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MILANO — Crescono perfino gli alberi, sulla torre del castello di Ludovico il Moro a Cusago. Ma da Milano, la «capitale morale d'Italia» che sta a un tiro di schioppo, non lo vedono, il degrado che sta sgretolando l'antica e maestosa residenza. Niente «danèe», niente restauro. Ha tenuto duro mezzo millennio, tenga duro ancora finché non arriverà (auguri) la ripresa...

C'è chi dirà che è tutta «colpa» dell'abbondanza di opere d'arte, di monumenti, di borghi medievali di cui il nostro Paese può menare vanto.

Certo, tanti Paesi se lo sognano, un castello come quello, edificato da Bernabò Visconti tra il 1360 e il 1369, sui resti di una fortificazione longobarda, a una dozzina di chilometri in linea d'aria da piazza Duomo. E se lo avessero lo curerebbero con amore. Ma come possiamo, noi italiani, badare a tutte le nostre ricchezze? Lo diceva già, diversi anni fa, Alberto Ronchey ricordando, nel libro-intervista «Fattore R» con Pierluigi Battista, che da altre parti è più facile gestire tre o quattro grandi musei e una decina di città d'arte. Solo da noi si possono «trovare tante opere d'arte, una sedimentazione stratificata per ventotto secoli. Dall'VIII secolo a. C. ai tempi nostri, non si ricorda un'era che non abbia lasciato la propria eredità in Italia: Etruschi, Greci, Romani, Bizantini, Arabi, Normanno-Svevi, Medioevo comunale, Rinascimento, Barocco, Neoclassicismo fino al Modernismo». È un patrimonio straordinario, ma anche un problema.

Ma non è uno dei tanti, quel castello. Come ricorda nel libro (in via di pubblicazione) Castelli fratelli Simona Borgatti, che da anni si batte con un comitato di volontari per salvarlo, l'edificio è un pezzo della storia milanese. Fin da quando fu costruito perché i Visconti e poi gli Sforza potessero godere di quella splendida «riserva di caccia distesa su un territorio che andava da Milano a Vigevano tra boschi, risorgive e fontanili». Un paradiso terrestre per raggiungere il quale Filippo Maria, diventato troppo grasso per andare a cavallo a causa degli eccessi a tavola, «si fece scavare un ampio canale, il "Naviglietto", derivandolo dal Naviglio Grande all'altezza di Gaggiano. Su questo canale la corte poteva agevolmente arrivare a Cusago dalle altre sedi ducali, come Abbiategrasso». In barca.

Scelto come rifugio durante la peste del 1398 e poi adibito a lazzaretto, il castello «tornò a nuovo splendore nel 1480 con Ludovico Sforza detto il Moro, che diede a Cusaghino l'aspetto di "una villa di delizie", una residenza dove potersi "mettere in libertà" e dimenticare per un momento gli affanni legati al governo del Ducato per dedicarsi alle feste, alla caccia, alla pesca e alle amanti».

Donato da Ludovico alla moglie Beatrice d'Este e passato successivamente a Lucia Marliani, una delle favorite del Moro, il castello finì più tardi nelle mani del conte Massimiliano Stampa. E giù giù, di eredità in eredità, nel patrimonio dei Casati-Stampa. Per essere acquistato infine nel 1973, insieme con la villa di Arcore, dall'astro nascente dell'edilizia milanese, Silvio Berlusconi.

Di secolo in secolo, ormai, era diventato una cascina abitata da una trentina di famiglie: «L'imponente portale di legno, ormai in decadenza, immetteva in un ingresso nel quale razzolavano le galline. Cumuli di fieno venivano accatastati sotto le volte a crociera del portico un tempo affrescato e il fattore, stanco, si tergeva il sudore appoggiandosi a una colonna di marmo. Dai locali del piano terra adibiti a trattoria e recanti i simboli dei duchi di Milano, usciva un profumino di pesce fritto».

«Gli attrezzi agricoli riposavano dove una volta trovavano ricovero i cavalli di Ludovico (...) Le donne rimestavano la polenta nel paiolo posto sulle braci dei camini decorati con l'impresa dei "tizzoni e delle secchie" e lo stemma visconteo: gli stessi dove cinquecento anni prima solerti ancelle alimentavano il fuoco per asciugare abiti di broccati e damaschi bagnati dalla pioggia di un improvviso temporale...».

Il Cavaliere, più che al castello, era interessato ai terreni. E al «marchio». Prova ne sia il nome del quartiere tirato su dalla Edilnord su alcuni ettari della tenuta: «Milano Visconti». Qualche anno di attesa per capire bene cosa si poteva fare del nobile ma ingombrante e malridotto maniero, poi la società berlusconiana si decise. E nel 2003 vendette tutto a «Il Castello di Cusago s.r.l.», una cordata di imprenditori.

Sulle prime, racconta Simona Borgatti, «la società si presentò con molta coscienza ed entusiasmo alla conferenza tenutasi al Museo del Duomo dall'Istituto Italiano dei Castelli». Tanto più che, quasi ignoto a tanti milanesi, la residenza fortificata è tra i «Luoghi del cuore» del Fai, il Fondo ambiente italiano.

L'ipotesi era quella di fare del castello una scuola di floro-vivaismo legata al Parco Sud. Ma poi, di mese in mese, di anno in anno, ogni progetto finì per rivelarsi complicato, costoso, impossibile. Finché la «Castello di Cusago s.r.l.» decise di arrendersi. E di mettere tutto in vendita. È il 2008.

Ecco l'acquirente: l'immobiliare «Kreiamo s.r.l» di Cesano Boscone. Annunci a effetto: «Emozioneremo Cusago con il nostro progetto di recupero». L'idea: destinare l'immobile a un uso misto, pubblico e privato. Investimento: quattro e due milioni di euro. Ma prima ancora che la Soprintendenza possa dire la sua, salta tutto: gli amministratori della società vengono arrestati nel quadro dell'inchiesta «Parco Sud» sulle infiltrazioni nel sud-ovest milanese della 'ndrangheta.

«Noi non possiamo fare niente — dice il sindaco Daniela Pallazzoli —. Le casse del Comune non sono assolutamente in grado di farsi carico dell'acquisto e del restauro. E di questi tempi di magra mi pare difficile che se ne occupino lo Stato o la Regione. L'unica speranza è che possa passare l'idea di coinvolgere i privati e far rivivere il castello facendone ad esempio una Università del gusto. Un centro congressi. Una foresteria di eccellenza a tre chilometri dall'Expo 2015». Il guaio è, spiega, che «non si possono affrontare questi problemi sulla base di un Regio Decreto del 1912. Per capirci, ogni ipotesi alberghiera è legata all'obbligo di mettere gli impianti a norma, fare i bagni, aprire nuove finestre... Noi ci teniamo al pieno rispetto del castello, però...».

Anche alla Soprintendenza lo sanno. Cosa fare? Lasciare che il castello in mano ai privati e oggi impossibile da comprare con i soldi pubblici venga divorato dal degrado? O consentire che, come male minore, sia parzialmente modificato da interventi che consentano ai proprietari di rientrare dagli investimenti? L'architetto Alberto Artioli, soprintendente per i Beni architettonici e paesaggistici, sospira: «È un problema col quale abbiamo a che fare tutti i giorni. Ma non è vero che siamo barricati nella trincea del "non si tocca niente". Se c'è la buona volontà di trovare una soluzione saggia, noi siamo qua. Basta fare le cose con buon senso...».

Presto, però. Occorre fare presto. Un nuovo inverno si avvicina. La vegetazione, dopo avere sbranato le impalcature tirate su anni fa per la messa in sicurezza, sta attaccando i muri. Tra le capriate dei tetti si sono aperti squarci che, con le piogge e la neve, sono destinati a spalancarsi e crollare. Le bellissime finestre sono ogni giorno più sgangherate. Le erbacce hanno ormai attaccato non solo il cortile ma la pavimentazione interna. E gli alberi sulla torretta continuano a crescere, crescere, crescere...

postilla

Chi ha partecipato alla Scuola Estiva di Pianificazione di Eddyburg forse si ricorda la bella relazione di Serena Righini su Milano alla conquista della Cintura Nera, dedicata agli sviluppi del sistema delle Tangenziali e a come queste sottendano un modello di crescita metropolitana disperso e privo di attenzione agli equilibri territoriali. Quello dell’area di Cusago è forse uno dei casi più evidenti di come cresce nel tempo (una generazione, circa) il processo: territorio agricolo fra l’attuale tracciato della Tangenziale Ovest e il margine meridionale del Parco Sud ai confini del Parco Ticino, si è visto via via assimilare quasi senza soluzione di continuità alla città compatta milanese, in una specie di partita a scacchi intricata. Se ne leggono però chiaramente i segni percorrendo una qualunque delle strada in uscita da Milano, che sia la provinciale per Abbiategrasso, l’ex poderale di Assiano (raccontata da Biondillo e Monina nel loro Tangenziali), o quel capolavoro di trascuratezza che è l’area industriale di Settimo, culminante nell’office park suburbano Italtel. Il degrado del castello è solo la punta di un iceberg, segno di crollo dell’abitabilità e logica, in un territorio che continua a buttare va la sua vera ricchezza: speriamo che l’Expo 2015, nel nuovo percorso che pare oggi imboccato, riesca almeno a fermare il peggio, valorizzando appunto le aree agricole di cintura per quello che sono, e ponendo quindi anche le premesse ovvie per far crescere alberi nel posto giusto, e non sul tetto del Castello (f.b.)

Silvio Berlusconi non si fida di quello che non può comprare: per questo, quando sente parlare di cultura, mette mano al portafogli, cioè a Mediaset, a Publitalia, o comunque a qualcuno dei suoi stipendiati. Il penultimo ministro della Cultura, Sandro Bondi, era stato il suo segretario particolare; l’attuale – quel Giancarlo Galan il cui avvento aveva suscitato qualche speranza (o piuttosto illusione) – deve la sua carriera politica all’esser stato direttore centrale di Publitalia.

È questa la chiave per capire perché proprio Galan ha nominato Giulio Malgara alla presidenza della Biennale di Venezia. Questa mossa, infatti, non è solo l’ennesima epifania della concezione dinastico-patrimoniale dello Stato in base alla quale Berlusconi nomina deputati o ministri i suoi avvocati, i suoi dipendenti, i suoi testimoni, i suoi lacchè o le sue fornitrici di patonza. No: mettere l’inventore dell’Auditel (vale a dire il marchingegno che ha sradicato dal sistema televisivo italiano financo il concetto di qualità) a dirigere la massima manifestazione culturale del Paese è uno sbrego di immenso valore simbolico. Equivale a neutralizzare la cultura, sancendo una volta per tutte che essa è un prodotto, una merce come un’altra: e che conta solo a quanta gente la vendi e quanti quattrini ci tiri su.

E non è una mossa isolata, bensì lo ‘scacco al re’ di una partita che dura da un pezzo. Chi dirige, per esempio, la Triennale di Milano? L’ex direttore artistico di Canale 5 ed ex responsabile della comunicazione Fininvest, Davide Rampello. Chi è stato nominato da Galan al vertice di Cinecittà-Istituto Luce? Rodrigo Cipriani, direttore di Media digit (la sezione di Mediaset che si occupa dei new media) ed ex Publitalia. E chi dirige la Valorizzazione del patrimonio artistico italiano? Il consigliere di amministrazione della Mondadori Mario Resca.

Quest’ultimo, per esempio, sta cercando (in perfetta buona fede) di mettere in piedi un marketing fatto di eventi spettacolari, mostre a getto continuo, ‘noleggi’ di opere a privati e spedizioni di ‘capolavori’ all’estero. L’idea è quella di trasformare Caravaggio o Raffaello in commessi viaggiatori di un’Italia a sua volta trasformata in Disneyland, a cui dovrebbero portare vantaggi di immagine ed utili economici (secondo una petizione di principio, questa sì, puramente ideologica e non suffragata da un mezzo numero reale). Così la ‘valorizzazione’ diventa un lavoro da pierre o da piazzisti, completamente indifferenti alla funzione e all’identità stessa del prodotto che vendono. Nessuno sembra ricordare che la Costituzione italiana tutela il patrimonio artistico perché esso produca cultura, cittadinanza consapevole, senso critico, educazione e crescita morale: e che, se lo si trasforma in una merce da vendere o in un intrattenimento di tipo televisivo, non solo lo si danneggia materialmente, ma lo si rende completamente inerte, inutile, perfino dannoso.

Ma forse il fine è proprio questo: smantellare, dopo la scuola e l’università, anche il sistema dell’arte e della cultura – pericoloso vivaio di dissenso e pensiero libero –, sottraendolo alle detestate e inaffidabili ‘persone di cultura’ e consegnandolo invece a fidati pubblicitari, dipendenti delle aziende del Presidente del Consiglio. E in tutto questo si riesce ad avvertire – quasi fisicamente – il rancore, la diffidenza, la paura verso la libertà della cultura. Quella cultura, a cui, prima o poi, bisognava pur riuscire a imporre un auditel, un guinzaglio, una museruola.

Caro Eddyburg, venerdì 7 ottobre, dalle ore 12.00 alle ore 19.00 “Sacile Partecipata e Sostenibile” ha indetto in Via Cartiera Vecchia un presidio composto da esponenti della suddetta lista civica e di associazioni ambientaliste, così come da tutti i cittadini che vorranno passare e partecipare al nostro pacifico appuntamento.

Lo scopo è quello di manifestare la nostra gratitudine al Sovrintendente ai Beni Architettonici e Paesaggistici del Friuli Venezia Giulia, arch. Luca Rinaldi, per la decisione dello stesso di effettuare di persona un sopralluogo nella zona della Mineraria Sacilese SpA al fine di verificare più precisamente nel merito le istanze prodotte dall’attuale Amministrazione di Sacile favorevole all’avvio della prevista lottizzazione successiva al trasferimento della società.

Riteniamo che la presenza del Sovrintendente sia una preziosa dimostrazione di chi compie con convinzione e competenza il suo dovere di vigilare sul territorio inteso come bene pubblico. Con i tagli subiti dal Ministero ai Beni Culturali (un miliardo di euro in tre anni) pare essere più un Ministero agli sgoccioli, o quanto meno allo sbando. Avere nel territorio Uffici che, sebbene sguarniti di tutto, ancora lavorano con tanta accuratezza, merita come minimo una attestazione di stima. Trattandosi poi della previsione di una tale devastante edificazione si trasforma anche in una grande e probabilmente ultima speranza per molti sacilesi.

Una buona notizia, e insieme il segno del disastro nel quale viviamo, e la speranza per un futuro possibile. La buona notizia: che il funzionario pubblico, appartenente a un’amministrazione devastata dal privatismo arrabbiato dei padroni di oggi, voglia comprendere con i suoi occhi le ragioni di una protesta per prendere i provvedimenti necessari. Il segno del disastro: che questo atto assomigli a un gesto eccezionale, anziché il comportamento normale di un pezzo dello stato. La speranza per un futuro possibile: la presenza attiva e combattiva di un gruppo di cittadini come il vostro, che ha “osato” fare politica nel modo giusto. Cioè, darsi da fare per difendere gli interessi e i beni comuni delle donne e degli uomini di oggi e di domani contro i saccheggiatori. Auguri per il vostro presidio. Chi volesse approfondire la questione di merito, può rivolgersi qui: Sacile partecipata e sostenibile, e conoscere e sostenere così anche il vostro lavoro.

Prima ancora di apparire in Italia (dove uscirà l’8 ottobre per le Edizioni Skira), L’inverno della cultura di Jean Clair si è imposto all’attenzione pubblica, chiamando in causa il mondo della critica. La sua denunzia della deriva dell’arte contemporanea, ridotta a mero oggetto di speculazione nelle mani di pochi mercanti, non può, in effetti, lasciare indifferenti. Non solo perché viene da un critico insigne, membro dell’Académie française ma anche da uomo del mestiere, già direttore del Museo Picasso e commissario di mostre celebri come quelle monografiche consacrate a Duchamp o a Balthus, o quelle tematiche sulla "Malinconia" o su "Delitto e castigo". La riflessione di Jean Clair non si limita d’altronde ai mali che affliggono il mondo dell’arte.

È, più in generale, la perdita di memoria storica di cui soffre l’Europa, e la crisi di identità che ne consegue, che è al centro delle sue preoccupazioni.

Signor Jean Clair, lei si definisce un reazionario; cosa intende dire con questo?

«Il reazionario è colui che reagisce, obbedendo in questo a una legge quasi generale. In fisica, il mondo è regolato dalla coppia azione/reazione. Nel mondo dell’arte, la vita delle forme è un susseguirsi di azioni e reazioni, il Rinascimento reagisce al gotico, il neo-classicismo al Romanticismo, ecc. Nell’antropologia freudiana, la reazione, l’anamnesi, "il ritorno indietro", è un fenomeno di difesa e di salvezza. Ma senza dubbio mai come ora si è sentita l’urgenza di questa "reazione", di questo ritorno, di questa anamnesi. La celebre formula di Marx: "i filosofi si sono limitati a interpretare in modi diversi il mondo; quel che importa è trasformarlo" è ormai superata. Ciò che oggi importa non è più cambiare il mondo ma conservarlo. Ma un simile sforzo suppone una reazione proporzionale a questo sforzo, senza dubbio smisurato, di salvaguardia. Non sono sicuro che il mondo, almeno quello occidentale moderno, sia ancora capace di provocarla, vista la nostra convinzione della ineluttabilità del progresso, della crescita indefinita, del senso della Storia e via dicendo».

Qual è il posto dell’arte in questa diagnosi?

«L’arte funge da sismografo, da rivelatore estremamente sensibile, soprattutto in quegli empori-depositi che sono i musei. Che senso ha questo accumulo prodigioso di ricchezze? A chi sono destinate e a qual fine? L’arte è sempre stata al servizio di una comunità o di una causa: favorire la caccia presso gli uomini preistorici, conciliarsi la benevolenza delle potenze infere, rappresentare la bontà di un dio, incarnare il progresso dei Lumi, annunciare, accompagnare, illustrare le utopie politiche degli anni ‘30 o, infine, esaltare, come avviene oggi, l’onnipotenza dell’artista: un artista rimasto solo, senza nessuno a cui dovere rendere conto, e che gode del singolare privilegio dell’impunità quali che siano le stupidaggini o le provocazioni senza precedenti delle sue "opere". L’arte per l’arte è al servizio di chi e di che cosa? Quali Lumi e quale Universale possiamo portare noi francesi con la creazione, sotto il patronato del Louvre, di un Museo a Abou Dhabi, nelle sabbie degli Emirati? L’arte ha un senso, una funzione, una destinazione, un pubblico. Un’arte che abbia in se stessa la propria finalità è una buffonata. O, peggio ancora, l’obbiettivo cinico di un mercato di traders».

