Governo e il Ministro Bondi hanno sottovaluto la situazione e raccontano, da tempo, un bel po' di sciocchezze» afferma ora in una nota Luisa Bossa, deputata del Pd e ex sindaco di Ercolano. «Quando abbiamo posto la questione del degrado negli scavi - dice la Bossa - Bondi ha risposto in modo piccato e risentito, difendendo il lavoro dei suoi commissari. Il crollo della Domus dei gladiatori è la drammatica, ma inevitabile, risposta a chi pensa che governare significhi raccontare una balla al giorno, attaccando chi a quella balla non crede perchè le cose va a guardarle con i suoi occhi. La situazione dei siti archeologici in Campania è drammatica».

IL SINDACO - Disappunto, convinto. Il sindaco di Pompei (Napoli), Claudio d'Alessio, lo dice senza mezzi termini: «Questa ennesima brutta notizia poteva essere evitata». Il cedimento dell'edificio, secondo d'Alessio, è un crollo annunciato: «succede quando non c'è la dovuta attenzione e cura» per un patrimonio secolare che andrebbe «preservato da ogni tipo di sollecitazione, anche atmosferica. C'è il dispiacere tipico di una comunità - ha sottolineato D'Alessio - di un territorio su cui vi è il museo all'aperto più grande del mondo e che purtroppo viene trascurato».

L'ALLARME DEL MINISTERO - «Questo ennesimo caso di dissesto ripropone il tema della tutela del patrimonio culturale e quindi della necessità di disporre di risorse adeguate e di provvedere a quella manutenzione ordinaria che non facciamo più da almeno mezzo secolo». È quanto afferma Roberto Cecchi, segretario generale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali in merito al crollo della Schola Armaturarum a Pompei. «La cura di un patrimonio delle dimensioni di quello di Pompei - aggiunge Cecchi - e di quello nazionale non lo si può affidare ad interventi episodici ed eclatanti. La soluzione è la cura quotidiana, come si è iniziato a fare per l'area archeologica centrale di Roma e per la stessa Pompei».

BONDI - «Quanto è accaduto ripropone la necessità di disporre di risorse adeguate per provvedere a quella manutenzione ordinaria che è necessaria per la tutela e la conservazione dell'immenso patrimonio storico artistico di cui disponiamo» ha spiegato successivamente il ministro dei Beni e delle Attività Culturali Sandro Bondi. «Il crollo - conferma il ministro - ha interessato le murature verticali Schola Armaturarum che erano state ricostruite negli anni Cinquanta, mentre parrebbe essersi conservata la parte più bassa, la parte cioè che ospita le decorazioni affrescate, che quindi si ritiene che potrebbero essere recuperate. Alla luce dei primi accertamenti, il dissesto che ha provocato il crollo parrebbe imputabile ad uno smottamento del terrapieno che si trova a ridosso della costruzione per effetto delle abbondanti piogge di questi giorni e del restauro in cemento armato compiuto in passato».

Associazione nazionale archeologi

Il crollo della Domu dei gladiatori e il dissesto archeologico del Belpaese

L'ANA, Associazione Nazionale Archeologi, esprime rabbia e sconcerto per il crollo avvenuto stamattina alle 6 nel sito archeologico di Pompei:si è letteralmente polverizzata la Domus dei Gladiatori, sulla centralissima via dell'Abbondanza. Dopo i crolli avvenuti a Roma alle mura Aureliane, alla Domus Aurea e quello ben più modesto al Colosseo, questo di Pompei è l’ennesima ferita subita dal patrimonio archeologico italiano in pochi mesi.

"Stavolta il crollo è di proporzioni clamorose”, denuncia il Presidente ANA Tsao Cevoli. “E’ una ferita insanabile al sito archeologico più importante del mondo. Come denunciamo da tempo, sono l'incuria e la mancata manutenzione ordinaria del patrimonio archeologico a provocare danni irreparabili come questo di oggi

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"Fa rabbia”, conclude Cevoli, “vedere un crollo del genere provocato dall’incuria, quando sempre a Pompei, a pochi passi di distanza sulla stessa via dell'Abbondanza, si sono spesi milioni di euro per istallare ologrammi virtuali e pannelli fotografici nelle Domus di Giulio Polibio e dei Casti Amanti.

Auspichiamo che nel settore dei beni culturali alla politica delle emergenze e degli effetti speciali finora attuata dal governo, si sostituisca una politica della prevenzione e che a dettare le priorità non siano le esigenze di marketing ma i reali problemi del patrimonio culturale e che l'ultima parola spetti ai funzionari ministeriali addetti alla tutela".

Confederazione Italiana Archeologi

Crollo a Pompei. Basta commissari. Si facciano lavorare i tecnici delle soprintedenze!

La Confederazione Italiana Archeologi esprime il proprio sgomento di fronte alla notizia del crollo delle strutture della Caserma dei Gladiatori a Pompei. L’episodio si è verificato all’alba e per fortuna non si sono registrati feriti né tra il personale in servizio né tra il pubblico, visto che il sito non era ancora aperto.

“Siamo stanchi - ha dichiarato il Presidente Giorgia Leoni – di commentare continui crolli e danni al patrimonio archeologico del nostro paese, potendo almeno gioire del fatto che per ragioni del tutto fortuite si sia evitata una tragedia.”

“Ci auguriamo – continua il Presidente Leoni – che oltre alle ragioni tecniche, il Ministero abbia il coraggio di affrontare le reali cause politiche che sono alla base di questi avvenimenti. Dopo il Colosseo e la Domus Aurea continua la serie di crolli di monumenti e siti sottoposti per anni a costosissime e spesso poco competenti strutture commissariali che hanno esautorato i tecnici delle Soprintendenze dall’azione di costante tutela e monitoraggio che questi hanno sempre condotto. Evidentemente il proliferare dei commissariamenti non ha lo scopo di garantire la tutela e la conservazione del patrimonio archeologico, altrimenti le strategie e i risultati sarebbero diversi. Non possiamo più permetterci di operare in questo modo scellerato: il patrimonio archeologico italiano è un bene che appartiene a tutta l’umanità e va preservato per le generazioni future, non è un prodotto replicabile!”

La Confederazione Italiana Archeologi rinnova la richiesta di un intervento urgente del ministro Bondi per verificare lo stato di sicurezza in cui versano gli scavi di Pompei e perchè faccia un'analisi seria e trasparente dei lavori svolti e dei risultati ottenuti dalla struttura commissariale.

Valentina Di Stefano

ufficiostampa@archeologi-italiani.it

UIL

Pompei. Crollo della "Schola armaturam iuventis pompeiani"

Gravi le responsabilità di Bondi

che non nomina un soprintendente

Sono veramente gravi le responsabilità del Ministro Bondi che si è affidato alle cure del Commissariamento di Pompei e aldilà della propaganda i risultati di scelte dissennate e incomprensibili la dice lunga su ciò che è stato fatto nell’area archeologica più importante del mondo.

Stamane attorno alle ore 6/7 , meno male che gli scavi erano ancora chiusi, è letteralmente crollata ( sembra quasi sotto l’effetto di un terremoto o di un bombardamento) la casa chiamata "Schola armaturarum iuventis pompeiani".

Tale casa fu rinvenuta nel 191 e restaurata nel 1946 , da allora non sembrano essere stati fatti interventi salvo il rifacimento dell’asfalto del tetto durante la gestione commissariale.

Infatti l’asfalto risulterebbe essere stato rifatto da circa 7 mesi.

Molto probabilmente la casa è crollata per effetto delle infiltrazioni d’acqua ma è veramente singolare che durante la gestione commissariale che era deputata proprio alla messa in sicurezza , nessuno si sia reso conto dello stato in cui tale casa si trovava.

A questo punto, la Procura a cui la Uil aveva già sporto denuncia dovrebbe indagare per capire e passare al setaccio tutti gli interventi e l’operato legato alle attività commissariali che per fare gli interventi avrà redatto un piano con le emergenze. Ricordo che il Direttore degli scavi Varone aveva segnalato la pericolosità degli scavi tanto che temeva per l’incolumità dei visitatori e degli stessi dipendenti.

Ora si faccia luce su ciò che è accaduto tenuto conto che vi sono altri aspetti che lasciano perplessi come nel caso della stipula del contratto con la Società WIND per attività di videosorveglianza e valorizzazione che tra gli altri caratteri prevedono la collocazione nell’area archeologica di pali alti 4 metri ,la collocazione nell’area archeologica dei cavidotti, che hanno un effetto ed un impatto visivo micidiale , fatta con estrema leggerezza dal Commissario e che oggi non sembra assolutamente compatibile con la tutela dell’area archeologica.

A ciò si aggiunge anche la recente sentenza del Tar Lazio che ha annullato la gara per la gestione del ristorante per difetti procedurali che dimostrano il pressappochismo nell’attività di aggiudicazione dell’appalto.

Insomma va fatta chiarezza e vanno individuate responsabilità precise fermo restando che la prima responsabilità è di ordine politico poiché mentre Roma sta discettando sul modello di governante da realizzare , Pompei continua a registrare crolli, ricordiamo anche la Domus di Polibio ed il Termopolio con un sito che non ha un Soprintendente a tempo pieno.

Gianfranco Cerasoli, Segretario Generale UIL Beni e Attività Culturali

Signori si chiude: dai Musei capitolini a Palazzo ducale di Venezia le istituzioni culturali, in particolare quelle che fanno capo a Regioni ed Enti locali per un giorno, il prossimo 12 novembre, chiudono le porte, anzi le sbattono in faccia alle politiche del governo Berlusconi. Una iniziativa nata da Federculture e dall'Associazione comuni italiani, cui ha aderito un schieramento molto ampio per una protesta clamorosa che ha pochi precedenti in Italia e nel mondo, coinvolgendo musei, siti archeologici, fondazioni culturali, biblioteche: tutti colpiti, e in molti casi a morte, dalla legge 122 del 2010. Si tratta del decreto uscito a maggio dal cappello di quel mago di Oz dei risparmi del superministro Giulio Tremonti, a luglio convertito dal parlamento in legge con il nome di «manovra finanziaria» — da non confondere con la legge finanziaria di cui si discuterà nei prossimi giorni. Nella sostanza è fatto divieto ai comuni con meno di 30 mila abitanti di avere società, gli enti locali sono obbligati a ridurre dell' 80% le risorse per mostre, missioni culturali e così via, e a ridimensionare la composizione dei consigli di amministrazione delle aziende partecipate con denaro pubblico. Gli effetti sono devastanti: a esempio il sito nuragico di Su Nuraxi, gestito dal comune di Barumini attraverso una fondazione che dovrà essere chiusa, rischia di restare senza personale. Spazi espositivi come la Triennale di Milano o Palaexpo di Roma non avranno fondi per le mostre, il tutto mentre si costruisce la Nuova Brera, e vista la situazione è difficile prevederne l'utilizzo.

Ma più bizzarro è il caso dei consigli di amministrazione: quelli di fondazioni come la Scala o Musica per Roma hanno rispettivamente 11 e 13 componenti per la presenza dei privati e dovranno essere ridotti a 5, cacciando i soci finanziatori. Un bell’incentivo per l'intervento dei privati nella cultura! Incerte sul da farsi, le amministrazioni locali stanno scivolando nel caos. Intanto però le regioni Liguria e Toscana hanno fatto ricorso alla Corte costituzionale, poiché la legge 122 intaccata la loro autonomia e quella degli Enti locali. Fioccano le adesioni alla protesta del 12 novembre, dall'Unione province italiane, alla Conferenza delle Regioni, fino all'Associazione delle città d'arte, Fondo per l'ambiente italiano, la Lega delle cooperative, nonché musei, associazioni come quella che riunisce i parchi naturali italiani, e fondazioni come il Maxxi, che pure sarebbe dello Stato, Musica per Roma o il Consorzio teatro pubblico pugliese. «L'obiettivo è la abrogazione della legge», ha spiegato ieri alla presentazione dell'iniziativa l'assessore alla cultura capitolino Umberto Croppi, che già a maggio aveva proposto, per primo, la serrata dei musei. Lo schieramento è compatto contro la legge 122, meno sulle forme di protesta, a esempio alcuni puntano sull'apertura gratuita, come probabilmente farà il comune di Milano. «Ma il castello Sforzesco deve restare chiuso: è un fatto simbolico! — sbotta Andrea Ranieri assessore alla cultura del capoluogo ligure —A Genova i grandi musei saranno chiusi, mentre i piccoli saranno a ingresso gratuito, con lo slogan venite adesso che l'anno prossimo non ci saremo più». A Ranieri non sfugge l'aspetto politico della protesta, uno schieramento così ampio è la reazione al governo Berlusconi che, di fronte a un imbelle ministro, Sandro Bondi, ha picchiato duro sulla cultura, ma anche su scuola, ricerca, università. E ancora più duro picchierà nella legge di bilancio, la finanziaria 2011.

Un recente editoriale del Giornale dell'Arte denuncia con veemenza e amarezza la consistenza dei tagli imposti dalla Finanziaria alle attività culturali, l'incoerenza di tali provvedimenti rispetto all'ampiezza del patrimonio artistico del paese e al suo potenziale valore per il suo sviluppo, l'arbitrarietà della loro distribuzione. Non è una critica nuova: la contrazione delle risorse pubbliche, la riduzione degli spazi di azione dello stato nel campo culturale sono tendenze ormai denunciate da anni, certamente non solo in Italia. Anche gli argomenti che hanno animato il dibattito si sono ormai codificati in schieramenti ("beniculturalisti" contro "economicisti") che impediscono una visione più chiara dei problemi. Da un lato si denuncia la farraginosità, l'inefficienza, la neghittosità, la mancanza di incentivi della struttura pubblica, che accompagnano una gestione largamente inadeguata del nostro patrimonio culturale e in generale di ogni produzione culturale "pubblica" (dal cinema alla lirica) e si saluta l'avvento salvifico del privato.

Dall'altra si risponde ricordando la complessità di un territorio in cui pullula la ricchezza e la stratificazione storica, in cui esistono migliaia di musei, pievi, chiese, teatri, ville, castelli, evidenze archeologiche. archivi, biblioteche, che chiedono attenzioni, risorse, restauri, protezione cui nessun privato può provvedere, e producono una farragine di esigenze sotto cui la struttura pubblica soccombe in un momento di risorse scarse. Così mentre il dibattito tecnico e culturale è in stallo, la forza delle cose prosegue a mietere risorse con un abbrivio apparentemente inarrestabile. Secondo la visione oggi dominante, il senso di musei, istituzioni, luoghi d'arte sembra oggi condizionato dalla loro capacità di essere agenti per lo sviluppo, di attrarre turismo e consumo, di produrre ricchezza. A parte i problemi tecnici posti da quest'ordine di valutazioni, e senza nulla togliere alla necessità di vedere le cose "anche" in questa prospettiva, l'impressione è di essere di nuovo alle prese con la consueta, esasperante, tendenza all'unilateralità: è fin troppo ovvio che la posta in gioco più importante non è il turismo ma l'educazione, la diffusione delle opportunità, la capacità di convivenza.

C'è bisogno di una svolta, che parta dalla consapevolezza della centralità del problema. La cultura e le arti stanno ponendo una questione centrale al pensiero economico e politico contemporaneo, e lo fanno mettendo in gioco la loro possibilità di fiorire o di decadere, portando con sé i destini complessivi delle nostre collettività. La risposta a questa interrogazione chiede cura e umiltà, chiede di unire i saperi e i pensieri per dare forma a una ecologia delle arti e della cultura capace di preparare le condizioni istitutive delle arti nel futuro. Se non altro per consentire alle arti di offrirci ancora la possibilità — citando Agnes Martin — "di attraversare la vita con gioia" offrendoci "un'esperienza completamente soddisfacente, anche se elusiva...". La posta in gioco più importante sono l'educazione, la convivenza, le opportunità.

