Il campanello d’allarme è suonato scrutando quella norma nel Decreto sviluppo. Un piccolo comma che fa slittare da cinquanta a settant’anni l’età che deve avere un edificio per essere meritevole di tutela. Vent’anni di più. Che lasciano senza protezione molto di ciò che l’architettura italiana ha realizzato fra il 1941 e il 1961: Pier Luigi Nervi, Franco Albini, Ignazio Gardella, Carlo Scarpa, Lodovico Belgiojoso, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers, Piero Bottoni, Ludovico Quaroni, Mario Ridolfi e altri ancora. L’allarme ha destato più profonde preoccupazioni: è a rischio tanta parte dell’architettura di tutto il Novecento. «Secolo fragile», concordano gli storici dell’architettura Carlo Olmo e Piero Ostilio Rossi. Dominato da un materiale friabile come il cemento armato, insiste Franco Purini, professore a Roma e progettista. Un secolo, ricorda Purini, inaugurato dalla profezia del futurista Edoardo Sant’Elia: ogni generazione costruirà la propria casa.
Un Novecento oggetto di consumo, dunque, affetto da una forma di minorità che deriva per paradosso dall’essere molto familiare. Sembra che su di esso non si sia depositata una sufficiente quantità di storia e di attenzioni culturali che rendono invece automatica la salvaguardia di un edificio del Trecento e del Quattrocento. Eppure, spiega Olmo, professore a Torino e direttore de Il giornale dell’architettura, «se si lasciano deperire i quartieri di edilizia pubblica sorti dopo la guerra, gli stabilimenti industriali ora dismessi, gli insediamenti organizzati intorno al lavoro, è in discussione una parte essenziale delle nostre città».
La buona architettura del Novecento rischia di essere inghiottita nella massa di costruzioni che ingombrano la scena delle nostre città, dove si stima che i nove decimi dell’edificato risalgano al dopoguerra (Roma era costruita su sei ettari fino al 1951, ora si espande su cinquanta e oltre) e la cui qualità è giudicata pessima. Ma quali sono i morbi che affliggono quelle architetture? Alessandra Vittorini, che al ministero per i Beni culturali cura un catalogo dei migliori prodotti novecenteschi (circa duemila edifici dal 1945 in poi, trecento dei quali eccellenti), indica soprattutto il loro cattivo uso: «Non si distingue fra un palazzo di speculazione e una palazzina di pregio: gli interventi su infissi e intonaci, gli adeguamenti per sicurezza o isolamento termico possono essere compiuti con uguale trasandatezza, badando a risparmiare più che a mantenere leggibili i tratti architettonici».
D’altronde un manufatto, anche prezioso, che ha cinquanta o settant’anni, è vissuto, abitato, calpestato - ed è nell’essere usato e non musealizzato la sua ragion d’essere.
A Roma destarono impressione, anni fa, gli interventi sulla palazzina Furmanik di Mario De Renzi, il cui intonaco è stato stravolto e dalle cui balconate sono sparite le persiane scorrevoli. Ma si è arrivati anche alle demolizioni: il Velodromo, delicato impianto realizzato per le Olimpiadi del 1960 da Cesare Ligini, è stato abbattuto e rase al suolo finiranno anche le torri di Ligini all’Eur di Roma: operazioni "ingiustificabili", dice Purini: «l’Eur è un riferimento per l’architettura di tutto il mondo, non può finire preda di speculazione». Altri emblemi del Novecento romano sono in pericolo: lo stadio Flaminio e il Palazzetto dello Sport, entrambi opera di Nervi ed entrambi oggetto di piani di ampliamento che, denunciano in molti, li snaturerebbero (ma per lo stadio, grazie all’intervento di Renzo Piano, si fa avanti l’idea di una struttura smontabile).
A Pozzuoli, vicino a Napoli, la fabbrica Olivetti realizzata da Luigi Cosenza, Marcello Nizzoli e Pietro Porcinai e raccontata da Ottiero Ottieri in Donnarumma all’assalto, è stata venduta e i molti proprietari hanno diviso gli interni, abbassato le altezze e costruito soppalchi. Manomissioni vengono denunciate a Ivrea, dove il settanta per cento di tutto il costruito si deve alle idee comunitarie di Adriano Olivetti, ma dove almeno vigila, sensibilizzando gli utenti, la Fondazione intitolata al grande imprenditore-intellettuale. «L’enorme spazio delle Officine di Luigi Figini e Gino Pollini è stato diviso per ricavarne piccoli box», racconta Patrizia Bonifazio, che per conto della Fondazione segue il patrimonio di Ivrea. «La mensa di Gardella è diventata un call center e sono stati smantellati gli impianti di areazione che avevano un grande impatto formale».
In un appello promosso da Gino Famiglietti, direttore regionale dei Beni culturali in Molise, e firmato da migliaia di persone, viene allegato un elenco di opere di proprietà pubblica o ecclesiastica che, con la tutela spostata da cinquanta a settant’anni, potrebbero essere vendute o alterate: il Salone per le Esposizioni e il Palazzo del lavoro di Nervi a Torino; la chiesa della Sacra Famiglia di Quaroni a Genova; il Padiglione d’arte contemporanea di Gardella a Milano.
Ma nella lista figurano anche quartieri di edilizia popolare, il QT8 di Milano (Piero Bottoni, Vico Magistretti, Giancarlo De Carlo, Marco Zanuso), la Falchera di Torino (Giovanni Astengo), il Borgo La Martella di Matera, voluto da Olivetti e progettato da Quaroni.
Italia Nostra si è mobilitata. La conoscenza, si sente dire, può valere persino più dei vincoli, perché sensibilizza chi quelle architetture le vive. L’associazione Docomomo scheda con cura le opere per le Olimpiadi del 1960 e segnala gli edifici meritevoli di protezione a L’Aquila. «Può bastare una piccola targa accanto al portone, come si fa in Francia», ricorda Alessandra Vittorini, «per sapere di abitare in un palazzo che ha qualità architettonica». Marco Dezzi Bardeschi, architetto e professore al Politecnico di Milano, ha raccolto nella mostra "Salvaguardare l’architettura contemporanea a rischio" casi emblematici di abbandono: il Foro Boario di Giuseppe Davanzo a Padova (1965), l’Istituto Marchiondi di Baggio (Vittoriano Vigano, 1957), la Villa Saracena progettata da Luigi Moretti a Santa Marinella.
«L’architettura del Novecento dura programmaticamente poco», dice Purini. «Questo vale per Ville Savoy di Le Corbusier, che è costantemente in restauro, e per i Grand Ensemble, i giganteschi complessi francesi o dell’ex Urss, per i quali è stato necessario intervenire per dare solidità a posteriori». Ma come agire correttamente? Tanti citano un caso virtuoso, il restauro del grattacielo Pirelli di Gio Ponti a Milano, dopo l’incidente provocato nel 2002 da un aereo. A Roma esiste una Carta per la qualità curata da un gruppo guidato da Piero Ostilio Rossi, storico dell’architettura alla Sapienza (milletrecento edifici dall’inizio del secolo indicati come meritevoli di tutela). Il documento fa parte del Piano regolatore, fissa criteri per intervenire, ma resta lettera morta. «Per il passato basta una data a segnalare come pregiata un’architettura», spiega Rossi, «ma per il Novecento non si riesce a dar vita a giudizi di valore condivisi».
Più ci si avvicina alla contemporaneità, più la percezione estetica si fa debole. Ma oltre le questioni propriamente culturali, le malversazioni si moltiplicano. Quella subìta dal Memoriale per gli italiani caduti nei lager nazisti, per esempio, un’opera che nel 1980 vide la collaborazione dell’architetto Belgiojoso, del pittore Mario Samonà, dello scrittore Primo Levi e del musicista Luigi Nono. La struttura, voluta dall’Associazione ex deportati e allestita nella baracca 21 di Auschwitz, consiste in un percorso a spirale, rivestito all’interno da una serie di illustrazioni. È un’opera d’architettura e d’arte, la cui visita era accompagnata dal brano di Nono, Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz. Il memoriale è in condizioni precarie, avrebbe bisogno di restauri: ma su di esso incombe addirittura la minaccia di demolizione.
Anche nell’articolo, fortemente improntato ad una logica conservazionista, si cita la necessità di “non musealizzare” le opere degli architetti del ‘900. Ecco: basta essere coerenti con questo assunto per fare il passo successivo, ovvero che da tutelare, e in modo attivo, c’è l’idea di città alle spalle delle singole opere. Un percorso che del resto è già stato compiuto ad esempio nella tutela dei centri storici o degli edifici di interesse monumentale in area non urbana, almeno in teoria. E che proprio dai lavori di almeno due generazioni di progettisti emerge evidente, ovvero la capacità di immaginare e suggerire contesti spaziali assai più ampi di quelli direttamente interessati dalle realizzazioni.
Non a caso si parla di esperienze a cavallo fra l’emergere della cosiddetta figura di architetto integrale (che comprende sia l’urbanista, che il progettista, che il designer e il critico) e la transizione verso la successiva riorganizzazione, secondo molti in negativo, e l’emergere delle figure attuali, archistar o comunque più fortemente improntate a un approccio individualista.
Il che non significa ovviamente musealizzare intere aree metropolitane: la “morte dell’architettura moderna” in questo senso è stata ufficialmente sancita a livello internazionale già negli anni ’70. Ma sicuramente recuperare il meglio delle suggestioni urbane di queste generazioni di architetti, andando se non altro oltre la pura logica del restauro e/o del “diradamento edilizio” di buona memoria (f.b.)
Un rapporto-fantasma su Pompei, Ercolano e Torre Annunziata circola al ministero dei Beni Culturali. Esiste, ma è come se non ci fosse. Autori tre illustri studiosi, due francesi e un inglese. Promotori l´Unesco, l´organizzazione dell´Onu per l´educazione e il patrimonio culturale, in collaborazione con l´Icomos, altro organismo internazionale per la conservazione storico-artistica. Periodo dell´indagine: tre giorni a dicembre 2010, tre a gennaio 2011. Scopo: accertare lo stato degli scavi vesuviani dopo il crollo della Schola Armaturarum. L´esito è stato moderatamente positivo: i tre siti non finiranno nella lista dei luoghi a rischio, ma fra due anni subiranno un nuovo esame. Tutto bene, quindi? Non proprio.
Quel rapporto, cinquantuno pagine scritte in un inglese fluido, è, appunto, un fantasma. Qualche dirigente del ministero dice di non sapere neanche se è arrivato. Il motivo del riserbo, si sente ripetere, è uno: il documento contiene critiche agli interventi adottati negli ultimi tre anni e indica soluzioni diverse.
Il rapporto è stato consegnato alle autorità italiane, le quali possono rispondere e fare osservazioni. Ma di un lavoro di integrazione non c´è traccia. I tre relatori, Jean-Pierre Adam e Alix Barbet, archeologi con una ricca bibliografia pompeiana, e Christopher Young, una lunga esperienza di gestione presso il World Heritage Centre, rilevano come sia fondamentale per Pompei un lavoro capillare e programmato di manutenzione e restauro. Le strutture tecniche, aggiungono, vanno rinforzate e non svuotate come sta accadendo (709 unità nel 2004, 505 ora: depauperati il settore dei restauratori e le fasce intermedie, quelle che svolgono il monitoraggio). Parole sferzanti i tre relatori dedicano all´entertainment archaeology, l´ossessione per la valorizzazione del sito con mezzi virtuali, verso la quale sono stati dirottati molti fondi durante la gestione commissariale, che tanto stava a cuore all´ex ministro Sandro Bondi. Pompei, si legge nel documento, non ha bisogno di «theatrical presentation»: Pompei «naked in all its glory is enough» (Pompei, nuda nella sua gloria basta a se stessa). In sostanza l´Unesco chiede che si torni al piano avviato nel 1997, soprintendente Pier Giovanni Guzzo, messo da parte nel 2008.
Il rapporto, poi, segnala il caso dell´Herculaneum Conservation Project - l´organismo finanziato dal magnate americano David Packard, che da dieci anni opera a Ercolano, dove ha speso 16 milioni - come esemplare di una buona relazione fra pubblico e privato. Peccato, però, che la collaborazione fra la Soprintendenza, la direttrice degli scavi, Maria Paola Guidobaldi, e gli studiosi guidati dall´archeologo Andrew Wallace-Hadrill e dall´architetta Jane Thompson, entrambi inglesi, non goda di molte attenzioni al ministero. Anzi, sia trascurata fino a irritare i vertici dell´Herculaneum Conservation Project, mettendo a rischio la loro permanenza a Ercolano.
Un brutto colpo per i Beni culturali. Che arriva mentre per Pompei si vara un piano di 105 milioni di cui si sa ancora poco. Sono previste sofisticate indagini geologiche (8 milioni) che il preside della facoltà di Architettura di Napoli 2, Carmine Gambardella, sostiene di aver già compiuto e aggiunge di poterle offrire gratis. Il piano di interventi sul campo, invece, è stato stilato dalla Soprintendenza e delinea operazioni di manutenzione e il restauro di 39 domus. Ma le assunzioni di nuovo personale sono incerte (si parla di una trentina di persone, ma non sono chiari i profili professionali). A Pompei si ipotizza anche che un gruppo di imprenditori francesi finanzi progetti di restauro (le trattative sono ancora in corso). Mentre fuori delle mura c´è il rischio di una cementificazione alla quale sarebbero interessati imprenditori napoletani: un piccolo comma prevede interventi in deroga alle norme urbanistiche. E, quasi lo presagissero, gli esperti Unesco raccomandano di mantenere integre le visuali dentro e fuori gli scavi (su questo c´è un allarmato intervento di Italia Nostra).
La situazione non è gravissima, dicono gli estensori del rapporto, che suggeriscono quindici raccomandazioni. Fra queste, insistere con il lavoro che l´Herculaneum Conservation Project sta realizzando a Ercolano ed estenderlo altrove. Packard scansa i riflettori e non vuole ritorni d´immagine. Non è uno sponsor classico come Diego Della Valle al Colosseo. In compenso mette a disposizione uomini, competenze e soldi per fare manutenzione e restauri. Il lavoro è svolto fianco a fianco con gli archeologi e gli architetti del posto. Con loro, insiste Wallace-Hadrill, si sperimenta un metodo di gestione del sito che, una volta concluso il progetto, le strutture pubbliche possano poi proseguire. Ma con quali mezzi e con quali risorse, se entrambe scarseggiano? Wallace-Hadrill cita preoccupato la decisione di stornare da Pompei il 25 per cento dei suoi fondi per dirottarli altrove.
Ercolano trae grandi benefici dalla cura Packard. Ma in questi giorni è stato ingaggiato un braccio di ferro con i vertici del ministero. Motivo: il finanziamento con poche decine di migliaia di euro, di Fasti Online, l´archivio elettronico degli scavi compiuti in tutto il mondo sostenuto da Packard e dal ministero. Che ora potrebbe non metterci più un soldo, irritando ulteriormente Packard.
Claudio Lotito ha parlato chiaro: il Colosseo sarà il nuovo marchio della sua Polisportiva Lazio. Temo che Lotito non legga molto i giornali. Un suo diretto concorrente, il patron della Fiorentina Diego Della Valle, re delle scarpe, lo ha largamente preceduto stringendo col commissario straordinario (eterno?) all’archeologia di Roma e di Ostia, Roberto Cecchi, un contratto di sponsorizzazione, che riserva per quindici anni il marchio del Colosseo a lui. Che, inoltre, potrà stampigliare il proprio logo aziendale sugli oltre 5 milioni di biglietti annuali. In quindici anni, coi prevedibili incrementi, 80-90 milioni. Souvenirs che andranno in tutto il mondo. Il marchio Tod’s campeggerà pure sui tendoni di 2 metri e 40 che nasconderanno i restauri, non brevi. A fronte di 25 milioni di euro, il Ministero apparecchia una ricco set di ritorni pubblicitari.
Della Valle, alla conferenza-stampa, è stato molto corretto: “Noi non facciamo beneficenza”. Cioè questa non è una donazione liberale. Poi – forse per l’assenza quasi totale di rilievi critici sulla convenzione genuflessa predisposta dal MiBAC – è montata l’euforia. Al convegno organizzato in materia al Teatro Argentina la responsabile di Confculture (Confindustria), Patrizia Asproni è partita bene: “Noi siamo imprenditori e vogliamo fare profitti. Della Valle prima investiva nello sport, ora nel Colosseo. Lo sport non ha più appeal a causa della corruzione e del doping”. Poi ha calato l’asso di bastoni: “Sono stanca del Ministero per i Beni e le Attività culturali. Non ne abbiamo più bisogno. Il patrimonio culturale del Paese deve entrare nella competenza del Ministero dello sviluppo economico”. Insomma, è la redditività dei beni culturali a dettare l’agenda. Non più la ricerca: scientifica, artistica, archeologica. Non più il valore “in sé e per sé” della cultura. I professori studino pure; priorità e usi spettano al profitto. E la tutela del patrimonio? Un bel fastidio, oggettivamente. Roba da “talebani della tutela”, come disse Andrea Carandini nel sostituire (in 4’) Salvatore Settis, dimissionario, alla presidenza del Consiglio Superiore dei Beni Culturali.
L’operazione-Colosseo come modello per l’ingresso in forze dei privati nei beni culturali? Un po’ di milioni versati a fronte di “esclusive” pluriennali per l’utilizzo fotografico, televisivo, commerciale, ecc. In qualche caso – vedi Palazzo delle Esposizioni e Scuderie del Quirinale (ne ha parlato ieri il “Corriere della Sera” nella pagine romane) – si accenna a far gestire a privati quegli spazi pubblici restaurati con ingenti fondi statali e comunali, Per sdemanializzarli e rinsanguare le esauste casse municipali? Forse. Riecco due spettri: a) la Patrimonio SpA di Tremonti creata per dismettere edifici pubblici anche di pregio storico; b) la privatizzazione dei musei avanzata da Giuliano Urbani, sommerso dall’unanime sollevazione dei direttori di musei del mondo intero.
Della Valle aggiunge: “Speriamo di dare presto notizie concrete di restauri anche a Pompei, Venezia, dove bisogna pensare al Canal Grande, e di un grande intervento anche a Firenze. Voglio fare un bel regalo al sindaco Renzi”. Sino a ieri la famiglia era molto interessata al business del nuovo Stadio, condizione essenziale per tenersi la Fiorentina, e già sull’area prescelta s’erano accese fiere polemiche. Aspettiamo e vediamo ‘sto regalo. In questi giorni è riemersa una parola magica: mecenatismo. Qui bisogna chiarirsi le idee: queste sono sponsorizzazioni con un chiaro profitto privato sotto forma di ritorno di immagine; il mecenatismo è altra cosa. Lo si può capire con una gita ad Ercolano. Qui opera da anni la donazione di David W. Packard, dell’omonimo gigante dell’informatica. Che, in silenzio, finanzia, attraverso la Packard Humanities Insititute, manutenzione ordinaria e straordinaria di quel magnifico sito, sulla base di un’intesa progettuale con l’ottimo soprintendente del tempo, Piero Guzzo (lo stesso messo in croce a Pompei da un commissariamento che ha stravolto il grande teatro romano, ed ora in pensione). Sono state ripristinate le fogne e le canalizzazioni della città antica.
Packard – come ha scritto Francesco Erbani su “Repubblica” – è il figlio del fondatore dell’azienda, viene da studi classici e si è fidato in pieno degli archeologi a cominciare da Guzzo, lavorando con loro (e non con pretesi manager) a sbrogliare l’intrico burocratico al fine di riparare subito i danni, sempre gravi nelle città antiche, prodotti dalle acque piovane che ruscellano dai tetti, o dal guano dei piccioni, oppure dagli scarichi intasati sottoterra da materiali remoti. E’ stato messo norma l’impianto elettrico dando ad Ercolano una efficiente illuminazione notturna. Senza contropartite? Esatto. Questo si chiama mecenatismo.
I francesi salveranno Pompei? Di sicuro vogliono farlo. E sono già pronti a staccare assegni milionari. Ma devono fare i conti con la burocrazia e i ritardi dei nostri apparati pubblici, oltre che con una possibile diffidenza «diplomatica» per la colonizzazione di un simbolo italiano.
La vicenda è in pieno svolgimento e prende le mosse dal crollo della Scuola dei gladiatori il 6 novembre 2010, definito da Giorgio Napolitano «una vergogna per l’Italia» e raccontato impietosamente da tutti i giornali e le tv del mondo. Tra dicembre e gennaio l’Unesco (che nel 1997 dichiarò Pompei patrimonio dell’umanità) invia una missione speciale. In primavera, gli inviati dell’Unesco scrivono una relazione con diversi appunti critici (in particolare sul commissariamento in ambito Protezione civile, chiuso l’anno scorso).
