È proprio vero che l'Italia non valorizza il suo patrimonio artistico. Guardate il ministro Sandro Bondi, nonostante sia stato più volte transennato e puntellato dalla maggioranza, alla fine non ha evitato il cedimento strutturale. Ora se ne va, ci lascia con una certezza difficile da scalfire: non ci mancherà. Lui, povera stella, giustifica il suo totale nullismo ministeriale con l'insensibilità dell'universo. Il mondo della cultura «di sinistra» non l'ha cagato nemmeno un po'. Il mondo della cultura «liberale» (ah, ah, ndr) non si è aggregato attorno a lui. Intanto gli è crollata addosso Pompei, qualche affaruccio famigliare è finito sui giornali, i tagli di Tremonti (quello che «la cultura non si mangia») hanno fatto il resto. Si è fatta strada nel Paese la convinzione che avere un ministro della cultura come Bondi, o non averlo, o avere al suo posto un grizzly degli Appalachi è esattamente la stessa cosa, e forse un po' meglio, dato che i grizzly non scrivono disgustose poesiole.
Eppure la triste storia del triste Bondi ci dice qualcosa del potere in Italia, dove potere significa Silvio Berlusconi. Finiti i tempi in cui bastava la piaggeria. Oggi dire «il duce ha sempre ragione» e comporre sonetti in sua lode non basta più. Ora bisogna attivarsi, presentarsi al cospetto del sovrano almeno con un disegnino di legge che lo cavi dai guai, o con la macchina dai vetri oscurati piena di ragazze, o con lo scalpo di qualche deputato razziato alle tribù vicine. Fatti, non parole. «Non ho convinto il governo del ruolo chiave che ha la cultura», ha detto, con inconsapevole umorismo. Cultura? Ruolo chiave? Ma che dice, Bondi! Porti una leggina ad personam. Porti due donzelle vestite da infermiere, oppure un «responsabile» nuovo di zecca, e vedrà la sua stella brillare di nuovo.
Comunque, grazie di tutto, si libera un posto per l'atteso rimpasto: Scilipoti, o Lele Mora, o il Gabibbo, o qualche ex del Grande Fratello, oppure, per risollevare la nostra immagine all'estero, Barbareschi o Topo Gigio. I talenti non mancano e, se sono uomini, possono pure restare vestiti.
Ai pianisti d'Italia è concesso come bis i Funerailles di Ferenc Liszt. Dai titani come l'Ente Teatrale Italiano e il giovane Napoli Teatro Festival, fino ai piccoli e piccolissimi, come Suoni e Visioni di Milano, rassegna per ora sospesa: la grande moria non risparmia nessuno.
Nel 150° anniversario dell'Unità d'Italia, Nord, Centro e Sud sembrano darsi la mano in questo piccolo monumento ai caduti della cultura, e tra i tanti simboli fa impressione la presenza della Biblioteca di Storia Patria, che ha dovuto sospendere le attività. Lo dedichiamo soprattutto ai tanti militi ignoti che non abbiamo segnalato: questa è solo una parziale lista di quello che non c'è più. La soppressione delle iniziative di Emma Darete, Nino D'Angelo, Ascanio Celestini e Gigi Proietti, protagonisti della scena tra loro diversissimi e tutti però molto amati dal pubblico, è lì a dimostrare che la piccola Shoah culturale italiana travolge tutto. Ma quello che abbiamo perso negli ultimi anni è molto di più, spiega Pietro Longhi dell'Agis: «Gli spettacoli si fanno più semplici, rozzi, senza scenografie, senza luci, pochi gli attori e non sempre professionisti, si preferisce la forma monologo». E, aggiungiamo, sempre meno idee.
PRECARI
Ai pianisti d'Italia è concesso come bis Les adieux di Ludwig van Beethoven. Da qualche tempo nelle nostre istituzioni e associazioni culturali si celebra un macabro rituale: di fronte ai ripetuti tagli tutti i contratti cosiddetti internali - a tempo determinato, a progetto e collaborazioni di vario genere - sono stati lasciati morire. Da una parte una intera generazione di giovani, spesso laureati e con specializzazione, si troverà non solo senza lavoro, ma con il percorso che li avrebbe dovuti portare a contratti più stabili brutalmente "interrotto. Dall'altra invece tutta una serie di professionisti che erano impiegati su mansioni specifiche - fotografi, datori luce, grafici, strumentisti, costumisti e così via -, non vedranno rinnovarsi le loro collaborazioni. Uno di loro spiega: «Il segno dei tempi è il cellulare: non squilla più». Anche loro sono i caduti della cultura, che fino a oggi hanno lavorato per i musei, le gallerie, gli archivi, il cinema, le stagioni teatrali, musicali e della danza. Senza considerare i tecnici, i restauratori, gli architetti impegnati nella tutela dei beni archeologici e architettonici. Per tutti loro una nazione che si vanta di essere la culla della cultura europea e mondiale non riserva neppure uno straccio di ammortizzatori sociali. Non ci sono neanche per attori, coreografi registi, danzatori, scenografi, musicisti che hanno fatto della libera professione la loro vita. In altri paesi del mondo, con tradizioni e patrimoni ben inferiori del nostro, i lavoratori della cultura, soprattutto nello spettacolo, godono di protezione sociale proprio perché si tratta di una occupazione spesso stagionale e comunque di natura intermittente.
REGIONI ED ENTI LOCALI
Mentre a Montecitorio sventolano le bandiere della Lega per la recente approvazione dei decreti sul federalismo, Regioni ed Enti locali - province e comuni si trovano ad affrontare pesanti tagli sulla spesa corrente e dunque anche alla cultura. Ma, è bene ricordarlo, in una situazione così difficile non sempre le amministrazioni locali si sono mostrate all'altezza: esemplare quanto è successo al Napoli Teatro Festival, abbattuto quasi per ripicca dall'assessore alla giunta regionale campana che aveva cambiato di segno. Ma stupisce anche la chiusura dell'Orchestra di Roma e del Lazio, unica istituzione musicale che faceva attività in regione, lasciata deperire e morire negli ultimi tre anni. E sempre nel Lazio la giunta di Renata Polverini taglia i fondi ai festival e alle officine culturali, di teatro sociale e di coreografia, per spendere immaginate un po' in cosa? In sfilate di moda. La regione Abruzzo ha azzerato i contributi alle iniziative culturali medio-piccole e, per esempio, un comune come Terni a tutte le attività culturali. Propense agli eventi, spesso autocelebrativi, demagogici e con fini clientelari - si pensi al Carnevale romano della giunta Alemanno con una spesa di un milione di euro ad affidamento diretto senza bandi di concorso -, le amministrazioni locali sono spesso complici del disfacimento culturale.
AGGRAPPATI ALLA VITA
Ai pianisti d'Italia è concesso come bis una gran variazione sull'aria Mi lagnerò tacendo di Gioachino Rossini. Restare vivi, mentre ti tolgono lentamente l'ossigeno: lo facessero alle rane interverrebbe la protezione animali. Succede invece alle nostre istituzioni culturali: accanto ai resti della Schola Armaturarum, alle ruspe che aggrediscono Tuvixeddu, al Borgo Leri Cavour, ci sono musei, archivi, istituti di cultura, mostre, gallerie, biblioteche che restano attaccati alla vita. Continuano tra mille difficoltà la loro missione perché sanno che fermarsi ora vorrebbe dire chiudere per sempre, e abbandonare i loro patrimoni materiali e professionali al degrado, all'incuria, alla dispersione. E’ emblematica la situazione della Nazionale di Firenze, una delle più importanti biblioteche non solo d'Italia, ma del mondo, che azzoppata dai tagli apre solo per mezza giornata. Oltre all'orario e al personale in molte altre istituzioni si riducono le attività, non si fanno più servizi per le scuole né per i giovani e gli anziani. Poi arriverà qualche sapientone che dirà: «Sono enti inutili!». Li stanno rendendo inutili. E allora questo monumento è dedicato anche a loro, perché continuino a vivere e far vivere la cultura nel nostro paese, che forse non se li merita.
DEL DOMALA NON V’E’ CERTEZZA
I1 2011 andrà molto peggio: la fine è decretata dalle politiche di tagli agli investimenti del governo Berlusconi, articolate da Tremonti con il beneplacito del ministro dei Beni e delle Attività Culturali Sandro Bondi che, ai numerosi crolli di Pompei vuole affiancare una generale slavina, mentre scappa alla chetichella con pluriannunciate dimissioni, non ancora concretizzatesi. Consideriamo solo che il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali nel 2007 assorbiva il lo 0,29 % del bilancio dello stato: una cifra irrisoria rispetto al resto d'Europa. Bene nel 2011 questa quota è crollata allo 0,16. Nel 1968 dopo una lunga discussione, il parlamento con la legge 800 puntava a una distribuzione capillare delle attività culturali sul territorio che affiancasse la tutela dei beni culturali: oggi assistiamo a un processo inverso. Un'offerta di modestissimo profilo punteggiata forse da qualche evento, ma è solo una ipotesi, resisterà nelle grandi città, ma la desertificazione culturale è già in stato avanzato nei piccoli e medi centri, soprattutto al Sud. Una scelta di portata terribile, che il centrodestra si è arrogato senza alcuna discussione in Parlamento e quindi in maniera assai discutibile. Chi li fermerà?
Chi soffre di più
Istituti: nel 2011 un taglio ulteriore del 16%
Custodi di importanti archivi e biblioteche, promotori di iniziative, gli istituti di cultura negli ultimi due anni hanno visto ridursi all'osso i finanziamenti. Nel 2011 avranno un ulteriore taglio del 16%: meno attività, riduzione di personale e orari saranno le inevitabili conseguenze. Molti rischiano di dover sospendere le attività.
Giornata mondiale del teatro. In Italia niente da festeggiare
Il 27 marzo si tiene in 5 continenti la giornata mondiale del teatri ad eccezione che in Italia, dove non c'è nulla da festeggiare. Il governo ha cercato di far passare la cosa sotto silenzio, ma associazioni, teatri, compagnie e movimenti promettono una giornata di protesta e sensibilizzazione: ma per favore non la chiamate «festa della morte del teatro».
Stabili e orchestre a rischio chiusura
L'Italia, paese del melodramma, rischia di veder chiudere i suoi maggiori teatri e orchestre a causa dei tagli agli investimenti dello stato. I finanziamenti coprono a mala pena i soldi che i teatri rendono allo stato sotto forma di contributi e tasse. Caso emblematico la Scala che nel 2010 ha versato 30 milioni di euro in più di quanto riceverà nel 2011.
Archeologi e restauratori in sofferenza
Il ministero dei Beni e delle Attività Culturali nel 2004 assorbiva lo 0,34% del bilancio dello Stato, nel 2007, lo 0,29, nel 2011 la spesa è crollata allo 0,16%. In Francia è dello 0,90%, in Gran Bretagna dell' 1,20. Sono stati particolarmente penalizzati l'archeologia e i beni architettonici: solo tra i tecnici restauratori mancano dall'organico da 500 a 600 unità.
PIÙ TASSE PER TUTTI
Il governo che doveva togliere le tasse ha messo una tassa di un euro sui biglietti del cinema. Da luglio, insomma, si pagherà di più per vedere i film, mentre tutte le associazioni protestano
TEATRO
ETI Ente Teatrale Italiano (Roma - Italia)
Napoli Teatro Festival (Napoli)
Teatro Trianon Napoli
Rassegna Suoni & Visioni Milano (sospeso attività)
Festival Teatri delle Mura a Padova
Rialto Sant'Ambrogio (Roma)
Cinema Teatro Politeama Asti
Rosso Festival Caltanissetta
Laboratorio teatrale Gigi Proietti (Roma)
Teatro San Martino Bologna (sospeso attività)
Teatro Sociale Canicattì (sospeso la stagione)
Rassegna 'Castelli in scena' (Alba)
Festival 'Dreamtime' (in forse)
Teatro del Lido Ostia (occupato)
Teatro Politecnico (Roma)
Festival Bestiario (Roma)
Festival Bella ciao (Roma)
Festival Dedica Asolo
Teatro carcere al Due palazzi (Padova)
Filo d'Arianna Festival (Belluno)
Fondazione Toscana Musica e Arte (Arezzo)
Teatro Petrarca (Arezzo chiuso per restauro da 4 anni)
MUSICA
Orchestra Regionale di Roma e del Lazio
Festival Progetto Musica (Roma)
Festival Barocco (Viterbo)
Centro Reggino di Musica Classica (Reggio Calabria)
Centro Jazz Calabria (Cosenza)
Associazione Musicale Felice Romani (Moneglia)
Rassegna Canto delle Pietre (Como)
Autunno musicale (Como)
Arezzo wave (trasferito)
DANZA
Compagnia Danza Ricerca
Compagnia Associazione Florence Dance
Compagnia Il pudore bene in vista
Corpo di Ballo del Teatro Verdi di Trieste
Dance Festival (Olbia)
Culture dei Mari - Comitato Euromediterraneo
ARCHEOLOGIA
Casa Armaturarum (Pompei)
Centro storico dell'Aquila (abbandonato dopo il terremoto)
Zona Archeologica Campi Flegrei (Napoli)
Museo Archeologico Castello di Baia (Napoli)
Domus Aurea
Cantiere Navi (Pisa)
Museo regionale di scienze naturali di Torino
Reale tenuta di Carditello (Caserta)
Sito di Tuvixeddu
Borgo di Leri Cavour (Torino-Vercelli)
Villa Reale (Monza)
Città della Scienza di Roma (progetto esecutivo non realizzato)
BIBLIOTECHE
Biblioteca Nazionale Firenze (apre solo per mezza giornata)
Biblioteca di società di storia patria Napoli (sospeso attività)
Biblioteca del Conservatorio S. Pietro a Majella Napoli
Biblioteca comunale San Lorenzo Roma (sezione ragazzi chiusa)
Sistema bibliotecario di Villa San Giovanni Reggio Calabria
ET ALIA
Festival internazionale del cinema di animazione (Lucca)
Rassegna Alba Libri (Alba)Cantieri Culturali alla Zisa (In abbandono - sospensione regolare attività sull'arte contemporanea)
Teatro San Gerolamo di Milano (da anni si annuncia la riapertura)
In tempo di affittopoli nella Lombardia della privatizzazione al potere succede di tutto. Succede che con poche centinaia di euro ti ritrovi con uno spazioso appartamento in una delle zone più prestigiose di Milano oppure succede che il fu PAT (Pio Albergo Trivulzio) diventi l’acronimo di Parenti Amici e Tangenti. In Lombardia c’è una vasta cittadinanza che tutti i giorni combatte per stare al passo con la dignità e un’altra (nemmeno troppo) sommersa che le regole se le scambia come al tavolo del Monopoli: senza soldi finti però, preferibilmente con i soldi degli altri. Eppure nella Lombardia che rende cavalieri i più furbi oggi c’è un bando che concede il lusso di un esoso e prestigioso scaccomatto all’uguaglianza: 30.000 euro per 9.000 metri quadrati (un canone da periferia del mondo) con ampio giardino e vista mozzafiato, inclusi qualche secolo di storia e fauna e flora a volontà da tenere tra i gioielli di famiglia.
Non importa che quella villa sia il cuore di un parco con duecento anni di storia e che il Piano Regolatore della città di Monza fin dal 1964 reciti “nel Parco nessuna nuova costruzione”: oggi a Monza Villa Reale e il suo Parco sono in bella vista nella bancarella per pochi dell’intoccabile (e illegittimo, per firme) Governatore Roberto Formigoni. A controllare l’operazione c’è il braccio lungo “dell’assessorato al cemento” Infrastrutture Lombarde SPA, la società di matrice ciellina attraverso cui passa tutta la cementificazione lombarda. Antonio Cedernadiceva che “tutta l’Italia va trattata come un parco e alla rigorosa salvaguardia dei valori del suo territorio va rigorosamente subordinata ogni ipotesi di trasformazione e sviluppo: perché non venga definitivamente distrutta l’identità culturale l’integrità fisica del nostro Paese”. Oggi in Lombardia un Parco è come il maiale: non si butta via niente. Come nelle migliori tradizioni padane.
APPELLO AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA PER LA VILLA REALE DI MONZA
Egregio Signor Presidente, la Villa Reale di Monza, insieme al suo Parco, rappresenta un gioiello del periodo neoclassico di valore mondiale. Dopo essere stata abbandonata dai Savoia all’inizio del XX secolo è rimasta per la gran parte inutilizzata fino a oggi, manifestando nel corso del tempo un progressivo degrado solo parzialmente contenuto. All’inizio di questo anno il Consorzio pubblico che la gestisce – composto da Ministero dei Beni culturali, Regione Lombardia, Comune di Monza, Comune di Milano – ha deciso di affidarne la ristrutturazione e la gestione a un soggetto privato, da individuare attraverso un bando di gara indetto in data 17 marzo da Infrastrutture Lombarde, la S.p.A. che presiede alla valorizzazione, la gestione, l’alienazione e la manutenzione del patrimonio immobiliare di Regione Lombardia.
Questo bando di gara permetterà al privato che lo vincerà. Di poter utilizzare le ingenti risorse pubbliche da stanziarsi per un importo di 19 milioni di euro, a fronte di un impegno del vincitore di soli 5 milioni, al fine di ristrutturare il corpo centrale dell’edificio. Di predisporre il progetto esecutivo per la ristrutturazione della stessa, senza adeguate indicazioni da parte del Consorzio proprietario. – Di gestire la Villa Reale per un periodo di ben 30 anni con un canone di affitto di soli 30.000 euro all’anno. Di lasciare la Villa Reale in uso al Consorzio pubblico proprietario per soli 36 giorni all’anno, mentre per tutto il resto dell’anno il privato gestirà il complesso di propria iniziativa. Noi sottoscritti pensiamo che questo bando sia inaccettabile. Perché cederà un monumento di enorme importanza storica e culturale, e le ingenti risorse pubbliche necessarie per ristrutturarlo, senza adeguate garanzie sul futuro del bene, sui suoi utilizzi e sulla sua fruibilità pubblica.
Perché questo bando di gara porterà a una ristrutturazione – e non a un restauro conservativo – della Villa Reale, ristrutturazione rivolta principalmente alla sua valorizzazione economica e non al suo recupero come monumento storico, comportando eventualmente anche profonde modifiche strutturali. Perché questo bando di gara porterà a una gestione della Villa Reale con lo scopo principale di remunerare l’investimento del privato vincitore e non l’utilizzo del monumento come bene pubblico. Pensiamo inoltre che le risorse necessarie al restauro possano essere reperite dagli enti proprietari componenti il Consorzio e a esso affidata la gestione senza un intervento privato il cui oggettivo interesse di trarre profitto dai propri investimenti confligge con le esigenze di tutela del patrimonio artistico nazionale garantite dall’art. 9 della Costituzione. Pensiamo quindi che il bando di gara vada immediatamente ritirato, per individuare una soluzione adeguata, che permetta di restaurare la Villa Reale e di restituirla ai cittadini come museo di se stessa, polo didattico, sede di eventi espositivi di livello internazionale e di alta rappresentanza istituzionale.
Signor Presidente, nel poco tempo che ci separa da decisioni pregiudizievoli dell’integrità e della dignità di un bene tra i più preziosi dell’architettura e dell’arte nazionali, ci rivolgiamo a Lei con fiducia affinché sia fatto ogni sforzo per trovare soluzioni alternative a quella prospettata e la Villa Reale di Monza conservi intatto il proprio patrimonio di ricchezze architettoniche, artistiche e culturali.
TRA GLIADERENTI:Natalia Aspesi Stefano Benni Giulio Cavalli Luigi Ciotti Lella Costa Chiara Cremonesi Enrico Deaglio Elio De Capitani Monica Frassoni Don Andrea Gallo Giovanna Melandri Franco Oppini Giuliano Pisapia Corrado Stajano Oliviero Toscani Walter Veltroni Nichi Vendola
Tagliente come un bisturi, la scrittura di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella affonda implacabile nel corpaccione malato dei Beni Culturali. Mitragliando decine di dati inoppugnabili, il loro ultimo libro (Vandali. L’assalto alle bellezze d’Italia. Rizzoli, pagg. 288, euro 18) passa dalla denuncia all’aneddoto, dal reportage all’analisi, dalle statistiche al confronto con gli altri Paesi, con risultati per l’Italia invariabilmente impietosi. Un esempio-simbolo della schizofrenia che viviamo è la Fescina, mausoleo romano in territorio di Quarto (Napoli), comune tanto fiero di tal cimelio da inalberarlo nel proprio gonfalone. Guai però se ci vien voglia di passare dall’araldica al monumento stesso: stentiamo a trovarlo fra «sterpi, erbacce, mucchi di vecchi materassi, poltrone sfondate, pannelli di eternit, lattine e pattume vario, una giungla di rovi». Chi facesse spallucce dicendo "cose che succedono al sud" è invitato a Leri (Vercelli), dove la tenuta Cavour è oggetto di depredazioni: «Dalla casa hanno portato via ogni cosa. Le porte, le tegole dei tetti, gli affreschi. Tutto. Hanno fatto a pezzi la scala interna per rubare i gradini di marmo. Tra i rovi che avvinghiano i muri, le tettoie pelate e le pareti a brandelli» resiste solo la targa che ricorda il conte di Cavour, la cui statua peraltro risulta decapitata. Insomma, Italia finalmente unita, da Napoli a Vercelli e oltre: unita nel degrado, nell’incuria, nel disprezzo della nostra storia, cioè di noi stessi.
Eppure Mario Resca, direttore generale alla Valorizzazione, spiega a ogni piè sospinto ("a ogni Pier sospinto", direbbe l’ex ministro dei Beni Culturali Vincenza Bono Parrino, di cui Rizzo e Stella evocano questa ed altre prodezze verbali) che la cultura rende. Peccato che lo dica con cifre sempre diverse: «Ogni euro investito in cultura genera un indotto 6 volte superiore» dichiara al Giornale dell’arte, «rende da 7 a 10» spiega al Giorno, «ne rende anche 10», proclama al Corriere, «rende da 6 a 12 volte l’investimento» si vanta sul Giornale, «rende 16 volte» discetta al Forum mondiale di Avignone. Cifre improvvisate e velleitarie, che tentano invano di nascondere il nulla di analisi e di progettualità. Nel giugno 2008 il neo-ministro Sandro Bondi dichiarò a Camera e Senato che «l´Italia è agli ultimi posti in Europa per la percentuale della spesa in cultura sul bilancio dello stato (0,28 per cento contro l’8,3 della Svezia e il 3 della Francia)», aggiungendo: «mi impegno ad invertire questa tendenza negativa». Meno di un mese dopo, Bondi incassò senza batter ciglio un taglio di 1 miliardo e 300 milioni, che quasi azzerava la capacità di spesa del suo ministero. Da un lato, la Valorizzazione (a parole) alla Resca, dall’altro lato i tagli (di fatto) alla Tremonti: messi insieme, questi due dati delineano una strategia davvero rivoluzionaria, la teoria economica made in Italy secondo cui si valorizza disinvestendo.