Cade a pezzi anche il Colosseo

Tommaso Cerno

Siti archeologici abbandonati. Teatri in crisi. Opere d'arte dimenticate. E poi biblioteche, archivi, cinema... I tagli del governo mettono in ginocchio la cultura. Che ora rischia il crac.

Sulla carta è il monumento più famoso al mondo. Nella realtà sta cadendo a pezzi. Il Colosseo ha bisogno di un restauro da 25 milioni di euro, ma di quattrini nelle casse dello Stato non c'è traccia. Così il ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi, ha aperto la caccia agli sponsor privati: s'è già offerto Diego Della Valle per guidare la cordata che salverà facciata e faccia alla cultura in crisi ormai cronica. Ma ecco che quei calcinacci che di buon mattino si sono staccati dall'ambulacro centrale sono anche il simbolo del fallimento italiano: addirittura all'anfiteatro Flavio, che da solo fa milioni di turisti e nelle statistiche mondiali è sul podio con un valore d'immagine pari a 91 miliardi di euro, più dei Musei Vaticani e quasi come il marchio della Coca-Cola, occorre un salvagente per restare in piedi. E presto lo vedremo avvolto da quei mega-cartelloni pubblicitari che ricoprono i tesori in restauro a spese di multinazionali o del magnate di turno, facendo infuriare le archistar.

Perché se lo Stato arranca già nel cuore dell'Urbe, figuriamoci cosa capita a musei, scavi, teatri, fondazioni, archivi e biblioteche di mezza Italia. I conti del ministero del Beni culturali sono rossi come certe, ormai abbandonate rovine romane. E i tagli soffocano quello che dovrebbe essere, piuttosto, il core business del Belpaese. Per denunciare il crac della cultura l'artista Mimmo Paladino ha coperto con un drappo nero la sua ultima opera, i cavalli donati al teatro San Carlo di Napoli. «L'ho fatto per protestare pubblicamente, indignarsi, criticare le autorità», racconta l'artista. Ma quel drappo dovrà presto allargarsi fino al teatro di Roma, al Goldoni di Venezia, alla Scala di Milano. Come all'Accademia di Santa Cecilia, a Pompei ed Ercolano, alla biblioteca di Firenze, passando per la Crusca e il Centro sperimentale di Cinematografia.

E’ UNA LOTTERIA.

Solo nell'ultimo anno la dieta Tremonti ha abbattuto il Fus, fondo unico per lo spettacolo, a 400 milioni di curo, perdendo quasi 70 milioni. Mentre gli investimenti per la manutenzione di musei, opere d'arte, scavi archeologici, biblioteche e archivi hanno subito tagli che superano il 30 per cento. Significa 200 milioni in meno fra cinema, teatro, musica, danza e opera ogni anno. Soldi spesso già impegnati per restaurare monumenti, ripulire facciate di palazzi e chiese, mettere in sicurezza i depositi librari, progettare nuove sale per i nostri capolavori: «La situazione per il 2011 sarà ancora più dura: il Fus che scenderà a 300 milioni di euro., spiegano al ministero. Che fare? Se le nonnine scaramantiche a corto di quattrini s'affidano al lotto, ai nostri antenati non sarà più concesso nemmeno di darci i numeri in sogno. Perché il governo ha già tagliato anche la ruota: quest'anno solo 60,8 milioni sono stati trasferiti ai beni culturali dalle giocate, un calo del 50 per cento che ha messo in ginocchio tutti i settori storicamente finanziati con le lotterie. Erano stati promessi 353 milioni in tre anni, soldi che invece non arriveranno. Denaro destinato alla salvaguardia dei tesori nazionali, come il cantiere delle navi romane di Pisa, le aree archeologiche di Gravisca e Tarquinia o il palazzo reale di Genova. Ai musei è andata pure peggio: è andato in fumo addirittura il 91 per cento degli introiti già inseriti a bilancio e dovranno accontentarsi di 4,5 milioni. Soldi spesso inutili, perché i progetti sono già avviati e ora costano troppo per cui dovranno comunque fermarsi.

CIAK SI TAGLIA.

Botteghini pubblici serrati anche per il cinema. E i tagli del ministero stanno per diventare addirittura legge. Una norma voluta da Bondi per razionalizzare le spese di Stato sul grande schermo taglierà, di fatto, i fondi per le piccole produzioni. Non potendo più pagare tutto e tutti, perché la pioggia di soldi pubblici è ormai poco più che un rigagnolo, il ministro punta su opere prime e film cult. Almeno a parole. Lo slogan è: basta milioni a pellicole come "Puccini e la fanciulla" di Paolo Benvenuti, costato un milione per un incasso di 6 mila 392 euro. O ancora come "Sleeping around" di Marco Camiti che dallo Stato ha incassato 716 mila euro e dagli spettatori 1.794. «Un criterio che si rende necessario dal momento in cui sarebbe impossibile, con i conti dello Stato, continuare a foraggiare qualsiasi produzione di lungometraggio», spiegano al ministero. E la Rai, che ogni anno gira 40 milioni alle produzioni, si adegua. Anche se questo significa infliggere un colpo forse letale al cinema, già in crisi nera di fondi e di distribuzione: «Molti film buoni fanno difficoltà al botteghino, perché il multisala favorisce altri tipi di prodotto. Senza fondi -96,19 pubblici è ovvio che sempre meno registi saranno in grado di montare un film da soli, ma questo non è un problema solo di tagli, riguarda i gusti degli spettatori e le regole del mercato», spiegano i vertici di RaiCinema.

Così produttori e registi guardano sempre più interessati al federalismo, che da qualche anno ha trasferito soldi e competenze alle Regioni. Al punto che "I demoni di San Pietroburgo" di Giuliano Montaldo è stato girato in Piemonte e fra le strade che si rincorrono sui fotogrammi non c'è la Prospettiva Nevskji, ma gli incroci nel centro di Torino. Il risultato è che dal Nord fino alla Sicilia, aiuti economici e loca-tion gratuite sono in aumento. Una boccata d'ossigeno che ribalta, però, la tesi di Bondi che aveva giustificato i tagli spiegando che «finora il cinema italiano era stato servo della politica». Come se governatori e sindaci non fossero il rovescio della stessa medaglia. E soprattutto ossigeno insufficiente: «Nel 2011, se i tagli saranno confermati, non solo si toccherebbe il punto più basso della storia del Fondo unico per lo spettacolo, ma si raggiungerebbe il momento più basso della politica in questo settore», denuncia il presidente dell'Agis, Paolo Protti. Con la chiusura di molte imprese e la perdita di migliaia di posti di lavoro.

CALA IL SIPARIO. Intanto, a Venezia, andrà in scena Pedro Almodóvar in versione teatrale, peri palati fini della Laguna. Ma il pubblico del Goldoni non sa ancora che sul palcoscenico troverà una sorpresa. Per non ammazzare le produzioni, la presidente del teatro stabile Laura Barbiani s'ingegna nel low cost: «Non lo scriva, la prego. Ma con i tagli non riusciremo a fare lo spettacolo con 12 attori. Per cui qualcuno sarà costretto a fare due o tre parti per stare nel budget. Succede sempre più spesso», racconta a "L'espresso". Lo spettacolo deve continuare e, dal vivo, i tagli pesano ancora di più: ogni anno il bilancio in Veneto chiude a circa 8 milioni, ma il 70 per cento se ne va in stipendi. Eppure hanno già tagliato tutto il tagliabile: le scenografie sono più piccole, i giochi di luce hanno sostituito i vecchi e costosi effetti speciali e, quando fanno i piani, devono ricordarsi di caricare pochi mobili perché se per caso lo spettacolo è itinerante tutto deve stare su un solo camion: «Un secondo mezzo significa 50-60 mila euro di più e rischia di farti saltare la produzione, aggiunge la Barbiani: «Mentre, coi fondi regionali, spuntano festival, sagre e vere e proprie strutture di produzione parallele foraggiate da sindaci e assessori locali

ROVINE IN ROVINA. Nell'Italia dei mali culturali la scure non risparmia certo l'archeologia, che fino a pochi anni fa ci vedeva leader mondiali. È talmente rosso il bilancio che il nuovo diktat suona brunettiano: vietata la macchina per le missioni. Ma mentre il governo difende la norma propagandando fantomatiche riduzioni di auto blu, l'esito pratico è che archeologi e storici dell'arte non possono più raggiungere i siti e gli scavi in restauro o le necropoli che sono pagati per tutelare. L'elenco dei tagli è lungo. Si va dai soprintendenti in pensione mai sostituiti, al blocco dei turn over, alla necessità di firmare autorizzazioni, anche edilizie, senza aver potuto vedere con i propri occhi dove e cosa si intenda costruire. Fino al caso limite di Pompei, dove da sei mesi il ministero non ha nominato il dirigente, come ha denunciato "Repubblica". Soldi non cene sono nemmeno qui. I turisti diminuiscono e molte zone dello scavo devono restare chiuse al pubblico. Una fune blocca l'accesso al sito dei fuggiaschi, finanziato dal Fio e ancora inaccessibile. Sono i corpi dei sopravvissuti alla prima eruzione, uccisi poi dai fanghi mentre tentavano di scappare. Un patrimonio dell'umanità che nessuno può vedere, mentre sui giornali finiscono le inchieste della procura di Salerno su presunte irregolarità nell'uso dei fondi Ue. A Ercolano la musica è simile. C'è il museo Antiquarium, costato miliardi di lire già negli anni Settanta e mai aperto. E ci sono oltre 4 mila reperti che giacciono in qualche magazzino. Lontano dai milioni di curiosi che da tutto il mondo pagherebbero caro per vederli. «La situazione di Roma, Pompei ed Ercolano è gravissima perché la mancata conservazione significa favorire il decadimento del nostro patrimonio. Assurdo in un Paese che fonda il suo benessere sul turismo. E’ come per la Fiat: gli investimenti non dovrebbero essere considerati un costo, ma una fonte di guadagno e invece in Italia tagliano addirittura i mezzi di trasporto dei tecnici, costringendoli a stare negli uffici e poi lamentandosi, come fa Brunetta, se fanno le parole crociate«, denuncia il presidente dell'istituto nazionale di Archeologia Adriano La Regina.

MUSEI NEL CAOS. La scura è uguale per tutti. Dai musei di arte contemporanea, fino alle grandi istituzioni nazionali. A Reggio Calabria non hanno più i soldi nemmeno per il restauro della "casa" dei Bronzi di Riace. Per finire i lavori in tempo, entro il 2011, servono 9 milioni di euro in più e così rischia di saltare pure il tour mondiale annunciato dal manager Mario Resca. I numeri sembrano migliorare rispetto all'anno nero 2009. Ma proprio per questo fermare gli investimenti adesso potrebbe essere letale. Chi ripete che la colpa è del Sud se va sempre tutto male, sappia che a Verona va anche peggio. In terra leghista i reperti preistorici del museo di Storia naturale venduto dal Comune per farci un parcheggio, marciscono in una cantina e, per colpa della muffa, sono diventati blu. Alle biblioteche arriverà poco più di un milione, l'82 per cento in meno del previsto, quando fra gli scaffali ci sarebbe bisogno di ben altro. Mentre Regioni e Comuni strapagano le scuole di dialetto dal Piemonte, al Veneto al Friuli, l'Accademia della Crusca non ha un finanziamento stabile, la Biblioteca di Firenze ha rischiato la chiusura, la Treccani ha minacciato di abolire il Biografico, la memoria della cultura italiana.

MELODRAMMA NEL DRAMMA. Stretta sulle assunzioni e tagli alle retribuzioni anche all'Opera. I toni melodrammatici della Finanziaria Tremonti non risparmiano nemmeno chi quel canto ha reso celebre. Alla firma del decreto sugli enti lirici, è seguita la più imponente raffica di scioperi del Dopoguerra. Alla Scala di Milano è apparsa una bara, a Napoli hanno recitato il funerale della cultura, al Regio di Torino s'è formata una catena umana composta da centinaia di lavoratori del teatro e il coro dell'Accademia di Santa Cecilia ha annullato il concerto a San Pietro. E mentre Riccardo Muti parla di «delitto« riferendosi alla mannaia ministeriale sui fondi per la musica d'eccellenza italiana, la crisi sta scritta nei numeri: la Fenice produce un terzo rispetto a Monaco di Baviera, la Scala un quarto rispetto a Vienna. E nei foyer le orchestre improvvisano concerti di protesta. Proprio come sul Titanic della cultura italiana che affonda.

Così si cancella la nostra identità, colloquio con Salvatore Settis

Daniela Minerva

Blocco del turn over. Sovrintendenze senza vertici. E un taglio del 5 per cento al fondo ordinario. Così le opere d'arte, i monumenti, i siti archeologici che sono l'anima stessa dell'Italia sono abbandonati al degrado da un governo pop, tutto televisione e décolleté. Con quali conseguenze? Lo abbiamo chiesto a Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, uno dei più autorevoli antichisti del mondo.

Professor Settis, cosa succede a un paese che dismette il suo patrimonio culturale?

«La situazione è gravissima. Basti pensare che le due istituzioni più grandi del Paese che gestiscono le aree archeologiche più importanti del mondo, quella di Roma e quella di Pompei, sono senza un sovrintendente. Non si fanno i concorsi e man mano che le persone vanno in pensione si creano dei vuoti che si traducono nell'impossibilità di mantenere un patrimonio così vasto e capillare come il nostro. Non solo: questa idea di poter sostituire i sovrintendenti con soluzioni temporanee, anche nominando un prefetto in pensione come è accaduto all'area vesuviana, è grottesca. Per tener dietro a Pompei ci vuole un archeologo non un prefetto”.

Lei sembra suggerire che più che di denaro sia una questione di sine cura del governo.

«Le sovrintendenze dei beni culturali e archeologici funzionano benissimo da oltre un secolo. Tutto il mondo ce le invidia. Ma oggi sembra che le si voglia chiudere. Perché, si dice, si deve risparmiare. E da qualche tempo, se si deve risparmiare è sulla cultura che si decide di farlo, giacché la si considera un optional. Quando, invece, non lo è neppure se si vuole soltanto mettere l'accento sull'economia”.

I beni culturali come drive per l'economia?

«Il premio Nobel Amarthya Sen e diversi economisti hanno ormai dimostrato che la produttività di un Paese si promuove rafforzandone l'identità civica. Che noi abbiamo solidissima proprio grazie alla nostra identità culturale: un senese come un leccese o qualunque cittadino di questo Paese è fiero di essere tale anche per l'enorme e straordinario patrimonio culturale che lo circonda e di cui è parte. Se perdiamo i nostri beni perdiamo la nostra identità”.

Il governo non sembra esserne consapevole.

«Ma nemmeno l'opposizione. Sono colpito dalla totale assenza di dibattito pubblico su questa emergenza. I partiti, di tutti i fronti, hanno completamente marginalizzato la cultura. Mentre è solo creando una maggiore consapevolezza nell'opinione pubblica che si può intervenire. Unitamente, è ovvio, al fatto che si mettano a disposizione dei fondi per ripristinare organici e mezzi delle sovrintendenze”.

Non pensa che anche dentro le sovrintendenze possano esserci stati degli sprechi?

«Non lo escludo. Ma bisogna dimostrarlo e bisogna razionalizzare le spese in baso a ciò che si è scoperto. Altrimenti, con la scusa degli sprechi, mai dimostrati e analizzati, si sfascia tutto”.

A molti sembra che, nell'attuale contingenza economica, si debba fare ricorso ai finanziamenti privati.