A giugno, quando si teme che l’Unesco inserisca Pompei nella «danger list» dei «siti in pericolo», accade qualcosa. Un gruppo di importanti industriali francesi si rivolge all’Unesco, offrendo massiccia disponibilità economica per il sito archeologico. L’organizzazione internazionale, che non ha compiti diretti di gestione, offre il suo prestigio internazionale come «facilitatore». Contatta il ministero per i Beni culturali e organizza un incontro a Parigi tra gli imprenditori e gli emissari di Giancarlo Galan.
Ci sono almeno due riunioni riservate tra la metà e la fine di giugno. La cordata francese spiega le sue buone intenzioni. Ad ascoltarle Massimo De Caro, braccio destro di Galan, e un dirigente della struttura ministeriale di valorizzazione del patrimonio culturale diretta da Mario Resca.
Manca però un rappresentante della sovrintendenza o del ministero in grado di spiegare ai francesi quali sono le esigenze di tutela da soddisfare. Insomma i francesi hanno già in mano il carnet degli assegni, ma vorrebbero sapere che cosa intende fare l’Italia dei loro quattrini.
Non solo. Forte di una lunga esperienza sul campo con studiosi «pompeiani» di valore, l’Unesco fornisce suggerimenti. La storia di Pompei è lastricata di finanziamenti annegati in progetti insensati. Dunque, più che una generosa donazione una tantum tra un’emergenza e un’altra, serve un impegno finanziario di lungo periodo. Per dire: attualmente nell’area archeologica di 65 ettari (di cui 45 scavati con 15 mila edifici e solo 15 ettari visitabili) lavora un solo archeologo, mentre l’ultimo mosaicista andato in pensione nel 2001 non è mai stato rimpiazzato.
Serve un progetto a lunga scadenza con scadenze precise, per ipotizzare un contributo di dieci-venti milioni di euro l’anno per diecivent’anni. Nelle riunioni di giugno, i francesi chiedono garanzie. Il ministero non è in grado di presentare una «lista della spesa». Dunque si prende atto dei buoni propositi e ci si aggiorna, in attesa di un progetto del ministero. Anche perché una questione con riverberi mediatici di portata internazionale richiede una valutazione ulteriore. Si pensa infatti di interpellare anche il ministero degli Esteri. Insomma, accettare i soldi francesi per salvare Pompei richiede un ok del governo. Nel frattempo, l’Unesco concede altri due anni di tempo congelando la «danger list». E il report conclusivo della missione di gennaio, contrariamente a quanto previsto, viene inviato al ministero per i Beni culturali ma non reso pubblico.
Resta un ultimo capitolo. Gli industriali campani vogliono accodarsi ai francesi. Ma mentre i transalpini sono disposti a pagare i restauri di domus e mosaici, gli imprenditori napoletani sono interessati ad attività collaterali: biglietteria, servizi turistici, opere edilizie. Business. Il che fa temere a Italia Nostra che all’ombra del mecenatismo francese si nasconda l’ennesima speculazione italiana. Anche perché la legge salva-Pompei prevede deroghe ai piani urbanistici anche per interventi slegati dalla tutela. E quindi alberghi, sale ricevimenti, outlet...
Trecentosettantamila euro. Con questi soldi ci si paga a malapena un mese di stipendio (lordo) all’amministratore delegato dell’Eni o della Finmeccanica. Oppure due mesi e mezzo a quello delle Poste. Ebbene, di trecentosettantamila euro ci si dovrà accontentare quest’anno per la manutenzione di uno dei siti archeologici più vasti e preziosi del mondo: la villa dell’imperatore Adriano a Tivoli. La Soprintendenza aveva spiegato che due milioni e mezzo, viste le condizioni, era il minimo. Ma dal ministero dei Beni culturali hanno risposto picche: le casse languono, e 370 mila euro devono bastare. Ormai è un classico. In tre anni, a fronte di richieste per 6,7 milioni, è arrivato un milione e mezzo. Inutile meravigliarsi che le aree chiuse al pubblico con il cartello «pericolo di crollo» (un cartello rigorosamente ed esclusivamente in italiano, nonostante una maggioranza di visitatori stranieri) siano sempre più numerose, come documentano le immagini in questa pagina.
Eppure Villa Adriana è uno dei 45 luoghi italiani che l’Unesco ha dichiarato Patrimonio dell’umanità. Forse la testimonianza architettonica di epoca romana più complessa e importante arrivata fino a noi: basta dire che si estende su una superficie di 80 ettari, più vasta di quella di Pompei. Sito che per le sua particolare situazione (i resti sono esposti alle intemperie, senza coperture) avrebbe bisogno di una manutenzione profonda e continua. Non per nulla l’archeologo di fama mondiale Andrea Carandini, subito dopo il crollo della Schola Armaturarum di Pompei aveva dichiarato al Corriere: «Tutti i luoghi come Pompei, Ercolano e Villa Adriana sono a rischio permanente». Un allarme che cozza con il trionfalismo di iniziative propagandistiche come quella che ha avuto come interprete nientemeno che il premier Silvio Berlusconi. Protagonista qualche mese fa di uno spot sul sito internet Italia.it, esordiva testualmente così: «L’Italia è il Paese che ha regalato al mondo il 50 per cento dei beni artistici tutelati dall’Unesco…» . Una sparata che avrà fatto fare un salto sulla sedia ai signori delle Nazioni Unite. E non soltanto a loro, se è vero che, pur detenendo il record mondiale di beni Unesco per un singolo Paese, ne abbiamo 45 su un totale di 911 sparsi per tutto il pianeta. Ovvero, il 5 per cento.
Ci sono poi i risultati impietosi di un dossier stilato nel 2010 da PricewaterhouseCoopers. Secondo il quale, fatta 100 la capacità di sfruttamento ai fini turistici dei beni italiani tutelati dalle Nazioni Unite, quelli spagnoli e brasiliani si collocano a 130, i francesi a 190 e i cinesi addirittura a 270. La Cina, insomma, utilizza i propri siti Unesco quasi tre volte meglio di noi. E si capiscono allora certi numeri. Villa Adriana è stata dichiarata Patrimonio dell’umanità nel dicembre 1999. Da allora ha perduto il 41,8 per cento dei visitatori paganti. Erano 187.202 nel 2000, sono stati appena 108.811 nel 2010: 46 mila in meno di quelli registrati nel 2008 dallo zoo di Pistoia. Non meno imponente è stata l’emorragia complessiva considerando anche i non paganti. Dai 323.231 visitatori del 2000 si è scesi ai 229.885 del 2010. Le ragioni del male oscuro? Secondo la studiosa Federica Chiappetta, autrice del saggio «I percorsi antichi di Villa Adriana» esiste un serio deficit di divulgazione «del suo straordinario significato storico e architettonico». Carandini sottolinea anche l’accesso «terribilmente scoraggiante» alla Villa e a Tivoli. Di fondo c’è l’incapacità di fare sistema: in nessun altro Paese del mondo la dimora di uno dei personaggi più importanti nella storia dell’umanità sarebbe così tagliata fuori dai circuiti turistici. E ridotta a raccattare le briciole dei fondi pubblici per evitare di andare in rovina.
Direte: se questo è il trattamento che viene riservato alla dimora che l’imperatore Adriano fece costruire a partire dal 117 dopo Cristo, figuriamoci che cosa succede agli altri nostri patrimoni… Invece qualche eccezione c’è. Il 9 maggio 2011 il ministro del Turismo Michela Vittoria Brambilla ha annunciato che il suo ministero finanzierà con 7,3 milioni di euro «i progetti di eccellenza della Regione Lombardia» , fra cui «la valorizzazione del ramo lecchese del Lago di Como» e del «sito Unesco di Ossuccio» . È una cifra venti volte superiore a quella destinata per il 2011 a Villa Adriana. Inevitabile notare come Michela Vittoria Brambilla sia originaria di Calolziocorte, in provincia di Lecco. Particolare che fa ironizzare un alto funzionario dei Beni culturali: «Forse per salvare Villa Adriana basterebbe spostarla in Lombardia» . Magari insieme a qualche ministero…Le aree chiuse con il cartello «pericolo di crollo» (scritto solo in italiano, nonostante una maggioranza di visitatori stranieri) sono sempre più numerose. Eppure, per restaurare Villa Adriana, uno dei 45 luoghi italiani che l’Unesco ha dichiarato Patrimonio dell’umanità, sono stati stanziati appena 370 mila euro. Ne servirebbero 2 milioni e mezzo.
Un convegno al teatro Argentina di Roma organizzato da Montezemolo, guest star l'industriale delle calzature Diego Della Valle, che traccia il futuro dei beni culturali dopo Berlusconi: privati e affaristi all'assalto del nostro patrimonio.
Il livello e la qualità del dibattito sono stati definiti con estrema precisione da una frase del critico d'arte Francesco Bonami: «Abbiamo la fortuna di fare un buco per terra e trovare magari i Bronzi di Riace». È un po' come se un sovrintendente di teatro d'opera pensasse alla tetralogia wagneriana perché gli mancano tre spettacoli con i quali chiudere il cartellone. Naturalmente non è che Bonami non sappia che le due statue sono state ritrovate in fondo al mare, ma sono i meccanismi automatici della competenza che non hanno funzionato. Senonché, nella cifra di un pressapochismo travestito da professionalità e autorevolezza s'è iscritto l'intero convegno voluto da Luca di Montezemolo che attraverso la sua fondazione Italia futura ha organizzato l'altro giorno al teatro Argentina di Roma una giornata dal titolo retorico e nazionalista: "Cultura. orgoglio italiano”. Il tema, non dichiarato ovviamente, nascosto nelle strategie più o meno confessabili di un blocco sociale degli affari e del denaro che si sta preparando al post berlusconismo, è in buona sostanza la privatizzazione della cultura, idea resa glamour e attraente dalla magnificazione dell'impegno finanziario di 25 milioni di euro da parte di Diego Della Valle per il restauro del Colosseo. Probabilmente a muovere il fabbricante di scarpe marchigiano non sono solo la pubblicità e il marketing.
Ci deve anche essere il desiderio di passare alla storia, come quel signore della Roma antica che nel primo secolo avanti Cristo guadagnò un sacco di soldi come organizzatore di banchetti pubblici e si fece costruire a mo' di tomba nientemeno che la Piramide Cestia. Il tempo è spietato, dell'antico imprenditore del catering oggi nessuno ricorda il nome (Caio Cestio Epulone). Proprio Della Valle, socio di Montezemolo nella società Ntv di treni privati ad alta velocità, ha aperto la giornata esibendosi in una specie di assolo con protagonismo leggermente ribassato dalla presenza di due "spalle", l'archeologo Andrea Carandini e un giornalista moderatore, Antonio Monda. Della Valle esordisce con la proposizione più luogocomunista dell'anno, «sono orgogliosissimo di essere italiano», e prosegue con una chiamata di tutti gli imprenditori nostrani a impegnarsi per questo Paese che ha «la leadership turistica e culturale: si tratta di una questione pratica perché vuol dire un'Italia che funziona, significa lavoro per i giovani».
C'era quindi una quantità di bella gente all'Argentina, esponenti del mondo dell'editoria, dell'arte, del cinema, della musica, del turismo, fra gli altri Francesca Cappelletti (docente del dipartimento di scienze storiche all'università di Ferrara), Luca De Michelis (amministratore delegato della Marsilio), il direttore del Piccolo di Milano Sergio Escobar, il direttore d'orchestra Daniele Gatti, l'archeologo e consigliere del Quirinale per la conservazione del patrimonio artistico Louis Godart, Roberto Grossi presidente di Federculture, il regista Daniele Luchetti. Soprattutto c'erano un po' di businessmen e manager: oltre a Montezemolo e Della Valle, Paolo Pininfarina, il produttore e presidente Anica Riccardo Tozzi, Stefano Ceci presidente di Gh Group (una rete di imprese per lo sviluppo del turismo), la produttrice discografica Caterina Caselli, l'ex capo della Mondadori e potente presidente del Centro per il libro Gian Arturo Ferrari, oltre alla presidente del Fondo ambiente italiano (il Fai) Ilaria Borletti Buitoni, una delle signore dell'alta borghesia industriale milanese.
Sul binomio cultura-turismo, la nuova parola d'ordine degli uomini d'affari sembra "conquista": occupazione dell'ultimo pascolo ricco e sfruttabile di un Paese economicamente e produttivamente in declino. Pressoché unanimemente rifiutata dagli oratori l'odiosa definizione di "petrolio" per i nostri beni culturali, poco politically correct in tempi di ambientalismo spinto. Quindi adesso, aggiustata la terminologia, incomincia lo sfruttamento da parte dei privati. Un quadro che Carandini implicitamente conferma con la prima frase del suo discorso, «Ringrazio Della Valle per quello che sta facendo per il Colosseo», per poi affermare: «Dobbiamo attrezzarci per ricevere le masse asiatiche». Il resto sostanzialmente è contorno, ripetizioni, considerazioni spicciole, un po' di cifre per dare corpo statistico alle affermazioni, acquiescenza temperata dai distinguo, e su tutto in sintesi la considerazione: signori fatevene una ragione, lo Stato non ha più soldi. «I denari verranno dai privati» - osserva Gian Arturo Ferrari - E lo Stato deve facilitare il loro impegno finanziario». D'altronde l'architetto Roberto Cecchi, segretario generale del ministero dei Beni culturali, anche lui fiero di essere italiano e testimone dell'orgoglio dei lavoratori del Collegio Romano, l'aveva detto poco prima che "la priorità sono gli investimenti in cultura e che ci vuole semplificazione amministrativa». Gli risponde, contenta di sentire «le parole-chiave cultura, orgoglio, Italia» (s'imparava al liceo fino a pochi anni fa che la cultura era internazionale, apolide addirittura e apparteneva a tutti gli uomini: saranno cambiate le cose), Ilaria Borletti Buitoni che chiede «di agevolare le donazioni private e non creare impacci burocratici». Ciascuno a suo modo, per buoni motivi o ambigui, chiedono allo Stato di tirarsi indietro dai Beni culturali, manco si trattasse delle privatizzazioni anni Novanta che hanno contribuito a ridurre l'Italia al rango di Paese più industrializzato del Terzo mondo.
Quindi voilà Stefano Ceci, il presidente di Gh, che ha già scritto per il sito della fondazione di Montezemolo, spiegare al pubblico: «La cultura non è un'industria ma è la più potente infrastruttura italiana». Che vuol dire? Vuol dire, secondo Ceci, che la nuova economia italiana «non può che essere tessile. Un filato, una nuova tessitura capace di produrre valore. Un'economia che mette in rete luoghi, territori, imprese. Una nuova economia che fruisce dell'infrastruttura culturale». Ergo una postmoderna industria "tessile" in cui la cultura fungerebbe da telaio ed evidentemente gli artisti, la gente di teatro e di cinema, i restauratori, i cantanti, gli orchestrali sarebbero gli operai del ventunesimo secolo necessari alla produzione di merci - l'arte, il bello, lo spettacolo, la musica, la conservazione dei beni culturali - da vendere attraverso una catena commerciale chiamata turismo. A Paolo Pininfarina piace «la cultura del fare» (slogan che negli ultimi anni non sembra aver portato tanta fortuna alla Nazione) e approfitta dell'occasione per incensare l'amico Luca: «Montezemolo è un grande creativo e un grande presidente». Presidente di che? Ovviamente Pininfarina non specifica.
Gli interventi erano divisi in blocchi tematici - La cultura in Italia, Cinema ed editoria, arte e design - e siccome tutta questa bella gente parlava da uno dei più importanti palcoscenici di prosa italiani, l'ultimo tema era, the last and the least, Teatro e musica, tanto per ricordare a chi dava ospitalità quanto conta. Fin dall'inizio della passerella si era capito che aria tira presso coloro che si preparano a governare il post berlusconismo: sul palco diciotto poltrone bianche minacciosamente simili a quelle di "Porta a Porta", in platea metà dei posti riservati al potere (attuale, futuro, possibile, sperato, rivendicato), comunicazione autoritaria di tipo unidirezionale da chi parla a chi ascolta senza nessuna possibilità di interazione e di dialogo, concione quasi finale del monarca locale (Montezemolo): «Improcrastinabile una maggiore integrazione tra flussi turistici e valorizzazione dei beni culturali»; «l'obiettivo deve essere trasformare le imprese in protagonisti dell'innovazione dell'offerta turistico culturale»; «le responsabilità del pubblico e quelle dei privati devono trovare un modo per lavorare insieme meglio».
Chiusura con ospitata di Giancarlo Galan che si esibisce nell'uso di un vecchio arnese della retorica: dice tutto quello che un ministro dovrebbe fare, facendo finta di non essere lui il ministro. Applausi.
A nessuno viene in mente un'altra soluzione: studiare un modo di dare dei soldi a quanti si occupano d'arte e lasciarli lavorare in pace. A proposito del Mibac, ne ha chiesto sabato scorso la soppressione sic et simpliciter la presidente di Confcultura Patrizia Asproni, che parlava all'Auditorium di Roma nel quadro di un convegno intitolato "Vivere di cultura'', organizzato da Baier, consorzio costituito da cinque istituti culturali italiani (la Treccani, l'Istituto Luigi Sturzo, la Fondazione Lelio e Lisli Basso, la Società Geografica Italiana e la Fondazione Gramsci). «Sono stanca del Mibac - ha tuonato la signora - non ne abbiamo più bisogno. Il patrimonio culturale del Paese deve entrare nell'area di competenza del ministero dello sviluppo economico».
Tuttavia, più interessanti delle idee delle Asproni, sono le informazioni che fornisce. Dice la presidentessa di Confculture che fino a un po' di tempo fa la sua confederazione era considerata nella Confindustria di cui fa parte poco più di uno scherzo. Ora invece da un po' di tempo in qua gli imprenditori stanno facendo la fila per capire come si può trarre denaro dai beni culturali. La Asproni è di chiacchiera schietta: «Noi siamo imprenditori e vogliamo fare profitti. Della Valle prima investiva nello sport, ora nel Colosseo. Lo sport non ha più appeal a causa della corruzione e del doping». Verissimo, infatti da quando lo sport è finito in mano al denaro è degenerato. Da quando la grande industria si è impossessata della moda, soppiantando progressivamente gli artigiani, anche questo ambiente s'è inabissato nella cocaina e nella corruzione. Quanto più certi imprenditori si sono occupati di politica, tanto più il Parlamento è diventato una prateria per le scorribande dei comitati d'affari. Adesso sembra proprio arrivato il momento dei beni culturali: ecco la nuova pista del denaro, del saccheggio, del riciclaggio e della coca? Visto l'andazzo, forse tornerà in auge un vecchio e famoso aforisma di Goebbels: «Quando sento la parola cultura, la mia mano va alla Luger».
Come salvare l´arte del Belpaese tra soldi privati e tagli pubblici
di Salvatore Settis
Si allunga ogni giorno la lista dei siti abbandonati, dei restauri mancati, dei musei in crisi, dei paesaggi devastati. Perciò è giusto che ogni iniezione di fondi privati ai beni culturali venga salutata da sospiri di sollievo e soprassalti di gratitudine. Senza nulla togliere alle iniziative più benemerite (come quella di Banca Intesa-San Paolo annunciata da Giovanni Bazoli), chiediamoci in quale contesto viene oggi rilanciata in Italia la figura del "mecenate". La politica di settore del governo ha avuto due momenti caratterizzanti: primo, il taglio di un miliardo e 300 milioni di euro ai fondi del Ministero dei Beni Culturali; secondo, l'iistituzione di una nuova direzione generale per la Valorizzazione del patrimonio culturale. Il combinato disposto dei due provvedimenti delinea una strategia davvero inedita, made in Italy, secondo cui si valorizza disinvestendo. Conseguenza inevitabile della crisi? No: in Francia gli investimenti in cultura sono stati sanctuarisés, considerandoli sacri e non tagliando un centesimo. Il ministro Frédéric Mitterrand, per celebrare il ruolo civile della storia dell´arte e l´introduzione dell´insegnamento obbligatorio della materia in tutte le scuole francesi, ha promosso e finanziato (circa 700.000 euro) un grande Festival d´histoire de l´art che si è svolto poche settimane fa a Fontainebleau. La crisi economica è la stessa, le reazioni in Francia e in Italia sono opposte.