Ancor più drammatica è la situazione delle risorse umane: l’età media degli addetti ha sfondato il muro dei 55 anni, e nessun turn-over è in vista; anzi, il Ministero spinge i funzionari alla pensione anticipata. A Pompei è in servizio un solo archeologo; una deroga al blocco delle assunzioni era prevista nel decreto milleproroghe, ma è saltata senza alcuna reazione del ministro, troppo occupato a fare il poeta di corte. Invece di dotare Pompei di un organico decente, Bondi ha cambiato in un anno tre soprintendenti, peraltro esautorandoli, in nome dell’efficientismo manageriale, con commissariamenti affidati a prefetti in pensione o alla protezione civile. E che cosa han fatto i commissari? 102.963 euro spesi per censire i 55 cani randagi che infestano le rovine; due contratti a Wind (9 milioni) per le linee telefoniche e per un ridicolo video in cui le figure della Villa dei Misteri cantano in inglese (provare per credere: www.pompeiviva.it); 724.000 euro di contratto a un ateneo romano per studiare a Pompei lo "sviluppo di tecnologie sostenibili"; 6 milioni per distruggere il teatro romano sotto «cordoli di cemento armato e rozzi mattoni di tufo di un colore giallastro scuro».
Perché questo è il punto: si taglia sull’essenziale, si spende e spande sul superfluo. Le spese di Palazzo Chigi crescono nel 2011 di 30 milioni, 750 milioni vengono elargiti all’Alto Adige «proprio mentre i due deputati della Südtiroler Volkspartei decidevano di salvare Berlusconi con le loro determinanti astensioni alla Camera», si stanzia per il G8 alla Maddalena un miliardo di euro scippandolo ai Beni Culturali; per non dire della «piccola storia ignobile del portale italia.it», oltre 30 milioni di euro per allestire in sette anni un portale che risulta al 184.594° posto nella classifica mondiale. Questo rapporto perverso fra i tagli e gli sprechi è il frutto avvelenato della stessa economia di rapina che consegna il paesaggio in mano agli speculatori, in «un consumo del territorio abnorme, disordinato, sprecone, indifferente a tutti i rischi»; che in nome del federalismo demaniale prima regala ai Comuni edifici storici e aree protette, e poi li obbliga a svenderli per far quadrare il bilancio.
Hanno ragione i migliori commentatori stranieri, per esempio sul New York Times o su Le Monde: «Pompei che crolla è metafora dell’instabilità politica dell’Italia, della sua incapacità di gestire il proprio patrimonio culturale». Perché a questo siamo giunti: devono essere gli stranieri a ricordarci la nostra tradizione e la nostra storia, e per riportare alla coscienza nazionale l’art. 9 della Costituzione ci vuole Barenboim che ne dà lettura alla Scala, Harding che fa lo stesso alla Fenice. Giocano sporco i finti Soloni che si stracciano le vesti per i tagli "necessari", dato il nostro enorme debito pubblico. Fingono di non sapere che altri Paesi (per esempio Francia e Germania), per uscire dalla crisi, investono in cultura e in ricerca. Fingono di dimenticare che l´Italia ha il record mondiale di evasione fiscale (attorno ai 280 miliardi di euro annui di imponibile evaso), che «la corruzione è una tassa immorale e occulta pagata con i soldi dei cittadini, almeno 60 miliardi di euro l’anno».
Degrado morale e civile, paralisi della politica, disprezzo della cultura sono aspetti complementari di uno stesso declino. Il disastro del paesaggio e dei beni culturali ne è potente metafora e sintomo macroscopico. Si sta finalmente destando la coscienza dei cittadini? Questo libro potrebbe, dovrebbe esserne segno e stimolo.
L’avvicinarsi dell’esito del Bando di ristrutturazione del corpo centrale della Villa Reale di Monza gestito da Infrastrutture Lombarde S.p.A. per conto del Consorzio Villa Reale e Parco di Monza impone rinnovata attenzione per una iniziativa che ha suscitato vivaci proteste e contestazioni diffuse e profonde. Italia Nostra aveva già evidenziato in fase di costituzione del Consorzio alcune debolezze statutarie e strutturali del nuovo ente gestore sottolineando, in particolare, il ruolo egemone esercitato da Regione Lombardia. Ne consegue che Infrastrutture Lombarde governa il Bando determinandone così le relative procedure palesemente lontane dalle indispensabili caratteristiche di trasparenza e partecipazione che un tale intervento richiede. Inoltre la pessima gestione della comunicazione e informazione alla cittadinanza ha segnato irrimediabilmente la reazione popolare al progetto.
La sproporzione fra l’investimento pubblico e quello del soggetto privato, sebbene mitigato dagli oneri di manutenzione a carico di quest’ultimo (resi noti solo in un secondo momento), la durata della concessione (30 anni, una generazione) e alcuni ambiti di uso (commerciale e artigianale) rappresentano le principali aree di preoccupazione che Italia Nostra ha fatto proprie. Non di meno appare lacunosa e a breve respiro la strategia di intervento sull’intera Reggia e sul Parco che – come da sempre sosteniamo – rappresentano un unicum inscindibile. Il frazionamento degli interventi di recupero non inquadrati in un piano completo di lavoro condiviso con le parti in gioco e con la collettività pongono, al di là di generici indirizzi e riferimenti normativi quadro, una seria ipoteca sul più adeguato e completo recupero funzionale e culturale del bene.
L’ostentata assenza dell’Amministrazione comunale monzese – non un euro di contributo – appare colposa e miope rispetto alle ricadute che il ritorno della Villa a nuovi fasti può avere sulla città. Peccato che la disponibilità di risorse pubbliche per il restauro conservativo della Villa, fatto che rappresenta un’importante e apprezzabile novità, sia denotata da queste infelici condizioni. Occorre ora, in caso di effettiva assegnazione e avvio dei lavori, vigilare sugli elementi progettuali, sulle caratteristiche anche di dettaglio dell’esecuzione dei lavori e – soprattutto – sulla successiva gestione degli spazi ad attività completate. Italia Nostra si impegna affinchè siano rigorosamente rispettate le prescrizioni del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio e delle altre norme di tutela. La Reggia di Monza merita un futuro migliore.
Italia Nostra – Sezione di Monza
E' in libreria "Vandali. L'assalto alle bellezze d'Italia" di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo (Rizzoli, 275 pagine, 18 euro). Una riflessione, amara e documentata, sulla situazione dei nostro patrimonio artistico e culturale e dei devastanti effetti della politica dei tagli attuata dal governo Berlusconi. «Eravamo i primi al mondo nel turismo - vi si legge -. Siamo precipitati per competitività al 28 posto.... Una classe dirigente seria sarebbe allarmatissima. La nostra no. Anzi, la cattiva politica è tutta concentrata su se stessa». Pubblichiamo parte del capitolo "La cultura rende? Alla «cricca» senz'altro".
“Pacco operaio! Pacco del lavoratore!». Era dai tempi in cui le sagre paesane erano battute da quegli ambulanti caciaroni che vendevano il celeberrimo «pacco» («E ti ci metto la coperta di lana matrimoniale! E ti ci metto la padella antiaderente! E ti ci metto il cacciavite multiuso...») che non si sentivano declamazioni come quelle di Mario Resca, l'uomo forte dei Beni Culturali berlusconiani. «Una recente indagine di Confcommercio (marzo 2009) ha dimostrato come un euro investito nella cultura ne genera 4 di indotto. Negli Stati Uniti un investimento nella cultura produce 7 volte quello che rende in Italia» dice sul sito ufficiale www.beniculturali.it. «Ogni euro investito in cultura genera un investimento 6 volte superiore» precisa in una chiacchierata con "Il giornale dell'arte". Il progetto Grande Brera costerà un mucchio di soldi ma quello non è un problema perché un po' dei finanziamenti arriverà dai fondi per i 150 anni dell'Unità d'Italia, un po' dai ministeri e il resto dalle istituzioni locali giacché «un euro investito in cultura ne rende 7 a 10 in ricaduta sul territorio» spiega al "Giorno" presentando l'iniziativa della quale lui è commissario. “Li troveremo i soldi» rassicura in contemporanea sul "Corriere": «Milano :..:. deve mettersi una mano sul cuore. E ricordare che un euro investito in cultura ne rende anche 10». Bum! «I1 turismo culturale è una grande fonte di reddito» incoraggia dopo il crollo della Schola Armaturarum di Pompei in un'intervista al "Giornale" di Alessandro Sallusti. E, spiegando che è «meglio investire qui piuttosto che nella manifattura, che nel nostro mondo globalizzato e in recessione è sempre più delocalizzata», conclude: «Un euro investito in cultura, dicono i nostri consulenti, rende da 6 a 12 volte l'investimento». Bum! «L'indotto generato dalla cultura e dal turismo culturale ha e avrà sempre un maggiore peso sulla nostra economia. Stiamo rilanciando la fruizione della cultura comunicando di più perché un euro in cultura rende 16 volte attraverso l'indotto del turismo culturale» dichiara (lo dice attraverso l'ufficio stampa del ministero!) al Forum mondiale che ad Avignone nel 2009 riunisce circa trecento personalità della cultura provenienti da tutto il mondo. Bum! Al di là dei numeri sui quali si sbizzarrisce, a metà gennaio 2011, l'ha detto anche a Vittorio Zincone, di "Sette": «Crediamo davvero che il futuro dei nostri figli sia ancora nelle fabbriche e nel manifatturiero? Lì non abbiamo speranze». Quindi? Tutti a fare i custodi nei musei? «No. Dobbiamo creare nuove professionalità: manager del Turismo e dei Beni culturali...» Come lui. Che per rimediare all'assenza di didascalie in inglese nel 76% dei nostri musei, parla in slang "macdonaldese"; «Con il marketing e i social network abbiamo colpito il target. Nell'ultimo anno c'è stato il 15% dei visitatori in più. Per questo business è un turn around fondamentale. Uno swing eccezionale». Sostiene che «i Beni culturali dovrebbero diventare un ministero di serie A. Perché nei prossimi vent'anni, se ci crediamo, potremmo assistere a un nuovo rinascimento nella produzione di ricchezza basato sulla leadership del nostro patrimonio culturale. L'Italia potrebbe diventare una grande Disneyland culturale». E dice che l'ha ricordato anche a Berlusconi: «Mi ha dato ragione. Ma poi ha altre preoccupazioni». Disneyland... Certo è che, a dispetto di questi discorsi, i finanziamenti alla cultura degli ultimi anni sono stati decimati. Direte: non è possibile! Se Silvio Berlusconi ripete da anni che occorre governare con il buon senso del «buon padre di famiglia», che lui è un imprenditore di successo e dunque sa come vanno spesi i soldi, che ha portato razionalità alla gestione dello Stato! I dati ufficiali sono implacabili. Da quel 2001 in cui tornò al potere per restarci l'intero decennio salvo la caotica parentesi prodiana, i finanziamenti pubblici ai Beni culturali sono andati giù precipizio. In dieci anni, dal 2001 al 2011, sono calati del 40%: da 2.386 a 1.429 milioni di euro. Ma se teniamo conto dell'inflazione, allora il crollo è stato del 50,5%. Il succo è che dieci anni fa lo Stato italiano dava al ministero dei Beni culturali più del doppio di oggi. Il che significa, poiché al di là delle sparate è assolutamente vero che un euro investito in cultura ne genera molto di più, che sono state buttate via potenzialmente decine di miliardi. Lasciando contemporaneamente che il nostro tesoro venisse saccheggiato dall'incuria, dall'indifferenza, dal degrado. Certo, anche nel 2000 la fetta più grossa se ne andava per la spesa corrente del ministero e delle sue strutture periferiche: stipendi, luce, telefoni, trasporti, affitti... Ragion per cui qualcuno potrebbe addirittura concludere che alla fin fine si sono risparmiati un sacco di soldi. Se però guardiamo la spesa per gli investimenti, tocchiamo con mano il disastro. Perché quella voce, in dieci anni, si è ridotta da 749 a 290 milioni, per scendere ulteriormente a 213 milioni nel 2011. Per capirci: soltanto quest'ultimo taglio di 79 milioni, se fosse vero che ogni euro culturale ne produce 16, avrebbe sottratto all'Italia un miliardo e 264 milioni di euro.
Niente stanziamenti adesso perché, secondo il governo, i fondi potrebbero essere erogati in maniera più compiuta «tra uno o due mesi attraverso un altro provvedimento, che potrebbe essere anche un decreto legge». A spiegarlo è il sottosegretario ai Beni Culturali, Francesco Maria Giro che argomenta così la decisione del governo: «Pur essendo l’emendamento su Pompei di fondamentale importanza per il sito, l’esecutivo ha deciso di ritirarlo per non stravolgere, come è accaduto in passato, la natura del decreto milleproroghe che, come si evince dal nome, dovrebbe contenere solo proroghe». Ufficiale comunque «l’intenzione di ripresentarlo» con l’inserimento di nuove norme che «daranno la possibilità alla Soprintendenza di Pompei di arginare il sistema burocratico, che appesantisce l’azione dei soprintendenti, dandole maggiori poteri per quanto riguarda spese, appalti e cantieri. Nonostante il blocco del turn over del pubblico impiego, la Soprintendenza avrà la possibilità di assumere nuovo personale.
Teniamo presente - ha concluso Giro - che gli scavi di Pompei avrebbero bisogno di almeno una trentina di archeologi». «Si tratta di una bocciatura tecnica e non politica» aggiunge il senatore del Pdl Lucio Malan, relatore dell’emendamento su Pompei. E aggiunge: «Se avessimo saputo della bocciatura avremmo evitato di presentarlo». Infine un riferimento a possibili finanziatori privati: «Se si facesse vivo qualche sponsor il governo sarebbe legittimato a fare un decreto ad hoc che ne consentisse l’immediato coinvolgimento». E ora, da dove si ricomincia? «Bisogna chiederlo al ministro Bondi» conclude il senatore del Pdl. Sempre per il fronte Pdl va registrata la posizione della senatrice Diana De Feo: «Il problema di Pompei non è assolutamente legato ai fondi. I soldi che il sito incassa dalle visite non solo gli bastano ma addirittura gli avanzano, visto che il Tesoro ha ritirato dalle casse degli scavi 70 milioni di euro, perché non erano stati spesi. Decine di architetti e ingegneri dell’università di Napoli sono poi pronti a mettere gratuitamente a disposizione le loro capacità per studiare a fondo la situazione».
Argomentazioni opposte arrivano dal dal Pd che, attraverso Vincenzo Vita (vicepresidente della commissione Cultura al Senato) annuncia che, dopo il ritiro dell’emendamento deciso dal governo, «sarà il Partito democratico a presentare in Parlamento un disegno di legge per la conservazione e la valorizzazione del sito archeologico». Lo stesso Vita, tra l’altro, ha anche dichiarato di non credere all’intenzione del governo di riproporre il provvedimento tra un paio di mesi, e di vedere «nella decisione del suo ritiro dal milleproroghe solo la conferma della totale assenza di una politica culturale negli atti e nelle scelte dell’esecutivo». Stessa linea che arriva dai sindacati. «Quella che sembrava una emergenza nazionale si legge in una nota della Uil - si è invece rivelata una ennesima boutade. Questo significa che ancora non esiste un piano per Pompei». Infine la Cgil Campania che, in una nota, esprime «contrarietà alla posizione espressa dal presidente della Regione circa l’orientamento che il sito di Pompei debba essere gestito più dai privati che dal pubblico».
Svendita dei beni culturali due indagati al ministero.
Francesco Erbani
La commode di Antoine-Robert Godreaus è sotto sequestro, custodita dai carabinieri. Lo ha deciso il Gip del Tribunale di Roma su richiesta della Procura che indaga sul tentativo di esportare il preziosissimo mobile del Settecento al centro di un tormentato contenzioso fra i proprietari, che vorrebbero trasferirlo all’estero, e chi sostiene che vada vincolato e debba restare in Italia. Nel procedimento figurano tre indagati: il segretario generale del ministero dei Beni culturali, Roberto Cecchi, la direttrice regionale del Lazio, Federica Galloni, e l’avvocato Giovanni Ciarrocca. Il reato: abuso d’ufficio.
È un braccio di ferro che dura da anni e che investe una questione centrale nella tutela dei beni culturali: si possono esportare opere d’arte che, pur essendo in Italia, non sono opera di artisti italiani? E fino a che punto ci si può spingere nel far circolare pezzi pregiati del patrimonio e nel farne commercio? Sul destino della commode (XVIII secolo, appartenuta a Luigi XV, finissimi intarsi, valore stimato 15 milioni) si sono divisi storici dell’arte e una spaccatura si è aperta nel ministero. Ma l’iniziativa della Procura e la decisione del Gip svelano molti retroscena. Da una serie di intercettazioni telefoniche risultano, sostengono gli inquirenti, contatti fra soggetti privati e funzionari pubblici in coincidenza con la decisione, nel 2009, di rimuovere il vincolo sulla commode, un vincolo imposto nel 1986 e che ne impediva l’esportazione.
La commode, in Italia dagli anni Sessanta, era stata acquistata da un finanziere libanese, Edmond J. Safra. Nel 1999 Safra venne ucciso a Monaco in misteriose circostanze e il mobile passò a una fondazione con sede nel Liechtenstein. Nel 2006 l’avvocato Ciarrocca si rivolse al ministero per conto della proprietà chiedendo di togliere il vincolo. La vicenda si ingarbuglia. Il Comitato tecnico-scientifico del ministero si riunisce per due volte nel 2009. Una prima emette parere contrario all’eliminazione del vincolo. Ma un mese dopo cambia opinione. La Procura ha accertato che a entrambe le riunioni è presente, oltre a Cecchi, l’avvocato Ciarrocca, sebbene il suo nome non figuri nel verbale e violando una prassi consolidata. A ottobre del 2009, contro il parere dell’ufficio legislativo, Cecchi rimuove il vincolo. La commode, però, resta bloccata: la direttrice dell’Ufficio esportazione del ministero, Sandra Gatti, blocca il trasferimento e chiede che venga reintrodotto il vincolo.
L’inchiesta non è conclusa. Secondo indiscrezioni, sembra più grave la posizione della Galloni, che pur sollecitata a imporre il vincolo, non lo ha fatto, di quella di Cecchi, la cui decisione, si sostiene, può rientrare nella sua discrezionalità. La commode è comunque sotto sequestro e la Procura ha ancora tempo per far luce su tutta la vicenda.
Il dovere di tutelare i nostri capolavori
Salvatore Settis
Nel naufragio della tutela a cui assistiamo, le incaute esportazioni di oggetti d’arte con lo specioso argomento che non furono prodotti da artisti italiani sono un capitolo non marginale. Il Codice (2004), come già la legge Bottai del 1939, inserisce fra i beni culturali vincolabili «le cose mobili e immobili che presentano interesse artistico particolarmente importante» di proprietà privata. È una norma che si fonda sui caratteri intrinseci delle opere da tutelare, a prescindere dalla razza o dal sangue di chi le ha prodotte: un Mantegna e un van Dyck sono protetti secondo un identico livello di tutela.
Secondo qualche improvvisato "esperto", un’opera di artista straniero non farebbe parte del patrimonio artistico italiano (in particolare se è stata in Italia "da poco tempo"), e sarebbe esportabile e commerciabile secondo la normativa vigente sulla circolazione dei beni nel territorio dell’Unione Europea. Ma nessuna norma lega la validità del vincolo all’etnia degli artisti né ai tempi di permanenza in Italia. Ancor più incauto è il richiamo alla libera circolazione dei beni in Europa. Essa non si applica alle opere d’arte, che secondo le convenzioni Unidroit e Unesco possono circolare solo in conformità alla legislazione del Paese in cui si trovano. La circolazione dei beni di pertinenza italiana, anzi, non può includere il patrimonio artistico senza violare l´art. 9 della Costituzione.
I tentativi di togliere il vincolo alle opere di artisti stranieri possono avere una sola ragione: "aprire un varco" nelle maglie della tutela. Se prevalesse la logica del "va’ fuori d’Italia, va’ fuori o stranier", continuerebbe l’emorragia di preziosi arazzi di manifattura fiamminga, ma spesso con committenza italiana. Di questa pulizia etnica resterebbero vittime i van Dyck di Genova, i Rubens di Mantova e di Roma, l´Innocenzo X o il Francesco I d´Este di Velázquez, perfino i disegni di Borromini, ticinese di nascita. Ma l’arte non ha patria, o meglio ha per patria la tutela. Contro l´interessato provincialismo di chi vuol ridurre la storia dell’arte entro le strettoie di etnie in conflitto, riaffermare le ragioni della tutela è una battaglia di civiltà. Fa parte della lotta per la legalità costituzionale che sta impegnando il Paese.
Ma si può restaurare il Colosseo senza i restauratori? Il plauso per l’accordo fra Diego Della Valle, il ministero dei Beni culturali e il Comune di Roma che rimetterà in sesto il monumento, cela il profondo malcontento dell’Ari, l’associazione che raggruppa i principali restauratori italiani. Che denuncia: gli interventi sull’Anfiteatro Flavio saranno appannaggio di grandi e medie imprese edili e non di chi il restauro ha studiato e sperimentato in tanti anni.
L’Ari si è rivolto al Tar del Lazio per una vicenda analoga, il lavoro sul tempio di Antonino e Faustina nel Foro romano, ma il ricorso è stato rigettato e ora si aspetta la sentenza del Consiglio di Stato. Ai giudici i restauratori chiedono di annullare i bandi di gara emessi da Roberto Cecchi, segretario generale del ministero ma anche commissario straordinario per l’area archeologica romana.
Il punto è delicatissimo e le scelte sul Colosseo, temono i restauratori, rischiano di diffondere una pratica che di fatto li esclude dagli interventi su un patrimonio architettonico che va dall’antichità classica agli edifici novecenteschi. Un altro duro colpo a una categoria in fortissima sofferenza e per la quale l’Italia ha menato vanto nei decenni scorsi. E che proprio a Roma, dove questa sofferenza è più acuta, ha dato ottime prove negli interventi degli anni Ottanta sulle colonne Traiana e Antonina, per esempio. Ma il clima ora sta cambiando in peggio.