Qual è stata, a suo giudizio, la frattura irrimediabile, il punto di non ritorno da cui ha preso l’avvio la deriva dell’arte contemporanea?

«Il 1968, l’avvento di una società caratterizzata dall’efebismo e l’edonismo e in cui – a suo dire – non esiste più il male. È anche l’epoca del Women’s Lib, delle manifestazioni contro la guerra del Viet Nam. L’arte non ha più finalità, diventa, con gli happening, le azioni, le installazioni, effimera, transitoria, autodistruttiva. È il momento che Robert Klein chiamerà "L’eclissi dell’opera d’arte"».

Lei dedica pagine di grande interesse alla riproduzione perfetta delle opere d’arte raggiunta dalla tecnologia moderna, in contrasto con la celebre tesi di Walter Benjamin sulla perdita dell’"aura" in un’epoca di riproducibilità delle immagini.

Preferisco un’opera che ritrova la sua destinazione e il suo senso, fosse anche una copia, a un’opera originale dislocata nel vacuum semantico e spirituale di un museo. Benjamin dimenticava che, assieme a quelle popolari, tutte le incisioni da Dürer a Goya, hanno permesso di inondare l’Europa di "repliche" magnifiche. Nel Settecento molte opere d’arte religiosa erano copie originali celebri, magari fatte semplicemente di cartapesta. Solo il culto della firma inimitabile, della mano impareggiabile, del genio unico - tutti fantasmi generati dal culto sfrenato dell’ego romantico - hanno potuto far credere che un’opera non poteva essere riprodotta. In compenso, la delocalizzazione delle opere senza tener conto della loro funzione, com’è avvenuto per la Madonna del Parto di Piero della Francesca a Monterchi, staccata dalla cappella d’origine per essere esposta nella scuola vicina, più adatta ad accogliere folle di visitatori, mi pare uno snaturamento. È quanto avviene oggi con le opere nei musei: il loro accatastamento mi ricorda i cabinets de curiosités, i bric à brac surrealisti, quali che siano i criteri – cronologici, tematici, di paese, di tecniche, di materiali, ecc. – in base ai quali si pretende di ordinarli».

Ne L’inverno della cultura, così come nel precedente Dialogues des morts, lei ribadisce l’esistenza di un legame imprescindibile tra l’arte e il sacro e insiste sulla necessità dell’artista di continuare ad intessere "il filo di un dialogo continuo con il trascendente", sul fatto che l’arte è "un capitale spirituale". Che significato dare oggi a queste parole?

«Tento di descrivere il passaggio dalla "cultura del culto" – quando l’arte, con la musica, la pittura, l’architettura serviva a celebrare Dio nelle cerimonie religiose – al "culto della cultura", una sorta di religione laica e repubblicana che pretende di farci vedere nell’arte la più alta realizzazione del genio umano messo al suo proprio servizio, quello che Nietzsche e i tedeschi hanno chiamato lo Selbstvergötterung, una sorta di auto-deificazione dell’uomo. Tre tappe e, a mio giudizio, tre gradini discendenti: il culto, ossia l’arte e la fede, la cultura, ossia l’arte e l’umanesimo, il culturale, ossia l’arte e il suo mercato».

Lei afferma che "non c’è mai stata cultura senza religione e che quella laica viaggia nel deserto", eppure sembra fare sua la concezione moderna del museo, nato con la Rivoluzione, dove le opere sono esposte secondo una gerarchia dettata dal divenire storico. Non era questa una espressione del tutto laica della cultura?

«Confesso il mio imbarazzo. Il museo come collezione pubblica aperta a tutti è stato creato nel 1793 nel solco della Rivoluzione. Era inizialmente un modo di salvaguardare il patrimonio della Nazione dalle degradazioni, i saccheggi, i vandalismi che accompagnano tutte le rivoluzioni. Era anche il mezzo, per il popolo vincitore, di appropriarsi del passato, della storia, dei suoi testimoni e, grazie al museo e ai suoi tesori, di diventarne in qualche modo il legittimo depositario. Il museo custodiva il patrimonio della Nazione e al tempo stesso serviva da strumento per trasmetterne a tutti la memoria, vale a dire la storia su cui fondare l’identità collettiva. Bisogna però riconoscere che, tre secoli dopo, questo ideale non è stato realizzato. Dei milioni di curiosi rumorosi e indifferenti circolano nelle sale, senza riguardo, senza rispetto per la sicurezza delle opere, ma ugualmente senza più essere in grado di capire, di leggere ciò che hanno sotto gli occhi, che è la loro storia, il loro passato, la loro fede, le loro lotte. Il museo assomiglia ormai a un parco giochi, stile Disneyland. È una cosa derisoria».

Nonostante tutto questo, lei ha espresso più volte il desiderio di potere creare un museo dell’arte europea, stigmatizzando il fallimento di quello di Bruxelles che porta questo nome.

«Sarebbe, in effetti, una grande occasione per restituire al museo, e all’arte che esso racchiude, il suo ideale e il suo significato. Penso a un museo della storia d’Europa, che non solo riunisca una serie di capolavori provenienti da tutti i musei d’Europa a testimoniare l’unicità del suo genio, ma che si sforzi soprattutto di rintracciare la storia del nostro continente, le sue origini, la cristianizzazione, le guerre di religione e quelle di conquista, le imprese coloniali, la nascita dei totalitarismi, l’antisemitismo, i campi di sterminio… Il Deutsches Museum a Berlino ha già tentato di mettere in scena museograficamente una storia della Germania vista attraverso la storia dei suoi vicini europei. È un’iniziativa coraggiosa e spesso sconvolgente. Ma bisognerebbe fare lo stesso su scala europea, perché l’Europa del passato aveva una unità intellettuale e spirituale fatta di circolazione di idee, dove gli scambi letterari, filosofici, artistici erano costanti, immediati, intensi. Ma l’Europa di Bruxelles è un mostro acefalo, un animale senza cervello. Il museo, in quanto entità materiale che espone delle opere aventi l’autorità di capolavori, una autorità che non consenta replica, potrebbe essere quella testa, quel capo superbo e generoso che ci restituirebbe il piacere di guardare, di sentire, di capire e di amare la nostra eredità».

Saldi di fine stagione per paesaggio e patrimonio artistico. Nell´Italia devastata dal berlusconismo e dal secessionismo leghista, impoverite non sono solo le nuove generazioni, condannate alla disoccupazione o al precariato perpetuo. Impoverito è lo Stato, cioè noi tutti, borseggiati da chi governa il Paese svuotando il nostro portafoglio proprietario di cittadini e i valori di una Costituzione fondata sul bene comune. Questa erosione del patrimonio e dei principi della Repubblica ha preso la forma della rapina. Rapina, letteralmente, a mano armata: armata dei poteri residui dello Stato, cinicamente usati per smontare lo Stato e spartirsi il bottino.

Nel grande (e irrealizzato) progetto che si incarnò nella Costituzione del 1948, l´idea di un´Italia giusta, libera e democratica s´impernia sulla condivisione di beni comuni, intesi come proprietà di tutti i cittadini e garanzia di attuabilità del disegno costituzionale. Tali sono prima di tutto i beni del Demanio, elemento costitutivo di uno Stato sovrano; tali sono i beni pubblici indirizzati a scopo di utilità sociale (per esempio per scuole, ospedali, musei); tale è l´ambiente e il paesaggio, scenario della nostra vita individuale e sociale e strumento di salute fisica e mentale (o di patologie); tale è il patrimonio artistico come memoria storica. Di qui l´articolo 9 della Costituzione, secondo cui «la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione», e deve farlo in modo identico dalle Alpi alla Sicilia. Essenziale alla legalità repubblicana, questo principio si lega ai «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2), al «pieno sviluppo della personalità umana» (art. 3), alla tutela della salute «come fondamentale diritto dell´individuo e interesse della collettività» (art. 32). Il bene comune non comprime, ma limita i diritti di privati e imprese: alla proprietà privata deve essere «assicurata la funzione sociale» (art. 42), la libertà d´impresa «non può svolgersi in contrasto con l´utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (art. 41). Contro questa architettura di valori è in atto un feroce attacco. Smontando l´art. 41 si vuole una libertà d´impresa senza limiti: e dunque anche in contrasto con l´utilità sociale, anche se calpesta sicurezza, libertà, dignità umana. L´indegna farsa del "federalismo demaniale" già devasta l´orizzonte dei beni comuni.

Un esempio, Agrigento. Atto I: il 4 agosto la Regione Sicilia annuncia che lo Stato ha ceduto alla Regione la Valle dei Templi, che diviene «patrimonio dei siciliani». Atto II: il 31 agosto il sindaco mette all´asta la Valle dei Templi, con l´idea di «cederla ai privati, affittarla a grandi multinazionali, a griffe internazionali». Ma di chi erano i templi di Agrigento prima della "legittima restituzione ai siciliani"? Erano di tutti gli italiani, dai siciliani ai veneti; come le Dolomiti (ufficialmente valutate 866.294 euro) erano proprietà dei veneti, ma anche dei siciliani. Lo spezzatino dei beni pubblici, ridistribuiti su base regionale o comunale per favorire il secessionismo leghista, svuota il portafoglio proprietario degli italiani, ci rende tutti più poveri.

Massimo simbolo della cultura italiana della tutela è l´ordine del Real Patrimonio di Sicilia del 21 agosto 1745, che simultaneamente impose la conservazione delle antichità di Taormina e dei boschi del Carpinetto ai piedi dell´Etna: prima norma al mondo in cui la tutela del paesaggio e quella del patrimonio artistico sono tutt´uno, secondo una linea che giungerà fino alla Costituzione. Eppure la Regione «intende privatizzare, per far cassa, il patrimonio boschivo e forestale siciliano» (La Sicilia, 23 agosto). In questa generale devastazione, il depotenziamento delle Soprintendenze mediante il blocco delle assunzioni e il taglio dei fondi (ne ha scritto su queste pagine, l´8 settembre, Francesco Erbani) colpisce la tutela alla radice.

Ma che cosa c´è da aspettarsi da un Ministero che ormai espressamente invita non a proteggere il paesaggio, ma a genuflettersi davanti alle imprese? Lo dice chiaro e tondo un documento del 13 ottobre 2010, che in materia di autorizzazione paesaggistica invita sfacciatamente i soprintendenti a «pervenire ad espressioni di pareri la cui formulazione si configura come una prescrizione di buone maniere», evitando come la peste «pareri che siano in contrapposizione alle proposte progettuali».

Esempio estremo di questa deriva (auto)distruttiva è, nella Toscana un tempo "rossa", la vicenda di uno scavo archeologico a San Casciano in Val di Pesa. Importanti resti di edifici ad uso abitativo e agrario di età etrusca e romana, ancora inediti, sono emersi durante i lavori per l´estensione di uno stabilimento della multinazionale Laika Caravans. Fino a pochi anni fa una scoperta come questa avrebbe comportato la salvaguardia dei reperti in situ, e obbligato la ditta a spostare altrove i suoi capannoni. Ma il Comune (governato da una giunta di "sinistra") ha adottato la cultura delle "buone maniere", cioè della resa alle imprese, e ha stretto con Laika un accordo per sfrattare l´archeologia in favore dei capannoni, smontando fattoria etrusca e villa romana per spostarle in un "parco archeologico" fasullo che i comitati locali hanno subito battezzato "archeopatacca". Il modello è chiaro: si applica all´area archeologica lo scambio di volumetrie già previsto da perfidi codicilli del recente decreto sviluppo, il principio di «libera cubatura in libero Stato», secondo il quale ogni terreno, anche inedificabile, è per sua natura dotato di una "capacità edificatoria" virtuale che può formare oggetto di diritti, essere venduta o scambiata con nuove edificazioni. Così, ha commentato Il Sole (24 agosto), «in nome della giustizia economica, sui terreni agricoli piomberanno d´incanto milioni di euro di nuove cubature». Anche sui terreni archeologici, a quel che pare: basta rimontare i ruderi altrove, come assemblando mattoncini Lego. Alla cultura della tutela si sostituisce il più volgare mercatismo parassitario, e sfrattare gli Etruschi diventa una virtù. Interessante principio: che anche i Templi di Agrigento, finalmente "restituiti ai siciliani" a cui gli italiani li avevano rubati, possano essere smontati e trasferiti da una multinazionale, regalando ai "legittimi proprietari" qualche scampolo di "capacità edificatoria"?

A Modena, per la costruzione del “secondo più grande parcheggio sotterraneo d’Italia”, con licenza delle sempre sollecite soprintendenze, è stato distrutto l’ottocentesco Ippodromo, dichiarato bene culturale, ed è stata svuotata, dicono che è archeologia preventiva, la sottostante area archeologica. Ora l’assessore propone di vendere un po’ dei troppi reperti che sono affluiti nei depositi comunali.

Prima che su un divieto di legge, l’eccezione opposta alla vendita dei reperti archeologici, che si presumono seriali, raccolti nei depositi dei musei è fondata su ragioni di cultura che crediamo insuperabili. Non tutti gli oggetti custoditi nei musei possono e debbono essere esposti al pubblico. I depositi sono una sezione fisiologica di cui ogni museo non può fare a meno, perché è lì che si esercita quella attività assidua di studio e revisione critica che è la vita della speciale istituzione e l’alimento anche delle sezioni in esposizione. Quel che sta nei depositi non sempre ha interesse neppure per il pubblico colto, mentre presenta un alto valore per gli studiosi specialisti. Sono considerazioni perfino ovvie. I musei civici modenesi si sono assunti fin dalla costituzione il compito di ricevere in deposito ed ordinare gli oggetti di interesse archeologico emersi via via nel tempo anche dagli scavi occasionali nel sottosuolo non soltanto della città. E’ un servizio essenziale che il museo svolge pure nell’interesse dello Stato cui per legge quei reperti appartengono. Ed è un servizio di grande responsabilità e molto oneroso non solo di spesa, perché comporta l’impegno di classificazione e studio.

La vendita non è una soluzione e il ricavato sarebbe acquisito allo Stato proprietario, non alle casse comunali. Certo è che neppure per gli oggetti apparentemente ripetitivi si può parlare di doppioni, per l’ovvia ragione che prima della produzione industriale di serie ogni reperto anche fittile è un unicum e la quantità in archeologia, è stato detto, è un elemento essenziale di qualità. I reperti che costituiscono un insieme contestuale di oggetti della stessa natura non possono essere perciò dispersi con la vendita o la concessione in deposito d’uso ai privati, pur se dei singoli elementi fosse assicurata, come si dice, la tracciabilità, perché ne andrebbe perduto il senso che è dato dalla appartenenza a quell’insieme. Mentre l’offerta al mercato va ad alimentare una generica passione antiquaria per una sempre impropria destinazione ad arredo domestico di prestigio e accredita una concezione patrimoniale dei beni culturali. Su quali mai mercuriali è stato fatto l’apprezzamento economico (una cifra astronomica) di quanto conservano i depositi dei musei civici modenesi? Questa proposta, non nuova in verità neppure nel panorama nazionale (ma fino ad ora sempre respinta), di liberare i depositi dei musei dagli oggetti di ritenuto minore interesse è stata in questi giorni ripresa da un amministratore del Comune (che non ne è –già si è detto- proprietario) di fronte all’imponente afflusso nei musei civici di reperti estratti dal vasto scavo dentro il parco Novi Sad. Italia Nostra, è ben noto, ha espresso una valutazione severamente critica sulla distruzione dell’area archeologica che rimaneva protetta sotto l’ottocentesco Ippodromo.

Lì è stato applicato, lo hanno assicurato, il metodo della archeologia preventiva che in fretta rimuove ogni traccia dei sottostanti millenari insediamenti, del tutto poi indifferente alla destinazione che sarà data al vuoto così sollecitamente creato. Come se si trattasse di un terreno inquinato da bonificare. Si legga il bel servizio di Francesco Erbani su La Repubblica di un numero di fine luglio, che racconta come ha funzionato a Modena l’archeologia preventiva messa alla prova nello scavo del Novi Park. Di quanto lì è stato trovato e rimosso, i depositi del museo sono stati letteralmente inondati, con la preoccupazione che ha indotto a immaginare una campagna di vendite. La distruzione di quell’area, che la soprintendenza non ha voluto come tale vincolare (non c’è vincolo archeologico è stato ripetutamente assicurato), non potrà certo essere risarcita dalla artificiale costruzione del parco archeologico pensile, cioè adagiato sul tetto della pubblica autorimessa, tra griglie di aerazione e rampe che sprofondano. Vi saranno esibiti i più significativi e selezionati oggetti portati su dal profondo, parte incorporati nel sottile strato che copre la soletta di cemento di culmine del parcheggio e sistemati tutti allo stesso livello pressappoco sulla medesima linea verticale, parte raccolti in appositi padiglioncini di mostra. Una approssimativa simulazione che indulge al superficiale fascino dell’antico e se non giova alla promozione della cultura archeologica, forse inconsapevolmente offre una buona ragione a chi vorrebbe, piuttosto, vendere tutto. Se questa è la tutela archeologica.

A Modena, per la costruzione del “secondo più grande parcheggio sotterraneo d’Italia”, con licenza delle sempre sollecite soprintendenze, è stato distrutto l’ottocentesco Ippodromo, dichiarato bene culturale, ed è stata svuotata, dicono che è archeologia preventiva, la sottostante area archeologica. Ora l’assessore propone di vendere un po’ dei troppi reperti che sono affluiti nei depositi comunali. In vendita la Mutina trovata sotto l’Ippodromo?Prima che su un divieto di legge, l’eccezione opposta alla vendita dei reperti archeologici, che si presumono seriali, raccolti nei depositi dei musei è fondata su ragioni di cultura che crediamo insuperabili. Non tutti gli oggetti custoditi nei musei possono e debbono essere esposti al pubblico. I depositi sono una sezione fisiologica di cui ogni museo non può fare a meno, perché è lì che si esercita quella attività assidua di studio e revisione critica che è la vita della speciale istituzione e l’alimento anche delle sezioni in esposizione. Quel che sta nei depositi non sempre ha interesse neppure per il pubblico colto, mentre presenta un alto valore per gli studiosi specialisti. Sono considerazioni perfino ovvie. I musei civici modenesi si sono assunti fin dalla costituzione il compito di ricevere in deposito ed ordinare gli oggetti di interesse archeologico emersi via via nel tempo anche dagli scavi occasionali nel sottosuolo non soltanto della città.

