». il manifesto, 11 luglio 2017 (c.m.c.)
La recente notizia che alcune opere di difesa militare realizzate da Venezia, tra il XVI e XVII secolo a Bergamo e Palmanova, in provincia di Udine, oltre che in Croazia (Zara e Sebenico) e in Montenegro (Cattaro) sono state inserite dall’Unesco tra i beni «patrimonio dell’umanità», si presta a varie considerazioni. Per una volta, intanto, appare giustificato un po’ di compiacimento nazionale. Compiacimento per il nostro passato storico, ovviamente, non certo per la cura con cui i nostri contemporanei preservano l’immenso e impareggiabile patrimonio artistico di questo Paese. Venezia merita ampiamente tale riconoscimento, anche se assegnato a opere fuori dalla Laguna. Vale la pena di ricordare che la Serenissima realizzò nel XVIII secolo un’opera formidabile di difesa, non militare, ma contro le mareggiate, i cosiddetti Murazzi. Una imponente diga in pietra d’Istria di diversi chilometri, che ancora resiste alle tempeste dell’Adriatico, nonostante le rovine del tempo e dell’incuria e la cementificazione degli anni recenti.
Ma si dovrebbe premiare Venezia anche per un’opera suprema di difesa: quella della salvezza della Laguna dal processo di interramento cui la condannavano i fiumi che vi sfociavano. Senza quest’opera gigantesca della Repubblica, durata diversi secoli (fatta dallo scavo quotidiano del fango dei rii, della deviazione di grandi fiumi dalla loro foce naturale, di una lungimirante politica di tutela) noi oggi non avremmo avuto il gioiello urbano che ancora possiamo ammirare. Poco prima del riconoscimento di tali opere, l’Unesco aveva assegnato un posto nel patrimonio dell’umanità anche alle antiche faggete del nostro Paese, da quelle del centro Italia, scendendo al Parco Nazionale d’Abruzzo, agli antichi boschi della Foresta Umbra, in Puglia, e poi in Calabria.
Questo premio fa subito scattare di riflesso di ingenue rivendicazioni, del tipo: le antiche faggete sì, e perché no la Sila? Forse la più vasta foresta di conifere del bacino del Mediterraneo, un frammento di Nord Europa a due passi dall’Africa, ricca di esemplari pluricentenari, una specie di miracolo ecologico che resiste al tempo, in gran parte incontaminato. Ma le rivendicazioni si spengono subito, non solo per ragioni di stile, di fronte al dono appena ricevuto. Soprattutto perché si fa strada un pensiero: quanto facciamo noi italiani, uomini di cultura, docenti, insegnanti, esponenti politici per promuovere la conoscenza e l’amore per il nostro patrimonio artistico e naturale?
Faggete? Che cosa sono le faggete? Vi immaginate quale imbarazzato stupore si disegnerebbe sul volto della maggioranza degli italiani, se un intervistatore solerte andasse in giro a porre la domanda: che cos’è una faggeta? E tuttavia nessuno si deve stupire dell’imbarazzo e dell’ignoranza. Perché questi sono esiti perseguiti da decenni dal più rozzo e ignorante ceto politico della nostra storia recente.
Perché le persone comuni, a meno che non siano botanici o agronomi, dovrebbero sapere che cosa sono le faggete? La geografia è stata bandita dalla scuola, le scienze naturali sono insegnate su poche paginette dei manuali, i nostri ragazzi non vedono mai un albero, un bosco, una campagna, un paesaggio agrario, con l’aiuto di un insegnante capace di spiegarne storia, morfologia, ragioni ambientali. Si parla mai di tali temi, in Italia, quando si mettono in atto le varie riforme della scuola? E, naturalmente, non meno perseguita è l’ignoranza artistica dei nostri ragazzi, che in gran parte escono dalla scuola secondaria senza alcuna nozione di storia dell’arte, delle vicende di bellezza e di civiltà che contrassegnano il nostro millenario passato.
Il Paese dotato del più ricco patrimonio artistico del pianeta alleva generazioni incapaci di riconoscere e apprezzare un’eredità sontuosa. Viene il sospetto, troppo sontuosa e ingombrante per stare dentro gli schemi rozzi dell’economicismo e dello sviluppismo dominanti: la sola cultura che orienta un ceto politico senza visione e senza memoria.
articolo9.blogautore.repubblica.it. 29 giugno 2017 (c.m.c)
Se l'approssimazione conta più della Costituzione. È sotto questo titolo che si potrebbe rubricare il finale tragicomico dell'iter parlamentare del famigerato articolo del ddl sulla concorrenza che avrebbe aperto le porte ad una esportazione selvaggia dei beni culturali privati, di fatto la fine di una politica di tutela iniziata in Italia fin dai primi anni del XVII secolo.
La storia è nota. Un gruppo lobbistico costituito dai grandi antiquari e dalle case d'asta internazionali riesce ad aprirsi un tale varco nel ministero di Dario Franceschini da vedere formalmente nominato un suo rappresentante nel gruppo di lavoro chiamato a riscrivere le norme sull'esportazione. Ne scaturisce un vero capolavoro: tutto può uscire, fa fede l'autocertificazione e il sistema delle soglie di valore. Se autocertifico che quel certo quadro in mia proprietà vale meno di 13.500 euro lo posso portare dove mi pare: tradotto in italiano, bomba libera tutti. Non serve la mobilitazione della comunità scientifica della storia dell'arte, non serve l'indignazione di Italia Nostra, non serve un articolo in cui Gian Antonio Stella smonta pezzo a pezzo l'affidabilità dell'autocertificazione. Niente, il Pd e Franceschini non sentono ragione e oggi, alla Camera, passa definitivamente questa legge-truffa del patrimonio culturale.
Ma c'è un ma. Il comma 176 del provvedimento appena approvato, infatti, subordina tutta la nuova procedura alla tenuta del registro delle cose oggetto di commercio, in forma elettronica, in due sezioni a seconda del valore. Peccato che la legge 222/2016 abbia abrogato l'articolo 126 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (un Regio Decreto del 1931) che istituiva quel registro. Come ha fatto notare, di fronte ad una assemblea incredula, la deputata Claudia Mannino, non essendoci il registro, la nuova normativa sulle esportazioni è inapplicabile. La maggioranza ci potrà riprovare, ma dovrà farlo con una nuova legge ad hoc, sulla quale sarà dura mettere la fiducia come ha fatto sul ddl concorrenza che (del tutto impropriamente) ha provato a smontare un cardine del Codice dei Beni culturali.
Morale: la cialtroneria arriva laddove non arriva il rispetto per l'articolo 9 della Costituzione. Amen.
la Repubblica, 9 giugno 2017
Piove sulla testa del ministro Dario Franceschini e sulla sua riforma dei Beni culturali ma ancora di più rischia di diluviare nel prossimo futuro. Si attende per giovedì la decisione del Consiglio di Stato sulla richiesta di sospendere le sentenze del Tar che hanno defenestrato cinque direttori di musei. E già da lì potrebbero arrivare acuti dolori per il ministro. Ma il nuovo pronunciamento del Tar di mercoledì, che ha annullato il Parco archeologico del Colosseo, dei Fori, del Palatino e della Domus Aurea trasforma la falla che si era aperta nella riforma in un pericoloso squarcio che potrebbe far affondare l’intero impianto voluto da Franceschini.
Il Colosseo è pur sempre il Colosseo e alla sua autonomia erano affidate molte delle chanche di buona riuscita della riforma. Ma la sentenza di mercoledì può anche trascinare con sé altri ricorsi sia contro singoli direttori sia contro la procedura in sé che ha portato loro ed altri al vertice dei musei nella seconda tranche del concorso (per la prima i termini sono chiusi). Da più parti infatti si sente dire che sarebbero in arrivo ricorsi collettivi.
Al ministero la replica è compatta: abbiamo ragione e faremo appello al Consiglio di Stato anche contro quest’altra sentenza. Dario Franceschini è intervenuto ieri a un convegno sulle periferie al quale ha partecipato anche il vice sindaco di Roma Luca Bergamo, firmatario del ricorso al Tar, ma della sentenza sul Colosseo il ministro non ha fatto parola. Nel frattempo, però, al ministero si studiano le conseguenze che avrà la sentenza: chi governerà il Colosseo e l’area archeologica centrale di Roma? In attesa che il Consiglio di Stato confermi o smentisca il Tar, tutto torna nella competenza della Soprintendenza guidata da Francesco Prosperetti. Ma contemporaneamente risorge o no anche l’altra Soprintendenza, quella che curava il patrimonio fuori le Mura Aureliane, sparita dopo la nascita del parco del Colosseo? Non è questione da poco: in ballo, per esempio, c’è il vincolo sull’Ippodromo di Tor di Valle, che potrebbe far saltare la costruzione dello stadio della Roma. Chi deve confermare la procedura avviata dall’allora soprintendente Margherita Eichberg e per la quale stanno scadendo i termini?
Sono comunque i beni culturali romani e il loro assetto fissato dalla riforma l’epicentro del terremoto provocato dalla sentenza di mercoledì. Un terremoto che scuote strutture indebolite nel tempo e che ancora faticano ad assorbire le trasformazioni imposte dalla riforma. E che sembra non finiscano mai. È infatti possibile che i direttori di altri musei della capitale siano oggetto di nuovi ricorsi. E questo mentre la riorganizzazione voluta dal ministero incontra inciampi di diversa natura.
Il Parco archeologico dell’Appia Antica, per esempio, ha una direttrice, Rita Paris, ma non ancora una sede. La pianta organica, poi, è tutta sulla carta, non essendoci una dotazione di personale ed essendo bloccata la mobilità interna. La conseguenza è che per qualunque esigenza ci si appoggia alla Soprintendenza sia per gli archeologi impegnati negli scavi, sia per gli amministrativi, i quali s’incaricano di stilare il bilancio.
Un’altra conseguenza, sempre ammesso che il Consiglio di Stato ribalti la decisione del Tar, è che il concorso per la direzione del Colosseo venga comunque rinviato. Per questo incarico erano arrivate oltre ottanta domande, una quindicina delle quali dall’estero. Ed erano state fissate le date dei colloqui a fine giugno. Ma già le due precedenti sentenze del Tar, una delle quali aveva colpito il direttore austriaco del Palazzo Ducale di Mantova, Peter Assmann, avevano diffuso pesanti dubbi sulla bontà della procedura. Dubbi rinforzati dalla decisione del Tar di mercoledì.
». il manifesto,8 giugno 2017 (c.m.c.)
Il Colosseo – tra lo skyline tamarro del «divo Nerone» che staglia le sue arroganti strutture tra colonne romane (ieri, migliaia le persone in fila sulla via Sacra), l’ipotesi di finire ingabbiato da orrende cancellate anti-terrorismo, lo scapestrato restauro che ha cancellato la sua storia, riducendola a una patina televisiva – non ha pace. Ed è la spina nel fianco anche del ministro per i beni culturali Dario Franceschini. Ancora una volta l’Anfiteatro Flavio è l’ospite scomodo che sta dietro al duello fra Mibact e Campidoglio: il Tar del Lazio, infatti, ha accolto il ricorso con il quale il Comune di Roma contestava il decreto che istituiva il Parco autonomo voluto da Franceschini (che è pronto a impugnare l’atto). La motivazione della bocciatura? «Vizi di eccesso di potere del provvedimento» e anche «violazione del principio della leale collaborazione tra enti». Colosseo e area Fori, estrapolati indebitamente, toglievano alla città gran parte delle sue risorse, provenienti dalla bigliettazione. E mettevano in ginocchio così gli altri beni archeologici del Comune. È tutto da rifare; decreto annullato.
Le sentenze di accoglimento pubblicate riguardano poi le istanze di opposizione avanzate dal sindacato Uilpa-Bact, dove si definiva quel Parco «un’operazione arbitraria, con gravi profili di illegittimità di merito e metodo».
La sindaca Raggi ha esultato, cinguettando con un tweet dai toni populisti: #Colosseo. Hanno vinto i cittadini, bene Tar. Sconfitto tentativo Governo. Roma resta di tutti. Secondo il Campidoglio, infatti, il «progetto Colosseo» era lesivo degli interessi di Roma Capitale, dato che sottraeva un bene alla Soprintendenza speciale e alla città – circa 40 milioni di euro i ricavi – e immetteva in circuito patrimoni di serie A e altri di serie B. Anche per il vicesindaco Luca Bergamo quella del Tar è «una decisione positiva e importante che consente di riprendere il discorso su una visione unitaria e integrata del patrimonio culturale della città. Che non può essere visto semplicemente come asservito al turismo».