Per quattro anni l’Istituto superiore per la conservazione e il restauro, fondato da Cesare Brandi nel 1938, è rimasto senza scuola, e da lì non sono usciti diplomati. I fondi a disposizione sono diminuiti drasticamente. E un anno fa è arrivato anche lo sfratto dalla storica sede di via San Francesco di Paola a Roma.
«Dei 7 milioni di euro, sui 25 totali, destinati ai lavori per i prospetti del Colosseo solo meno di un decimo verrà eseguito da restauratori», sostengono all´Ari. Ma allora chi pulirà le superfici decorate del monumento? «Nel bando emesso nell’agosto scorso per la ricerca degli sponsor si legge che più di nove decimi del lavoro sulle decorazioni verrà realizzato da operai edili, non qualificati come restauratori. E lo stesso accadrà per le parti interne dell’edificio».
Secondo i restauratori esistono una serie di interventi su un monumento che vanno certamente affidati a imprese edili, in particolare tutti quelli che incidono sulla struttura o che investono la statica dell’edificio. Ma per le decorazioni esterne, i capitelli e le trabeazioni, per esempio, è necessaria l’esperienza di chi ha specificamente studiato come si rimuove accuratamente il terriccio o il guano, come si puliscono incrostazioni o concrezioni con acqua demineralizzata, come si strappa la vegetazione o come si fanno impacchi per togliere il calcare dai marmi.
Questi lavori sono previsti per il Colosseo, ma, così com’è accaduto per il tempio di Antonino e Faustina, sono assegnati quasi esclusivamente alle imprese edili. Sono considerate operazioni generiche, anche se, aggiungono all’Ari, i costi indicati sono quelli ricavati dal prezziario della stessa Ari. Quindi lo Stato non risparmia niente, scansa soltanto gli specialisti e si affida a manodopera più generica. Mettendo in ginocchio una categoria già molto penalizzata. Soldi ce ne sono sempre meno, ma quei pochi che vanno per restauri sfuggono alle ditte di restauratori: stando ai dati dell´Osservatorio sui lavori pubblici, su 644 restauri compiuti nel 2009 appena 26 li hanno realizzati in prevalenza i restauratori, 618 le imprese edili. I restauratori si sono anche rivolti ai tre istituti di formazione, l’Iscr, l’Opificio per le pietre dure di Firenze e la Scuola di Venaria Reale. Sui quei banchi hanno imparato metodologie e pratiche di lavoro e ci tenevano a sapere se questo genere di interventi è proprio dei restauratori o se lo possono attuare anche operai edili. Gisella Capponi, direttrice dell’Iscr, non ha voluto esprimere valutazioni perché è in corso un giudizio amministrativo, ha detto.
L’Opificio fiorentino non ha neanche risposto, mentre la direttrice di Venaria, Lidia Rissotto, ha scritto un articolo in cui si chiede, per paradosso, se valga la pena «inseguire l’alta formazione del restauratore» e se ha senso far nascere l’elenco ufficiale dei restauratori se si deve poi sostenere che il Colosseo non è decorato e quindi può essere affidato alle cure di personale edile non specializzato.
Taglio netto ai termini per i procedimenti amministrativi riguardanti i beni culturali. Dalla dichiarazione di interesse al via libera alla realizzazione di interventi pesanti sugli immobili vincolati, fino all'approvazione in via sostitutiva dei piani paesaggistici. A essere stati ridotti, in alcuni casi anche dimezzati, sono i tempi di conclusione delle procedure superiori ai 90 giorni che non siano stati già esplicitamente fissati da leggi specifiche (si veda la tabella a fianco). Su questa materia è infatti intervenuto il Dpcm 231/2010, pubblicato in «Gazzetta Ufficiale» a inizio gennaio, sostituendo i vecchi termini (stabiliti in gran parte da un regolamento del 1994) con quelli nuovi, che non possono comunque superare i 180 giorni. Una misura richiesta dalla legge n. 69 del 2009 (articolo 7) sullo sviluppo economico e la semplificazione, con l'obiettivo di alleggerire il peso della burocrazia per chi si rivolge alla pubblica amministrazione per chiedere un documento, un certificato o un'autorizzazione. Una delle riduzioni più accentuate riguarda i tempi per la dichiarazione di interesse culturale che, nel caso degli immobili, deve essere ora rilasciata in 120 giorni rispetto ai 210 di prima. Il margine si riduce di tre mesi per ordinare la reintegrazione di un immobile tutelato che abbia subito interventi lesivi (da 270 a 180 giorni) o per imporre il pagamento dell'indennità in caso di danni (da 220 a 180). Portato a quattro mesi (due in meno), inoltre, il termine per decidere sulla realizzazione di lavori conservativi.
L'OK Al LAVORI
Discorso a parte per l'autorizzazione all'esecuzione di interventi sugli immobili vincolati. In caso di demolizione, rimozione o spostamento, infatti, il testo appena varato stabilisce il nuovo termine per il rilascio dell'atto in 180 giorni, rispetto ai 210 previsti dal regolamento del 1994, che includeva però anche la modificazione e il restauro degli edifici (ma non lo spostamento). Lavori, questi ultimi, che ricadono invece nella definizione dell'articolo 21, comma 4, del codice dei beni culturali (Dlgs 42/2004) e che devono quindi ottenere il via libera da parte delle Soprintendenze entro 120 giorni (articolo 22). Il nuovo regolamento, quindi, in questo caso non fa che riprendere il termine fissato dal codice.
I PIANI PAESISTICI
Per alcune tipologie di opere riguardanti gli immobili, inoltre, i termini sono stati fissati per la prima volta. Si tratta, ad esempio, dei 180 giorni entro i quali il ministero dei Beni culturali può approvare in via sostitutiva i piani paesaggistici sottoposti a verifica e adeguamento al Digs 42/2004 (il codice Urbani), in presenza o meno di un accordo ad hoc tra Ministero e Regione. Tempi di rilascio fissati anche per la concessione di contributi in conto capitale o in conto interessi per le spese relative a interventi conservativi: 180 giorni nel primo caso, 120 nel secondo. Rilevante anche il nuovo termine, stabilito in quattro mesi, per il via libera alla concessione in uso o locazione di immobili pubblici di interesse culturale per la valorizzazione e utilizzazione anche a fini economici: una scadenza che può interessare da vicino la realizzazione di opere in project financing.
LE CONSEGUENZE
L'impatto del nuovo regolamento "taglia-tempi" potrebbe mettere in difficoltà Soprintendenze e direzioni regionali, che dovranno fare i conti con termini più stringenti. «In molti dei casi considerati — minimizzano tuttavia dall'ufficio legislativo del ministero dei Beni culturali — i nuovi termini vengono già rispettati nei fatti». In caso di mancata risposta da parte delle amministrazioni, va detto, non scatta tuttavia il silenzio-assenso, ma il cosiddetto "silenzio-inadempimento" da parte dell'ufficio competente, contro il quale è possibile ricorrere davanti al giudice amministrativo (che può anche decidere per un risarcimento, in caso di danni provocati dall'inerzia della pubblica amministrazione). Si attende a giorni, intanto, fanno sapere ancora dal Mibac, la pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» del secondo decreto (Dpcm) sulla riduzione dei termini, quello riguardante i procedimenti da 31 a 90 giorni, nel quale ricade, ad esempio, il rilascio del parere vincolante sulle domande di autorizzazione paesaggistica in sanatoria.
Tagli ai tempi. I Sovrintendenti: serve personale
Sole 24 ore Edilizia e Territorio 07/2/2011
Le Soprintendenze fanno i conti con la stretta ai tempi sul rilascio di pareri e autorizzazioni. Il regolamento 231 è una ulteriore richiesta di accelerazione sullo svolgimento delle istruttorie da parte degli uffici periferici del Mibac incaricati di tutelare i beni culturali sul territorio nazionale. Un tassello che si aggiunge, tra l'altro, alla riduzione dei termini per esprimersi sui nullaosta paesaggistici (scattato a inizio 2010), in attesa del decreto (in arrivo) sulle procedure di durata inferiore ai tre mesi. «Ben venga la riduzione dei termini, che va incontro alle esigenze di privati e imprese, ma per farlo ci vogliono persone e mezzi a sufficienza, che invece non abbiamo». A dirlo è Paola Grifoni, soprintendente di Bologna, Modena e Reggio Emilia, che aggiunge: «Le procedure più complesse sono quelle che riguardano proprio il via libera agli interventi sugli immobili vincolati, perché necessitano di studi approfonditi e relazioni dettagliate, non facili da concludere in 120 giorni. Senza considerare l'assillo rappresentato dalle autorizzazioni paesaggistiche». La modifica che può pesare di più, afferma invece Andrea Alberti, alla guida della sede di Brescia, Verona e Mantova, «è il procedimento di dichiarazione di interesse, che passa per gli immobili da 210 a 120 giorni. Un taglio considerevole visto che si tratta del procedimento con cui si definiscono i vincoli, con tutta la documentazione necessaria, le osservazioni da valutare. Insomma, farlo con tre mesi in meno è più difficile. Invece le autorizzazioni per interventi sugli immobili vincolati, già si chiudono in 120 giorni». I problemi non sono legati tanto alle riduzioni dei termini recentemente introdotte, spiega Gianfranco D'Alò, architetto coordinatore della Soprintendenza dell'Abruzzo, «ma ad alcune tipologie di procedimenti che ingolfano gli uffici, togliendo tempo alle altre attività. È il caso delle richieste preventive di esistenza vincoli per la realizzazione di impianti per le energie rinnovabili, soprattutto parchi eolici e pannelli fotovoltaici, che richiedono ricerche molto articolate». Una situazione, quella abruzzese, aggravata dal fatto che «metà dei professionisti in organico sono distaccati presso la struttura commissariale per il post-terremoto». Un caso a parte, infine, è quello di Venezia e laguna, dove la soprintendente, Renata Codello, taglia corto: «La nostra struttura risponde sempre nei termini e continuerà a farlo. Le tipologie di interventi per i quali sono stati ridotti i tempi non sono particolarmente rilevanti. La demolizione di un immobile vincolato, ad esempio, è un caso talmente raro da essere irrilevante in un territorio come quello lagunare. E in ogni caso — precisa Codello — a Venezia c'è la legge speciale che già impone tempi più stretti con l'intervento della Commissione di salvaguardia».
Una delle numerose balle mediatiche che circolano nel nostro Paese è che i grandi musei del mondo sono imprese che fanno un sacco di soldi. E che siamo soltanto noi italiani a non saper sfruttare questa miniera d’oro dei tanti (qualcuno già dice troppi) musei, non sappiamo bene se 4.100 o un po’ di meno. Il primo esempio che viene citato di museo-macchina-da-soldi è il Louvre. Bisognerebbe allora leggersi i bilanci del mega-museo parigino. Uno dei più recenti ci dice che, nonostante gli 8 e più milioni di visitatori, i proventi della biglietteria sono risultati pari a 40,6 milioni di euro e che le “risorse proprie” del più grande museo del mondo sono state pari a 72,7 milioni di euro. Comprese sponsorizzazioni e donazioni (13,2 milioni). Ma a quanto sono ammontate le spese generali? A poco meno di 190 milioni. Difatti le sovvenzioni ricevute dallo Stato sfiorano i 110 milioni. Certo, dal 18-20 per cento di risorse proprie di una quindicina di anni fa si è saliti al 38 circa. Ma siamo lontanissimi dal guadagnare anche un solo centesimo. Di passaggio conviene sottolineare che al Louvre il personale pesa per un 44 per cento circa del bilancio.
Per altri grandi musei ho dati del 2001. Allora le sovvenzioni pubbliche andavano dal 60 al 77 per cento per il Rijkmuseum di Amsterdam, per il Prado, per il Museo Reale di Bruxelles, per l’Arken danese e così via. Casi a parte British Museum e National Gallery di Londra che, come è noto, sono “a offerta” ed hanno entrate proprie molto basse, escluse sponsorizzazioni e donazioni. Pure a parte c’è il caso dei Musei Vaticani, ma non mi risulta che sin qui, su quei bilanci, ci siano state indagini approfondite. Si sa che, su 3 milioni circa di visitatori, il 95 per cento paga un ticket mediamente più caro di quello dei nostri musei o delle nostre aree archeologiche dove la metà circa degli ingressi sono gratuiti (e riguardano studiosi, studenti, scolaresche, anziani, ecc.). Del resto, la cultura è o non è un servizio?
Ma v’è chi ritiene che anche con Verdi e con Rossini si “possa mangiare”, nel senso che si possono guadagnare dei bei denari. Illusione. Sembra già un vero e proprio miracolo laico che sotto la gestione di Gianni Borgna e di Carlo Fuortes, col propellente principale delle stagioni di Santa Cecilia, Musica per Roma, che gestisce il Parco della Musica, abbia raggiunto quote insperate di autofinanziamento, sul 66-67 per cento. Ma, puntualmente, il sindaco Alemanno si è intromesso congedando un competente come Borgna (che vi si dedicava a tempo pieno) per metterci il presidente degli industriali romani nonché presidente della Manifatture Sigaro Toscano SpA, partner di Egon Zender e di altro ancora, Aurelio Regina. E già il responsabile Cultura del Pdl, Federico Mollicone, attacca l’economista Carlo Fuortes amministratore delegato di Musica per Roma: un altro siluramento in vista per ragioni squisitamente politiche?
Ma torniamo a Verdi, cioè al teatro d’opera. Per dire che in nessun Paese di tradizione musicale lo Stato e gli enti regionali e locali si disinteressano della partita. Certo nessuno raggiunge i livelli del Teatro Costanzi di Roma dove, a fronte di una produzione limitata, i dipendenti risultavano aumentati (con gli aggiunti di Caracalla), mentre rimaneva modestissimo il livello delle entrate proprie. Però all’Opera Bastille di Parigi e all’Opera di Berlino le sovvenzioni pubbliche stanno sul 60-65 per cento e a Vienna salgono ancora. Del resto, è sempre stato così: ai tempi di Rossini e di Verdi l’intervento statale era determinante nei territori governati dall’Imperial Regio Governo, mentre Gioacchino Murat aveva importato a Napoli la casa da gioco (nel foyer del San Carlo) per finanziare anche così l’impresa teatrale. Insomma, gestiamo meglio l’intero apparato museale e teatral-musicale, risparmiamo, ma non illudiamoci di guadagnare “un mucchio di soldi”. Dati internazionali alla mano, è una balla clamorosa e deviante. Dovunque la cultura è considerata, questo sì, un buonissimo investimento: per quanto dà ad un Paese in termini di creatività e per l’indotto turistico che provoca. Formidabile se si è bravi e soprattutto non si strangola la cultura.
«Allora! This is the Foro». I due turisti californiani sorridono dell'inglese approssimativo della guida, che si rivolge con la stessa disinvoltura a un'altra coppia spagnola. «Erto es el centro de la città.. Andrea il tesserino di riconoscimento non ce l'ha. «No no, lo tengo, è sotto il giubbino: fa freddo. Non vede che neve sul Vesuvio? Ma sono autorizzato, glielo giuro». Il siparietto va in scena a Pompei, a tre mesi dal crollo della Casa dei gladiatori. Lo scandalo finito sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo è passato senza insegnare nulla. «Gli abusivi? Certo che ci sono. Non è cambiato nulla qui, tre mesi sono pochi. Dovete avere pazienza, voi giornalisti, chiosa un guardiano. Nel sito archeologico la piazza degli Scavi è quasi deserta. Ci sono più cani randagi che visitatori. Già, nonostante il progetto "Cave Canem" e i 100 mila euro versati dall'ex commissario Marcello Fiori per contrastare il randagismo, i quadrupedi continuano a scorrazzare tra le case. Intanto il numero delle domus aperte all'accesso dei turisti dal giorno della distruzione della Schola Armaturarum è diminuito. La domus di Pansa e quella della Fontana Piccola sono state chiuse al pubblico a "scopo precauzionale", mentre quella dei Casti Amanti e quella di Polibio - che era stata attrezzata con schermi al plasma ed effetti speciali, grazie a un progetto multimediale da un milione di euro - sono aperte solo sabato e domenica per mancanza di risorse: per pagare gli straordinari dei custodi non c'è un euro. Il cancelletto è chiuso, la catena blindata e il catenaccio anti-scasso non lasciano molte speranze ai turisti. Ai californiani non resta altro che fotografare, 50 metri più in là, le pietre della Schola. Sono ancora lì, sotto il tendone bianco che copre il mucchio. La foto non è solo l'immagine dell'immobilismo di un Paese, ma pure l'istantanea del fallimento della gestione commissariale voluta da Silvio Berlusconi e dal ministro Sandro Bondi: 80 milioni di euro impegnati in progetti spesso inutili. Le spese denunciate a novembre da "L'espresso" sono ora finite dentro alcuni fascicoli della procura della Repubblica di Torre Annunziata, che indaga su presunte uscite "allegre". Anche la Corte dei conti ci ha buttato l'occhio. Al lavoro ci sono i finanzieri della città campana, guidati dal colonnello Fabrizio Giaccone, che stanno spulciando tutta la documentazione acquisita in queste settimane. Delibere, consulenze, spese di rappresentanza, appalti, mandanti di pagamento. Tutto viene passato al setaccio. Da una parte gli investigatori, dall'altra gli uffici della Soprintendenza, al cui vertice si è appena insediata Teresa Elena Cinquantaquattro. Anche le operazioni degli ultimi due giorni di gestione di Fiori sono sotto la lente d'ingrandimento: in 48 ore sono stati impegnati 15 milioni di euro, cioè il 20 per cento dell'intera dotazione. Ben 54 voci di spesa al ritmo di 5.200 euro al minuto. In questa valanga finale di contratti, ci sono i 3 milioni 164 mila euro destinati alla Wind per la progettazione e la realizzazione di una serie di servizi, come il sito Web di PompeiViva, curiosamente consegnato appena una settimana dopo la stipula del contratto. Una sorta di miracolo multimediale. Un episodio singolare, come quello che riguarda l'appalto per il nuovo sistema di videosorveglianza. Originariamente i lavori sarebbero dovuti essere effettuati dalla Elsag Datamat, società del gruppo Finmeccanica coinvolta in un'inchiesta della procura di Napoli. Nei fascicoli rimasti in soprintendenza c'è ancora traccia di una bozza di incarico (datata 3 febbraio 2010) e di un piano di fattibilità approntato dall'azienda. Ma alla fine Fiori cambia idea, e decide di stipulare quegli appalti con la Wind. Nulla di strano se non fosse che, ancora oggi, i consulenti esterni che seguono quei progetti sono dipendenti incaricati proprio dalla Elsag. Mentre vengono piazzate telecamere, Pompei continua a sgretolarsi. Dal ministero, occupato da 90 giorni nella strenua difesa della poltrona di Bondi, non si annunciano aiuti. Secondo gli studi degli esperti, per mettere in sicurezza il sito archeologico più celebre del pianeta servirebbero 270 milioni di euro, ma finora non è stato messo sul tavolo nemmeno un centesimo. Gli altri muri crollati dopo la Schola restano a terra, il terrapieno sopra via dell'Abbondanza continua a franare, nel tunnel sotto gli spalti dell'Anfiteatro c'è ancora una discarica. Se il governo è immobile, Pompei punta allora sugli industriali partenopei. Che non hanno promesso miracoli (non metteranno mano ai portafogli), ma hanno annunciato progetti per attrarre investitori dall'estero, magari arabi, sulla falsariga di quel che sta accadendo a Roma, dove Diego Della Valle investirà milioni per il restauro del Colosseo. Tra loro c'è pure Aurelio De Laurentiis. «Guardi va bene tutto», afferma la guida infreddolita, «basta che il prossimo cinepanettone non s'intitoli "Natale a Pompei", perché qui non c'è niente da ridere».
La méthode Berlusconi appliquée à la conservation du somptueux site archéologique est une catastrophe.
Marcelle Padovani a mené l'enquête sur cet incroyable gâchis qui désespère les chercheurs et les amoureux de l'histoire antique, effarés par cette ubuesque allégorie de l'Italie contemporaine
0n attendait Silvio Berlusconi, évidemment. A l'aube de ce matin du 6 novembre dernier, la célèbre maison des Gladiateurs s'était écroulée comme un château de cartes. De l'élégant cube de 60 mètres carrés décore de fresques sublimes, où, au temps de la splendeur de Pompéi, les combattants venaient déposer leurs armes, il ne restait que des gravats. Il y a bien longtemps que Berlusconi ne s'était pas rendu à Pompei mais, cette fois, sa visite paraissait s'imposer. Comme le lointain rappel de la visite de Néron au Colisée, en 64 après Jesus-Christ, lorsque Rome s'effondrait dans les flammes ! Face au désastre, comment ne pas trouver logique que le président du Conseil italien manifeste sa solidarité aux archéologues et au monde de la culture en général ? D'autant que, déjà, un scandale couvait : une équipe d'ouvriers chargée du contrôle du site avait prévenu trois jours plus tôt que les pluies pouvaient entraîner l'éboulement du célèbre édifice... et personne n'avait entendu le signal d'alarme. L'incurie était scandaleuse. Mais Silvio Berlusconi, retenu à Rome par une énième crise politique, n'avait pas fait le déplacement. Ce n'était pas la première fois que le président faisait défaut. Au début du mois d'octobre 2009, Berlusconi devait déjà se rendre en visite officielle sur le célèbre site archéologique.
L'atmosphère était électrique, dans les bureaux du commissaire spécial, un manager expédié en toute hâte par le même Berlusconi pour résoudre, en dehors des circuits normaux et d'un coup de baguette magique, tous les problèmes de la ville mythique ensevelie sous les cendres après l'éruption du Vésuve, il y a près de deux mille ans. On attendait le « Cavaliere », ses cheveux gominés, son maquillage outrancier et sa dégaine de politicien bedonnant. On se racontait déjà les commentaires qu'il ne manquerait pas de faire devant la maison des Chastes amants, si chastes qu’ils esquissent à peine un baiser. Et surtout devant le Lupanar. Ah, le Lupanar ! Si quelqu'un avait une bonne blague à raconter, ce serait bien lui, Silvio Berlusconi, grand spécialiste en escort girls, ces dignes descendantes des meretrici, les prostituées romaines. On le voyait bien devant les trois fresques, celle où « la dame et le monsieur font 69 », comme dit un guide, celle où « la dame fait le tire-bouchon » et celle où « elle fait la levrette ». On entendait déjà les rires gras de l'escorte et des fonctionnaires et journalistes de la suite présidentielle... Pour accueillir dignement Berlusconi, le commissaire spécial Marcello Fiori avait d'abord pensé dérouler des tapis rouges au milieu des ruines, mais cela paraissait vraiment trop difficile sur les énormes pavés pompéiens. Il se replia alors sur le ciment, tellement plus facile à étaler et qui éviterait au «Cavaliere » de se fouler la cheville.