E’ un servizio essenziale che il museo svolge pure nell’interesse dello Stato cui per legge quei reperti appartengono. Ed è un servizio di grande responsabilità e molto oneroso non solo di spesa, perché comporta l’impegno di classificazione e studio. La vendita non è una soluzione e il ricavato sarebbe acquisito allo Stato proprietario, non alle casse comunali. Certo è che neppure per gli oggetti apparentemente ripetitivi si può parlare di doppioni, per l’ovvia ragione che prima della produzione industriale di serie ogni reperto anche fittile è un unicum e la quantità in archeologia, è stato detto, è un elemento essenziale di qualità. I reperti che costituiscono un insieme contestuale di oggetti della stessa natura non possono essere perciò dispersi con la vendita o la concessione in deposito d’uso ai privati, pur se dei singoli elementi fosse assicurata, come si dice, la tracciabilità, perché ne andrebbe perduto il senso che è dato dalla appartenenza a quell’insieme. Mentre l’offerta al mercato va ad alimentare una generica passione antiquaria per una sempre impropria destinazione ad arredo domestico di prestigio e accredita una concezione patrimoniale dei beni culturali. Su quali mai mercuriali è stato fatto l’apprezzamento economico (una cifra astronomica) di quanto conservano i depositi dei musei civici modenesi?

Questa proposta, non nuova in verità neppure nel panorama nazionale (ma fino ad ora sempre respinta), di liberare i depositi dei musei dagli oggetti di ritenuto minore interesse è stata in questi giorni ripresa da un amministratore del Comune (che non ne è –già si è detto- proprietario) di fronte all’imponente afflusso nei musei civici di reperti estratti dal vasto scavo dentro il parco Novi Sad. Italia Nostra, è ben noto, ha espresso una valutazione severamente critica sulla distruzione dell’area archeologica che rimaneva protetta sotto l’ottocentesco Ippodromo. Lì è stato applicato, lo hanno assicurato, il metodo della archeologia preventiva che in fretta rimuove ogni traccia dei sottostanti millenari insediamenti, del tutto poi indifferente alla destinazione che sarà data al vuoto così sollecitamente creato. Come se si trattasse di un terreno inquinato da bonificare. Si legga il bel servizio di Francesco Erbani su La Repubblica di un numero di fine luglio, che racconta come ha funzionato a Modena l’archeologia preventiva messa alla prova nello scavo del Novi Park.

Di quanto lì è stato trovato e rimosso, i depositi del museo sono stati letteralmente inondati, con la preoccupazione che ha indotto a immaginare una campagna di vendite. La distruzione di quell’area, che la soprintendenza non ha voluto come tale vincolare (non c’è vincolo archeologico è stato ripetutamente assicurato), non potrà certo essere risarcita dalla artificiale costruzione del parco archeologico pensile, cioè adagiato sul tetto della pubblica autorimessa, tra griglie di aerazione e rampe che sprofondano. Vi saranno esibiti i più significativi e selezionati oggetti portati su dal profondo, parte incorporati nel sottile strato che copre la soletta di cemento di culmine del parcheggio e sistemati tutti allo stesso livello pressappoco sulla medesima linea verticale, parte raccolti in appositi padiglioncini di mostra. Una approssimativa simulazione che indulge al superficiale fascino dell’antico e se non giova alla promozione della cultura archeologica, forse inconsapevolmente offre una buona ragione a chi vorrebbe, piuttosto, vendere tutto. Se questa è la tutela archeologica.

Il ritratto dovrebbe essere esposto nel principato in un galà dedicato a Firenze. L’arte a noleggio dei privati, proprio come vuole una proposta di legge di Scilipoti.

Il ministero dei Beni culturali ha definito un “evento di portata storica” la spedizione a Cuba di un ‘Caravaggio’ che non è di Caravaggio; un alto prelato italiano sta cercando di spedire la Madonna di san Giorgio di Giotto a Mosca per ‘impreziosire’ le celebrazioni legate all’edizione dei testi di un concilio dell’VIII secolo; la Velata di Raffaello parteciperà al Ballo del Giglio del 2011, in un albergo di Montecarlo; i Baccanali Ludovisi di Tiziano saranno esposti ad Arcore, nella sala del bunga bunga, per evidenti affinità iconografiche.

Una sola di queste notizie è falsa: ed è l’ultima. Ma è falsa solo perché i Baccanali appartengono al Prado, che è un museo serio di un paese serio. Invece il prossimo 14 ottobre l’Hotel de Paris di Montecarlo ospiterà il Ballo del Giglio, che sarebbe la versione dedicata a Firenze del Ballo della Rosa voluto da Grace Kelly. Il programma prevede – tra un incontro di imprenditori, una colazione di lavoro e lo spettacolo dei Bandierai – l’esibizione di “un capolavoro della Galleria degli Uffizi”, che dovrebbe essere scortato dal sindaco Matteo Renzi. Fonti del Mibac rivelano che quel ‘capolavoro qualunque’ sarebbe stato alla fine identificato nella Velata di Palazzo Pitti, per la cui spedizione si sarebbe in attesa dell’autorizzazione ministeriale.

Se quella autorizzazione arriverà, e se vedremo davvero Raffaello al Ballo del Giglio, allora si sarà toccato il punto più basso della storia del patrimonio artistico italiano: un punto dopo il quale si potrà solo usare la Dafne del Bernini come una bambola gonfiabile, approfittando della bocca spalancata.

Le soprintendenze sono ormai infatti state ridotte a uffici tecnici: si chiede loro solo se il supporto materiale dell’opera d’arte che si desidera spostare è in grado di affrontare il viaggio. E se la risposta è che Raffaello non si rompe, ebbene si pensa di poterlo sbattere ovunque, a fare qualunque cosa. Non so se gli organizzatori del ballo verseranno un obolo al Polo museale fiorentino, ma in ogni caso l’operazione è rubricabile sotto la specie del noleggio a ore. E l’idea di noleggiare a privati le opere d’arte che appartengono alla collettività rappresenta eloquentemente il tono morale e il livello culturale dell’Italia del tardo berlusconismo: al punto che l’uomo simbolo di questa mirabile congiuntura, l’onorevole Domenico Scilipoti , ha trasformato questa idea in una proposta di legge per cui “le opere d’arte, inclusi reperti archeologici e similari, possono essere offerti in noleggio per un periodo prefissato di dieci anni tramite asta pubblica da gestire per via telematica”. L’obiettivo sarebbe quello di “valorizzare le opere d’arte che giacciono inutilizzate o sottoutilizzate in depositi museali o in altre sedi, promuovendo, attraverso il loro noleggio per un periodo decennale, l’arte e la cultura italiane nel mondo e, allo stesso tempo, contribuendo a ridurre il debito pubblico”. Non capacitandosi del fatto che Tremonti non sia corso a congratularsi con lui, poche settimane fa il tenace Scilipoti lo ha formalmente interrogato in Parlamento, riproponendogli questa genialata. E non si sa davvero se sia più madornale la bestialità di pensare che le opere d’arte si debbano “utilizzare”; quella di considerare i depositi dei musei non quei magazzini di sapere e di storia che sono, ma cantine polverose e inutili; oppure l’idea che uno partecipi a un’asta telematica e poi si veda consegnare a casa – non so – una Immacolata in marmo del Seicento, un polittico a fondo oro del Trecento o un set di vasi greci. Ma ancora: uno potrebbe noleggiare un fonte battesimale romanico per il battesimo del nipotino, un’alcova barocca per la prima notte di nozze, una scultura del Novecento per un cocktail in giardino (No Arturo Martini, no party). Ma, al di là del folklore , ciò che nella proposta di legge Scilipoti, si legge benissimo è il principio di fondo: privatizzare, selvaggiamente, il patrimonio artistico di questo Paese.

Il primo risultato di una simile legge sarebbe massacrare la dignità dell’arte figurativa. Che in Italia non è mai stata lo svago di alcuni raffinati perditempo, non un ornamento moralmente neutrale con cui ‘impreziosire’ la vita di magnati facoltosi e ignoranti: no, l’arte figurativa è stata per secoli uno dei linguaggi (il più alto forse) in cui rappresentare e condividere la storia, l’identità, l’anima della comunità civile. Trattare le opere somme di questa tradizione come orsi ballerini che si aggirano per i cocktail col piattino delle offerte tra le zampe significa umiliarle fino a privarle di quei poteri di umanizzazione ed educazione intellettuale e morale che le rendono presenze uniche e insostituibili nella nostra vita spirituale.

Il secondo risultato sarebbe infliggere l’ennesimo colpo al patto costituzionale che ci fa civili: per Costituzione, la Velata di Raffaello appartiene a tutti i cittadini italiani, indipendentemente dal reddito e dalla cultura. Mai come in questo momento di crescenti sperequazioni economiche, la natura di bene comune del patrimonio artistico può giocare un importante ruolo perequativo. Ma noleggiando un quadro di quell’altezza vertiginosa a una brigata di ricchi cafoni che si permettono di trattarlo come una musica di sottofondo per il loro galà, lo Stato riesce nel miracolo di trasformare proprio quel patrimonio nell’ennesimo fattore di diseguaglianza, ingiustizia e diseducazione.

Dalla Toscana giungono notizie dell’ennesimo conflitto tra interessi privati e difesa del patrimonio archeologico. E ancora una volta sembra che a soccombere, come spesso accade nel nostro paese, debba essere il patrimonio culturale.

Il caso mi è stato segnalato da alcuni amici toscani, non archeologi, che si sono rivolti a me per un parere, conoscendo il mio impegno nel campo della politica dei beni culturali. Ho cercato di acquisire informazioni più precise da colleghi archeologi, che, però, ignoravano quasi completamente l’episodio. La massima segretezza sembra avvolgere la vicenda. Le uniche informazioni, reperibili sul web sono fornite da un comunicato stampa e da denunce di varie associazioni ambientaliste, raccolte da alcuni giornali e da vari siti internet. La cosa che sollecita la mia curiosità e presenta, fin da subito, alcuni lati enigmatici è relativa al progetto di rimozione e ricollocazione dei resti archeologici: una procedura, tecnicamente assai problematica, alquanto rara e costosa. Ma procediamo in ordine.

Il sito è posto nel territorio del Comune di San Casciano: qui è stata prevista la costruzione di un capannone da parte della multinazionale Hymer, proprietaria di LAIKA Caravan. Il progetto risale a molti anni fa, addirittura al 1997. Nel corso dei lavori edili sono emersi, nel 2010, resti archeologici riferibili, sulla base dei pochissimi dati al momento disponibili, ad una ‘fattoria’ etrusca e ad una villa romana. Tengo a ribadire che le informazioni in mio possesso sono a questo proposito assai scarse ed è pertanto assai difficile valutare la reale portata storico-archeologica della scoperta. Lo sottolineo, non perché voglia minimamente proporre un’idea selettiva, ormai fortunatamente abbandonata, che privilegi esclusivamente i manufatti di pregio artistico – ogni documento archeologico è unico e prezioso per la ricostruzione storica e per la conoscenza dei paesaggi stratificati – ma solo per comprendere la ratio delle scelte che si stanno effettuando.

Non tocco le questioni relative all’impatto ambientale o al tema del consumo di territorio, che rientrano nelle competenze di altri. Mi limito a porre una serie di domande limitate al tema archeologico, in attesa di poter disporre di informazioni più precise, che, per trasparenza democratica, si spera possano essere fornite alla pubblica opinione, anche per limitare le polemiche spesso alimentato proprio dall’assenza di informazioni.

Come mai, pur essendo trascorso tanto tempo dalla presentazione del progetto, non sono state effettuate indagini di archeologia preventiva, con l’uso dei metodi e delle tecniche e tecnologie (immagini aerofotografiche, prospezioni geofisiche, ricognizioni, ecc.) tipiche dell’archeologia dei paesaggi (che, peraltro, proprio in Toscana conosce livelli di assoluta eccellenza)? In tal modo certamente le tracce archeologiche sarebbero state individuate ancor prima dell’avvio dei lavori edili e sarebbe stato possibile indirizzare diversamente il progetto.

Quale valutazione è stata fatta dei documenti storici e archeologici individuati? Qual è il loro stato di conservazione?

Ma, soprattutto, perché si è adottata la decisione della rimozione e del trasferimento dei resti archeologici? Mi rassicura sapere che l’operazione è stata autorizzata dalla Soprintendenza Archeologica, dalla Direzione Regionale per i beni culturali, dal Comitato tecnico-scientifico del MiBAC. Ma resta l’interrogativo metodologico. Come dicevo, si tratta di una procedura complessa e costosa, che certo l’archeologia conosce bene ma che di solito viene riservata (proprio per la complessità tecnica e l’elevato costo) a scoperte “eccezionali”. Si potrebbero citare molti casi a tal proposito, ma mi limito a ricordare quello dei mosaici policromi di ville e domus romane della città di Zeugma in Turchia, asportati e rimontati nel Museo di Gaziantep con l’intervento munifico del Packard Humanities Institute (PHI), o, in Italia, quello vissuto in prima persona dei mosaici della chiesa paleocristiana del sito rurale di San Giusto (Lucera), asportati nel 1998 e tuttora in attesa di collocazione: in entrambi i casi l’operazione è stata giustificata dalla costruzione di opere pubbliche, nello specifico dighe, rispettivamente necessarie per la produzione di energia e per l’irrigazione delle campagne. Si tratta, peraltro, di interventi condotti molti anni fa, ben prima che si affermassero i metodi dell’archeologia preventiva. I due siti archeologici, dai quali sono stati asportati solo gli ‘elementi di pregio’ (i mosaici, appunto) sono tuttora sommersi dalle acque delle dighe e non si esclude che in un futuro altri archeologi possano riprendere gli scavi.

Nel caso di San Casciano il problema è: i ritrovamenti sono relativi a “pochi muretti”, come qualcuno sussurra? Se sì, allora, si abbia il coraggio di portare la decisione alle estreme conseguenze, si documenti e si pubblichi l’intero contesto archeologico, e lo si sacrifichi autorizzando la costruzione del capannone al di sopra dei resti. La rimozione e la ricollocazione appare, infatti, una risposta alquanto ipocrita, forse utile solo come risposta alle proteste delle associazioni culturali e ambientaliste: che senso avrebbero i moncherini di “pochi muretti” decontestualizzati e collocati, quasi si tratti di elementi di arredo, in un finto parco archeologico? Senza contare i problemi tecnici posti dallo smontaggio di muri (di terra? in conci di pietra tenuti da malta? in cementizio?) di insediamenti rurali di età etrusca e romana, e ovviamente i costi legati all’operazione, che, perlomeno, mi auguro non si preveda di scaricare sugli ormai poveri bilanci degli Enti locali o delle Soprintendenze. Se, invece, si trattasse di elementi di grande interesse storico-archeologico, tali da richiederne addirittura lo smontaggio e la ricollocazione in altro luogo, allora forse sarebbe il caso di riesaminare più attentamente la questione, privilegiando la conservazione in situ.

Comunque vada a finire, ancora una volta saranno le ragioni dell’archeologia e del patrimonio culturale e paesaggistico a soccombere, forse anche a causa di un deficit di pianificazione e di valutazione preventiva, sotto il peso del consueto facile ricatto dell’occupazione e delle ragioni dello sviluppo economico, sostenute, è evidente in questo caso, da forti interessi politico-economici. E ancora una volta in questo eterno assurdo conflitto si cercherà di confermare l’immagine dell’archeologia – cioè di uno dei beni comuni più rilevanti di cui il nostro paese disponga - nemica dello sviluppo.

Giuliano Volpe è Ordinario di Archeologia e Rettore dell’Università di Foggia

Il funzionario della soprintendenza deve andare a fare un sopralluogo sull’Appia Antica, a decine di chilometri dal centro di Roma e ben oltre il Grande Raccordo Anulare? Che ci vada in tram. O in autobus, se preferisce. Peccato che gli antichi romani, ignari del declino civile dei discendenti italici, costruendo la Regina Viarum 2250 anni fa non pensarono di affiancare alle basole in pietra rotaie per tram e corsie preferenziali per autobus. Al ministero dei Beni culturali non importa. Bisogna risparmiare e non è il caso di andare per il sottile: ispettori, funzionari, archeologi in giro per l’Italia a bordo della propria auto non si vedranno più rimborsate le spese di benzina. Se le paghino da sole, come mecenati o volontari, oppure si arrangino con i mezzi pubblici.

Tutti in tram, dunque. Anche se la missione sui cantieri comporta il trasporto di pesanti zaini con attrezzature e vestiti di ricambio. Anche dove i mezzi di trasporto pubblico non arrivano, come in genere capita sulle rovine di civiltà antiche. Anche se la località da raggiungere dista centinaia di chilometri, con due o tre cambi di treno e diverse ore di viaggio, quando in autostrada basterebbe mezz’ora. Anche se la missione richiede più spostamenti in una giornata, incompatibili con le coincidenze dei bus locali. Il risultato, come paventato in un’assemblea di funzionari a Roma, è la paralisi. Ieri qualcuno ha già annullato missioni programmate da tempo per l’impossibilità di raggiungere la destinazione.

Le nuove disposizioni nascono da una norma della manovra finanziaria del 2010 che vieta i rimborsi delle missioni. Il ministero aveva cercato di eluderla, ma esponendosi alla scure della Corte dei Conti, che ad aprile ha interpretato la regola senza eccezioni. Il ministero si è adeguato con una circolare rivolta a tutte le soprintendenze, gli organi sul territorio che tutelano quelle bellezze archeologiche, paesaggistiche e architettoniche di cui lo stesso governo si vanta negli spot televisivi.

I soprintendenti, a loro volta, devono obbedire per non esporsi a processi davanti alla Corte dei Conti per danno erariale. Anna Maria Moretti, capo della Soprintendenza archeologica di Roma, l’ha fatto con una laconica nota che ha lasciato sbigottiti gli archeologi che ogni giorni macinano chilometri per raggiungere musei, ruderi, scavi: «Si comunica a tutto il personale che a decorrere dal 5 aprile 2011 non potrà essere riconosciuto il rimborso per l’utilizzo del mezzo proprio». Al massimo, un euro: il costo del biglietto integrato a tempo da 75 minuti dell’Atac. La disposizione è retroattiva: per le spese sostenute dal 5 aprile a oggi, regolarmente autorizzate, vale la strofa della tarantella napoletana: «Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto... chi ha dato, ha dato, ha dato... scurdámmoce ‘o ppassato...».

Oltre al danno, la beffa. Non solo le soprintendenze, prive di quell’autonomia che consentirebbe di aumentare gli introiti promuovendo le gestioni virtuose, vengono strangolate dai tagli lineari (20/30% ogni anno) e, cancellando i rimborsi, ai tecnici viene impedito di svolgere metà delle funzioni di salvaguardia del patrimonio culturale. Il governo che non vuole imporre un balzello agli evasori che hanno beneficiato dello scudo fiscale perché «lo Stato violerebbe il patto di lealtà», rifiuta di rimborsare ai suoi dipendenti spese già effettuate nel suo interesse, violando il patto con cui aveva garantito il ristoro.