La carenza di fondi pubblici rende più preziosi i finanziamenti privati, in ogni caso utili e graditi. Non manca chi, ritenendo il patrimonio culturale di competenza esclusivamente pubblica, vede ogni intromissione del privato come una profanazione. Posizione insostenibile, ma lo è anche quella di chi propugna la veloce eutanasia dell´amministrazione pubblica del settore, e sogna (invano) bilanci museali subitamente in attivo non appena cali dal cielo il sospirato manager privato. La parola d´ordine di una "privatizzazione" sommaria, simmetrica ai tagli "lineari" (leggi: alla cieca) di Tremonti, fa leva sulla mitologia del "museo-azienda" all´americana, efficiente anzi produttore di reddito in quanto privato: singolare invenzione di ministri nostrani che dei musei americani ignorano rigorosamente tutto. Ma negli USA, come in tutto il mondo, tutti i musei (pubblici o privati) sono strutturalmente in passivo, e i loro introiti diretti (biglietteria, libreria, etc.), non coprono mai più del 15-20 % delle spese di gestione. Se il bilancio va in pari, è per via del proprio endowment (oltre 2 miliardi di dollari per il Metropolitan Museum), costruito con donazioni private, anche di poche centinaia o migliaia di dollari, favorite da meccanismi di detassazione che l´Italia ignora: in tal modo, i musei sono finanziati dallo Stato (federale) e dai singoli Stati, che per favorire le donazioni rinunciano a enormi introiti fiscali.
Nel sistema italiano (come in quello francese), nulla di simile è pensabile. È dunque impossibile il mecenatismo privato? Al contrario, l´approdo di fondi privati a dare un minimo di respiro a un settore vitale per il Paese, ma in grande sofferenza, va in ogni modo incoraggiato: purché non diventi un alibi per ulteriori tagli della spesa pubblica. Da esempio può servire la campagna di fund raising che il Louvre ha lanciato per acquistare le Tre Grazie di Cranach: un milione di euro raccolti in poche settimane, ma per integrare i tre milioni di euro di fondi pubblici che già il Louvre aveva gettato sul tavolo. Ma i privati potranno esercitare il loro ruolo in modo costruttivo e virtuoso, se lo Stato è in rotta? Troppo spesso in Italia l´intervento privato è concepito non in sussidio delle pubbliche istituzioni, ma per surrogarne l´assenza, ripianando i buchi di bilancio che lo Stato (su altri fronti assai spendaccione) crea borseggiando se stesso. Un esempio: è giusto cercare fondi (anche privati) per il Colosseo o per Pompei, per Brera o per gli Uffizi, purché non dimentichiamo che qualsiasi seria azione di tutela e valorizzazione (due aspetti inscindibili) richiede altissime competenze tecniche e continuità di azione conoscitiva e amministrativa. E come è possibile, se da anni la pubblica amministrazione dei beni culturali ha cessato di assumere, e il personale tecnico-scientifico in servizio oggi ha un´età media di oltre 55 anni?
Deve poter esistere un mecenatismo privato con alto senso culturale e civile: ma allora non può limitarsi ad aprire i cordoni della borsa (meno che mai cercando guadagni aziendali), ma deve esser capace di idee propositive, di cultura manageriale autentica, e dunque rispettosa delle competenze specifiche di archeologi e storici dell´arte. Deve sposarsi con una rifunzionalizzazione delle strutture pubbliche della tutela, che punti su numerose, urgentissime assunzioni, sulla base del merito, che immettano nei ruoli i moltissimi giovani che abbiamo, finora invano, formato nelle nostre università.
Il ruolo del pubblico e del privato, pur in un momento buio come questo, può e deve essere ridisegnato entro un grande patto nazionale per la tutela, che parta non dalla spartizione delle torte, ma dalle esigenze vitali del nostro patrimonio (paesaggi e monumenti "maggiori" e "minori", musei e siti naturali e archeologici) e includa Stato, regioni, enti locali, privati. Solo così potremo vincere il superficiale economicismo che svendendo la sostanza profondamente civica dei beni culturali produce una crescente usura dei valori simbolici che li permeano e che cementano la società, incrementandone la capacità di rinnovarsi e di vincere le sfide del futuro.
I filantropi invisibili
intervista di Francesco Erbani all’archeologo Wallace-Hadrill
Com´è un mecenate americano, il modello al quale tutti pensano ogni volta che invocano un mecenate? Non occorre andare a Los Angeles, ma basta fermarsi a Ercolano per vedere come si comporta David W. Packard, cognome fra i più altolocati dell´economia internazionale, che dal 2000 ha speso 16 milioni di euro nel sito vesuviano, ma senza che si sappia troppo in giro, niente pubblicità, niente logo appiccicato sui biglietti. Packard adora Ercolano, di cui è diventato cittadino onorario, adora l´Italia e la letteratura latina. Ma le vicende di questi ultimi anni –quattro soprintendenti in ventiquattro mesi, due commissari, fondi e personale ridotti all´osso – minacciano di mettere a rischio l´intero progetto. Sarebbe una iattura, di cui Andrew Wallace-Hadrill, archeologo, a lungo direttore della British School di Roma, ora alla guida del Sidney Sussex College di Cambridge, e responsabile dell´Herculaneum Conservation Project, l´organismo finanziato da Packard, neanche vuol sentir parlare. Packard, inutile dirlo, non incontra giornalisti.
Professor Wallace-Hadrill, che tipo di mecenate è Packard?
«Appartiene a una categoria ben riconoscibile in America, dove tante sono le fondazioni filantropiche senza scopo di lucro e che, per legge, non possono avere ritorni, né profitti né pubblicità».
Ma che cosa lo spinge a spendere in cultura?
«Oltre a dedicarsi all´azienda, ha fatto studi classici – latino, greco, storia antica. E nel 1987 ha fondato la Packard Humanities Institute. È parte di quel mondo di ricchi americani che ritengono un obbligo morale restituire in cultura o in beneficenza qualcosa dei tanti guadagni accumulati».
Sgravi fiscali?
«No. Una fondazione di questo tipo non è tassata, ma i soldi che vi si depositano possono essere solo destinati a scopi culturali o filantropici»
Dove interviene Packard?
«In varie parti del mondo. Archeologia, musica e cinema sono alcuni dei suoi campi di interesse. A Palo Alto ha ristrutturato un cinema degli anni Venti, che ora proietta solo film di quel periodo. Ha sostenuto progetti su Mozart e sul figlio di Bach. Ha pubblicato manoscritti musicali e ha digitalizzato le concordanze lessicali dell´Ab urbe condita di Tito Livio».
E nel 2000 è approdato a Ercolano.
«Un´antica passione. Ma determinante è stato lavorare in stretto rapporto con gli archeologi della Soprintendenza, allora guidati da Pietro Giovanni Guzzo, e con la direttrice degli scavi, Maria Paola Guidobaldi. Non l´azione autonoma di un privato, ma un intreccio sofisticato ed efficiente di pubblico e privato».
E insieme avete avviato restauri?
«Anche, ma soprattutto sottoscritto un impegno pluriennale, una gestione del sito che dura oltre la vita del progetto».
Mi fa un esempio?
«Abbiano recuperato la rete fognaria antica e allestito un sistema di grondaie che convoglino l´acqua nei condotti di età romana, evitando le infiltrazioni che provocano umidità e crolli».
Quei crolli che hanno funestato Pompei. Resterete a Ercolano?
«È nostra intenzione rimanere. Ma il ministero e lo Stato non si possono sottrarre ai loro compiti. C´è il progetto di togliere alla Soprintendenza il 25 per cento dei suoi fondi per distribuirlo altrove. Sarebbe un errore grave. Un´altra cosa: per ogni restauro paghiamo il 20 per cento di Iva. Siamo noi che finanziamo lo Stato, altro che sgravi fiscali».
La democrazia e il mercato
di Marc Fumaroli
Come è finita la pratica del dono disinteressato. Per secoli i sovrani e la chiesa hanno praticato la liberalità verso gli artisti. Per glorificare se stessi attraverso le opere e mostrarsi munifici Oggi il valore economico ha prevalso su tutto
La figura di Mecenate, discendente da una dinastia reale etrusca, amico e ministro di Augusto, celebrato dal poeta Orazio come un fratello spirituale oltre che proprio benefattore, è certamente uno degli esempi più fecondi di cui la Roma antica abbia fatto dono alla civiltà europea, sia pagana sia cristiana.
La Roma repubblicana si era sempre mostrata ostile alle lettere e alle arti dei graeculi e per questo, milleottocento anni dopo, Rousseau la additò come esempio per le repubbliche a venire. Rousseau vuole ignorare gli Scipioni, grandi cittadini della Repubblica romana e tuttavia amici delle lettere e delle arti. Preferisce la Roma di Catone e la Sparta di Licurgo all´Atene di Pericle, i cui ricchi cittadini praticavano in larga scala l´evergetismo, la forma greca del "potlach" degli Indiani d´America cari a Marcel Mauss e a Aby Warburg, finanziando generosamente lo splendore delle feste religiose, tra cui il culto di Dioniso e la tragedia ma anche la bellezza apollinea dei templi e delle statue. Passando sotto silenzio Mecenate, che simboleggiava l´alleanza della Roma imperiale con le arti della pace, Rousseau escludeva che un impero o una monarchia, a cominciare da quella della Francia del XVIII secolo, potesse non essere una tirannia o un dispotismo.
Il Terrore rivoluzionario del 1792-1794, russoviano, soppresse in Francia ogni traccia di mecenatismo alla romana e di evergetismo alla greca. Solo David, il pittore eletto dalla volontà generale, ne diresse l´espressione artistica. L´Impero napoleonico, e sulla sua scia i successivi regimi francesi del XIX secolo, a cominciare dalla III Repubblica che doveva allontanare da sé ogni sospetto di terrorismo russoviano, tornarono a essere mecenati pubblici e diedero l´esempio per il mecenatismo dei privati, per sottolineare la loro distanza da dispotismi e tirannie. Per molti aspetti, la supplenza assicurata per molti secoli dalla Chiesa romana al mecenatismo augusteo e all´evergetismo greco nell´Europa occidentale ha fortemente contribuito ad aumentare la parentela tra il mecenatismo delle lettere e delle arti e il potlach delle società prepolitiche e a preservare lo spirito disinteressato della bellezza artistica, dell´emozione poetica e della contemplazione mistica: tutti contrappesi alla predazione e alla sete del male. Il "rovesciamento di valori" che da mezzo secolo avvicina sempre più il mecenatismo artistico e letterario al calcolo cinico da pubblicità commerciale, l´artista e l´uomo di lettere a uno spirito commerciale senza scrupoli, l´"Arte" a una collezione di titoli di credito quotati in borsa e il cui corso è garantito da un eterno "insider trading", è un altro modo di seguire il terrorista Rousseau. L´austera iconofobia puritana si è trasformata in ignobile iconolatria del kitsch.
Contrariamente alla III Repubblica francese, che si ispirava al modello ateniese e ha vincolato il suo liberalismo politico al rispetto delle lettere e delle arti, le democrazie attuali tendono a svalutare le arti e le lettere riducendoli a prodotti di mercato, rinunciando a vedere in esse il principio del dono disinteressato che per tanto tempo ha reso fecondo il mecenatismo della Chiesa, dello Stato e di istituzioni e persone private. Eppure proprio questo principio ha potuto impedire a ciascuno dei regimi descritti e definiti da Aristotele – la monarchia, l´aristocrazia e la democrazia – di ruzzolare giù per la china del conformismo tirannico del gusto e dalla bassezza di spirito nelle lettere e nelle arti. L´etica del mecenatismo e la spiritualità del suo esercizio sono oggi questioni di altissima importanza, tanto politica quanto estetica.
(traduzione di Elda Volterrani)
Qui i Napolitano nascono come funghi. Ci è nato anche il presidente della Repubblica. Area nolana, a nord-est di Napoli, terrà di civiltà antica e di dinastie di camorra. Oggi ci si vive senz’altro meglio di ieri, quando Carmine Alfieri e il suo clan la facevano da padroni. Perfino la civiltà antica vi è stata riportata alla luce e ha smesso di essere retorica o libri di storia. Ma nessuno pensi alla lungimiranza di qualche ministro che ha investito sui celebri giacimenti culturali o a sovrintendenze in lotta per restituirci antichi tesori. All’origine di questo recupero di arte e di storia c’è un gruppo di cittadini senza potere, si chiamano “Obiettivo III millennio”. “Eravamo partiti in tanti, ma a resistere sempre siamo in venti”, dicono Ferdinando e Pellegrino, “quaranta pensando alle coppie”, ridono, “perché poi si fa così, la moglie o il marito lavora e l’altro aiuta a ruota”.
Il patrimonio incalcolabile riportato alla luce grazie alla loro mobilitazione civile è il complesso delle basiliche di Cimitile, un comune di seimila abitanti cresciuto accanto a Nola. Sette edifici di culto cristiano che partono dal terzo secolo e avanzano verso la fine del millennio, che si incrociano e si sovrappongono e si affiancano in un gioco turbinoso e suggestivo di stili, sopra una specie di necropoli tardo-antica. Qui è sepolto San Felice, qui si stabilì alla fine del Trecento Paolino di Nola governatore della Campania e poi vescovo di Nola. Un autentico polo della cultura paleocristiana passato per alluvioni e crolli repentini che hanno cambiato mappe e architetture. Quelli dell’associazione conducono con orgoglio e gentilezza i loro ospiti a vedere i posti dell’incanto: qui le antiche tombe, qui i fazzoletti sbiaditi e meravigliosi degli affreschi di un tempo, qui i capitelli eccentrici, qui le geometrie solenni. Può essere un avvocato coltissimo, Elia Alaia si chiama, il presidente, ad accompagnarvi . Ma può anche essere, lo ha fatto per molto tempo, un ragazzino quattordicenne che lasciava di sasso i turisti cimentandosi con disinvoltura anche con i dettagli più arditi. Un giorno tutto questo non valeva una lira.
Il patrimonio di storia di cui raccontiamo era nascosto tra le erbacce, recintato e lasciato in abbandono dalle amministrazioni. Finché i “nostri” cittadini, invece di lamentarsi dello Stato, si rimboccarono le maniche e iniziarono ad agire come un gruppo di pressione: non per sé ma per la loro terra. Un convegno iniziale su “Basiliche paleocristiane: sentimento e burocrazia”, per denunciare le inerzie degli uffici comunali. Poi “Nola-Cimitile. Apriti Sesamo”, contro la chiusura al pubblico del parco. E ora finalmente eccole qui le basiliche. Eccole diventate luogo di rispetto e di cultura; non più rovine inaccessibili, dove i ragazzini andavano a giocare a pallone. “Lo choc in paese ci fu quando arrivò in visita papa Wojtyla. Venne qui proprio perché considerava questo sito uno dei simboli della cristianità. Si dovette fare in fretta e furia quel che non si era mai fatto, venne sistemato perfino un prato artificiale. Era il maggio del ’92. Poi venne tutto richiuso. Noi nascemmo nel ‘94”.
L’associazione pensò presto di collegare il parco con qualche evento pubblico e si inventò un premio letterario lanciando lo slogan “il libro incontra le basiliche”. Nacque una fondazione “premio Cimitile”, con dentro Regione, Provincia e Comune, e con l’”alto patronato del presidente della Repubblica”. Lo presiede, verrebbe da dire naturalmente, un Napolitano: il dottor Felice, informatore farmaceutico, il primo attivissimo presidente dell’associazione. Altri due Napolitano tra i sostenitori. Una settimana di appuntamenti con la cerimonia finale tenuta nella spettacolare cornice serale delle basiliche illuminate. Allora le istituzioni, i politici si mobilitano. Arrivano le tivù e ogni maligno potrebbe pensare all’ennesimo spreco di soldi pubblici, ignaro della fatica e della passione quasi ventennale di un gruppo di volontari. Premio per la migliore opera di narrativa inedita, che viene pubblicata dall’editore Guida. E poi le migliori opere di narrativa , saggistica e attualità. Premio di giornalismo, premio speciale e anche - pensate l’audacia - per la migliore opera edita di “archeologia e cultura artistica in età paleocristiana e altomedievale”.
Il premio, un campanile d’argento per ricordare che qui venne inventata la campana, è arrivato alla sedicesima edizione. Il presidente del comitato scientifico è Ermanno Corsi, gloria del giornalismo campano dalla schiena dritta. Tra i premiati Sergio Zavoli, Miriam Mafai, Luca Goldoni, Giulio Andreotti, Antonio Ghirelli, Michele Santoro, Giampaolo Pansa, Massimo Cacciari, Michele Prisco, Luciano De Crescenzo, Lucia Annunziata. Felice Napolitano presenta allora il tutto dal palco con una disinvoltura conquistata sul campo (“doveva vederlo le prime volte”, sorridono gli amici, “si emozionava e faceva le pause”). Poi passa la palla ai professionisti, alla musica e ai libri. “Perché lo facciamo? Per valorizzare la nostra storia”, risponde lui, “Per promuovere il nostro territorio tutto l’anno. Per fare diventare queste terre un’attrazione culturale, anche se oggi si parla solo dei rifiuti. Per promuovere la lettura, perché sono 28 su cento i campani che leggono un libro all’anno, contro i 44 della media nazionale”. Sembra quasi un programma di governo. E invece, stringi stringi, sono solo venti civilissimi cittadini. Contando le coppie, quaranta.
sono solo venti civilissimi cittadini. Contando le coppie, quaranta.