Aussi, devant la nécropole de la porte Nocera, lieu majestueux où reposent les riches aristocrates pompéiens, il a eu l'idée de génie de faire couler du ciment. «Nous avons découvert le massacre un beau matin, raconte Maria Rosaria, étudiante en archéologie. Des ouvriers avaient été envoyés par le commissaire Fiori la nuit précédente et avaient tartiné la promenade de ciment, sans aucun contrôle archéologique » Coût de l'opération :60000 euros, plus 9600 pour «l’accueil» du président et 11000 pour un «nettoyage extraordinaire ». Hélas, une fois de plus, Berlusconi n'est pas venu voir la nécropole. Et pas davantage les petites ruelles qui montent droit vers le Vésuve et ont reçu, elles aussi, le même traitement de choc, les pavés millénaires ayant été recouverts d'une couche de ciment gris. Belle illustration de la conception berlusconienne de la conservation du patrimoine, infiniment plus meurtrière que l'usure du temps, les pluies, le vent, les intempéries et les grosses chaleurs de l'été qui érodent les pierres, creusent des tranchées et effacent les fresques... Mais les dégâts du berlusconisme ne s'arrêtent pas là. Si l'on s'approche du Grand Théâtre, un bel amphithéâtre en demi-cercle, qui abritait autrefois les spectacles musicaux de cette ville de 12 000 habitants, on voit tout de suite qu'il a été littéralement défiguré. Les gradins en tuf gris, typique de Pompéi, ont été remplacés par des gradins en tuf jaune des Campi Flegrei, une localité voisine. C'est comme une gifle en plein soleil. Le travail a été fait à la va-vite en mai dernier et a coûté une fortune : 6 millions d'euros sur un budget annuel de 20 millions. Le prétexte de cette rénovation sauvage ? Le 10 juin, une soirée inoubliable devait avoir lieu dans les ruines : le concert de l'Orchestre du Teatro San Carlo sous la direction du maestro Riccardo Muti. Le concert est passé. Le désastre est resté. La hâte du commissaire berlusconien a été dénoncée dans la presse. Marcello Fiori a aussitôt répliqué qu'il «ferait enlever les déplorables gradins jaunes ». Mais, pour les archéologues, « c'est un remède pire que le mal, parce que, pour enlever le tuf jaune, il faudra faire revenir les grues, les pelleteuses et les excavatrices, qui feront une fois de plus trembler ces antiques chefs-d'œuvre ».
Si Pompéi a été relativement épargnée par l'histoire, elle l'est donc moins par le populisme berlusconien. Autant « recouvrir Pompéi de terre, pour biter d'autres interventions humaines, d'autres gâchis... », propose l'écrivain Erri De Luca, prix Femina étranger en 2002 pour son roman « Montedidio », comme si à l'absurde on ne pouvait répondre que par l'absurde... Les commissaires spéciaux (il y en a eu deux en deux ans, en plus des trois surintendants) ont appliqué à la lettre les fondamentaux du populisme made in Italy: tout est dans l'image. On s'en aperçoit dès l'entrée du site. Pour rajeunir Pompéi et lui donner un air à la mode, les commissaires ont inventé le sigle «Pompei viva » (Pompei vivante), qui devait attirer un tourisme d'un genre nouveau vers le site archéologique le plus connu du monde, inscrit en 1997 par l'Unesco au Patrimoine de l'humanité. Ils ont commencé avec la construction de deux galeries en verre qui encadrent l'entrée et qui ne servent à rien. Elles sont là, fermées au public par tous les temps. «Personne n'a compris leur utilité, grincent les archéologues, elles deviendront un jour elles aussi des ruines ». Décidément, à Pompéi, l'imagination est sans limites. On a ainsi inventé le projet «Ave canem » (Bienvenue aux chiens). Il s'agissait de recenser et de stériliser les chiens de Pompéi en les dotant d'une puce électronique et d'une médaille gravée d'un nom ancien, comme Plaute, Polybe ou Ménandre, et en les faisant nourrir par les gardiens.
Résultat : avec l'été, tous les Napolitains qui voulaient se débarrasser de leur bête sont venus l'abandonner dans les ruines. Les meutes, au lieu de diminuer, ont considérablement grossi. On les rencontre près des plus belles domus, occupés à lézarder au soleil ou à faire leurs besoins. «Pompei viva» a créé d'autres ennuis. Avec le lancement de «Pompei bike », 25 bicyclettes qui auraient dû offrir 5 kilomètres de balades dans les mines n'ont pu évidemment circuler sur les énormes pavés pompéiens. Elles ont d'ailleurs complètement disparu. Idem pour «Pompei friendly » : il s'agissait cette fois de faciliter l'accès aux handicapés avec des rampes spéciales devant les domus. Mais elles ont été tellement mal conçues qu'elles sont impraticables : on les voit aujourd'hui barrées d'un cordon rouge. Et les seuls handicapés moteurs que l'on croise dans les runes sont portés à bout de bras par des volontaires de la Croix-Rouge...
Ni surveillant ni camera visibles
Mais ce n'est pas tout. Plus que les infiltrations d'eau, les mosaïques décollées, les domus fermées depuis des décennies, les murs écroulés et les colonnes qui cèdent, ce sont des opérations douteuses comme «Pompei viva» qui peuvent « tuer un patrimoine », estime le recteur de l'université de Pise, Salvatore Settis. La dégradation artificielle infligée à Pompéi est révélatrice de la « philosophie » berlusconienne. Fidèle à lui-même et à son histoire, Silvio Berlusconi a voulu privilégier, même à Pompéi, l'ostentation, la politique des gadgets, les opérations de façade, les kermesses, les concerts exceptionnels, les initiatives promotionnelles, comme si Pompéi était une nouvelle marque à faire connaître aux consommateurs. Déstabilisant avec une totale désinvolture une ville fragile, qui reste une mine pour les chercheurs du monde entier, et privilégiant la communication sur la conservation. Une page de Facebook avait depuis longtemps lancé l'alarme : « Stop killing Pompei ruins» (Arrêtez de tuer les runes de Pompéi). D'autres avaient pris le relais, l'archéologue Oscar De Simone affirmant tranquillement que « le marketing est plus dangereux que le Vésuve ».
Car les vrais problèmes de Pompéi sont d'une tout autre nature. Il suffit pour s'en convaincre d'en parler avec l'excellent surintendant que fut Pietro Guzzo ou avec le directeur général des Antiquités pour les biens et activités culturels Stefano De Caro, écartés l'un après l'autre par le gouvernement Berlusconi, au motif incroyable qu'ils auraient eu une approche « de gauche des problèmes de la restauration... Il y a d'abord la question du personnel : largement insuffisant. Car «c'est une ville de 69 hectares qu'on gère, avec tour les soucis d'une vraie ville, ses rues, ses trottoirs, ses magasins, ses maison d'habitation, ses égouts, son réseau de distribution d'eau, ses jardins, où vivent ou transitent chaque jour 15 000 personnes », souligne Stefano De Caro. C'est d'ailleurs une chose qui frappe tout de suite le visiteur : jamais aucun contrôle, aucun surveillant, aucune camera ne sont visibles. Nous n'avons pour notre part entrevu qu'une seule fois quatre gardiens, et ils jouaient aux cartes assis à l'ombre de deux murs à moitié écroulés au croisement du vicolo della Maschera (ruelle du Masque) et du vicolo degli Scheletri (ruelle des Squelettes). Cette absence de surveillance peut avoir des conséquences désastreuses, notamment en termes de vols.
Car on vole beaucoup à Pompéi. Le 19 janvier dernier, lors d'une opération anti-Camorra, les carabiniers ont découvert des mosaïques, des ustensiles, des monnaies, cachés en bordure de la zone non explorée de Pompéi, qui s'étend sur 22 hectares et qui regorge de trésors ensevelis. Les malandrins les avaient stockés pour les sortir du site pendant la nuit. En juin 2009, les mêmes carabiniers avaient mis au jour une galerie souterraine qui permettait aux voleurs de transporter rapidement hors du site des amphores, des morceaux de chapiteau, des mortiers, des cornes de cerf, des monnaies et une meule en pierre lavique. En juillet 2001, ils avaient déjà arrêté 29 personnes surprises en train de s'exercer au détecteur de métal pour localiser les œuvres d'art enterrées sous les terre-pleins. Pour convaincre le gouvernement de la nécessité d'augmenter les contrôles et pour dénoncer son désintérêt pour le patrimoine, un journaliste du quotidien napolitain « Il Mattino » a fait une expérience : il a dérobé le 10 novembre à 10 h 27 à la fontana del Vigneto del Triclinio Estivo un fragment de mosaïque qu'il a replacé à 13 heures dans son alvéole. Un jeu d'enfant, a-t-il raconté. Personne ne s'est aperçu de rien. La protection de ce véritable musée à ciel ouvert exigerait donc des investissements. Chose impensable sous Berlusconi, qui a réduit de 0,85% à 0,21% du budget national les sommes consacrées à la culture. «Pour un site si étendu, les ressources sont bien faibles », dit De Caro. Car Pompéi, qui rapporte 20 millions d'euros par an rien qu'en billets d'entrée, se voit amputer de 30% de son budget par le ministère des Biens culturels, qui redistribue la somme à sa guise. Mais, surtout, il faudrait convaincre le même ministère qu'il est aberrant de séparer la gestion de la restauration. « On crée ainsi une dichotomie insurmontable entre celui qui a l'argent et celui qui veut le dépenser. On empêche en fait l'archéologue de trancher en dernière analyse face au comptable », souligne le surintendant Pietro Guzzo.
Mais, par-delà les grands choix stratégiques et les histoires de gros sous évoqués par les anciens responsables de Pompéi, il y aurait aussi une série de solutions à visage humain pour redonner des couleurs au site. Il suffit de parler avec les gens qui y travaillent, et qui vous font voir un trésor exceptionnel, dont les touristes n'ont pas idée : les vignobles cachés au beau milieu des ruines. Incroyable mais vrai : depuis 1996, chaque année au mois d'octobre, on vendange à Pompéi. Cette année-là, Pietro Guzzo avait signé à titre expérimental un accord avec le vignoble napolitain Mastroberardino. Pour exploiter un minuscule arpent, 200 mètres carrés au croisement de la via di Nocera et de la via di Castricio. Il s'agissait de replanter des cépages d'origine, tels le Greco, l'Aglianico et le Falanghina, les deux premiers ayant été importés autrefois de Grèce, comme le soulignait l'historien Pline le Jeune — chroniqueur de l'éruption du Vésuve — dans sa «Naturalis Historia ». Aujourd'hui, ces vignobles couvrent pratiquement 2 hectares et pourraient être encore étendus, permettant à la ville ensevelie de revivre grâce au vin. Car Mastroberardino a gagné de l'argent avec son vin de Pompéi, baptisé « Villa dei Misteri » (Villa des Mystères), en organisant par exemple en 2009 une vente de charité de 1781 bouteilles rares, à 30 euros la pièce. Pourquoi ne pas étendre l'expérience à d'autres spécialités régionales, comme les oliviers, qui pourraient produire de l'« huile de Pompéi », selon les recettes d'il y a deux mille ans ? Bien sir, ni l'huile ni le vin n'empêcheront les murs de Pompéi de s'écrouler. Mais ils pourraient donner un coup de pouce au budget. « Par où commencer si ce n'est par la vigne? écrivait déjà Pline le Jeune. Cette vigne où l'Italie a une suprématie incontestable et qui lui permet de dépasser en richesse même les pays qui produisent du parfum... D'ailleurs, il n'est pas au monde de délice supérieur à celui du parfum des vignes en fleur... » Pompéi sauvée par le vin ? Même au pays du «Cavaliere», il n'est pas interdit de rêver...
Combattiva ancora oggi, con sulle spalle il «peso meraviglioso» di oltre mezzo secolo di appelli e battaglie in nome della cultura e in difesa del paesaggio, sempre più aggredito, nei decenni, da asfalto, cemento, speculazioni, condoni. Sos continui per il Bel Paese, i suoi, cominciati ancor prima di quel 1955, anno di nascita ufficiale di Italia Nostra, associazione che lei fondò insieme con gli amici di una vita Elena Croce, Umberto Zanotti Bianco, Giorgio Bassani, Pietro Paolo Trompeo e Hubert Howard, marito di Lelia Caetani. Ai quali si aggiunsero fin da subito Antonio Cederna e tanti altri tra letterati, archeologi, critici d'arte, artisti, urbanisti. Tutti diversi per generazione, stili di vita e idee politiche (liberali, liberalsocialisti, azionisti, monarchici, di sinistra): Ma tutti accumunati da una sorta di aristocrazia dei pensiero e nel nome di una battaglia di civiltà che ai tempi nessuno conduceva.
«Si trattava di ribellarsi agli sventramenti che nel dopoguerra continuavano come e più di prima, si trattava di salvare i centri storici dalla cosiddetta ricostruzione selvaggia, si trattava, ad esempio a Roma, di battersi contro l'ennesimo scempio annunciato, un'arteria parallela al Corso a partire da piazza di Spagna. E si trattava di salvare l'Appia Antica, che senza il nostro impegno sarebbe oggi uno stradone cementificato come tanti altri». A parlare è una delle cofondatrici di Italia Nostra, ultima sopravvissuta tra i protagonisti di quel lontano pomeriggio del 29 ottobre '55. La prima associazione ambientalista e di tutela in Italia nacque proprio in casa sua, piazza Cairoli, nel palazzo di famiglia dove ancora oggi vive la contessa Desideria Pasolini dall'Onda, casato nobile dal XIII secolo. Desideria, classe 1920, una miniera di ricordi e una vita spesa in prima linea in difesa del patrimonio artistico e delle bellezze naturali, accoglie ancora adesso il visitatore nella biblioteca del Palazzo, sugli stessi divani rivestiti in velluto cilestrino dove sedettero Bassani, Croce (anche don Benedetto era di casa, Elena, sua figlia, abitava al piano di sotto) e tanti altri protagonisti tra Otto e Novecento: «Vede, lei è seduto proprio dove si metteva sempre Cederna, amico meraviglioso, strambo e geniale. Bassani invece usava quell'altra poltrona». Sprizzante energia, lucidissima, impegnata con l'ennesimo lavoro (in queste ore sta preparando una conferenza proprio sulle origini di Italia Nostra) l'indomita Desideria — nei cui discorsi ricorrono senza enfasi bellissime parole quali intellettuale, impegno, etica, tutela — è stata pochi giorni fa insignita della presidenza onoraria del «Comitato perla bellezza» presieduto da Vittorio Emiliani, altro amico e sodale di battaglie in nome della Cultura.
Nella motivazione anche un breve profilo biografico di Donna Desideria, che pur in sintesi racconta l'eccezionale esistenza di questa nobile signora (aristocrazia di studi e pensiero, prima che di sangue) che fu allieva di Pietro Toesca e Cesare Brandi, studiosa di letteratura inglese, traduttrice di Stevenson e della Woolf. Da Italia Nostra, di cui la Pasolini fu presidente, è polemicamente uscita in seguito alla vendita della villa di via Porpora ai Paioli, lasciata in eredità all'associazione, per farne la sede nazionale, da Maria Luisa Astaldi, scrittrice e moglie di Sante, industriale e fondatore del gruppo (ferrovie, acquedotti) che ancora porta il suo nome: «Ribadisco, quella vendita fu un grave errore. Si trattava di un bene morale e culturale. Problemi di bilancio si potevano risolvere con un mutuo o affittando l'immobile». Che quella non fosse una casa qualunque c'è d'altronde una lunga storia a testimoniarlo. In quelle stanze passarono tanti grandi nomi del Novecento, artisti, letterati, architetti, principi del giornalismo: De Chirico, Savinio, Praz, lo stesso Bassani, Levi, Campigli, Argan, la famiglia Cecchi, Palma Bucarelli, Paolo Monelli... Ché gli Astaldi, è noto, furono anche mecenati: «Maria Luisa — ricorda Desideria — fu una delle prime a finanziare l'associazione». Ma prima di lei a sostenere il gruppo fu il leggendario banchiere-mecenate Raffaele Mattioli: «Ogni tanto ci portava a cena in trattoria. La prima volta lo contattai io chiedendo un appuntamento. Speravo in un piccolo contributo, invece firmò un assegno da tre milioni».
La brillante conversazione con Desideria scivola via tra pensieri sull'integrità dei centri storici come unicum («Fummo i primi a porre il problema), auspici per il futuro («Che la scuola torni a formare l'amore per la conoscenza») e i mille ricordi di una vita degna di una biografia: le ascendenze del casato (sua madre è una Borghese, Desideria tra i suoi avi conta il Cardinal Scipione e Paolina Bonaparte), gli incontri del suo bisnonno nella villa di Montericco con Minghetti, Ricasoli, Capponi, un'altra bisnonna, Antonietta Bassi, aristocratica milanese autrice di una raccolta sull'architettura sparita, Croce che la spinge a riscrivere parte della tesi («Aveva ragione lui») e sé stessa bimba in quei martedì quand'era ospite fisso in casa Pascarella: «Sì, una vita bellissima. Stanca? Per niente. Ho lo stesso spirito ribelle di quand'ero giovane. Paesaggio, periferie, giardini, c'è ancora tanto fare. E il vento che soffia oggi non è dei migliori».
La nomina
In questi giorni il Comitato per la Bellezza, al quale aderiscono le principali associazioni ambientaliste e dedite alla tutela, ha deciso unanimemente di attribuire a Desideria Pasolini dall'Onda, componente del Comitato stesso, la presidenza onoraria. Una attribuzione che avviene in spirito di amicizia, si legge nel comunicato, “riconoscendo all'indomita Desideria di condurre una battaglia, più che cinquantennale e senza sosta, per la tutela del paesaggio, con particolare attenzione a quello agrario (che considera quasi una sua "fissazione'), e del patrimonio storico-artistico della Nazione”. Si tratta «di una piccola cosa., ha commentato il presidente Vittorio Emiliani, che però tutti noi attribuiamo con grande piacere e calore a Desideria Pasolini.
Da sempre chi opera nel settore dei beni culturali si lamenta che gli organi mediatici riservino alle vicende del nostro patrimonio un’attenzione distratta e concentrata quasi esclusivamente sull’”evento” - la grande mostra o la scoperta archeologica eccezionale – e per lo più confinata nell’ambito degli articoli di alleggerimento.
Non così è successo il 6 novembre in seguito al crollo avvenuto a Pompei. Le immagini di quel cumulo di massi rovinosamente crollati lungo uno degli assi viari principali del sito archeologico, via dell’Abbondanza, hanno fatto il giro del mondo in poche ore e monopolizzato le cronache dei media internazionali per settimane. Un cumulo di rovine: a questo è ridotta la così detta Casa dei Gladiatori, o meglio Schola Armaturarum, un edificio destinato probabilmente a magazzino o palestra per la juventus pompeiana. Nei giorni successivi nuovi crolli – con devastante effetto domino - hanno interessato altre domus nella stessa area, rafforzando la consapevolezza di una situazione di gravissimo rischio, se non addirittura fuori controllo.
L’attenzione mondiale riservata all’evento pompeiano deriva senz’altro dall’importanza assolutamente cruciale di questo sito per la cultura non solo occidentale. Tappa obbligata del Grand Tour, la suggestione di Pompei, unicum archeologico, l’ha resa una delle matrici della nostra memoria e immaginario dell’antico, per essere trasformata, in quest’ultima fase, in location sempre più congestionata di un turismo di massa inconsapevole e smemorato.
Gli scavi di Pompei hanno subito, da duecentocinquant’anni a questa parte, ingiurie di ogni tipo, dall’incuria ai terremoti, e financo le bombe della seconda guerra mondiale, ma i crolli di cui parlano le cronache di oggi possono essere classificati come il risultato diretto della scelta di commissariare l’area archeologica campana. Fin dall’avvio di quella esperienza (luglio 2008) da molti studiosi erano stati evidenziati i rischi di tale soluzione, connessi a prerogative di deroga sistematica dalle normali procedure amministrative e dall’annullamento di verifiche e controlli propri di un’ordinanza di Protezione Civile.
La Corte dei Conti, a posteriori, ha giudicato illegittima quella Ordinanza per la pretestuosità palese delle motivazioni – la situazione di degrado del sito segnalata dai media - ma nel frattempo la gestione commissariale è continuata per due anni con un crescendo attivistico (e di spesa) impennatosi a partire dall’estate del 2009.
Da allora i fondi, non irrisori, della Soprintendenza sono stati gestiti per un affastellarsi di iniziative eterogenee e di dubbio risultato, in un climax di autocelebrazione mediatica: con questa operazione il sito campano è di fatto divenuto il primo esperimento di una gestione che si voleva “innovativa” del nostro patrimonio, il primo esempio, da esportare, di una divaricazione drastica fra patrimonio culturale di serie A in quanto di certa redditività economico-turistica (Colosseo, Pompei, Uffizi) e patrimonio di serie B, costituito dalla stragrande maggioranza dei nostri beni culturali dispersi a migliaia sul territorio a costruire quel museo diffuso che è caratteristica davvero unica del nostro paese ma destinato, soprattutto dopo i ripetuti tagli di Bilancio del Mibac, ad un incerto futuro.
Senonchè, soprattutto a partire dal gennaio 2010 (primo crollo presso la Casa dei Casti Amanti), le lacune e inadempienze gestionali del commissariamento sono venute emergendo con evidenza sempre maggiore.
Così ha suscitato le aspre critiche del mondo scientifico internazionale il restauro del Teatro Grande, giudicato invasivo e distruttivo e allestito con fretta estrema anche tramite ampio impiego di mezzi impropri, escavatrici e bobcat, per ospitare eventi di ogni tipo e per tutti i gusti. Allo stesso modo l’allestimento della Casa di Giulio Polibio con gadgets tecnologici (ologrammi e video) alquanto superati dal punto di vista dell’efficacia comunicativa, non solo è risultato costosissimo, ma non ha risparmiato la stessa domus da problemi di crolli successivi.
Sia detto senza ambiguità: Pompei soffre davvero di una situazione di degrado diffuso che è legata principalmente ad un contesto “ambientale” ad alta complessità e ad alto rischio. E tale situazione, è doveroso riconoscerlo, precede l’avvio del commissariamento: su una sua soluzione efficace, quindi, avrebbero dovuto essere concentrati gli sforzi di un intervento straordinario, lasciando nelle mani della Soprintendenza le risorse e la piena operatività delle attività di tutela, peraltro svolte fino allo scorso anno con risultati di riconosciuto prestigio e finalizzate ad un piano di restauro e conservazione dell’immenso patrimonio pompeiano graduale, ma sistematico.