Cose che capitano, perché come spiegano al ministero «alla fine i tagli incidono sulla carne di chi lavora». I numeri sono implacabili, in un settore che ha il record di siti Unesco, produce oltre 40 miliardi di euro l’anno con 550 mila lavoratori. In un decennio, il budget culturale ha perso 500 milioni di euro su 2 miliardi, riducendosi dal già esiguo 0,39% del bilancio statale al misero 0,21%. Un decimo di quanto spendono Francia, Gran Bretagna e Germania. Senza l’Appia Antica da raggiungere in tram.

«Un articolo del professor T. Montanari su “In Cristo, uno scambio di opere d’arte fra Mosca e Firenze”, uscito il 1 settembre pare basato su frammenti e pettegolezzi assai sfocati. Il suo pezzo, foto inclusa, indica ai lettori come oggetto dello scambio opere sbagliate, svela battaglie di fatto mai esistite, equivoca le date, erra nell’indicare le istituzioni titolari dei prestiti italiani, inventa pressioni e resistenze di cui il sottoscritto – che effettivamente da alcuni anni si dedica a questo lavoro connesso all’edizione critica dei concili – gli avrebbe potuto certificare la totale insussistenza. Padrone Montanari di considerare l’inesistente scambio che ha raccontato ai lettori di “Saturno”, o quello vero di cui ha letto sul “Corriere fiorentino” del 2 settembre e che vedrà a suo tempo, come un errore, in nome d’un certo rigorismo: ma per essere rigoristi, bisognerebbe pure essere rigorosi. E il Montanari di venerdì scorso non lo era.

Alberto Melloni»

Il 22 aprile scorso l’arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori, ha scritto una lettera alla soprintendente Cristina Acidini in cui chiedeva di spedire in Russia la Croce di Giotto di Ognissanti. In quella lettera, il prelato provò a blindare l’operazione sventolando il consenso «delle più alte cariche dello Stato, in particolare della Presidenza della Repubblica e della Presidenza del Consiglio». Non so come la chiami Melloni: per me si tratta di una pressione indebita e spiacevole su funzionari dello Stato. E quelle parole hanno anche un’aria vagamente millantatoria, perché dubito che il presidente Napolitano sia mai andato oltre un generico compiacimento per l’iniziativa in sé. Quanto al presidente del Consiglio, è lecito dubitare che egli sappia chi sia Giotto.

Comunque, il 20 maggio l’Opificio delle Pietre Dure ha coraggiosamente emesso una relazione tecnica che si concludeva in questo modo: «Come si evince da tutte le osservazioni presentate sia nella parte relativa allo stato di conservazione, sia in quella della movimentazione, i problemi di conservazione sono molti, ed alcuni assai gravi e difficilmente risolvibili in maniera soddisfacente, tanto da far ritenere che sia quasi impossibile pensare di poter organizzare una movimentazione che non presenti rischi gravissimi». Ciò vuol dire che se Giuseppe Betori e Alberto Melloni avessero potuto fare ciò che desideravano, un’opera capitale di Giotto sarebbe stata esposta a «rischi gravissimi». Ma – si dirà – come avrebbero potuto saperlo, visto che di mestiere uno fa il vescovo e l’altro lo storico della Chiesa? Una risposta che non farebbe una grinza, se essi non stessero organizzando una mostra d’arte antica italiana a Mosca.

Ed è esattamente questo il senso principale del mio articolo. La maggior parte delle infinite mostre che ogni anno si inaugurano in Italia non scaturisce dalla ricerca storico-artistica o dal desiderio di aumentare e diffondere la conoscenza dell’arte figurativa: più radicalmente, la maggior parte delle mostre non ha più a che fare con un progetto culturale.

Essa si deve invece all’iniziativa estemporanea e alla volontà autopromozionale di amministratori, politici, imprese, associazioni laiche o enti religiosi. O, ancora, allo scoccare di centenari e anniversari; alla disponibilità di un finanziamento; all’interesse di uno sponsor.

Negli ultimi tempi, poi, si è registrata una decisa propensione della gerarchia cattolica verso l’organizzazione di mostre “confessionali” che riempiano l’intrattenimento culturale di contenuti accuratamente orientati. È il caso, per esempio, della mostra sul Potere e la Grazia. I santi patroni d’Europa tenutasi a Roma tra 2009 e 2010. La mostra – promossa da un certo Comitato San Floriano – non aveva il minimo valore scientifico e ostentava anzi una connotazione pastorale e proselitistica: nondimeno essa è stata ospitata a Palazzo Venezia, e ha goduto di prestiti davvero straordinari (tra cui il San Giorgio dell’Accademia di Venezia, negato invece all’importante mostra monografica di Mantegna al Louvre), oltre a essere inaugurata dal presidente del Consiglio (insieme, s’intende, al cardinale segretario di Stato vaticano). Lo stesso si può dire della reclamizzatissima mostra su Gesù. Il corpo e il volto nell’arte che ha accompagnato l’ostensione della Sindone nella primavera 2010: un’esposizione priva di qualunque rigore storico che raccoglieva opere importantissime all’insegna della più stucchevole retorica religiosa. E qui non si tratta di girare un documentario o di pubblicare un libro, ma di utilizzare (e quindi potenzialmente compromettere) opere di proprietà dello Stato, per alimentare un’operazione non culturale, ma puramente confessionale. Non meno interessanti, in tal senso, sono le iniziative dell’ambasciatore Antonio Zanardi Landi. Quando rappresentava l’Italia presso la Santa Sede, egli ha, per esempio, osato chiedere in prestito (ottenendole!) le celeberrime formelle bronzee di Lorenzo Ghiberti e Filippo Brunelleschi per il concorso del 1401. Queste opere venerabili sono state strappate al Museo del Bargello per presenziare alle celebrazioni dell’ottantesimo anniversario dei Patti Lateranensi: un gesto che ha lo stesso valore culturale che avrebbe l’esposizione di un busto di Pio XII per festeggiare un centenario di quel concorso per la porta orientale del Battistero di Firenze. Nel giugno dello stesso 2009, l’ambasciata di Zanardi Landi ha poi ospitato il gigantesco modello per la Fontana dei Fiumi di Bernini conservato presso i privati che possiedono le ultime reliquie dell’eredità dell’artista. Si tratta di un’opera dall’attribuzione alquanto problematica: ma soprattutto non si vede che senso abbia esporla in occasione della presentazione della trentesima edizione del Meeting riminese di Comunione e Liberazione, immancabilmente avvenuta alla presenza del ministro degli Esteri, Franco Frattini. Siamo evidentemente di fronte a un sistematico sfruttamento del patrimonio artistico, che viene letteralmente abusato, al di fuori di ogni controllo. Ora che rappresenta l’Italia in Russia, l’ambasciatore Zanardi Landi sta gestendo brillantemente il vertiginoso valzer delle opere d’arte che il nostro Paese dissennatamente gli spedisce: e si capisce che dopo tanto maneggiare opere d’arte, egli sia diventato anche un virtuoso dell’ecfrasis, come si evince dalle parole che ha pensato bene di pronunciare ricevendo la Medusa di Bernini a Mosca: «questa scultura, tra tante, non è stata una scelta casuale: Medusa ha lasciato una traccia nella storia dell’arte russa del passato e contemporanea; è pure un personaggio ricorrente nei libri russi per bambini e ha ispirato le canzoni di vari gruppi rock e punk».

Ma torniamo allo scambio Mosca-Firenze. Grazie all’articolo di Melloni sul «Corriere Fiorentino» del 2 settembre (dal significativo titolo Betori, il Battistero e le icone del dialogo) si apprende che il casting non si è chiuso sulla Croce di Lippo di Benivieni (per la quale il 27 luglio la Soprintendenza di Firenze aveva già compilato la scheda conservativa preliminare al prestito), ma che ora si sta riprovando a scritturare un Giotto autografo (la Madonna di San Giorgio alla Costa) e uno di bottega (il Polittico di Santa Reparata). Quale miglior conferma della mancanza di serietà di un’operazione che continua a sfogliare il catalogo del padre dell’arte italiana come se fosse una margherita?

Ed è proprio questo l’aspetto più inquietante del testo di Melloni: l’esibita, financo sprezzante, ignoranza della storia dell’arte. E siccome è raro trovare una dichiarazione tanto esplicita di un sentimento invece piuttosto diffuso tra gli accademici italiani, non è inutile guardare quel testo un po’ più da vicino (lo riprodurrò ampiamente, evidenziandone le citazioni in grassetto; chi lo vuol leggere tutto, lo trova qui). Lo si può dividere in una premessa, nella spiegazione del senso dell’evento fiorentino e moscovita, e infine nella risposta alle critiche del sottoscritto (mai, tuttavia, nominato).

La premessa è articolata in due parti. Nella prima si afferma (invero piuttosto confusamente) che la storia dell’arte è «una disciplina a sé stante» che si occupa solo di «estetiche e tecnicalità» e «che non può che prescindere dalla funzione esercitata da oggetti di cui il committente ha pagato l’oggettività e nei quali l’artista ha usato linguaggi suoi». Ma per fortuna arriva lo storico della Chiesa, che sa decifrare i «significati terzi: che non necessariamente differiscono e non necessariamente coincidono con quelli del committente e dell’autore. Significati legati alla memoria, alla comunicazione o alla fede». Insomma, lo storico dell’arte può dire se una Madonna di Giotto è bella o brutta, e com’è fatta la carpenteria della sua tavola, ma per capirne il significato storico e morale, ci vuole uno storico della religiosità.

Di fronte ad affermazioni di questo tenore viene solo da commentare che le constatazioni che Roberto Longhi faceva nel 1951 (in Il livello medio della nostra cultura artistica) sono validissime ancora a sessant’anni di distanza: riguardo all’arte figurativa «la cultura media in ogni strato non è al livello che si vorrebbe, anzi incredibilmente più in basso». Davvero in ogni strato: anche tra i professori universitari di storia della Chiesa, visto che Melloni ignora non solo Longhi stesso, Panofsky, Baxandall, Haskell o Shearman, ma pure Ghiberti, Vasari, Bellori o Burckhardt. Più semplicemente, egli ignora che la storia dell’arte, da seicento anni a questa parte, è una “storia” (che si occupa anche di funzione e significati), esattamente al pari di quella che insegna lui, e non un gergo per imbonitori o un lessico tecnico per restauratori.

Nella seconda parte della premessa, si tirano le somme di tutto ciò sul piano dell’uso del patrimonio artistico. E sono somme davvero drastiche: dal momento che la storia dell’arte non è una storia, le preoccupazioni relative alla conservazione materiale e a una corretta lettura storica dell’opera nel suo contesto figurativo e culturale sono ubbie di romantici snob. E non sto esagerando: Melloni sbeffeggia e liquida tutti coloro che hanno a cuore la tutela delle opere d’arte definendoli letteralmente «fautori di una degustazione romantica in situ di opere che spesso in quel luogo ci sono finite per caso, o per rapina o per disgrazia e che invece esibendosi, fuori di contesto o per prestito sono diventate patrimonio comune di milioni di esseri umani in carne e ossa, talora perfino giovani, e dunque sprovveduti dell’armamentario critico-linguistico dello specialista, cose che un tempo erano riservate a una eletta schiera di degustatori». Il che tradotto in italiano vuol dire: «signori, finalmente farò capire Giotto ai giovani, e lo farò prendendo un’opera delicatissima, sbattendola nell’inverno russo e recidendone ogni intellegibile legame col contesto figurativo e culturale ancora visibile a Firenze. Alla faccia di quei quattro snob elitaristi degli storici dell’arte».

Dopo averci dunque spiegato in quanta considerazione egli tiene i musei italiani (che per lui sono il frutto non di una luminosa storia culturale plurisecolare, ma del caso e della rapina), Melloni viene al concreto e presenta lo scambio di opere d’arte che pianifica da anni. Per intendere bene quanto segue, bisogna sottolineare il notevole understatement del professore, capace di parlare in questi termini dell’operato della Fondazione per le Scienze Religiose che egli stesso presiede: «un lavoro scientifico finissimo il cui valore non è sfuggito su scala internazionale (è stato presentato da Romano Prodi all’Expo di Shanghai e dal Patriarca ecumenico a Istanbul, capitale della cultura europea) e che ha rafforzato la credibilità di un interlocutore scientifico di prima grandezza». Accanto al lavoro di Melloni, ecco quello di Betori, presentato in modo altrettanto defilato: «la nuova traduzione della Bibbia in italiano – di cui l’Arcivescovo di Firenze, monsignor Giuseppe Betori, è stato protagonista – ha attirato sulla sua fine costruzione l’attenzione di diverse istituzioni accademiche e teologiche russe, alla prese con i problemi di una versione della Scrittura consacrata dalla liturgia e difficile per i fedeli». Come una conseguenza logica e ineluttabile di tutto questo dolciastro fumo di turiboli, ecco entrare in scena l’idea della mostra: «Questo ha permesso di formulare la proposta di impreziosire l’anno Italia/Russia con uno scambio di capolavori dell’arte sacra che dicessero esattamente questo: cioè la profondità del legame e la ricchezza della diversità che si basa sulla fede comune del Niceno II». Eccola finalmente, quella funzione delle opere d’arte che i poveri storici dell’arte non sono in grado di capire: venire imballate, imbarcate su un cargo e quindi essere scambiate allo scopo di «impreziosire» un evento a esse radicalmente estraneo, e invece sinistramente prossimo a una smaccatissima operazione di autocelebrazione degli organizzatori.

Come sempre, la scelta delle parole è illuminante, e l’idea che l’arte figurativa abbia il ruolo ancillare e superfluo di «impreziosire» qualcos’altro meriterebbe un’analisi a sé: ma qui basti notare quanto sia impressionante che un professore universitario di storia si esprima esattamente «come il più cafone degli antiquari, o come la sciùra milanese che impreziosisce il centro tavola con una composizione di peonie» (secondo le icastiche parole di un collega reduce dalla lettura del «Corriere Fiorentino»).

Naturalmente non si poteva «impreziosire» con un’opericciuola qualunque, e Melloni dichiara che «la proposta aveva bisogno di capolavori auteloquenti, per nome e per portata». In queste poche, cruciali parole il l’incenso si dirada, e Melloni getta la maschera: il fine esegeta dei profondissimi significati religiosi (quelli che sfuggono alla storia dell’arte) lascia destramente il campo al pratico uomo di marketing che vuole grossi nomi e opere «di portata», quasi si parlasse di un toro da monta o di una vacca da esposizione. E invece no, niente animali: si tratta della «Maestà di San Giorgio alla Costa e del Polittico di Santa Reparata attribuito al “Parente” di Giotto: queste due opere saranno esposte nella sede centrale del celebre museo moscovita, alle spalle della Chiesa della Madonna ‘gioia di tutti i sofferenti’ di cui è titolare il Metropolita di Volokolamsk, Hilarion Alfeev, capo del dipartimento delle relazioni esterne della Chiesa russa. Dalla Tretyakov, per decisione della sua direttrice Irina Lebedeva e della vice Tatiana Gorodkova, verranno a Firenze tre opere senza pari: la Madre di Dio Odighitria di Pskov, la Crocifissione di Dionisij e una Ascensione nella cui straordinaria qualità gli specialisti vedono la mano di Andrej Rublev. Queste icone verranno esposte, con le cautele di tutela del caso, non in un museo: ma nel Battistero di Firenze». Traduciamo: per celebrare un Concilio del 787, Mosca spedirà a Firenze tre icone del XV secolo, e Firenze spedirà a Mosca due dipinti realizzati tra il XIII e il XIV secolo. Un’operazione fumista quasi quanto la prosa che la difende, e in cui è davvero arduo trovare la benché minima traccia di senso storico, o anche un significato morale qualunque. E non si venga a parlare di ecumenismo, visto che un’ora qualsiasi della vita spirituale e sociale di Taizé o di Bose produce frutti cento volte più ricchi di questo micidiale concentrato di retorica, vanità e frusciar di mitrie e corone.

Infine, ecco la risposta alle critiche: il progetto «aveva bisogno di verifiche tecniche negli organi di tutela che sono state richieste e adempiute (hanno dato corso a qualche pettegolezzo fasullo, incautamente raccolto e agghindato con piccole bugie anticlericali, come da noi talora accade). E ha incontrato l’entusiasmo delle massime istituzioni dei due Stati, che hanno gli strumenti per distinguere fra uso e abuso delle opere d’arte».

In questo brano mirabile si contano almeno tre motivi interessanti.

Il primo è l’alterazione dei dati di fatto. A me non risulta affatto che le verifiche tecniche siano state adempiute. Con una solenne gaffe istituzionale, Melloni ha annunciato la partenza di due opere sul cui prestito non si sono ancora espressi gli organi centrali del Ministero per i Beni Culturali. E quando lo faranno, voglio sperare che la boccino, perché sarebbe criminale spedire nella gelida ed umida Mosca invernale un’opera chiave per la ricostruzione del giovane Giotto (peraltro danneggiata dalla bomba mafiosa del 1993), e l’antica pala d’altare della cattedrale di Firenze. Se il valore culturale di una mostra è davvero rilevante, si può anche accettare che opere uniche di settecento anni fa corrano qualche rischio. Ma non certo per «impreziosire l’anno Italia/Russia con uno scambio di capolavori dell’arte sacra».

Il secondo motivo notevole è il disprezzo per le regole, per le procedure e per le riserve degli storici dell’arte, cui si oppone l’entusiasmo dei politici. È davvero curioso che un professore di una pubblica università contrapponga alle garanzie del sapere e delle competenze l’arbitrio del principe: ma evidentemente i venticinque anni di plebiscitarismo berlusconiano hanno profondamente sfigurato l’etica pubblica di questo paese.

Infine la comoda spiegazione, ideologica e pregiudiziale, del dissenso: l’anticlericalismo! Su questo punto vorrei davvero rassicurare Melloni: non avrei scritto niente di diverso se questa irresponsabile iniziativa fosse stata animata da un assessore del PD, da un rabbino o dall’amministratore delegato di un’azienda privata. Ma, da cittadino e da cattolico, non posso far finta di non vedere che la gerarchia cattolica italiana sta facendo un uso assai spregiudicato del patrimonio dell’arte sacra del passato. Pochi giorni fa proprio l’Opera del Duomo di Firenze ha avuto, per esempio, la pessima idea di istituire una tessera tagliacoda a pagamento per l’accesso in Cattedrale, e in molte chiese della città di Betori (a partire proprio dal Battistero che ospiterà le icone russe) si entra versando moneta sonante, con una malcelata simonia che riesce a vanificare contemporaneamente il significato civile e quello religioso di questi indispensabili polmoni dello spirito.