Dopo lo stop e la caduta delle nomine di alcuni nuovi direttori di musei, tra cui gli «stranieri» (per l’impossibilità di valutare un concorso avvenuto a porte chiuse, con criteri fumosi, che non rispettava la norma cui si sono sottoposti, negli anni passati, gli altri candidati alle cariche dirigenziali), Franceschini è apparso stavolta più smaliziato di fronte la notizia del nuovo fallimento: «Non posso dire che sono stupito. È lo stesso Tar, stessa sezione della sentenza sui direttori stranieri. Fatico però a capire perché 31 musei e parchi archeologici autonomi, dagli Uffizi a Pompei, vadano bene e il 32esimo, il Parco del Colosseo, giuridicamente identico a tutti gli altri, invece no».
La verità è che la riforma del Mibact, fiore all’occhiello del governo Renzi, è allo sbando e paga l’improvvisazione dei suoi «piloti» che hanno forzato la mano, imponendo decisioni dall’alto e squassando un sistema perfettibile certo, ma non smantellabile del tutto. Non è questione solo di cavilli burocratici, in campo entrano metodi e visioni. La brama dell’immediato far cassa attraverso i «monumenti-re» è cosa di breve respiro, non rispetta l’unità del centro storico, chiave concettuale per la sua giusta tutela. Così il Colosseo non può essere scippato né spremuto come un limone per ammucchiare soldi. Ha tutti i connotati, invece, per essere un magnifico testimonial di quel parco senza soluzioni di continuità che auspicava Antonio Cederna e che avrebbe dovuto suturare la ferita inferta dal fascismo all’assetto urbanistico della capitale. Era quello un modo di chiudere i conti con una stagione di sventramenti propagandistici per aprire la porta a un’altra stagione, in cui si riconsegnava la città ai suoi abitanti e – perché no – anche ai turisti.
il Fatto quotidiano, 27 maggio 2017
La gestione Franceschini del prezioso patrimonio paesaggistico e culturale in poco più di tre anni ha provocato una concatenazione di disastri. I modelli, se di modelli si può parlare, dell’iniziativa franceschiniana sono rintracciabili in alcuni apparati scarsamente funzionanti dell’ottocentesco Regno di Sardegna e del fascismo, in quest’ultimo caso addirittura corretti e rinnegati dal ministro dell’Educazione Giuseppe Bottai nel 1939.
Al Capo non piacciono, caccia ai vecchi dirigenti
Dario Franceschini è ministro dei Beni e delle attività culturali e del turismo dal 22 febbraio 2014, giorno in cui Matteo Renzi strappa la campanella di Palazzo Chigi dalle mani di Enrico Letta dando il ben servito anche a Massimo Bray. Qual è il vangelo che definisce l’azione di governo di Franceschini, chiamato a sostituire una figura di prestigio come quella di Bray (ora reduce dal successo senza precedenti del Salone del libro di Torino, edizione 2017)? Ebbene le linee programmatiche franceschiniane sono state anticipate proprio dal libello di Matteo Renzi: Stil novo, la rivoluzione della bellezza da Dante a Twitter (Rizzoli, 2012). Infatti, è dall’esperienza fiorentina di Renzi sindaco - ai tempi in cui definiva Franceschini “vicedisastro” - che nasce il fastidio per la figura del soprintendente. È un soprintendente che non permette di raschiare l’affresco del Vasari a Palazzo Vecchio (improbabile per gli esperti ritrovare là sotto “La battaglia di Anghiari” di Leonardo) e sempre le Soprintendenze contesteranno l’affitto di Ponte Vecchio per la festa della Ferrari di Montezemolo e impediranno il rifacimento dell’incompiuta facciata di San Lorenzo. Quindi i soprintendenti vanno depotenziati, meglio sarebbe cancellarli.
Caos, paradossi e danni irreparabili
Caos e paradossi, e danni: un esempio sono gli 8.815 Nuraghe in Sardegna, vero museo a cielo aperto, inscindibile dal territorio; erano uno in più ma quello di Tertenia è crollato nell’autunno 2016 dopo anni di inascoltati allarmi e richieste di fondi da parte della Soprintendenza. In Toscana, poi, c’è l’esempio migliore per spiegare il paradosso delle scissioni franceschiniane: Populonia, frazione del comune di Piombino. Qui l’importante area di scavo è gestita dalla Soprintendenza, ma al suo interno c’è il Museo Etrusco, gestito dal Polo museale, riproducendo in piccolo quella che era la situazione di Berlino Ovest isola nel mare della Germania Est. Al Sud d’Italia la maggior parte del patrimonio artistico è culturale si trova nelle chiese, nelle abbazie, nelle cappelle e nelle regge. Al Nord nelle Pinacoteche, statali e civiche dopo le soppressioni degli ordini religiosi prima per mano di Napoleone e poi del nuovo Stato unitario risorgimentale. Va da sé come sia impossibile scindere anche fisicamente i musei archeologici dagli scavi e quindi dal territorio. È da questo aspetto che si capisce la vera ratio della riforma franceschiniana: criteri e compensazioni politico-clientelari così come svelato dalla sentenza del Tar del Lazio rispetto alle nomine bocciate dei cinque supermanager.
Accorpamenti e ritorni al passato
Con una norma sbrigativa Franceschini fa saltare le Soprintendenze archeologiche accorpandole in un solo organismo con Belle arti e paesaggio. Antonio Paolucci, già sovrintendente, già direttore dei Musei Vaticani e ministro nel governo Dini (1995-96), definisce così l’operazione: “Un mostro”. Un accorpamento del genere era già stato approntato nel 1923 dal Partito nazionale fascista. Ma fu lo stesso fascismo ad accorgersi dell’imperdonabile errore nel 1939, quando il ministro Giuseppe Bottai, conscio del valore delle specializzazioni, cancellò gli accorpamenti. Invece, i profeti della Rottamazione hanno deciso di ritornare al pre-Bottai rottamando, in buona sostanza, controlli e procedure tecnico-scientifiche che spesso salvano la vita del patrimonio artistico e culturale.
Un salto indietro fino al Regno sabaudo
Laddove Franceschini non arriva poi, ci ha pensato Marianna Madia, ministro della Pubblica amministrazione, con una norma uccidi-Soprintendenze. L’arma fine di mondo, l’applicazione definitiva dello Stil novo renziano, infatti, è stato il depotenziamento dei soprintendenti, che diventeranno gerarchicamente inferiori ai prefetti. Spetterà, infatti, ai prefetti, e non più ai soprintendenti, decidere se inviare un archeologo, un dirigente Asl o un elettricista, a un’importante e delicata Conferenza dei servizi, per esempio. Succedeva la stessa cosa, viaggiando a ritroso nel tempo, nel Regno di Sardegna, considerato arretrato in materia da studiosi e storici. Altro che innovazione e velocità nell’epoca di Internet, il combinato Franceschini-Madia proietta il patrimonio artistico-culturale direttamente nell’Ottocento e non nelle parti d’Italia considerate, invece, più avanzate nel sistema di tutela artistico-museale: Granducato di Toscana e Stato Pontificio.
È l’articolo 68 della legge sulla concorrenza l’ultimo soccorso alla concezione franceschiniana del patrimonio artistico del Paese: liberalizzazione totale dell’esportazione di opere d’arte di proprietà privata. L’Italia diventa, sotto questo punto di vista, col silenzio assenso di Franceschini, un Paese iper-liberista per la gioia di ricchi antiquari e mercanti d’arte di tutto il mondo.
La Repubblica, 27 maggio 2017
A differenza di Francesco Merlo, trovo che la sentenza del Tar del Lazio sul concorso dei supermusei rientri nella perfetta fisiologia democratica: e, anzi, credo che sia salutare che un potere politico troppo spesso arrogante e arbitrario venga richiamato alla necessità di rispettare leggi e regole.
il manifesto , la Repubblica,il Fatto quotidiano. 26 maggio 2017 (c.m.c)
il manifesto
MIBACT, IL TAR BOCCIA I DIRETTORI DEI MUSEI
di Adriana Pollice
«E' l'ennesima stroncatura di un provvedimento simbolo dei mille giorni del governo Renzi: la sentenza accoglie i ricorsi e annulla cinque nomine per vizi di procedura e criteri magmatici nel giudizio. Contestata anche la partecipazione di stranieri»
«Il mondo ha visto cambiare in due anni i musei italiani e ora il Tar Lazio annulla le nomine di cinque direttori. Non ho parole ed è meglio»: il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, ieri mattina ha dato avvio alle ostilità contro i giudici amministrativi via social. Il Tar mercoledì ha depositato due sentenze con cui ha accolto i ricorsi contro le nomine dei direttori del museo di Mantova; degli Archeologici di Napoli, Taranto e Reggio Calabria; le Gallerie Estensi di Modena. Salvo il Parco archeologico di Paestum, grazie a un difetto di notifica. Due i rilievi: la legislazione italiana non consente di affidare ruoli direttivi a stranieri e ci sarebbero state irregolarità durante le selezioni.
Si tratta dell'ennesima bocciatura di un provvedimento simbolo dei mille giorni del governo Renzi: dei venti musei diventati autonomi con la riforma introdotta nel 2015, sette sono stati assegnati a direttori provenienti da oltreconfine. Effetti immediati però ci saranno solo per Peter Assman, alla guida del Palazzo ducale di Mantova, oggetto del ricorso. Con lui lasciano Martina Bagnoli, Eva Degli Innocenti, Paolo Giulierini e Carmelo Malacrino. Eike Schmidt resta agli Uffizi e Cecile Holberg alla Galleria dell’Accademia di Firenze perché il Tar non ha accolto le ragioni contro le rispettive nomine. Schmidt è tra i pochi che ha rilasciato un commento: «Ero molto più scioccato quando i centurioni hanno vinto con l’aiuto del Tar e sono tornati al Colosseo. Sarebbe però disastroso se tutto venisse paralizzato dai meccanismi di tutela di interessi particolari».
Ieri il ministero ha fatto partire il ricorso al Consiglio di stato con la richiesta di sospensiva delle sentenze: «Sono preoccupato per la figura che l’Italia fa nel resto del mondo e per le conseguenze pratiche», ha spiegato Franceschini. I due pronunciamenti hanno effetto immediato: i cinque siti saranno affidati ad interim in attesa di un nuovo grado di giudizio. «Che si faccia riferimento al fatto che i direttori sono stranieri – ha proseguito il ministro – stride con la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea e del Consiglio di Stato. La selezione internazionale per i direttori pubblicata sull’Economist ha ricevuto apprezzamenti ovunque».
Il Tar ha accolto il ricorso di Francesco Sirano (che aveva corso per le posizioni di direttore a Napoli, Paestum, Reggio Calabria, Taranto) e di Giovanna Paolozzi Maiorca Strozzi (in corsa a Mantova e Modena). La decisione della sezione presieduta da Leonardo Pasanisis contesta tre aspetti del concorso. La partecipazione di stranieri quando «nessuna norma consentiva al Mibact di reclutare dirigenti al di fuori delle indicazioni della legge sul pubblico impiego del 2001». La norma prevede che i cittadini comunitari possono lavorare nelle amministrazioni pubbliche ma in posizioni che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri.
I giudici hanno anche valutato poco chiari i criteri della commissione (magmatici li hanno definiti): non si comprenderebbe, scrivono, «il reale punteggio attribuito a ciascun candidato» durante la prova orale; inoltre «lo scarto minimo dei punteggi tra i candidati meritava una più puntuale manifestazione espressa di giudizio, piuttosto che motivazioni criptiche e involute». L’orale, poi, si è svolto a porte chiuse quindi non è stato assicurato il libero ingresso ai concorrenti «al fine di verificare il corretto operare della commissione». Almeno in due hanno sostenuto la prova via Skype.
Il MIBACT ha diffuto i dati sul boom di presenze nei musei (più 7 milioni di ingressi, più 50 milioni di incassi dal 2013 al 2016) per poi replicare ai rilievi in una nota: la procedura si sarebbe svolta in conformità al diritto europeo e nazionale, con «una commissione di altissimo profilo scientifico presieduta dal presidente della Biennale di Venezia affiancato dal direttore della National Gallery di Londra, il rettore del Wissenschaftskolleg di Berlino e l’attuale consigliera culturale del presidente francese Macron». Sulla nomina di stranieri, il ministero si appella al principio di libera circolazione dei lavoratori nella Ue: «Il Tar del Lazio sembra aver applicato in modo restrittivo la legge sul pubblico impiego, ignorando i progressi fatti». Riguardo al concorso, ha fatto sapere il Mibact, ogni passaggio è stato pubblicato sul sito del ministero e i colloqui orali «sono stati registrati su file audio accessibili, come tutti gli altri atti della selezione».
Anche Matteo Renzi è partito all’attacco dei giudici via social: «Nei mille giorni abbiamo fatto molte cose belle. Una delle scelte di cui sono più orgoglioso è aver dato ai più bravi la possibilità di concorrere per la direzione dei musei italiani. Non possiamo più essere una Repubblica fondata sul cavillo e sul ricorso. Abbiamo sbagliato perché non abbiamo provato a cambiare i Tar». Il ministro della Giustizia ed esponente della minoranza Pd, Andrea Orlando, si è allineato al segretario: «I Tar andrebbero certamente cambiati, senza demonizzarli».