L’arrivo del commissario ha stravolto tale piano, concentrando e spesso dissipando le risorse su attività di “valorizzazione” effimere e talora incongrue con le finalità di tutela: i risultati sono quelli che stanno dilagando, da alcune settimane, sui siti e le televisioni di tutto il mondo.
Il commissariamento di Pompei e i suoi esiti deludenti e addirittura negativi, rivestono però un carattere esemplare non solo perchè accadute in uno dei luoghi simbolo della cultura occidentale, ma perchè incarnano i rischi di una deriva delle politiche culturali e del nostro rapporto col patrimonio culturale in atto da molti anni e giunta probabilmente ad un punto di non ritorno.
Deriva che possiamo far risalire per lo meno ai famosi “giacimenti culturali” voluti dall’allora Ministro dei Lavori Pubblici Gianni De Michelis alla fine dei ruggenti anni ’80. Da quel momento, pur con rallentamenti, ma irreversibilmente, si è radicata, a partire dal mondo politico nostrano (e in maniera bipartisan) l’accezione di “bene culturale” come portatore di sviluppo economico (nella versione politically correct) o addirittura di “prodotto” da vendere sul mercato, in rapida espansione, del turismo culturale.
In questa trasformazione semantica, accellerata nell’ultimo lustro, ma che è fenomeno non solo italiano, indagato acutamente, fra gli altri da Marc Fumaroli, il patrimonio culturale ha quindi cessato di essere un bene in sè, finalizzato alla conoscenza, all’educazione, per divenire il mezzo – uno dei tanti – di produzione economica, tanto più apprezzabile quanto maggiormente “produttivo”.
Nella mancanza complessiva di una visione culturale che connota soprattutto l’ultimo biennio di attività del Ministero dei Beni e delle Attività culturali, unico indirizzo coerentemente perseguito è stato rappresentato dall’accentuazione esasperata delle pratiche di valorizzazione, culminate con la nomina di apposito manager e codazzo annesso di pubblicitari che, in nome del marketing, in un anno e mezzo di attività hanno saputo produrre, fra continue fanfare mediatiche, solo qualche bislacca campagna promozionale per rendere ancor più appetibili i monumenti icona del nostro patrimonio già oppressi da una pressione antropica che non ha mancato di provocare i primi segnali di rischio: i cedimenti dei mesi scorsi al Colosseo stanno a dimostrarlo.
Alla stessa visione pubblicistica (essendo il marketing vero e proprio comunque collocato su un altro livello di complessità), è ben presto risultata ispirata anche la pratica dei commissariamenti dei principali siti e monumenti nazionali.
Nati per risolvere situazioni di degrado – vere o pretestuose che fossero – caratterizzati da una gestione mediatica aggressiva quanto superficiale, sul piano della strategia culturale queste iniziative hanno ben presto evidenziato un vuoto preoccupante, rifugiandosi in operazioni di maquillage (Pompei) o di semplice manutenzione ordinaria (Roma) dei siti e monumenti. A conclusione dell’esperienza, oltre agli esiti drammaticamente evidenti per quanto riguarda la stessa integrità fisica del patrimonio, del tutto irrisolti appaiono i molti problemi di carattere amministrativo, organizzativo e culturale che affliggono non solo i siti commissariati, ma l’intera struttura del Ministero Beni Culturali, da anni avviata verso un graduale collasso, accelerato, nell’ultimo biennio, da un affastellarsi di provvedimenti spesso punitivi (tagli di bilancio draconiani) e contraddittori (riorganizzazioni e “semplificazioni”). Per tali ragioni, l’esperimento dei commissariamenti è stato equiparato al “modello Alitalia”, in quanto mirato a separare, come sopra ricordato, il patrimonio culturale a maggiore redditività (Colosseo, Pompei, Uffizi) da gestire coi privati, dalla bad company rappresentata dallo sterminato patrimonio minore diffuso sul territorio e destinato ad un gramo destino di lenta asfissia economica. Non è un caso che per il futuro di Pompei si continui tuttora a parlare di una Fondazione mista (pubblico-privato), incuranti del fatto che l’unico esempio di qualche consistenza di questo modello, il Museo Egizio di Torino, stenti da anni a trovare una decorosa identità culturale.
I commissariamenti hanno costituito, insomma, l’iniziativa più fragorosa, ma non l’unica, di un disegno di dismissione complessiva del sistema delle tutele evidente, ad esempio, anche per quanto riguarda la tutela del paesaggio aggredita da una miriade di provvedimenti legislativi tesi a favorire in ogni modo le iniziative di sfruttamento del territorio, da quelle edilizie a quelle infrastrutturali e commerciali.
Nel frattempo, le biblioteche nazionali chiudono i servizi al pubblico per mancanza di fondi, le soprintendenze archeologiche denunciano, dopo gli ultimi tagli inferti dalla manovra finanziaria, di non riuscire più a garantire lo svolgimento del loro lavoro e l’opera di monitoraggio e presidio svolta sul territorio dalle strutture periferiche del Mibac è divenuta ormai impossibile.
Con esemplare congruenza le dichiarazioni del Ministro (comunicato ufficiale del 25 novembre 2010) dopo gli eventi pompeiani identificano esplicitamente la mission ministeriale nella facilitazione coûte que coûte della funzione infrastrutturale ed edilizia del territorio non più ostacolata dai “ritardi” derivanti, ad esempio, dai ritrovamenti archeologici: in tali affermazioni è ormai chiara la tendenza al sovvertimento dei principi dell’art. 9, nella Costituzione anteposti ad ogni altro interesse che non fosse quello pubblico, il principio guida che da Benedetto Croce a Concetto Marchesi, ha ispirato i legislatori e i padri costituenti.
Non esistono scorciatoie per tutelare il nostro patrimonio nel senso più completo del termine e quindi per far sì che il numero più ampio di cittadini ne possa godere attraverso una comprensione culturalmente adeguata e costantemente aggiornata.
Occorrono risorse ingenti che non ci sono a livello pubblico e non ci saranno per molto tempo ancora: in questo senso bisognerà concentrare gli sforzi per trovare soluzioni innovative.
Ma nel frattempo, occorre almeno che questo patrimonio possa sopravvivere al degrado provocato dalla micidiale interazione di incuria e becero attivismo “valorizzatorio” e che nelle mani degli organismi tecnici sia affidata, con ampia disponibilità delle risorse residue e pieno riconoscimento istituzionale, quell’insostibuibile operazione di manutenzione programmata cui è affidata la sola speranza di salvezza.
Con significativa simmetria, nelle stesse ore in cui gli schermi ci rimandavano le immagini del primo crollo pompeiano, quelle sull’alluvione in Veneto rafforzavano, nella loro drammaticità, lo stesso assunto: come per salvaguardare il nostro territorio nel suo insieme non ci occorrono le “Grandi Opere”, ma la quotidiana, incessante opera di ripristino e contenimento del rischio idrogeologico, così per salvare il nostro patrimonio culturale non abbiamo bisogno di iniziative effimere e culturalmente risibili o addirittura controproducenti, bensì di quell’opera di manutenzione ordinaria che, in una dichiarazione di drammatica impotenza a commento immediato del crollo pompeiano, il segretario generale del Mibac, ha affermato “non facciamo più da almeno mezzo secolo”.
Ma soprattutto occorre rovesciare radicalmente l’accezione economicista ultimamente imperante che ha trasformato i nostri beni culturali e il nostro paesaggio in una risorsa da sfruttare e in una merce da vendere. Anche se rappresentano uno dei motori di una delle poche industrie in attivo, quella turistica, il patrimonio e le istituzioni culturali non debbono avere l’obiettivo di produrre ricchezza materiale, ma senso di cittadinanza e integrazione culturale e sociale. Essi rappresentano uno dei nostri beni comuni più fragili in quanto irriproducibili e assieme uno dei servizi, come l’istruzione e la sanità, sui quali si misura il livello di civiltà di un paese.
Non serve andarci, a Pompei. Quei crolli si ripetono ovunque. Il dramma della Casa dei Gladiatori si diffonde come un virus da Nord a Sud. In Sicilia pensano al noleggio di tute e bombole per lanciare la visita subacquea della colonia di Kamarina. Dopo 2.600 anni sulle terre emerse, ora se la sta mangiando il Mediterraneo. E nessuno sembra capace di fermarlo. Avanti così, secondo gli archeologi, fra pochi anni non ne resterà traccia. Come laggiù, nel resto d'Italia ogni giorno c'è una crepa che si apre, un monumento che cede, un marmo che si crepa. La colpa è solita: decenni di sperperi, incuria, soldi buttati, scarsa manutenzione. L'ultimo allarme in ordine di tempo viene da Pisa, dove il museo delle navi antiche, 30 imbarcazioni del Terzo secolo avanti Cristo riemerse dalle piene dell'Arno 12 anni fa, dopo l'inaugurazione in pompa magna con passerella di politici, è abbandonato a se stesso. Ma i casi sono decine.
Talmente tanti che non esiste nemmeno un dossier aggiornato, né una commissione parlamentare che vigili. Mentre la mozione di sfiducia che sarà discussa in Parlamento dopo le feste di Natale fa infuriare il ministro Sandro Bondi, che parla di aggressione politica e mediatica, resta il fatto che al dicastero dei Beni culturali perdono il conto dei disastri. Non sanno bene quanti e quali siano i siti a rischio: dalle mura romane corrose dalle piogge acide alle pericolanti Torri di Bologna, viviamo in una macabra lotteria nazionale. La prossima volta potrebbe toccare all'anfiteatro di Santa Maria Capua Vetere nel casertano come alla Cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze. Potrebbe essere la cinta muraria di Aurelio a crollare sotto i colpi del traffico romano, come invece il Colosseo a cedere di nuovo, oppure il tempio greco di Selinunte.
Quello che è certo è che le falle che si aprono negli scavi archeologici sono troppe per i conti in rosso del ministero. "Non si deve intervenire con una grande guerra, ma con una lotta continua, un'azione perseverante come nelle battaglie anti-terrorismo, altrimenti finisce tutto sottoterra", spiega Andrea Carandini, presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali. Eppure solo quest'anno è stato tagliato più di un miliardo e mezzo da un budget insufficiente da almeno un decennio. Il personale è metà di quel che servirebbe. E poi chi va in pensione non viene sostituito: "Serve un commissario", replica il governo ogni volta che un crollo riporta l'attenzione sul più grande dramma silenzioso del Paese: l'eutanasia di Stato per scavi e rovine.
CROLLI A NORD
A Roselle si poteva passeggiare attorno alle mura etrusche. Enormi pietre incastonate a secco sei secoli prima di Cristo. Tre chilometri di storia sopravvissuta a guerre e saccheggi. Da lì si guardava la collina, il bosco verde scuro, addirittura la sagoma della Corsica che spuntava dal mare così come la vedevano sei secoli prima di Cristo. Adesso un'impalcatura sbarra la strada e la visuale. Se appoggi la mano alla pietra gelata senti l'acqua che le scorre nelle venature. Buchi e crepe di tre, anche cinque centimetri la fanno tremare. Le piante l'hanno infilzata con le radici legnose e, da dentro, rischiano di abbattere il muro che si oppose per secoli a eserciti e predatori. Tre chilometri di cinta che potrebbero cadere come un domino. Da quando la parete principale, lunga un centinaio di metri, è stata dichiarata pericolante. Un allarme corale, che parte dai responsabili della soprintendenza toscana, Fulvia Lo Schiavo e Carlotta Cianferoni per arrivare al sindaco di Grosseto, Emilio Bonifazi. Che dopo i crolli di Pompei ci pensa ogni notte. Inutile dire che anche qui basterebbero i soldi. Un piano di interventi metterebbe in salvo quel patrimonio dell'umanità. E invece fra ritardi, tagli e blocco delle assunzioni, chi lavora a Roselle si sente abbandonato a se stesso. Lo dicono i custodi che, dopo i crolli, non hanno visto nessuno venire da Roma. Lo ripete la gente cui non resta che sperare che "la mobilitazione per Pompei faccia ricordare a qualcuno che esistiamo anche noi".
Nel cuore di Bologna, poi, è ormai straziante il lamento della Garisenda. È la più bassa delle due Torri ed è in pericolo come la sorella maggiore degli Asinelli. Lo ha detto il sismologo Enzo Boschi. Lo ha ripetuto Legambiente. Lo ammettono pure al ministero. Ma soldi non se ne vedono. A Firenze la musica è la stessa. Il segretario della Uil Beni culturali, Gianfranco Cesaroli, lo ripete da mesi. La cupola di Santa Maria in Fiore è monitorata costantemente. L'ex convento di Sant'Orsola è abbandonato da anni. E dove l'acqua non fa paura, ci pensa invece il cemento. A Canossa l'antico insediamento gallo-romano sta per essere schiacciato da decine di condomini. È dagli anni Novanta che a Reggio Emilia si vive di emergenza. Quella spianata è stata resa edificabile ormai vent'anni fa, ma finora Legambiente era sempre riuscira a impedire che dalle parole si passasse ai fatti. Anni di pace, con gli scavi che continuavano e le aree archeologiche aperte agli alunni delle scuole. Un sogno nell'Italia che va in pezzi, destinato a diventare un incubo. E così il consiglio comunale ha adottato la variante al piano regolatore. Una delibera che trasforma un parcheggio a ridosso dell'area di Luceria in palazzine di cemento armato. Con il dubbio che fra i proprietari dell'area possano spuntare, ripetono gli abitanti di Canossa, pure i nomi di un paio di politici locali.
PERICOLO CAPITALE
Roberto Cecchi è il commissario delegato per le aree archeologiche di Roma e Ostia. Significa metà dei monumenti italiani o giù di lì. Dopo uno screening accurato, ha varato 65 interventi urgenti nell'area di Roma. E tra i tanti pericoli è ancora il Palatino a correre i rischi più gravi. Il piano di interventi c'è. E per quanto possano le tasche della Soprintendenza, è pure partito. Per il colle dei Cesari sono 15 gli interventi in corso. Una spesa di 9,6 milioni di euro e ne restano altri due da impegnare. Molte situazioni pericolose sono state sanate, sono stati aperti nuovi percorsi, scoperti luoghi sacri e affreschi mai svelati. Ma non basta mai. Resta la grande emergenza della Domus Tiberiana, il palazzo imperiale modificato nei secoli, chiuso al pubblico da trent'anni e ormai imprigionato nella rete metallica delle impalcature. Lesioni, crepe, dissesti strutturali (in profondità si scorge un metro di vuoto fra le murature) stanno impegnando a pieno ritmo architetti, ingegneri, geologi, archeologi: una situazione di instabilità, legata alla stessa conformazione del colle, che è aggravata dalla presenza di gallerie sotterranee e cavità (ora allo studio con nuovi strumenti di indagine) dove si accumulano le piogge. "L'acqua è un nemico pericoloso in un terreno sfruttato nei millenni", sottolinea Maria Grazia Filetici, architetto della Soprintendenza: "Si devono quindi evitare sia accumuli che smaltimenti errati, ripristinando, dov'è possibile, le condutture antiche".
L'acqua è anche il nemico, anzi il killer, della Domus Aurea sul colle Oppio. Il soffitto è un prato e, quando piove, l'acqua non assorbita cade all'interno. L'ultimo allarme è stato il crollo di alcuni mesi fa, che fortunatamente non riguardava le sale affrescate. L'ennesimo. Dopo che il padiglione era già chiuso da quattro anni. Certo i tecnici della Soprintendenza sono al lavoro. Ma il problema è che i soldi non bastano: "Con i cinque milioni dei primi due lotti", spiega il commissario Luciano Marchetti, "stiamo provvedendo sia a mettere in sicurezza che a impermiabilizzare questa zona, la prima a riaprire entro due anni, di più non possiamo fare. Per completare i lavori necessari occorrono ben altri investimenti, almeno 15 milioni di euro".
È la stessa storia del Colosseo. Quando, a poco più di un mese dal crollo nella Domus, una malta della struttura originaria si stacca da un ambulacro centrale e crolla al suolo. Un crollo che è anche il simbolo del fallimento del ministro Bondi, che avendo il budget prosciugato, ha aperto la caccia agli sponsor privati. Servono 25 milioni per tentare un recupero definitivo del più famoso monumento del mondo.
SPROFONDO SUD
In Sicilia è da dieci anni che esiste la "Carta del rischio dei beni culturali". È una specie di cartella clinica che traccia lo stato di salute di monumenti, siti archeologici e musei. La paga Bruxelles scucendo 4 milioni di euro. Eppure degli oltre 10 mila beni censiti, soltanto un quarto a distanza di nove anni dall'avvio del monitoraggio ha una scheda specifica. Dati parziali, ma già allarmanti. Quei documenti raccontano una Sicilia che cade letteralmente a pezzi. Tanto le aree considerate più a rischio, cioè le provincie di Palermo, Catania e Messina. Quanto Caltanissetta e Enna, ufficialmente immuni dal degrado, ma protagoniste dei peggiori crolli degli ultimi anni. Basti pensare che proprio in provincia di Caltanissetta, a metà novembre, è caduto il portale dell'antico santuario di Maria d'Alemanno, una chiesa del Tredicesimo secolo realizzata dall'Ordine dei cavalieri teutonici. Il santuario di Gela attende il restauro dal 1985, quando lo stato di conservazione era già considerato a rischio di cedimenti. Eppure rimasta senza soldi.
Anche dove i fondi alla fine arrivano, spesso restano sulla carta. Da sette anni, ormai, la villa romana del Casale di Piazza Armerina è un cantiere a cielo aperto. Dal 1997 la Villa è inserita nella World Heritage List dell'Unesco. Per salvare i cento milioni di tessere dei mosaici, disposti su un'area di oltre 4 mila metri quadri della dimora patrizia, sono piovuti oltre 18 milioni di euro dall'Unione europea e dalla Regione Sicilia. Quattrini assegnati già nel gennaio del 2003 al consorzio stabile Beni culturali di Firenze. Ma basta passarci per capire che i lavori sono ancora in alto mare, nonostante all'impresa toscana fossero stati concessi due anni per completare il ripristino. Dopo tre anni spesi a litigare per le nomine dei tecnici, con da un lato Vittorio Sgarbi nel ruolo di Alto commissario per la Villa e dall'altro gli uffici del Sovrintendente di Enna, il progetto di restauro viene finalmente approvato dalla Commissione regionale. Ma alla fine del 2006 arriva l'ennesimo stop, con la Regione che sospende l'affidamento: due delle cinque imprese non avevano i requisiti tecnici necessari. Poi i lavori partono, ma non finiscono mai. Tanto che da metà novembre Piazza Armerina è di nuovo chiusa. E la nuova data per la consegna è slittata alla primavera 2011. Stesso copione anche per il tempio di Selinunte. Dal 2007 si parla di lavori di ripristino, ora l'accesso al pubblico è limitato per evitare che i calcinacci del cemento, utilizzato per il restauro di mezzo secolo fa, vengano giù sulla testa dei turisti. È il parco archeologico più grande d'Europa e continua a sbriciolarsi con i visitatori costretti alle acrobazie tra pedane di ferro e tubi di alluminio.
A Cagliari i giganti di Is Concias sono umiliati. Prima i vandali passavano indisturbati nel nurago, adesso sono addirittura i turisti a smontarlo pietra dopo pietra. Per allestire, su quei massi antichi, i loro moderni barbecue. Le associazioni sarde da mesi denunciano lo scempio, ma la risposta del Comune è la solita: stiamo aspettando i soldi.
Metti un sabato di fine autunno. Dopo Cristo. Arrivi agli scavi di Pompei, che magari non rivedevi dalla gita scolastica, e già t'hanno scavato via 71 euro. Undici il biglietto d'ingresso e vabbè; sessanta di taxi dall'aeroporto di Napoli. Venti minuti scarsi di tragitto. Ma come, chiedi all'autista, il tassametro segna 29... Lui ti dettaglia tutta una serie di esoteriche maggiorazioni. Non solo. Dice che devi ritenerti fortunato. Perché, nel giro, c'è chi spinge sul pedale tariffario sino a ottanta, novanta pezzi. Con gli stranieri. Scendi senza chiedere lumi aggiuntivi e quasi contento che, per una sorta di stravolto patriottismo, ti sia stato praticato lo sconto.
Tempo pochi minuti, e Pompei riprende il lavoro di scavo. Per una visita di circa due ore - è una tabella ad avvisarti - una guida autorizzata costa 106 euro. Ma ottanta con lo sconto. Pagamento informale. Che oltrettutto, spiega l'autorizzato, ti permette di non fare file e vedere posti particolari. In che senso? Normalmente chiusi. Ergo: in forza di una stravolta sofistica, se paghi di più vedi meno e male, da livido uomo massa; se invece paghi meno, vedi meglio e di più: scorci, emozioni, intérieurs (pseudo) esclusivi.
Se è così, perché diamine pagare di più? Finisce che rifiuti ogni Führer. Tua unica guida sarà quella cartacea portata da casa. Al limite il formidabile libretto Pompei com'era/com'è, con le foto delle vestigia alle quali sovrapponi i disegni delle ricostruzioni stampati su fogli trasparenti. Effettaccio artigianale che tanto ci faceva fantasticare da ragazzini e che nemmeno le magie del digitale son riuscite a scalzare dal commercio: il volume è ancora in vendita.
Ma oggi a Pompei le attrazioni sono altre. Non tanto le rovine, quanto le rovine delle rovine. Senti turisti italiani chiedere ai custodi: Scusi, vado bene per il crollo? Sempre dritti. Per vedere cosa? Alte transenne e, in lontananza, una triste duna di detriti. Quanto resta della Domus dei Gladiatori, venuta giù il 6 novembre, e della contigua Casa del Moralista, sei-sette metri di opus incertum collassati cinque giorni dopo. Davanti alle domande dei visitatori, un guardiano nicchia omertoso. Minimizza: "Bondi? Macché, qui i crolli ci sono sempre stati". "Sì, il primo nel 79 dopo Cristo" lo sfotte un collega. Eppoi ti spiega che i cumuli di terra smottano sulle vestigia perché si gonfiano d'acqua piovana. Mancano le canalizzazioni per farla defluire. Ma la pioggia esiste da prima di Bondi, gli fanno notare. "Sì, però un tempo c'era almeno una squadra di manutenzione permanente. Muratori, fabbri, idraulici... Una trentina di persone esperte. Funzionavano come una specie di pronto soccorso. Via via sono andate in pensione. Nessuno le ha sostituite". Quanto alla preparazione del personale, aggiunge: "Per i custodi non c'è uno straccio di corso di lingua. Io l'inglese l'ho studiato da me. Perché ce le vorrai rispondere due parole a uno che ti chiede Where is the house of Polibio? O no?".