«Che già ci sono, e grazie ai quali stiamo restaurando molte opere d'arte, ad esempio. Ma il patrimonio è e deve restare pubblico. E allora: perché un privato dovrebbe erogare ingenti fondi se poi non lo si fa entrare nella gestione del patrimonio? In altri Paesi fondazioni e imprese finanziano il patrimonio culturale perché ne hanno benefici fiscali. E questo è un buon modo di procedere. Ma ogniqualvolta ci si è provato, in Italia, il ministero del Tesoro ha posto il veto perché, si è detto: non è sostenibile fiscalmente. Ma proviamo a pensare se non ci fossero 120 miliardi di evasione. Se tutti pagassero le tasse, allora resterebbero i soldi per tutto”.

Pompei. «Illegittimi gli atti della Protezione civile»

Marco Imarisio

«Sebbene la situazione di criticità dell'area archeologica di Pompei non sia di per sé riferibile a recenti calamità naturali, gli eventi eruttivi del 79 dopo Cristo non ci permettono di escludere i presupposti per la dichiarazione dello stato d'emergenza». Lo scorso 20 luglio Giacomo Aiello ci ha provato. In fondo un bravo avvocato deve essere anche capace di sostenere tesi ardite. Ma per il consigliere giuridico della Protezione civile quella che propugnava l'impossibilità degli enti locali di garantire da soli la salvaguardia del patrimonio culturale degli Scavi perché alcuni anni fa, 1.931 ad essere pignoli, «si è verificato il noto disastro ambientale», si presentava piuttosto in salita.

Nella stessa udienza davanti alla Corte dei conti, i rappresentanti legali del ministero della Cultura volavano più basso, sostenendo che la dichiarazione dello stato di emergenza per l'area archeologica di Pompei era dovuto «allo stato di disordine del sito, nonostante l'impegno encomiabile del Sovrintendente a razionalizzare l'azione amministrativa e la gestione per garantire servizi efficienti». La delibera emanata il 10 agosto non premia gli sforzi fatti dagli avvocati per giustificare i due anni di gestione del sito sotto l'ombrello della Protezione civile. Le ordinanze seguite alla dichiarazione dello stato d'emergenza, «dedicate in tutto o in parte alla situazione della predetta area archeologica» sono da ritenersi «illegittime». In pratica, la Corte dei conti stabilisce che l'intera gestione 2008-2010 degli Scavi di Pompei «non sembra rispondere all'esigenza di tutelare l'integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell'ambiente dai danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi o da altri grandi eventi, che determinino situazioni di grave rischio».

Alla fine si torna sempre a quel nodo, all'ampliamento dei poteri e delle competenze della Protezione civile deciso dal governo nel 2008. C'è una coerenza, nell'indirizzo della Corte dei conti, che nelle sue sentenze ha più volte contestato la patente di «Grandi eventi» e di «Grave pericolo» — il decreto su Pompei risale al 4 luglio 2008 — che rendono possibile alla Protezione civile l'emissione di ordinanze svincolate dal controllo preventivo dell'organo che si occupa di certificare le spese pubbliche. Anche qui, i magistrati contabili escludono la natura di atto politico non sindacabile della dichiarazione dello stato d'emergenza.

Su Pompei, poi, nessun dubbio. «In molte delle iniziative autorizzate con le ordinanze in questione non si ravvisa la presenza dei presupposti di emergenza». Tra queste iniziative autorizzate e gestite dalla Protezione civile c'è anche la mostra dal titolo «Pompei e il Vesuvio, scienza, conoscenza ed esperienza», che costituisce uno dei capisaldi dell'esposto presentato alla procura di Torre Annunziata dalla Uil, per via del costo finale, 619.000 euro incassati da Comunicare organizzando, «una delle società più impegnate dalle strutture della Protezione civile attraverso affidamenti e incarichi diretti», così si legge nella denuncia. La Corte dei conti si limita a ribadire che «il rilancio dell'immagine del sito archeologico nel contesto nazionale e internazionale» citato nell'ordinanza della Protezione civile come principio fondante della mostra, non rientra nelle competenze del Dipartimento, neppure in quelle «allargate» sulla gestione degli eventi straordinari.

«Pur dando atto che la situazione dell'area archeologica e delle zone circostanti presenta aspetti di criticità, non sembra che sia possibile ritenere giustificato l'intervento della Protezione civile». La Corte dei conti conclude così, sottolineando come nessuna delle ordinanze in questione risponda a criteri di «grave danno o rischio». Ormai è andata, scrivono i giudici con malcelata irritazione. La delibera è anche una ammissione di sconfitta, ogni tanto tergiversare paga. La Corte chiedeva da più di un anno di ricevere la documentazione di ogni singola ordinanza dal ministero della Cultura e dalla Protezione civile. Risposta sempre negativa, in nome dello «stato di emergenza», al punto che solo una volta che esso si è concluso, lo scorso 30 giugno, è stato possibile recuperare gli incartamenti.

Fuori tempo massimo, naturalmente. «Non può ignorarsi che, di fatto, tutti i provvedimenti di cui è stata chiesta (inutilmente) la trasmissione al controllo preventivo di legittimità hanno già compiutamente esaurito la loro operatività. Occorre domandarsi se abbia ancora senso sottoporre in via postuma quegli atti a un controllo che, per definizione, dovrebbe essere preventivo». Come a dire che, ancora una volta, si riesce ad intervenire, ma soltanto a buoi ampiamente scappati dalla stalla.

Il neo sovrintendente lascerà l'incarico a fine anno

Alessandra Arachi

È accorato Sandro Bondi, ministro per i Beni culturali, nella conferenza stampa che ha convocato ieri al suo dicastero. Prende in mano un editoriale del Corriere della Sera che parla del degrado di Pompei e scuote la testa «E’ tutto falso. C'è il rovesciamento della verità. A Pompei sono state fatte tante cose concrete». Sandro Bondi, però, è particolarmente dispiaciuto per la storia del sovrintendente: il Corriere ha scritto che un sovrintendente a Pompei non c'è, è scaduto, e che c'è soltanto un reggente, da lontano. «È tutto falso», sbotta il ministro Bondi. E spiega: «La sovrintendente è stata appena nominata, la dottoressa Jeanette Papadopoulos, con la quale vogliamo lavorare e abbiamo tanti progetti in cantiere». E allora come mai la dottoressa Papadopoulos è stata nominata soltanto fino al 31 dicembre di quest'anno? Come si fa a portare avanti tanti progetti in cantiere in poco più di due mesi? Inutile fare questa domanda adesso al ministro. Dopo aver parlato è uscito dalla stanza.

La conferenza stampa in effetti è stata particolarmente lunga. Hanno preso la parola in tanti, a cominciare da Marcello Fiori che è stato per due anni il commissario straordinario di Pompei, quindi Andrea Carandini, presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, e ancora Giuseppe Proietti che è stato «il reggente» di Pompei dal 31 maggio al 28 settembre 2010. Ma perché avvicendamenti di così breve periodo alla guida di una sovrintendenza tanto importante? In attesa che il ministro rientri nella stanza, impegnato in una telefonata urgente, è il segretario generale del ministero Roberto Cecchi che tenta di dare alcune risposte.

Dice che loro sono stati «obbligati dalla legge» a nominare persone sull'orlo della pensione, in attesa di un avviso interno che da più di un anno non viene bandito e che sarà bandito a novembre anche per Napoli, Roma e Firenze. Per fortuna rientra il ministro Bondi. E a lui che ripetiamo la domanda: «Come mai la sovrintendente è stata nominata soltanto per poco più di due mesi?». Sandro Bondi non ha esitazione: «Io di queste nomine dei sovrintendenti non so assolutamente nulla e mi rifiuto anche di seguirle, queste cose, perché mi fido totalmente dei miei collaboratori».

L'ex commissario Marcello Fiori «Zone vietate ai turisti? Falso, é tutto visitabile»

Alessandra Arachi

Marcello Fiori, lei è stato commissario per oltre un anno a Pompei. «E in questo periodo i visitatori sono cresciuti del 12 per cento, i ricavi da biglietteria del 15 per cento e le visite scolastiche del 4o per cento». Ma è vero che il sito è quasi in stato di abbandono, come riportato dalla stampa? «Dico che in due anni di commissariamento è stato fatto davvero tanto per Pompei». Per esempio? Le Terme Suburbane sono state restaurate ma sono ancora chiuse. «Non sono chiuse. Si possono visitare per appuntamento. Magari ci sarà stato un cretino in biglietteria che dava informazioni sbagliate”.Tra gli altri restauri terminati ci sarebbe anche l'Antiquarium che, però, non è ancora aperto al pubblico ... «Aprirà a fine novembre»

Molte polemiche sono nate sui lavori per il Teatro Grande... «Quello è un progetto dove io non c'entro niente, lo hanno fatto i sovrintendenti».

Perchè sono rimasti i camerini in lamiera? E tutti quei tubi innocenti accatastati ? A cosa servono? «Beh, a niente. Devono essere tolti».

El otro cataclismo de Pompeya

Irene Hdez. Velasco - El Mundo

Hace exactamente 1931 años la ciudad romana de Pompeya quedó sepultada bajo la lava del Vesubio. Y ahora esa zona arqueológica, considerada por muchos como la mas importante del mundo y declarada en 1997 por la Unesco Patrimonio de la Humanidad, se enfrenta a otro importante cataclismo: la incompetencia de los responsables culturales italianos. Desde hace varios años, Pompeya se encuentra en una situación de grave deterioro. La basura inunda el lugar, florecen los falsos guías que se aprovechan de los turistas, se multiplican los restaurantes sin licencia que incumplen las normas de higiene... Por no hablar de las fosas sépticas excavadas a pocos metros de las antiguas murallas de la ciudad, levantadas hace 2.000 años. O de las columnas de antiguas viviendas romanas restauradas (por decir algo) a base de cemento y hormigón.

La situacion ae Pompeya era tan terrible y desesperada que, en julio de 2008, el Gobierno de Silvio Berlusconi decidió intervenir, nombrando un responsable de Protección Civil que se encargara de su-pervisar lo que ocurria en la zona. Pero el remedio esta resultando aún peor que la enfermedad.

No es sólo que los ilustres miembros del Observatorio italiano del Patrimonio Cultural se echen las manos a la cabeza por el modo en el que ha sido restaurado el Teatro Grande de Pompeya, construido en la primera mitad del siglo II a. C. y ampliado posteriormente. «La intervención en el teatro es una auténtica e inconcebible masacre, Ilevada a cabo en el interior de uno de los monumentos arqueológicos mas significativos de la Humanidad», denuncia Antonio Irlando, responsable de esa organización, mientras se echa las manos a la cabeza por los materiales modernos que se han empleado en la restauración de ese edificio v lo excesiva que ha sido la intervención. No es únicamente que, según denuncian los sindicatos, las obras de reparación del Teatro Grande se hayan disparado hasta un 40% del presupuesto inicial, desatando las sospechas de corrupción. De hecho, una investigación judicial esta indagando si hubo chanchullos varios con los materiales y los métodos con los que se llevaron a cabo esos trabajos durante el año, basta junio pasado, que Marcello Fiori fue el comisario especial de Protección Civil para Pompeya.

Pero, por si todo eso no bastase, la zona arqueológica esta desde hace seis meses sin nadie al frente. Y el Unico candidato cuyo nombre suena para el cargo, Angelo Maria Ardovino, esta siendo investigado por la fiscalía de Salerno por un presunto delito de corrupción. Ante esta situación, no es de extranar que buena parte de la prensa italiana se haya lanzado a la yugular del ministro de Cultura, Sandro Bondi, como responsable final del desastre que se esta escenificando en Pompeya. «Degradacion y derroches: Pompeya, sin gufa desde hace seis meses», titulaba un demoledor articulo a toda pagina que publicó el domingo La Repubblica. Y ayer el Corriere della Sera dedicaba al asunto su editorial de portada, bajo el título La humillación de Pompeya.

Guzzo: a Pompei uomini di cultura

Carlo Franco - Corriere del Mezzogiorno

«Basta con i commissari che vengono da altri mondi, Pompei ha bisogno di tornare alla sua normalità, cioè alla cultura. Oggi valgono altre regole e i risultati si vedono». La voce severa e ammonitrice è di Pietro Giovanni Guzzo, il soprintendente che venne mandato a casa il 31 agosto del 2009, due mesi dopo aver ricevuto dall'Accademia dei Lincei un premio per il lavoro svolto a Pompei. Da allora è iniziato un ciclo nuovo che avrebbe dovuto favorire la «rinascita» di Pompei, annunciata dal premier Berlusconi e rivendicata a più riprese dal ministro Bondi. Gli obiettivi raggiunti, però, secondo Guzzo, che continua a subire molte critiche, non sono stati pari ai soldi profusi e in più si è assistito al varo di una sorta di Disneyland pompeiana che ha avuto il suo punto più alto nella casa di Giulio Polibio poi interessata dal crollo di una trave.

In questo lasso di tempo Guzzo si è tenuto in disparte, ma ora ha deciso di non sottrarsi alle domande del giornalista. La sua ricetta è drammaticamente semplice: «A Pompei serve un soprintendente che venga dal mondo culturale, che sia di ruolo ordinario ma abbia gli stessi poteri attribuiti al commissario». Sembra facile, ma non lo è come testimoniano le adesioni straripanti comparse in questi giorni sul sito «Stop killing Pompei ruins». Nel mondo si piange il degrado irreversibile del sito archeologico più amato ma da noi si continua a mostrare indifferenza e a ripetere che tutto va bene madama la marchesa. Ma non la pensa allo stesso modo anche una guida che non va a caccia del turista, ma è inserita in un circuito che lavora alla luce del sole: «Normalità — sostiene Franco — vuole dire curare la manutenzione di ogni giorno, servono meno muratori e più restauratori accreditati, meno puntelli (ci sono ancora quelli del terremoto di 30 anni fa), meno chiodi a pressione che bucano pareti provatissime, meno insegne in puro stile californiano e servizi più curati di quelli fatti recentemente».

Luigi Necco, freschissimo responsabile del servizio cultura del Pd provinciale, è più tecnico ma ugualmente incisivo: «Quando c'erano i soldi hanno fatto il Teatro grande che era funzionale al progetto di delegare alla protezione civile la gestione della cultura e dello spettacolo, ma ora i nodi vengono al pettine. Ed è giusto deplorare l'eccesso di servizi aggiuntivi che filano lungo binari più scorrevoli». Ma contro questa tesi si scaglia la senatrice del Pdl Diana De Feo che difende, al contrario, i risultati della gestione commissariale. E ora ritorniamo nella città degli scavi. Ieri è stato il primo giorno di lavoro del nuovo soprintendente, la signora Jeannette Papadopoulos, ma l'attesa di novità è andata delusa perché il funzionario si è barricata nel suo ufficio e ha detto che incontrerà i giornalisti solo tra qualche giorno.

Speriamo bene, anche se è arduo convincersi che un solo soprintendente possa gestire un'area archeologica che va da Sorrento a Cuma passando per le isole. Guzzo dice che non è possibile («Bisogna rinvigorire Pompei e riorganizzare il Museo Archeologico di Napoli che deve essere il terminale del territorio culturale») e Necco rincara la cose: «Basta prendersi in giro, servono due Soprintendenti». Entriamo nella città degli scavi dalla porta Marina e il primo impatto dolente lo subiamo al cancello della casa del Poeta tragico dove c'è il famoso mosaico del «Cave canem» fatto comporre dal proprietario. È pericolosamente inclinato, alcune tessere sono saltate e i turisti che hanno occhi per vedere e sensibilità per capire restano esterefatti anche perché passano in una zona tutta transennata nella quale s'impatta in una serie di puntelli di ferro che con il brutto tempo si sono pericolosamente arrugginiti. Pare che resistono dal terremoto dell'80. Un altro scandalo è la chiusura delle Terme Suburbane.