Il fronte comune democratico ha offerto il fianco alla replica dei parlamentari 5S: «Renzi ormai si è berlusconizzato. Dal segretario del Pd è arrivata un’intimidazione nei confronti di tutti gli organi giurisdizionali. L’ex premier ha fatto capire che, se arrivano sentenze sgradite dal governo e dalla maggioranza, bisogna cambiare i giudici e non i provvedimenti scritti male o incostituzionali».
Mdp con Miguel Gotor ha invitato Franceschini a rispettare le regole. Anche l’Associazione nazionale magistrati amministrativi ha ribattuto: «Le istituzioni rispettino i magistrati, chiamati semplicemente ad applicare le leggi. La nomina di dirigenti pubblici stranieri è vietata nel nostro ordinamento. Se si vogliono aprire la porte all’Europa, e noi siamo d’accordo, bisogna cambiare le norme, non i Tar». Ma secondo il giudice emerito della Corte Costituzionale, Sabino Cassese, il Tar avrebbe ignorato «che il diritto europeo consente la nomina di cittadini stranieri come direttori di Musei anche statali».
il manifesto
IL MINISTRO FAI DAI TE
ARROGANTE E PASTICCIONE
di Tomaso Montanari«Beni culturali. La nomina dei superdirettori oggetto dei ricorsi esaminati ha due gravi difetti. Il primo è che viola una legge del 2001 che impone che la dirigenza pubblica sia riservata ai cittadini italiani. Il secondo è che le modalità della selezione sono state così opache da non garantire i diritti di tutti i concorrenti»
Mercoledì il ministro per i Beni Culturali Dario Franceschini ha detto di aver licenziato i volontari che mandano avanti la Biblioteca Nazionale di Roma perché è «tenuto a rispettare la legge». Giovedì, invece, ha detto che il Tar del Lazio ha fatto fare una «figuraccia all’Italia».
Perché ha cassato un suo atto che non ha rispettato la legge. Se ne ricava che il governo rispetta la legge quando coincide con le sue idee.
E ieri Matteo Renzi e Andrea Orlando sono intervenuti, in magnifica armonia (tra loro, e con il miglior Silvio Berlusconi), per dire che siccome un Tar ha dato torto al governo, ebbene bisogna riformare i Tar. Insomma: «Il Comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo».
È il degno epilogo di un triennio di sommo disprezzo delle regole e delle persone che costituiscono l’amministrazione pubblica. Il renzismo procede a spallate, e quando un giudice (come la Corte Costituzionale con la Legge Madia) o il popolo italiano (con la riforma costituzionale) resiste alla spallata, la reazione non è un bagno di umiltà, ma un rigurgito di arroganza.
Se la reazione svela l’analfabetismo democratico, il merito delle due sentenze appare interessante. Esse affermano che la nomina dei superdirettori oggetto dei ricorsi esaminati ha due gravi difetti. Il primo è che viola una legge del 2001 che impone che la dirigenza pubblica sia riservata ai cittadini italiani. Il secondo è che le modalità della selezione sono state così opache da non garantire i diritti di tutti i concorrenti.
Sarà il Consiglio di Stato a dire l’ultima parola sul piano giuridico. Ma sul piano politico e culturale va detto che il Tar mette il dito in una piaga purulenta.
La commissione che ha scelto i direttori era politicamente condizionata, anzi strettamente controllata, dal ministro Franceschini. Il suo presidente (l’eterno Paolo Baratta) attendeva nelle stesse settimane che il ministro derogasse alla legge che gli impediva di rimanere alla guida della Biennale. Altri due membri erano Lorenzo Casini (braccio destro del ministro e autore della riforma oggi censurata dal Tar) e Claudia Ferrazzi (che Franceschini subito dopo nominerà nel cda degli Uffizi e nel Consiglio superiore dei Beni culturali): una maggioranza sufficiente a rendere superfluo il voto degli unici due tecnici indipendenti.
Il mandato era chiaro, quasi esplicito: tener fuori tutti i funzionari del Mibact (gli odiati soprintendenti, che Renzi e Boschi avevano annunciato di voler estinguere) e scegliere sconosciuti dal profilo più basso possibile, che fossero poi naturalmente grati al ministro che li aveva scelti. Già, perché la commissione doveva solo allestire una terna, mentre a scegliere era sempre lui, il ministro. Le modalità della selezione (9 minuti per leggere i curricula e meno di 15 per i colloqui) era coerente con questa impostazione.
E il risultato finale fu sconcertante: i maggiori musei del mondo finivano nelle mani di persone che (in quasi tutti i casi) non avevano mai diretto nemmeno un piccolo museo di provincia, ma erano stati solo conservatori di sezioni di musei. È in questo senso che si deve leggere l’ostentata preferenza per direttori ‘stranieri’, cioè per figure di ‘sradicati’, nuovi capitani di ventura messi in condizione di render conto solo al potere che li ha nominati. Naturalmente non si tratta di un problema di nazionalismo.
In un capitolo de La ribellione delle élite, Christopher Lasch analizza la «visione essenzialmente turistica» di una classe dirigente internazionale che non ha nulla a che fare con le comunità che governa: «non esattamente una prospettiva che possa incoraggiare un’ardente devozione per la democrazia». Una prospettiva che compromette in modo ancora più radicale quella funzione civile del patrimonio culturale, basata sull’indipendenza della conoscenza, che era tipica della tradizione italiana, e che solo la nostra carta costituzionale mette tra i principi fondamentali della comunità nazionale. D’altra parte, la mercificazione dei musei e la nomina dei fedelissimi superdirettori è solo un pezzo di quel vasto smontaggio dell’articolo 9 che Renzi ha disposto, e Franceschini eseguito. Non è certo un progetto che si possa battere per via giudiziaria, ma è confortante sapere che c’è un giudice, a Berlino.
la Repubblica
«SONO STRANIERI NOMINE NULLE»
DECAPITATA LA RIFORMA DEI MUSEI
di Francesco Erbani
«Il Tribunale amministrativo boccia 5 nuovi direttori. Franceschini: “Non ho parole”»
Saltano i direttori di cinque musei, ma è tutta la riforma dei Beni culturali voluta da Dario Franceschini che vacilla sotto i colpi di due sentenze del Tar del Lazio. Sentenze contro le quali il ministro ha annunciato ricorso al Consiglio di Stato: «Lo faremo oggi stesso», dice, aggiungendo un rammarico: «Che figura faremo in tutto il mondo?». Intanto sono da ieri vacanti i posti di direttore al Mann, il museo nazionale archeologico di Napoli, fra i più pregati al mondo, a quello di Reggio Calabria, dove sono ospitati i Bronzi di Riace, poi al museo di Taranto, scrigno dell’archeologia magnogreca, quindi alle Gallerie Estensi di Modena e al Palazzo ducale di Mantova, gioielli del nostro patrimonio storico-artistico.
Nel mirino dei giudici amministrativi è finito uno dei punti chiave della riforma, fin da subito bersagliato dalle critiche: le procedure dei concorsi che hanno portato alla nomina di cinque dei trenta nuovi direttori di musei, siti monumentali e archeologici insediati con la riforma (in particolare il sistema di valutazione dei curricola e le modalità dei colloqui). E, per Mantova, anche il fatto che il direttore sia l’austriaco Peter Assmann, non un italiano. Il che, stando ai giudici, non è possibile sulla base delle norme vigenti.
Sulle sentenze è un batti e ribatti di dichiarazioni. Il segretario del Pd, Matteo Renzi si rimprovera «di non aver provato a cambiare i Tar». A lui e ad altri replica il presidente dell’Anma, il sindacato dei giudici amministrativi: «Reazioni scomposte, i giudici fanno solo rispettare la legge». Ma il terremoto scuote soprattutto l’edificio di una riforma apprezzata da molti, per l’autonomia garantita ai musei, che ne hanno in diversi casi guadagnato in dinamismo e in apertura al territorio e hanno conquistato visitatori. Ma avversata da tanti altri, perché si sarebbe concentrata sui musei trascurando le patologie di cui soffrono i beni culturali e il paesaggio – dagli scarsi finanziamenti all’esiguità del personale, sempre più anziano – e producendo scompensi e caos in molti uffici. I ricorsi sono la spia di un malessere assai diffuso fra chi è impegnato nella tutela in Italia.
I giudici amministrativi laziali hanno accolto le istanze di due candidati, la storica dell’arte Giovanna Paolozzi Strozzi e l’archeologo Francesco Sirano. La prima aveva fatto domanda per le Gallerie Estensi e il Palazzo ducale di Mantova. Il secondo per Napoli, Taranto, Reggio Calabria e Paestum. Nella successiva tornata di concorsi, però, Sirano si è candidato, peraltro con le stesse modalità contro cui ha fatto ricorso, per dirigere il sito di Ercolano ed ha vinto.
Un’altra sezione dello stesso Tar del Lazio, qualche settimana fa, aveva respinto i ricorsi contro la nomina di Mauro Felicori, designato alla guida della Reggia di Caserta. E anche Eike Schmidt, direttore degli Uffizi, e Cecile Holberg, della Galleria dell’Accademia avevano visto confermati i propri incarichi. Ma nel caso di Assmann i giudici hanno riscontrato un’illegittimità: le norme che regolano il lavoro nel pubblico impiego non ammettono la possibilità di aprire i ranghi della nostra amministrazione anche ai non italiani. Al ministero ribattono citando sentenze della Corte di giustizia europea, riprese dal Consiglio di Stato, che restringerebbero l’esclusione ai prefetti, agli ambasciatori ed altre figure di questo tipo. Non ai direttori di museo. A favore di tale ipotesi si è schierato un illustre amministrativista come Sabino Cassese. Assmann è sospeso dall’incarico, come gli altri quattro colleghi: Paolo Giulierini, che dirige l’Archeologico di Napoli, Martina Bagnoli delle Gallerie Estensi di Modena, Carmelo Malacrino dell’Archeologico di Reggio Calabria ed Eva Degl’Innocenti del museo tarantino.
Lo stesso rischio ha corso il direttore di Paestum, il tedesco Gabriel Zuchtriegel, anche lui bersaglio di un ricorso: ma per un difetto di notifica il procedimento si è arenato. Per riempire questi vuoti, il ministero procederà con incarichi ad interim. Ma l’interrogativo che si diffonde è: che cosa succederà agli altri direttori e al sistema nel suo complesso dei beni culturali, già così provato? E se venissero presentati altri ricorsi?
Oltre al motivo dell’italianità, i giudici contestano il modo in cui si è svolto il concorso, a cominciare dalla formulazione del bando. Per arrivare ai criteri di valutazione, al modo in sono stati assegnati i punteggi - poco motivati, insistono i giudici. In un primo tempo sono stati selezionati dieci candidati per ogni sito, sulla base dei curricola e di una lettera di motivazioni. Con ognuno di loro si è svolto un colloquio della durata, racconta chi l’ha sostenuto, di venti minuti (al termine dei quali suonava una specie di sveglia), in cui occorreva illustrare un progetto di gestione del museo. A quel punto si costituiva una terna senza graduatoria all’interno della quale il ministro e il direttore generale dei Musei, Ugo Soragni, designava il prescelto, conservando ampia discrezionalità. Secondo i ricorsi, i colloqui non si sarebbero svolti in maniera corretta. Non erano cioè pubblici (uno si è svolto via Skype) né potevano accedervi gli altri candidati. Questo rilievo è stato accolto dai giudici.
«La selezione dei direttori è stata effettuata da una commissione di altissimo profilo scientifico», ribatte il ministero. La presiedeva Paolo Baratta, presidente della Biennale di Venezia, e in essa figuravano il direttore della National Gallery di Londra, il rettore del Wissenschaftskolleg di Berlino e Claudia Ferrazzi, appena scelta da Emmanuel Macron come consigliere culturale. «I colloqui non sono avvenuti a “porte chiuse”», insiste il ministero, «e sono stati registrati su file audio accessibili come tutti gli altri atti della selezione».
Ora la parola passa al Consiglio di Stato. Ma quelli inferti dal Tar non sono gli unici colpi alla riforma Franceschini. Due mesi fa il ministero ha revocato l’incarico al direttore degli scavi di Ostia antica, Fabrizio Delussu, nominato dopo il concorso. Il motivo? Il suo curriculum, pur esaminato dalla commissione, presentava una serie di requisiti che si sono poi rivelati infondati e «hanno fatto venir meno i presupposti per la nomina».