Dettagli per Melloni, che sentendosi evidentemente un novello Giovanni Crisostomo (cioè «dalla-bocca-d’oro», per la sua eloquenza), si getta in una conclusione che sta tra l’omelia e l’esaltazione mistica: «Un catalogo della mostra, nella quale si vedrà l’impegno della Enciclopedia Italiana e si sentiranno le voci delle autorità degli Stati, dei governi, delle Chiese, delle autorità, degli studiosi, dei teologi, accompagnerà queste opere: nel cui viaggiare ciascuno riuscirà soltanto a leggere qualcosa di sé. È giusto così». Personalmente, non riesco a consolarmi pensando che Giotto sarà scortato da un catalogo siffatto, dove la voce degli «studiosi» (e quali? Forse gli storici della Chiesa, non già i disprezzati storici dell’arte!) sarà una su sei, essendo le altre cinque tutte riservate al potere (e perché sia chiaro la parola «autorità» ricorre ben due volte), o alla teologia. Pare davvero inverosimile che l’Enciclopedia Italiana di Giuliano Amato si presti a un’operazione del genere, ma si deve sapere che Melloni siede nei consigli scientifici di Treccani e Dizionario Biografico: dunque conta di fare tutto in casa.

Con il piglio di un vero direttore di coscienze, infine, il professor Melloni prescrive ciò che ciascuno di noi dovrà leggere nel viaggiare di Giotto a Mosca: «soltanto qualcosa di sé». E quindi la chiusa, memorabile: «È giusto così». Mi dispiacere deludere Melloni, ma io in questo «viaggiare» (che spero le istituzioni tecniche-scientifiche dello Stato abbiano ancora la forza di impedire) vedo solo uno dei tanti segni della notte culturale in cui siamo immersi: una notte in cui brillano solo la celebrazione dell’ego e il potere del marketing.

Ed è per questo che vorrei rammentare al professor Alberto Melloni (il quale presiede la fondazione di Giuseppe Dossetti; e il cuore sanguina, a pensarlo) che proprio il costituente Dossetti avrebbe voluto nella Costituzione un articolo che recitasse così: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione è diritto e dovere di ogni cittadino».

Ecco, temo che per difendere l’articolo 9 della Costituzione – quello per cui «la Repubblica tutela il patrimonio storico e artistico della nazione» – sia venuta l’ora in cui gli storici dell’arte, e tutti coloro che amano e conoscono l’arte del passato, diano vita a una vera resistenza nei confronti di ogni tentativo di strumentalizzare, abusare, privatizzare e mettere a rischio quello straordinario bene comune che è il nostro patrimonio storico e artistico.

La tutela del patrimonio archeologico di Roma sembra avere il valore di 1 euro, pari ad un biglietto integrato a tempo, che dura, com’è noto, settantacinque minuti. «Chissà se in settantacinque minuti riusciamo a salire e scendere dai mezzi pubblici e ad avventurarci a piedi nelle aree archeologiche del suburbio?» A chiederselo ieri, riunita in assemblea presso Palazzo Massimo, tutta la rappresentanza del personale tecnico, della Soprintendenza speciale ai beni archeologici di Roma, allarmata per l’ennesimo "schiaffo" alla professionalità di chi lavora al servizio della cultura. La bizzarria è che per i vari dirigenti e funzionari archeologi che effettuano sopralluoghi costanti ai cantieri, il rimborso alle spese per l’uso della propria vettura corrisponde all’uso di un autobus.

Una beffa che si va ad aggiungere al mancato riconoscimento dei rimborsi per le spese della benzina della macchina personale con cui i dipendenti della Soprintendenza svolgono i servizi esterni. A far scattare la mobilitazione è stata una circolare interna alla Soprintendenza del 5 settembre che richiama una nota del segretariato generale del 23 giugno scorso che, a sua volta, interpretava in modo restrittivo una sentenza della Corte dei Conti del 5 aprile. «In sostanza, si stabilisce non solo che non potrà essere riconosciuto il rimborso delle spese connesse, che l’uso della macchina viene pagato come un autobus, ma che tale disposizione ha validità retroattiva a partire dal 5 aprile», dichiara Roberto Egidi direttore del Foro Romano e del Palatino.

«Dal 5 aprile gli archeologi si vedono tagliati dagli stipendi, che vanno da 1300 a 1700 euro al mese, circa 200, 300 euro al mese per sostenere autonomamente le spese per garantire la tutela del patrimonio di cui sono responsabili» - incalza la direttrice dell’Appia Antica e di Palazzo Massimo Rita Paris. «Il nostro lavoro è basato sulla tempestività, visto che sul territorio di Roma ci sono in atto almeno un centinaio di cantieri preventivi - sottolinea Egidi - E con la macchina, a proposito di economicità, noi riusciamo a fare più sopralluoghi nella stessa giornata. Che dobbiamo fare, aspettare le coincidenze degli autobus o andare a piedi?». Per questo, l’assemblea ha scritto una lettera per la Soprintendente Anna Maria Moretti in cui si chiede di far presente al Ministero la gravità della situazione in presenza del patrimonio archeologico più importante del mondo e ancora sotto regime di Commissariamento. «Fin da domani - dice Paris - parte del personale, non utilizzerà più il mezzo proprio. Questo significa innescare uno sciopero bianco permanente, un black out dei cantieri. Si andrà verso la paralisi». A rischio, gli stessi cantieri del Commissario Cecchi. Dall’Appia Antica, a Ostia Antica, fino a tutto il Parco di Veio nella parte romana.

Postilla

La situazione denunciata nell’articolo di cronaca romana è purtroppo comune a tutte le Soprintendenze d’Italia, non solo archeologiche.

Al di là della gravità formale di un atto a valenza retroattiva (al Collegio Romano sembra ormai sconosciuto anche l’abc dell’amministrazione), questa restrizione che impedisce de facto il monitoraggio del territorio assesta un colpo micidiale al sistema della tutela in Italia.

Aree vastissime, non servite regolarmente dai mezzi pubblici, sono così abbandonate ad un destino da Far West.

Ciò che manca, da sempre, a questo paese, è un’efficace rete di controlli e monitoraggi. Per quanto riguarda il territorio, questo compito, a difesa del nostro patrimonio culturale e del nostro paesaggio, era svolto, da decenni, dal personale di Soprintendenza, spesso unico, fragile presidio della legalità territoriale.

Privare le Soprintendenze di questo compito, significa snaturarne radicalmente le funzioni e comprometterne l’attività, spesso irreparabilmente: eventualità che poco preoccupa, evidentemente, gli altri vertici del Ministero. (m.p.g.)

7 settembre 2011

QUESTO CAPANNONE S’HA DA FARE:

PIUTTOSTO SPOSTIAMO GLI ETRUSCHI

Comunicato del gruppo cosiliare

di: Laboratorio per un'altra San Casciano -

Rifondazione Comunista

5 settembre, seduta della Commissione consiliare ambiente e territorio per discutere il Regolamento Urbanistico Comunale di San Casciano in val di Pesa: i rappresentanti del gruppo Laboratorio per un’altra San Casciano – Rifondazione Comunista abbandonano la seduta perché ritengono inutile partecipare a una discussione, pur fondamentale perché relativa ad ulteriori incrementi del consumo di suolo, quando sono stati negati trasparenza e coinvolgimento su un intervento assolutamente rilevante per il nostro territorio come l'area archeologica di Ponterotto emersa nel corso dei lavori del cantiere Laika, e chiedono l'immediata discussione dell'intero progetto nella commissione medesima.

Sorprese estive. Nel mese di agosto la Giunta comunale di San Casciano ha approvato una delibera dal titolo “Approvazione accordo per la disciplina dei rapporti per la rimozione, ricollocazione, restauro e valorizzazione delle strutture archeologiche rinvenute in località Ponterotto”. Erano diversi mesi, per lo meno dall'aprile 2010, che era stato chiesto ufficialmente un chiarimento in merito agli scavi in atto nel sito del cantiere Laika. Fu risposto, dall’Amministrazione comunale e anche dalla Soprintendenza, che la situazione era sotto controllo, che si procedeva tranquillamente al rilievo dei reperti e che, una volta chiusa l'indagine archeologica, sarebbe stata resa nota la relazione finale con la quale avremmo potuto conoscere la natura e l'entità dei ritrovamenti.

Anche nel successivo mese di settembre, in occasione dell'approvazione della delibera per lo stanziamento di fondi per un non ben identificabile “Museo Laika” denunciammo la mancanza di trasparenza non essendo assolutamente chiaro il tipo di intervento che si andava delineando sul sito archeologico. Adesso con la delibera del primo agosto scopriamo che già nel giugno 2010 il gruppo Hymer (proprietario di Laika) aveva avanzato la proposta di una “rimozione” del complesso dei reperti archeologici (etruschi e romani, ossia dell'intero insediamento edificato) e successiva “ricollocazione” in altra sede, e che questa proposta era stata accolta favorevolmente sia dal Comune che dalla Soprintendenza. Per più di un anno, quindi, si sono svolti tutti i contatti che hanno portato a questa delibera, presentata come una originale “valorizzazione” di un sito archeologico, ma l'Amministrazione in tutto questo periodo non ha ritenuto opportuno discuterne in modo esauriente in consiglio comunale e neanche in commissione urbanistica.

Di norma in situazioni di questo genere i casi sono due: o i reperti non hanno gran valore, e allora se ne fa il rilievo e se ne pubblicano i risultati scientifici, per poi ricoprire il sito, oppure lo scavo si rivela importante e allora saranno i progetti di nuove opere che si dovranno adeguare. E’ quanto è successo a Gonfienti, nel caso del centro intermodale di Prato, ma anche sulla Grosseto-Siena, dove il tracciato è stato “rialzato” per lasciare la possibilità di studiare reperti etruschi importanti, vicino a Roselle. Qui al Ponterotto, invece, Hymer dichiara che la presenza degli scavi è incompatibile con quella del capannone progettato: e allora? Allora si spostano quelle quattro pietre che (in fondo) non interessano a nessuno, nella prevista “Area archeologica di Ponterotto” collocata in adiacenza alla zona de La Botte in prossimità della percorso pedo- ciclabile. Meglio ancora, così ci si va anche in bicicletta a visitare la (falsa) area archeologica.

Non è nostro compito mettere in discussione l’avallo che la Soprintendenza e il Ministero dei Beni Culturali hanno dato all’operazione, certamente ci proponiamo di approfondire le scelte fatte con la collaborazione di esperti qualificati. Intanto ci sembra inevitabile rilevare la mancanza di trasparenza da parte della Giunta comunale in tutta questa vicenda, nonostante le assicurazioni date. E perché nessuno viene a spiegare ai più diretti interessati, cioè ai dipendenti Laika, come mai si sono persi dieci anni senza che nessuno dei responsabili, pubblici e privati, si accorgesse che qualche centimetro sotto terra c’ erano tracce di insediamenti di più di duemila anni? Non avevano mai sentito parlare di archeologia preventiva?

Ma l’errore risale proprio a quella scelta di dieci anni fa, quando fu individuata un'area agricola che doveva essere per forza proprio quella, senza nessuna possibile alternativa, un'area ad alto valore ambientale e paesaggistico, evidentemente inadatta ad ospitare un insediamento industriale. Se davvero c’era l’urgenza che allora ci dicevano, non era meglio cercare soluzioni diverse? La “ricollocazione” del sito archeologico del Ponterotto non è che l’ultima forzatura per coprire le responsabilità di chi ha voluto a tutti i costi un’operazione immobiliare che nulla ha a che vedere con l’interesse dei lavoratori.

8 settembre 2011

QUANTO VALE UNA STORIA DI 2000 ANNI

di Archeopatacca

Per consentire a LAIKA la realizzazione di un capannone si progetta lo spostamento in altra sede degli insediamenti etruschi e romani trovati negli scavi: una vera e propria “archeopatacca”!

Da più di 10 anni il Comune di San Casciano persevera nella scelta di una localizzazione sbagliata e ad alto impatto ambientale e paesistico per il capannone richiesto dalla multinazionale Hymer, proprietaria di LAIKA caravan. Usando il ricatto occupazionale l’azienda ha ottenuto una variante ad hoc, su terreni agricoli acquisiti in un sito lontano dal distretto della camperistica, al di fuori di ogni pianificazione e neanche indagato con i necessari rilievi di archeologia preventiva.

Dopo 7 anni dalla adozione della variante non un mattone della fabbrica è stato posato, a dimostrazione di come si sarebbe potuto tranquillamente scegliere una localizzazione più adatta e di come la “urgenza” imprenditoriale nascondesse solo un lucroso investimento immobiliare.

Ad accrescere la miopia della scelta, durante gli scavi per il capannone emergono nell’anno 2010 importanti resti di un fabbricato etrusco e della pars rustica di una villa romana. Invece di valorizzare tali testimonianze storiche, imponendo al privato di adeguare l’intervento al mantenimento della stratificazione emersa durante gli scavi, l’amministrazione comunale interviene CON PROPRIE RISORSE per rendere possibile la demolizione di muri e fondazioni, e la loro ricostruzione a guisa di “finte rovine” lontano dal perimetro previsto del fabbricato industriale: una vera e propria “archeopatacca”!.

Le alternative c’erano, si poteva ipotizzare uno spostamento dei volumi o una loro riduzione, stante la banalità architettonica del manufatto (un parallelepipedo di metri 300X100X11). Inoltre: LAIKA è una azienda in crisi, che dopo un periodo di crescita (nelle sedi della Sambuca) dal 2006 al 2010 ha perso mercato riducendo la produzione e soprattutto la forza lavoro impiegata. Il nuovo capannone non si giustifica quindi in nessun modo, visto che le stesse previsioni aziendali parlano di limiti alla produzione dovuti alla crisi mondiale. Ma evidentemente l’interesse privato a realizzare tutta la volumetria concessionata vale più di duemila anni di storia.

La traslazione di muri e fondazioni in mattoni e ciottoli non potrà che essere distruttiva, e la demolizione dello scavo sicuramente toglierà alla ricerca scientifica la possibilità in futuro di analizzare un insediamento rurale importante per capire gli ordinamenti della campagna in epoca etrusco-romana. Non si tratta di edifici, che possono eventualmente essere smontati e rimontati, ma di tracce e resti di manufatti che hanno senso solo se rimangono nel proprio sito.

Che tutto questo si faccia non per realizzare un’opera di pubblico interesse ma semplicemente per venire incontro alle richieste di un investitore privato suscita perplessità e sconcerto.

Da più di un anno, in segretezza, l’amministrazione comunale e la Hymer hanno percorso l’iter autorizzativo evitando ogni confronto pubblico e addirittura negando ogni visibilità e informativa sul caso (era dal giugno 2010 che andava avanti il progetto che definiamo “archeopatacca”).

Facciamo perciò appello alla Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici del Ministero per i beni culturali, alla Soprintendenza per i beni archeologici della Toscana, alla Direzione regionale (settore musei ed ecomusei) della Regione Toscana, perché non sia ratificato l’accordo per la rimozione delle strutture archeologiche. In particolare, facciamo appello agli assessorati regionali competenti perché sia possibile aprire un confronto tra gli esperti del settore in vista di un approfondimento scientifico sul sito archeologico, sospendendo temporaneamente ogni decisione.

Legambiente circolo “Il Passignano”, AMAT Montespertoli, MDT Montespertoli, Rete dei Comitati per la difesa del territorio, Italia Nostra Firenze, WWF sezione di Firenze, Legambiente toscana

La data fatale è il 2014. Forse il 2015. Con una coda al 2020. Entro il decennio, comunque, il ministero per i Beni culturali potrebbe restare senza personale. O quasi. Bastano alcuni dati: l´età media dei funzionari è di 58 anni, sei dirigenti su dieci sono nati negli anni Quaranta e Cinquanta, le assunzioni sono poche e ancora meno lo saranno in futuro. Molto prima di quella data, chi dice gennaio prossimo, chi marzo, una ventina di soprintendenze, in particolare storico-artistiche, potrebbero sparire accorpate a quelle architettoniche. Ed è anche andata bene: l´eliminazione era prevista per Ferragosto, con un blitz, poi scongiurato, di Salvatore Nastasi, onnipotente capo di gabinetto con il ministro Sandro Bondi e ora con Giancarlo Galan molto in ombra.

Sono tanti i nuvoloni neri che si addensano sul nostro patrimonio e su chi svolge la tutela. Domani e dopodomani si incontreranno nella Certosa di Padula, in provincia di Salerno, una sessantina di neo-soprintendenti oltre a dirigenti di altri istituti del ministero, di archivi e biblioteche. È la prima volta che si riunisce un´assemblea così ampia. Verrà fuori il malessere di cui soffrono la protezione del paesaggio, dei siti archeologici, dei musei, di biblioteche e archivi. Un malessere dovuto a tagli che impediscono missioni e sopralluoghi, a un carico burocratico ossessivo che impedisce la conoscenza e la cura dei territori da tutelare. E che chiama in causa politici e governi di tutti gli schieramenti. Ma nelle intenzioni di alcuni dei partecipanti c´è anche di evitare autofustigazioni e geremiadi e di rilanciare il profilo culturale di un mestiere che negli ultimi anni, andata in pensione la generazione degli Adriano La Regina e dei Pier Giovanni Guzzo, si è sbiadito.

I soprintendenti che saranno a Padula hanno frequentato un corso di formazione, seguito da uno scambio fitto di mail. Poi l´idea di un convegno molto low profile, organizzato senza che nelle stesse soprintendenze se ne sapesse nulla e che pian piano è cresciuto nelle dimensioni fino a cambiare forma. Saranno infatti presenti anche il segretario generale del ministero Roberto Cecchi, e i direttori generali Antonia Pasqua Recchia e Luigi Malnati.

Come sopravvivere in una condizione di assoluto disagio e come esercitare al meglio gli obblighi che la legge, a cominciare dalla Costituzione, impone loro? Racconta Luca Caburlotto, soprintendente storico-artistico del Friuli e con due incarichi ad interim che coprono tutto il Veneto tranne Venezia (di fatto regge l´intero nord-est): «A luglio hanno tagliato al mio ufficio il 35 per cento dei fondi. Mi domando: o erano inutili prima oppure ci stanno tagliando il minimo indispensabile». Negli ultimi tempi sono diventati impellenti i rendiconti di spesa e delle attività svolte. «Fra un monitoraggio e l´altro cerchiamo di fare tutela», insiste Caburlotto. «Sono misurazioni puramente quantitative. E inoltre vale di più la rapidità con la quale rispondiamo a una richiesta di verifica di interesse avanzata da un privato che, poniamo, vuol vendere un bene, anziché quanti vincoli mettiamo». «Sulla base di questi dati veniamo valutati», dice Marta Ragozzino, soprintendente a Matera. E se sono insufficienti si può essere rimossi o trasferiti.