La chiusura dura da otto anni — dice sempre Franco — e il turista che ha voglia di immergersi nell'atmosfera della Pompei prima della distruzione viene tolto un contributo fondamentale». A conti fatti l'unico intervento ineccepibile è il percorso per i portatori di handicap. Nonostante tutto, però, i turisti sono sempre lì a dimostrare l'eccezionalità del sito. In un martedì feriale, senza crociere in giro per il golfo, ieri si contavano a migliaia e avrebbero meritato migliore sorte. Pompei, ad esempio, è uno dei pochi siti al mondo dove si fa ancora la fila per il biglietto d'ingresso e anche quei pochi che riescono a comprare on line il ticket sono tenuti a mettersi in riga per ritirarlo.

Capita anche questo e Pietro Giovanni Guzzo ha una spiegazione che convince: «L'obiettivo che mi ero proposto era aprire Pompei e gli altri siti vesuviani al mondo, avevamo stretto un rapporto proficuo ad Ercolano con la Fondazione Packard e altrettanto potremmo fare ora con la postazione dell'Ermitage di San Pietroburgo che si è insediata a Stabiae. Questa è la strada, riprendiamola». Con lei soprintendente? «No, facciamo largo ai giovani, io posso mettere a disposizione, se serve, la mia esperienza».

Pompei. Restauri infiniti e costosi. Chiuso il gioiello dei Vettii

Alessandra Arachi - Corriere della Sera

Negli scavi di Pompei non c'è bisogno di andare a caccia di scandali lungo tutti i sessantacinque ettari di beni archeologici a cielo aperto, patrimonio dell'Umanità. Per deprimersi è sufficiente fare come un turista pigro. Girare appena poche centinaia di metri attorno al Foro. E’ il posto che è proprio all'incrocio degli assi principali del nucleo originale, il Foro. Il fulcro della città antica. Il perno della folla dei turisti, cinquemila ogni giorno, in media. La desolazione, tuttavia, assale già all'ingresso delle rovine. Non soltanto per le toilette degne di un campo di concentramento. O per le guide turistiche più o meno autorizzate che ti vengono incontro a frotte, con ogni lingua conosciuta. E’ che appena arrivi, la guida cartacea ti sbandiera come prima visita la bellezza delle Terme. Inutilmente. Sono chiuse, da chissà più quanto tempo. Come l'Antiquarium, mai aperto per ospitare le migliaia di reperti archeologici prigionieri e impolverati dentro i Granai del Foro. Da sempre.

I turisti si accalcano neanche fossero mosche attorno al miele pur di rubare foto di statue o di capitelli o di chissà che ben di dio è custodito dentro le cassette di plastica, lì all'interno di quei Granai chiusi con sbarre arrugginite. I cani randagi (che in tanti continuano ad aggirarsi indisturbati per le rovine antiche) amano fare la pipì sopra quelle sbarre. Camminare attorno al Foro per crederci. Le strade antiche sbarrate senza alcun cartello che spiega il perché. Palizzate divelte. Cumuli di calcinacci dentro botteghe mai restaurate. Uno degli zuccherini del giro turistico (versione pigra) è senza dubbio il tempio di Apollo. Qui lo stato di degrado non è, tanto e soltanto, una questione di etica o di decoro.

C'è un problema serio di sicurezza. Basta alzare gli occhi sotto le volte per capire. Oppure guardare le colonne che si sgretolano, pezzo dopo pezzo. Di solito cadono in terra pezzettini piccoli di quelle colonne. Ma chi può impedire che si stacchi un lastrone per intero? Addosso a qualche turista inerme? Continuiamo a camminare. Adesso in direzione delle porte di Ercolano. Vicolo delle Terme. Vicolo della Follonica. Sono tante, ancora, le case chiuse, sbarrate con i lucchetti. Nella Casa del Poeta Tragico c'è il famoso mosaico del Cave Canem. Ci sarebbe. Perché non si può vedere, visto che anche questa casa (inutilmente contrassegnata dal numero 22 dell'audio guida) è chiusa. Ma andiamo avanti. Fiduciosi verso la Casa dei Vettii: era stato annunciato un grande restauro. La guida cartacea ci spiega che i Vettii erano ricchi e liberti. Ci invoglia a guardare le pitture d'ingresso che evidenziano auspici di prosperità. E dove spicca la figura di Priapo, dio della fertilità. E una pruderie morbosa questa figura mitologica con il suo grande membro posato sopra il piatto di una bilancia a far da contrappeso al denaro. Ma arrivati all'ingresso della Casa dei Vettii, la delusione deborda nella rabbia. Non soltanto non si può ammirare nemmeno l'ombra di Priapo. Ma l'unico denaro che possiamo vedere è quello scritto in cifre sul cartello all'ingresso che segnala il restauro: 548 mila euro per dei lavori inaugurati il 27 agosto del 2008 che avrebbero dovuto essere terminati nel 2009.

Non è dato sapere in quale mese del 2009 avrebbero dovuto chiudere il cantiere: sul cartello dei lavori, qualcuno sopra la data ci ha voluto scrivere «vergogna» con una penna a biro. Comunque siamo nel 2010, e anche verso la fine, e della Casa dei Vettii ci rimane soltanto la veduta di una infinita montagna di impalcature dove non c'è segno di un operaio o di un qualsiasi qualcosa che dia il senso di alcun lavoro in corso. Quando eravamo passati davanti alla casa del Naviglio di Zefiro e Flora (chiusa) un operaio l'avevamo visto: si aggirava lungo le impalcature senza alcuna misura di sicurezza. E senza alcuna preoccupazione. Andiamo avanti. Continuiamo a girare. La via Stabiana è lunga Adesso osiamo.

Mettiamo da parte la pigrizia, andiamo oltre la sequela di botteghe senza arte né parte, case dagli intonaci che vengono giù come le gocce di pioggia, e allunghiamo il passo. Dritti per dritti lungo la bella (e miracolosamente rimasta originale) via Stabiana si arriva al Teatro Grande. Ci aveva fatto soffrire il Teatro Grande di Pompei in una gita di fine primavera Per i lavori di restauro erano stati usati, senza pudore, martelli pneumatici e ruspe, scavatrici, betoniere. Cavi elettrici che bucavano le colonne. Turisti increduli davanti a tanto scempio. Il Teatro Grande è stato restaurato e inaugurato. Ricostruito ex novo con blocchetti di tufo moderno. In tanti esperti in quei giorni avevano gridato allo scandalo per un bene trattato come fosse il cantiere di una cava di marmo. Ma alle obiezioni era stato replicato che il tufo era reversibile. Che sarebbe stato tolto, prima o poi.

Corriamo a vedere il Teatro Grande. Ovviamente i blocchetti di tufo sono ancora tutti lì. Ha qualche senso logico spendere milioni di euro per mettere quei blocchetti di tufo e altrettanti soldi per toglierli, poi, nel giro di qualche settimana, terminata la stagione estiva degli spettacoli? Le casette di lamiera allestite per i camerini, però, almeno quelle sarebbe stato possibile portarle via. Sottrarle alla vista. Come i tubi in ferro accatastati lì, a mucchi. A che cosa servono? Torniamo indietro al Foro, mesti. Vicino ai Granai c'è un cagnone nero che ci viene incontro, ci lecca la punta della scarpa, si avvia a fare i suoi bisogni nel luogo deputato. Sentiamo la stessa esigenza. E accanto ai Granai abbiamo la prima buona notizia della visita: nella caffetteria nuova le toilette sono pulite e ordinate. Si può fare la pipì illudendosi di essere in un posto civile.

Non passa giorno senza che qualcuno ci ricordi di come l'Italia custodisca la maggior parte dei beni artistici e archeologici del pianeta. Ma meritiamo davvero un simile onore? Il dubbio sorge, osservando quello che accade a Pompei. Da tempo il Corriere del Mezzogiorno sta documentando lo scempio di alcuni «restauri» a base di colate di cemento e l'incuria che regna nell'area immensa degli scavi. Con la protesta montante attraverso i social network, come sta a dimostrare il record di adesioni a una pagina di Facebook che si chiama «Stop killing Pompei ruins». Al punto che viene da chiedersi: ma se quel tesoro ce l'avessero gli americani, oppure i francesi o i giapponesi, lo tratterebbero allo stesso modo? Il fatto è che quell'area archeologica unica al mondo è purtroppo il simbolo di tutte le sciatterie e le inefficienze di un Paese che ha smarrito il buon senso e non riesce più a ritrovarlo. O forse semplicemente non vuole, affetto da una particolare forma di masochismo.

Che però ha responsabili ben precisi. «Le istituzioni preposte alla tutela dei beni culturali sono costantemente umiliate da interessi politici ed economici del tutto privi di attenzione per la salvaguardia di quella che è la maggiore ricchezza del nostro Paese» ha denunciato qualche tempo fa Italia Nostra. Ed è proprio difficile dargli torto: quando proprio a Pompe. l'indifferenza della politica si tocca con mano. Per due anni, con la motivazione del degrado in cui versa l'area, hanno spedito lì il commissario della solita Protezione civile Con il risultato di «commissariare» nei fatti anche la Sovrintendenza. E già questo non è normale (che c'entra la Protezione civile con gli scavi archeologici?). Ma ancora meno normale è il fatto che da mesi, ormai, Pompei sia senza una guida. A giugno il commissario è scaduto. Mentre a ottobre il sovrintendente ancora non c'è. O meglio, il posto è tenuto in caldo da un reggente in attesa del titolare.

Che però il ministero dei Beni culturali non nomina. Perfino inutile interrogarsi sui motivi di questa paralisi. Viene addirittura il sospetto che nella stanza dei bottoni nessuno si renda conto di avere fra le mani una risorsa economica enorme in una regione che ha disperato bisogno di lavoro e sviluppo. Per dare un'idea dell'attenzione riservata a questa materia basterebbe ricordare che dal 2004 a oggi il governo non è stato nemmeno in grado di mettere in piedi un portale nazionale di promozione turistica degno di tal nome. Nonostante i milioni (non pochi) spesi.

Per verificare, fatevi un giretto su www.italia.it, dove la pratica pompeiana è liquidata in 66 parole, senza nemmeno una foto: «Per l'eccezionalità dei reperti e il loro stato di conservazione, l'Unesco ha posto sotto la sua tutela l'Area archeologica di Pompei ed Ercolano, che nel 79 d.C. furono completamente distrutte dal Vesuvio. La lava vulcanica segnò la loro distruzione ma, solidificandosi, la stessa lava che le distrusse divenne un'eccezionale "protezione" che ha preservato gli straordinari reperti, riportati alla luce molti secoli dopo». Stop. E poi c'è chi si lamenta che con il 70% delle bellezze artistiche e naturali di tutto il mondo continuiamo a scivolare in basso nelle classifiche internazionali del turismo...

Il fallimento della società nata per sostenere l’attività del Mibac e naufragata fra scandali, scarsa trasparenza e inefficacia operativa. Da Il Giornale dell’Arte, settembre 2010 (m.p.g.)

Dure critiche sui criteri dei finanziamenti elargiti in modo discrezionale a destinatari privilegiati. Dopo lo scandalo dei soldi a Propaganda Fide (edificio fuori dal suolo nazionale, secondo il Concordato), sempre più in crisi la società che gestisce il 3 per cento dei soldi di Stato per le

grandi opere infrastrutturali.


In sei anni di vita la società Arcus, nata per «sostenere e avviare progetti ambiziosi riguardanti i beni e le attività culturali», ha erogato soldi dello Stato per 400 milioni di euro, 200 dei quali per il triennio 2010 -12, distribuiti a iniziative di ogni tipo, soprattutto restauri edilizi ma anche a teatri, collegi, fondazioni (compresa quella del Banco di Napoli, 500mila euro per il suo archivio storico digitale), istituti,

accademie, associazioni e poi mostre, festival, etc.

L'assegnazione di questa considerevole quantità di denaro avviene da sempre in modo giudicato poco trasparente attraverso Arcus, società formalmente privata, ma di proprietà del Ministero dell'Economia, gestita da quello delle

Infrastrutture in accordo con il Mibac. Nel depresso panorama di tagli e risparmi all'osso imposti alla cultura, Arcus è una ricca anomalia: incassa infatti il 3 per cento delle «grandi opere», i finanziamenti pubblici alle infrastrutture del Paese. Funzionamento ed esistenza della società sono sotto accusa dalla nascita, nel 2004.

Pesanti critiche sono arrivate dal Consiglio Superiore per i Beni culturali, da associazioni come Italia Nostra e da ogni relazione annuale della Corte dei Conti. Fino al 2008 la destinazione dei fondi veniva decisa direttamente dai Ministeri

in modo del tutto discrezionale. Arcus eseguiva. Poi il Mibac ha

finalmente deciso che chi vuole i soldi di Arcus deve presentare una domanda motivata e passare attraverso una istruttoria. Dovrebbe presto essere varato un vero «piano di indirizzi», sollecitato dal Consiglio Superiore per i Beni culturali, per vincolare le scelte. Da notare che nessun atto della società è mai passato in Parlamento negli ultimi due

anni. È stato così anche per i 200 milioni dell'ultimo stanziamento triennale di Arcus (2010-12).

Su circa 1.200 domande, sono stati finanziati 206 progetti: ragioni e criteri di scelte e bocciature restano vaghi, affidati a «estratti» di poche righe. Ha suscitato scandalo il

mancato finanziamento all'Abruzzo del terremoto. Tre i progetti approvati (un convento a Tagliacozzo, archeologia al Fucino e ad Amiternum). Italia Nostra aveva proposto di destinare tutti i 200 milioni di Arcus al restauro del patrimonio artistico abruzzese. Pochissimi soldi alla Calabria (2 progetti: 1 milione), al Friuli Venezia Giulia (3 progetti: 4,6 milioni), al Molise (3 progetti: per 2,6 milioni). Superfavorito il Lazio con 38 finanziamenti per 30,907 milioni di euro, oltre a ben 15,8

milioni per valorizzazione e rilancio di Cinecittà. Spiccano due strutture romane: la Pontificia Università Gregoriana (1 milione e mezzo, oltre ai 2 milioni già stanziati da Arcus nel 2005 e ad altri 900mila sempre di fondi statali dell'8 per mille tra 2007 e 2008) e il Palazzo di Propaganda Fide (ristrutturazione finanziata con 5 milioni nel 2005 e 2006 non ancora interamente versati), entrambi inseriti per il Concordato nell'elenco degli edifici del Vaticano considerati territorio straniero in Italia.

A giugno il caso Arcus è esploso con fragore mediatico intrecciandosi agli scandali immobiliari legati alla Protezione Civile (cfr. lo scorso numero, p. 4) prendendo spunto proprio dal palazzo romano di Propaganda Fide. Secondo la Procura di Perugia, la sua ristrutturazione è stata finanziata da Arcus con 5 milioni sulla base di uno scambio di «favori» con l'allora

ministro alle Infrastrutture Pietro Lunardi, cogestore di Arcus. Per avere quel finanziamento, afferma la procura, il cardinale Crescenzio Sepe, prefetto di Propaganda Fide, ha venduto a Lunardi un edificio della Congregazione a prezzo stracciato. Lunardi e Sepe sono ora indagati per corruzione.

Alla vicenda giudiziaria si è aggiunto l'intervento della Corte dei Conti. In giugno ha notificato ai vertici di Arcus la richiesta di risarcimento del «danno erariale» per «finanziamento improprio» (Lo Stato non poteva finanziare la ristrutturazione di un palazzo all'estero). La decisione di quel finanziamento spettava ad Arcus. Ma lo stesso direttore della società, Ettore Pietrabissa, ha chiarito che i tecnici di Arcus non possono mettere in discussione le scelte dei politici». Dopo lo scandalo, Bondi ha bloccato l'ultima tranche di 500mila euro a Propaganda Fide almeno fino a quando nel palazzo non sarà aperta al pubblico (pare a

fine ottobre) la pinacoteca (prevista della convenzione del 2007 con Arcus), la cappella dei Re Magi e la biblioteca di Borromini. Bloccata da Bondi anche l'erogazione del milione e mezzo di euro per il rifacimento del cortile della Pontificia Università Gregoriana (anch'essa territorio estero).