Il Fatto quotidiano
"VICE-DISASTRO":
RIFORMA DEI MUSEI DA RIFARE
di Vittorio Emiliani
«Il Tar del Lazio accoglie i ricorsi e manda a casa 5 direttori: demolite le trovate di Franceschini»
La “bomba” giuridica con la quale il Tar del Lazio ha annullato le nomine volute dal ministro Dario Franceschini per Musei italiani di eccellenza era attesa. Fragile e opaco l’impianto della selezione pubblica (non concorso) voluta dal ministro. Difatti il Tar rileva “criteri di natura magmatica” e cioè presentazione dei curriculum e della bibliografia, colloqui di 10-15 minuti, non di ore, coi candidati selezionati “a porte chiuse” (alcuni, si apprende, via Skype) e poi individuazione di una “decina” e quindi di una “terna” di nomi fra i quali il ministro e il direttore generale avrebbero scelto il vincente. Nomi delle decine e delle terne così scaturite (e relativi punteggi assegnati) rimasti ignoti, nonostante ora il Ministero parli di “procedura trasparente e pubblica”. In più per il Tar, secondo la legge in vigore, “il bando della selezione non poteva ammettere la partecipazione al concorso di cittadini non italiani”.
Mentre Franceschini se la prende con la sentenza: “Figuraccia davanti al mondo”, Matteo Renzi commenta, piccato: “Bisognava riformare i Tar” e non solo i Musei, confermando la propria allergia per i controlli di garanzia. Del resto l’allora ministra Maria Elena Boschi concordò, una sera in tv, con Matteo Salvini, grande intellettuale lombardo, che sulla abolizione delle Soprintendenze si poteva ben discutere.
Per i primi venti Musei uno solo dei direttori in carica, Anna Coliva alla Galleria Borghese, era stato confermato da Franceschini. Via tutti gli altri, con alcune nomine a dir poco sorprendenti, di cui adesso cinque bocciate dal Tar del Lazio: un etruscologo dal curriculum proprio miserello, Paolo Giulierini, al più grande Museo greco-romano del mondo, quello di Napoli; una medievista, Eva Degli Innocenti, al superbo Museo della Magna Grecia a Taranto. Bocciati dal Tar anche l’austriaco Peter Assman, della cui discussa gestione del Palazzo Ducale di Mantova si è occupato Giampiero Calapà sul Fatto del 14 maggio; Carmelo Malacrino al Museo archeologico di Reggio Calabria e Martina Bagnoli alla Galleria Estense di Modena. Restano in carica, non colpiti dalla sentenza del Tar, tra gli altri, un esperto di cimiteri e di marketing (non cimiteriale) Mauro Felicori alla Reggia di Caserta; il direttore del Museo di arti tessili del Minnesota, Eike Schmidt, agli Uffizi; lo svizzero Gabriel Zuchfriegel, segretario a Pompei di Massimo Osanna, senza esperienze gestionali, a Paestum e così via. Dall’estero erano forse arrivati direttori-manager di grande valore? Francamente no. Nonostante stipendi cospicui (favolosi per il Mibact): 145.000 euro più bonus. Fino a 195.000. Sei volte più dei direttori precedenti.
Il ministro Dario Franceschini si dice “stupefatto che la sentenza del Tar” si esprima in quel modo, dal momento che “la commissione era assolutamente imparziale composta” da personaggi del più alto livello, garanzia “di neutralità e trasparenza”. Già ma il Tar mette il dito non sulla commissione, ma più a fondo: sui criteri “magmatici e poco chiari”. Il ministro deve prendersela con se stesso e col suo ufficio giuridico che ha scelto la strada della selezione (curriculum e colloquio privato) anzichè quella di un vero bando concorsuale europeo e non ha tenuto conto della legge del 2001 la quale prevede che soltanto cittadini italiani possano essere nominati dirigenti dello Stato italiano. Un’altra norma malfatta e malscritta? Vedremo cosa dirà il Consiglio di Stato.
Franceschini lamenta che così si interrompe un ciclo positivo per i musei italiani vivacizzati dai super-direttori stranieri. È innegabile che i musei e le aree archeologiche italiane hanno segnato buoni incrementi dovuti, però, ad una non meno innegabile congiuntura turistica favorevole. Il terrorismo ha prodotto crolli di arrivi in Francia, a Parigi in specie, Tunisia, Libia, Egitto, Turchia, ecc. Ne hanno beneficiato Portogallo, Spagna, Grecia e Italia. Poi c’è l’invenzione delle domeniche gratuite che porta milioni (di italiani soprattutto) ad assalire musei e siti. Quanti sono? Gli arrivi dall’estero sono aumentati del 9% e gli ingressi dei musei di meno della metà. C’è da suonare le trombe? Quanto alle straordinarie iniziative dei neo-direttori, abbiamo assistito alla promozione di introiti grazie a matrimoni (Paestum), a feste di laurea (Pitti), ad altre iniziative purchessia culminate nel compleanno con disco dance di Emma Marcegaglia al Palazzo Ducale di Mantova (febbraio 2016). Ma sì, divertiamoci, e se qualcuno si lamenta venga mandato a casa. Come i precari “scontrinisti” della Biblioteca Nazionale di Roma a 400 euro al mese, che hanno osato denunciare lo sfruttamento.
I componenti del Consiglio Nazionale dei Beni Culturali, in che modo hanno potuto razionalizzare un attentato del genere alla storicità del paesaggio del Palatino»? Emergenza Cultura, 22 maggio 2017 (c.m.c)
Nerone è tornato sul Palatino a Roma, non con il fuoco del famigerato incendio, ma con un’occupazione che si vorrebbe precaria che ingenera però consistenti dubbi sulla sua liceità. Non tanto nei riguardi degli scaltri organizzatori dell’annunciata opera rock: quanto di coloro che, ricoprendo diverse funzioni pubbliche, hanno autorizzato ed avallato l’occupazione del colle che, da Romolo in giù, ha ospitato i potenti di Roma antica.
Quel pubblico ufficiale, pagato dai contribuenti, che avrebbe dovuto assicurare la tutela di un luogo del genere (addirittura recentemente promosso a parco archeologico speciale), tutelato dall’UNESCO, come ha fatto a non rendersi conto che l’impianto da lui stesso autorizzato incombe incongruamente, con il suo intreccio di tubi e la volgarità della sua copertura in lamiera, sul paesaggio archeologico del colle? E quei pubblici ufficiali, ugualmente pagati dai contribuenti, che avrebbero dovuto vigilare sul comportamento del responsabile periferico non hanno avuto nulla da osservare? E i componenti del Consiglio Nazionale dei Beni Culturali, fra i quali siedono sagaci e profondi indagatori del paesaggio storico, in che modo hanno potuto razionalizzare un attentato del genere alla storicità del paesaggio del Palatino?
Neppure di fronte a quest’ennesimo oltraggio si può sperare in un contrasto alle disposizioni emanate dal pro tempore titolare della responsabilità politica del Ministero per i Beni Culturali ed il Turismo? Disposizioni che, semplificando ma non tanto, si riducono a prescrivere la totale libertà d’uso delle aree e dei monumenti d’interesse culturale e a richiedere (in cambio?) modeste elargizioni in denaro.
La ratio di simili provvedimenti pare ricadere nella faciloneria dell’improvvisazione (non vorremmo dire nell’opaco settore della mediazione): non risulta che sia stato elaborato uno studio economico che abbia realisticamente quotato il valore in denaro dell’impiego, a fini diversi da quello della conoscenza e della fruizione pubblica, delle aree e dei monumenti d’interesse culturale. Così che ogni cifra in denaro che viene elemosinata dal Ministero grazie a tali (precarie) concessioni d’uso non risponde a parametri scientificamente definiti.
A tale argomento se ne aggiunge uno ancor più decisivo, già messo in luce in precedenti occasioni, relativo ai possibili danni al patrimonio archeologico che l’impianto (precario) costruito, con il necessario concorso di mezzi d’opera e di cantiere, e il passaggio degli spettatori potrebbero provocare. Ci auguriamo sia stata predisposta una dettagliata e completa analisi dello status quo ante da confrontare con quella risultante una volta che sia stato tolto l’incomodo (e che sia stata richiesta ed ottenuta una congrua fideiussione sulla quale eventualmente rivalersi per i danni subiti).
Di fronte a questo rovinoso ritorno degli epigoni di Nerone sul Palatino i promotori che sottoscrivono questa denuncia hanno deciso di avviare formale richiesta per l’esclusione del Centro storico di Roma dal World Heritage List UNESCO, al contempo denunciando, in tutte le sedi opportune, coloro che si sono resi responsabili dell’ennesimo oltraggio al nostro patrimonio culturale.
la RepubblicaFirenze, 17 maggio 2017
CI sono almeno due aspetti nella incredibile vicenda della colata di cemento porta-cessi che deturpa lo spazio sacro all’ombra del quercione di Barbiana.
Il primo non ha a che fare specificamente con don Lorenzo, ma parla della nostra povera Italia del 2017. Un’Italia che non ha amore per se stessa. Un’Italia ricca e ignorante: inchiodata al presente, senza conoscenza del passato e senza desiderio di futuro. Un’Italia che sacrifica i suoi beni comuni non rinnovabili sull’altare degli eventi, della visibilità mediatica, di un ritorno effimero calcolato su poche ore. Un terreno cementificato ci mette duemila anni per tornare vivo. E un paesaggio sfigurato è un’eredità che toglie ogni scelta a chi viene dopo di noi.
Il paradosso è che l’unica voce davvero forte che si sta battendo contro questo consumismo del creato è proprio quella di Papa Francesco: nel cui nome ora si cementifica Barbiana!
L’Istituto per il Sostentamento del Clero ha agito senza chieder nulla alla Fondazione che custodisce e fa vivere esemplarmente Barbiana. E l’ha fatto perché è ‘padrone’ del terreno. Ma il Papa ha detto a più riprese: «Siamo custodi, non padroni del creato!». Mentre «padroni in casa propria» è stato lo slogan ufficiale (letteralmente) di tutte le ultime leggi del cemento: dalla Legge obiettivo di Berlusconi (2001) allo Sblocca Italia Renzi-Lupi (2014).
E Francesco ha anche scritto (nella enciclica Laudato sii) che non si può modificare l’ambiente senza il consenso di chi ci vive: «Nel dibattito devono avere un posto privilegiato gli abitanti del luogo, i quali si interrogano su ciò che vogliono per sé e per i propri figli, e possono tenere in considerazione le finalità che trascendono l’interesse economico immediato. Bisogna abbandonare l’idea di “interventi” sull’ambiente, per dar luogo a politiche pensate e dibattute da tutte le parti interessate. La partecipazione richiede che tutti siano adeguatamente informati sui diversi aspetti e sui vari rischi e possibilità».
Esiste poi anche lo Stato italiano: e c’è davvero da stupirsi dell’accondinscendenza della Soprintendenza di Firenze, perché mettere lì dei cessi, è – sul piano culturale – come metterli in mezzo al piazzale dei Uffizi, o sull’arengario di Palazzo Vecchio. Forse sarebbe il caso di emettere un provvedimento, in autotutela, che revochi i permessi e ordini la rimessa in pristino dei luoghi. Prima che sia un tribunale, a farlo. E poi c’è un secondo aspetto, tutto milaniano. Diciamocelo chiaro: c’è una parte della gerarchia della Chiesa italiana che non avrebbe proprio nessuna voglia di riabilitare don Milani.
Ora tutti piegano la testa al Papa evangelico, in un nuovo conformismo ipocrita. Ma sotto l’ossequio carrieristico covano sentimenti del tutto contrari: anche a Firenze, come è ben noto. E allora è impossibile non leggere una specie di perfida, subdola rivincita nell’idea di mettere dei cessi esattamente nel luogo dove don Milani faceva scuola.
E di farlo – nel più perfetto stile curiale – coprendo il sapore del veleno col miele della celebrazione postuma. Come avrebbe risposto don Lorenzo? Nessuno lo sa, e nessuno può permettersi di dirlo. Ma sappiamo cosa ha scritto. Per esempio, che alla scuola di Barbiana: «non c’era ricreazione. Non era vacanza nemmeno la domenica. Nessuno di noi se ne dava gran pensiero perché il lavoro è peggio. Ma ogni borghese che capitava a visitarci faceva polemica su questo punto. […]. Lucio che aveva trentasei mucche nella stalla (da sconcimare ogni mattina) disse: ”La scuola sarà sempre meglio della merda”».
Ecco, oggi mettiamo la merda esattamente al posto della scuola. Vorrà dire qualcosa?
Il Giornale dell'Arte, maggio 2017.
Il 6 aprile scorso è entrato in vigore - tramite decreto (DPR 31/2017) - il "regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata".Si tratta di un provvedimento che incide direttamente sull'attuazione del Codice dei Beni culturali e, nello specifico, sul procedimento di autorizzazione paesaggistica, vale a dire il nulla osta che gli organi territoriali di tutela, le Soprintendenze, devono concedere per poter effettuare qualsiasi intervento di trasformazione territoriale in aree sottoposte a tutela
Anche se l'amministrazione delegata al rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche è, ai sensi del Codice, la regione che, come è ormai prassi consolidata, può delegare il compito ai Comuni, il parere delle Soprintendenze è vincolante ed è stato spesso causa fra le principali di contenzioso - sia che sia concesso o che sia negato - da parte sia di privati o amministrazioni richiedenti che di cittadini, comitati e associazioni difesa del patrimonio, sull'altro versante.