Una struttura come i Beni culturali ha bisogno di ricambi periodici, anagrafici e culturali. Che da anni sono impossibili, visto che almeno due generazioni di architetti, storici o archivisti sono rimaste fuori dalle strutture pubbliche di tutela. «Ricordo quant´era importante, per me giovane funzionaria, seguire il collega più anziano nei sopralluoghi», insiste Ragozzino. «Un sapere fresco di studi si intrecciava con l´esperienza, la conoscenza di luoghi e persone. Noi siamo le sentinelle di un territorio. Da quando sono a Matera ho imparato quant´è importante fare le cose insieme. Insieme nell´ufficio e insieme agli enti locali e alle fondazioni. E quanto è decisivo portare per mano un privato e farlo diventare agente diretto della tutela di un bene». Ma anche a Matera si è abbattuta la scure: 55 per cento in meno i fondi, pochissimi custodi e il Museo nazionale che, senza custodi, potrebbe chiudere nel fatidico 2014.

Da più parti si sente il bisogno anche di rivedere il proprio ruolo. La carenza di soldi e l´impressione di essere su una nave alla deriva, rende però difficile riflettere sulle ragioni per le quali è indispensabile incrementare la protezione di un patrimonio che a sua volta è in continuo incremento. «I beni crescono, ma noi diminuiamo», dice Maura Picciau, soprintendente ad Avellino e Salerno, fra le organizzatrici dell´incontro, che ogni lunedì è a Cagliari perché non ci sono altri storici dell´arte in Sardegna che possano firmare i vincoli. Gli scavi archeologici sono il segnale di un patrimonio che sfugge a ogni controllo e a ogni conoscenza: se ne compiono tantissimi, a causa dei lavori per un elettrodotto o per un parcheggio, ma quanto del materiale rinvenuto viene schedato, restaurato e reso pubblico? I magazzini delle Soprintendenze sono pieni di pezzi impolverati. «Ci si muove solo per emergenze», interviene Micaela Procaccia, soprintendente archivistico di Piemonte e Val d´Aosta, «e solo quando si deve fronteggiare il pericolo che corre un bene immediatamente percepibile». E per questo gli archivi sono la cenerentola di un settore che è cenerentola a sua volta. «Noi siamo meno visibili, meno spendibili in termini di mercato. L´anno scorso il mio ufficio aveva 38 mila euro per finanziare interventi in archivi non statali. Quest´anno sono 26 mila. Nel 2004 avevamo 19 dipendenti, 5 dei quali archivisti, oggi ne abbiamo 10 e 4 sono archivisti. Ognuno di loro cura 300 comuni. E solo un paio sono quarantenni».

L'Accademia della Crusca è l'istituto, ospitato in una villa medicea presso Firenze, che cura e vigila sulla lingua italiana dal 1612. Per i 150 anni del nostro paese si sono sprecate le affermazioni sull'importanza dell'italiano come elemento che ha legato un territorio diviso. Ora la Crusca rischia di venir soppressa con la manovra: è tra gli enti con meno di 70 dipendenti insieme all'Istituto per l'Africa e l'Oriente, quel che rimane del Coni e altri istituti.

A rischio anche la storica Accademia della Crusca di Firenze: è infatti uno degli enti, una trentina in tutto, che sono sotto i 70 dipendenti e dunque che potrebbe rientrare nella norma della manovra varata ieri dal consiglio dei ministri. Nella stessa situazione ci sarebbero anche l'Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente, l'Agenzia per il Terzo Settore, il Museo Storico della Fisica e quel che è rimasto del Comitato Olimpico Nazionale Italiano, il Coni, dopo la privatizzazione dell'ente. Nel decreto legge non c'è una indicazione precisa degli enti che potrebbe essere fatta in un secondo momento con un provvedimento ad hoc.

Nicoletta Maraschio, docente universitaria e presidente dell'Accademia, è incredula: “Non posso credere che la cancelleranno”.

Professoressa, stando alla manovra voi siete candidati a sparire.

Non posso credere che lo faranno davvero. Non si sapeva se l'Accademia era davvero nell'elenco, invece pare di sì. Nel 2009 Brunetta e Calderoli la salvarono tirandola fuori dall'elenco degli enti inutili, ora non se si farà riferimento a un decreto legge di dicembre che ne riprende uno del 2009. Fatto sta che siamo tra gli enti non economici con meno di 70 dipendenti.

Quanti siete?

Abbiamo 6 dipendenti, tre in biblioteca e tre in segreteria. Poi gli accademici che saranno più di 50 studiosi di tutto il mondo, e che lavorano a titolo gratuito, come me. Poi abbiamo i collaboratori che vivono in condizioni di totale precarietà con contratti a progetto in base ai soldi che troviamo. Variano da 20-30 persone e sono quelli che concretamente mantengono il sito, digitalizzano le opere, aggiornano l'archivio e così via.

Cosa vi servirebbe?

Da tre anni cerchiamo di avere una legge apposita che definisca una nostra natura giuridica pubblica e preveda una dotazione ordinaria, finora non ci siamo riusciti. Noi e i Lincei di Roma siamo le uniche accademie pubbliche italiane: non credo loro abbiano 70 dipendenti ma hanno una legge che forse li tutela. Non posso credere che il governo cancelli un'istituzione secolare come la Crusca legata al nostro vocabolario, che è un riferimento fondamentale per l'italiano dal 1612 a e oggi siamo un istituto di ricerca attivo in tutti i settori. Vedremo se hanno il coraggio di farlo.

Quale è il vostro ruolo?

Tutti i paesi del mondo hanno un'istituzione che si occupa della lingua nazionale. Questo è nostro ruolo da secoli e abbiamo fatto da modello per gli altri paesi. Cancellare la Crusca cosa significa? Nel 2011 si è detto e ridetto che la lingua è il collante fondamentale e l'identità in un paese diviso socialmente e linguisticamente. E si cancella l'istituzione che è garante della lingua?

Siete un ente che spreca soldi?

(scoppia in una sonora risata, ndr). Passo il tempo in accademia, non prendo un euro, è un lavoro volontario come quello degli accademici. Dal ministero dei Beni culturali riceviamo circa 190mila euro. Tutti gli altri soldi, oltre un milione di euro, li dobbiamo trovare noi attraverso rapporti con enti, istituzioni, grazie all'associazione degli Amici della Crusca, con una convenzione con Cnr, con il contributo annuale della Regione (per il 2011 darà 200mila euro). Attraverso un lavoro enorme nostro ci procuriamo soldi per sopravvivere ma senza poter programmare il futuro: sono sicura dei soldi fino al 31 dicembre ma dopo non so cosa succederà. Se mi arrivassero solo i fondi del ministero, allora non importerebbe nemmeno fare il decreto, chiuderemmo.

La natura, il Vesuvio, furono crudeli nel 79 dopo Cristo ma a modo loro più pietosi: in un paio di giorni Pompei venne sommersa da una colata piroclastica e per secoli giacque addormentata. In questi ultimi anni assistiamo invece alla progressiva agonia del sito archeologico, da ascriversi alle geometriche incompetenze certificate da un rapporto dell’Unesco; alla sottrazione di risorse preziose per la sua conservazione, grottescamente distolte in forza del decreto cosiddetto «Salva Pompei»; mentre una feroce speculazione minaccia di mortificare ulteriormente l’area strangolandola nel cemento. Brillante, presenzialista, gran dichiaratore, Giancarlo Galan aveva scelto proprio Pompei, epicentro della “débacle” del suo predecessore Sandro Bondi, per la sua prima conferenza stampa da Ministro dei Beni e delle Attività Culturali: era il 12aprile scorso e per il disastrato sito promise una nuova cura, nuovi fondi statali ed europei e, che noia!, il salvifico arrivo dei privati.

Il tutto facendosi forte di un decreto legge, il n. 34, approvato il 31 marzo: senonché proprio quel provvedimento sancisce de iure la futura agonia del sito. All’articolo 2, pomposamente intitolato «Potenziamento delle funzioni di tutela dell’area archeologica di Pompei», c’è la norma che permette al ministero di «disporre trasferimenti di risorse tra le disponibilità delle Soprintendenze».

E quindi, per potenziare la soprintendenza di Pompei, grazie a questo comma gli hanno subito sottratto 5 milioni di euro, destinati a ripianare i debiti del Polo Museale della città di Napoli, un carrozzone creato nel2003 dall’allora ministro Giuliano Urbani, a quanto si dice per poltronificare Nicola Spinosa da risarcire per la mancata nomina a Direttore regionale. Costo: una voragine di 12 milioni di euro in pochi anni. Per ripianare questo buco, oltre a Pompei, altri 5 milioni di euro sono stati sottratti alla soprintendenza di Roma, con lavori già pianificati e ora rinviati: a quando?

A Pompei la situazione è drammatica: l’anno scorso, dopo i crolli reiterati, mentre l’allora ministro Bondi incolpava la sinistra dei disastri, una commissione dell’Unesco era piombata nell’area archeologica per capire cosa davvero stesse succedendo. La relazione Unesco boccia l’opera di Marcello Fiori, commissario straordinario voluto da Bondi e preso dalla Protezione civile: in generale per la mancanza di manutenzione e di conservazione, e in particolare individuando le cause dei crolli nella mancata irreggimentazione della acqua piovana; giudica inutili e avventati i lavori promossi da Fiori per valorizzare il sito, come l’orribile rifacimento del teatro nuovo.

Tra gli ispettori Unesco c’è Alix Barbet, l’insigne archeologa esperta in pitture dell’età romana: non le sfugge la mancanza di alcuni affreschi smontati dalle collocazioni originali, ne chiede conto ma nessuno sa rispondere. Si reca in questura, fa un esposto: gli affreschi sono rintracciati in un magazzino, dove erano stati «dimenticati».

La relazione dell’Unesco si conclude con 19 raccomandazioni di fuoco allo Stato italiano: più di tutte brucia l’accusa di non aver capito l’importanza universale di Pompei. L’Unesco infatti non protegge siti belli o di per sé importanti e suggestivi, ma ciò che ha valore per tutta l’umanità e il cui significato deve essere conservato e non disperso. Torneranno nel 2013 gli ispettori dell’Unesco, nel frattempo segnalano una situazione di progressivo degrado e una decina di domus in immediato pericolo. Ma prima che arrivi l’inverno, come correre ai ripari se le risorse sono state tagliate? Il Ministro aveva promesso nuovo personale – ma fino a oggi nulla è stato fatto – e 100 milioni di euro europei prima dai fondi Fas, poi dai Poin.

In entrambi i casi si tratta di procedure lunghe e complicate, sulle quali a Bruxelles l’Italia si è guadagnata una triste fama. Arriveranno? E quando arriveranno? Impressionati dalla situazione di Pompei, gli ispettori dell’Unesco hanno contattato le fondazioni internazionali dedite al mecenatismo: si è interessata la Fondazione Défense, una cordata di imprenditori che può godere di agevolazioni fiscali per gli investimenti in cultura non solo in Francia ma in tutta la Ue. Si parla di 200 milioni di euro e, improvvisa, scende subito in campo un'altra cordata, di imprenditori napoletani questa volta: soldi zero, ma disposti a realizzare a pagamento – con i soldi dei loro colleghi francesi, che faranno bene a stare molto attenti – una serie di opere intorno al sito: alberghi, ristoranti, centri commerciali, info-point e vai così.

Il rischio di cementificazione intorno al sito è reale: sempre il decreto «Salva Pompei» prevede infatti che interventi cosiddetti urgenti «all'esterno del perimetro delle aree archeologiche (di Pompei) possono essere realizzati in deroga alla pianificazione urbanistica». A insorgere contro questo comma,quando il decreto venne trasformato in legge, è stata solo Italia Nostra, «vox clamantis in deserto». Pompei anno 2016: un anello di cemento, fatto di alberghi, centri commerciali e benessere con altisonanti nomi tipo Hotel Polibio, Epicurus Lounge, Resort Casti Amanti, circonda una area ex archeologica oramai ridotta a discarica del passato. Internet gratis per tutti.

«Seguitemi»: una guida fa cenno al suo gruppo perché si metta in coda. C´è anche un ragazzo disabile, in fila con la sua sedia a rotelle, Francesco. Migliaia di turisti, provenienti da ogni dove, affollano il piazzale. C’è un gran brusio, sono le quattro del pomeriggio, 30 gradi all’ombra. Al Colosseo è sempre caos, d’inverno ma soprattutto d’estate. Il ragazzo passa il primo blocco di tornelli, ma non va oltre. Torna indietro e ha stampata sulla faccia la delusione: «E dire che sono venuto da Napoli per fare questa visita. Non mi hanno fatto salire neanche al primo piano. Gli ascensori sono fermi. Non so se potrò ritornare...».

Francesco è solo uno fra i tanti disabili che da oltre due mesi non possono accedere al primo piano del monumento, quindi non ne possono "assaporare" la bellezza dell’insieme. I due ascensori che portano ai piani superiori sono guasti. «Già 3 o 4 mesi fa ogni volta che venivano utilizzati, si bloccavano e puntualmente qualcuno rimaneva dentro. A quel punto dovevamo chiamare il tecnico - dice un custode - perciò sono stati chiusi. Hanno 10 anni e le corde sono usurate. Devono essere sostituiti». Una giustificazione che non regge per i diversamente abili che scoprono questo problema dopo aver fatto il biglietto e la fila. I responsabili della sovrintendenza, che gestisce l’area monumentale, sentono però di avere la coscienza a posto: hanno esposto una serie di piccoli cartelli lungo il percorso che porta alle biglietterie "Si comunica a tutti i visitatori che gli ascensori per i diversamente abili sono attualmente in manutenzione".

Ma perché non si risolve il problema? Non si capisce di chi sia la responsabilità. Alla fine però la direttrice del Colosseo, Rossella Rea, annuncia la buona notizia: «I lavori inizieranno il 12 agosto e finiranno per fine ottobre». E poi accusa: «La colpa è dei custodi e delle guide che ne hanno fatto un uso improprio. Intanto l’ascensore può essere utilizzato con l’ausilio di un tecnico». Ma la presenza del tecnico è un problema nel problema: lo dovrebbero chiamare di volta in volta i custodi ma, secondo le persone diversamente abili, non lo fanno. La deputata Ileana Argentin, che è incappata in questo disagio al Colosseo, è stupefatta: «I custodi mi hanno detto che se volevo spiegazioni dovevo andare dalla direzione in Piazza dei Cinquecento. C’è un rimpallo di responsabilità. Non voglio farne una battaglia di opposizione, vorrei solo che tutti i disabili potessero visitare il Colosseo».

La notizia apparsa sabato sul vostro quotidiano a firma di Vittorio Emiliani è totalmente falsa e fantasiosa. Le considerazioni di carattere personale e le insinuazioni che mi vengono rivolte, le rispedisco al mittente, concentrandomi su cose più serie. Sulla vicenda invece del Polo Museale di Napoli voglio precisare che, il meccanismo perequativo secondo il quale le soprintendenze «più ricche» possono ripianare il rosso delle più «povere», è un fatto ordinario. La malevolenza con cui si insinua che, in quanto napoletano e sottosegretario ai Beni Culturali, avrei esercitato pressioni per attuare questo meccanismo a favore del Polo Museale di Napoli è falsa e priva di ogni fondamento, in quanto non me ne sono mai personalmente occupato. I 10 milioni di euro di passivo del Polo Museale, saranno ripianati secondo il citato meccanismo di perequazione, stornando 5 milioni rispettivamente dalle Soprintendenze Speciali Archeologiche di Roma e di Pompei, con il consenso delle stesse e senza alcuna pressione da parte di nessuno. In un momento in cui si parla tanto di stravolgimenti del Federalismo, sono certo di aver dimostrato di avere a cuore l'intero patrimonio artistico italiano e di aver, anzi, combattuto contro ogni forma distorta di campanilismo. Sono meridionale ed amo la mia terra, ma ho sempre lavorato per il paese e credo che, se anziché cercare fantasmi, ci si impegnasse nella ricerca delle vere storture del sistema, avremmo sicuramente un Patrimonio culturale ed artistico migliore.

Riccardo Villari

Il sottosegretario Villari omette due dati di fondo: 1) le Soprintendenze speciali devono essere autosufficienti, se quella del Polo Museale di Napoli non lo è, pur amando anche noi molto il Sud, va ridotta a Soprintendenza «normale» (meno spendereccia); 2) all'archeologia di Roma e Ostia i 5 milioni di euro sono stati sottratti «col consenso» dell'architetto Cecchi commissario straordinario all’ “emergenza»: se si lascia sfilare quei denari, l'emergenza-crolli e altro non c'è più, e dunque deve dimettersi. Il resto? Parole in libertà, transumanti come il senatore Villari.

Vittorio Emiliani

Postilla

Chi legge eddyburg ha imparato a diffidare del termine “perequazione”, perché in genere nasconde operazioni di scambio quasi sempre a danno del nostro territorio. Il caso in questione conferma la regola.

Se è vero che sia legittimo andare in soccorso delle Soprintendenze economicamente male in arnese, questo meccanismo dovrebbe essere improntato a principi di trasparenza e razionalità: senza intaccare, cioè, i fondi per le somme urgenze (per di più di una Soprintendenza commissariata come è quella archeologica di Roma e Ostia, e quindi in emergenza) o per progetti in corso di ultimazione (al Sottosegretario sono noti i costi di arresto di un cantiere per oltre un anno?).

Al di là dell’incredibile ipocrisia con cui si è cercato di far passare questo scippo, inserendolo nel decreto “salva Pompei” quasi si trattasse di attribuire nuovi fondi al sito, mentre si stava progettando di sottrarne, questa vicenda sottolinea in maniera impietosa l’incapacità gestionale dei vertici del Ministero dei Beni Culturali.

Quanto alla visione federalista del Sottosegretario Villari, che si è fatto allestire, a poche ore dalla nomina, acconcio ufficio a Castel dell’Ovo, la sua attenzione esclusiva a tutto ciò che succede con vista Vesuvio si appaia perfettamente a quella, altrettanto a senso unico, del suo collega Giro per quanto riguarda ciò che accade all’interno delle mura Aureliane (o poco oltre).

Sarà un caso che le deleghe del Ministero, attribuite non certo per ambito culturale o tipologia di attività, come ci si sarebbe aspettato, coincidano esattamente con i bacini elettorali dei due Sottosegretari? (m.p.g.)