L'esistenza di Arcus, ente pagatore senza potere, soggetto a

decisioni discrezionali, appare sempre meno giustificata. Per la Corte dei Conti si limita a distribuire denaro a pioggia, secondo la vecchia logica delle sovvenzioni statali, senza né coordinamento né visione strategica.

Intanto restano un rebus le verifiche e i controlli, soprattutto cartacei, sull'esito dei finanziamenti e i risultati raggiunti. Arcus ha un organico molto ridotto e si fa aiutare sul campo dalle direzioni regionali del Mibac. «E' un carrozzone da smantellare», dice Gianfranco Cerasoli, componente del Consiglio Superiore per i Beni culturali, segretario Uil del settore: la gestione del denaro andrebbe trasferita al Mibac. Si risparmierebbero così anche il costo della sede e gli stipendi: 2 milioni all'anno. Da luglio Arcus ha un nuovo presidente, l'ambasciatore Ludovico Ortona, che sostituisce Salvatore Italia dimissionario a marzo poco prima delle inchieste. Intanto il Governo non ha ancora presentato la relazione sull'attività di Arcus nel 2009, come vuole la legge.

È difficile sostenere che la cultura possa essere esentata dai drastici risparmi che l'equilibrio dei bilanci pubblici impone a tutti. Ed è inutile rimpiangere il fiume di denaro sciupato nel passato per beni culturali fasulli, in massima parte non meritevoli di così nobile classificazione. Beni non apportatori delle sostanze nutritive vitali con cui la cultura contribuisce alla buona salute di un Paese. I tagli dunque potrebbero perfino essere accolti con sollievo se servissero finalmente a staccare l'ossigeno ad attività pretestuose della cui privazione oggi e domani nessuno patisce, se non i diretti destinatari di denaro pubblico che serviva esclusivamente alla loro sussistenza personale.

Parassiti culturali. Lo scandalo Premio Grinzane Cavour è esemplare. Quei tagli dovevano essere fatti da tempo. Oggi comunque potrebbero venire considerati una salutare pulizia se basati su valutazioni consapevoli, caso per caso, della qualità di quanto debba essere sostenuto a qualsiasi costo e di quanto invece possa essere eliminato senza rimpianto. Tagli benvenuti dunque se imponessero uno stop definitivo alle cosiddette e maledette erogazioni a pioggia, espressioni del sistema di un Paese da secoli strutturato sulla cortigianeria e sulla mendicità intellettuale. Di un Paese sostanzialmente assistenziale. Da ciò reso pusillanime, pigro, servile e corrotto. Un Paese ben rappresentato dai personaggi impersonati da Totò e Alberto Sordi.

Il sistema delle sovvenzioni era molto apprezzato dai detentori del potere economico e politico perché garantiva la sottomissione remissiva di un settore vocazionalmente inquieto e critico che in se stesso coltiva germi di pericolose virulenze. Ma per selezionare occorre una conoscenza sicura dei prodotti e delle attività, una competenza che soltanto la pratica della cultura può dare, una severità rigorosa capace di prescindere da qualsiasi giudizio che non sia una valutazione del merito e della qualità. Nessuno degli uomini politici e degli amministratori che ci governano sembra dotato di tali requisiti, di un'autentica consuetudine, esperienza e frequentazione della cultura. Chi non usa la cultura nella propria vita privata, chi non l'ha resa parte integrante della propria esistenza quotidiana, chi quindi non sa quanto essa sia essenziale non meno del cibo e delle vesti, è improbabile che possa operare con sapienza chirurgie che possono risultare letali per il benessere profondo del Paese. Ad esempio, erano state finanziate quantità assurde di libri vanitosi, inutili, pleonastici, velleitari e dispendiosi. Eppure il libro è tuttora il principale deposito e vettore di cultura: non dovremmo finanziarne più nessuno? Alcune fondazioni e governatorati regionali hanno deciso così. Su cento libri, non è totalmente sciocco, per i 98 da gettare, negare ai due o tre meritevoli il supporto di cui hanno bisogno per esistere ed essere divulgati?

Il fatto è che fondazioni e Regioni dopo aver detto di sì a tutti ora trovano più comodo dire di no a tutti. Per risanare un'azienda occorrono, ma non bastano, tagli; di soli tagli un'azienda soccombe. Occorre innovazione, capacità di riforme spesso non costose, ma semplicemente intelligenti. Tagliare con una mano, creare con l'altra. Questa è la forza e il senso della politica, il talento del governare. Di innovazioni non vediamo il minimo segnale. Questo giornale cerca con fatica di mantenersi distaccato da pregiudizi, luoghi comuni e schieramenti di parte, finge di ignorare comportamenti e linguaggi inadeguati, imbarazzanti per la loro volgarità, limitatezza, convenzionalità e oscurantismo, ma basta scorrere la squallida cronaca degli ultimi mesi perché chiunque possa farsi un giudizio della pessima qualità, dell'incredibile mal governo dei beni culturali in Italia. Ecco l'agghiacciante sequenza (nessuno osi dire che il Governo è inattivo nei beni culturali):

Restauratori

La riforma (quasi 2Omila domande giunte) appare fatalmente destinata a impantanarsi in una dimensione che denota colpevole imprevidenza mettendo a repentaglio una tradizione professionale in cui l'Italia è ancora leader.

Parchi nazionali.

La stessa ministra Prestigiacomo ha minacciato di chiuderne almeno metà se non verranno annullati i tagli di bilanci che erano già insufficienti. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Letta, incalzato da Giulia Maria Crespi del Fai, ha suggerito di promuovere una campagna stampa. Il braccio destro del capo del Governo! Se ci crede, non può pensarci lui?

Arcus.

Doveva alimentare in via sussidiaria i beni culturali, ora è sospettata di usi impropri, arbitrari e non prioritari. Leggete la lista integrale delle elargizioni in questo numero comprende casi e privilegi veramente imbarazzanti.

Beni demaniali.

L'elenco di dodicimila edifici e luoghi da trasferire in nome del federalismo terrorizza le amministrazioni periferiche (Regioni e Comuni) che li equiparano in gran parte ad altre bocche da sfamare rifilate a chi non ha pane abbastanza per se stesso. Di fatto espone edifici rilevanti e paesaggi all'abbandono oppure al rischio di usi devastanti per l'inevitabile soccombenza a interessi particolaristici che localmente (per di più in condizioni di indigenza) non paiono arginabili e controllabili. Fatto sta che lo Stato si alleggerisce di colpo di una mole pesantissima di beni di rilevanza culturale. Intanto, le città di Firenze e di Roma si sbranano con il Ministero per la spartizione dei biglietti del David e del Colosseo. E’ solo l'inizio del federalismo culturale.

Permessi edilizi.

L'avvento dopo le Dia delle Scia (licenze di costruire con semplice autodichiarazione) rappresenta il comodo cedimento della classe dirigente alla propria inettitudine riformatrice, alla propria incapacità di imporre la faticosa riforma di un'asfissiante burocrazia. Diventa quasi impossibile il controllo delle Soprintendenze. La sciagurata pratica del «silenzio assenso» per le attività edilizie significa nel Paese più delicato del mondo l'abbandono all'anarchia del paesaggio (già dimezzato e devastato negli ultimi sessant'anni), del patrimonio edilizio e dei centri storici. Di fatto è un autocondono.

Il fotovoltaico.

La tolleranza di un regime folle di incentivazioni dì insediamenti non regolati costituisce la minaccia di un cancro distruttivo di paesaggi agricoli ancora bellissimi e incoraggia l'abbandono di pregiate colture incontaminate da secoli. In pratica, si annuncia la replica di ciò che le serre sono state per la deturpazione del paesaggio. Liguria docet.

Questi sono soltanto alcuni e più vistosi comportamenti dell'attuale politica italiana. Berlusconi, Tremonti (che tace ma agisce) e Bondi certamente hanno loro problemi, meriti e talenti, ma di fatto nel settore artistico e culturale dimostrano cinica e terrificante incomprensione o indifferenza per le vere esigenze di tali beni malgrado il loro grande valore, rivelandosi persone stranamente prive di sensibilità e dimestichezza culturale (al di là di vacue e tronfie dichiarazioni di circostanza che ormai non riescono a ingannare neppure il più ottuso seguace. Ma è possibile che sia soltanto questa, così nefasta e spericolata, così cinica, la nostra «politica» nei beni culturali? Consoliamoci: sono state anche varate le ricompense per gli sponsor che dovranno finanziare i restauri del Colosseo. Uno dei principali simboli e richiami turistici del Paese) e il direttore Resca ha predisposto le gare per la gestione delle fonti di introiti per 25 musei e luoghi archeologici (biglietterie, negozi, pubblicazioni, mostre). Sono iniziative necessarie e indispensabili (da sole non giustificherebbero l'aver creato un'apposita Direzione). Passi che tali gare siano tanto restrittive da far temere d'esser state anch'esse progettate ad personam (anzi ad aziendam: lo scandalo è che gli italiani non si scandalizzano più), ma appaiono mostruosamente caratterizzate da un solo obiettivo, da una monomaniaca ossessione: lo «sfruttamento». In questo modo di fare politica la redditività dei beni artistici sembra essere l'unico valore ammesso. Una concezione davvero rozza e riduttiva per un Paese assai dotato di arte e bellezze come l'Italia.

Zero assoluto invece per riforme che sarebbero davvero necessarie e innovative. Per esempio, modificare la legislazione affinché la gestione degli introiti non sia più centralizzata ma venga assegnata a ciascun museo renderli autonomi perché assumano la responsabilità diretta del proprio successo e della propria conduzione. Premiare i dirigenti in relazione a iniziative e risultati. Restauratori, parchi nazionali, beni demaniali, paesaggio, edifici e centri storici, culture agricole tradizionali: sono capacità professionali, beni e temi a dir poco capitali del patrimonio nazionale (nostra vera, unica ricchezza), che ci accingiamo a perdere irrimediabilmente. Perderli è una prospettiva spaventosa. Perderli per un deliberato banditismo o per rapina sarebbe orribile e doloroso, come subire una violenza, come una guerra persa, ma perderli per insipienza o incompetenza di qualcuno cieco e sordo (o, se preferite, ignorante e arrogante) è irritante in misura insopportabile. Tutto ciò che uccide la nostra cultura, uccide la capacità di difendere e conservare quanto rendeva ancora diversa, ancora bella, ancora attraente la nostra Italia. Non s'illuda, caro lettore, non è uno scherzo. Nessun pentimento, nessun lieto fine a sorpresa. E la condanna a una morte certa dalla quale non sarà possibile resuscitare.

Prima l’allarme per l’Accademia della Crusca, ora quello per la Nazionale. Beni dello Stato, patrimonio culturale dell’Italia, che non hanno più neppure i soldi per pagare gli stipendi o saldare le bollette. Che ne pensa presidente Rossi?

«Che non possiamo permetterci di assistere a questo sfascio. Quello che sta accadendo sotto i nostri occhi non saprei definirlo in altro modo che un progressivo e inarrestabile svuotamento dello Stato. Vado al ministero dell’Industria e non trovo un ministro, vado all’Anas e mi dicono che non ci sono i soldi per fare le strade, vado ai Beni culturali per farmi tramite di appelli disperati e anche lì allargano le braccia impotenti».

A Ida Fontana, direttrice della Nazionale, il ministero avrebbe garantito i fondi per l’apertura pomeridiana delle sale almeno fino a marzo. E Bondi propone un piano d’emergenza per integrare lo scarso personale utilizzando come bibliotecari ex dipendenti dell’Eti, l’Ente teatrale chiuso da luglio.

«Ma non è in questo modo che uno Stato provvede a una delle sue istituzioni più importanti. La Nazionale è un bene fondamentale, servono fondi veri per tenerla in vita e permetterle di funzionare a pieno ritmo. Come si può pensare che il pomeriggio sia chiusa? Sarebbe normale che stesse sempre aperta piuttosto, quale altro luogo sennò andrebbe reso accessibile a tutti a qualsiasi ora? Mi chiedo perché di fronte a questo nessuno s’indigni. Secondo me le coscienze dovrebbero ribellarsi».

Il governo taglia su tutto, dove trovare i soldi?

«Perché l’Italia non mette a gara le frequenze del digitale come hanno fatto gli altri paesi? Forse perché quelle frequenze fanno comodo al signore che ci governa e che invece di preoccuparsi di finanziare la Nazionale sta smantellando lo Stato?».

Ida Fontana è venuta a parlare anche con lei, però.

«E io l’ho ricevuta e le ho detto che faremo tutto il possibile per aiutarla, anche se la Regione sta scontando le enormi difficoltà imposte dai tagli del governo. Abbiamo anche parlato di un paio di proposte che, mi rendo conto solo a parlarne, sono del tutto inadeguate ai bisogni. La prima è quella di supportare associazioni di volontariato che formino giovani in biblioteconomia, potrebbero imparare sul campo e dare una mano al personale, una sorta di servizio civile insomma. L’altra idea è di chiedere a qualche nostro custode, su base volontaria, di spostarsi alla Nazionale, senza sguarnire la Regione naturalmente. Si tratterebbe di qualche unità, vedremo».

Crusca e Nazionale fanno parte del patrimonio dello Stato. Secondo Schiavone e Primicerio la loro gestione non si può "delegare" e neppure pensare che concedere l’autonomia sia sufficiente.

«Anche questo è paradossale. Lo Stato dà l’autonomia a Nazionale, Riccardiana, Marucelliana, Medicea Laurenziana, Governativa di Lucca, Universitaria di Pisa. Per cosa? Per poi abbandonarle a se stesse. Autonomia non vuol dire abbandono».

Il sistema Italia può reggere ancora in queste condizioni?

«Non credo proprio. Questo smantellamento dello Stato sta modificando nel profondo la struttura materiale del paese. Non importa fare colpi di Stato per ottenere effetti devastanti sulla tenuta democratica e civile, per cambiare le cose è sufficiente che lo Stato perda le sue funzioni primarie. E tutto questo a fronte di capitali che vengono importati dall’estero pagando appena il 5 per cento di tasse e di liquidazioni milionarie che, certamente, vanno ad importanti personalità ma che evidenziano sempre di più la gigantesca sperequazione sociale».

Cosa risponde a Bondi?

«A lui bisogna rivolgere la famosa battuta usata nella contestazione studentesca: "Una risata vi seppellirà"».

«Apprezzo la buona volontà del ministro Sandro Bondi di trovare una soluzione in calcio d’angolo, ma finchè il ministro non tratterà le questioni di Firenze in modo unitario e organico, il governo sarà esposto, giorno dopo giorno, a figuracce sulla stampa». Il sindaco Matteo Renzi reagisce così le iniziative prese dal ministro per «salvare» la Nazionale. Come dire, quello che serve alla città è ben altro.

«Una volta il David, una volta il Maggio, una volta è la Nazionale, una volta sono le scritte sui muri dell’Accademia e degli Uffizi. Noi siamo pronti a collaborare, ma loro devono smetterla di inseguire i problemi senza trovare soluzioni definitive», dice il sindaco. Uno scontro Firenze-Roma? Lo vedremo l’8 ottobre, quando Renzi incontrerà proprio il ministro Bondi. Un incontro già fissato da qualche giorno per discutere di tutte le questioni aperte: dalla legge speciale al teatro della musica. Adesso anche della biblioteca.

Renzi ricorda di aver già fatto presente al sottosegretario Bonaiuti il caso della biblioteca: «Riproporrò l’argomento a Bondi: purtroppo il Comune non è proprietario dell’immobile né della biblioteca: possiamo solo fare una pressione politica». Del resto, «la biblioteca rientra nel pacchetto della specialità di Firenze, di quelle cose cioè che rendono Firenze una realtà eccezionale. Lo hanno capito tutti, speriamo lo abbiano capito anche i ministri del governo che avevano promesso a Firenze una legge speciale».