«Ma in quali mani si trovano, gran Dio! Perché mai il Cielo invia tali ricchezze a gente così poco in grado di apprezzarle?» . Così scriveva, nel 1775, Alphonse de Sade, inorridito dalle condizioni in cui erano i capolavori di Pompei. «Ma in quali mani si trovano, gran Dio!» , ripetono oggi i giudici della Procura di Torre Annunziata che hanno sequestrato, finalmente, il teatro di Pompei. Sottoposto l’anno scorso a una ristrutturazione con il calcestruzzo che lo ha letteralmente stuprato. Come fosse fino al 2009 il teatro della città annientata dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d. C. descritta da Plinio il Giovane, si può vedere nelle foto di milioni di visitatori passati in questi decenni e ancora presenti in Internet: i gradini erano stati erosi dal tempo e coperti di erba. Amedeo Maiuri, grande archeologo e «protettore» di Pompei (un uomo di valore tale che quando Mario Resca, già a capo della McDonald’s Italia, si insediò come nuovo direttore generale dei Beni culturali gli spedì una richiesta di collaborare nonostante fosse morto da 47 anni) aveva avuto un’idea. Per consentire nella stagione estiva qualche spettacolo che restituisse la vita all’arena al posto dei gradini era stata collocata una struttura di ferro leggera. Quando c’era un’esibizione, ci posavano sopra delle tavole che, finita la rappresentazione, venivano rimosse lasciando tutto come prima. Finché non arrivò, imposto dall’allora ministro Sandro Bondi, il commissario straordinario Marcello Fiori, stretto collaboratore di Guido Bertolaso. Una decisione contestata dalla Corte dei conti in una delibera che ricordava come per legge la Protezione civile può intervenire nel caso in cui sia necessario difendere «l’integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi e da altri grandi eventi» . Tutte cose che con Pompei non c’entravano niente. La reazione della «Protezione» fu irritata: «A nostro avviso la Corte dei conti ha deliberato riconoscendo la legittimità del nostro operato» . No, replicò la Corte spingendosi a fare addirittura un affilato comunicato ufficiale: «Come si evince dalla lettura della delibera, la Corte ha escluso che nel caso dell’area archeologica di Pompei sussistessero i presupposti per la dichiarazione dello stato d’emergenza. Pertanto non appare corretta l’affermazione che la Corte dei conti avrebbe riconosciuto la legittimità dell’operato della Protezione civile» . Come siano stati spesi 79 milioni di euro in due anni (soprattutto nei 18 mesi della gestione Fiori) è da tempo oggetto di inchieste giornalistiche, come quella di Emiliano Fittipaldi e Claudio Pappaianni su l’Espresso, e di amare risate. Per i 55.000 euro spesi per comprare mille bottiglie di vino (mille!) con l’etichetta Villa dei Misteri», della cantina Mastroberardino e per un terzo spedite in giro per le ambasciate e i consolati nel mondo e per due terzi lasciate in un magazzino. Per i 102.963 euro spesi nel «censimento» di 55 randagi al modico costo di quasi duemila euro per ogni cane non allontanato ma «censito» e messo in Internet con una scheda «autobiografica» : «Mi chiamo Menade, ho appena compiuto un anno e, come ogni sacerdotessa del dio del vino, vivo davanti alla casa del mio unico sposo: Bacco. Sono nera e lucida come la notte. Quando danzo alle stelle per lui piena del suo nettare...» . Per non dire dei 3.164.282 euro dati alla Wind per il progetto «Pompeiviva» il cui cuore è, nell’omonimo sito internet, un video stupefacente dove un ragazzo entra nella magica «Villa dei Misteri» , scatta una foto a una donna dipinta sulla parete e tutti i personaggi affrescati si mettono a fare un coretto cantando una cover (in inglese) di «I Will Survive» di Gloria Gaynor. O ancora degli 81.275 euro spesi per la visita (poi annullata!) di Silvio Berlusconi, preparativi che avevano visto il loro surreale capolavoro nella posa, lungo il cardo che porta alla domus di Lucrezio Frontone, di una «moquette» di stoffa poi coperta da un po’ di carriole di ghiaia lavica. Ma fino a qui, con rabbia, si ride. Assai più grave, invece, è la scelta denunciata da Antonio Irlando (presidente dell’Osservatorio archeologico che tenta di arginare gli stupri sulla meravigliosa città d’arte) di avviare la costruzione, ad esempio, tra porta Vesuvio e porta di Nola, in piena area vincolata, di un mostruoso hangar di cemento armato definito «deposito di materiale archeologico e spogliatoi per il personale» . Il tutto 35 anni dopo l’inizio dei lavori dell’Antiquarium, chiuso per restauro nel lontano 1975 in cui Steve Jobs fondava la Apple e si separavano Ike &Tina Turner, e non ancora riaperto. È in questo contesto che il Corriere, con un articolo di Alessandra Arachi, denuncia il 25 maggio 2010 lo scempio oggi al centro dell’indagine della magistratura: «Già il rumore non lascerebbe dubbi: i martelli pneumatici producono quelle vibrazioni perforanti inequivocabili. Ma poi basta scavalcare una piccola recinzione ed ecco che sì, diventa complicato credere ai propri occhi. I martelli pneumatici diventano quasi un dettaglio nel terribile cantiere del Teatro Grande di Pompei, invaso da betoniere, bobcat, ruspe, cavi, levigatrici e chi più ne ha ne metta. Nel condominio sotto casa vostra sarebbero più prudenti nel fare i lavori. E invece qui, roba di archeologia del II secolo avanti Cristo, gli operai si muovono in mezzo alle rovine come elefanti dentro una cristalleria» . Foto alla mano, alla fine di maggio Irlando scrive a Bondi una lettera allarmatissima: «Sono in corso nell’area archeologica lavori definiti nella tabella di cantiere "Restauro e sistemazione per spettacoli del complesso dei teatri in Pompei Scavi"che hanno sin qui comportato evidenti stravolgimenti dello stato originario dei monumenti e dei luoghi archeologici, con gravi danni al loro stato di conservazione. L’evidenza della gravità degli interventi è facilmente e banalmente dimostrabile attraverso una rapida ricognizione dell’attuale consistenza del teatro, in particolare della cavea, che, rispetto a una qualsiasi foto o disegno di diversi momenti della vita degli scavi, risulta completamente costruita ex novo con mattoni in tufo di moderna fattura» . Risposta del ministero? Zero: zero carbonella. Il risultato è oggi sotto gli occhi di tutti: il teatro lasciato fino a due anni fa così come era stato trovato, è stato stravolto. Gradino per gradino sono stati gettati dei cordoli di cemento armato e su questi sono stati posati mattoni di tufo giallognoli che somigliano a quelli usati nell’Appennino meridionale per costruire i tuguri di campagna e i ricoveri per le bestie. I lavori di «restauro» dovevano costare 449.882 euro più Iva: sono costati undici volte di più, cioè 5 milioni 966 mila. Appalto dato (senza gara) a un raggruppamento temporaneo di imprese trainato dalla Caccavo Srl di Pontecagnano, scelta in meno di due anni dal commissario per 26 interventi per un totale di 16 milioni e mezzo di euro. «In quali mani, Gran Dio...» .
A me pare che 25 milioni di euro per il restauro del Colosseo, il "totem", cioè il monumento più visitato e più "visto" della romanità in cambio dell'"esclusiva" del medesimo da ogni punto di vista mi sembra un ottimo affare per Diego Della Valle e un mediocre affare, per contro, per il Ministero dei Beni Culturali, in particolare per la Soprintendenza archeologica di Roma, ancora commissariata nonostante non vi sia alcuna reale emergenza né a Roma né a Ostia antica. Parecchi anni fa, quando c'era ancora la lira, la Banca di Roma propose all'allora soprintendente Adriano la Regina una quarantina di miliardi di lire, ma, da allora, il valore della moneta è molto cambiato... Ora, che il Colosseo abbia bisogno di restauri seri e diffusi non v'è dubbio da anni: sono rilevanti e profondi i danni inferti dalle intemperie, dai fulmini, dai terremoti in zone vicine, dal traffico anche pesante che prima lo circondava e che oggi comunque gli passa accanto e dal solo passare dei secoli. Ma da quando c'è un ticket da pagare l'area archeologica del Colosseo e dintorni frutta al MiBAC un terzo degli incassi di tutti i Musei e monumenti statali. Una gallina dalle uova d'oro, da curare a fondo e bene. Siamo proprio sicuri che 25 milioni di euro siano sufficienti in cambio di una esclusiva per un quindicennio su tutto ciò che riguarda il Colosseo, anche fotografie, anche immagini televisive in movimento e il loro utilizzo, mentre Della Valle potrà mettere il proprio marchio sui biglietti d'ingresso (oltre 5 milioni l'anno i visitatori), sui tendaggi che copriranno i restauri degli archi di tutto il primo ordine e così via? Inoltre il marchio Colosseo potrà finire sui prodotti delle aziende Della Valle. Qualcuno, il segretario della Uil-Bac, Giafranco Cerasoli, ha valutato il ritorno di immagine e altro superiore ai 200 milioni di euro. Non so se la cifra sia esatta, però i 25 milioni sembrano davvero pochini. Tanto più che se non saranno sufficienti per coprire tutte le spese di restauro (quando la si comincia non si sa mai bene quanto costerà un'operazione colossale del genere), dovrà pensarci lo Stato, il MiBAC con le sue risorse: 25 milioni sono e 25 restano. Infine, se il ticket per il Colosseo fosse stato aumentato di 0,50 euro "pro-restauro", in un anno il MiBAC avrebbe incassato (tenuto conto di anziani e bambini, riducendo quindi da 5 a 3 milioni gli ingressi annui) 1 milione e mezzo di euro l'anno che moltiplicato per 15 dà 22,5 milioni di euro, ma sarebbe stato libero di affittare per campagne limitate, giornate, convention, la vista del Colosseo e altro a industrie ed enti di vario genere ricavando sicuramente di più, nel complesso, dei 25 milioni di Della Valle, che invece gli legano totalmente le mani.
"Nel nostro momento di massimo splendore noi italiani siamo stati promotori di esperienze culturali straordinariamente innovative. Oggi siamo diventati i guardiani notturni del nostro eccezionale patrimonio, siamo davvero gli eredi più inadeguati di quella cultura che vogliamo tesaurizzare". E ancora: "Se vuoi congelare un luogo questo si trasforma in un parco a tema, i centri storici di Venezia e di Firenze sono esempi lampanti di un modo sbagliato di fare cultura e i visitatori si adeguano a questo mutato sentire e utilizzano i bellissimi ambienti urbani come fondali per foto ricordo". È questo il pensiero espresso in: "Italia reloaded. Ripartire con la cultura" (il Mulino), l´opera di Christian Caliandro, dottore di ricerca in Storia dell´Arte, e di Pierluigi Sacco, professore alla Iuav di Venezia. Alla Fondazione Bruno Kessler, per il Festival dell´Economia di Trento, i due autori si sono intrattenuti, il 4 giugno con Paolo Legrenzi, psicologo economico e professore alla "Ca´ Foscari" di Venezia, e con Tonia Mastrobuoni, giornalista de "La Stampa". "Purtroppo in Italia - ha esordito Tonia Mastrobuoni - il dibattito in merito alla conservazione dei beni culturali si sta concentrano sulla disponibilità dei fondi, si è perso di vista da molto tempo un tema cruciale, ovvero come la cultura viene fruita dal pubblico". Argomento centrale invece nel libro di Caliandro e Sacco che, sulla base anche di alcuni sondaggi effettuati sui visitatori dei musei italiani, esprimono l´idea di una fruizione passiva dei beni culturali. "La società italiana alla fine degli anni ´70 è precipitata in un vortice - ha commentato Christian Caliandro - in una sorta di smarrimento, di decomposizione, come rendono bene alcuni zombie movies del periodo. C´è stata, in sostanza, una sorta di rimozione del passato, di rimpianto e nostalgia, che si è tradotta in assenza di memoria. Questa in buona sostanza è la condizione propria dello zombie; noi viviamo fra le rovine di strutture costruite e prodotte da una cultura precedente". Negli ultimi anni, accanto a un fenomeno collettivo di rimozione, si è affiancato un modo di intendere la cultura strettamente economico: "Ormai le manifestazioni culturali si leggono in termini economici, di marketing - ha spiegato Paolo Legrenzi -, ovvero quante persone hanno visitato la mostra, quanti soldi sono stati incassati, quanto è stato l´indotto complessivo. È un fenomeno che riduce e svilisce la nostra cultura, che riduce i gusti delle persone alle scelte che essi fanno e a ricavare l´assetto culturale di un intero paese dalle preferenze delle persone". L´effetto sui nostri centri storici più belli è stato devastante: "Sono ormai ridotti a parchi tematici, a sfondi per le foto ricordo e per le cartoline - sono state le parole di Pierluigi Sacco -. Venezia ha 20 milioni di turisti all´anno, ma è una città fatta per ospitarne 100 mila ed è evidente l´impatto che questo può avere sulla sua sostenibilità. Si sta desertificando, sta perdendo la memoria di ciò che è, rimane solo un immenso bed&breakfast, una grandissima vetrina incapace di produrre nuovi significati, nuova cultura". Ma la strada d´uscita è indicata da alcuni esempi virtuosi: "Trento, ad esempio, è una delle culle italiane di un nuovo modello di sviluppo, in grado di produrre sistemi di contenuti - ha concluso Sacco -. La sintesi a cui guardare non è il binomio tra patrimonio culturale e turismo, ma quella fra patrimonio e information technology, ovvero l´utilizzo della tecnologia per trasmettere contenuti e informazioni. Dobbiamo creare energia nuova attorno a queste progettualità, come stanno facendo tutti i paesi emergenti, perché le opportunità culturali hanno effetti sull´innovazione, sulla coesione sociale, sul benessere; pensiamo ad esempio alla Corea del Sud, che sta investendo miliardi per creare una piattaforma culturale. Solo attraverso un percorso che intreccia information technology e cultura, quest´ultima potrà trasformarsi e diventare motore dell´economia".
Appello al ministro dei Beni Culturali Giancarlo Galan: salvare l’architettura italiana del secondo Novecento
Gli edifici costruiti in Italia a partire dagli anni ’40 sottratti, in pratica, alla tutela delle Soprintendenze. Mano libera agli enti proprietari (Comuni e altri enti pubblici, anche religiosi, no profit) di manomettere o vendere stabili anche di alto pregio architettonico. Parere non più vincolante degli organismi di tutela e introduzione del silenzio/assenso sui progetti di modifica scaduti i 90 giorni dal ricevimento dei progetti. Ecco alcuni degli effetti disastrosi del Decreto legge per il rilancio dell’economia che consente, di fatto, alle proprietà immobiliari di fare quello che vogliono anche dell’architettura “firmata”che abbia meno di 70 anni (contro i 50 prescritti della legislazione precedente, dalla legge Nasi del 1902 alla legge Bottai del 1939, al recente Codice per i beni paesaggistici).
Rivolgiamo pertanto un pressante appello al ministro per i Beni e le Attività culturali Giancarlo Galan affinché faccia tutto il possibile – come ha assicurato in sede di Consiglio Superiore a fronte della denuncia del presidente del Comitato di settore Paolo Portoghesi – per evitare questo ulteriore gravissimo indebolimento di regole e tutele a danno del paesaggio e dell’architettura italiana di qualità.
Un periodo fondamentale della storia dell’architettura verrebbe altrimenti sottratto alla tutela. Rischiano di essere manomesse o demolite opere importanti di autori quali Gardella, BBPR, Libera, Moretti, Quaroni, Scarpa, Michelucci, solo per citare i nomi più noti, cioè la testimonianza materiale della ricostruzione del Paese e che rappresentano l’originale via italiana all’architettura moderna oggi
Per effetto di tali modifiche, infatti, alcuni tra gli interventi più significativi dell’architettura contemporanea, riferita sostanzialmente al secondo Dopoguerra, qualora non siano già stati sottoposti a tutela prima del 14 maggio 2011, risulterebbero esclusi, per legge, dal regime di salvaguardia finora vigente, tra cui i notevoli, numerosi e significativi interventi realizzati in occasione delle Olimpiadi di Roma del 1960, con opere dell'ingegno riconosciute in ambito internazionale, tra cui, solo a titolo esemplificativo:
- il Palazzo dello Sport dell'Eur (1956-1960) di Marcello Piacentini e Pier Luigi Nervi;
- il Palazzetto dello Sport in Viale Tiziano (1958-1960) di Annibale Vitellozzi e Pier Luigi Nervi;
- lo Stadio Flaminio (inaugurato nel 1959) di Antonio e Pier Luigi Nervi;
- il Villaggio olimpico (1958) di Vittorio Cafiero, Adalberto Libera, Amedeo Luccichenti e Vittorio Monaco;
Altra modifica nefasta al Codice, la soppressione dell’obbligo di denunciare il trasferimento della detenzione di beni immobili vincolati. Articolo della legge Bottai che viene improvvisamente cancellato togliendo all’Amministrazione dei Beni culturali la possibilità di sapere, in ogni momento, chi è il soggetto che ha la materiale disponibilità di un bene vincolato, e quindi è responsabile del rispetto delle regole di corretta conservazione dello stesso. E quindi di esercitare le funzioni istituzionali di vigilanza sugli immobili vincolati,
Infine, con la lettera e) del comma 16 dell’articolo 4 del Decreto legge n. 70/2011, è stata introdotta la modifica forse più rilevante al Codice, che incide sull’articolo 146 in materia di autorizzazione paesaggistica.
Come si sa, al momento, il parere che il Soprintendente è chiamato a dare per gli interventi da attuarsi in aree sottoposte a vincolo paesaggistico è vincolante, e passerà da vincolante ad obbligatorio una volta che i vincoli paesaggistici siano stati dotati delle prescrizioni d’uso, ovvero che le Regioni abbiano provveduto a rivedere, d’intesa con le Soprintendenze, le loro pianificazioni paesistiche per adeguarle alle nuove prescrizioni dettate dal Codice in materia (ed i Comuni abbiano poi adeguato le loro pianificazioni urbanistiche). La nuova disposizione stabilisce che il parere del Soprintendente, una volta che sia divenuto obbligatorio, debba essere reso nel termine di 90 giorni dalla ricezione del progetto, altrimenti esso è da intendersi reso in senso favorevole. In pratica, è stato introdotto il silenzio-assenso in materia di autorizzazione paesaggistica, sia pure dopo che si sarà provveduto a tutte le incombenze procedurali sopra richiamate.
Rivolgiamo pertanto un pressante appello al ministro Galan affinché vengano eliminate queste disastrose modifiche al Codice, e si torni a garantire piena ed efficace tutela, per legge, ad un ricchissimo patrimonio di beni pubblici e di paesaggi di qualità, diffuso in tutto il Paese, riconoscendo piena dignità storico-artistica all’architettura italiana del secondo Novecento (che è, largamente, di proprietà pubblica o no-profit).
Irene Berlingò, presidente di Assotecnici,
Marisa Dalai, presidente dell’Associazione R. Bianchi Bandinelli,
Vittorio Emiliani, presidente del Comitato per la Bellezza
Modifiche al vincolo sul trasferimento dei beni di interesse culturale agli enti territoriali, al fine di sostenere il processo del federalismo demaniale. L'articolo 4 del Dl sviluppo (70/2011) contiene alcune disposizioni che impattano in maniera rilevante su questo fronte: i commi 17 e 18, introducono alcune correzioni al Dlgs 85/2010 (federalismo demaniale), mentre il comma 16 modifica il Dlgs 42/2004 (Codice dei beni culturali).
Quest'ultima disposizione – con l'obiettivo di accelerare il federalismo demaniale – semplifica il procedimento per il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica nei Comuni che adeguano i propri strumenti urbanistici alle prescrizioni dei piani paesaggistici regionali.
Viene innovato l'articolo 10 comma 5 del Codice dei beni culturali, elevando da 50 a 70 anni la soglia d'età oltre la quale i beni immobili di proprietà pubblica sono sottoposti a un regime speciale. Tra le disposizioni di tutela previste dal Codice sono ricomprese:
- misure di protezione (articoli 21 e seguenti, che stabiliscono, tra l'altro, le tipologie di interventi vietati o soggetti ad autorizzazione);
- misure di conservazione (articoli 29 e seguenti, che includono anche obblighi conservativi);
- norme relative alla circolazione dei beni (articoli 53 e seguenti), nel cui ambito rientrano anche le disposizioni concernenti i beni inalienabili.
Con il prolungamento del termine da 50 a 70 anni, si sottraggono alla procedura dettata dall'articolo 5, comma 5, del Dlgs 85/2010 – in cui si prevede la necessità di un apposito accordo di valorizzazione con il ministero per i Beni culturali – un rilevante numero di immobili statali o di enti pubblici non economici, realizzati dopo il 1941, spesso privi di effettivo interesse culturale.
In coordinamento con questa norma, la lettera b) del comma 16 citato in precedenza sposta a 70 anni il limite di età dei beni immobili per i quali vige la presunzione di interesse culturale, fino a quando non sia stata effettuata la relativa verifica.
La verifica dell'interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico (il cosiddetto "interesse culturale"), richiesto ai fini della definizione di bene culturale, è effettuata, d'ufficio o su richiesta dei soggetti cui le cose appartengono, da parte dei competenti organi del ministero per i Beni culturali.
In caso di accertamento positivo dell'interesse culturale, i beni continuano ad essere soggetti alle disposizioni di tutela. Nel caso di verifica con esito negativo, invece, vengono esclusi dall'applicazione di tale disciplina (comma 4). La lettera c) dispone l'inalienabilità dei beni immobili la cui esecuzione risalga ad oltre 70 anni, fino alla conclusione del procedimento di verifica del l'interesse culturale (articolo 54 comma 2 lettera a) del Codice).
Con la lettera d), che interviene sull'articolo 59 del Codice, viene circoscritto ai soli beni mobili l'obbligo di denunciare al ministero per i Beni culturali il trasferimento della detenzione, mentre permane, sia per mobili che immobili, con riferimento agli atti che ne trasferiscono la proprietà.
Infine la lettera e), semplifica il procedimento per il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica conferendo al parere del soprintendente natura obbligatoria non vincolante, nei casi in cui i Comuni abbiano recepito nei loro strumenti urbanistici le prescrizioni del piano paesaggistico regionale e il ministero per i Beni culturali abbia valutato positivamente l'adeguamento. La stessa disposizione introduce il meccanismo del silenzio-assenso prevedendo che, qualora tale parere non sia reso entro 90 giorni dalla ricezione degli atti di positiva verifica e di prescrizione d'uso emessi dalla Regione e dal ministero per i Beni culturali, lo stesso si consideri favorevole.
Proposta di emendamento soppressivo del comma 16 dell’art. 4 del d.l. 70/2011.
Le finalità delle, in verità contenute, modifiche al codice dei beni culturali e del paesaggio sono proclamate nell’incipit del comma 16 dell’art.4: “massima attuazione del federalismo demaniale” e semplificazione dei procedimenti di rilascio delle autorizzazione paesaggistica nei comuni che abbiano adeguato il loro strumento urbanistico alle rinnovate prescrizioni dei piani paesaggistici.
1. E per cominciare, a quest’ultimo riguardo, dalla modifica all’art. 146, comma 5, secondo periodo, rileviamo innanzitutto che, rispetto al testo che fu dapprima licenziato dal consiglio dei ministri, è rimasta ferma la previsione del parere obbligatorio (non vincolante, così voluto anche nella revisione 2008 del “codice”) della soprintendenza e l’unica innovazione è costituita dalla conclusiva integrazione del comma 5, che per presunzione considera favorevole il parere che non sia stato dato entro i novanta giorni dalla ricezione degli atti. E se è la semplificazione il fine della specifica modifica, esso è sicuramente tradito, perché il vigente comma 9 dello stesso art. 146 prevede che l’“amministrazione competente” (al rilascio della autorizzazione, nella quasi generalità i comuni delegati dalla regione) provveda “decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte della soprintendenza”, “in ogni caso”, pur se la soprintendenza non abbia reso il proprio parere. E dunque la modificazione allunga i tempi, introducendo per altro la presunzione in pratica irrilevante, ma inammissibile in linea di principio, che quella inerzia valga parere favorevole, come silenzio cui concettualmente non può essere invece attribuito valore di assenso, benché non precluda la conclusione del procedimento.