Sulla vicenda, in eddyburg

Si è tenuta oggi ai piedi dello storico monumento la conferenza stampa indetta dall’Italia dei valori contro l’accordo che affida a Della Valle la sponsorizzazione dei lavori di restauro. I dubbi del partito sulla legittimità del patto e sulle conseguenze per l’erario. Donadi: “In atto un magna magna a spregio del pubblico interesse”

“Un’operazione di pura svendita e dismissione di competenze che consegna nelle mani dei privati un immenso patrimonio artistico e culturale”. È la denuncia dell’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, che sulla sponsorizzazione dei lavori di restauro del Colosseo, affidata alla Tod’s di Diego Della Valle, vuole vederci chiaro. Questa mattina, una delegazione dell’Idv si è riunita ai piedi del “gigante buono” per annunciare il ricorso all’Autorità di Vigilanza dei Contratti Pubblici in vista della valutazione di legittimità dell’accordo con l’imprenditore marchigiano. Per i dipietristi, quella in atto, è “un’operazione condotta esclusivamente a fini commerciali, che in barba alla normativa vigente e a scapito dell’interesse pubblico, farà fare grossi profitti al privato”.

Il patto firmato, in data 21 gennaio 2011, fra la Tod’s spa, la Soprintendenza Archeologica di Roma e il Commissario Straordinario per gli interventi sulle aree archeologiche di Roma e Ostia, consente allo sponsor di costituire un’associazione che potrà registrare e utilizzare, in esclusiva mondiale e a tempo indeterminato, un logo con l’immagine del Colosseo “in maniera – denunciano i dipietristi - del tutto svincolata dall’iniziativa di restauro”. Un particolare che l’articolo 120 comma 2 del Codice Beni Culturali non prevede e che a fronte di un contributo iniziale da parte della società, di soli 25 milioni di euro (tasse incluse), permetterebbe allo sponsor di incassare ingenti somme di denaro. Se a questo poi si aggiunge la possibilità di dare vita a un centro per i servizi di accoglienza con area ristoro e attività commerciale, “la posta in gioco diventa ancora più alta”, ha chiosato la consigliera alla Regione Lazio, Giulia Rodano. “In questo modo – precisa – non solo si svende l’immagine di un gran pezzo del nostro patrimonio artistico e culturale, che andrebbe tutelato secondo Costituzione, ma anche la sua stessa gestione”.

Da un lato, dunque, l’incapacità di valorizzare beni culturali di inestimabile valore per il paese e dall’altro la poca trasparenza nelle procedure amministrative. “Governo e Comune – ha denunciato il capogruppo dell’Idv alla Camera dei Deputati, Massimo Donadi - si sono mossi con un’ingiustificabile opacità nel fare questa convenzione”. “Della Valle – spiega – ha bypassato la gara pubblica facendo la propria offerta in una trattativa privata che non chiarisce il ruolo degli enti pubblici”. Per esempio, non si dice se Comune, Provincia, Regione e Stato dovranno versare a Della Valle un corrispettivo monetario per tutte le volte che useranno l’immagine del Colosseo, come nel caso del logo che apparirà sui biglietti d’ingresso, stimati in oltre cinque milioni. “Altro che magnate”, affermano riferendosi all’imprenditore, patron tra l’altro della Fiorentina. “Se lo fosse veramente – incalza Donadi - avrebbe fatto come la Hewlett-Packard, la grande azienda informatica che oggi sta finanziando con 200 milioni di euro propri la ricostruzione delle rovine di Ercolano, senza nessuna contropartita, senza nessuna pubblicità e soprattutto senza nessuna connivenza poco chiara con questo governo e questa amministrazione cittadina”. Per il capogruppo Idv alla Camera dei Deputati, “qui c’è solo un magna magna a spregio del pubblico interesse”. Ma nessuno, a parte pochi, sembra volersene accorgere. “Stupisce – ha ammiccato il segretario romano dell’Idv, Roberto Soldà – che Comune e Regione siano rimasti silenti di fronte a questa situazione inaccettabile”. Eppure c’è poco da fare: i beni culturali, al pari di acqua e ambiente, sono costituzionalmente tutelati e considerati beni comuni. “Proprio per questo motivo – hanno affermato in chiusura – noi, come Italia dei Valori, ci impegniamo fin da ora a contrastare qualsiasi tentativo di privatizzazione dei beni culturali. Lo abbiamo fatto per l’acqua e continueremo a farlo anche per il Colosseo, come per il resto del patrimonio monumentale italiano”.

Ad oltre 100 giorni dal così detto decreto “salva cultura” (n.34, 31/3/2011) con il quale si sarebbero dovuti rimpolpare i magri bilanci del Mibac, sull’orlo del collasso dopo i tagli lineari delle precedenti finanziarie, la situazione appare non solo ancora gravissima, ma a dir poco contraddittoria.

Nonostante i reiterati annunci, così come Italia Nostra aveva denunciato con tempestività (comunicato del 12 aprile 2011), nessuna risorsa certa risulta stanziata per Pompei.

Non solo, ma il comma 8 del decreto prefigurava, al contrario di quanto ci si sarebbe attesi da un provvedimento dedicato a – letteralmente - “Potenziamento delle funzioni di tutela dell’area archeologica di Pompei”, un trasferimento di fondi tra Soprintendenze.

All’epoca, solo Italia Nostra aveva sottolineato come si trattasse in realtà di rendere possibile il passaggio di risorse non verso Pompei, ma da Pompei verso altre Soprintendenze in difficoltà gestionale.

Gli annunci di questi giorni sugli storni di fondi a salvataggio della disastrata situazione finanziaria del Polo Museale napoletano, svelano le vere finalità del decreto.

Italia Nostra ribadisce che operazioni di trasferimento da Soprintendenze “ricche” verso istituzioni economicamente svantaggiate, ma non certo meno importanti come Capodimonte (ma probabilmente da ripensare come autonomia), sono del tutto legittime, ma vanno compiute nella massima trasparenza e con una strategia complessiva che, al contrario, nel caso in questione appare del tutto assente.

Come giustificare, infatti, che il prelievo delle risorse finanziarie della Soprintendenza Archeologica speciale di Roma e Ostia (assieme a Napoli e Pompei, l’altra Soprintendenza interessata dallo storno a favore di Napoli), vada a decurtare pesantemente il fondo per gli interventi di estrema urgenza, ovvero sia quelle risorse necessarie per sopperire a situazioni di emergenza (crolli, ecc.), del tutto prevedibili in una Soprintendenza come quella di Roma, addirittura commissariata con provvedimento di Protezione Civile?

E ancora, come è possibile che si sia deciso di sottrarre fondi su progetti già deliberati dal Consiglio di Amministrazione, dopo che negli ultimi anni, ai più alti livelli politici del Ministero si era continuato a ripetere che le Soprintendenze non erano capaci di spendere e che il problema erano i residui passivi?

Se questa è la situazione per quanto riguarda Roma, su Pompei i problemi sono, se possibile, ancora più gravi.

Nulla è stato fatto ancora per l’assunzione di personale specializzato, così come stabilito dal decreto e come a più riprese richiesto nel mission report Unesco successivo ai crolli dello scorso novembre; neppure concepita risulta la procedura di utilizzo (criteri, ecc.) delle graduatorie di idonei di recenti concorsi Mibac: così un’occasione più unica che rara, ovvero sia la possibilità di assumere personale pluriqualificato, selezionato con procedure pubbliche e trasparenti, viene persa a causa di inerzia gestionale.

Italia Nostra rileva inoltre che molti dubbi gravano sull’effettiva disponibilità dei fondi (105 milioni) che dovrebbero essere stanziati per la maggior parte dalla Regione Campania (POIN, FAS?) per l’attuazione del piano di recupero del sito pompeiano. Tali fondi, infatti, non risultano nella disponibilità esclusiva della Campania, ma, secondo l’iter procedurale approvato dalla Commissione europea, dovrebbero essere deliberati di concerto con le altre regioni meridionali interessate. Nulla o poco di tutto questo è stato fatto sino a questo momento e l’utilizzo dei fondi in questione risulta quindi relegato ad un futuro dai contorni sfumati.

Infine, per tornare alla vicenda del prelievo di fondi a favore del Polo museale napoletano, Italia Nostra sottolinea il rischio che tali decurtazioni possano mettere in discussione progetti già avviati e funzionali alle operazioni di tutela dei siti gestiti dalla Soprintendenza napoletano-pompeiana, così come addirittura la prosecuzione del Conservation Herculaneum Project, il progetto finanziato dalla Fondazione Packard che lo stesso mission report Unesco riconosce come modello di eccellenza cui fare costante riferimento nel piano di recupero.

Italia Nostra esprime quindi, da un lato, la propria profonda preoccupazione sulla situazione del sito pompeiano, e richiama l’attenzione sulle 15 recommendations espresse nel mission report Unesco, frutto di un’accurata indagine di studiosi internazionali di acclarata competenza e fino a questo momento a dir poco trascurate dagli organismi ministeriali.

Sul piano complessivo gestionale, infine, Italia Nostra riafferma la necessità di elaborare una strategia unitaria di gestione finanziaria che permetta alle Soprintendenze di uscire dalle impasses evidenti in cui si trovano, pressoché tutte, e che ne compromettono il fondamentale ruolo di tutela del nostro patrimonio culturale. Anche questa recentissima vicenda dei trasferimenti di risorse fra Soprintendenze, gestita in modo affrettato ed opaco tanto da trasformarsi in una tristissima “guerra tra poveri”, denuncia il fallimento delle scorciatoie commissariali e di una gestione amministrativa estemporanea ed emergenziale e ripropone l’urgenza di un ripensamento complessivo dei meccanismi di gestione: il nostro patrimonio ne ha bisogno. Al più presto.

Non c’è pace per Pompei. Come se non bastassero Domus crollate, scavi fermi, intonaci scrostati, allarmi dell’Unesco, ignobili lastroni di cemento sul teatro grande (sequestrato dalla magistratura) e sprechi faraonici, il sito archeologico che il mondo ci invidia subisce ora un taglio di fondi. La beffa è ancor più atroce pensando che il salasso nasce da un intervento istituzionale promosso per aumentarli.

«Merito» del decreto legge varato dal governo quattro mesi fa, denominato «Disposizioni urgenti in favore della cultura...» e presentato con plateale autocompiacimento come provvedimento salva-Pompei. Bel salvataggio: sul bilancio di quest’anno quasi 5 milioni di euro in meno, il 25 per cento circa. Un’eterogenesi dei fini tipicamente e maledettamente italiana, perché colpisce anche i beni archeologici di Roma e serve a mettere una pezza sugli scandalosi buchi contabili di un’altra soprintendenza napoletana.

Accade questo. Primavera 2011: il governo si mobilita dopo i crolli dei mesi precedenti. E inserisce una norma rubricata «Potenziamento delle funzioni di tutela dell’area archeologica di Pompei». Il diavolo si nasconde nell’ultimo comma, che prevede per il ministero dei Beni culturali la possibilità di spostare fondi da una Soprintendenza a un’altra, in caso di necessità.

Pare un toccasana: ora potranno finalmente arrivare i sospirati nuovi finanziamenti. Al contrario, nei giorni scorsi il ministero ha comunicato al CdA della Soprintendenza che sì, intende avvalersi di quella norma, ma per decurtare il bilancio di Pompei, non per rimpinguarlo. E dunque, dice il ministero, rifate i conti e arrangiatevi. La Soprintendenza ha già avviato le riunioni operative per distribuire i sacrifici, facendo i conti con le rimostranze di chi lavora sul campo.

Le conseguenze del taglio di budget sono presto spiegate: stop anche a progetti già deliberati, blocco di attività di tutela in corso, possibili danni al patrimonio. Un autogol che rischia di allontanare non solo gli imprenditori francesi che hanno offerto 20 milioni di euro per Pompei a patto di avere un piano chiaro e definito, ma anche i partner privati che già ci sono. Per esempio la Fondazione Packard, che su Ercolano ha adottato un modello lodato dall’Unesco (ma ignorato in Italia). Gli americani mettono un euro per ogni euro speso dal ministero e non gradiranno che la controparte se ne riprenda qualcuno a metà dell’anno.

Ma il ministero ha altre urgenze. I soldi tolti a Pompei servono a ripianare i debiti di un’altra Soprintendenza napoletana, il Polo museale che gestisce tra l’altro il museo di Capodimonte con risultati tutt’altro che memorabili (non figura tra i 30 musei statali più visitati, superato da realtà minori come Trieste, Ravenna, Sirmione).

Un carrozzone creato nel 2003 tra le perplessità degli addetti ai lavori e che garantisce prestigiose poltrone, stipendi maggiorati (un soprintendente speciale guadagna il 30 per cento più di uno ordinario) e un ricco budget da gestire direttamente. Il Polo museale sta affondando in un buco spaventoso: 12 milioni di euro di debiti accumulati in pochi anni. Tanto da indurre il ministero a svenare non solo Pompei, ma anche l’altra Soprintendenza archeologica speciale, quella di Roma che cura un patrimonio immenso, dal Colosseo all’Appia antica. Altri 5 milioni di euro sottratti da un giorno all’altro. Nella capitale si fermano dunque i lavori per il quarto lato di Palazzo Massimo. Un progetto a cui si lavora da anni e destinato a ospitare una caffetteria a concessione privata, abortito proprio in vista del traguardo per mano dello stesso ministero che ha puntato tutto su valorizzazione e gestioni esterne.

Non solo: la scure si abbatterà per 1,7 milioni anche sul fondo destinato agli interventi «di somma urgenza», accantonato per crolli, danneggiamenti, maltempo. La riduzione è di circa il 50 per cento. Dunque per quest’anno a soprintendente, archeologi e direttori dei musei non resteranno che amuleti e scongiuri.

Che le soprintendenze ricche (Pompei e Roma sono considerate le galline dalle uova d’oro) aiutino quelle povere, è naturale e s’è sempre fatto. Ma per esigenze tecniche e di tutela, con capitoli di bilancio preventivati e spalmando i benefici su diversi enti. Non in queste dimensioni. Non intervenendo con l’accetta in corso d’opera. E non per ripianare i debiti di un solo ente sprecone, alimentando «in modo affrettato e opaco» quella che Italia Nostra definisce «una guerra tra poveri».

Le beffe per Pompei non finiscono qui. Il decreto di marzo prevedeva anche un piano straordinario di salvaguardia, il dirottamento di 105 milioni di euro presi dal «bancomat» dei fondi Fas per le aree sottosviluppate, le nuove e agognate assunzioni di personale.

Tutte misure positive. Peccato che dopo quattro mesi siano ancora sulla carta. Il piano straordinario è molto contestato e va nella direzione diversa rispetto a quanto richiesto dai tecnici dell’Unesco. I fondi Fas non sono arrivati, la procedura per sbloccarli è lunga. E le assunzioni restano un miraggio. La richiesta al ministero è chiara: servono subito 25 nuovi tecnici, di cui 14 archeologi.

A Pompei oggi lavora un solo archeologo, mentre l’ultimo mosaicista andato in pensione nel 2001 non è mai stato sostituito. Gli operai per la manutenzione quotidiana sono scesi da 98 a 8. Spiegano gli esperti che senza personale adeguato i piani di tutela sono chimere: chi li attua?

Ma prima delle assunzioni, sono arrivati i tagli.

Verso uno sciopero generale nella cultura e nei beni culturali? Niente più cellulari di servizio, in tutta Italia, per soprintendenti, direttori,ispettori, tecnici del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Comunichino a loro spese. Lo stesso per la benzina: neanche una goccia rimborsata. Chi deve girare l’immensa Puglia, arrampicarsi per i siti della Basilicata e della Liguria, o vigilare sull’estesissima area di Roma e Ostia, si arrangi. Ovviamente i cellulari e le auto blu della affollatissima direzione generale funzionano in pieno. Ma c’è dell’altro. Ricordate il senatore Pd che bloccò la Vigilanza Rai rifiutando di dimettersi da presidente essendo stato eletto coi voti del Pdl? Riccardo Villari è, da maggio, sottosegretario (in premio) ai Beni culturali. In realtà sarebbe stato più adatto alla Transumanza essendo stato Dc, Ppi, Cdu, Udeur, Ulivo, Pd, Pr, Mpa. Ora, placato, puntella il governo con Scilipoti.

Il 23 luglio le agenzie hanno annunciato che il fresco sottosegretario aveva incaricato i tecnici di aprire «in tempi brevissimi» una sede distaccata del MiBac a Napoli. Risposta soltatnto ironica ai Ministeri inaugurati della Lega (più la Brambilla) alla Villa Reale di Monza? Lui dice di sì. Però il prode Villari va sul concreto. E’ lui, dicono, che ha pressato con successo il segretario generale del MiBac Roberto Cecchi affinché stornasse 5 milioni di euro provenienti dal fondo della Soprintendenza speciale per l’archeologia romana, e ad essa già destinati, per dirottarli sul Polo Museale della sua Napoli. E ci è riuscito irritando non poco Cecchi: 1) perché oltre che segretario generale, è ancora commissario straordinario per l’archeologia romana e quindi deve, con quello storno, danneggiare gravemente se stesso; 2) perché, come come direttore generale ai beni storico-artistici, avrebbe dovuto vigilare più severamente sul Polo Museale partenopeo. In realtà, trattandosi di Mezzogiorno, pare che Villari abbia trovato l’alleato più risoluto nel capo di gabinetto, il giovane, potente, iperprotetto da Palazzo Chigi, Salvo Nastasi. Alla faccia della «valorizzazione museale».

Vita da archeologo. Marco Martignoni, bolognese, quarant’anni, due figli, laurea, specializzazione in archeologia cristiana e dottorato in età tardoantica e altomedievale, lunghe esperienze di scavo in cantieri universitari, poi una trafila di contratti a progetto, ha deciso di smettere. Niente più piccone e scalpello, bàsoli e capitelli. Farà il promotore finanziario. L’ultima esperienza da archeologo la rammenta come un incubo. A Modena si costruiva un grande parcheggio nel parco Novi Sad. Dovendo scavare in profondità si affidarono le ricognizioni archeologiche a due imprese. «Tutte le mattine il capocantiere ci accoglieva con un cronometro e segnava i minuti di ritardo. Poi a fine mese tirava le somme e ci toglieva i soldi dal compenso». Occorreva far presto. Incombevano le penali. Ma lei aveva un contratto a progetto, non era tenuto a rispettare orari. E poi il suo era un lavoro specializzato, di lunga tradizione disciplinare, uno dei vanti della cultura italiana... «Sì, ma nessuno, neanche io, ha protestato. Siamo pagati a ore - sette, otto euro lorde. A poche settimane dalla scadenza del contratto mi sono ammalato di otite. Lavoravamo sotto la neve, mattina e sera. Il medico mi ha imposto di restare a casa dieci giorni. Ho mandato il certificato. Ma dopo due giorni mi ha chiamato il capocantiere: il mio contratto era annullato».