Sulla vicenda v. anche l’ articolo di ieri su eddyburg

Signor ministro, quella che si appresta a leggere è l’ennesima lettera che le viene indirizzata di questi tempi per lamentare le tristi condizioni economiche che affliggono un’istituzione culturale. Sono d’accordo con lei: c’è qualcosa di insopportabilmente petulante non scevro di una vaga supponenza in queste lamentele in nome della cultura. La cultura: una roba — come senz’altro deve averle detto più di una volta qualche suo collega in Consiglio dei ministri — che non produce un centesimo ma sta sempre a chiedere soldi.

Di soldi, questa volta, ha bisogno, un urgente e disperato bisogno, la Biblioteca Nazionale di Firenze. La Biblioteca — non sto certo a dirlo a lei, che di sicuro lo sa benissimo, ma a qualche lettore distratto — è la nostra massima istituzione libraria, il luogo della Penisola dove è conservata la stragrande maggioranza del nostro patrimonio a stampa specie degli ultimi due secoli. Oltre ai libri di ogni tipo, giornali, riviste, opuscoli: tutto ciò che in Italia si è pensato e scritto da un certo momento in avanti sta qui, in questi depositi, in questi schedari, in queste sale. Per far funzionare e mantenere le quali è stato speso quest’anno 1 milione circa di euro, cui il suo ministero ha contribuito con la cifra modesta di 716 mila euro (escluso il pagamento degli stipendi): cifra modesta in sé e tanto più, vorrà convenirne, rispetto all’importanza dell’istituzione finanziata. Che però, ciò nonostante, l’anno prossimo si vedrà decurtare la cifra suddetta a meno della metà: 350 mila euro. Si aggiunga, per completare il quadro, il blocco del turn over: in cinque anni il personale della Biblioteca è diminuito del 60 per cento.

Il risultato lo si può immaginare. La catalogazione dei libri, ripresa solo grazie alla generosità del Monte dei Paschi, copre solo il 10 per cento (il 10 per cento!) dei volumi pubblicati negli ultimi due anni; dappertutto arredi vecchi che cadono a pezzi, scarsa pulizia e per finire — e quel che più conta — è stato annunciato che ormai restano in cassa solo poche decine di migliaia di euro per pagare il personale della ditta che si occupa della distribuzione dei volumi al pubblico, il cui contratto scade alla fine di novembre. Dopo, quindi, bisognerà ridurre drasticamente anche gli orari di apertura della Biblioteca. In pratica, per un’istituzione come questa, l’inizio della fine.

Vede, signor ministro, se i soldi non ci sono, non ci sono, chi non lo capisce? (naturalmente per un certo tipo di cose non mancano mai, ma lasciamo perdere) e dunque nessuno intende farle una colpa di una cosa (l’entità del bilancio del suo ministero) che non dipende certo da lei. Ciò che però colpisce — che almeno colpisce le persone come me che hanno un qualche interesse diretto in questo genere di faccende — è il modo tranquillo, mi viene da dire quasi disinvolto e distratto, spesso addirittura infastidito verso chi se ne lamenta, con cui lei vive e rappresenta all’esterno questa situazione di penuria.

Lei è niente di meno che il ministro preposto all’arte, al cinema, ai musei, ai teatri, alle biblioteche, di un Paese che non è il Paraguay o il Madagascar (degni peraltro del più incondizionato rispetto), ma che è l’Italia. Lei sa che senza quelle cose, senza i musei, le biblioteche, il cinema, l’opera, l’Italia non è niente. «Noi» non siamo niente. Senza di esse anche la nostra storia, anche l’oggi citatissimo e celebratissimo Risorgimento, non significano più nulla, l’Italia scompare. Ma non solo l’Italia (come forse a qualcuno piacerebbe). Scompaiono anche, mettiamo, la provincia di Verona o quella di Bergamo; le quali senza le cose di cui stiamo dicendo diventerebbero nient’altro che due floridi distretti economici senza passato, senza radici, che potrebbero stare qui come in Cina o in Romania. Ricchi ma insignificanti: come tutto ciò che non ha identità.

Vede, signor ministro, nessuno le chiede di darsi fuoco per protesta davanti al ministero del Tesoro. Ma il Paese — per essere più modesti almeno quella sua parte che condivide il contenuto di questa lettera — le chiede se non altro di condividere pubblicamente le sue preoccupazioni, di dare a esse voce intervenendo nell’arena pubblica non solo per stigmatizzare questo o quell’indirizzo ideologico a lei sgradito. Ci acconteremmo che lei non si stancasse di spiegare all’opinione pubblica e alla classe politica che ogni euro sottratto alle biblioteche, ai musei, al cinema, ai teatri, è una ferita aperta nella nostra storia. Insomma: alla fine non le chiediamo altro che di condividere una pena, di partecipare a un dolore. Mi creda, se lei lo facesse sarebbe già moltissimo. Con il mio ossequio.

I beni statali, la cui esecuzione risalga ad oltre cinquant’anni, non fatti oggetto di formale “verifica”, sono automaticamente esclusi dai trasferimenti di cui al dlgs. 85/2010.

Le dichiarazioni responsabili che hanno accompagnato l’avvio del procedimento di attuazione della delega hanno rassicurato sulla esplicita volontà del Consiglio dei Ministri di escludere dai trasferimenti previsti e disciplinati dallo speciale provvedimento legislativo tutti i beni del patrimonio storico e artistico appartenenti allo Stato. E un tale fermo proposito è ben espresso nel tenore testuale del comma 2 dell’articolo 5 del decreto che comprende “i beni appartenenti al patrimonio culturale” tra quelli (pur di diversa natura) “in ogni caso esclusi dal trasferimento”, fatta salva ovviamente la disciplina ordinaria del Codice dei beni culturali (che a certe condizioni e previe apposite autorizzazioni ammette il trasferimento dei beni appartenenti al demanio culturale dallo Stato a Regioni ed enti pubblici territoriali locali, anche in funzione di uno speciale accordo di valorizzazione).

Ebbene, il consecutivo comma 3 che rimette alle competenti Amministrazioni dello Stato la formazione (entro il termine di tre mesi) degli “elenchi dei beni di cui esse richiedono l’esclusione” non riguarda i beni culturali, come tali già obbiettivamente identificati secondo il Codice dei beni culturali e perciò automaticamente esclusi. A questi infatti, come a quelli di cui al consecutivo comma 7 (in dotazione alla Presidenza della Repubblica, nonché in uso a Camera, Senato e Corte Costituzionale), non può concettualmente riferirsi l’espressione con cui inizia il comma 3: “Ai fini dell’esclusione di cui al comma 2, le amministrazioni statali …” e ad essi non si applica per certo, con la stringente successione dei tempi, il procedimento di analitica identificazione dei beni esclusi, che vale per le altre amministrazioni e per i beni di appartenenza statale di diversa natura. Con riferimento a questi ultimi, soltanto, la identificazione in concreto è necessaria, perché implica un apprezzamento discrezionale, perciò “adeguatamente motivato” e vagliato dalla Agenzia del demanio che “può chiedere chiarimenti in ordine alle motivazioni trasmesse”, secondo le testuali espressioni del primo e del secondo periodo dello stesso comma 3.

E’ appena il caso di osservare che il patrimonio culturale di appartenenza pubblica — e segnatamente statale — è coperto dalla presunzione di cui al primo comma dell’art. 12 del Codice dei beni culturali e del paesaggio e dunque tutti i beni pubblici espressione di un’opera la cui esecuzione risalga ad oltre cinquant’anni sono assoggettati alle disposizioni di tutela (fanno cioè parte del patrimonio culturale) se non sia intervenuta una esplicita verifica negativa dell’interesse culturale. Il patrimonio culturale di appartenenza pubblica non è costituito dunque dai soli beni per i quali sia intervenuto un esplicito riconoscimento positivo, ma pure da tutti quelli (e sono la grande parte) la cui esecuzione risalga ad oltre cinquant’anni per i quali non sia stata eseguita la formale verifica (e fino cioè a un eventuale provvedimento di accertamento negativo).

Sembra dunque in pratica impossibile la formazione di un elenco analitico esauriente dei beni statali appartenenti al patrimonio culturale; e poiché, come già si è osservato, la esclusione di tali beni dal trasferimento non dipende dall’esercizio di un potere discrezionale delle amministrazioni di appartenenza, ma discende dalla cogente previsione legislativa, sulle “amministrazioni statali” non grava l’onere di richiederne la esclusione (come per certo, altra esclusione di legge, per i beni in dotazione alla Presidenza della Repubblica e quelli in uso a Camera, Senato e Corte Costituzionale). I beni culturali statali, esclusi per legge, neppure conseguentemente dovranno figurare nel provvedimento di definizione dell’elenco dei beni esclusi dal trasferimento che l’art.5, comma 3, quarto periodo, rimette al direttore dell’Agenzia del demanio.

E dai conclusivi provvedimenti del Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 3, comma 3) che formano gli elenchi dei beni trasferibili, adottati entro il 23 dicembre 2010, saranno esclusi tutti i beni culturali come sopra intesi (pure quelli dunque la cui esecuzione risalga ad oltre cinquant’anni non fatti oggetto di formale verifica) e tale esclusione il Ministero per i beni culturali dovrà rigorosamente far valere nel previsto concerto con il proponente Ministro dell’economia e delle finanze.

Giovanni Losavio, Presidente della sezione di Modena di Italia Nostra

Postilla

In un Paese di amministrazione efficiente e rigorosa la nota di Giovanni Losavio apparirebbe pleonastica: non qui, non adesso, purtroppo.

L’equivoco su cui si gioca questa partita, ovvero sia la possibilità dei trasferimenti previsti dal federalismo demaniale per quanto riguarda il nostro patrimonio culturale rischia di trovare un’ampia sponda nell’atteggiamento generalizzato di laissez faire che caratterizza ormai l’azione del Ministero Beni Culturali almeno per quanto riguarda l’apparato dirigenziale.

All’accondiscendenza istituzionale a cui sono improntate le decisioni delle Soprintendenze territoriali si sommano, in questo caso, le ataviche lacune presenti nell’Amministrazione centrale del Ministero che, in oltre trentacinque anni di attività, non è riuscita a produrre non solo alcun catalogo del nostro patrimonio culturale, ma neppure un sistema decoroso di gestione e aggiornamento della propria documentazione.

Il Ministero non possiede, ad esempio, né a livello centrale, né a quello periferico, alcun elenco completo, aggiornato e georeferenziato dei vincoli da lui stesso emanati.

Un’ involontaria, amara ironia sembra infine connotare l’affermazione conclusiva di questa esemplare nota giuridica, laddove si dà per scontata la capacità di difesa (“dovrà rigorosamente far valere”) delle ragioni del nostro patrimonio culturale, pur costituzionalmente preminenti, nei confronti di quelle economiche, da parte di un Ministero ridotto all’assoluta irrilevanza politica.

In questa situazione il pericolo di dismissioni improprie e generalizzate diviene molto concreto e l’apparente solidità della protezione offerta dal dettato legislativo può trasformarsi in una fragile copertura facilmente superabile in re.(m.p.g.)

Si livella il terreno distruggendo le strutture sottostanti. Nessun intervento del Commissario Delegato alle aree di Ostia e Roma. Beni in rovina nel XIII Municipio e nel Comune di Fiumicino. Gli unici interventi in 2 anni: manutenzione del verde e i servizi igienici del Teatro di Ostia. Presentato esposto alla procura di Roma.

"Le aziende di 'prato pronto' che operano nell'area di Pianabella, dietro il cimitero di Ostia Antica, stanno distruggendo secoli di storia, senza che il Commissario Delegato per le aree archeologiche di Roma e Ostia Antica, Roberto Cecchi, dica nulla". Questa l'accusa di Andrea Schiavone, Presidente dell'Associzione Culturale Severiana. "L'area in questione, l'ultima tra le tante, è quella prospiciente l'Azienda Bindi. La recente preparazione del terreno per produrre il cosidetto 'prato pronto', che si impiega nei giardini privati e nei campi di calcio, ha distrutto probabilmente resti di un sepolcro romano, identificato sul posto per la presenza di un cumulo". Le foto testimoniano la notevole quantità di materiale archeologico 'grattato' via dal terreno. Anse e fondi di anfore, lastre di marmo, tegole e resti di sepolture in terracotta. In quel tratto correva infatti la Via Laurentina che, uscendo da Ostia Antica, era costellata di tombe, fino a raggiungere il ponte sul Canale dei Pescatori dove si unificava con la via costiera detta Severiana. "E' inammissibile che proprio la Soprintendenza di Ostia abbia autorizzato questo scempio, senza effettuare alcun controllo - continua Schiavone -. Domani presenteremo un dettagliato esposto alla Procura di Roma e al Commissario Delegato".

Ricordiamo che con Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3774/2009 l’arch. Roberto Cecchi è subentrato al Sottosegretario di Stato Guido Bertolaso (OPCM 3747/2009), dimessosi dall’incarico a seguito dell’emergenza dovuta al rovinoso evento sismico dell’Abruzzo (aprile u.s.). Il commissariamento era stato motivato per la realizzazione di interventi urgenti necessari al fine di superare la situazione di grave pericolo in atto nelle aree archeologiche di Roma e Ostia Antica. Ad oggi, per quanto riguarda il XIII Municipio e il Comune di Fiumicino (aree di competenza della ex Soprintendenza di Ostia), nessuna misura diretta alla messa in sicurezza e alla salvaguardia dei beni è stata pianificata e neppure opere di manutenzione straordinaria e consolidamento per impedire il degrado dei beni e per consentire la piena fruizione da parte dei visitatori. Le uniche voci che risultano nel secondo rapporto settembre 2009-febbraio 2010 del Piano degli Interventi, sono le seguenti: manutenzione del verde nell'area archeologica degli scavi e i 'servizi igienici del Teatro di Ostia Antica'. In totale, 129 mila euro. Intorno è degrado e distruzione.

Pompei, sono due le inchieste aperte sui lavori e le condizioni degli Scavi

la Repubblica, ed. Napoli, 19 agosto 2010

La gestione emergenziale degli scavi di Pompei a firma dell'ex commissario straordinario Marcello Fiori finisce nel mirino di due inchieste aperte dalla Procura di Torre Annunziata. La prima riguarda le condizioni del sito archeologico e i lavori di restauro effettuati durante il commissariamento ed è scattata dopo la denuncia di un professionista. Le verifiche necessarie sono state affidate alla Guardia di finanza che, intorno ai primi giorni di settembre, consegnerà i dati e i risultati preliminari. La seconda concerne gli accertamenti partiti dopo la ricezione dell'esposto consegnato dalla Uil per contestare supposte anomalie gestionali attuate con il metodo della protezione civile. Nel documento sottoscritto dal segretario generale della Uil ai beni culturali, Gianfranco Cerasoli, spiccano presunte contraddizioni e perplessità, "insofferenza rispetto alle reiterate richieste avanzate in tema di trasparenza", la supposta invasività degli interventi sulla cavea del teatro Grande, "completamente costruita ex novo con mattoni in tufo di moderna fattura", la richiesta di delucidazioni in merito a conti e parametri organizzativi di staff di supporto e manifestazioni.

Accuse che, naturalmente, la magistratura analizzerà, per appurarne la veridicità. Una questione cruciale da approfondire con estrema cautela. «La tutela del patrimonio dell' intera area di nostra competenza, soprattutto dal punto di vista paesaggistico-ambientale, - dice il procuratore Diego Marmo - è un tema prioritario per noi. Così come la difesa di Pompei, una ricchezza culturale di eccezionale rilevanza, tesoro dell'intera umanità. Di conseguenza, svilupperemo le indagini con puntualità, prudenza ed attenzione. E senza fare sconti a nessuno, come sempre accade».