2. La finalità della modifica dell’art.10, comma 5, del “codice” (e conseguentemente dei successivi articoli 12, 54, 59) è sfrontatamente dichiarata: quella cioè di includere nell’automatismo dei trasferimenti dei beni immobili dello stato a regioni ed enti territoriali locali, come previsti nel decreto legislativo n.85 del 2010, anche quei beni che ne sarebbero esclusi perché considerati di interesse culturale dal “codice”, risalendo la loro esecuzione ad oltre cinquant’anni e cioè nel precedente ventennio. Sappiamo infatti, da un lato, che l’art. 10, comma 5, fissa al cinquantennio il limite temporale dell’interesse alla tutela e, dall’altro, che il decreto legislativo 85/2010 esclude dai previsti trasferimenti tutti i beni dello stato che facciano parte del patrimonio storico e artistico e dunque tutti quelli la cui esecuzione risalga oltre il cinquantennio, fermo il principio che l’interesse culturale dei beni pubblici si deve presumere quando non vi sia stato un espresso accertamento negativo al riguardo.
Ebbene, con la modifica del comma 5 dell’articolo 10 del “codice”, per tutti i beni immobili appartenenti non solo allo stato, ma ad ogni altro ente pubblico e a tutti gli enti privati non a scopo di lucro ivi compresi gli enti ecclesiastici, è elevato a settant’anni il limite temporale di appartenenza al patrimonio storico e artistico, contro il principio generale convenzionalmente posto dalla gloriosa legge Rava – Rosadi del 1909 e dunque consolidato da oltre un secolo nel nostro ordinamento della tutela e attraverso la sua coerente prassi attuativa. La disposizione innovativa è espressione di una palese irragionevolezza, perché introduce una arbitraria disparità di trattamento rispetto ai beni mobili appartenenti ai medesimi enti e ai beni immobili di appartenenza privata (per gli uni e gli altri permane infatti la regola del limite temporale del cinquantennio). Ma, innanzitutto, la innovazione è irragionevole perché introdotta non già per le ragioni intrinseche alla più corretta definizione dell’ambito temporale del patrimonio storico e artistico della nazione (che ha la protezione costituzionale dell’articolo 9), bensì per rispondere alla dichiarata esigenza occasionale e contingente di aprire alla attuazione del così detto federalismo demaniale previsto dal decreto legislativo 85/2010 quel complesso di beni immobili dello stato la cui esecuzione risale tra il cinquantesimo e il settantesimo anno e che perciò appartengono al patrimonio culturale secondo la vigente disciplina del “codice”. Per superare dunque la esclusione dei beni culturali dello stato dai processi di automatico trasferimento, come espressamente dispone il decreto legislativo 85/ 2010 in conformità alla prescrizione al riguardo della legge delega 42/2009, il decreto legge ha così operato una assurda amputazione del patrimonio storico e artistico della nazione, negando in linea generale di principio che i beni immobili pubblici (non solo quelli di appartenenza statale) e quelli ad essi assimilati abbiano attitudine a rivestire interesse culturale e siano perciò assoggettati alla tutela se la loro esecuzione risalga anche oltre cinquant’anni, nel precedente ventennio. Con effetti che vanno al di là della dichiarata contingenza e incidono in via permanente sulla generalità del patrimonio architettonico pubblico e ad esso assimilato, che rimane privo di tutela se la sua esecuzione non risalga ad oltre settant’anni. Un arretramento permanente e gravissimo della tutela della più recente architettura. E, immediatamente, l’esclusione dalla tutela della produzione architettonica pubblica (e ad essa assimilata) degli anni quaranta e cinquanta del Novecento.
MANTOVA — Ma insomma, come è stato possibile anche solo immaginare che proprio di fronte a un sito dell’Unesco ammirato in tutto il mondo potessero essere costruite 200 villette a schiera e un albergo? E come è stato possibile che un’idea così fuori dal mondo potesse fare tanta strada? Lo stupore che per anni ha accompagnato gli amanti del bello, gli ammiratori di Mantova ma anche le più alte cariche ministeriali è stato anche quello dei giudici del Tar, che hanno con ogni probabilità scritto la parola «fine» sul progetto di far nascere un quartiere residenziale affacciato sulla «skyline» rinascimentale della città dei Gonzaga.
I giudici amministrativi (in questo caso quelli di Brescia) hanno ribadito che il vincolo introdotto nel 2008 dalla Soprintendenza è del tutto legittimo e dunque ogni edificazione è impossibile; ma tra richiami a codici, sentenze e mappali del catasto il tribunale si lascia scappare anche un moto, per così dire, «patriottico» , sottolineando come per una nazione sia fondamentale mantenere la memoria storica e «immateriale» della propria identità. Tira un duplice sospiro di sollievo, alla luce della sentenza, il sindaco di Mantova Nicola Sodano (Pdl), architetto esperto del paesaggio: «Il Tar di Brescia, ritenendo valido il vincolo della Soprintendenza, ha detto chiaro e tondo che non potranno nascere villette in riva ai laghi di fronte al centro storico.
Questo dispositivo, unito a un altro pronunciamento del Consiglio di Stato ci mette al sicuro: non solo l’arrivo delle ruspe è scongiurato ma anche siamo al riparo di fronte a richieste di risarcimento da parte di chi intendeva costruire» . Nel motivare la fondatezza del vincolo ambientale sull’intero insieme del centro storico e dei laghi di Mantova, i giudici amministrativi fanno appello a principi alti: «Preme — scrivono nel loro dispositivo— ricordare i datati, ma ancora attuali insegnamenti della Corte Costituzionale alla stregua dei quali emerge come la cultura non abbia solo un rilievo autonomo ma che possa integrarsi anche con le res materiali antropiche di riconosciuto valore storico ed architettonico quali simboli perenni della sua espressione medesima, sia con le res naturali» .
E ancora: «La conseguenza pratica necessaria non può altro che essere quella di conservare, valorizzare, proteggere tutto ciò come espressione della memorie di una nazione, dalla sua formazione, anche storica e culturale (e la città ducale ne è incontestabile esempio)» . Detto fuori dal forbito linguaggio giuridico: sarà anche vero che con la cultura non si mangia, ma certi valori immateriali sono indispensabili alla vita civile di una comunità. Concetto scontato? Sarà, ma intanto il progetto delle villette con vista sui palazzi dei Gonzaga ha «ballato» per un buon quinquennio: l’immobiliare «Lagocastello» aveva presentato il suo progetto all’allora amministrazione di centrosinistra.
Ma l’ipotesi della nascita di un cosiddetto «ecomostro» era divenuta di dominio pubblico suscitando lo sconcerto anche del ministero dei Beni culturali; a quel punto il Comune di Mantova aveva fatto dietrofront e la soprintendenza introdotto nuove tutele sull’area. Ma i costruttori, che avevano già recintato l’area da edificare e piantato cartelli del cantiere, avevano minacciato richieste di danni per decine di milioni di euro e il ricorso alla magistratura. Finiti, al momento, come si è visto.
Controlli insufficienti, incapacità di spesa dei fondi a disposizione, ricorso eccessivo alla decretazione d'urgenza attraverso la Protezione civile, scarso scambio di informazioni tra uffici centrali e periferici. Sono le accuse mosse alla macchina amministrativa del ministero dei Beni culturali dalla Corte dei conti in una relazione dedicata alla manutenzione dei siti archeologici. Pur riconoscendo risultati positivi ottenuti nella conoscenza del patrimonio presente sul territorio, la magistratura contabile muove tutta una serie di rilievi al modo in cui il Collegio romano si occupa della tutela. Criticità motivate "in parte anche a causa delle stressanti riforme che hanno interessato il Mibac nell'arco di un quinquennio", ha spiegato l'indagine, ma non per questo meno gravi. A cominciare dalla mancanza di comunicazione fra gli uffici: "Il primo dato critico è rappresentato dalla instabilità organizzativa, la quale inevitabilmente riverbera i suoi effetti nel raccordo sia tra direzioni generali (e tra queste e sedi periferiche) che con gli altri livelli istituzionali", si legge nella relazione. I principali problemi? Le "sovrapposizioni funzionali, con duplicazioni di competenze tra direzioni generali e direzioni regionali". Dura l'accusa: "Non è stata definita una moderna struttura manageriale, mantenendosi invece un apparato centrale ibrido a carattere verticale che assolve a limitate funzioni, pur assorbendo risorse significative, col risultato di un forte deficit di controllo sull'attività svolta dalle soprintendenze". Una "colpa" che va divisa a metà, secondo la Corte dei conti: da una parte i dirigenti regionali (a loro volta tenuti a controllare le soprintendenze) non sempre rispettano la disposizione secondo cui ogni tre mesi devono informare sul loro lavoro il dirigente generale alle Antichità; dall'altra per l'abitudine di quest'ultimo ad un "recepimento acritico delle istanze regionali". Non va meglio nel coordinamento dell'attività di tutela dei beni archeologici: "Non è stata realizzata la banca dati unificata in cui far confluire i sistemi informatici riguardanti diversi aspetti conoscitivi". I numerosi sistemi operativi esistenti, gestiti da centri di raccolta differenziati, insomma, non dialogano tra loro. Così accade che, per uno stesso sito, le concessioni di scavo affluiscano esclusivamente alla direzione generale alle Antichità, gli introiti e i visitatori delle aree archeologiche alla direzione Bilancio, mentre la catalogazione e la documentazione afferisce al Segretario generale. Male anche la parte economica, a causa dell'incapacità di spesa, "paradossale a fronte delle scarse risorse". Alla base della formazione di consistenti giacenze di cassa, osserva la Corte dei conti, il "ritardo congenito della messa a disposizione dei fondi", con accreditamenti che a volte avvengono addirittura alla fine dell'anno finanziario. Anche "la lentezza nell'espletamento delle gare per l'affidamento dei lavori" ed il blocco delle risorse in quei progetti pluriennali che obbligano a spendere a seconda dell'avanzamento dei cantieri". E' il ricorso alle gestioni commissariali per l'attività di manutenzione dei siti archeologici, tuttavia, il tasto forse più dolente. Perché è vero che la situazione muoveva "da reali difficoltà e conseguenti rischi per singole opere o aree archeologiche - ha sottolineato la magistratura contabile - ma la creazione di gestioni commissariali aventi maggiori possibilità di deroga su siti tra i più importanti dell'intero pianeta, come la zona archeologica di Pompei, le aree di Roma, Ostia antica e la Domus Aurea, non era necessaria. La tipologia delle realizzazioni in concreto poste in essere nel 2009 - si legge ancora nella relazione - conferma, infatti, che si tratta di interventi che ben si sarebbero potuti effettuare con gli strumenti dell'ordinaria amministrazione. Quanto a Pompei, i presupposti per la dichiarazione dello stato di emergenza erano sostanzialmente assenti. Di qui, l'auspicio ad una maggiore trasparenza, soprattutto considerata la evidente scarsità di risorse destinate alla manutenzione dei siti archeologici, e l'assunzione di misure autocorrettive.
La furia devastatrice del partito degli affari immobiliari è particolarmente vivace in Sicilia. Anche in quella regione le istituzioni sono spesso strumenti degli interessi economici più arcaici, e concorrono a distruggere ciò che innanzitutto a loro spetterebbe tutelare. La notizia del giorno è il tentativo della Giunta regionale siciliana di abolire (sic: “abolire”) il Parco archeologico della Valle dei templi di Agrigento. Abbiamo chiesto a Teresa Cannarozzo, che è stata vicepresidente del Parco, di informare eddyburg in proposito.
I luoghi
Nel territorio agrigentino si materializzano i contrasti più stridenti: l’eccezionale patrimonio archeologico e paesaggistico della Valle dei Templi e un abusivismo edilizio diffuso e multiforme; orti urbani e giardini lussureggianti che si incuneano all’interno di periferie miserabili; una maglia invasiva e ingombrante di opere viarie, per lo più in viadotto che ha massacrato il territorio e il paesaggio.
Il Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi comprende al suo interno l’antica Akràgas, di cui si possono leggere frammenti significativi in alcune aree scavate da tempo. La città classica era solcata da due fiumi ed era difesa da forti salti di quota e da una cinta murata che non si distingue per colore e materiale dalle rupi sottostanti.
L’Ente Parco
L’Ente Parco è stato istituito da una legge regionale: la n. 20 del 2000. La legge assegna all’Ente Parco propri organi di gestione, il compito di redigere il Piano del Parco, di tutelare e valorizzare i beni archeologici, paesaggistici e ambientali, di promuovere la ricerca archeologica curandone anche l’aspetto divulgativo, di potenziare la fruizione sociale e turistica delle risorse territoriali per incrementare il turismo culturale.
Altre attività di routine del Parco riguardano la manutenzione e il restauro del patrimonio vegetale e dei terreni agricoli espropriati; si è sperimentata anche una piccola produzione di olio e di vino.
Dopo un lungo periodo di commissariamento, alla fine del 2006 è stato ricostituito il Consiglio del Parco che si è dato alcuni obiettivi prioritari: la redazione di una Carta Archeologica, la costruzione di una nuova strategia di comunicazione delle risorse del Parco e la ripresa dell’iter di formazione del piano del Parco.
Il piano
La finalità principale del piano, faticosamente redatto e in fase di approvazione da parte dell’Assessorato Regionale ai BB.CC.AA.AA., è quella di rafforzare l’identità del paesaggio della Valle, indebolita dall’abbandono dell’agricoltura, da una edificazione strisciante e da svariati attraversamenti viari, attraverso una serie di azioni progettuali partecipate, articolate tra tutela, recupero, riqualificazione e valorizzazione.
Il primo obiettivo del piano è rendere accessibile e visitabile tutto il patrimonio archeologico esistente attraverso la proposta di nuovi itinerari. Per ampliare la durata e la tipologia delle visite il piano prevede un itinerario che include anche il centro storico e la vicina Rupe Atenea, dove sono visibili edifici di origine classica, aree archeologiche minori e tratti delle fortificazioni. Per le stesse finalità il piano prevede interventi di rinaturalizzazione e riqualificazione della fascia costiera e degli alvei dei due antichi fiumi lungo i quali propone itinerari naturalistici e green ways.
Il piano prevede anche un nuovo sistema di accesso al Parco basato su parcheggi intermodali tangenti alle aree archeologiche, in connessione con bus navetta che copriranno diversi percorsi di visita; si prevede anche di utilizzare il tracciato ferroviario che attraversa la Valle e che arriva alla città, attualmente adoperato in occasioni sporadiche.
Il piano affronta il tema del riuso del patrimonio edilizio storico all’interno della Valle e propone di ampliare il sistema dei servizi e delle attrezzature prevedendo punti di informazione, luoghi di esposizione e vendita dei prodotti tipici, aree di sosta e ristoro, centri di ricerca, foresterie per gli studiosi e spazi museali.
Il piano propone anche una inversione di rotta nei rapporti con i proprietari di immobili all’interno della Valle; prevede infatti di fermare la politica degli espropri che hanno causato fatalmente l’abbandono delle aree rurali e degli edifici, con grande danno per la conservazione del paesaggio agrario e di inaugurare rapporti di convenzione con i residenti, sia per il mantenimento dell’agricoltura che per la fornitura di alcuni servizi.
In definitiva il piano considera il Parco un territorio multifunzionale, caratterizzato da una molteplicità di risorse, aperto contemporaneamente al mondo e alla città, in un processo di riappropriazione identitaria, storica e culturale da parte della comunità locale.
L’assalto del Governo Regionale
Nonostante i risultati positivi conseguiti nella gestione del Parco, il governo regionale in carica ha fatto intendere in diverse occasioni che avrebbe voluto smantellare l’Ente, cancellandone l’autonomia finanziaria e le competenze. Ma questo obiettivo sarebbe stato raggiungibile solo modificando o abrogando la legge istitutiva, a suo tempo voluta da un ampio schieramento politico trasversale.
La presentazione della finanziaria da parte del Governo, in corso di discussione all’Assemblea Regionale, è sembrata l’occasione utile: è stato introdotto infatti un emendamento devastante che cancella gli organi di gestione del Parco e, incredibilmente, anche il Piano, che tra l’altro è costato una cifra esorbitante. Sono infatti abrogati gli articoli da 7 a 14 del Titolo I della legge 20 del 2000.
Naturalmente, la cosa non è passata inosservata e si è scatenata una forte reazione, specie da parte di alcuni deputati del PD di Agrigento.
Si dice che l’emendamento sia stato ritirato ma la finanziaria è ancora in discussione e potrebbe essere riproposto. Per altro come accade dappertutto, la stampa, ancorché sollecitata, ignora le vicende di questo genere e il dissenso si muove attraverso percorsi carsici senza arrivare facilmente all’opinione pubblica.
Gli sembrano «maledettamente meridionali», come i grattacieli di spazzatura urbana, anche il calcestruzzo di Pompei, vecchio o nuovo ma sempre infiltrato d’umidità, e i ponteggi e i puntelli che «ricordano più le emergenze di Beirut che la manutenzione quotidiana dei cantieri sempre vivi di Efeso o di Delo», e poi il cemento armato comunque ossidato, le tettoie di zinco, gli impacchettamenti informi e i crolli, «quelli di orsono sei mesi e quelli evidentemente in attesa, quelli incombenti», i crolli come cifra antropologica del sud del pianeta: «Meridione è il mondo dove le cose non si consumano, crollano; non cambiano, crollano; non si evolvono, crollano».
Dunque persino Deniz, il mio amico turco di Smirne, che è un magnifico pasticcio di storia conservata e di modernità sgangherata, dice con un sorriso complice: «Pompei è maledettamente meridionale, la vera capitale del Meridione». Legge, per esempio, nel primo e unico avviso bilingue ai visitatori: «Non permettete agli "stray dogs" contatto alcuno».
E quando una grossa randagia nera gli viene accanto, mi chiede: «Come faccio a dimostrare che è la cagna che si è avvicinata a me e non io alla cagna?». Qui i trenta cani randagi che avevano invaso l´archeologia sono stati adottati dalla Sovrintendenza. E dunque li vedi grassi e stanziali, promossi a cittadini onorari delle macerie, stesi al sole come vecchi servitori dello Stato in pensione, una sorta di entrismo rovesciato, «come se in piazza san Marco il comune smettesse di multare chi porta da mangiare ai piccioni e addirittura li nutrisse per farne arredo urbano "domato"».
Muri puntellati, pochi cartelli, ciceroni improvvisati, anacronistici graffiti sull’opus reticolatum, cani randagi ormai stanziali. Viaggio tra i resti di Pompei, in compagnia di un allibito studioso turco. Ecco come sono ridotti gli scavi romani più famosi al mondo.
Le bancarelle con guerrieri di gesso e madonne di plastica danno vita a una specie di suk.
Nell’anfiteatro restaurato col tufo al posto del marmo restano i segni di show e baccanali
Deniz Inan Gezmis ha lavorato a Beirut, a Damasco e poi ad Efeso in una squadra di grandi "scavatori", allievo di Ernest Will si è laureato alla Sorbonne ed è stato per anni il mio vicino di pianerottolo. Sempre in giro per il mondo, era in Italia e l’ho convinto a trascorrere un giorno a Pompei che lui considera capitale anche della storia antica e persino della psicanalisi: «L’archeologia qui è sempre stata solo un pretesto». E ricorda gli "antiquari" del Settecento, quelli che scrivevano in latino testi magnifici sulle finestre, sulle monete, sul sesso nell’antichità: «Pompei è importante per questo, non per le pietre che non sapete conservare». Gli antiquari napoletani del secolo dei Lumi erano odiati da Leopardi che li considerava nemici della poesia: «L’antiquaria non è storia, è il culto della morte. Leopardi non ce l’aveva con la storia ma con l’archeologia, con noi mummificatori».
Non so che cosa studia in questo periodo Deniz, sospetto che ormai l’antropologia lo appassioni di più dell’archeologia, vedo che fotografa «per il mio archivio privato» il "Sara ti amo", inciso sul rosso pompeiano della casa fullonica, la "A" di anarchia nella celletta del lupanare, "Ettore e Lilly" nella Domus di Proculus… Raccoglie e classifica sconcezze: «anche senza i crolli, basterebbero tutti questi sgorbi da metropolitana per far dimettere un sovrintendente o un ministro, ma per me Pompei è molto interessante proprio perché è il Far West dell´archeologia, la vita qui rientra da tutte le parti, anche se è vita degradata».