A proposito della Casa di Polibio. È tra le più famose. Ma oggi è chiusa (come il 95 per cento delle altre): visitabile solo su prenotazione. Eppure negli ultimi anni è diventata un posto animato. Con tanto di animatore vestito da antico pompeiano, che accoglie i turisti dicendo: Benvenuti. Io sono Polibio e questa è la mia casa. Poi fa strada tra i vani. "Una versione nostrana di centurioni e gladiatori che trovi davanti al Colosseo" sorride Luigi Garzillo, autoctono, da poco a riposo, ma per oltre trent'anni dirigente a Pompei dell'Azienda di cura, soggiorno e turismo. "C'è stata una deriva "Eurodisney". Fatta di folklore, operazioni di facciata. Mentre l'area archeologica avrebbe innanzitutto bisogno d'un minimo di buon senso. A partire dalle guide. Oggi sono gestite da un manipolo di società, più o meno ammanigliate con le amministrazioni. E tra loro è guerra fra bande. Corsa all'accaparramento del turista appena si materializza ai cancelli. Non c'è uno sportello, un servizio prenotazioni per lingue. A lungo abbiamo proposto di disciplinare le visite guidate: dalla Regione nessuna risposta. Qui sbarcano due milioni e mezzo di persone l'anno, nei mesi di punta ottomila al giorno. Ma il visitatore è abbandonato a se stesso". In più, i guardiani (quelli ai quali sganciavi un'umanissima mancetta per farti aprire qualche lucchetto) sono sempre meno. Adesso, di turno in tutta l'area - 66 ettari - ce ne saranno una trentina. In quattro, cinque ore di visita li incontri praticamente tutti. Stanno in capannelli, soprattutto lungo via dell'Abbondanza, a sorvegliare il neoturismo del crollo (l'altro giorno, in sopralluogo, c'era una delegazione della Cgil capitanata dal segretario Susanna Camusso, che interveniva al poco rassicurante convegno: Pompei, tra crisi e degrado).
Oppure i custodi li trovi dalle parti del Foro, in prossimità dell'unico bar ristorante dell'intera zona archeologica. Un posto moderno. Ci si mangia come in autostrada. Se non altro perché l'hanno dato in concessione alla società Autogrill. Fuori, sonnecchiano alla spicciolata alcuni cani. Randagi ma con collare. Sono, notoriamente, i nuovi abitanti della Pompei antica. Quando a sera le rovine chiudono, loro restano. Padroni del buio. Qui li chiamano cani archeologici. O archeo-cani. Li hanno dipinti come ringhianti fiere da spettacoli gladiatori. Esagerando. Se lo incontri da solo, mentre girella e grufola tra le vestigia, l'archeo-cane è generalmente mansueto. Ti sgancia occhiate gandhiane. Seguendoti o tirando dritto per i suoi oscuri destini. Casomai il bullismo scatta in presenza del branco. Il quale si forma senza preavviso, come uno scroscione d'estate. Una prova? Tra le bancarelle all'entrata, assistiamo alla scena di sei o sette bestie che, con sguardo da Arancia meccanica, costringono alla ritirata un paio di zampognari colpevoli solo d'una sciancata esecuzione di Tu scendi dalle stelle.
Anche per scoraggiare simili soperchierie è stato varato il piano (C)Ave Canem. Che con un astuto gioco di parole tra ammonimento e benvenuto, ha portato al "censimento, vaccinazione, cura e sterilizzazione" della popolazione quadrupede. Nonché all'adozione, presso famiglie, di alcuni dei suoi esponenti. Ma di animali a zonzo ne restano. E ogni tanto tornano a cedere all'hoolicanismo. Talvolta, chissà perché, innescato dalla musica: "Anni fa, una bestia salì sul podio di Riccardo Muti al Teatro Grande. Non voleva andarsene. Lui fu costretto a interrompere il concerto. Era seccato assai" ricorda Luigi Garzillo. E rilancia: "Perché, invece di un cane, non facciamo adottare una casa pompeiana, magari a fondazioni e università straniere? Qui sono sempre mancati i soldi. Non è forse venuto il momento di rendere Pompei una questione internazionale, tipo Venezia o Firenze?".
Malgrado tutto, seguiti ad aggirarti tra i ruderi con l'intatta emozione della prima volta. Quando posti come il lupanare erano ancora vietati ai minori, per via dei porno murales. La censura è ovviamente decaduta. Epperò il bordello non smette di esercitare sui visitatori una fascinazione piccantina. È forse l'angolo più richiesto di Pompei. Vedi ciceroni additare i giacigli in pietra annunciando: "Qui gli antichi lo facevano" (gridolini di stupore); poi indicare il buco della vetero-latrina: "Qui gli antichi la facevano" (risatine). All'entrata c'è scritto che nel lupanare possono entrare solo dieci turisti alla volta e che i flash sono proibiti. Dentro contiamo però una ventina di persone. Tra i lampi fotografici.
Proseguendo troviamo una strada sbarrata da transenne pre-crolli. A un signore, che non è una guida ma ha l'aria disinvolta, chiediamo: Come si fa a passare di là? Lui: "Così". Apre le transenne e ci scorta dall'altra parte. Telecamere? A Pompei non è che non ce ne siano. Ma sempre meno che in un qualunque shopping center. Poche settimane fa, un giornalista del Mattino ha raccontato di essersi portato via un bel po' di tessere del mosaico ittico che decora la fontana del Vigneto del Triclinio Estivo, vicino alla Palestra Grande. Stavano ammucchiate in un angolo. Poi le ha restituite. Perché non si fa. Ma anche a scanso d'altre rogne: sui profanatori di Pompei pende infatti una specie di maledizione alla Tutankamon. "Non sa quanti stranieri impauriti mi rimandavano indietro, per posta, le pietruzze che avevano sgraffignato" racconta Garzillo.
Fra ataviche querelles, s'è fatta ora di pranzo. E qua si disegna un dilemma. Se non vuoi mangiare all'Autogrill, che fai? Il biglietto d'ingresso non dà diritto a rientrare. Almeno in teoria, argomenta un usciere. Nella pratica, ti spiega che puoi farlo. Ma attenzione: Solo per un panino. Insomma, 'Na cosa ambress. Domanda: se non ti rilasciano una contromarca né ti timbrano l'avambraccio tipo all'uscita dalle disco, come fanno a distinguere chi s'è fatto un panino da quello che s'è attardato in crapule di paccheri e delizie al limone? Risposta: Tu nun t'a preoccupà. Ci ricordiamo le facce. Perciò usciamo facendo un'espressione "da panino". Mentre, sotto l'usato Borsalino, il dottor Garzillo ha il volto amaro del vecchio umanista meridionale smarrito in un evo incertum.
l crollo alla Casa dei Gladiatori, poi centinaia di foto dei lettori a Repubblica.it: una galleria degli sfregi al patrimonio culturale
C´è lo storico e scenografico carcere di Ventotene, costruito dai Borboni alla fine del Settecento, dove il fascismo rinchiuse il futuro presidente della Repubblica, Sandro Pertini, insieme a Umberto Terracini, Giorgio Amendola, Lelio Basso e dove Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi scrissero nel 1941 quel "Manifesto" che avrebbe dato vita all´Unione europea : rimasto in uso fino al 1965, il penitenziario è stato evacuato e mai ristrutturato (segnalazione di Arturo Bandini da Roma).
C´è il primo castello del Mediterraneo, a Casaluce (Caserta), edificato nel 1024 da Rainulfo Drengot e diventato poi convento dei frati Celestini, "abbandonato all´incuria del tempo" (segnalazione di Michele Fedele). In Molise, provincia di Campobasso, c´è l´antica città romana di Saepinum che risale al II-III secolo a.C. e versa "in stato di disinteresse e di abbandono", minacciata per di più dall´installazione di un imponente parco eolico nelle vicinanze (segnalazione di Francesco Palladino: "Stanno per distruggere uno dei siti archeologici più suggestivi della regione").
C´è anche l´edificio razionalista della Manifattura Tessile di Moncalieri, a Torino, costruito nel 1951 dagli architetti Mario Passanti e Paolo Perona, "in totale abbandono da anni" (segnalazione di Andrea Mariotti). E ci sono, insieme a questi, altre centinaia di monumenti, palazzi, castelli, chiese, piazze, fontane in rovina o in pericolo che, da un giorno all´altro, possono fare la stessa fine ingloriosa della Domus dei Gladiatori di Pompei: come le mura rinascimentali di Padova, lunghe 11 chilometri, ricoperte di erbacce e di costruzioni (Fabio Bordignon); il castello di Cusago, alle porte di Milano, fatto costruire da Bernabò Visconti tra il 1360 e il 1369 per sfuggire alle epidemie,assediato dall´incuria (Gianni Politi); l´Acquedotto alessandrino di Roma, trasformato in parcheggio per auto (Ivan) o l´antico porto di Traiano, a Fiumicino, già crollato più volte e ora aperto al pubblico soltanto due giorni al mese (Gaetano Palumbo); la Cittadella di Ancona, uno degli esempi di fortezza bastionata più pregevoli dell´Italia centro-meridionale, "destinata al completo degrado" (Fabio Barigelletti); la Domus romana di piazza Matteotti a Pesaro, "condannata alla sepoltura" (Roberto Malini) .
È un Atlante del Malpaese, per molti aspetti inedito e inquietante, quello che centinaia di lettori di Repubblica e cittadini della Repubblica – armati semplicemente di macchina fotografica o anche solo di telefonino – hanno compilato in questi giorni, rispondendo all´ appello del giornale per cercare di salvare i monumenti a rischio. Il nostro sito è stato bombardato di foto e segnalazioni da tutt´Italia, per effetto di una mobilitazione popolare che supera le aspettative e dimostra una sensibilità assai diffusa per la tutela del nostro patrimonio storico, artistico e culturale.
Da un capo all´altro della Penisola, se ne ricava un impressionante inventario di opere preziose costruite dall´uomo nel corso dei secoli e poi dimenticate, dismesse, vilipese. Un catasto del degrado monumentale, da Nord a Sud, regione per regione. Una sorta di grande "Museo degli orrori" che fa rabbia e vergogna a tutti noi: tanto più che il turismo è tuttora la nostra principale industria nazionale e questo si fonda, oltre che sulle bellezze naturali, sull´attrattiva di un "giacimento" unico al mondo.
Sono immagini sconcertanti e avvilenti. Un insulto alla storia, all´arte e alla cultura. E quindi, anche all´identità nazionale, al nostro codice genetico, all´anima stessa dell´Italia.
E sono proprio queste, insieme e oltre la Domus dei Gladiatori, le vere colpe del ministro Biondi e di tutti coloro che l´hanno preceduto. Lo stato generale di abbandono e di degrado in cui versa gran parte del nostro patrimonio storico e artistico è di per sé un atto d´accusa contro i responsabili politici e amministrativi che avrebbero dovuto provvedere alla sua conservazione, alla sua tutela e magari alla sua valorizzazione. Siamo di fronte, invece, a una dissipazione di beni e risorse che abbiamo ricevuto in eredità dalle generazioni precedenti e che, di questo passo, non riusciremo a riconsegnare intatti a quelle future.
Eppure, questo è il nostro "oro nero". Queste sono le "materie prime" di cui lamentiamo a piè sospinto la mancanza. In un Paese dove bisogna arrivare al limite dell´insurrezione popolare per impedire le trivellazioni petrolifere in Val di Noto, scrigno inestimabile del barocco siciliano, lasciamo andare in rovina monumenti e opere d´arte che potrebbero essere fonte di lavoro e di ricchezza.
Spesso, come ha ammesso lo stesso Bondi nel caso della Domus, non è neppure questione di fondi: Pompei è la prima méta turistica italiana e in pratica si autofinanzia con il ricavato dei biglietti. Si tratta piuttosto di incuria, di inefficienza, di incompetenza. Nel cortocircuito burocratico tra ministero, Regioni, Province, Comuni e Sovrintendenze, il potere si esercita più che altro attraverso il veto e così si disperdono anche le responsabilità. Alla fine, non si capisce neppure più di chi sia la colpa.
Nonostante l´impegno e la militanza delle associazioni ambientaliste, tra cui in prima linea il Fondo per l´ambiente italiano, Legambiente e Italia Nostra, a volte tende a prevalere un atteggiamento d´impotenza o di rassegnazione. Ma i soldi non sono tutto. E lo dimostrano i miracolosi salvataggi di tanti beni artistici a opera del Fai che dal 2003 promuove in collaborazione con Banca Intesa San Paolo un censimento nazionale intitolato "I luoghi del cuore" o la campagna "Salvalarte" che Legambiente porta avanti con encomiabile costanza da oltre dieci anni a questa parte: dal 1996 l´associazione presieduta da Vittorio Cogliati Dezza ha segnalato al Ministero dei beni culturali 980 opere da salvare tra monumenti, chiese, siti archeologici, ma anche sculture e affreschi. E sono più di una ventina quelle che, su intervento di Legambiente, sono state già recuperate e restaurate per essere restituite alla collettività.
Anche in questo campo, evidentemente, è necessario coniugare i nobili ideali con il pragmatismo. E dove lo Stato o gli enti pubblici non sono in grado di intervenire, per mancanza di fondi o per esigenze di tagli, si deve ricorrere al volontariato, all´iniziativa privata, a forme di partnership o di sponsorizzazione con imprese italiane e straniere che magari possano anche "adottare" un monumento o un palazzo. Meglio affiggere una targa con il marchio o il logo di un´impresa piuttosto che un cartello con la scritta "chiuso a tempo indeterminato".
Amiamo questa terra È la nostra cultura
di Carlo Petrin
La metafora di un´Italia che cade a pezzi in molti luoghi del Paese si è tramutata in realtà concreta: l´alluvione in Veneto, il crollo a Pompei, in queste ore esondazioni e smottamenti al Sud. Non è stata la prima volta e, malauguratamente, non sarà l´ultima. Vedere un pezzo del Nord Est sott´acqua per giorni, quasi nel silenzio generale, ha fatto male a chi ama l´Italia. Essere all´estero mentre la Domus dei Gladiatori si sbriciolava è stata una doppia ferita: l´eco della notizia fuori dai nostri confini è stata degna della gravità del fatto, sovrastando il resto, perché il mondo ama la nostra terra soprattutto per la straordinaria bellezza che ospita. Per la nostra cultura.
La politica ci ha messo un po´ a distrarsi da se stessa: giusto per dire che su Pompei non ha responsabilità, per fare tardiva presenza nei luoghi colpiti dall´alluvione o per non perdere un´altra occasione di visibilità mediatica. Sembra che molta parte del mondo politico non ami più l´Italia.E siamo proprio sicuri che anche il popolo che esso rappresenta non abbia smesso di farlo da tempo? Perché chi ama qualcosa ne ha cura, lo custodisce, lo alimenta, ne immagina il futuro e cerca di prevenire ogni danno all´oggetto del proprio affetto. La cura non può essere un rimedio, come ci stanno dimostrando accorrendo affannati sui luoghi dei disastri. Essa deve partire prima, da più lontano, e raccogliere frutti dopo, lontanissimo.
Di fronte agli avvenimenti degli ultimi giorni, e anche ai drammi personali che molte persone stanno affrontando con grande dignità, è forse giunto il momento di rinunciare a cercare responsabilità dirette: senza cura sono tante e così concatenate che non se ne uscirebbe. Bisogna intervenire, certo, ma è inutile puntare il dito perché in fondo siamo tutti responsabili. Se è vero che il territorio è un bene comune, allora è colpa di tutti. Da decenni lo stiamo violentando senza ritegno: chi nel suo piccolo, chi alla grande. E spesso i più prodighi nel farlo sono quelli che ne fanno bandiera, che confondono l´amore per i propri luoghi con una possessività invasiva, degna del peggior amante. Il nostro territorio, bene comune, appartiene a noi come al mondo intero, assumiamocene la responsabilità, e torniamo a prendercene cura. Iniziando a conoscerlo, a studiarlo a scuola: la conoscenza prepara all´amore e solo l´amore garantisce la cura.
La galleria di fotografie che Repubblica.it sta raccogliendo tra i lettori, che immortalano beni culturali in stato di abbandono o di sfacelo, sfregiati da vandali comuni o amministrazioni pubbliche non meno vandaliche è davvero una galleria degli orrori. La cosa più sconvolgente è la capillarità di questi casi: sono ovunque. Immensi o minimi: fa lo stesso. Perché è la stessa cosa lasciare che un monumento che ha duemila anni crolli o che una spianata di cemento occupi un campo da coltivare. Una villetta abusiva sfregia il territorio come un graffito su un reperto archeologico. La distruzione di un antico terrazzamento per far posto a nuove vigne che trasformano le colline in scivoli è come la facciata decrepita di un vecchio palazzo che ha fatto la storia di una città.
Dimentichiamo che l´unica ricchezza di cui non potrà mai fare a meno questo Paese è il nostro territorio, perché è lui in primis che esprime la grandezza della nostra cultura, tutto ciò che ci piace identificare come "Italia". E se un´industria, com´è stato detto, potrà anche «fare a meno dell´Italia», gli italiani invece non possono permetterselo. Non possono permetterselo gli agricoltori che poi sono sempre i primi a subire le conseguenze dei dissesti idrogeologici, ma non possono permetterselo nemmeno i nostri concittadini più urbanizzati. Ci vuole cura del territorio, amore sincero. Un amore che parte dal locale, da quel campo dove con passione si fa piccola agricoltura, dal quel rio che lo irriga con acque pulite e sicure, dai bordi delle strade statali disseminate di rotonde (che però fanno tanto "politica del fare"), dalla piazzetta anche più insignificante. Amore che puntualmente poi arriva al globale: al "Made in Italy" che gira per il mondo, ai luoghi turistici che entrano nelle classifiche dei posti più affascinanti del Pianeta, ai nostri monumenti simbolo.
Con la prospettiva della cura, succede che una piccola parte contribuisce a preservare il tutto. Da questo punto di vista l´agricoltura di piccola scala è più che virtuosa. Perché con essa si difende diversità, restano integri pezzi di terra, ambienti e paesaggi, circolano i saperi collegati, si fa cultura. Eppure da più parti si sostiene che essa sia "di nicchia", che non sia competitiva, non economicamente rilevante, difficile da esportare, terribile da distribuire con i grandi canali che si sono creati. Invece la realtà è che è diffusa in tutte le regioni e presidia il territorio con azioni minime ma indispensabili. Per esempio la manutenzione degli argini, la pulizia dei boschi o dei fossi. Sia chiaro: se si difendono queste pratiche si sta difendendo il Colosseo. Se si evita una colata di cemento inutile si difende un bene culturale.
A pelle sembrerebbe condivisibile la preoccupazione del Governatore Zaia che dice: «Prima i soldi al Veneto e poi a Pompei». Ma se si ragiona in termini di cura e relazioni, di cause ed effetti, di educazione e futuro, si vede bene che non siamo di fronte a due opzioni alternative. La cosa che più tristemente ha sorpreso della sciagura che ha colpito il Veneto è stata la relativa indifferenza del resto del Paese, per quasi una settimana mentre l´acqua laggiù non defluiva. Pompei invece ha subito invaso i giornali di tutto il mondo. Ma pur con due trattamenti mediatici così diversi quegli eventi sono stati causati dalla stessa storia di sciatteria e avidità. E possono essere rimediati solo se, da subito, si mettono entrambe queste voci a pari merito, in cima alla lista delle priorità di ognuno.
Postilla
Si può non condividere il riferimento di Valentini all’”oro nero” che le ricchezze dell’Italia costituiscono. Ricorda troppo la logica meramente mercantile che fu lanciata, ai tempi di Craxi, da un ministro ai beni culturali che parlava di “giacimenti culturali” da trattare come si trattano le miniere: estrarre, manipolare, trasformare in altre merci, vendere. Si può criticare ogni debolezza nel difendere la traduzione d’ogni bene in merce. Ma certamente va condivisa la denuncia, e lo stimolo a ogni cttadino responsabile ad adoperarsi per individuare, segnalare e difendere ogni tassello del nostro patrimonio (che non è solo “nostro”, ma dell’umanità intera).
Caro Augias,
alcuni giornali hanno preso l'iniziativa di creare un fondo di solidarietà per le popolazioni venete alluvionate. Ero ben disposto ad inviare il mio contributo quando ho ascoltato la dichiarazione del presidente della regione Veneto, nella quale affermava che gli aiuti del Governo per il Veneto, dovevano prevalere su quelli da inviare a Pompei. Ho sempre pagato le imposte pur essendo per una parte della mia vita lavorativa lavoratore autonomo quelli che spesso eludono o evadono. Pago come napoletano una tassa sui rifiuti solidi più alta di quella che per esempio paga mio figlio residente a Rho (Mi), ricevendo in cambio un servizio schifoso. Soffro nel vedere la mia terra in mano alla camorra con connivenze spudorate da parte di politici di tutte le aree, devo sopportare anche le reprimende che noi del sud non abbiamo senso civico in quanto non saremmo pronti a combattere la mafia e la camorra. Quest'affermazione di Zaia francamente non l'ho digerita, mi sembra stupida oltre che offensiva. Ogni anno il sito di Pompei incassa milioni di Euro, in base alla logica tanto cara a Bossi quei soldi dovrebbero restare a Pompei, o no?
Giuseppe Antinolfi - Napoli
angius48@libero.it
P rovo a immaginare le ragioni per le quali Zaia, presidente del Veneto, se ne sia uscito con l'espressione "Quei quattro sassi di Pompei". L'alluvione del Veneto in un primo tempo era stata effettivamente sottovalutata da tutti: governo e media; Zaia voleva dare un messaggio forte e semplice per i suoi elettori stimando che il livello della sua 'constituency' non sia molto elevato. Eccetera. Ciò detto, la frase rimane stupida oltre che vergognosa. Mettiamo pure da parte un'eredità archeologica unica al mondo, i capolavori che Pompei contiene; l'eco della tragedia che dopo tutto Pompei rappresenta. Il luogo è una miniera d'oro; tenuto in modo più dignitoso lo sarebbe ancora di più. Definirlo "Quattro sassi" è una vera asineria. Per fortuna mi ha scritto Andrea Maronese (da Treviso) parole di grande saggezza che equilibrano quelle sciagurate di Zaia: «Sono uno studente di Storia dell'Arte dell'Università di Venezia. Luca Zaia presidente della mia Regione avrebbe definito una "vergogna" lo stanziamento di fondi per "quei quattro rovinassi", invocando maggiori cifre per il Veneto. Anche se ci possono essere delle priorità, quelle di Zaia restano parole incivili. Quei "quattro rovinassi" sono le macerie anche della mia Storia. Inoltre non mi piace che si speculi con toni populisti sulla tragica alluvione patita dai miei concittadini. Una tragedia che oltretutto è conseguenza della distruzione del patrimonio paesaggistico veneto. Il Veneto e Pompei sono due tristi episodi della stessa catastrofe: il degrado civile».