Pompei, ecco le nuove "rovine" - Tubi, cemento, ponteggi, martelli pneumatici: le foto degli scavi violati

la Repubblica, ed. Napoli, 20 agosto 2010

Pompei viva? «Pura spettacolarizzazione». E il Teatro grande? «Uno scempio. Non esiste più, ha subìto uno stravolgimento totale che viola il buon senso ed esula da ogni logica di restauro conservativo. Adesso sembra un’arena da villaggio turistico. Per fortuna, l’operazione è reversibile…». Antonio Irlando, architetto responsabile dell’Osservatorio patrimonio culturale, racconta da una prospettiva dura gli interventi effettuati nel sito archeologico, in due anni di gestione emergenziale. «La gradinata in tufo moderno della cavea non ha mai trovato riscontri come dato archeologico. E ora gli unici pezzi originali "superstiti" restano i tratti in pietra di colore chiaro. Il codice dei beni culturali è finito tra i piedi, per una condotta simile e in luoghi meno pregiati, cittadini comuni sarebbero stati denunciati immediatamente».

I retroscena del cantiere «svelano un approccio approssimativo e inammissibile». Invasività documentata nelle tante fotografie scattate. «L’uso diretto e aggressivo di pale meccaniche, martelli pneumatici, bobcat. Locali bagno ricavati dalla trasformazione di ambienti archeologici, posa in opera di ampi tralicci e, elemento gravissimo, la perforazione dei muri degli scavi per permettere il passaggio di cavi e tubi. Dopo una nostra lettera spedita al ministero, dove segnalavamo le devastazioni rilevate e chiedevamo ufficialmente il ripristino dello stato dei luoghi, la procura di Torre Annunziata ha aperto un´inchiesta che si affianca all´indagine partita dopo l’esposto firmato dalla Uil».

La polemica prosegue sugli esiti. «Rifunzionalizzazione, è la parola abusata dal commissario Fiori. Ma in termini di restauro non significa nulla». Tutto da rifare, in sintesi. «Sicuramente la pavimentazione del quadriportico realizzata con spesse platee di cemento, lungo i lati perimetrali. Chiamano in causa il cocciopesto ma molti professionisti nutrono seri dubbi…». E un’arena discussa. «Il progetto ordinario contemplava un investimento di 460mila euro ma si è superata la soglia dei 5 milioni, secondo le dichiarazioni rilasciate dal ministro Bondi. L’emergenza - sostiene Irlando - costituisce un’opportunità sprecata perché le decisioni si sono mosse verso percorsi rapidi, circoscritti e di impatto, sottraendo fondi e possibilità di rilancio ad attività integrate e durevoli. E lo scopo del commissariamento, in principio, doveva essere riscattare gli scavi dall’abbandono. Ma il futuro si garantisce con la conservazione, la qualità, la crescita sul lungo periodo del patrimonio e lo sviluppo del territorio circostante, non attraverso slogan, spot e ridondanze». Una frecciata al decoro urbano e al cantiere fruibile dei Casti amanti. «Non si comprende la funzionalità dei cancelli sparsi ovunque con il logo "Pompei viva" in evidenza che, fra un anno, necessiteranno di manutenzione. E lascia perplessi il bombardamento di informazioni, immagini e pannelli nella domus dei Casti amanti. Il sito è già lì. È come se si percepisse l’urgenza di dimostrare di aver speso fondi».

Ed è ancora emergenza, sulla scia di condotte che ricordano il passato. «Intere fasce di scavi versano nel degrado - accusa Irlando - la zona tra via dell’Abbondanza e via di Nola, a ridosso della casa del Menandro e di porta di Stabia. Un tempo si attendeva che nel pieno di una crisi piovessero soldi dalla Cassa del Mezzogiorno. Le consuetudini non mutano. Il modello innovativo è, invece, puntare sulla manutenzione ordinaria quotidiana». Un potenziale trampolino per l’occupazione. «Centinaia di operai specializzati, restauratori e tecnici senza lavoro potrebbero trovare a Pompei un impiego stabile - dice Irlando - formare una squadra di assistenza per fronteggiare le esigenze continue che gli scavi impongono. Invece si lanciano grandi eventi ed annunci, come quando arrivava in visita un principe o un regnante e si fingeva di scoprire un vaso o gli si dedicava una casa. Aspettiamo la venuta del presidente del Consiglio da mesi, annunciata già numerose volte. Chissà - conclude - forse per l´occasione Pompei si mostrerà davvero viva…».

La recente polemica tra la Corte dei conti e la Protezione civile sulla gestione dell’emergenza a Pompei dimostra due cose: la prima è il fallimento di tutte le riforme della pubblica amministrazione degli ultimi anni; la seconda è che l’emergenza è diventata il modo ordinario per spendere soldi pubblici in deroga alla legislazione vigente. Ma andiamo con ordine. Da sempre in caso di catastrofi naturali, terremoti, inondazioni, epidemie ecc. è possibile spendere soldi pubblici per fronteggiare il pericolo immediato e per assistere e mettere al sicuro le popolazioni colpite.

È evidente che i controlli sulle spese effettuate in queste circostanze non possono che essere successivi all’effettivo impiego dei fondi che certo non può attendere i tempi lunghi della contabilità di Stato. La sostanza dell’emergenza, dunque, dal punto di vista dell’amministrazione, consiste nella deroga alle procedure ordinarie giustificata dalla straordinarietà degli eventi. Insomma accade nel pubblico quello che accade normalmente in una famiglia quando si trova a dover affrontare una malattia, un incidente, un evento imprevisto che costringa a mettere mano al portafoglio per poter fronteggiare la situazione. Ma chi decide se un evento è straordinario oppure no? Nel caso di terremoti o di altre catastrofi è del tutto intuitivo. Il problema nasce quando l’emergenza è costituita dalla necessità di realizzare un evento considerato straordinario nei tempi rapidi legati a scadenze non rinviabili. In questo caso è l’amministrazione pubblica che valuta di non essere in grado di rispettare i tempi e di raggiungere gli obiettivi con le procedure ordinarie.

Così il ricorso alle procedure derogatorie è andato via via estendendosi, di pari passo con il giudizio negativo dell’amministrazione su se stessa e sulle proprie capacità. Ecco la spiegazione del primo punto. Le riforme della Pubblica amministrazione degli ultimi anni tra cui le famose leggi Bassanini - che, come affermato dallo stesso autore, furono concordate parola per parola con Franco Frattini, già Consigliere di Stato ed esperto di riferimento di Forza Italia - non hanno affatto restituito efficienza ed efficacia all’azione amministrativa ordinaria. Tanto che gli eventi affidati all’amministrazione straordinaria sono andati col tempo aumentando di numero e di importanza fino a ricomprendere una regata velica internazionale, i mondiali di nuoto o una visita del Papa, cioè eventi che in altri tempi sarebbero stati normalmente affidati alle amministrazioni pubbliche competenti per materia e territorio.

Ma l’estensione del giudizio negativo dell’amministrazione su se stessa è andata al di là di ogni immaginazione comprendendo situazioni di grave degrado, di incuria e di abbandono provocate dall’inefficienza della stessa amministrazione. È così che nasce il caso di Pompei dove la Pubblica amministrazione, nonostante le numerose riforme, non è stata in grado di proteggere e valorizzare ed offrire in condizioni decenti agli italiani e ai turisti di ogni parte del mondo uno dei siti archeologici più importanti e più visitati del pianeta. Lo strumento cardine della legislazione sulla Protezione civile è quello della deroga alla legislazione ordinaria che restituisce efficacia e rapidità alla spesa pubblica.

Ma se si autorizza la Protezione civile a intervenire con procedure straordinarie anche per porre rimedio ai disastri provocati dall’inefficienza di un altro ramo della stessa pubblica amministrazione, quale sarà il prezzo finale che il Paese dovrà pagare all’incapacità di realizzare una seria riforma della macchina burocratica?

Gli scavi di Pompei sicuramente necessitano di interventi, ma non tali da chiamare in causa "calamità naturali" o "grandi eventi". Eppure per l'area archeologica lo scorso anno è stato dichiarato lo stato di emergenza, permettendo così alla Protezione civile di emettere delle ordinanze senza il preventivo controllo della Corte dei Conti. La magistratura contabile è intervenuta oggi con una delibera nella quale ribadisce i propri dubbi sulla considerazione di quegli atti come attinenti a una calamità o un grande evento e sulla loro conseguente esclusione dal controllo. Anche se alla fine alza le mani perché parecchie di quelle delibere sono ormai in esecuzione e quindi il controllo "preventivo" di fatto non è più possibile.

Il governo ha sempre difeso invece la scelta di sottoporre gli scavi alle delibere della Protezione civile, che possono derogare dalle leggi ordinarie, chiamando in causa addirittura la pericolosità del Vesuvio, "vulcano ancora attivo". La Corte dei Conti già in passato era intervenuta più volte per contestare la decisione di escludere dalle normali procedure di controllo eventi che poco hanno a che fare con le grandi calamità. Fu il caso per esempio della Vuitton Cup, considerata grande evento e per questo esclusa dai controlli preventivi. E queste come molte altre sono poi finite in una vasta inchiesta che ha preso di mira la Protezione civile e, in particolare, la gestione Bertolaso 1 di emergenze, catastrofi e appalti.

Anche sulla storia degli scavi di Pompei la Corte torna a ribadire che "il dipartimento della Protezione civile non può svolgere qualsiasi attività" ma solo quelle "finalizzate alla tutela dell'integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell'ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi o da altri grandi eventi, che determinano situazioni di grave rischio".

La Corte dei Conti prende allora in considerazione le delibere della Protezione civile, una per una, per sottolineare come in molti casi non rispondano a quei criteri di "grave danno o rischio" che possano giustificare la deroga alla normativa vigente. La Corte contesta, per esempio, l'esclusione dai controlli delle decisioni che riguardano "le opere di manutenzione straordinaria per consentire la piena fruizione dei beni archeologici" o "il piano per garantire l'ordinato svolgimento delle attività commerciali" o "l'organizzazione dei servizi di guida ai turisti" o le modalità di sponsorizzazione. Tutte cose che infatti non sembrano rispondere a quei requisiti di pericolosità o emergenza.

Il governo ha sempre difeso la scelta di sottoporre gli scavi di Pompei a questo regime adducendo tra le motivazioni anche il fatto che "il Vesuvio è un vulcano ancora attivo e pericoloso", come si legge nella stessa delibera della Corte dei conti diffusa oggi che cita appunto anche le controdeduzioni dell'amministrazione. "Pur dando atto che la situazione dell'area archeologica e delle zone circostanti presenta aspetti di criticità - replica la Corte alle considerazioni dell'amministrazione - non sembra che sia possibile ritenere giustificato l'intervento del dipartimento della Protezione civile per iniziative che non possono certo inquadrarsi nel concetto di tutela dell'integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dall'ambiente dal rischio di gravi danni".

Ma alla fine, in un certo senso, la Corte si vede costretta ad arrendersi: "Non può ignorarsi - si legge nella deliberazione - che, di fatto, tutti i provvedimenti di cui è stata chiesta (inutilmente) la trasmissione al controllo preventivo di legittimità hanno già compiutamente esaurita la propria operatività, sicché occorre domandarsi se in tali circostanze abbia ancora senso sottoporre in via postuma quegli atti a un controllo che, per definizione, dovrebbe essere preventivo".

Sul commissariamento di Pompei, in eddyburg:

La fine dei commissari e il naufragio del Mibac

Contro la politica dell’emergenza

L’indiscreto fascino dell’emergenza

Il testo integrale della delibera della Corte dei Conti

Vittorio Sgarbi, Andrea Carandini ed altri fans del direttore generale per la valorizzazione dei beni culturali, Mario Resca, ci spiegano in questi giorni perché i Bronzi di Riace possono viaggiare.

Essi si guardano bene, tuttavia, dallo spiegare per quale ragione dovrebbero farlo. Ma è proprio quello il punto. Il problema vero del circo delle mostre-evento non è quello della tutela delle opere, che si può e si deve assicurare caso per caso respingendo sia le impuntature dei conservatori, sia gli (assai più frequenti) abusi dei politici. Il problema vero è quale sia lo scopo, il beneficio, il senso ultimo di questa insensata «circuitazione di opere-icona» (eloquentissima perla di burocratese made in Resca).

Se i Bronzi di Riace partissero domani per un tour mondiale non ci sarebbero vantaggi per la conoscenza (si tratterebbe di un’operazione di marketing, non dell’occasione per rendere accessibile ad un vasto pubblico i risultati di una ricerca scientifica) e non ci sarebbero vantaggi per l’educazione pubblica (il concetto stesso dell’ostensione del singolo «capolavoro assoluto» è profondamente diseducativo e culturalmente desertificante).

Se poi il problema è che i visitatori a Reggio Calabria sono pochi, come si può affrontarlo mandando i Bronzi in tournée, piuttosto che — per dirne una— rifacendo la Salerno-Reggio? E chi può davvero pensare che se, poniamo, un canadese vedesse i due Atleti a Toronto, il giorno dopo correrebbe a comprare un biglietto per la Calabria? Il punto non è, dunque, stabilire se i Bronzi siano fragili o meno, ma comprendere che la costruzione del futuro non può passare attraverso la cannibalizzazione di un passato glorioso.

«Le spese di queste disposizioni saranno pagate dal territorio, che continua ad essere oggetto di autentici attentati. Penso all’imminente piano casa: chi potrà seguire le attività dei cantieri e assicurare che non vengano distrutti beni archeologici? Non siamo più in grado di svolgere il compito istituzionale per il quale siamo stati assunti. Cioè vigilare perché il patrimonio non visibile, quello ancora interrato, non venga cancellato o danneggiato... La prospettiva è il blocco totale del nostro lavoro».

A parlare, con evidente emozione nella voce, è Giorgia Leoni, presidente della Confederazione italiana archeologi, trecento iscritti tra i circa 30.000 professionisti che si calcola svolgano questo lavoro in Italia in modo continuativo (mancano cifre ufficiali poiché non esistono albi professionali). L’universo dei Beni culturali e la salvaguardia dei nostri tesori storico-culturali e paesaggistici si scontra ancora una volta con i tagli della Finanziaria. I funzionari del ministero assunti come archeologi e incaricati in massima parte di funzioni ispettive (anche qui si tratta di trecento persone) rischiano di non poter più lavorare. Né potranno farlo i loro collaboratori. In base all’articolo 6, comma 12, della legge vengono aboliti i rimborsi della benzina per gli spostamenti con mezzi privati per raggiungere i cantieri da controllare: grandi opere come le metropolitane urbane o la Tav, oppure piccoli interventi di privati nelle zone agrarie, i nuovi impianti eolici che presto dilagheranno in Puglia o in Molise, gli interventi per la viabilità (autostrade e strade provinciali o comunali).

Al taglio dei rimborsi segue anche un’altra precisazione: non sarà riconosciuta alcuna indennità di responsabilità civile nel caso di incidenti, se qualche funzionario dovesse comunque usare la propria automobile. Dunque nessuna copertura assicurativa. Spiega ancora Giorgia Leoni: «In teoria dovremmo usare i mezzi pubblici. Cioè tram, treni e bus. Non c’è problema se si deve raggiungere una zona urbana. Penso ai cantieri della metropolitana a Roma, per esempio, o a quelli milanesi, napoletani, fiorentini. Il nodo è tutto quel vastissimo territorio nell’interno della Penisola che costituisce il cuore del nostro paesaggio. Lì i cantieri agirebbero indisturbati senza le nostre ispezioni, che possono essere concordate o improvvise proprio per scongiurare guasti, vandalismi, ruberie, occultamenti. Non parliamo di clamorose cifre. I rimborsi, nella media, non superano i 20-30 euro mensili per funzionario». Immaginando, per abbondanza, più di 50 euro al mese per 300 funzionari, non si superano i 200 mila euro annui.