Ha appena visitato le ville palladiane, Venezia, Vicenza e le residenze del Piemonte, ma solo qui trova l’Italia pittoresca di cui ha letto tanto, di cui sa tanto, l’Italia che «fu tappa obbligata dell’educazione sentimentale europea, l’anima della classe dirigente di un tempo». Dunque è convinto che nelle campagne attorno a Pompei incontrerà le donne con la brocca in testa e i maschi con l´aria guappa ed è per questo che decidiamo di percorrere la statale e saltare l’autostrada. Vedo che si appassiona alla vista malinconica di quelle teorie di ville spettrali e di quelle larve di edifici aristocratici che si alternano ai soliti bruttissimi palazzi, miseria e nobiltà tra Portici e San Giorgio a Cremano, Ercolano, Torre del Greco, Torre Annunziata…, fino alla nuova Pompei che è certamente la più aggraziata: «è vero, hai l’illusione ottica di aver visto più cemento nella vecchia che nella nuova Pompei», e forse perché, nata nel 1928, non ha ancora avuto il tempo di invecchiare: «Quando comincia l’archeologia, finisce la storia».
E neppure indulgo troppo nel viaggio attraverso gli incontri con i suoi colleghi archeologi e con tutta la "pompeanità" degli ex sovrintendenti, dei sindacalisti, dei giornalisti specializzati, degli intellettuali nativisti, dei preti che hanno appunto costruito la nuova Pompei mariana, centrata sulla cattedrale e sul culto del beato Bartolo Longo contrapposto al culto di Priapo della vecchia Pompei pagana e ierofallica, dissipata e sibarita. Le bancarelle sono strepitosi teatri di conflitto e confronto tra la mentula e il rosario, l’etera e Maria, sacertà pagana e sacralità cristiana: ti rincorrono per strada, ti vendono di tutto, è il suk di madonne di plastica e di guerrieri di gesso. Faccio una piccola inchiesta volante sulla piazza del santuario e domando al venditore di statue quali miracoli ha fatto la Madonna di Pompei: «di preciso non lo so, ma ne ha fatti tanti» . Mi espongo un po’ al ridicolo e lo chiedo a una cassiera, a un pensionata, a una signora elegante che all’edicola compra Repubblica: nessuno lo sa, ma tutti ci credono. Credere in cose che non si conoscono con certezza è anche la sindrome dell’archeologo, lo stato epistemologico di chi vive accerchiato dai misteri del passato.
Eppure Pompei espone e attira anche studiosi, ci sono molte belle intelligenze come Antonio Varone, Matteo Orfini, Piero Guzzo, Umberto Pappalardo… Ci sono più intellettuali pompeiani che rovine pompeiane. Ed è una "second life" il racconto ingarbugliato dei commissariamenti, delle emergenze e delle inchieste giudiziarie, dalla bella intuizione di Veltroni che affidò Pompei a un "archeo-manager", una specie di primo cittadino della città antica, fino alle clientele, agli sprechi e alle violenze sul paesaggio del commissario Fiori «al quale si deve - mi dice l’appassionato sindacalista Biagio De Felice - il dissesto del territorio che forse ha determinato anche il crollo della casa dei gladiatori». Di sicuro Pompei è il posto dove tutti "scavano": il posto della vecchia talpa, direbbe Marx. E anche il posto di Freud. È dal racconto di Wilhelm Jensen su un bassorilievo pompeiano (la Gradiva) che Freud ricava la sua teoria sul delirio. Pompei è come la coscienza, ricca di vestigia sepolte.
Alle fine preferiamo bivaccare nelle rovine per un’intera giornata, tra le scolaresche che si inseguono a gavettoni d’acqua, le manate sui muri per tastare le pitture, l’incontinenza dei giovanotti che "si svuotano" contro le absidi. In tre giorni non ho incontrato mai la severità delle guardie, mi dicono che quotidianamente dovrebbero essercene trenta, ma non vedo una divisa autorevole da custode, qualcuno che rappresenti l’imperio del decoro e della decenza: «Efeso è piena di guardie in borghese che intervengono anche quando qualcuno, per riposarsi, fa solo il gesto di poggiare la pianta del piede sul muro alle sue spalle. E ci sono telecamere e squadre di tecnici sempre al lavoro. Ma trovo questo trambusto divertente. In Grecia, nella Turchia egea si lavora…».
Regalo a Deniz un vecchissimo numero di Topolino dove c’è la storia di Paperone che finanzia Pompeiropoli, un parco-giochi archeologico dove i paperi turisti indossano costumi romani, Nonna Papera riceve vestita alla maniera della matrona Eumachia, e Qui Quo Qua e Gastone, Paperino e Paperina…, tutti partecipano alla vita della città antica, cambiano i dollari in sesterzi, mangiano porco salato con il puzzolente garum e ogni pomeriggio c’è una finta esplosione del Vesuvio che erutta farina. Ebbene, «l’abbiamo fatto davvero» racconta Paolo Gramaglia, il proprietario del ristorante Il Presidente: «Sino alla scorso anno organizzavamo sugli scavi cene in costume e a tema. Con l’aiuto del professore Del Guadio, un insegnante in pensione, abbiamo riprodotto il menu degli antichi romani, in particolare i cibi afrodisiaci». Gli dico di un racconto di Théophile Gautier (Arria Marcella. Souvenir di Pompei) dove l’archeologo, a cui «le antiche vestigia procurano spesso buchi nello stomaco», ha paura di trovare nelle migliori osterie di Pompei «solo bistecche fossili e uova freschissime deposte prima della morte di Plinio». Il povero archeologo di Gautier cambierebbe mestiere se sapesse che lo scorso anno tra gli scavi si tenevano concerti, Riccardo Muti e i Synaulia con canti e danze dell’antica Roma, e poi esplosioni del Vesuvio simulate su megaschermi, musiche di Ennio Morricone. E l’incantevole anfiteatro, restaurato con il più economico tufo al posto dell’originale marmo, porta ancora i segni della baraccopoli per gli artisti dell’imbalsamazione…
All’ingresso del parco archeologico anche le guide smerciano se stesse con un fare losco da mercato nero, 70 euro senza ricevuta. Antonio, per esempio, si presenta così: «io ho un metodo molto accademico» forse perché ogni tanto intercala parole che non capisce, dice «apotropaico», e poi, rapsodicamente si lascia andare nel gorgo sussiegoso del latinorum. Una signora che gli fa concorrenza propone l’approccio «gossip divulgativo» forse perché insiste sulla simbologia fallica, sulla presunta lascivia delle donne pompeiane, sull’esplosione lavica del Vesuvio come punizione del peccato. Noi scegliamo Antonio che ci dice: «le pietre non sono documenti». L’archeologia per lui è fondata sulla chiacchiera, «quelle finestre sono arbitrarie» sentenzia, e poi: «chi l’ha detto che quel panettiere era davvero felix?». Le guide sono i più tipici personaggi di Pompei, interessati custodi della memoria che sopravvivono a tutti i sovrintendenti e ministri, sono come le mosche, la vita sulla morte.
È molto più facile governare una viva città caotica del Mediterraneo come Napoli o come Smirne che governare Pompei. Oggi, a disastro avvenuto, tutti i politici dicono che la politica deve fare un passo indietro, ma forse dovrebbe farne sette in avanti, consegnandosi alle grandi eccellenze. Diego Della Valle ha opportunamente proposto che ogni imprenditore campano adotti e finanzi una Domus con criteri privati. La sovrintendente Teresa Cinquantaquattro invoca un mecenate (e chi non lo vorrebbe, signora mia). La vecchia idea di Veltroni di nominare un sindaco-podestà della Pompei antica è ancora la migliore. Tutte le persone di buon senso penserebbero subito a Renzo Piano o, con più competenza, a Salvatore Settis. L’archeologa Anna Lucia D’Agata mi dice: «Il modello che in Italia funziona è quello del Max Planck di Firenze, ovviamente trasportato dalla ricerca scientifica all’archeologia: un duumvirato di eccellenze». Sarebbe magnifico: Salvatore Settis e Sergio Marchionne. Attenzione però: se lo diciamo al governo Berlusconi, Pompei finisce nelle mani del fauno ballerino Vittorio Sgarbi o di qualche semivip come Umberto Broccoli, quello che espose le auto dentro l’Ara Pacis. Preferiamo Mattia, la guida delle guide, il più bravo logografo: «Venghino signori venghino a fare l’amore a Pompei. Hic habitat felicitas».
Postilla
Passano gli anni, i Soprintendenti , i Ministri, ma Pompei continua a rimanere l’onfalos del nostro patrimonio culturale: nel bene e nel male.
Nel colorito articolo di Merlo, pur con alcune imprecisioni ed eccesso folkloristico (l’anfiteatro è un teatro, Renzo Piano non ha – che risulti – competenze utili al tema), si ripropone il problema di un sito in cui ancora evidenti sono i segnali di degrado.
A vari livelli: organizzativo e amministrativo, ma sociale anche e soprattutto politico nel senso più alto del termine.
Archiviata la devastante esperienza del commissariamento che ha contribuito a sprecare importanti risorse in attività effimere o addirittura sbagliate (il restauro del teatro), rimane – gigantesco – il problema di proporre un modello di gestione che superi le incertezze del presente.
Le competenze scientifiche ci sono (quelle della Soprintendenza e degli studiosi internazionali che a lungo hanno lavorato sul sito). E non solo quelle archeologiche, ma anche quelle relative all’elaborazione di programmi di manutenzione.
Si moltiplicano, ma in ordine sparso e con scarso coordinamento, le offerte di disponibilità (ma ben poco precisate) da parte di privati o di enti pubblici a vario livello: manca, drammaticamente, una visione di insieme in grado di pianificare sul medio lungo periodo il destino del sito archeologico più famoso del mondo.
L’aspettiamo con fiducia. Prima del prossimo crollo, possibilmente (m.p.g.)
Su Pompei, v. su eddyburg:
Pompei e i venditori di tappeti
Pompei o lo specchio della Medusa
Il progetto prevedeva anche una maxi-piscina. I sigilli della procura sono arrivati in tempo per impedire lo scempio. Dalle carte giudiziarie emergono ben 24 abusi. Tra questi l'allargamento di una strada pubblica
Prendete una antica Torre costiera, detta Torre Toledo, costruita nel 1277 da Carlo D’Angiò a difesa dell’abitato di Marina della Lobra e rifatta da capo nel 1540 su ordine di don Pedro de Toledo. E’ la Torre più antica sul territorio della penisola sorrentina, è l’immagine caratterizzante del borgo marinaro di una località turistica tra le più rinomate della Campania. Eliminate la merlatura sulla sommità della Torre. Aggiungete alcune opere di stravolgimento dell’edificio, come l’apertura e l’allargamento di finestre e la realizzazione di terrazzini di collegamento tra i balconi e il cortile. Infierite con la creazione tutt’intorno, in un’area di circa 10.000 metri quadrati, di una serie di manufatti adibiti a camere da letto con bagno, muri di contenimento, terrazzamenti, rampe di collegamento. Rifinite l’intervento con una bella piscina lunga 17 metri e larga 4 a valle della Torre e un solarium. Mescolate il tutto, e avrete la ricetta di una delle più importanti speculazioni alberghiere mai tentate in penisola sorrentina: la trasformazione di un edificio storico di grande pregio in un resort di lusso. Da compiere in una zona ultra vincolata, senza uno straccio di licenza e in spregio a ogni normativa.
Stava per accadere davvero. Se non si fosse messa in mezzo la Procura di Torre Annunziata, corsa ad apporre i sigilli quando i lavori erano in fase di avanzata realizzazione. Per comprendere e descrivere sino in fondo l’enormità dello scempio di Torre Toledo, dove fino al 1860 si trovavano i cannoni borbonici, il sostituto procuratore Mariangela Magariello ha svolto anche un sopralluogo via mare. Poi ha steso un capo di imputazione durissimo. Contestando il reato di lottizzazione abusiva, che prevede in caso di condanna la confisca dell’area interessata dagli abusi. E al processo ha chiesto una pena severissima per l’albergatore finito alla sbarra, il sorrentino Vincenzo Acampora, amministratore unico dell’Avi srl, la società che ha acquistato l’immobile dagli eredi Toledo. Per Acampora il pm ha proposto una condanna a 4 anni e 4 mesi, di cui 2 anni per la lottizzazione, 4 mesi per falso ideologico (in concorso con il tecnico che firmò una Dia risultata piena di dati fasulli, per il quale il pm ha chiesto 9 mesi) e 2 anni per crollo colposo.
Sì, perché nella frenesia edilizia sono crollate alcune murature. Il crollo, risalente al 2006, sarebbe stato causato dalla realizzazione abusiva di una trave di coronamento e di altre travi a sostegno del solarium della piscina. Lo sostiene la perizia di un geologo agli atti del fascicolo. Un cedimento bis è avvenuto l’anno successivo, più o meno per lo stesso motivo. C’era il rischio che il solarium precipitasse a mare, e immaginate con che conseguenze se il resort fosse stato aperto e pullulante di clienti. La Procura ha ipotizzato che lavori di questa portata fossero avvenuti con la complicità di qualcuno che avrebbe dovuto controllare e non lo ha fatto. Ma dopo aver perquisito qualche computer, ha archiviato questo filone d’indagine.
Però a leggere le carte dell’inchiesta c’è da mettersi le mani nei capelli. Nei verbali di sequestro troviamo 24 presunti abusi. Ce ne sono di tutti i tipi, compresi i 64 metri di strada di collegamento in pietre laviche tra la Torre e la strada pubblica. E anche l’allargamento della strada pubblica (sì, pubblica) di San Liberatore. La strada è stata poi ripavimentata in calcestruzzo cementizio, e con annessa modifica della pendenza, per circa 37 metri. Le auto dei turisti dovevano entrare nel resort senza difficoltà. Ma la difesa sostiene che non c’è prova che le opere realizzate e contestate dal pm avessero finalità alberghiere. Il Comune di Massa Lubrense, guidato dal sindaco Leone Gargiulo, si è costituito parte civile. La sentenza è attesa per luglio.
Sarà per il bianco panama del conte Carandini, ma le fotografie del sopralluogo pompeiano del nuovo ministro della cultura evocano (non senza ironia) le immagini dei ricchi e distratti milordi che passeggiavano tra le rovine alla fine del Settecento, in una tappa del loro Grand Tour. La sensazione di spaesamento aumenta quando si leggono le dichiarazioni di Carandini, il quale si dice finalmente «ottimista»: e non c'è da stare allegri se l'ottimismo del reintegrato presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali si basa sulle contemporanee esternazioni di Galan, il quale si guarda bene dal citare il contenzioso con Tremonti e preferisce invocare l'intervento dei privati (notoriamente in fila col libretto degli assegni), citando a mo' di esempio l'impegno del candidato Lettieri a sponsorizzare ben tre domus (!).
Eppure qualche segnale positivo c'è davvero. Proprio di fronte alle rovine della schola armatorum Sandro Bondi cercò di dar la colpa del crollo agli archeologi della Soprintendenza, e invocò la messianica figura di un manager e la taumaturgica realizzazione di una fondazione. Oggi, il suo successore Giancarlo Galan dichiara che l'idea della fondazione non lo entusiasma per nulla, perché non ne vede i vantaggi, e che ritiene invece necessario assumere subito trenta archeologi e quaranta tecnici specializzati. Chissà se il dilettantismo dei milordi lascerà spazio ad una vera politica della tutela, ad un vera progettazione di un'economia della tutela. Se lo facesse, Pompei potrebbe diventare un laboratorio per tutto il Paese.
Buona notizia: Tremonti ha scritto a Repubblica (29 gennaio) smentendo di aver mai detto che «la cultura non si mangia». Pessima notizia: il governo Berlusconi (compreso Tremonti) si comporta come se quella stessa frase la cantasse in coro ogni mattina. Anche il reintegro dei (modesti) fondi per lo spettacolo, fatto a prezzo di un aumento della benzina, minimo ma identico per tutte le classi di reddito, lancia un messaggio chiaro: se volete più fondi per la cultura, pagherete più tasse, pagherete tutti. Nessuna menzogna di ministro o complicità di intellettuali inclini a genuflessioni, furberie e compromessi può nascondere che la scuola è in stato comatoso, che università e ricerca sono drammaticamente sottofinanziate, come anche musica, teatro, cinema, tutela del patrimonio e del paesaggio. In barba alla tradizione italiana e alle garanzie della Costituzione, chi ci governa vede le spese in cultura come un fastidioso optional, l’ultimo della lista.
Eppure Sandro Bondi, allora neo-ministro dei Beni Culturali, dichiarò il 3 giugno 2008 alla Camera che «l´Italia è agli ultimi posti in Europa per la spesa in cultura sul bilancio dello Stato: 0,28% contro l´8,3% di Svezia e 3% di Francia», e dichiarò «mi impegno ad invertire questa tendenza negativa». Risultato: 22 giorni dopo (il 25 giugno), con il decreto 112, il governo dimezzò la capacità di spesa dei Beni Culturali tagliando 1.200 milioni di euro. Da Bondi, neanche un lamento. Da allora, anzi, il suo (ex) ministero ha subito ulteriori tagli, e quello 0,28% è calato a qualcosa come lo 0,16%. In attesa, si suppone, di calare ulteriormente fino all´auspicato zero virgola zero. Davanti a questi dati, Soloni d’ogni osservanza spargono lacrime copiose,
ma poi subito levano le braccia al cielo, e proclamano: "Ma non ci sono risorse! Ma c´è la crisi!". Tanta rassegnata saggezza presuppone una piccola amnesia: l’evasione fiscale. Come hanno scritto Angelo Provasoli e Guido Tabellini sul Sole-24 ore (14 aprile 2010), «a seconda delle stime, il valore aggiunto non dichiarato varia tra il 16 e il 18% del Pil, con una perdita complessiva di gettito di oltre 100 miliardi di euro, pari a oltre il 60% dell´intero gettito Irpef». Perciò «la prima questione da affrontare è l’evasione fiscale», che «potrebbe essere debellata con investimenti non elevati». Recuperare subito l’1 o 2% delle tasse evase, e investirlo in cultura: perché no? Ma nulla in questo senso vien fatto, anzi le risorse che ci sono vengono investite senza alcuna lungimiranza. Per esempio, dopo la frana di Giampilieri che nell’ottobre 2009 uccise almeno 37 persone, Bertolaso dichiarò cinicamente che è impossibile trovare due miliardi per mettere in sicurezza le franose sponde dello Stretto, per giunta soggette a sismi di massima violenza (l’ultimo, nel 1908, seguito da tsunami: 120.000 morti). Si trovano, invece, i sette o dieci miliardi per costruire su quelle frane il Ponte. Si sono trovati cinque miliardi da dare a Gheddafi baciandogli la mano.
Tragica è ormai la situazione delle Soprintendenze, votate (lo ha detto Giulia Maria Crespi) «a una dolce morte»: l’età media del personale ha superato i 55 anni, le nuove assunzioni non sono nemmeno il 10% dei pensionamenti, il controllo del territorio è impossibile per mancanza di fondi. Intanto, nuove attribuzioni e compiti sono previsti dal Codice dei Beni Culturali varato da Giuliano Urbani (governo Berlusconi), con modifiche di Buttiglione e Rutelli: quanto di più bi-partisan, insomma, e forse per questo tanto disatteso. Più responsabilità, meno risorse umane e finanziarie: questo il copione degli ultimi anni, infallibile se si vuol chiudere bottega. E’ un miracolo se, sfiduciati e depressi anche per un’ondata di commissariamenti spesso dannosi, i funzionari delle Soprintendenze resistono in trincea.
Il nuovo ministro Galan ha inaugurato la sua stagione con segnali misti. Da un lato, ha dichiarato (Il Sole, 25 marzo) che non sarà «il sottosegretario di Tremonti», che occorrono nuove risorse e che è urgente «chiudere per sempre il capitolo della sfiducia, della depressione e della rabbia sterile che oggi avvilisce ingiustamente» le Soprintendenze e chi ci lavora (Il Sole, 30 marzo). Dall’altro, si è concesso una battuta («I Bronzi di Riace sono stati trovati nei mari della Calabria, ma solo per questo devono rimanere in quella zona?»), che ha prontamente scatenato chiacchiere da bar e polemiche d’ogni segno. Battuta frivola, che par pensata per dirottare l’attenzione dei media su un tema marginale (il luogo di esposizione dei Bronzi), distraendola da problemi ben più gravi. L’amministrazione dei beni culturali non deve occuparsi solo di opere supreme come i Bronzi, ma della presenza capillare del nostro patrimonio in tutta Italia, della tutela di un paesaggio sempre più devastato, dal Veneto alla Calabria, da spietate colate di cemento. Facendo intravedere un evento spettacolare (e poco costoso) come lo spostamento dei Bronzi da Reggio, il neo-ministro ha fatto parlare di sé ma girando a vuoto, ha scelto la strada in discesa dell’effetto-annuncio. Ma il suo compito è molto più difficile, richiede l’immediata ricerca di risorse e un urgente piano di assunzioni basate sul merito. Esige un progetto per l’Italia e non per due statue, per quanto importanti. E’ così, onorevole Galan, che si potrà ridare fiducia ai funzionari della tutela, e non "movimentando" statue e quadri senza nemmeno consultarli.