È indubbio infatti che l'autorizzazione paesaggistica costituisca a tutt'oggi lo strumento principale di tutela del territorio da parte dello Stato e per questo sia divenuta spesso oggetto di aspro confronto fra chi la ritiene un potere eccessivo nelle mani di funzionari tecnici (i 'burocrati' oggetto di strali in particolare da parte di coloro che rivendicano sempre e comunque il primato della politica) e chi invece ne vorrebbe rafforzare l'attuazione soprattutto in termini di maggiori risorse da attribuire a chi la esercita, vale a dire le Soprintendenze.
Il nuovo regolamento si inserisce in questo dibattito proseguendo in una linea di modifica e semplificazione del Codice dei beni culturali (2004), linea che nel settore della tutela paesaggistica, è in pratica iniziata immediatamente dopo l'emanazione della seconda e ultima tornata di modifiche al testo, avvenuta nel 2008.
Già nel 2010, infatti, con un precedente decreto (DPR n. 139) era stata emanata una prima tornata di semplificazioni per interventi di lieve entità e in questi anni numerosi sono stati i provvedimenti, della più varia natura, ma in particolare quelli mirati alla ripresa economica o ad incentivare un generico 'sviluppo', che hanno inciso sul provvedimento di autorizzazione paesaggistica (circoscrizione dei tempi concessi per l'emanazione del provvedimento e dispositivo del silenzio/assenso).
Questa progressiva compressione delle soglie temporali e delle modalità di intervento rientra peraltro nel filone della "semplificazione amministrativa", vera e propria parola d'ordine delle ultime stagioni politiche così come questo regolamento che stabilisce un lungo elenco di interventi per i quali l'autorizzazione non è più richiesta (31) e un altro ancor più lungo (42 casi) in cui è sufficiente ;un'autorizzazione semplificata, appunto.
Se molti dei casi elencati possono rientrare nella sfera - pur pericolosa - del buon senso (opere che non alterino l'aspetto esteriore di edifici ovviamente non vincolati, oppure interventi antisismici o di consolidamento che non comportano modifiche alle caratteristiche morfotipologiche, ai materiali di finitura, o alla volumetria o altezza dell'edificio), in altri casi le interpretazioni si possono prestare a più di una ambiguità. Ad esempio, nel caso dei dehors - strutture che sempre più pesantemente incidono sull'aspetto e la vivibilità di vie e interi isolati dei nostri centri storici - la differenza che distingue quelli che non necessitano di alcuna autorizzazione da quelli che prevedono la procedura semplificata rischia di essere molto sottile nella pratica.
L'esempio dei dehors, poi si ben si presta ad una critica complessiva sulla ratio di normative così concepite: se infatti un singolo intervento può avere un'incidenza modesta sull'insieme dell'ambiente urbano - aspetto che ne giustifica l'inserimento in un provvedimento come questo - è la somma dei singoli che fa la differenza. Vale a dire che una strada o piazza invasa da decine di dehors - ciascuno di per sé di 'lieve' impatto - muta radicalmente nel suo uso urbano e si configura, nell'insieme, come un'operazione di perdita dello spazio pubblico, sempre più minacciato nelle nostre città e per questo tanto più prezioso.
L'esempio vale per altri casi dell'elenco, dagli arredi urbani alle installazioni di microeolico, ai pannelli solari, all'apertura o chiusura di finestre e verande... e potremmo continuare sino ai casi più eclatanti come la realizzazione di parcheggi per i quali la derubricazione a interventi di lieve entità (B.11) sembra davvero eccessiva.
La logica dell'elenco, insomma, rischia di essere molto miope e pericolosa quando impiegata su organismi così delicati come i centri storici o comunque su aree sottoposte a tutela paesaggistica.
Solo una pianificazione urbanistica e territoriale consapevole dei valori della tutela potrebbe superare l'impasse e le lacune determinate dalla somma di interventi puntuali e dal frazionamento di provvedimenti singoli e ignari di un contesto non solo geografico-culturale, ma sociale ampio. Quella pianificazione che, però, nel nostro paese appare sempre più residuale, se a dieci anni dall'emanazione del Codice che prevedeva la copianificazione paesaggistica solo tre regioni - Puglia, Toscana e, da pochissimo, il Piemonte cui si può aggiungere il decreto salvacoste in Sardegna - vi hanno ottemperato.
In quanto strumento normativo, un regolamento è di per sé utile in quanto cerca di eliminare spazi di ambiguità applicativa (anche se non sempre ci riesce, come nel nostro caso), ma dovrebbe essere accompagnato da procedure di controllo e monitoraggio sulla sua efficacia e soprattutto sulla sua adeguatezza al contesto organizzativo. In un momento così delicato come è quello attuale, infatti, in cui la riorganizzazione del Mibact, soprattutto per quanto riguarda gli organi di tutela territoriali, è ancora in una fase di assestamento e in taluni territori le carenze di organico sono tali da rendere molto complesso l'esercizio delle normali attività (gli architetti delle Soprintendenze sono attualmente poco più di 500 sull'intero territorio nazionale), l'ennesima decurtazione dei temp operativi (solo 10 giorni sono concessi al Soprintendente per emanare una valutazione negativa circostanziata) rischi di creare smagliature ripetute all'impianto della tutela e uno stravolgimento complessivo di intere aree urbane e non, dato dalla sovrapposizione non sufficientemente governata di innumerevoli interventi di "lieve" entità.
«Siamo sicuri che uno dei principali problemi della nostra crisi democratica non sia proprio questa inesorabile distruzione del “pubblico”, e la conseguente, selvaggia privatizzazione di funzioni vitali?» la Repubblica, 6 maggio 2017 (c.m.c)
La cosiddetta “manovrina”, e cioè le disposizioni urgenti in materia finanziaria decise dal governo, che il parlamento dovrà poi convertire in legge, si dice motivata dalla «straordinaria necessità ed urgenza di introdurre misure finanziarie e per il contenimento della spesa pubblica ». La ricetta è quella che conosciamo ormai da quasi trent’anni: la progressiva autoriduzione dello Stato, sia al centro che negli enti locali.
Come è ben noto, non è un processo solo italiano. Luciano Gallino ha scritto che il primo articolo della «“costituzione” non scritta, ma applicata da decenni con maggior rigore di molte Costituzioni formali», in Europa, prescrive che «lo Stato provvede da sé a eliminare il proprio intervento o quantomeno a ridurlo al minimo, in ogni settore della società: finanza, economia, previdenza sociale, scuola, istruzione superiore, uso del territorio».
Quali siano, in concreto, i frutti di questa lunga dissoluzione lo constatiamo attraverso le cronache più recenti. E sono frutti che non riguardano le nostre economie, ma le nostre democrazie: le Ong (indegnamente bersagliate dagli imprenditori della paura) ci stanno ricordando con forza e fermezza che si trovano in mare a fare il lavoro che dovrebbero fare gli Stati. E in Italia, da una parte priviamo di mezzi le forze dell’ordine, dall’altra armiamo le mani dei cittadini, spingendoli di fatto a difendersi da soli.
Ebbene, siamo sicuri che uno dei principali problemi della nostra crisi democratica non sia proprio questa inesorabile distruzione del “pubblico”, e la conseguente, selvaggia privatizzazione di funzioni vitali?
La domanda diventa stringente quando si leggono le voci della spesa ministeriale che risultano ridotte nelle tabelle accluse alla suddetta manovra del governo Gentiloni. Accanto ai tagli a fronti strategici come le «politiche per il lavoro» o l’«amministrazione penitenziaria», spiccano riduzioni che assomigliano a suicidi: per esempio i 5.996.000 euro tolti al diritto allo studio universitario in un Paese che è penultimo in Europa per numero dei laureati. O i 5.799.000 euro tolti alla «ricerca scientifica e tecnologica applicata e di base».
Lasciano di stucco anche i tagli al ministero per l’Ambiente. Davvero possiamo permetterci di sottrarre anche solo 2.762.000 euro ai pochissimi destinati alla «tutela del territorio»? Proprio là dove dovremmo avere la forza di innescare una grande impresa neokeynesiana che finanzi l’unica opera utile, e cioè la rimessa in sesto del territorio, siamo invece ridotti a sottrarre alla nostra stessa sicurezza qualche spicciolo.
E poi c’è la cultura, tradizionale vittima sacrificale. L’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli ha spiegato in un suo libro assai istruttivo ( La lista della spesa. La verità sulla spesa pubblica e su come si può tagliare, 2015) perché «spendiamo troppo in quasi tutti i settori tranne cultura e istruzione». Evidentemente il governo Gentiloni non è d’accordo, e taglia 5,455 milioni alla voce «tutela del patrimonio culturale » (già allo stremo). E non basta: ci si accanisce togliendo 220.000 euro (!) alla tutela archeologica, 599.000 alla tutela e valorizzazione dei beni archivistici, 992.000 alle martoriate biblioteche, 552.000 alla tutela delle belle arti e tutela e valorizzazione del paesaggio. Il ministro Padoan ha dichiarato che non si tratta di tagli lineari, ma selettivi.
Il che pare in effetti innegabile, visto che lo stesso decreto stabilisce (all’art. 22, comma 6) che i supermusei, i cui direttori e consigli scientifici sono stati scelti e nominati direttamente dalla politica, possono «avvalersi, in deroga ai limiti finanziari previsti dalla legislazione vigente, di competenze o servizi professionali nella gestione di beni culturali». In altre parole, mentre la tutela del territorio viene tagliata (così da dare il colpo di grazia alle morenti soprintendenze), si incrementa invece la discutibile attività promozionale di questi musei, dove ormai non si produce più conoscenza, ma si fa solo marketing.
Quando Barack Obama si rifiutò di tagliare la spesa per la ricerca e l’istruzione, spiegò che non si poteva sperare di far ridecollare un aereo buttandone fuori bordo il motore. Il punto è che forse noi non abbiamo ben chiaro quale sia, il nostro motore.
il Sole24ore, 4 maggio 2017 (p.s.)
Il ddl Concorrenza approvato ieri dal Senato della Repubblica con il voto favorevole dell'aula (158 favorevoli contro 110 contrari) sulla questione di fiducia posta sul maxi-emendamento presentato dal Governo ha introdotto con gli articoli 176 e 177 la modifica all'articolo 68 del Codice dei Beni culturali (Codice Urbani 2004) sulla circolazione internazionale delle opere d'arte.
L'articolato ai commi 176 e 177 recepisce l'emendamento Marcucci 3, che modifica la temporalità del vincolo cioè della dichiarazione di interesse culturale da parte del Ministero dei Beni culturali, attraverso il Direttore Regionale e la Sovrintendenza. Per favorire la circolazione dell'arte contemporanea, la soglia temporale per il vincolo delle opere in possesso di privati, infatti, viene spostata da 50 a 70 anni dalla data della creazione dell'opera in caso di artista defunto (nelle norme Ue sono 100 anni e la Germania ha appena introdotto i 70 anni), pur garantendo la possibilità al Ministero di vincolare anche le opere di oltre 50 anni e di autore non più vivente, se d'interesse culturale eccezionale per il patrimonio italiano. Infatti in caso di autocertificazione finalizzata all'esportazione di un'opera, il competente Ufficio Esportazione può dichiarare l'interesse culturale nel termine perentorio di 60 giorni dalla presentazione della dichiarazione.
Il valore dell’arte. La riforma introduce le soglie di valore, pari a 13.500 euro, anche in Italia come in Europa al di sotto delle quali i beni culturali e anche le opere con più di 70 anni e di autore non più vivente potranno uscire dall'Italia liberamente, sulla base di una autocertificazione: questo significa che gli uffici esportazione e i collegati uffici delle soprintendenze dovranno sapere valutare la congruità del valore delle opere dichiarato in uscita dal nostro paese.
Sebbene i promotori abbiano insistito per l'adeguamento alle soglie già previste dal Regolamento (CE) n. 116/2009, il Ministero, cautamente, ha propeso per l'introduzione di una soglia unica per le diverse categorie di beni culturali di € 13.500, di molto inferiore alle soglie previste dal Regolamento (CE) n. 116/2009. Infatti la soglia dei 13.500 euro rappresenta il valore più basso in Europa: in Francia per i dipinti è di 150mila euro, 180mila sterline nel Regno Unito e 300mila euro in Germania, naturalmente dall'applicazione della soglia restano esclusi reperti archeologici, archivi, incunaboli e manoscritti.
I criteri. La riforma assegna al Mibact entro 60 giorni dall'entrata in vigore del ddl la revisione con decreto dei criteri previsti dalla Circolare del 1974 per le esportazioni ed estensione degli stessi criteri per le dichiarazioni di interesse culturale (c.d. notifica); e introduce un “passaporto” per le opere su modello francese, di durata quinquennale, per agevolare l'uscita e il rientro delle stesse nel e dal territorio nazionale.