Su Sandro Bondi, ministro per i Beni e le Attività Culturali (MiBAC) pende la sfiducia richiesta da Pd e Idv e avallata probabilmente da un’area assai più vasta di Montecitorio. Il detonatore sono stati sicuramente i crolli di Pompei, ma i capi di accusa contro questo evanescente ministro, sono ben altri e ben più pesanti. Come si capì fin dalla «decapitazione» del vertice del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, a partire dal suo presidente Salvatore Settis e con grande peso attribuito alla sorella archeologa dell’avvocato-deputato Ghedini.
Al Collegio Romano, dal 1975, si sono avvicendati fior di personaggi (Spadolini, Biasini, Ronchey, Paolucci, Veltroni), ma anche personaggini (la vedova Parrino o Facchiano). I quali però non hanno mai assunto quell’incarico «a mezzo servizio» con altre incombenze. Sandro Bondi invece – per supponenza, per sottovalutazione o per consapevole volontà di indebolire tutto l’apparato della tutela – ha dedicato sicuramente più tempo a coordinare il sempre più crivellato Partito della Libertà, unitamente a Verdini e a La Russa, che non a dirigere la difficile, pericolante barca del suo ministero, dal quale dipendono (e ho detto poco) cultura e spettacolo, con un patrimonio strepitoso, sterminato, insidiato, e con mezzi scarsi, sempre più scarsi.
Mai il Ministero dei Beni Culturali è stato così prono alle decisioni del collega dell’Economia, lasciandogli usare per i tagli a capitoli di spesa già all’osso, la sega elettrica, non l’accetta. Con risultato che musei, biblioteche, archivi sono alla canna del gas. Di più: di fronte ad una vera e propria emergenza, nulla ha fatto di concreto per mantenere in servizio dirigenti di alto valore internazionale messi fuori invece, inesorabilmente, a 67 anni o, ancora peggio, grazie ad uno sciagurato quanto cieco decreto-Brunetta con quarant’anni di anzianità, quindi, in più di un caso, ad appena 62 anni chi era entrato nell’amministrazione subito dopo la laurea (Pittarello in Piemonte, Fornari a Parma-Piacenza, ecc.). Risultato: un ministero denutrito e disossato, privato di ottimi quadri centrali (Proietti, Lolli Ghetti, ora De Caro) e periferici (Guzzo a Pompei, presto Martines in Puglia). Col dilagare di gestioni “ad interim” affannate e ovviamente deboli o debolissime.
Sandro Bondi ha dimostrato subito di essere subalterno al «ghe pensi mi» di un premier che del resto adora e del suo braccio operativo Bertolaso. Ha di buon grado spalancato le porte ai commissariamenti della Protezione Civile pur sapendo che così il suo ministero veniva privato di pezzi fondamentali di competenze e di funzioni.
Non si è opposto al commissariamento dell’archeologia di Roma e Ostia Antica, nonostante la sollevazione di tutti gli archeologi (inzialmente affidato a Bertolaso poi passato all’Aquila). Né alla nomina di un vice «attuativo» nella persona dell’assessore capitolino alla pianificazione. Anche nella dolorosa vicenda di Pompei ha seguito l’altro adoratore di Berlusconi, Mario Resca, nello svalutare i propri tecnici, gli archeologi in particolare (stimati ovunque, come i nostri direttori di musei).
Quando si è verificata la tragedia dell’Aquila con la distruzione di quel centro storico mirabile e di tanti altri abitati antichi, si pensava che – come in tutti i precedenti terremoti – il MiBAC assumesse la regìa degli interventi su città, monumenti, ecc.. Quando all’Aquila si è presentato da privato cittadino (perché appena pensionato) il coordinatore dei restauri della Basilica di San Francesco in Assisi, Giuseppe Basile, munito di una sua assicurazione e portando il contributo dell’Associazione Cesare Brandi, lo stesso è stato subito rimandato a casa, «non serviva». Così come sono state rifiutate altre offerte qualificatissime di collaborazione.
Lo stesso strutturista che aveva salvato San Francesco in Assisi, Giorgio Croci, noto in tutto il mon- do, è stato chiamato una quindicina di giorni dopo il sisma per Colle- maggio e con una dotazione di fon- di irrisoria rispetto ad Assisi. Dove Veltroni aveva riversato risorse importanti e, con la regìa dell’allora direttore generale del Ministero, Mario Serio, mobilitato quadri interni ed esterni del più alto valore: Antonio Paolucci, Maria Luisa Polichetti, l’appena citato Basile, Marisa Dalai, Bruno Toscano e tanti altri. Coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Come all’Aquila...
La cultura? Deve rendere. È stato un caposaldo della «filosofia» del governo Berlusconi, che ha trovato un fedele esecutore in Bondi. Difatti è stato inserito a forza, nonostante i rilievi più sensati, quale direttore generale alla valorizzazione, poi anche come commissario a Brera (con lautissima remunerazione, contro stipendi indecorosi, nemmeno 2.000 euro, per i direttori di musei), l’ex ad di McDonald’s e presidente del Casinò di Campione, Mario Resca, che non sapeva nulla del settore, che ha accumulato banalità. Con loro il MiBAC avrebbe privilegiato i musei maggiori, quelli che possono «rendere». Come se arte e cultura non fossero valori «in sé e per sé», da diffondere, da spiegare, da far capire e amare nelle scuole (qualcuno sa dov’è finita la didattica?), ma merci, hamburger, bibite gassate, da vendere profittevolmente. Come se i grandi musei del mondo non fossero spesso gratuiti o comunque non ricevessero (il Louvre all’80%) iniezioni di denaro pubblico.
Paesaggio addio. Sull’attuazione del Codice per il Paesaggio Bondi ha dato il meglio di sé, nel senso che ne ha lasciato marcire per mesi e mesi l’attuazione, non curandosi minimamente di avviare la tanto attesa co-pianificazione MiBAC-Regioni. Col risultato che – come ha dimostrato la recente accurata indagine di Vezio De Lucia e Maria Pia Guermandi per Italia Nostra – i piani sono di là da venire mentre speculazione privata e abusivismo riprendono vigore, in attesa di nuovi condoni, di nuove licenze di «fare da sé» senza passare dalle maglie della tutela. Che fino a pochi anni fa all’estero ci invidiavano e di cui dovremo presto piangere l’estinzione.
Il caso
Scavi di Pompei, per mesi
rimasti senza guida
A Pompei c’era indubbiamente una emergenza, ma poteva essere risolta attribuendo al soprintendente – che per un decennio è stato il bravissimo Pietro Giovanni Guzzo, andato in pensione a 67 anni dopo 40 di onorato servizio in Calabria, Puglia, Emilia-Romagna e Roma – i poteri straordinari per tagliare tempi e pro-cedure. No, si è voluto nominare un commissario, Marcello Fiori, che, invece di intervenire sulle emergenze, ha investito fondi cospicui in mostre, ricostruzioni virtuali, ricostruzioni (discutibili) di parti del teatro romano, piste ciclabili . Mancavano solo le corse con le bighe.
La Corte dei conti ha notato, ben prima dei crolli, che la gestione «non sembra rispondere all’esigenza di tutelare l’integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente dai danni derivanti da calamità naturali», ecc. A queste quasi profetiche osser- vazioni il ministro Bondi aveva risposto esaltando l’opera di Fiori. Pensionato Guzzo, ha lasciato per mesi e me- si senza guida Pompei. Spazio ai manager! In ottobre ha nominato Jeannette Papadopoulos che al MiBAC cura i rapporti internazionali e che potrà dedicare 2-3 giorni a Pompei e Napoli. Auguri sinceri.
Un édifice effondré à Pompéi, symbole d'un pays en état de catastrophe culturelle
Philippe Ridet – Le Monde
La Maison des gladiateurs et ses fresques qui s'effondrent entièrement, dimanche 7 novembre, à Pompéi, faute d'un entretien constant. Le tapis rouge du Festival du cinéma de Rome envahi par des centaines de mani-festants protestant, le jour de l'inauguration, contre les coupes dans la culture. Le Musée d'art moderne de Naples qui ne par-vient plus à payer ses factures d'électricité et menace de réduire ses heures d'ouverture. L'Opera qui a chi revoir à la baisse les contrats des techniciens. Tous ces événements disent «l'état de catastrophe culturelle » qui menace aujourd'hui l'Italie. La politique de rigueur budgétaire décrétée par le gouvernement (29 milliards d'euros d'économies en 2011 et 2012) se traduira par une reduction de 58 millions d'euros pour le secteur de la valorisation des biens culturels, et de plus de 100 millions pour le Fonds unique pour le spectacle (FUS). C'est également rude pour les collectivités locales: elles ne pourront dépenser plus que 20% des sommes allouées par l'Etat par le passé pour l'organisation d'événements culturels. «Ces restrictions sont un vrai désastre, se désole Umberto Croppi, adjoint à la culture de la capitale romaine. Une exposition comete celle du Caravage à Rome cette année ne sera plus possible. Or, elle a attire 500 00o visiteurs, rapporté 30 millions d'euros, dont 15 millions à l'Etat. » Cela ne fait pas fléchir le gouvernement : «La culture ne se mange pas», répond Giulio Tremonti, ministre de l'économie d'un pays qui compte le plus grand nombre (45) de sites classes au patrimoine de l'Unesco. Coeur d'activité de l'Italie Pour protester contre les coupes budgétaires, de nombreux musées, bibliothèques et sites archéologiques étaient fermés vendredi 12 novembre, d'autres étaient ouverts gratuitement. Le 22 novembre, les acteurs, réalisateurs, scénaristes et techniciens de cinéma sont également appelés par les syndicats à une grève générale. «Quand une entreprise est en difficulté, elle se concentre sur le coeur de son activite, or le coeur de l'activité de l'Italie, c'est la culture », explique l'adjoint à la mairie de Genes, Andrea Ranieri. « La culture n'est pas la cerise sur le gateau, c'est le gateau », renchérit le president de l'association des communes italiennes. Le gateau est mal en point. Au-delà de la polémique, c'est toute la gestion du patrimoine culturel italien qui est en cause. Sa sauvegarde et l'économie qui en découle. «Ce n'est pas seulement une maison qui s'effondre à Pompei, s'inquiète Maria Pia Guermandi, membre de la direction de l'association Italia Nostra, mais la crédibilité du pays. Nous ne sommes plus en mesure de gérer tout cela. » «Faute d'argent » L'art et la culture, qui devraient étre une des principales ressources de l'Italie, font l'objet de peu d'investissements, alors que le tourisme représente 12 % du PIB. De 7 milliards d'euros en 2008, année de l'élection de Silvio Berlusconi, le budget de la culture est tombe à 5milliards en 2010, soit 0,21% du budget de la nation. Musées de province presque vides, aires archéologiques ne recevant que quelques visiteurs par jour: l'Italie souffre de trop de richesses, et de trop peu d'argent pour les entretenir et attirer du public. «La valorisation de l'exceptionnel patrimoine apparait loin d'être optimale», conclut un rapport de la Fondation Ambrosetti, presente le 12 novembre dans le cadre de la manifestation Florens 2010, con sacrée à la valorisation du patrimoine. De son ceoté Sandro Bondi, le ministre de la culture, se débat entre l'intraitable ministre de l'économie et des milieux culturels aux abois. Pour manifester son opposition aux reductions budgétaires, il a bouclé un conseil des ministres. Mais il defend l'esprit de la réforme en dénoncant «la culture de l'assistance» qui a prévalu jusqu'alors. Son projet? Multiplier les fondations publiques et privées pour entretenir les Brands sites et les musées sur le modèle du Musée égyptien de Trin. Mais l'écroulement de la Maisons des gladiateurs pourrait porter un coup fatal au ministre de la culture. Après avoir maladroitement declare que le site s'était effondré «faute d'argent» pour l'entretenir, il a accuse les infiltrations d'eau d'être la cause de ce désastre, ce qui est en partie exact. «le me demettrais si j'étais responsable a. a-t-il répété, mercredi io novembre, au Parlement. L'opposition devrait déposer une motion de censure à l'encontre de celui qui a désormais gagné le sur-nom de « ministre des maux culturels ».
The glory that was Rome crumbles as Berlusconi tries to make past profitable.
Philip Willan – The Times
The Italians of the past created the richest cultural heritage in the world — so diverse and fragile, in fact, that the Italians of today are at their wits' end trying to preserve it. The collapse of the House of the Gladiators in Pompeii a week ago was viewed by many as a metaphor for Silvio Berlusconi's Italy: reality's revenge on a party-loving Prime Minister who lives in the here and now with scant regard for either the distant past or the future. Mr Berlusconi and his Culture Minister, Sandro Bondi, believe that Italy's art treasures should pay for themselves. With appropriate promotion and publicity, ticket-paying tourists will flock through the turnstiles, sponsors will finance restoration projects and ancient monuments will be brought back to life as a backdrop to modern cultural activities such as concerts or fashion shows, they argue. To put this philosophy into practice Mr Bondi last year appointed Mario Resca, the former head of McDonald's Italy, to manage the country's 450 museums and archaeological sites on a more profitable basis. Other "supermanagers" are to be brought on board to supplement the scant business sense of the ministry's professional archaeologists and art historians and to spearhead the valorizzazione, or monetisation, of the nation's cultural heritage. Art world professionals have found themselves sidelined by managers from the Civil Protection Department, brought in to tackle emergencies such as Pompeii and licensed to work around the bureaucratic red tape that usually slows construction and restoration. The policy has backfired, however, with most of Italy's major cultural attractions closed yesterday because of a one-day strike over the budget cuts. Critics said that the Government's approach was short-sighted. "The collapse [of the House of Gladiators] has inflicted a terrible wound on Italy's reputation in the field of restoration," said Maria Pia Guermandi, a councillor for the heritage organisation Italia Nostra. "It wasn't just a house that came down but an entire patrimony of credibility." Ms Guermandi said that the emergency commissioners who had overseen restoration work since they were given responsibility for the site two years ago had acted with little sensitivity, operating with excavators and Bobcats on a site "where you should only intervene with a soft brush". The policy of augmenting the number of visitors to the country's best-known sites was also misguided, she said. At the Colosseum, where slabs of plaster plunged to the ground seven months ago, visitors have been given access to a greater area of the monument and there have even been nighttime visits. Mr Resca is also eager that the Uffizi Gallery in Florence, visited by 1.6 million people last year, should do more to challenge the supremacy of the Louvre, which had 8.5 million visitors. "People are looking for short-cuts," Ms Guermandi said. "The Uffizi is one-twentieth the size of the Louvre. It is dirty, smelly and when it rains water runs down the wall in one of the rooms." Mr Bondi, a Berlusconi loyalist who has been criticised for his willingness to accept swingeing cuts to the Culture Ministry's budget, due to go down from 1.4 billion to 1.2 billion next year, has so far resisted calls for his resignation over the Pompeii collapse. He insists that the incident was unforeseeable. However, critics say that the collapse could have been prevented because it was heralded by a series of lesser stability problems in neighbouring buildings, but that the Government had diverted funds from conservation to promotion. The weekly magazine L'Espresso published details yesterday of what it said were non-essential expenditures authorised by the emergency commissioner. They included 51,000 for a visit by the Prime Minister that did not take place. Pietro Guzzo, who was superintendent of Pompeii from 1995 until 2009, said: "It probably wouldn't cost as much as people think to get the site in order. There are the universities and the archaeology schools, such as the British School at Rome, who do great work. With a grand collaborative plan it can be done. It's just a question of method." Archaeologists said that the House of the Gladiators was one of a myriad treasures at risk from under-funding and neglect. They argued that it was time to return to ordinary administration of the country's threatened sites, restoring control to the ministry's professionals. Lists of the monuments at risk included Nero's Golden House in Rome, the dome of Florence's Cathedral, Bologna's twin towers and a host of little-known archaeological sites in southern Italy.
“Per Pompei le risorse ci sono, si tratta di saperle spendere", affermava due anni fa Sandro Bondi, annunciando che il 28 ottobre 2008 Berlusconi avrebbe visitato il sito archeologico più famoso del mondo. Chissà se il ministro per i Beni culturali sapeva che per quella visita il commissariato straordinario voluto da lui medesimo stava bruciando un pacco di soldi. "Sessantamila euro per la visita del presidente del Consiglio", recita la voce della contabilità del commissariato, cui vanno aggiunti 11 mila euro per la "pulizia delle aree di visita del Presidente del Consiglio" e 9.600 euro per "l'accoglienza". Giustificazione dell'uscita: promozione culturale. Lavoro e migliaia di euro sperperati, visto che il Cavaliere a Pompei non ci metterà mai piede.
I soldi destinati alla visita del premier non sono gli unici, incredibili "investimenti" che i due commissari straordinari voluti da Bondi (prima il prefetto Renato Profili, poi Marcello Fiori della Protezione civile) hanno autorizzato durante la loro gestione per rilanciare il sito. "L'espresso" ha trovato l'elenco di (quasi) tutte le spese effettuate dalla struttura, denaro che forse sarebbe stato meglio utilizzare nella manutenzione e nel restauro dei templi e delle Domus degli scavi. "Ora è tardi, la scuola dei Gladiatori è crollata e non si può tornare indietro", dice un tecnico che chiede l'anonimato: "È una roba vergognosa, pazzesca, ha ragione il presidente Napolitano".
Tra stipendi da record, consulenze, operazioni di marketing e bizzarrie in odore di Cricca, a Pompei ci hanno mangiato in tanti. La lista comprende di tutto: ci sono 12 mila euro pagati per rimuovere 19 pali della luce; 100 mila per il "potenziamento dell'illuminazione" delle strade esterne al sito; 99 mila finiti a una ditta che ha rifatto "le transenne". Oltre 91 mila euro sono andati a un Centro di ricerche musicali per l'installazione di planofoni (strumenti per la diffusione del suono nello spazio), e 665 euro sono serviti a cambiare le serrature di un punto di ristoro. Quasi 47 mila euro sono serviti per metter in piedi l'evento "Torna la vite"; 185 mila per il progetto PompeiViva: soldi dati alla onlus romana CO2 Crisis Opportunity fondata da Giulia Minoli, figlia di Gianni e Matilde Bernabei, che ha avuto Gianni Letta come testimone di nozze. Lo sposo? Salvo Nastasi, direttore generale del ministero dei Beni culturali. Al piano di valorizzazione è stata chiamata anche Wind: importo previsto, 3,1 milioni di euro.
Le convenzioni, a Pompei, costano caro: 547 mila euro sono stati spesi per un progetto intitolato "Archeologia e Sinestesia" curato dall'Istituto per la diffusione delle Scienze naturali, altri 72 mila sono state dati all'associazione Mecenate 90 (presidente onorario il solito Gianni Letta, presidente Alain Elkann) per un'indagine conoscitiva sul pubblico, e ben 724 mila all'Università di Tor Vergata "per lo sviluppo di tecnologie sostenibili".
Qualche maligno sostiene che ci possa essere un conflitto d'interessi: Fiori, si legge nel suo curriculum, è stato docente universitario del corso "Pianificazione degli interventi per la sicurezza del territorio" proprio a Tor Vergata. Supermarcellino, come lo chiamano gli amici, fedelissimo di Guido Bertolaso, ex vice-capogabinetto di Rutelli, è l'uomo-chiave degli ultimi 18 mesi, l'esperto che afferma di aver speso il 90 per cento dei 79 milioni di euro a disposizione "per la tutela e la messa in sicurezza". Sarà, ma sono molte le spese che stonano. Passi per i 1.668 euro per i nuovi arredi del suo ufficio, ma forse i 1.700 euro per la divisa del suo autista o i 4 mila per la sua "parete attrezzata" poteva risparmiarli. Come i 10 mila per un altro ufficio presso l'Auditorium, i 113 mila per lo spettacolo "Pompei in scena" o i 955 mila per il "progetto multimediale" alla casa di Polibio.
A sei giorni dai crolli, sulle pietre della scuola dei Gladiatori sgambettano tre cani randagi, nonostante la Protezione civile abbia deciso di dare alla Lav ben 102 mila euro per "l'arresto dell'incremento" dei quadrupedi. La città antica è deserta, diluvia. "Stia attento alla pioggia, perché l'acqua qui uccide", raccomanda l'unico guardiano che si incontra in un'ora e mezza di visita. "La colpa di chi è? Dico solo che vedo sprechi, e troppa gente che litiga su cosa fare. E si sa che mentre 'o miedeco sturéa, 'o malato se ne more".