Colosseo ai privati, è polemica sul restauro
Claudio Marincola
Doveva essere «la fine di un incubo». Il contratto finalmente portato a casa per tirare a lucido il Colosseo, e metterlo al riparo dalle intemperie, almeno per il prossimo quarto di secolo. Un modello di sponsorizzazione da seguire anche per il futuro. E, invece, l'accordo con l'imprenditore Diego Della Valle sta diventando un "caso". I dubbi innescati dall'ex assessore capitolino alla Cultura Umberto Croppi alimentano nuove polemiche. Possibile che il sindaco Alemanno abbia concesso, come scriveva ieri Il Fatto Quotidiano, ad un privato l'esclusiva sul monumento? E per di più per la durata di cinque lustri? Il Campidoglio nega. «Tutto è stato fatto nella massima trasparenza, gestito dai massimi vertici dei Beni culturali - garantisce Alemanno - ci abbiamo messo quasi un anno a perfezionare la procedura». Ecco, appunto, il busillis sarebbe proprio questo: l'aspetto procedurale.
Il percorso che ha permesso al gruppo di Della Valle di avanzare diritti su una delle sette meraviglie del mondo in cambio di 25 milioni di euro. Il segretario della Uil Gianfranco Ceresoli ha messo in dubbio la legittimità dell'operazione. Ha presentato un esposto-denuncia alla Procura di Roma e alla Corte dei conti. Vuole mettere i bastoni tra le ruote al sindaco. Lo accusa di aver messo in atto«una dismissione del Colosseo», senza «un qualsiasi parere del Comitato tecnico scientifico dei Beni Archeologici». E Alemanno? Il primo cittadino avverte: «Nessuno si inventi fantasie che possano essere da ostacolo». E rivendica «un restauro che Roma attende da almeno 30 anni». In quanto al ricorso «tutti hanno diritto di presentarli, ma non se ne comprende la ratio». Tra qualche giorno, ha assicurato il sindaco della Capitale, la convenzione verrà pubblicata sul sito internet del Mibac e tutti potranno prenderne visione» I passaggi più delicati verranno riesaminati. A cominciare dal progetto iniziale, quando Della Valle si propose come capofila di una cordata e mise sul piatto 2 milioni di euro contro i 34 che secondo i calcoli sarebbero serviti per il maquillage del monumento. Tra intermittenze varie e nuovi contatti si ritenne che sarebbe stata necessaria una gara di evidenza pubblica. Si arrivò così al bando e venne richiesto di indicare anche le ditte che avrebbero effettuato i lavori di restauro.
Quest'ultimo aspetto, tutt'altro che marginale, non piacque, a quanto pare, al signor Tod's che scelse di non partecipare, e la gara andò deserta. Quello che è successo dopo è cosa nota. Il patron della Fiorentina stipulò un accordo direttamente con il Commissario straordinario Roberto Cerchi. Poteva farlo? Sì. Ma «è singolare», sostiene Cerasoli «che il Commissario delegato abbia impegnato la Soprintendenza per un periodo che supera largamente il proprio mandato» La questione è venuta fuori in tutta evidenza quando si è scoperto che l'Anfiteatro Flavio non era più tra le disponibilità esclusive dei Beni culturali. Assurdo ma vero. O almeno pare. Se è vero che la Volkswagen per lanciare un nuovo modello ne aveva richiesto l'utilizzo ricevendo la risposta che il permesso andava richiesto all'imprenditore della Tod's. Come se ormai le chiavi le avesse lui, Diego Della Valle. La Uil ora chiede al neo ministro Galan di «rinegoziare l'accordo». Lancia frasi incendiarie, parla di uno «Stato che di fatto ha venduto il Colosseo». Parole che riportano tutti nell'arena. Non solo i politici ma anche il mancato sponsor Volkswagen contro la Tod's SpA. Scarpe contro auto.
Per il sottosegretario ai Beni culturali Francesco Giro siamo di fronte «ad una guerra dichiarata contro un'azienda italiana», la cui unica colpa è «aver compreso che legare il nome al monumento era strategico e redditizio». Ma è lo stesso Giro qualche rigo più giù a far capire che la procedura di assegnazione non si è completata. E che dunque sull'immagine del monumento più caro ai romani non è detta l'ultima parola, «l'intero Piano di comunicazione predisposto dalla Tod's» che dovrà ricevere entro 30 giorni «i rilievi scritti del commissario e del Ministero. Dubbi che si autoalimentano e dubbi espressi con riserva.
Per Salvatore Settis, ex presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali si tratta di «una situazione da correggere, anche «se non ho ancora visto i documenti». Particolare non da poco. Il destino del Colosseo sta a cuore a tutti. Tutelarne la conservazione o l'immagine? Il Pd chiede rassicurazioni al ministro Galan, si fa rilevare «che questo accordo ancora non esiste». Il segretario romano del partito Marco Miccoli «trema per il futuro» dell'Anfiteatro. Il senatore dell'Idv Stefano Pedica prima ringrazia Croppi «per aver sollevato il caso». Poi chiede al sindaco Alemanno di dimostrare «carte alla mano», «se c'è o meno un investimento reale da parte dell'imprenditore Della Valle». L'ultima frecciata è per Giro «diventato il portavoce del sindaco». Anche il capogruppo Udc in Campidoglio Alessandro Onorato chiede lumi. «Non vorremmo - dice - che il dottor Della Valle si trasformi da generoso mecenate in un imprenditore che fa l'affare della vita». E dopo la Volkswagen, anche Woody Allen potrebbe bussare alle cancellate del Colosseo per le riprese. A chi dovrà chiedere il permesso?
La Regina: «Il mecenatismo non può trasformarsi in spot»
Mauro Evangelisti
«A una grande azienda dovrebbe bastare il lustro conseguito dal finanziare dei restauri di un monumento come il Colosseo. Oltre non bisogna andare». Adriano La Regina è presidente dell'Istituto nazionale di Archeologia e storia dell'arte, in passato fu lo storico sovrintendente ai Beni archeologici della Capitale con un impegno caratterizzato dal rigore che gli valse il soprannome di "signor no". Che idea si è fatto del dibattito che si è innescato sull'intesa con Della Valle? «Voglio essere chiaro. Non conosco nel dettaglio il contenuto dell'intesa. Ma una cosa è certa: non è sbagliato di per sé il ruolo dei privati nel restauro di un monumento, ma le cose vanno fatte nei dovuti modi. In fondo anche papa Pio VII s'impegnò in questo senso, ma c'è una semplice targa a ricordarlo, nulla di più». Quale dovrebbe essere allora il punto di equilibrio nella collaborazione fra il Ministero dei Beni culturali e uno sponsor privato disponibile a spendere 25 milioni di euro per il restauro del Colosseo? «Dobbiamo partire da un dato: un intervento così importante, che ti fa conoscere in tutto il mondo, non deve avere altro in cambio se non il lustro. Comportarsi in modo differente significherebbe svilire il Colosseo e quindi l'importanza dell'investimento. Utilizzare in modo sbagliato la sua immagine ne intacca il valore che invece va tutelato. E' evidente. Per questo bisogna essere attenti. Non voglio criticare, però è come avviene per certe stupende canzoni del passato: sono molto belle, ma vengono utilizzate con insistenza negli spot pubblicitari e si sviliscono». Qual è il modello da seguire, visto che comunque i soldi dei privati sono necessari? «Guardiamo a ciò che fu fatto vent'anni fa, quando l'allora Banca di Roma s'impegnò, per i lavori al Colosseo, per venti miliardi. Se si tiene conto dell'inflazione, è una cifra più alta di quella di cui si parla oggi. Anzi, se non sbaglio, ci sono ancora tre milioni di euro da spendere. Bene, la banca in cambio non chiese nulla, fu un atto di liberalità, perché già è sufficiente il prestigio che deriva da una operazione di questo tipo. Al controllo di un monumento come il Colosseo non si può abdicare».
MONZA— Forse aveva ragione Cicciolina. Nel maggio del 2002, candidata alle Comunali di Monza nella lista dei Libertari, la mai dimenticata Ilona Staller propose un casino (accento sulla o) all’interno della Villa Reale, «per portare turismo e farla rivivere» . Forse aveva ragione lei. Di sicuro ce l’ha chi pensa che la reggia di Monza debba tornare a rinascere, facendo dimenticare le brutte immagini che potete vedere qui a fianco: calcinacci, stucchi sbrecciati, quadri bucati, arredi distrutti. Per dovere di cronaca, va detto che non tutti i 740 locali dell’ex residenza estiva dei Savoia sono così malmessi: il degrado è concentrato nel corpo centrale e in una delle due ali (la nord) che lo racchiudono. Sono zone proibite al pubblico, oscurate e tristi ma comunque esistenti: in sintesi, una vergogna che mortifica il bello e la cultura.
La situazione è questa, e bisogna correre ai ripari. Il problema è come farlo, chi deve farlo, con quali soldi: la discussione sta avvelenando il clima politico del capoluogo brianzolo. Monza è guidata da una giunta di centrodestra con sindaco leghista, ma il colore del potere c’entra poco: anche amministrazioni di segno opposto sono inciampate per decenni nell’ingombrante presenza del grande complesso all’interno del Parco cintato di 700 ettari, il più vasto d’Europa. Nessuna è mai riuscita nell’impresa di ridare piena dignità ambientale e culturale al luogo. Ogni monzese doc conosce la storia della Villa: sa che re Umberto I, proprio lì fuori, davanti alla società sportiva Forti e Liberi, si prese la revolverata fatale dall’anarchico Bresci.
Comincia in quel momento (siamo nel 1900) il lento declino che ha portato al degrado di oggi. E in quegli anni cominciano a circolare gli improbabili piani di recupero che qualcuno si è preso la briga di contare: almeno 180. Del casinò abbiamo riferito. Ma che dire del progetto che prevedeva un sanatorio per «militari smobilitati e tubercolotici» ? E come giudicare, culturalmente parlando, destinazioni tipo centro commerciale, autosilo, parco divertimenti, case di riposo per artisti in pensione? Idee tante e confuse, risultati pochi, e non soltanto per mancanza di fondi. Oggi Monza sta litigando su un progetto per metter mano alla Villa. Tutta no, costerebbe troppo: almeno 110 milioni di euro, secondo il progetto-quadro Carbonara (del 2004).
Ma un pezzetto sì, tanto per cominciare, con denari già stanziati e pronti nel piatto. Il percorso è stato questo: gli attuali proprietari (Comune di Monza, Regione Lombardia, Stato) più Milano che possiede una quota-Parco, hanno creato nel 2009 un Consorzio che ha affidato a Infrastrutture Lombarde — una spa di Regione Lombardia — la gestione del bando per i lavori. Al bando hanno risposto due società, che attendono (a giorni) il verdetto. Si tratta di restaurare il corpo centrale e una parte dell’ala nord, i più disastrati. L’importo dei lavori di questo primo lotto è di 23 milioni. e 400 mila euro, di cui 19 provenienti da fondi pubblici e 4 e mezzo a carico del privato, che avrà in concessione per 30 anni (a 30 mila euro di affitto annuo) gli spazi restaurati. Si progetta di riconvertire stanze piene di storia in ristorante, sale convegni, aree dedicate al commercio e all’artigianato.
Il Consorzio pubblico avrà a disposizione 36 giorni l’anno per organizzare eventi. Questo l’accordo, difeso dalla maggioranza e criticato duramente dall’opposizione, Pd in testa. La tesi della maggioranza: la riqualificazione ridarà lustro e bellezza alla Villa. La tesi dell’opposizione: i privati la trasformeranno in un orrendo luna park. Si è mossa anche la società civile: il comitato «La Villa Reale è anche mia» ha raccolto 11 mila firme di cittadini «che dicono no — argomenta la portavoce Bianca Montrasio— a un bando che di fatto privatizza un bene pubblico» . All’appello hanno aderito Oliviero Toscani e Renzo Piano, Gillo Dorfles e Walter Veltroni, Margherita Hack e Rita Levi Montalcini, moneta pesante da spendere in un incontro richiesto al presidente della Repubblica Napolitano.
«Il Comune— insiste Maurizio Oliva di Italia Nostra — ha affidato ai privati un ruolo ambiguo. Ha senso chiamarsi fuori dalla gestione di un bene del territorio?» . Anche il Fai è perplesso: «La logica di intervento a spezzatino premia i tempi del consenso politico ma è perdente sui tempi della cultura» . Replica Pietro Petraroia, ex sovrintendente, direttore del Consorzio Villa: «Ci sono confusione e disinformazione. Viene demonizzato il privato, senza sapere che restauro e gestione avverranno sotto lo stretto controllo della mano pubblica, in linea con le norme del Codice dei beni culturali e del paesaggio. La realtà è che la Villa Reale, per la prima volta dal 1861, è interessata da un progetto unitario e globale» . Il sindaco Marco Mariani parla di «opzione storica» e sostiene che le firme dei cittadini sono state «estorte con l’imbroglio» : «La realtà è una sola:— commenta sbrigativo e colorito — la Villa sta crollando e bisogna impedirlo. Chi non è d’accordo si comporta da pirla» .
La Camera di commercio di Monza e Brianza, presente nel Consorzio, snocciola numeri interessanti, tipo i 70 milioni di indotto all’anno che potrebbe offrire una Villa completamente restaurata, con la creazione di 800 nuovi posti di lavoro e il coinvolgimento di 300 imprese. Ma le cifre non spengono la polemica. Domani sera, consiglio comunale. Il fronte del no sosterrà anche la tesi di irregolarità nella procedura di assegnazione del bando (Mariani nega: «Ci sono tutte le firme che servono» ). Il fronte del sì ribadirà la validità del progetto. La sensazione è che la partita vivrà come minimo i tempi supplementari, con gli inevitabili ricorsi al Tar. Il traguardo del 2014, indicato nel progetto, sembra davvero un miraggio nel deserto. Al sole di primavera, la Villa Reale è di una bellezza sfolgorante: sembra una vecchia signora adagiata sul prato. In quasi due secoli e mezzo di vita ne ha viste tante, e ha persino retto all’urto di Cicciolina: è un luogo del cuore che merita dignità.
Quanto contino i beni culturali nell’universo del berlusconismo è racchiuso nello scatto di nervi con il quale il ministro Sando Bondi ai primi di dicembre 2010 si è rivolto agli oltre settecento firmatari di una petizione a Giorgio Napolitano promossa d molte associazioni (da Italia Nostra a quella che raccoglie funzionari e tecnici del ministero, dalla Bianchi Bandinelli all’Associazione nazionale archeologi, dall’Associazione Silvia Dell’Orso alla rete dei comitati di Alberto Asor Rosa). Erano storici dell’arte, italiani e stranieri, direttori di musei, archeologi, archivisti, architetti, soprintendenti. Chiedevano le dimissioni del ministro, denunciando l’abbandono di Pompei, dove si era appena registrato l’ennesimo crollo, quello della Schola Armaturarum, e ricordando la tragedia dell’Aquila che sempre di più a Pompei andava e va assimilandosi. Per Bondi quell’appello «è l’espressione di un mondo che nulla ha a che fare con la vera cultura».
E, fin qui, lo sfogo del ministro, che è anche coordinatore del Pdl, fedelissimo e incrollabile interprete del berlusconismo, traballante sulla sua poltrona nonostante la Camera abbia respinto la mozione di sfiducia presentata contro di lui, si può incasellare nel generico disprezzo verso le critiche e le iniziative connesse all’esercizio dell’intelletto. Poi Bondi rivendica per sé il vero merito di un ministro dei Beni e delle attività culturali, un merito che i settecento denigratori ai suoi occhi disconoscono: aver evitato le “lungaggini”, le chiama così, dei ritrovamenti archeologici che impedivano la costruzione delle metropolitane di Roma e Napoli, e di aver spedito un commissario incaricato di snellire le procedure. Parlava come se lui fosse il ministro dello Sviluppo economico o delle Infrastrutture e non quello, appunto, dei Beni e delle attività culturali. Nell’orizzonte politico del berlusconismo i beni culturali e il paesaggio non hanno alcun rilievo.
Sono vissuti come una condizione limitativa, dalla quale si riscattano se non sono troppo ingombranti e se assumono un prezzo, cioè se possono diventare merce, oggetto da mettere a reddito o sulla quale fare affari. Oppure da vendere, come tentò di fare Giulio Tremonti nel 2002 inventando la Patrimonio Spa, un fondo nel quale collocare il patrimonio dello Stato, compreso quello storico‐artistico, in vista di una sua alienazione (il progetto poi si accartocciò miseramente su se stesso). Presi in sé, in questa logica che deforma e caricaturizza anche il liberismo più estremo, i beni cultuali appartengono a quella che appare come una nebulosa concettuale di ardita definizione. Seguono la stessa sorte che tocca ai beni comuni. Sono soggetti a una sublimazione retorica, estetizzante, sono opere‐icona, elemento di decorazione d’ambiente per un summit internazionale e per una fiera campionaria, componente d’arredo per un video‐messaggio, ma non avendo definita collocazione proprietaria, sono derubricati a terra di nessuno.
Giacimenti e miniere
L’antecedente di questa concezione mercantile si può rintracciare, come altri pezzi del mosaico berlusconiano, a metà degli anni Ottanta, quando il ministro del Lavoro del governo di Bettino Craxi, Gianni De Michelis, coniò la formula dei “giacimenti culturali”. Perché lui e non il suo collega dei Beni culturali? Perché i beni culturali non erano l’obiettivo di un’iniziativa politica, ma lo strumento per politiche d’altro genere (un po’ di lavori affidati a imprese informatiche per fumosi progetti di catalogazione). Di un bene culturale non interessavano conservazione e fruizione, ma la possibile – parola del ministro – “convenienza economica”. Anche quella vicenda si chiuse senza sostanziosi effetti. Ma da allora l’espressione tratta dal glossario industriale, “giacimento”, e i concetti che con sé trascinava hanno navigato sopra e sotto il pelo delle maree, bordeggiato a destra e a sinistra, e più volte sono riemersi. Un paio d’anni fa, a fine 2008, sono stati diversamente e più esplicitamente formulati: i musei italiani, i siti archeologici, le collezioni di monete, le quadrerie, i paesaggi e poi le biblioteche, gli archivi e quel diffuso reticolo di palazzi e di centri storici, di monumenti insigni, ma anche di piazze, di ricercati allineamenti stradali, di proporzioni architettoniche, di portali, di ringhiere in ferro battuto… ‐ tutta questa roba messa insieme, intrecciata da cordoni storicamente e culturalmente leggibili, scenario fisico e non solo in cui si sono formate identità collettive, sarebbe «una miniera di petrolio a costo zero».
Che attende di esser messa a fruttare. Parola di Mario Resca, cavaliere del lavoro, manager poliedrico –dal Casinò di Campione a McDonald’s Italia ‐ consigliere d’amministrazione Mondadori, Eni, Finbieticola e di altre aziende, amico personale di Silvio Berlusconi, appena nominato direttore generale per la Valorizzazione del patrimonio a 164 mila euro l’anno, più un cospicuo staff e un palazzetto in affitto a Roma, in via dell’Umiltà, al costo di 400 mila euro l’anno (prima ospitava la Direzione per i Beni librari).
Il pensiero di Mario Resca
La designazione di Resca e le mansioni affidategli (molto inferiori rispetto a quelle che gli si voleva attribuire in un primo tempo: direttore dei musei, responsabile dei prestiti, organizzatore di mostre…) hanno assunto un aspetto simbolico dell’ideologia berlusconiana in materia. I beni culturali hanno molto più rilievo se soggetti a valorizzazione. Valorizzazione è parola equivoca, può voler dire molto o nulla, ma nel vocabolario di Resca è la parola che schiude l’edificio polveroso dei beni culturali (“polveroso” è aggettivo adoperato da Renato Brunetta a proposito dei musei), spalancando le porte all’aria fresca del mercato, del pubblico di visitatori, di privati smaniosi di investire in cultura, delle tecnologie informatiche e di riproduzione virtuale.