«La norma favorisce la circolazione all'estero delle opere non vincolate nel pieno rispetto della tutela del nostro patrimonio e introduce misure come il passaporto e il registro informatico» aveva scritto giorni fa il ministro della cultura Dario Franceschini. «La nuova disciplina lascia inalterato il sistema di tutela del patrimonio culturale di proprietà privata che continuerà a richiedere, per poter vincolare un'opera, la sussistenza di un interesse culturale particolarmente importante e la piena autonomia tecnico scientifica dell'amministrazione nel riconoscerlo».
I promotori. La proposta di riforma sulla disciplina della circolazione dei beni culturali promossa dal Progetto Apollo è stata approvata l’8 giugno 2016 dalla Commissione Industria del Senato e inserita nell'emendamento n. 52.0.46, testo 3, a firma di Marcucci, Scalia, Fabbri, Lanzillotta, Valentini, (c.d. emendamento “Marcucci-ter”) al disegno di legge n. 2085/2016 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza), discusso e approvato ieri in aula al Senato.
Il testo dell'emendamento è il risultato di un lungo confronto (e mediazione) tra i promotori del Progetto Apollo e numerosi esponenti delle principali forze politiche, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, nonché il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (MiBACT).
Le critiche. Ma non tutti son d'accordo sul nuovo articolato: durante la discussione in aula ci sono stati interventi critici sulla riforma della circolazione dei beni culturali da parte dei senatori Michela Montevecchi (M5S), Miguel Gotor (MDP, i “fuoriusciti dal PD”) e Walter Tocci (PD).
«Gravi profili di criticità, favoriscono i mercanti d'arte e le case d'asta, ma diminuiscono le tutele e le protezioni dei beni culturali di origine privata che sono ridotti al loro solo valore di mercato» ha dichiarato in una nota Miguel Gotor (Mdp), auspicando che la Camera «possa correggere e migliorare quanto deliberato dal Senato sotto il vincolo della fiducia».
Critico anche il Movimento 5 Stelle che scrive sul sito: «Il PD ha usato il ddl Concorrenza per indebolire i vincoli che sino ad oggi hanno permesso di tutelare le nostre opere d'arte, in particolare quelle del Novecento, e di non svenderle all'estero». Anche Italia Nostra il mese scorso aveva lanciato un appello « per non svendere la cultura italiana».
Resta ora l'ultima lettura, di mera ratifica, da parte della Camera dei Deputati, che ha già inserito il ddl nel calendario di massima dell'aula a partire dal 29 maggio prossimo.
la Repubblica, Roma, 23 aprile 2017
«Ospiterà da giugno a settembre l’opera rock firmata da Franco Migliacci e 4 premi Oscar La struttura è alta 14 metri». Articolo di Cecilia Cirinei e commento di Tomaso Montanari. il manifesto, 21 aprile 2017 (c.m.c.)
IL KOLOSSAL SU NERONE DIVIDE ROMA
“NO AL MAXI PALCO SUI FORI IMPERIALI”
di Cecilia Cirinei
Una struttura di grande impatto visivo, 36 metri di larghezza, 27 di profondità e 14 di altezza, è comparsa da due giorni nell’area di Vigna Barberini all’interno del sito archeologico del Palatino. È il palco che ospiterà, dal 1 giugno al 10 settembre, il musical “Divo Nerone — Opera Rock”. Ci sono già anche le 480 poltrone della platea, l’impianto audio e delle luci. Presto arriverà la scenografia e le tre file di gradinate.
E la città si divide fra favorevoli e contrari a questo maxi allestimento ideato da Franco Migliacci che mette insieme quattro premi Oscar: Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo, Gabriella Pescucci e Luis Bacalov con la regia di Gino Landi, e che potrà ospitare 3025 spettatori. I biglietti sono già in vendita e la stima attuale è che il 50% sia già stato prenotato (prezzi da 45 a 180 euro).
Il palco spacca Roma ma il progetto del musical su Nerone, proprio nell’area dove viveva nell’antica Roma, ha il patrocinio del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini che ha visto un anno e mezzo fa le scenografie di Dante Ferretti e che è favorevole a utilizzare i monumenti come cornici di eventi. Oggi, per esempio, si terrà al Colosseo un concerto di musica rinascimentale.
Per Francesco Prosperetti, Soprintendente all’area archeologica di Roma «Vigna Barberini, nel contesto dei palazzi e dei Fori imperiali, è vicina ai resti della camera da pranzo di Nerone, la Coenatio Rotunda, ma di nessun impatto sul contesto delicatissimo del Palatino. Il canone d’uso dell’area è di 250 mila euro, molto di più dei 100 mila pagati dal Teatro dell’Opera a Caracalla, ed è importante che alla Soprintendenza andrà anche il 3% dell’incasso dei biglietti. Servirà proprio per il recupero della Coenatio. Nella fase finale verranno messe tende e veli che mitigheranno l’impatto. Posso aggiungere che ho visto le prove e mi sembra un musical di alta qualità».
Decisamente contrario Vittorio Emiliani, presidente del Comitato per la Bellezza: «Siamo alla follia. Sono convinto che si possono usare le strutture antiche, ma quando già ci sono, come il teatro di Ostia antica. Costruire ex novo in un luogo delicato come Vigna Barberini per ospitare ogni sera 3000 spettatori non sta né in cielo né in terra».
Per molti tour operator questo musical farà aumentare il pernottamento dei turisti, facendolo passare da 2 a 3 notti. «Ci siamo tuffati in questa avventura per realizzare il sogno di riunire 4 premi Oscar — racconta Cristian Casella che rappresenta la Nero Divine Ventures Spa — e per proporre alla città un evento internazionale. Dante Ferretti ha creato una scenografia straordinaria».
L’amarezza di Vittorio Emiliani, presidente del Comitato per la Bellezza: “È una follia”.
UN SUPERPALCO SUI FORI
L'ULTIMA FOLLIA DI NERONEdi Tomaso Montanari
«Non serve a niente assoggettare il nostro passato alle logiche del presente».
I Fori come palcoscenico per spettacoli blockbuster? La vera antichità come fondale del kitsch di un musical su Nerone? Difficile spiegare perché non è una buona idea, nel momento in cui il Ministero per i Beni culturali investe quasi venti milioni di euro pubblici per trasformare il Colosseo stesso in una location per eventi e il comune di Verona vuole coprire l’Arena, trasformandola in una specie di palasport di lusso. Eppure, no: è una pessima idea.
In una società dello spettacolo in cui tutto – a partire dalla politica – è fiction, in cui tutto è intrattenimento, in cui tutto parla alla pancia è vitale salvare quei pochi luoghi in cui si può sviluppare una conoscenza critica e razionale del reale. Leon Battista Alberti diceva che l’arte è una finestra sul mondo reale: noi stiamo trasformando il patrimonio culturale in uno specchio che rimanda ossessivamente l’immagine del nostro presente. In Italia abbiamo un enorme privilegio: le nostre città ci mettono a contatto con il passato, cioè con un altro modo di vivere, e di pensare.
Se mascheriamo quel passato assoggettandolo alle logiche del presente, non ci serve a niente. Ma se ci educhiamo a leggerlo, a comprenderlo e ad amarlo per quello che è, può darci la forza di capire – diciamolo con Gramsci – «che non tutto ciò che esiste è naturale che esista». È sempre stato così: la conoscenza del passato aiuta a costruire un futuro diverso dalla continuazione del presente. Se oggi non ne siamo più capaci è anche perché pensiamo che il modo migliore per “valorizzare” i Fori sia farci un musical su Nerone. Senza l’incendio, speriamo.
Una risposta per punti ad una lettera del ministro Franceschini in merito al provvedimento sulle esportazioni delle opere d’arte dall’Italia che è prossimo ad essere discusso dal Senato. la Repubblica articolo9 blog autore, 19 aprile 2017 (c.m.c.)
Qualche giorno fa il ministro per i Beni Culturali Dario Franceschini ha risposto con una lettera al direttore ad un mio articolo su Repubblica.
Non ho avuto la possibilità di replicargli sul giornale. Lo faccio dunque ora: perché il provvedimento sulle esportazioni delle opere d’arte dall’Italia, che era l’oggetto del nostro scambio di vedute, è prossimo ad essere discusso dal Senato.
E lo faccio con una certa larghezza: eccezionale per un post di un blog. Ma l’unico modo di replicare efficacemente al cumulo di post-verità (ora è di moda chiamarle così) su cui si basa la narrazione del ministro è smontarne gli ‘argomenti’ pezzo a pezzo.
1. Quali associazioni?
Franceschini afferma testualmente che il testo della norma in questione è “frutto del lavoro di Parlamento, Governo e associazioni”.
L’uso, furbescamente generico, della parola «associazioni» per indicare i soggetti portatori di interessi con i quali il Governo (cioè il ministro stesso) ed il Parlamento (cioè il senatore Andrea Marcucci, primo firmatario del testo dell’articolo in questione) hanno lavorato per mettere a punto il testo dell’articolo 68 del disegno di legge sulla concorrenza, potrebbe lasciar intendere, al lettore distratto, non informato o semplicemente in buona fede, che si tratti delle associazioni che si occupano della tutela del patrimonio storico ed artistico nazionale (come sarebbe naturale attendersi dal ministero che di tale tutela è tenuto ad occuparsi per mandato istituzionale).
E invece no: le associazioni di cui parla il ministro sono quelle professionali dei mercanti d’arte, delle case d’asta, dei trasportatori professionali di opere d’arte, dei legali che li affiancano: è questa la compagnia (riunita in una sorta di cartello, l’Apollo 2) con la quale il ministro ha discusso della modifica delle norme sull’esportazione di opere d’arte dall’Italia.
E tutto ciò proprio nello stesso momento in cui gli uffici del ministero da lui diretto denunciavano l’ennesimo caso di esportazione irregolare e di vendita truffaldina, presso la sede di una grande casa d’aste, addirittura di un bene artistico di proprietà dello Stato. Ebbene, la casa d’aste, nonostante fosse stata avvertita, ha proceduto comunque all’aggiudicazione dell’opera d’arte e solo l’intervento coordinato degli Uffici ministeriali, dei carabinieri del Comando tutela patrimonio culturale, dell’avvocatura dello Stato e della magistratura, e le perplessità del cliente che si era aggiudicato l’oggetto in sede d’asta, ha finora impedito che l’aggiudicazione andasse ad effetto.
Al momento sono in corso le azioni legali e la vicenda avrà una sua soluzione nelle aule di giustizia. Della vicenda si sono occupati i giornali, ma evidentemente questo non è bastato ad indurre il ad interrompere i rapporti con chi stava, in quello stesso momento, trafficando con opere d’arte italiane, addirittura di proprietà dello Stato, illecitamente sottratte alle raccolte cui appartenevano ed illecitamente esportate e messe poi sul mercato.
E dunque vin da chiedersi: ma il ministro Franceschini con chi sta? Sta con gli uffici del suo Ministero che difendono il patrimonio culturale o con i mercanti che spingono perché di quello stesso patrimonio venga liberalizzata totalmente la vendita all’estero?
2. Chi è in ritardo?
Franceschini sostiene poi che il provvedimento «affronta gli annosi problemi del ritardo delle procedure … e della frequente eterogeneità nelle decisioni sull’autorizzazione all’esportazione di opere d’arte».
Ebbene, se il ministro fosse capace di autocritica farebbe bene a ripensare alla cervellotica riforma che ha messo in piedi, moltiplicando a dismisura i posti di livello dirigenziale generale per distribuire stipendi a persone che finora poco o nulla di buono hanno prodotto, al di là delle narrazioni trionfalistiche, e che invece non ha previsto l’unica vera struttura che in un Paese come l’Italia sarebbe davvero servita: una Direzione generale preposta al coordinamento degli uffici di esportazione, che avrebbe potuto organizzarne il lavoro e renderlo il più possibile omogeneo, evitando che i cittadini maturassero la convinzione che la tutela è un fatto episodico, che dipende dalle valutazioni soggettive dei funzionari che lavorano nei vari uffici. Invece, e sembrerebbe quasi che si sia voluto approfittare dell’occasione, si è preferita la politica del ‘tana liberi tutti’.
3. Cosa potrà uscire se passa la legge?
Il Ministro poi continua il suo intervento affermando che «Anche con la nuova disciplina nessun bene vincolato potrà uscire in via definitiva dal Paese né potranno uscire le opere incluse nelle collezioni dei musei: le novità riguardano solo le opere di proprietà privata non vincolate».
L’affermazione corrisponde al vero solo per quello che riguarda le opere incluse nelle raccolte dei musei pubblici. Ma per le altre opere, di proprietà privata, anche se vincolate, ed anche se raccolte in collezioni, il discorso è molto diverso.