È stato il segretario generale del ministero Roberto Cecchi il 28 luglio a vietare i rimborsi. La prima circolare metteva ufficialmente al riparo i dipendenti dei Beni culturali da quelle restrizioni («questa amministrazione ha necessità di continuare a svolgere, senza interruzioni le proprie funzioni, previste da norme di rango costituzionale e ordinario, di tutela e salvaguardia del patrimonio culturale soprattutto attraverso lo svolgimento di una puntuale e intensa attività ispettiva di vigilanza e controllo estesa a tutto il territorio nazionale. Tale attività, considerate le esigenze di necessità e urgenza degli interventi ispettivi di verifica, che non possono sempre essere effettuati con le automobili di servizio, e tenuto conto dell’inaccessibilità di molti luoghi del territorio da parte dei mezzi di trasporto pubblico, viene effettuata anche mediante l’utilizzo del mezzo proprio da parte del personale preposto»). Seguiva la raccomandazione di ricorrere alle auto private solo in «caso di urgenza e con autorizzazione». Ma il 28 luglio, con poche e secchissime righe, lo stesso Cecchi ha sospeso la circolare vietando di fatto i rimborsi e l’uso dei propri mezzi, togliendosi però la soddisfazione di ricordare che a suo avviso la conversione in legge della Finanziaria non aveva alterato l’articolo 6 comma 12 che esenta dal divieto di rimborso chi ha compiti ispettivi. Voci interne al ministero assicurano che Cecchi sarebbe stato autorevolmente e insistentemente «convinto» dai vertici politici (lo stesso ministro Sandro Bondi?) a fare marcia indietro per evitare l’ennesima collisione col ministro per l’Economia, Giulio Tremonti.

Sta di fatto che fino a pochi giorni fa Cecchi, come dimostra la sua prima circolare, sottoscriveva un testo che, letto oggi, appare come un pieno sostegno alle rivendicazioni degli archeologi.

La categoria è compatta, preoccupatissima. E sempre meno motivata: i trecento archeologi ministeriali hanno un’età media elevatissima (53 anni) e chi va in pensione non viene sostituito pe r mancanza diturn over. La retribuzione, al massimo della carriera di funzionario (dirigente diventa solo chi è sopr i nt e ndent e ) non s uper a i 1.700 euro netti nonostante laurea, specializzazioni, dottorati e mille responsabilità sia tecniche che civili (non è facile decidere la sospensione di un lavoro in un cantiere, occorre una relazione approfondita e scientificamente ineccepibile, pena i ricorsi al Tar).

Avverte Rita Paris, archeologa della Soprintendenza speciale archeologica di Roma, direttore del museo di Palazzo Massimo ma anche responsabile della tutela dell’area dell’Appia Antica: «Siamo costretti a incrociare le braccia, la nostra categoria smetterà semplicemente di lavorare. Prendiamo il mio caso. Io devo controllare continuamente il funzionamento e il lavoro del personale alla Villa dei Quintili, a Cecilia Metella, a Capo di Bove. E poi ci sono i cantieri, inclusi quelli stessi della Soprintendenza sui quali vigilare. Non potremo più farlo: anche mettendo da parte i rimborsi, senza la copertura assicurativa io arriverei in macchina come un clandestino. Usare i mezzi pubblici è impensabile, in quelle zone archeologiche non esistono. La situazione è gravissima. Ma evidentemente così non appare ai vertici del mio ministero...».

Archeologi, architetti e storici dell’arte da oggi non possono più utilizzare l’auto propria per seguire scavi e cantieri sparsi nel territorio. Il soprintendente di Roma Giuseppe Proietti li ha avverti: «Stop a rimborsi e alla copertura di responsabilità civile». Impossibile perfino chiamare i cellulari. E per la tutela ora è notte fonda.

La circolare del 28 luglio del soprintendente archeologo di Roma è la stessa che hanno dovuto diramare i suoi colleghi dei Beni artistici e degli Architettonici. La manovra finanziaria del governo li obbliga a fermare i sopralluoghi. «Il patrimonio così è messo nelle mani di speculazioni, scavi clandestini, tombaroli: viene impedita la tutela così come la prescrive la Costituzione» afferma il segretario della Uil Beni culturali Gianfranco Cerasoli.

«Anche volendo, non possiamo prendere la nostra auto perché non c’è più la copertura assicurativa. E come potremo più raggiungere Villa dei Quintili o i mausolei vicini a via di Fioranello?» si chiede Rita Paris, responsabile per lo Stato dell’Appia Antica. «Ora ci aspettiamo che il ministro Bondi permetta alle soprintendenze di tornare a funzionare», spiega l’archeologa che è anche direttrice di palazzo Massimo. «Grazie all’impegno di tutti, alle mostre e alla pubblicità - racconta - in un anno abbiamo aumentato del 60% gli ingressi al museo. Ma come potremo andare avanti se ci è impedito di fare gli straordinari, anche non pagati?».

Stefano Musco copre con una segretaria e due assistenti un territorio di 15.700 etteri tra V, VII e VIII Municipio. «In quest´area vivono 431.500 persone: più alta è la densità abitativa più forti le trasformazioni» spiega l’archeologo. Come seguirle se la soprintendenza non ha auto di servizio? «Non lo so, non posso più usare la mia auto per controllare ad esempio gli straordinari scavi di Gabii» dice sconsolato. Nella città romana sulla Prenestina (25 chilometri dal centro) il mezzo pubblico arriva a 3 chilometri. Poi bisogna andare a piedi. «E per parlare con i miei collaboratori dall’ufficio non posso neanche più chiamarli al cellulare» racconta Musco. Sono 6000 i siti archeologici censiti nell´Agro romano. Da oggi sono irraggiungibili dai funzionari (1.700 euro al mese il loro stipendio). Ma anche sotto il Colosseo non si ride: Piero Meogrossi, responsabile del procedimento per la ricerca degli sponsor, dovrà andare a caccia di soldi usando il telefonino privato.

Mantova, splendida città sulla quale s’allungava l’ombra di una lottizzazione edilizia che avrebbe violato una città dichiarata patrimonio dell’Unesco, è salva. E stavolta, nella complessa storia di conflitti fra i costruttori, con i loro interessi, e le associazioni dei cittadini, impegnati nella difesa di quel paesaggio che la nostra carta fondamentale tutela, spunta anche il nome di Fabio De Santis, il provveditore alle opere pubbliche della Toscana arrestato nell’ambito dell’inchiesta sulla «cricca». Il principio da cui prende spunto questo caso è, ahinoi, il solito: «L’economia deve girare». E così i comuni, strangolati dalle finanziarie, si ritrovano con l’acqua alla gola, pronti a vendere i gioielli di famiglia. Tutto parte della lottizzazione della Lagocastello: 200 nuove villette in riva al Lago Inferiore che si affacciano sulle sagome del Palazzo Ducale dei Gonzaga, del castello di san Giorgio e della cupola di sant’andrea, entro la cui fabbrica si custodiscono le preziosissime reliquie del sangue di Gesù, recentemente popolarizzate, fra i non fedeli, dalle storie new age sul sacro Graal.

Una cornice di rara bellezza, dove i valori artistici di Filippo Juvarra e del Mantegna si iscrivono in un habitat lacustre prezioso, fra uccelli migratori, aironi e fiori di loto.

È su queste sponde aggraziate da salici piangenti e ibisco che il costruttore Antonio Muto della Lagocastello avrebbe voluto erigere le 200 nuove villette con vista sulla Basilica di Sant’Andrea. Una legittima decisione d’impresa, d’altronde, avallata da una concessione edilizia del 2005, quand’era a guida dell’amministrazione il sindaco di centro sinistra Gianfranco Burchiellaro. Fra lo sdegno di cittadini e intellettuali, tuttavia, fa marcia indietro il sindaco seguente, del Pd, Fiorenza Brioni. Nel frattempo, inoltre, la Soprintendenza, nel 2008, tre anni dopo, cioè, il rilascio della concessione edilizia, vincolava l’area. La faccenda finisce in tribunale: Muto si sente danneggiato, impugna il provvedimento della Soprintendenza e minaccia di chiedere danni al Comune per 80 milioni. Una richiesta di risarcimento in grado di mettere in ginocchio l’amministrazione. Mentre il Tar di Brescia deve decidere in merito alla legittimità del vincolo d’inedificabilità della Soprintendenza, si attiva un altro ricorso presso il Consiglio di Stato in merito alla decisione relativa all’obbligo di sottoporre a Valutazione d’impatto ambientale (Via) le villette, a fronte del pregio della zona di lottizzazione. La Via, in pratica, potrebbe salvare la sponda del Lago Inferiore, indipendentemente dalla legittimità dei vincoli della Soprintendenza. La questione, nel frattempo, passa, nella primavera di quest’anno, al neosindaco del Pdl Nicola Sodano. Il nuovo primo cittadino, anche per evitare i danni, cambia nuovamente rotta e sembra, forse, più propenso a lasciare che la Lagocastello finisca i lavori o a mediare sui risarcimenti.

Tutto, infatti, congiura a favore dell’impresa di Muto. Il Consiglio di Stato, infatti, affida una perizia proprio al neoarrestato Fabio De Santis il quale conclude che, per le villette, non è necessaria la Via. Il Comune sembra spacciato: se si dà il via alla lottizzazione, per risparmiare l’esoso risarcimento richiesto dalla Lagocastello, Mantova rischia di essere depennata dalla Lista Unesco. Questa infamia, d’altronde, già è capitata a Dresda per aver voluto fare un ponte sull’Elba che danneggiava l’immagine storica della città eternata da Bernardo Bellotto. Insomma, Mantova risparmierebbe sui danni a Muto ma pagherebbe in termini di perdita di privilegi e visibilità Unesco.

Lo scorso 5 luglio, infine, ecco la nuova sentenza dei giudici amministrativi che sconfessano le conclusioni di Fabio De Santis. La Via si deve fare, e l’altra sponda del Mincio, rispetto al centro antico, rappresenta un continuum paesaggistico-ambientale la cui protezione è un valore non comprimibile. Mantova, ora, è salva. La Via, infatti, non potrà che bocciare il progetto della Lagocastello, e il Comune è al riparo dalle richieste di risarcimento indipendentemente dalla sentenza sul vincolo d’inedificabilità.

Sulla vicenda di Mantova vedi anche su eddyburg gli articoli del 21/08/2008 (non firmato) e del (12/10/2006 (di Francesco Erbani)

Cinquanta euro a pezzo. Sono prezzi da saldi stagionali quelli previsti dalla nuova versione dell´archeocondono. La proposta di legge numero 3540, depositata alla Camera dei deputati, reca come titolo «Disposizioni per il censimento e la riemersione dei beni archeologici in possesso di privati». Pagando appena cinquanta euro per «spese di registrazione e di catalogazione», chiunque possegga un reperto archeologico mai denunciato può mettersi tranquillo: verranno estinti i reati commessi. Quelli, appunto, di detenzione illegale di un bene archeologico.

Una sanatoria. Un colpo di spugna radicale su una delle piaghe che affliggono il patrimonio d´arte del paese. E che va in direzione opposta rispetto agli sforzi che si compiono per far rientrare in Italia opere trafugate ed esposte nei musei di diversi paesi. Al momento è una proposta di legge, ma sono in molti a sospettare che il vero obiettivo fosse di infilarlo nel maxi emendamento del governo alla manovra finanziaria. Finora l´operazione non è riuscita. Sollecitato da un allarme lanciato da Manuela Ghizzoni, pd, il relatore della manovra, Antonio Azzollini, pdl, ha smentito che l´archeocondono fosse fra gli emendamenti. Ieri, però, è intervenuto Fabio Granata, pdl legato a Gianfranco Fini, che ha di nuovo messo in guardia.

Tutta la vicenda è comunque misteriosa. Il testo presentato alla Camera è firmato da cinque deputati del Pdl, Giuseppe Marinello, Gioacchino Alfano, Roberto Antonione, Marco Marsilio e Gerardo Soglia. Marinello non è nuovo a iniziative del genere, essendo stato autore nel 2004 di un progetto analogo, insieme a Gabriella Carlucci. Questa proposta è sostanzialmente diversa rispetto a un altra circolata qualche giorno fa (e di cui Repubblica aveva scritto). Ed è molto più favorevole a chi possiede una ceramica attica o etrusca. Prevede infatti che, dichiarato il possesso di un bene, di quel bene si diventi a tutti gli effetti proprietario (nell´altro testo si parla di "depositario"). E che dunque quel bene possa essere venduto. D´altronde nella relazione che introduce gli articoli, si legge che fra gli obiettivi c´è quello di riavviare in Italia il mercato dell´arte e di tutelare il collezionismo, compresso da norme illiberali e da una «cultura del sospetto». Che ostacolano un diritto definito «inalienabile», quello di possedere reperti, cioè «un´espressione del gusto e della sensibilità artistica».

Stando alla proposta di legge, chiunque possegga collezioni archeologiche, anche all´estero, può comunicarlo alla Soprintendenza, la quale semplicemente prende atto. All´articolo 11 si stabilisce che «le spese di registrazione e di catalogazione sono fissate in 50 euro a pezzo» (nell´altro testo circolato si pagava il 30 per cento del valore e la Soprintendenza poteva contestare la valutazione). 50 euro si pagano anche per dieci pezzi di collezioni numismatiche. Poi, come al supermercato, ci sono le offerte: «I frammenti ricomponibili sono considerati come pezzo unico». Cioè sempre 50 euro.

Vista con gli occhi di un americano, Roma è un crocevia di follie, culturalmente parlando. Se poi lo straniero in questione è un giornalista e di quel che ha visto negli ultimi mesi fa un articolo, a tutta pagina nella sezione cultura del New York Times, forse è il momento di guardarsi allo specchio e preoccuparsi. "Mentre si modernizza, Roma lascia che il proprio passato lentamente si sbricioli". Ed è solo il titolo.

Giornalismo anglosassone: allinea dati ma non lesina colpi e spiega, per cominciare, che il Maxxi è fatto di «spazi tutti curve, magari sexy ma poco pratici, testimonianza di un gusto superato e in vari scorci sgraziato», che ha richiamato il mondo dell’arte per il vernissage e dato spunto al sindaco per esternazioni sulla Roma del XXI secolo. Insomma, Roma ci prova ma non ci riesce: sfortuna ha voluto che, in quelle stesse settimane un pezzo della Domus Aurea di Nerone sia crollata; tutti sapevano da sempre delle infiltrazioni ma si è aspettato il crollo senza fare nulla. Poi, poco dopo, i calcinacci giù dal Colosseo. Per di più - aggiunge ancora il NYT - una commissione, istituita da tempo per fare fronte a questi problemi «ha speso milioni senza evitare l’ultima sventura».

«I cambiamenti qui non sono mai facili», aggiunge Michael Kimmelman: l’intervento di Richard Meier ha fatto «strillare» i romani («inadeguato, sembra un mausoleo fascista») mentre l’Auditorium di Renzo Piano, insieme al cantiere di Fuksas per la Nuvola sono gli unici interventi "assolti". A ragione poi, si sottolinea il paradosso di «una nazione la cui identità e sopravvivenza fiscale poggia sulla cultura che investe solo lo 0,21% del proprio bilancio (dato in calo) in cultura». Ma il grido di dolore più straziante viene degli archeologi: «i politici non vedono nel patrimonio un ritorno che li incoraggi a ulteriori investimenti»: bisogna cominciare a ripensare le regole, a guardare avanti... Conclusione: «Questa è Roma: alcune cose sono eterne». Il sottosegretario Giro dichiara: «Un articolo pieno di lacune e fuorviante».

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