Non lui direttamente, ma una sua competente sostenitrice, l’onorevole Gabriella Carlucci, di fronte alle gravi perplessità avanzate da molti e al voto contrario unanimemente espresso dal Consiglio superiore dei Beni ulturali, allora presieduto da Salvatore Settis, poi sostituito da Sandro Bondi con Andrea Carandini, disse che le opposizioni volevano impedire «che in Italia la ricchezza artistica si trasform[asse] da costo insostenibile in risorsa virtuosa». Che un museo o un sito archeologico fossero, in atto o in potenza, “risorsa virtuosa” è un’idea che ha circolato a lungo, non solo nei varietà televisivi, a dispetto delle evidenti smentite provenienti da tutto il mondo, dove non c’è struttura che si finanzi con i proventi dei biglietti o che addirittura produca reddito.
Non il Louvre, tantomeno i grandi musei americani ‐ lo ha ricordato più volte Settis ‐ che sono tutti privati, ma non sono affatto orientati al profitto. Al contrario. Sono nutriti da cospicue donazioni a fondo perduto e da lasciti che godono di agevolazioni fiscali e che sono investiti sui mecati finanziari. Molti di essi sono gratuiti. Ma non occorre varcare l’oceano per rendersi conto di come funzioni il privato americano che si interessi alla cultura, bensì prendere un treno e scendere a Ercolano. Nella città vesuviana da molti anni “investe” il magnate David Packard, uno dei giganti dell’industria e della finanza internazionale, ma lo fa senza aspettarsi un soldo di utili e neanche ritorni di immagine. Finora ha speso 16 milioni. Ma non per restauri e per piazzare dovunque il suo logo, bensì, per esempio, per realizzare grondaie in tutti gli edifici e per recuperare il sistema fognario antico, che ora agevola lo smaltimento delle acque. Evitando che le infiltrazioni facciano sbriciolare i muri. Da questi equivoci politici e culturali discendono una serie di conseguenze. La prima è di ordine quantitativo. Nel carnet delle immagini da piazzare sui mercati del turismo internazionale – altro perno del pensiero di Resca e di Bondi –, nei book da esibire alle fiere delle agenzie di viaggio non ci può entrare tutto il patrimonio culturale.
Non si può vendere quel sistema che dai musei e dalle pale d’altare rimanda ai territori circostanti, ai paesaggi che li nutrono di immagini, e che identifica uno dei maggiori pregi del patrimonio italiano. Occorre concentrarsi su poche, riconoscibili icone, quelle celebrate dalle classifiche internazionali: Pompei, il Colosseo, Brera, il Polo museale veneziano e quello fiorentino…, tutti luoghi che producono incassi elevati e che altri incassi possono garantire. Emblema di questo atteggiamento, che seleziona una cultura di serie A e lascia in malora il resto, è la costosa campagna pubblicitaria che raffigurava, afferrati da gru o da elicotteri, il Colosseo, il David di Michelangelo e il Cenacolo di Leonardo. «Se non lo visitate ve lo portiamo via», recitava la didascalia sotto ognuna di queste scene un po’ macabre, ma incuranti del fatto che quei tre capolavori sono oberati di visitatori, e che per essi sono in vigore e si invocano forme sempre più rigorose di contingentamento del pubblico.
Per ottenere questo potenziamento dell’offerta – e qui veniamo alla conseguenza numero due – le soprintendenze non vengono considerate il soggetto più adeguato. Troppo poco attrezzate nel marketing culturale, poco disposte a immaginare il bene amministrato come fonte di reddito e di sfruttamento spettacolare. Le soprintendenze vengono lasciate deperire. La tutela perde la centralità. Al suo posto subentrano la promozione, gli effetti scenici, l’uso e l’abuso di palazzi e di musei per convention e matrimoni, l’esibizione del numero di visitatori, una serie di atteggiamenti che ben si coniugano con la frenetica industria delle mostre, dell’evento, fino alla perversione dell’one painting show, l’esibizione di un solo quadro, e che alimentano una mitologia del privato che farebbe meglio del pubblico.
La terza conseguenza è il ricorso ai commissariamenti, di cui Resca è responsabile solo in parte, che mirano a due obiettivi e che in qualche modo “privatizzano” la gestione del patrimonio: esautorare ulteriormente il sistema della tutela praticato dalle soprintendenze e nominare persone che garantiscono affidabilià e che adottano criteri discrezionali per consulenze e appalti, aggirando tutti i passaggi burocratici – passaggi che rallentano anche i pochi interventi che si possono compiere ordinariamente, senza commissari, e che si potrebbero snellire, ridurre, ma che invece sono usati come alibi per agire sempre in deroga. È il modello della Protezione civile.
Le soprintendenze al collasso
Il sistema pubblico della tutela è in condizioni di grande sofferenza. E qualcuno è indotto a presagire il suo smantellamento. Un po’ per consunzione. Un po’ perché vissuto come un insopportabile ricettacolo di vincoli, di impacci, di asfissianti consuetudini intellettuali. È un sistema che ha fatto scuola in Europa ed è servito come modello in altri paesi. Ma ora arranca nel fronteggiare una lottizzazione edilizia, la costruzione di una linea ad alta velocità o anche nell’esercitare quel minimo di manutenzione che serve a frenare il naturale degrado. Il sistema è fondato, dalla legge Rosadi del 1909 in poi, sulle soprintendenze, alle quali è affidata la responsabilità di vigilare su beni archeologici, storico‐artistici, architettonici, demo‐etno‐antropologici e sul paesaggio. In esse è stato selezionato per anni un personale che alle competenze tecnico‐scientifiche (in storia dell’arte e dell’architettura, in restauro, ma anche in ingegneria statica o in urbanistica) ha affiancato quelle amministrative e giuridiche e quelle per meglio valorizzare il patrimonio (al fine, come si legge nel Codice approvato nel 2004, del miglior «sviluppo della cultura», cioè in linea con l’articolo 9 della Costituzione).
E in taluni casi si sono toccate punte d’eccellenza, sebbene da più parti si sollecitino correttivi. La Lega ha scritto nel suo programma elettorale di voler smantellare le soprintendenze, viste come un’odiosa diramazione centralistica, e questo disegno viaggia parallelamente alla trasformazione in senso federalista dello Stato, che potrebbe portare la tutela sotto il controllo di Regioni e di Comuni (lo si è tentato per Roma), di organi politici, dunque. Ma non esiste un progetto organico in materia. Se ci fosse, si sente dire, sarebbe possibile discutere e non è detto che tutte le ragioni stiano dalla parte dell’attuale sistema. In assenza però di un chiaro disegno di riforma, contro Gian Carlo Caselli, Ilda Boccassini e altri magistrati (prende 60 mila euro l’anno); la signora Marinella Martella (30 mila euro), una ricca carriera a Publitalia, segretaria di Berlusconi dal 2001 al 2010; Francesca Ghedini, pagata a rimborso spese, archeologa, sorella di Niccolò, l’avvocato di Berlusconi.
Ma che cosa accade in altri paesi? Le differenze sono abissali, in una logica inversamente proporzionale al patrimonio custodito. Nel 2010 il bilancio italiano è fermo a 1,710 miliardi, contro i 4,150 della Svezia, i 3,250 della Finlandia, i 2,900 della Francia. In Italia si taglia, ma in Germania aumentano gli stanziamenti del 3,5 per cento e negli Stati Uniti il pacchetto di provvedimenti anti‐crisi varato da Barack Obama prevede non tantissimo, ma pur sempre 50 milioni di dollari in più. E le cifre del disastro si rincorrono. Per la sola attività di tutela nel 2005 erano disponibili 335 milioni, nel 2009 sono stati 179. Meno tutela significa più degrado, più abbandono. Musei che non aprono il pomeriggio, che tengono chiuse le sale perché senza custodi. Restauri che si rimandano. Biblioteche che disdicono abbonamenti, che riducono il prestito.
Archivi storici che chiudono. Il 90 per cento delle spese sostenute dalle soprintendenze archeologiche sono per la sola manutenzione: pulizie, impianti di condizionamento, recinzioni che si rompono, bagni che perdono. Una cifra irrisoria è destinata per i restauri, e ancora meno si può spendere per nuovi scavi, che ormai si avviano solo se ci sono soldi di fondazioni bancarie, di università oppure se si fanno buchi per una metropolitana, per l’alta velocità e persino per un parcheggio interrato. Molte soprintendenze attingono ai fondi speciali per ripianare debiti o pagare bollette. Il personale addetto alla tutela è invecchiato (età media 52 anni e dieci mesi), il turn‐over è fermo e quando entro il 2014 andranno in pensione le leve entrate negli anni Settanta e Ottanta non ci sarà chi potrà sostituirle. Gli archeologi sono 350, gli storici dell’arte 490 e gli architetti 500, ma ne servirebbero – soprattutto archeologi e architetti – fra 1000 e 1500. I concorsi sono impantanati: tormentatissimo l’ultimo per soprintendenti archeologi, che ha visto chiudere solo di recente il suo travagliato iter fra Tar e Consiglio di Stato.
A ciò si è aggiunta la norma varata dal ministro Renato Brunetta che anticipa la pensione per i dirigenti del pubblico impiego con 40 anni di contributi. E così, dopo l'uscita di scena di alcuni grandi nomi della tutela, da Adriano La Regina a Pietro Giovanni Guzzo, mandati via allo scadere dei 65 anni, nonostante fosse possibile trattenerli in servizio, è stata falcidiata un'intera generazione di soprintendenti, più o meno sui sessant'anni. Via molti direttori regionali. E sorprendenti alcune sostituzioni: in Sardegna al posto dell'architetto Elio Garzillo, che si è battuto contro l'assalto cementizio alla necropoli fenicia di Tuvixeddu, arriva Assunta Lorrai, che non è né architetto né storico dell'arte né archeologa e proviene dai ranghi amministrativi. In pensione anche Stefano De Caro, direttore generale dei Beni archeologici. A questo si aggiunga il carosello vorticoso dei trasferimenti, degli incarichi ad interim che sfibrerebbe qualunque amministrazione. E che va avanti da anni. A Lucca in cinque anni sono cambiati cinque soprintendenti.
Dopo il pensionamento di Guzzo, nell’agosto 2009, a Pompei si sono alternati quattro soprintendenti e uno di loro, Giuseppe Proietti, aveva l’interim di Roma, amministrava cioè le due aree archeologiche più grandi del paese. Francesco Scoppola si è alternato in sei diversi incarichi dalla fine del 2004 al 2009: da direttore nelle Marche, dove è stato allontanato per aver osato mettere un vincolo su tutto il pregiato promontorio del Cònero, è passato al Molise e ora è in Umbria. Molti trasferimenti sono decisi per punire funzionari troppo rigorosi. Alcuni vengono attuati in maniera improvvida, scatenando ricorsi amministrativi, sospensive del Tar e reintegri. E qui si tocca uno dei tasti dolenti: quello della tutela di territorio e paesaggio incalzati dall'incessante procedere del cemento (3 milioni e mezzo di appartamenti costruiti negli ultimi dieci anni).
Gli insediamenti invadono i litorali e le colline e spesso intaccano zone vincolate, per le quali è necessario il parere della soprintendenza che, con il nuovo Codice dei Beni culturali, avrebbe l'impegnativo compito di partecipare con le Regioni alla pianificazione del territorio: ma, come ha documentato un rapporto curato da Vezio De Lucia e Maria Pia Guermandi per conto di Italia Nostra, l’iniziativa è sostanzialmente fallita. In queste condizioni, si sente dire dappertutto, è un compito improbo per soprintendenti sul cui capo pende la spada di Damocle di un trasferimento o che sono minacciati da richieste risarcitorie contenere la forza esercitata dall'industria del mattone. Ormai si sono molto ridotti gli annullamenti di autorizzazioni a costruire in zone vincolate, a dispetto di chi continua a raffigurare le soprintendenze come delle conventicole di "signor no". Inoltre una circolare ha ammesso il ricorso gerarchico ai vertici del ministero contro un soprintendente solo nel caso in cui questi apponga un vincolo. Non per il contrario. Come a dire: chi tutela rischia, chi ama il quieto vivere no.
Arrivano i commissari
Ha cominciato Pompei. Sono seguite l’area archeologica romana e la Domus Aurea, il cantiere fiorentino per i Grandi Uffizi, quello milanese di Brera. Quindi L’Aquila. Ordinanze e procedure diverse. Un punto in comune sostanziale: mettere fuori gioco o ai margini la struttura delle soprintendenze e affidare poteri eccezionali a un commissario, talvolta proveniente dai ranghi dei Beni culturali, più frequentemente da altre amministrazioni, in primo luogo la Protezione civile. Il circuito si chiude. Anche la gestione del patrimonio culturale diventa l’occasione per sperimentare forme di governo strette nelle mani di pochissme persone, sostanzialmente legibus solutae, in grado di agire in deroga a tutte le procedure, di affidare appalti e consulenze senza gare, scansando i controlli e operando in una zona al riparo da ogni forma di verifica.
E quando queste arrivano ‐ come nel caso della Corte dei Conti per Pompei ‐ l’atto d’accusa è esplicito, ma giunge in ritardo. In altre occasioni interviene la Procura della Repubblica. L’arrivo dei commissari è spesso motivato da ragioni di emergenza o addirittura evocando imminenti calamità naturali. È accaduto per Pompei, nell’estate del 2008, quando in seguito a un articolo sul Corriere della Sera, il ministro Bondi nominò commissario Renato Profili, una carriera nella polizia e poi prefetto di Napoli. Dopo Profili, è stato designato un commissario che agli occhi del ministro aveva un curriculum più affidabile: Marcello Fiori, laurea in Lettere, vice capo di gabinetto al Comune di Roma con Rutelli, esperienza con il Giubileo, poi alla Protezione civile (L’Aquila, G8). Fiori ha lavorato con una soprintendente, Maria Rosaria Salvatore, che a Pompei si vedeva pochissimo.
Ha avuto mano libera. A fine mandato (luglio 2010) si sono tirate le somme. Degli 80 milioni che vantava di aver sbloccato, la metà erano stati già impegnati dal precedente commissario Profili in iniziative al 95 per cento di restauro e messa in sicuezza avviati dal soprintendente Guzzo e incagliati nelle procedure di gara. Per valorizzazione e promozione si erano spesi appena 400 mila euro. Restavano gli altri 40 milioni, che da Fiori sono stati impegnati in percentuali completamente rovesciate: solo 10 per la messa in sicurezza e 18 per valorizzazione. Fra le spese, viene molto contestata (oltre quella per il restauro del Teatro, dove si è lavorato persino con le ruspe, che sono bandite in un luogo dove si deve scavare con massima cautela) quella di 8 milioni prevista da un contratto con Wind per un impianto di videosorveglianza fatto di circa cento pali alti quattro metri che sfigurano l’area archeologica e che sono il doppione di un altro impianto, perfettamente funzionante e sistemato invece sulla cinta esterna.
Il contratto prevede anche il Wi‐fi e un nuovo portale web, pure questo doppione di uno già esistente. Ora Fiori è balzato su una poltrona di dirigente generale del ministero. Compenso: 166 mila euro l’anno. Nel febbraio del 2009 si decise il commissariamento di tutta l’area archeologica romana e di Ostia. Il motivo? Il pericolo di crolli sul colle del Palatino. Venne incaricato Guido Bertolaso, sollevando le proteste di tutti gli archeologi della Soprintendenza romana, i quali sostenevano che sarebbe stato più logico dotare di soldi e mezzi il loro ufficio per fare manutenzione e restauro, anziché convocare la Protezione civile, che con l’archeologia non aveva alcunché da spartire. Vice di Bertolaso, nel progetto originario, era l’assessore all’urbanistica del Comune di Roma, un soggetto istituzionale che con la soprintendenza deve avere un rapporto dialettico, senza confusioni di ruoli (poi Bertolaso non assunse l’impegno perché chiamato a L’Aquila).
A Brera, per snellire le procedure dei lavori di ristrutturazione, venne impegnato Resca. Dagli Uffizi, invece, si apre uno squarcio sulle vicende torbide messe a nudo dall’inchiesta della Procura fiorentina sulla “cricca” e sui rapporti con la Protezione civile. A rendere più veloce il cantiere fu chiamata Elisabetta Fabbri, architetta, molto legata a Salvo Nastasi. Nastasi è il potentissimo capo di gabinetto di Bondi, eminenza grigia del ministero, anzi il vero ministro, secondo alcuni, per la cui ascesa ai vertici del Collegio romano si è infilato un piccolo comma in un decreto legge per i rifiuti (194 mila euro il suo stipendio).
La Fabbri è stata rimossa da Bondi dopo che la magistratura fiorentina ha avviato l’inchiesta che nel febbraio del 2010 ha portato all’arresto di Angelo Balducci e di altri esponenti della “cricca”, fra i quali Mauro Della Giovampaola, soggetto attuatore proprio dei lavori per gli Uffizi. Direttore di quei lavori era stato nominato Riccardo Miccichè, ingegnere di Agrigento, che, si legge nel curriculum, aveva competenze «nella preparazione dei terreni per erbe e piante officinali», oltre che «nell’attività di parrucchiere per donna, uomo, bambino, di manicure e pedicure». Miccichè era stato anche collaboratore di cantiere, alla Maddalena, di Francesco Piermarini, il cognato di Bertolaso. Nastasi, trentasei anni, molto legato a Gianni Letta, è un professionista dei commissariamenti. Oltre a esserne il dominus al ministero è stato anche lui più volte commissario: per la ricostruzione del Petruzzelli di Bari, al Maggio Fiorentino e al San Carlo di Napoli.
Il suo nome compare in molte intercettazioni telefoniche disposte dalla Procura fiorentina, dalle quali risulta una grande familiarità con Balducci e gli altri della “cricca”. Un commissariamento sui generis è quello praticato a L’Aquila dopo il terremoto. Tutto il patrimonio culturale è stato affidato a Luciano Marchetti, ingegnere, dirigente in pensione del ministero al quale, però, non doveva per nulla rispondere, essendo il suo unico interlocutore la Protezione civile, e dunque Bertolaso. Le conseguenze? Le soprintendenze territoriali e la direzione regionale sono state messe fuori gioco, creando una quantità di conflitti. Ma esemplare è anche la vicenda di Giuseppe Basile, ex direttore dell’Istituto superiore per la conservazione e il restauro, che ha lavorato dopo i terremoti nel Belice, in Friuli e in Umbria, alla Basilica di San Francesco di Assisi. È uno dei nostri migliori restauratori. Ha offerto le sue competenze a Marchetti, ma non ha mai neanche ricevuto una risposta.
Nel frattempo le macerie di chiese e palazzi aquilani giacevano indistinte ‐ fregi, cornici, capitelli mischiati a polvere e calcinacci ‐ sotto la pioggia e la neve, preda di chiunque. In una posizione marginale è stato messo lo stesso Istituto fondato da Cesare Brandi nel 1939, che per altro nel marzo del 2010 è stato sfrattato dalla storica sede di piazza san Francesco di Paola a Roma, perché il ministero non è riuscito a trovare i soldi per adeguare il canone di affitto. Come quella di Basile, a nulla sono valse, sempre a L’Aquila, le offerte di collaborazione da parte degli storici dell’arte Valentino Pace e Fabio Redi, dei docenti di restauro Giovanni Carbonara e Marina Righetti e persino di Ferdinando Bologna, aquilano, anche lui storico dell’arte, maestro di generazioni di studiosi, fra gli allievi più prossimi di Roberto Longhi.
Per il dopo terremoto si è puntato su altro. Un po’ come sul progetto Case: invece che su una pianificazione corretta, che prevedeva di riparare subito gli edifici danneggiati, ma non inagibili, e di avviare il recupero del centro storico, si sono piazzati 19 insediamenti, volgarmente detti new town, che ospitano appena un terzo dei senzatetto aquilani, lasciando a tutt’oggi decine di migliaia di persone in sistemazioni precarie. Il patrimonio storico‐artistico della città è stato a stento messo in sicurezza, di progetti di restauro non si ha notizia, la sbandierata “lista di nozze” (un elenco di monumenti affidati alle cure dei partecipanti al G8) è stata molto più che un fiasco.
Ora il centro storico, di cui le chiese e i palazzi sono parte, ma che è integralmente un bene culturale, è chiuso, transennato, vigilato dalle camionette dell’esercito, stretto dai tubi dei puntellamenti e abitato da fantasmi (l’unico che ci vive è Raffaele Colapietra, ottant’anni, storico, professore universitario, che ha rifiutato l’ordine di sgombero). L’Aquila come Pompei, hanno detto anche i membri del Consiglio superiore dei Beni culturali. L’Aquila come prefigurazione di una città che non è più una città. E di cui il patrimonio culturale è elemento essenziale perché la città torni a essere il luogo in cui si forma e si riconosce una comunità