Filo rosso. Disposti a tutto
Concita De Gregorio
Gli ultimi giorni di governo potrebbero passare da Pompei. Pompei che non ha ancora smesso di crollare, si apriva così ieri sera la trasmissione di Fazio e Saviano: quanti tipi fossero e che nomi avessero le prostitute a Pompei. Prostitute e Pompei: così l'Italia sui giornali di tutto il mondo. Il Paese è un bordello per potenti, è Ruby e le altre. E il paese che lascia crollare Pompei. Sulla carta, alla Camera, ci sono i numeri per sfiduciare il ministro della Cultura Sandro Bondi e far esplodere in Parlamento la crisi che da settimane si trascina. La mozione sarà presentata dal Pd, potrebbe essere condivisa da parte del centrodestra, per primi i finiani. Fabio Granata ha detto: «L'Italia e la sua cultura meritano ben altro di un ministro che è sostanzialmente ed esclusivamente solo ministro della Propaganda». Ora che il cerino passato per mesi di mano in mano si è spento, ora che la Lega - da azionista di riferimento qual è - detta le sue condizioni, potrebbe essere Bondi l'imprevisto. Un voto sul disastro in cui precipita il patrimonio culturale nazionale Resto su Pompei. Resto perché questo giornale non ha mai smesso, dai giorni delle parate di Bertolaso (dai giorni in cui si assumevano persone e si annunciava alla stampa la lotta al randagismo, si costruivano passerelle per il passaggio dei potenti e guarda caso venivano giù i Casti Amanti) neppure un momento ha smesso di raccontare, con Luca Del Fra, cosa succede a Pompei. Meglio: cosa non succede. Leggete la lettera che gli archeologi, gli architetti e gli storici dell'arte hanno scritto a Giorgio Napolitano. Caro presidente, «in nome di un managerialismo di facciata, condito da commissari che tanti episodi giudiziari stanno provocando, sono state calpestate e si vogliono calpestare competenze di altissimo livello», intervenga lei, «la misura è colma considerata l’inadeguatezza nella gestione del più grande patrimonio del mondo». Inadeguatezza. Leggete cosa scrive a Bondi Luisa Bossa, già sindaco di Ercolano ora deputata Pd: «Lei ha detto: 'Se avessi la certezza di avere responsabilità in quanto accaduto mi dimetterei". Ci credo. Ma le chiedo: "Se il responsabile non è lei, chi è?". Non veniteci a dire che la casa è crollata per la pioggia. lo stessa - lei se lo ricorderà - le ho chiesto, per due volte, nell'Aula di Montecitorio, a gennaio e giugno di quest'anno, come stessero davvero le cose a Pompei. Segnalai l'uso di mezzi pesanti negli scavi, la mancanza di misure di sicurezza per la stabilità dei cantieri, il deturpamento del Teatro grande durante il restauro, la preoccupazione di studiosi, associazioni e sindacati. Lei mi rispose con garbo e fermezza. Disse che il nostro era disfattismo e che a Pompei si stava facendo un "lavoro straordinario". Ecco il risultato». Disfattismo. Le pareti delle strade italiane sono invase di manifesti. Dicono, sotto la foto di ragazzi e ragazze «Giovani disposti a tutto», è indicato un sito internet. Sono veri o falsi? Giuseppe Provenzano e Bruno Ugolini svelano il mistero: sono falsi. Vi diciamo in anteprima in quale ambito vanno cercati i loro autori: i "disposti a tutto" sono precari, atipici, invisibili. Ma attenzione. Perché i manifesti stanno cambiando. I più recenti hanno un'aggiunta. L'ultima versione è "giovani NON disposti a tutto". Un "non" aggiunto col pennarello, certe rivoluzioni cominciano anche così.
«Ministro, vada via». Sindacati, opposizioni e ambientalisti. Tutti contro Bondi
Luca del Fra
Un ministro sotto assedio: le associazioni, i sindacati, gli organismi territoriali, le forze politiche insorgono dopo le dichiarazioni rilasciate l'altro ieri da Sandro Bondi di fronte allo sfacelo della Schola Armaturarum, mentre la procura di Torre Annunziata ha aperto una inchiesta. Piovono le richieste di dimissioni, mentre il Pd sta preparando una relazione sulla gestione del sito di Pompei, funzionale a chiedere la sfiducia del ministro, dopo che mercoledì avrà riferito al Parlamento. Tiene il profilo basso il procuratore capo Diego Marmo: «Il fascicolo aperto oggi dalla Procura di Torre Annunziata per il crollo della Domus dei gladiatori — ha spiegato — è un atto dovuto, che servirà ad accertare se ci siano state responsabilità». Ma non è certo la prima inchiesta sulla situazione che si è creata a Pompei, già un primo fascicolo, aperto mesi fa per la denuncia di Gianfranco Cerasoli, responsabile Uil per i Beni Culturali, riguardava la gestione del commissario Marcello Fiori, che Bondi si ostina a difendere. «In nome di un managerialismo di facciata, condito da commissari che tanti episodi giudiziari stanno provocando, sono state calpestate e si vogliono calpestare competenze di altissimo livello»: così scrivono a Giorgio Napolitano gli archeologi, gli architetti e gli storici dell'arte di Assotecnici. Chiedono un intervento poiché conclude la loro lettera: «La misura è colma, considerata l'inadeguatezza nella gestione del più grande patrimonio del mondo». È irrituale la richiesta al Presidente della repubblica, ma i toni sono quelli. Il deputato del Pd Luisa Bossa, già sindaco di Ercolano, scrive invece allo stesso Bondi: «Lei ha detto: "Se avessi la certezza di avere responsabilità in quanto accaduto mi dimetterei". Ci credo. Ma le chiedo: "se il responsabile non è lei, chi è?". Non veniteci a dire che la casa è crollata per la pioggia. Io stessa — e lei se lo ricorderà — le ho chiesto, per due volte, nell'Aula di Montecitorio, a gennaio e giugno di quest'anno, come stessero davvero le cose a Pompei. Segnalai l'uso di mezzi pesanti negli scavi, la mancanza di misure di sicurezza perla stabilità dei cantieri, il deturpamento del Teatro grande durante il restauro, la preoccupazione di studiosi, associazioni e sindacati. Lei mi rispose con garbo e fermezza. Disse che il nostro era disfattismo e che a Pompei si stava facendo un "lavoro straordinario". Ecco il risultato». È proprio la mancata assunzione di responsabilità che ha fatto scendere sul piede di guerra tutte le associazioni che riuniscono gli archeologi italiani: «Mi pare che Bondi non abbia compreso quello che è successo a Pompei— dice perplessa Giorgia Leoni, presidente della Confederazione italiana archeologi —: né da un punto di vista fisico, perché la Schola e i suoi affreschi sono praticamente irrecuperabili, visto che erano già stati restaurati pesantemente. Ma il ministro non ha neanche capito che stanno crollando uno per uno proprio quei siti archeologici da lui commissariati: prima le arcate di Traiano alla Domus Aurea, poi il Colosseo e ora Pompei. I commissariamenti portano la sua firma, e le responsabilità di queste gestioni, che hanno mortificato le competenze scientifiche, ricadono su di lui: ne tragga le dovute conseguenze». Anche l'Associazione nazionale archeologi non ha dubbi: «L'attuale compagine governativa si vanta di saper amministrare — insiste il vicepresidente Salvo Barrano —, ma oltre ad aver speso male non ha saputo gestire bene il personale: dei 30 archeologi assunti nel 2009 nessuno è stato destinato a Roma e Pompei, proprio i luoghi dove sono avvenuti i crolli. Ora aspettiamo di sentire cosa dirà Bondi in Parlamento». I democratici stanno lavorando a un documento articolato in quattro punti: «Innanzi tutto c'è l'illegittimità del commissariamento, sancita dalla Corte dei conti — scandisce Matteo Orfini responsabile cultura del Pd —, in secondo luogo la modalità discutibile della spesa, con appalti in deroga mentre nei commissariamenti di Roma si è preferito seguire la prassi degli appalti regolari; si aggiunga, al terzo punto, che gli appalti in deroga sono serviti per iniziative che nulla avevano di urgente ed erano solo fuffa della cosiddetta valorizzazione che ha fatto passare in secondo piano la sicurezza e la tutela; infine siamo profondamente contrari alla trasformazione della sovrintendenza archeologica in fondazione, siti dell'importanza di Pompei dovrebbero restare sotto la vigilanza dello Stato». Da Italia Nostra arriva l'iniziativa di riunire tutte le associazioni per la tutela del patrimonio in un documento che chieda le dimissioni di Bondi: «Le responsabilità del ministro sono oggettive - spiega Maria Pia Guermandi - Pompei è stato il laboratorio di una politica di immagine che nascondesse i tagli alla cultura e ha provocato solo disastri. Non solo la procura, ma anche noi stiamo analizzando i bilanci del commissariamento: mentre si sperperava denaro a nessuno è venuto in mente di fare una semplice cabaletta di drenaggio che avrebbe evitato il disastro alla Schola e poco tempo fa la casa di Polibio, appena restaurata, ha avuto il cedimento di una trave. I soldi sono stati spesi a maggior gloria dell'allora commissario Fiori, la cui gestione continua con la presenza a Pompei di Nicola Mercurio, oggi esponente del PdL e in passato autista di Nicola Cosentino, e da lui assunto. Nessuno si vuole rendere conto che Pompei è una bomba che sta per esplodere per l'incuria, e ora più che mai ha bisogno della cura di archeologi e di tecnici, non di manager.
«È una Caporetto del managerialismo di eventi mediatici»
Luca del Fra - L'Unità
Il piano c'era eccome! Ed è stato anche operativo fino all'inizio dei commissariamenti» — spiega il professor Pier Giovanni Guzzo, e il professor Salvatore Settis gli fa eco: «Bisogna ricacciare in gola tutte queste scempiaggini sui manager a chi le sta dicendo». Arrivano secche come legnate le smentite alle dichiarazioni fatte dal ministro Sandro Bondi il giorno dopo l'ennesimo disastro avvenuto a Pompei. Il crollo della Schola Armaturarum sta facendo il giro del mondo e finalmente i riflettori si accendono sul sito archeologico che tutti ci invidiano e su cui è stato perpetrato uno scempio con piglio davvero manageriale. Il ministro ieri ha invocato un piano per la tutela di Pompei: non si era accorto che era stato già studiato e applicato, ma certo non dai suoi manager e commissari. A parlare è il professore Guzzo, ultimo vero sovrintendente di Pompei fino a inizio 2009: «Si figuri, abbiamo cominciato a lavorarci dal 1997 e per non gravare sul bilancio dello Stato il piano venne finanziato dal World Monument Found, a dimostrazione che anche archeologi e studiosi sanno amministrare e trovare risorse. Nel 1999 il piano è diventato operativo: dei 44 ettari di scavi di Pompei allora solo il 14% era in sicurezza e in pochi anni abbiamo più che raddoppiato arrivando al 31%». Di Pompei parla poco Guzzo, per non alimentare polemiche, ma tiene a precisare: «Tutela e manutenzione non finiscono mai, sono attività da aggiornare continuamente: purtroppo non sono né appariscenti né mediatiche». Insomma interessano poco i supermanager da copertina o da operetta del ministro.
E lui, Bondi, continua indefesso a difendere l'operato di Marcello Fiori, commissario subentrato a Guzzo e rimasto in carica fino a giugno scorso: «La situazione in alcune parti di Pompei è peggiorata durante il commissariamento — spiega senza tentennamenti Gianfranco Cerasoli, responsabile Uil per i Beni Culturali—; le domus su via dell'Abbondanza, guardando a sinistra verso porta Nola, sono a rischio a causa di un terrapieno che preme per le infiltrazioni d'acqua». E non si tratta nemmeno di costruzioni secondarie: «Parliamo delle Case dei casti amanti, dove di recente sono smottati lapilli, di Polibio, di Trebio Valente e perfino delle scale della Casina delle aquile malgrado siano state oggetto dell'intervento del commissario. Ma i tecnici si rifiutano di parlare». A Pompei si è commissariato in base a una falsa emergenza, come ha decretato la Corte dei conti, e poi si è poco badato alla messa in sicurezza: «Della gestione commissariale— spiega Biagio De Felice della Cgil che a Pompei ci lavora — mi ha colpito la mancanza di cultura e l'incomprensione dell'unicità del luogo. Hanno cercato di trasformare gli scavi in una "location" per eventi mediatici anche con spese folli, come i 7 milioni di euro per i discutibili lavori sul Teatro grande. Prendiamo il recupero della Casa dei casti amanti, con ologrammi e multischermi che potevano essere piazzati in qualsiasi altro luogo. Pompei e la sua straordinarietà sono rimaste sullo sfondo. Forse oggi bisogna ritrovare la vera Pompei». ologrammi, spettacolini, immagine.
L'inadeguatezza della gestione commissariale in cifre: 1'80% delle risorse è stato destinato alla cosiddetta valorizzazione invece che alla tutela. È il caso delle Case di Polibio e dei casti amanti dove proprio durante i lavori condotti inopinatamente con mezzi pesanti è avvenuto il primo crollo: entrambe presentate in pompa magna, ma per visitarle occorre una prenotazione e un biglietto supplementare senza riduzioni per anziani e bambini, alla faccia della diffusione della cultura. Malgrado Pompei avesse già una video sorveglianza efficace, ne è stata progettata un'altra che tra le insule pompeiane prevede tralicci così invasivi che i responsabili dei lavori si sono dimessi per la vergogna. Pompei segna la vera Caporetto del managerialismo bondesco, ma Mario Resca, manager di McDonald Italia che l'ineffabile ministro ha trapiantato alla nuova direzione per la valorizzazione del patrimonio, già poche ore dopo l'ultimo crollo invocava un manager da affiancare ai sovrintendenti. Idea ripetuta da Bondi anche ieri: «È la peggiore delle sciocchezze —sbotta il professore Settis—, la vera sfida è trovare professionalità specifiche che abbiano capacità amministrative. Sono stato rettore della Normale di Pisa per 11 anni e nessuno si è mai sognato di volermi affiancare un supermanager”. La realtà è che a Pompei manager e commissari c'erano, a mancare sono stati i sovrintendenti: «Sono state calpestate e si vogliono calpestare competenze in nome di un managerialismo buono per qualsiasi cosa, senza odore e colore, senza qualità».
Una gara per Pompei, ma di bighe
Paolo Berdini – ilfattoquotidiano.it
Appena sei giorni prima del crollo della domus dei Gladiatori sulla via dell’Abbondanza, la cronaca locale del Mattino di Napoli dedicava un’intera pagina al “futuro” del sito archeologico più famoso del mondo. Affermava il sindaco di Pompei, Claudio D’Alessio che “dopo la proposta, mai andata in porto , di allestire set cinematografici nell’area archeologica, l’antica città romana potrebbe diventare punto di riferimento per gli appassionati di cavalli. Potrebbe essere una delle tante iniziative per riportare Pompei al centro dell’attenzione nazionale e internazionale. Ho già avviato uno studio per valutare quali siano le reali condizioni per realizzare un concorso ippico.”. L’articolo diceva poi che si tratterebbe “una sorta di corsa delle bighe dell’antica Roma, riproposta in chiave moderna”.
Straordinario davvero. Il sito archeologico più visitato al mondo e che incassa qualcosa come 20 milioni di euro all’anno, ha bisogno delle bighe per ritornare al centro dell’attenzione. Non ha bisogno di sistematica opera di manutenzione, di completamento dello scavo nelle aree ancora non indagate, di servizi moderni e sempre sofisticati utilizzando le moderne tecnologie, di offerte culturali per aiutare a comprendere la storia urbana dell’antica città. Ha invece bisogno secondo il primo cittadino della corsa delle bighe. Poi arrivano i crolli e veniamo a sapere che, guarda caso, non ci sono i soldi per fare la normale manutenzione.
Il problema è sempre il solito. La pubblica amministrazione viene sistematicamente demolita dai fondamentalisti liberisti che ci governano e da un’opposizione imbelle. Stanno distruggendo le scuole e l’università pubblica, i tagli alla sanità sono ininterrotti; il patrimonio pubblico viene svenduto a pochi soldi. Nel silenzio della politica del palazzo si stanno trasferendo ricchezze dal pubblico al privato: prospera infatti l’istruzione pubblica, le cliniche private ricevono sempre maggiori finanziamenti e il patrimonio immobiliare dello stato andrà a pochi immobiliaristi.
Il gioco è pericolosissimo, perché rischia di minare lo stesso ruolo dello Stato nel nostro paese. Ma è un gioco che fa comodo a molti. A conferma della crisi che attraversa l’Italia vale la pena di riportare dalla stessa pagina del mattino il giudizio entusiasta espresso dalla presidente degli albergatori Rosita Matrone che afferma: “Nel 2008 presentammo come associazione un progetto simile all’ex soprintendente Pietro Guzzo. Proponemmo di realizzare una passeggiata a cavallo all’interno degli scavi. Guzzo non ci ha mai risposto, solo perché, all’epoca, la soprintendenza si è sempre dimostrata chiusa verso le proposta e che arrivano dall’esterno”. Il problema dello sfascio dell’Italia è dunque riconducibile alla rigidità dello stimatissimo ex soprintendente Guzzo.
Una comoda scorciatoia che nasconde le mire sulla privatizzazione di alcuni servizi di Pompei e di parti dell’area archeologica che da tempo sta prendendo forza. Di fronte all’incapacità delle amministrazioni pubbliche a svolgere funzioni “normali”, la soluzione del potere politico ed economico è soltanto quella di demolire ancora di più uno Stato in declino. C’è invece da cimentarsi con il tema difficilissimo -a causa dei guasti che tocchiamo quotidianamente con mano- della ricostruzione delle amministrazioni pubbliche. Tagliando sprechi e inefficienze, ma mantenendo gelosamente le prerogativa di delineare un futuro di cultura e bellezza e non di speculazioni e corse delle bighe.
La gestione emergenziale promette ovunque servizi che non ci sono
Conchita Sannino – la Repubblica
E di rischi trattenuti già a lungo sotto lo stesso cielo archeologico, su cui si posa adesso la carezza autoassolutoria di un ministro. «Ma perché le pietre di un cedimento archeologico sono coperte? Forse per nascondere i pezzetti di affreschi, per raccontare balle? Mah, sarebbe come se a L´Aquila avessero coperto le macerie», sbotta un esigente Pietro Armeni, veneto, al seguito di famiglia ed amici, uno dei 3770 visitatori di ieri, una media ben inferiore agli altri mesi autunnali e agli altri periodi storici. Ma certo: per il fato ostile di un giorno, colpa dell´inverno malinconico che sembra d´un tratto non rispondere più alle invitanti rappresentazioni di Pompei risorta, come dovevano attestare i 79 milioni di euro spesi negli ultimi due anni e mezzo.
Denaro mirato in gran parte su spettacolari concerti, iniziative di promozioni, efficaci promozioni, assai meno per il monitoraggio dei rischi e la messa in sicurezza del sito. È oltre queste transenne che, in una domenica livida, i turisti assaporano il gusto di affacciarsi su macerie millenarie e insieme freschissime. Chissà che lì intorno, anzi lì sotto, nella vertigine tra i crolli di ieri e di oggi, non si aggiri furioso il fantasma di Crescenzio, gladiatore cui inneggiavano le scritte sui muri "parlanti" della città antica, lo stesso atleta che l´eruzione avrebbe sorpreso con la nota dama dal collier di smeraldi, ingioiellata di troppi monili per essere lì, alla settima ora, più o meno l´una del pomeriggio del 24 agosto dopo Cristo, nel quadriportico di Porta di Stabia. Lo racconta anche ieri Mattia Buondonno, la guida dei record, il "Philipe Leroy" degli Scavi che suscita le emozioni dei visitatori illustri, da Bill Clinton al lupanare a Mel Gibson che gli parla in aramaico, da Meryl Streep al matematico Nash che gli faceva, in ogni casa, sempre la stessa domanda.
Ma è abbacchiato anche lui, stavolta. Dallo stesso ingresso da cui, ogni giorno, "Philipe Leroy" dipana la sua favola per cultori e turisti, comincia invece una storia triste, forse preoccupante. Partendo dal Teatro Grande furiosamente rifatto in pochi giorni e tante notti di lavoro dallo staff della Protezione civile. La visita al cuore malato di Pompei.
Proprio a ridosso del teatro, ecco lo spreco e l´abbandono, insieme. Lo spreco di quei grandi prefabbricati trasformati in eterni camerini per attori, lasciati lì, impatto non sostenibile al costo di alcuni milioni di euro, che adesso insistono sull´area del Quadriportico. L´abbandono è quello, a pochissimi metri, dei graffiti antichi, uno di un gladiatore, l´altro raffigura una nave, che stanno sui muri come duemila anni fa: zero copertura sulla parete, zero protezione. Ancora più avanti, prima di svoltare sulla via di Stabia, ecco le assi di legno che chiudono alcuni accessi, sghembe, pericolose, chiodi in evidenza. Sono anomalie su cui indaga, da tre mesi, la Procura della Repubblica di Torre Annunziata. Che stamane, tra l´altro, aprirà un fascicolo «dovuto» sul crollo della Schola Armaturarum. «Il disastro riporta con i piedi per terra lo Stato, ammesso che lo voglia vedere - spiega Biagio De Felice, architetto, voce della Cgil nel grande parco archeologico -. Ci avevano imposto finora la Pompei delle emergenze, poi quella delle apparenze, con decine di milioni spesi nella sola comunicazione. Qui non si tratta di individuare capri espiatori, perché la gestione della Protezione civile, tra sprechi e opinabilissime scelte, ha migliorato alcuni servizi. Qui si tratta di capire quali sono le priorità e a quale prezzo "vendere", o fingere di vendere, il prodotto Pompei. E infine: a beneficio di chi?».
Il denaro speso in questi anni, a sentire De Felice, «ha svuotato la cassa della Soprintendenza, non un soldo dal governo». Prima le gare ad evidenza pubblica dell´allora commissario Renato Profili, l´anziano prefetto poi "destituito" senza motivazioni ufficiali e morto un anno fa; poi la gestione del supercommissario Marcello Fiori e del suo gruppo, uno staff non privo di competenze irrituali, come quella del geometra Nicola Mercurio, già autista del ras del Pdl campano, Nicola Cosentino, e poi capogruppo di quel partito nel piccolo centro di Sant´Antonio Abate, dove almeno grazie a Mercurio arrivavano un po´ di fondi per i resti romani dell´antica Villa in paese. Pazienza se gli archeologici avevano immaginato addirittura di seppellirlo di nuovo, quel sito, pur di non disperdere i fondi in troppi rivoli.
Invece. «Pompei viva», recita continuamente la scritta scolpita nel bronzo dei cancelli nuovi, levigati e bruniti, sugli ingressi di casa del Menandro o dei Casti Amanti, uno slogan che resta il timbro della gestione commissariale, dei poteri in deroga e di una managerialità controversa sulla gestione di materia delicata come la città disabitata, eppure viva, dei pompeiani. Ma basta inoltrarsi lungo gli altissimi lastroni, avanzare sul cocciopesto vero delle antiche dimore o su quello finto prodotto dallo staff dell´ultima gestione romana, e ti accorgi che le Pompei sono due, almeno. Una è la versione patinata, un po´ hollywood, un po´ Adro per via di quel simbolo «Pompei Viva» ripetuto ossessivamente sugli spazi riaperti, stesso titolo della Fondazione (omonima) che non c´è ancora, e di un pacchetto di distinte e affascinanti fruizioni che non ci sono (ancora). L´altra, è la Pompei che si ripiega, a rischio di sbriciolamento.
Alla Regio VI, tredicesima insula, altre quattro assi in legno fradicio ostruiscono il passaggio a una casa. Otto metri oltre, è l´insula XII a denunciare il bisogno di consolidamento: la lunga colonna che sostiene il piano superiore appare gravemente lesionata, il blocco appare letteralmente spaccato in più parti eppure miracolosamente regge: sta in piedi grazie alla forza di gravità che ne impedisce il collasso orizzontale. Ma se arrivasse una scossa di terremoto, neanche tanto elevata di grado, sicuramente queste pietre rotolerebbero giù. Per fortuna, il vulcano non gioca.