La storia di Martignoni svela uno spaccato di come si pratica l´archeologia in Italia. A Modena sono emersi rilevanti reperti (una strada romana utile per capire i collegamenti nord-sud, un pozzo e una sequenza di sepolture medievali...). I pezzi vengono asportati e rimontati sopra il parcheggio, si allestisce una piccola mostra. Italia Nostra, Legambiente e Wwf presentano denuncia alla Procura. Protestano contro la distruzione di un patrimonio. Il magistrato chiede che sia archiviata, ma il Gip impone nuove indagini. Nel frattempo il parcheggio è quasi completato.

A Modena, comunque vada, l’archeologia è l’effetto secondario prodotto dai lavori per un parcheggio. Non il risultato di un’iniziativa culturale e di tutela. È stata chiamata "archeologia preventiva". Qualcun altro preferisce la formula "archeologia selvaggia". Lo Stato non ha un soldo per gli scavi e si accorda con imprese piccole e grandi, pubbliche e private che devono a loro volta scavare per le linee ad alta velocità o per piazzare cavi elettrici, fondazioni, tubature. Sono queste che pagano gli archeologi. Ma per loro l’archeologia, la tutela e la conoscenza, non sono il fine ultimo. Il fine ultimo è far presto e risparmiare.

Che questa sia la norma dell’archeologia in Italia lo ammette Luigi Malnati, direttore generale per le Antichità del Ministero per i Beni culturali: «Il 90 per cento degli scavi archeologici si fanno così». Nel 2006 fu approvata una norma che stabilisce siano le imprese ad avviare sondaggi archeologici preventivi e ad inviare una documentazione alla soprintendenza che decide se approfondire gli accertamenti. Queste attività sono svolte da archeologi (o da cooperative o da piccole imprese) a carico delle ditte, ma sottoposti spesso a condizioni di lavoro che dire precarie è un eufemismo. E dunque ricattabili. «Questi giovani sono fra l’incudine dell’impresa che li paga e il martello della soprintendenza alla quale devono riferire», aggiunge Malnati. Con un’aggravante, che è sempre il direttore generale a raccontare: «Le soprintendenze devono vigilare e dirigere l’attività di scavo. Ma con poco personale e sempre più anziano questo è un compito del tutto aleatorio». E il risultato qual è? «Il materiale rinvenuto, quando va bene, viene depositato in magazzini della soprintendenza, dove forse è al sicuro, ma dove nessuno lo studia, lo cataloga, lo porta a conoscenza della comunità scientifica, lo rende visibile al pubblico. Raramente l’impresa paga un’indagine successiva, una pubblicazione, una mostra. Uno scavo così è come non farlo».

Questo quando va bene. Quando va male, se si trova qualcosa di importante, ma di intralcio al cantiere, si chiude un occhio e poi anche l’altro. «A Modena noi archeologi abbiamo lavorato bene, pure nelle condizioni che ho raccontato. Ma in genere gli archeologi hanno meno diritti dell’ultimo operaio. E sono soggetti a ogni forma di pressione», racconta Martignoni, uno dei pochi che compaia con nome e cognome, mentre innumerevoli sono le storie anonime di vessazioni e di tutela che va a ramengo (alcune vicende sono raccontate sul blog archeologiainrovina. wordpress. com).

In sé l’archeologia preventiva non sarebbe il male assoluto. «In Francia questa attività è coordinata da un’istituzione statale, l’Inrap, che è finanziato con il 5 per cento del fatturato di tutte le imprese edili francesi», spiegano all’Ana, l’Associazione nazionale archeologi, che con la Cia, Confederazione italiana archeologi, organizza la gran parte dei professionisti. «L’Inrap interviene in ogni lavoro che comporti scavo. Ha un suo personale (archeologi, operai), un suo tariffario, garantisce tempi certi». In Grecia la situazione è simile a quella italiana, «ma i funzionari pubblici sono molti di più e molto più giovani», spiegano all’Ana. Esperienze considerate positive non mancano in Italia. A Napoli, in occasione dei lavori per la metropolitana, la soprintendenza (Daniela Giampaolo e altri) ha scavato ottenendo risultati eccellenti. Sono state allestite mostre e pubblicazioni. E i reperti sono in gran parte visibili. A piazza Municipio, piazza della Borsa, piazza Nicola Amore sono stati rinvenuti strati profondi risalenti a un bacino portuale fra IV e III secolo a. C. e di lì fino agli sventramenti ottocenteschi, passando per angioini, aragonesi e viceré spagnoli: l’intera storia napoletana.

Per mettere ordine nella giungla dell’archeologia preventiva, l’ex direttore generale, Stefano De Caro, aveva approntato un documento che fissava le linee guida di intervento. Le norme si sarebbero applicate a tutti i lavori pubblici o di interesse pubblico e anche a quelli privati di pubblica utilità. La filosofia era esplicita: «Una villa romana ovvero un villaggio preistorico conservato nei buchi di palo delle capanne possono, anzi debbono condizionare il progetto di una ferrovia o di un ospedale, ma affinché la cittadinanza che patirà il disagio del ritardo, comprenda la necessità di tale sacrificio collettivo è necessario che la stessa villa sia al più presto portata a conoscenza del pubblico non meno che degli specialisti». Ma, andato in pensione De Caro a fine 2010, di quel testo non c’è più notizia. Nel frattempo è stato sottoscritto un accordo che garantisce alla società Terna, proprietaria delle reti di trasmissione dell’energia elettrica, che per i loro lavori si applica l’archeologia preventiva solo per gli scavi superiori ai 5 chilometri lineari.

L’archeologia resta dunque una terra di nessuno, dove si sprecano saperi ed energie di cui l’Italia menava vanto. Dicono all’Ana: «Anche in Turchia hanno fatto passi da gigante, investimenti, assunzioni: in Italia invece lavorano nelle soprintendenze appena 350 archeologi e all’ultimo concorso per 30 posti si sono presentati 5.500 candidati, destinati a rimanere l’esercito dei precari sfruttati e privati anche del diritto di pubblicare i risultati di ciò che scavano». L’Ana elabora periodicamente un censimento degli archeologi. Sono molto giovani (oltre il 75 per cento hanno meno di 40 anni), specializzati (il 40 per cento), prevalentemente donne (70 per cento), ma solo il 3 per cento lavora in strutture pubbliche (soprintendenze, musei...) e appena il 15 è impegnato in scavi «programmati, finalizzati alla ricerca scientifica». Nel 2006 le partite Iva erano il 14 per cento, quest’anno sono il 27. Ultimo dato, forse il più inquietante: solo il 3,98 per cento ha un’anzianità di servizio di 10 anni. Vuol dire che la gran parte degli archeologi, laureati, specializzati, dottorati, dopo un po’ abbandona. Come Marco Martignoni.

Un recente rapporto stima il fatturato della cultura, nella Ue, sui 650 miliardi di euro, contro i 250 dell’industria dell’auto. E però, da noi, la cultura è sotto lo zero rispetto alla Fiat. Secondo lo stesso rapporto, la cultura produce il 2,6% del Pil europeo, contro il 2,1 delle attività immobiliari. E però – grazie all’immobiliarista Berlusconi – da noi la politica edilizia pesa tanto e la cultura niente. Nonostante 3500 musei, 500.000 complessi storici (il dato è del segretario generale del MiBAC, Roberto Cecchi), 95.000 fra chiese e cappelle, 2.100 aree archeologiche, ecc. Che muovono un terzo di tutto il turismo il quale, da solo, contribuisce al Pil quasi come la tanto esaltata edilizia. Nella crisi in atto, Francia e Germania hanno accresciuto gli investimenti nella cultura considerata motore di creatività e di sviluppo. Da noi il governo li ha assurdamente tagliati: dal 2004 a oggi la spesa del MiBAC è scesa dallo 0,34 (ed era già poco) allo 0,21% del bilancio statale, ultimo posto nella Ue. Al non-governo generale si è sommata la latitanza, anche fisica e quindi decisionale, del ministro Sandro Bondi, tardivamente sostituito. Con una serie di commissariamenti straordinari, egli ha però espropriato le Soprintendenze (dall’Aquila a Pompei, alla Domus Aurea), con crolli, manomissioni e/o paralisi. La dissennata politica di esodi di dirigenti di alta professionalità ha disossato la tutela. Ben 31 Soprintendenze sono gestite “ad interim” da titolari di altre aree. Aggiungeteci la drastica diminuzione di risorse già misere, e avrete un Belpaese ferito e allo stremo. Tornano i turisti stranieri e non ci sono i custodi. C’è un (costoso) direttore generale alla Valorizzazione…

Gli “interim” riguardano otto Soprintendenze ai Beni architettonici. Come volete che possano contrastare abusi edilizi, irregolarità di ogni sorta, quanto erode, ogni giorno, un pezzo del nostro ammirato Paese? Bondi aveva giurato di dar corso ai piani paesaggistici Stato-Regioni. Non ha fatto nulla: con grande sollazzo per gli speculatori e con danno enorme per tutti noi. Poi c’è il grande capitolo dello spettacolo dal vivo, anche questo svenato dal taglio feroce di risorse (dallo Stato ai Comuni costretti a loro volta a ridurre) e dal non-governo. Qui, malgrado un modesto recupero del Fondo Unico per lo Spettacolo, la scure è calata sui teatri lirici più efficienti e più dotati di fondi propri come su quelli immersi in un clientelismo disperante. Senza vero rispetto per i meriti. Il teatro di prosa – che negli ultimi anni aveva incrementato biglietti e spettatori – sta prendendo una autentica mazzata.

E che dire della multimedialità contagiata dalla crisi produttiva, creativa della Rai sempre meno competitiva, avvilita da spartizioni partitiche sempre più al ribasso? Nella sola Roma, anni fa, c’erano oltre 100mila addetti al multimediale. Col non-governo, anche qui la crisi morde, sacrifica nuove professionalità. Una mattanza.

L'acciaio incombe sulla Domus Aurea

Luca Del Fra

La damnatio memoriae rischia di abbattersi nuovamente sulla Domus Aurea di Nerone: se negli anni successivi al suicidio dell’imperatore avvenuto nel 68 d.C. per dimenticarlo i suoi concittadini ne sotterrarono la reggia, stavolta a sommergerla rischia di essere una colata di metallo. È quanto prevede il nuovo progetto di restauro, che porta la firma del commissario Luciano Marchetti e lo sponsor politico del sottosegretario ai Beni Culturali Francesco Maria Giro (PdL): ben 45 pali d’acciaio confitti nella carne viva delle antiche vestigia, la presenza di tre ascensori e addirittura un museo pensile. Uno stupro archeologico o, se volete, un progetto in stile Las Vegas, dai costi altissimi e non risolutivo dei problemi che hanno portato alla chiusura e al commissariamento del monumento.

Dopo 19 secoli di interramento la Domus è riaperta nel 1999 grazie a uno scavo dal basso, senza alleggerire la collina sopra l’edificio che, svuotato, non è più in grado di sostenerla. L’incongruità strutturale è nota ma si pensa di aprire ai visitatori e in breve di avviare i lavori di alleggerimento, da allora però i cantieri restano chiusi. Presto la legge di gravità e le intemperie bussano alla reggia neroniana, che nel 2005 viene chiusa per le infiltrazioni d’acqua e gli evidenti segni di cedimento. L’anno dopo l’allora ministro dei Beni Culturali Rutelli commissaria la Domus affidandola alle cure di Marchetti: scelta forse non lungimirante, già direttore regionale in pensione, il commissario comparirà nella lista Anemone, dice di stimare Angelo Balducci, è lambito dallo scandalo della ristrutturazione con fondi Arcus del palazzo di Propaganda Fide a piazza di Spagna – in cui compare la compagna Francesca Nannelli –, e vive al centro storico di Roma in una casa presa in affitto proprio da Propaganda Fide.

Ma il compito di Marchetti appare in discesa: nel 2007 è pronto un progetto del Ministero, approvato da soprintendenze e comitati, che risponde agli obiettivi del commissariamento: «l’eliminazione di situazioni di pericolo per le cose e le persone». Costo 15 milioni di euro, che vengono anche stanziati.

Benché nel giugno 2009 con il solito trionfalismo Giro annunci il progetto appaltato, in un mese l’inizio dei lavori e in due anni l’apertura del sito, l’unica cosa evidente è il crollo nel 2010 di una parte del complesso, la galleria Traianea. Nel 2011 invece della riapertura Marchetti porta una troupe del Tg3 nella Domus e senza volerlo ammette il suo fallimento: dichiara che lì dentro piove ancora e le immagini mostrano lo scorrere dell’acqua sugli affreschi. Negli stessi giorni il direttore per le antichità del Ministero, Luigi Malnati, sottolinea che delle 150 stanze solo 2 sono state impermeabilizzate. Siamo a 5 anni dall’inizio del commissariamento: a questo ritmo vorticoso l’impermeabilizzazione durerà 370 anni.

La débâcle del commissario è funzionale a soddisfare appetiti e voglia di visibilità: ecco la nuova mirabilia, con 45 pali d’acciaio infilzati nella Domus per sorreggere una copertura, poi ben 3 ascensori, vecchia mania di Marchetti, che da direttore regionale ne ha piazzato uno al Vittoriano causando non poche polemiche poiché sbuca ben oltre il tetto del monumento. Giro già da tempo parla ed esalta il progetto e il 14 luglio assieme a Marchetti dichiara che è cosa fatta, aggiungendo un museo pensile, ma alla stampa non sono presentate planimetrie o simulazioni dell’impatto. Poco importa se tra i compiti del commissariamento non compaiano né coperture, né musei pensili, né ascensori, e dunque Marchetti non avrebbe mandato per realizzarli: il capolavoro siderurgico costerà tra i 35 e i 50 milioni di euro, con un incremento di spesa del 300%. Il tutto avviene prima che la soprintendenza e i comitati tecnico-scientifici del Ministero abbiano espresso il loro vincolante parere, in un chiaro tentativo di forzargli la mano.

Si è scatenata un’aspra polemica col Pd in prima linea: per il senatore Marcucci è «un progetto invasivo da apprendisti stregoni» e presentato un’interrogazione parlamentare, mentre per il coordinatore del settore cultura del Pd Matteo Orfini: «La Domus Aurea è l’ultimo di una serie di scempi perpetrati durante il governo Berlusconi. Per Pompei il ministero aveva garantito risultati inesistenti, è finita nel dramma e nel discredito internazionale».

Nei giorni scorsi con cautela la soprintendenza ha sottolineato come il nuovo progetto non abbia sufficienti consolidamenti e dà via libera solo ai lavori compresi nel primo progetto, rimandando ai pareri dei comitati tecnico scientifici, dove molti prevedono scontri gladiatori. Piuttosto che la salvezza della Domus Aurea, per ora ha prevalso la voglia di appalto – che in regime commissariale avviene senza bando, in stile Protezione civile. Stile che Marchetti conosce bene come vicecommissario per la ricostruzione di l’Aquila con deleghe ai Beni Culturali.

La regola d’oro? Più kolossal è l’appalto, meglio è

Vittorio Emiliani

Il Ministero per i Beni Culturali agonizza per mancanza di risorse, di tecnici, di custodi? Niente paura. Il sottosegretario Francesco Giro – che si è fatto una fama (pensate un po’) durante la latitanza di Sandro Bondi – sostiene a tutta forza il costosissimo progetto di risanamento della Domus Aurea del suo quinquennale commissario, sinora a secco di risultati, ingegner Luciano Marchetti (ben descritto, qui, da Luca Del Fra). Sono 35-50 milioni. Da pescare nel solito “tesoro” degli incassi del Colosseo. Che però, per una parte, alimentano il vastissimo bacino archeologico Roma-Ostia. Al quale - notizia di ieri - sono stati sottratti, con un colpo di mano, 5 milioni di euro per esso vitali e che rientrano in un bilancio da approvare, al massimo, entro marzo e che a fine luglio non lo è ancora. Andranno a coprire i debiti del Polo Museale di Napoli…

Quello dell’ingegner Marchetti, commissario senza risultati, dal 2006, è un progetto “pesante” (acciaio+cemento). Dall’esito certo? No. Si sa però che installerà nella Domus neroniana, o marchettiana, ben tre ascensori, speciale passione dell’”ingegnere”. Suo è quello che da tutta Roma si “ammira”, e si maledice, in cima al Vittoriano. Al suo costosissimo progetto se ne contrappone uno della Soprintendenza, più soft e meno costoso, ovviamente. Ma il sottosegretario Giro non ci sta, vuole “chello ca costa ‘e cchiù”, forse per passare alla storia. Una volta, nell’Italia dei beni culturali vigevano almeno criteri di dirittura morale e di efficienza tecnica (in Tangentopoli non ci fu un solo Soprintendente inquisito). Ora, da una parte il Ministero agonizza e dall’altra si varano appalti kolossal. Più kolossal è l’appalto, meglio è. Ecco la regola. Aurea, è il caso di dirlo.

Il grottesco è senza fine. Dal 2006 dunque la Domus Aurea è commissariata con Marchetti. Dal 2009 lo è pure l’intera area archeologica Roma-Ostia, prima con Guido Bertolaso e poi con Roberto Cecchi che è pure il segretario generale del MiBAC. Chi è che ora ha spostato 5 milioni di euro dall’archeologia di Roma-Ostia ai Musei di Napoli? Lo stesso Cecchi, immagino. Che, in veste di segretario generale, toglie quella cifra importantissima dalla matrioska Cecchi commissario per l’archeologia romana. Si sperava che il nuovo ministro, Giancarlo Galan, sciogliesse il groviglio, congedando chi aveva avuto – al Petruzzelli, all’Aquila o altrove – rapporti con Angelo Balducci leader della famigerata “cricca”. Nulla di tutto ciò. Ognuno resta dov’è. Semmai sono gli uomini di Galan a restare fuori.

Giorni fa, nel cuore di Roma, mi si è materializzato davanti, di colpo, il direttore generale che tanto criticammo anni fa, Francesco Sisinni (1). Mi ha chiesto secco: “Mi rimpiangete, eh?” E sorrideva, vendicativo e soddisfatto. Già, chi l’avrebbe mai immaginato?

1- L’incontro stradale con Franciscus Sisinnius non è una invenzione polemica, esso è realmente avvenuto poco tempo fa, davanti a Palazzo Madama. Del tutto inopinatamente.

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