Infatti oggi possono essere vincolate, anche al momento in cui sono presentate per l’esportazione, le opere d’arte realizzate da artisti non più viventi e che hanno più di cinquanta anni, se presentano interesse storico od artistico particolarmente importante, (così come previsto dall’articolo 10, comma 3, lettera a) del Codice dei Beni culturali), e possono essere vincolate anche le opere che, a prescindere dall’epoca della loro realizzazione, (e quindi anche se hanno meno di cinquanta anni), siano particolarmente significative a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere (articolo 10, comma 3, lettera d) del Codice). Ma a seguito delle modifiche che la nuova normativa apporta allo stesso articolo 10, [introducendo, proprio dopo la lettera d) di cui ora abbiamo parlato, una lettera d-bis)], accadrà che, per intanto, potranno essere oggetto di esame, anche all’esportazione, per valutarne l’eventuale interesse particolarmente importante, ai fini dell’imposizione del vincolo, le sole opere d’arte che siano state realizzate da un artista non più vivente e che abbiano più di settanta anni. Invece le opere che abbiano fra i cinquanta e i settanta anni, ovvero siano state realizzate da un artista ancora vivente, possono essere vincolate solo se «presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione».
Innanzitutto l’innalzamento della soglia temporale in presenza della quale gli uffici dell’amministrazione possono legittimamente procedere al vincolo delle opere d’arte sottrae alla possibilità di tutela molta parte delle opere d’arte prodotte negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, le quali potranno essere vincolate solo se ne dimostrerà l’interesse eccezionale. E c’è una vera perla: secondo la nuova disposizione che si intende inserire all’articolo 10, anche gli oggetti di interesse archeologico, non potranno essere vincolati se realizzati da artista ancora vivente (magari richiamato fra noi con una seduta spiritica!) o se eseguiti da meno di cinquanta anni (a cosa ci si riferisce? al periodo di tempo decorso dalla scoperta?). E comunque, se ricompresi fra i cinquanta ed i settanta anni (ancora una volta non è dato capire se, per gli oggetti archeologici, ci si intenda riferire all’epoca della loro scoperta, o a cosa), potranno essere vincolati solo se di valore eccezionale (non in sé, ma) per l’integrità e la completezza del patrimonio nazionale. Un incredibile pasticcio.
Inoltre tale nuova disposizione contrasta con quanto previsto alla precedente lettera d) dello stesso articolo 10, a termini della quale è oggi possibile vincolare un oggetto d’arte, a prescindere dall’età che esso ha, se è particolarmente significativo (anche se non eccezionale) per la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, ecc. Ebbene, come convive tale disposizione – che naturalmente può applicarsi anche con riguardo alle opere di arte contemporanea – con la nuova previsione, che esclude la possibilità del vincolo per opere, o per le collezioni di opere, che abbiano meno di cinquanta anni, e, se ricomprese fra i cinquanta e i settanta anni, lo ammette sole se gli uffici riescono a dimostrare che esse, opere singole o collezioni, sono eccezionali? I contenziosi, come è agevole immaginare, sono serviti su un piatto d’argento. E sullo stesso piatto è servita l’opportunità, ai proprietari di opere d’arte o di collezioni formate da opere d’arte che hanno meno di settanta anni, ma più di cinquanta, e che sono state vincolate, magari in occasione della loro presentazione ad un ufficio esportazione per essere autorizzate all’uscita dal territorio nazionale, di richiedere la revisione del vincolo, posto che nessuna di tali opere e/o collezioni è stata vincolata in quanto giudicata di interesse eccezionale, per la semplice ragione che tale soglia di interesse, ai fini dell’imposizione del vincolo, non era finora richiesta.
E sarà oggettivamente difficile non accogliere le richieste di revisione dei vincoli esistenti, che i privati potranno formulare, all’indomani dell’approvazione della riforma, ai sensi dell’articolo 128 del Codice dei beni culturali. Alla luce di quanto esposto, tre sono le possibili ragioni che hanno indotto il Ministro a scrivere la frase sopra riportata: o ha mentito, sapendo di mentire; o, benché i fidi collaboratori gliel’abbiano spiegata, non ha capito la portata effettiva della proposta di cui si è attribuita la paternità (leggi: Governo) ed il merito, in uno con il Parlamento (leggi: Marcucci); oppure i fidi collaboratori che hanno scritto il testo a braccetto con i mercanti d’arte gli hanno mentito, nascondendogli la vera portata della modifica alle regole della tutela che la nuova disposizione arreca. Sarebbe bello avere una risposta puntuale.
4. Ce lo chiede l’Europa?
Il Ministro, in apertura della sua lettera, ha parlato di fantomatici ritardi accumulati dall’Italia nell’allinearsi “a quanto avviene in tutta Europa” in materia di esportazione di opere d’arte. E anche qui viene il dubbio che il ministro sia vittima del suo stesso storytelling. Egli sembra infatti ignorare che non c’è alcun ritardo da parte dell’Italia rispetto a presunti obblighi di allineamento a immaginari parametri europei.
Il Trattato istitutivo della Comunità europea, nella versione consolidata attualmente vigente, stabilisce infatti, agli articoli 28 e 29, che sono vietate, fra gli Stati membri, restrizioni quantitative, rispettivamente, all’importazione ed all’esportazione, o misure equivalenti, ma con riguardo alle ‘merci’. Al successivo articolo 30 dello stesso Trattato è tuttavia chiarito che «Le disposizioni degli articoli 28 e 29 lasciano impregiudicati i divieti o restrizioni all’importazione, all’esportazione e al transito giustificati da motivi … di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale…»
È la cosiddetta ‘eccezione culturale’, che ha consentito al nostro Paese, ed in genere ai Paesi del sud Europa – i ‘produttori’ di patrimonio culturale –, di mantenere ognuno la propria legislazione in materia di esportazione di opere d’arte, in genere più restrittiva, sia pure in forme diverse, rispetto a quella dei Paesi dell’Europa del nord. La detta norma è tuttora in vigore e perciò non si capisce a quali ritardi il Ministro abbia inteso porre rimedio, né si capisce perché (e grazie a chi) si sia convinto che, in materia di esportazione di opere d’arte ci dovremmo allineare al resto d’Europa essendo invece molto più avanzati, e avendo ottenuto la vittoria dell’eccezione culturale.
Come gli capita spesso, Franceschini si è dimenticato di un dettaglio: l’articolo 9 della Costituzione, che obbliga lo Stato repubblicano a tutelare il patrimonio storico ed artistico della Nazione.
Sempre in nome di un presunto allineamento a non meglio precisate norme UE, il Ministro afferma, poco dopo, che «Come già avviene in Europa, viene introdotta , con esclusivo riferimento all’esportazione, una soglia di valore, di 13500 euro. Al di sotto di tale soglia, anche le opere con più di 70 anni e di autore non più vivente potranno uscire dall’Italia senza autorizzazione; ma ciò potrà avvenire solo a seguito della dichiarazione dell’interessato, verificata dagli uffici che, se lo riterranno, potranno apporre il vincolo». E poi prosegue, per magnificare ulteriormente quello che evidentemente ritiene un suo grande successo politico: “Come ben chiarito … [la soglia di 13500 euro] è il valore più basso in Europa (in Francia 150000 euro, in Germania 300000 euro)e dall’applicazione della soglia restano comunque esclusi reperti archeologici, archivi, incunaboli, manoscritti”.
Questa prosa asseverativa, scritta stando, idealmente, a gambe larghe, con le mani a pugno sui fianchi, il petto in fuori ed il mento proteso in avanti, non tiene affatto conto della banale verità poc’anzi rammentata: l’Italia, in materia di tutela si è finora avvalsa di quella eccezione culturale. Viceversa, aver voluto collegare la libera esportabilità degli oggetti d’arte ad una soglia di valore economico, ha fatto saltare, una volta e per sempre, la ragion d’essere di detta eccezione culturale, basata, appunto, sul valore storico degli oggetti stessi e sulla loro idoneità ad essere strumenti per la promozione dello sviluppo della cultura nel Paese di appartenenza, e quindi sulla possibilità di vietarne l’esportazione. Ma ora basta: è arrivato l’ultraliberista Dario Franceschini. E l’unico valore che viene riconosciuto è quello economico.
In pratica il ministro è riuscito nell’impresa, andando contro corrente sia rispetto alle normative plurisecolari emanate dagli stati preunitari, sia rispetto alle disposizioni emanate, in più di un secolo, dalla legislazione di settore dello Stato unitario, di parificare, finalmente, le opere d’arte a qualsiasi altra merce di cui possiamo essere esportatori. Un risultato epocale, non c’è che dire.
5. Autocertificazione = bomba libera tutti.
Il valore economico delle opere d’arte da esportare non è soggetto ad una certificazione resa da un soggetto indipendente, ma è dichiarato dallo stesso mercante d’arte interessato alla loro esportazione. E se il valore così autocertificato è inferiore ai 13500 euro, il mercante non deve neppure presentare l’oggetto d’arte all’ufficio di esportazione: si limita a inserirlo in un apposito elenco sul suo registro informatico e può esportarlo in qualunque momento a meno che il Soprintendente, mosso da curiosità, consultando sul suo computer il registro del mercante, non gli chieda di presentare quel determinato oggetto in ufficio per una verifica dell’autodichiarazione.
Quindi a decidere se un oggetto d’arte può o no uscire dall’Italia sarà d’ora in poi il mercante d’arte: salva la facoltà di un controllo, sporadico ed episodico, da parte dell’ufficio di esportazione.
Infatti già la legge sulle autocertificazioni stabilisce espressamente che il controllo sulle dichiarazioni rese dai privati su fatti a loro noti non può che essere ‘a campione’ e nella nuova previsione normativa è scritto espressamente che il Soprintendente può richiedere un controllo (solo) per “taluna delle cose” inserite dal mercante nell’elenco degli oggetti di valore inferiore ai 13500 euro. E non basta. Per blindare ulteriormente la libera esportabilità, da parte dei mercanti d’arte, degli oggetti che essi stessi certificano essere di valore inferiore ai 13500 euro, è prescritto che qualora questi oggetti vengano sottoposti a verifica (rigorosamente a campione, in base a quanto fin qui detto) e, secondo il Soprintendente, la loro esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni ma sia inferiore ai settanta anni, potranno essere sottoposti a tutela solo se «presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione», in base all’espresso richiamo alle condizioni di vincolo stabilite dalla nuova previsione aggiunta all’articolo 10 del Codice, e il detto vincolo dovrà essere dichiarato «dal competente organo centrale del Ministero», organo centrale che, in assenza di ogni indicazione specifica nell’attuale assetto organizzativo del Ministero, deve ritenersi che sia il Direttore generale per l’archeologia, le belle arti e il paesaggio. Senza che siano ovviamente indicati tempi e modalità sia per l’inoltro della proposta di vincolo al detto organo centrale da parte degli uffici di esportazione, sia per la partecipazione dei privati controinteressati al detto procedimento. Ogni precisazione, sotto il profilo procedurale ed organizzativo, è rinviata ad un successivo decreto ministeriale. Chi vivrà vedrà.
Nulla si dice per gli oggetti di valore inferiore ai 13500 euro e realizzati da oltre settanta anni circa le condizioni e le modalità per la loro sottoposizione a vincolo: è da pensare che per tali oggetti il livello di interesse necessario e sufficiente per la tutela, e la competenza ad emanare il relativo provvedimento, siano rimasti quelli finora richiesti, ma le disposizioni sono scritte in modo tale che non c’è da giurarci. Insomma un pastrocchio.
Ma il ministro è orgoglioso di un tale ‘capolavoro’. Ed infatti la lettera a Repubblica si chiude con una autocelebrazione, sulle sorti magnifiche e progressive del ministero negli anni felici della gestione franceschiniana:«… l’Italia … è tornata ad essere paese guida nel mondo per la tutela come hanno dimostrato gli ottimi risultati del G7 cultura di Firenze».
Quali risultati? Ma è chiaro: quelli dello storytelling, della postverità, della narrazione.
Emergenza Cultura online, 19 Aprile 2017 (c.m.c)
L’elezione di Venzone, in Friuli, a borgo più bello d’Italia è una potente iniezione di fiducia in noi stessi. Chi oggi ha meno di sessant’anni forse non sa che nel 1976 Venzone non esisteva più, raso al suolo da un terremoto. Dopo la terribile scossa del 6 maggio (che provocò 47 morti e gravi danni), ce ne fu una, fatale, il 15 settembre.
Poteva essere la fine di Venzone: c’era chi proponeva di ricostruirlo altrove, in forma moderna. E già dopo il 6 maggio le ruspe avevano inflitto danni irreparabili alle macerie degli edifici storici.
Ma lo shock di settembre provocò una straordinaria mobilitazione, culturale e civile: si costituì un Comitato di coordinamento per il recupero dei Beni culturali, e i cittadini chiesero di riavere Venzone «com’era e dov’era». E così fu: il sindaco requisì l’intero centro storico, che fu ricostruito come un unico organismo, un’unica opera pubblica. Il Duomo fu ritirato su con le sue stesse pietre, ricollocate ad una ad una, lasciando bene in vista i segni della devastazione.
Il libro che, meglio di ogni altro, racconta questa storia è “Le pietre dello scandalo”, scritto a più mani, uscito nel 1980 in una collana diretta da Corrado Stajano e nato «dalla convinzione, o dalla speranza, che il tentativo di salvare, per quanto era possibile, l’identità del Friuli distrutto dai terremoti del 1976, la lotta condotta per difendere da un’altra violenza, quella delle ruspe, beni che non andavano annientati, il lavoro fatto per impedire in particolare la cancellazione del centro storico di Venzone, svolto da un gruppo di volontari, possa servire come chiave di lettura non solo di quanto avviene nell’Italia dei terremoti, delle frane, delle alluvioni, della speculazione proterva, ma anche di quanto, in condizioni di “normalità”, dovrebbe essere cambiato per una reale salvaguardia del patrimonio storico-artistico italiano».
La scelta di Venzone come borgo più bello d’Italia dimostra oggi che non si trattava di un’utopia, ma di un progetto che potrebbe essere esteso a tutta l’Italia. Una lezione terribilmente attuale: visto che non decolla ancora, nel cratere dell’Italia centrale, la ricostruzione degli edifici storici.
A tutt’oggi i cantieri riguardano non più del 20 per cento di un patrimonio culturale che non riesce ad essere soccorso da «un ministero dei Beni culturali drammaticamente sprovvisto di mezzi e di persone. Al di là della facile propaganda e delle narrazioni rassicuranti, sono i crolli stessi degli edifici, uno dopo l’altro, a raccontare un’altra storia» (sono parole dello storico dell’arte Andrea De Marchi).
I cittadini di Amatrice hanno scritto un’accorata lettera aperta in cui denunciano che «stiamo perdendo, come Italiani, un pezzo della nostra storia, stiamo perdendo un pezzo dell’Italia». Eppure sarebbe possibile salvarlo: facendo come a Venzone. Così che, tra quarant’anni, il borgo più bello d’Italia possa essere uno di quelli che oggi è raso al suolo. Non è impossibile, dipende solo da noi.
Lo sfruttamento economico del nostro patrimonio culturale si arricchisce di nuove figure e di nuovi strumenti che, guarda caso, nei giorni scorsi, con il benestare di Regione Toscana e Comune, si sono dati convegno proprio a Firenze per celebrare la cosiddetta “Rigenerazione urbana a base culturale”.
Non ci vuol molto per capire che si tratta dell’ennesima trovata per giustificare e rilanciare il saccheggio del patrimonio storico, artistico e architettonico, di proprietà pubblica, da parte di società che fanno del suo sfruttamento il principio motore di una nuova fase di rilancio della redditività immobiliare ed economica.
Definiscono Cultural Real Estate questa attività. La cultura viene trasformata in elemento trainante della speculazione immobiliare. Il recupero degli immobili dismessi dovrebbe consentire di realizzare «valorizzazioni immobiliari-culturali capaci di generare valore, reddito e occupazione», ciò nella speranza di accontentare tutti, anche se in maniera profondamente sperequata e distruttiva di valori ambientali e sociali consolidati nel tempo.
Sono messi a valore non solo gli asset tangibili quali edifici, opere, musei, ma anche quelli che sono definiti asset intangibili, «espressioni identitarie ed eredità del passato da trasmettere alle generazioni future, quali le arti dello spettacolo, l’artigianato, il paesaggio».
In altri termini, concorrono alla formazione del valore non solo le qualità intrinseche del manufatto edilizio ed architettonico, ma anche le reti di relazioni, il savoir faire collettivo, la stessa costruzione sociale dell’intorno territoriale del manufatto acquisito, che fa di quel patrimonio un unicum irripetibile e per di più sottratto alla comunità locale.
La cosa che più irrita non è solo l’espropriazione del bene pubblico ma anche la sussunzione delle stesse forme di vita, della presenza fisica degli abitanti, del loro agire quotidiano, alla determinazione del profit speculativo. È una nuova forma di vassallaggio territoriale e culturale nei confronti dei ricchi di turno.
Ormai è un dato di fatto che investire in cultura conviene: è stato calcolato che la designazione a patrimonio culturale di un edificio ne incrementa il prezzo del 15% circa, mentre il valore delle abitazioni presenti in aree di interesse storico-culturale gode di un premio del 25%.
Alle incertezze del ciclo edilizio tradizionale, le società di Cultural Real Estate Development puntano proprio sull’acquisizione di immobili fortemente caratterizzati in senso storico e culturale per assicurarsi una stabilizzazione del rendimento economico. Sono investimenti unici, destinati a una categoria di clienti particolarmente ricchi che non conoscono i morsi della crisi e delle bolle immobiliari. E l’Italia ha un ricco bottino di cui i Developers vorrebbero appropriarsi: è il paese con il più alto numero di siti Unesco, ben 51, più della Cina (50) e più della Spagna (45). Cosa desiderare di più!
Sono pronti a scendere in campo investitori internazionali del calibro di Fondi sovrani, Banche di sviluppo, Compagnie di assicurazioni e Fondi pensione per finanziare campagne di acquisizione senza precedenti.
«Ci muoviamo nel solco di un approccio economico e finanziario al bene culturale, lo trattiamo come se fosse un asset economico e finanziario considerando il cash flow e la redditività presente e futura in relazione alla commercializzazione di beni e servizi che gli ruotano attorno»: questo è il freddo e utilitaristico linguaggio con cui gli operatori del settore si occupano di quel patrimonio culturale, intendendo con culturale monumenti, edifici, palazzi, tessuti urbani, che si è sedimentato nel corso dei secoli e che ora ci viene sottratto. Inaridito nelle sue funzioni e nella sua ricchezza di relazioni, viene banalmente consumato e ne viene precluso il suo valore di trasmissione della memoria collettiva per le generazioni future.
Sono gli stessi Cultural developer a riconoscere che si muovono su di un terreno accidentato «perché il patrimonio culturale costituisce un bene pubblico puro inalienabile (dello Stato o degli enti locali) e il rischio finanziario ha bisogno di garanzie». La certezza dell’investimento viene loro garantita dalle recenti politiche del Mibact di smantellamento della funzione di tutela costituzionale dei beni culturali, subordinata alla loro valorizzazione mercantile. A sottolineare questa nuova connotazione del Ministero è lo stesso Franceschini quando ricorda di essere a «capo del principale Ministero economico italiano»!
Non solo, ma è messa profondamente in discussione anche la cultura urbanistica di questi ultimi anni, che in parte ha saputo innovarsi e che ancora può proporre dispositivi di contenimento delle spinte speculative. Amministratori pubblici e addirittura esponenti dell’Istituto Nazionale di Urbanistica fanno a gara nel depotenziare gli strumenti urbanistici attuativi in favore di dubbie e generiche modalità puntuali di gestione del territorio, che perdono di vista la direzione pubblica delle trasformazioni e la visione sistemica della complessità dei fatti territoriali.
Non è un caso che durante quel consesso sia stato annunciato l’accordo con la famiglia Lowenstein per la trasformazione della Villa Medicea di Cafaggiòlo, al centro della tenuta di 385 ettari nei pressi di Barberino del Mugello. Patrimonio Unesco, progettata da Michelozzo e celebrata da Lorenzo il Magnifico si trasformerà in un resort “acchiapparicchi” con tanto di distruzione di valori ambientali, culturali e sociali. Comuni e Regione, servizievoli, si sono subito dichiarati disponibili a modificare i propri strumenti urbanistici, mentre sarà proposta anche una variante al PIT per gli impatti paesaggistici e l’aumento delle volumetrie.
Che non si venga a raccontare la favola dei posti di lavoro, perché tanto sappiamo che investimenti del genere sono ad alta intensità di capitale con basso ritorno di occupati, per lo più impiegati in forme precarie e stagionali!
Il presidente Rossi dichiara di essere soddisfatto e ricorda che «stavolta siamo riusciti a mettere d’accordo anche i comitati».
Al suo posto non sarei così sereno, vorrei ricordargli che invece esiste, per fortuna, un vasto fronte di comitati, di associazioni, di reti locali e di saperi istituzionali consapevoli del fatto che, ricordando Calvino, l’inferno dei viventi è qui e ora. Distinguere l’inferno da ciò che non è inferno è il nostro compito.
Emergenza cultura online, 12 aprile 2017
Si è infine sentita la la voce del ministro che su Repubblica (6 aprile) mette anche la sua firma sotto questo articolo 68 infilato da un emendamento corsaro, in senato, seconda lettura, nel disegno di legge per la concorrenza e il mercato (per promuovere concorrenza e mercato). Appunto “per favorire la circolazione dell’arte contemporanea”, che non sembra propriamente compito del ministro per i beni culturali, “la soglia temporale per il vincolo, dice, è portata a 70 anni”. Ma il ministro non dice, forse perché non lo ha inteso, che quel limite dall’arte contemporanea è stato esteso per trascinamento, ben oltre il fine, a ogni specie di beni del cui interesse culturale si possa discutere, beni immobili compresi, ben fermi lì dove stanno.
E garantisce che l’art. 68 “è frutto del lavoro di parlamento, governo e associazioni”, non certo quelle per la tutela che dovrebbe sentire più vicine, ma il gruppo di interesse formato dai mercanti d’arte all’insegna, come si è letto, di “Apollo 2”, assistiti da professionalità di eccellenza che, non smentita, si è presa il merito di aver dettato testualmente la nuova disciplina Parla di governo, il ministro, non specificamente del suo mibact, al quale si addicono modi di iniziativa del tutto diversi per promuovere la riforma di ben nove ed essenziali articoli del codice dei beni culturali. E nella stesura di questo articolo 68, che mal si armonizza nel testo del disegno di legge, si stenta francamente a riconoscere il contributo del ministero per i beni culturali, mentre integralmente risultano soddisfatte le rivendicazioni tradizionali della lobby degli antiquari, anche al costo di cancellare un principio generale fermissimo fin dalla legge Rosadi, quello per cui sono sufficienti cinquant’anni dalla esecuzione del bene perché possa essere espressa una valutazione critica sicura sul suo interesse culturale.
Nell’elenco dei “tipi” di bene culturale dell’art.10, comma 2, del “codice” l’art.68 introduce una singolare nuova categoria di beni – lettera d-bis – in ragione dell’interesse “eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione” che in quell’elenco non trova una autonoma obbiettiva caratterizzazione intrinseca, riflettendo soltanto il grado elevato dell’interesse culturale richiesto, particolarmente importante per i beni di appartenenza privata (tributo al terribile diritto di proprietà privata), mentre un non qualificato interesse è requisito sufficiente per la tutela del bene pubblico. E’ il consecutivo comma 5 che dà ragione di questa nuova anomala categoria di beni per i quali, siano mobili o immobili, di appartenenza pubblica o privata, vale la più breve soglia temporale dei cinquant’anni. Insomma è il recupero estremo ed eccezionale dello spazio di tempo, prospettiva a ritroso, cui da oltre un secolo si è fatto costante e generale riferimento per il riconoscimento del bene culturale. Ma a ben vedere è la spia di irragionevolezza della discriminazione e dello stesso allungamento dei tempi a settant’anni. Il diverso grado dell’interesse (particolarmente importante, eccezionale) non può dare giusto motivo alla diversa disciplina dei tempi di riconoscimento e il più breve termine, solo eccezionalmente ammesso, sufficiente per consentire l’apprezzamento al riguardo, non può non valere generalmente per il riconoscimento del bene culturale. Questione di legittimità costituzionale non certo infondata. Ma la ragione della invenzione di questa nuova categoria di beni culturali si deve esclusivamente trovare nella copertura alla innovazione della disciplina dell’esportazione tutta orientata alla facilitazione della circolazione dei beni che costituiscono l’oggetto del mercato dell’arte. Su questa nuova categoria si fonda il dispositivo, in realtà meramente virtuale, che dovrebbe contenere gli effetti estremi dell’ampia apertura all’esportazione, essendo dato al soprintendente il potere di negare l’autorizzazione pur nel difetto del requisito del minimo valore o del mancato raggiungimento della soglia dei settanta anni (sempre che sia stata superata quella dei cinquanta) se avrà rilevato nello specifico bene a lui presentato per il vaglio all’uscita quell’eccezionale interesse. Ma non basta il suo giudizio per fermarlo, perché, deviazione dall’ordine normale delle competenze, la questione sarà decisa dal “competente organo centrale del ministero” (il direttore generale deve intendersi). Procedimento anomalo e attardante che scoraggia l’esercizio della eccezionale facoltà.
Nella modifica dell’art. 63 del “codice” sta il cuore di questa obliqua riforma e la fonte della sua ispirazione. L’art.63 ha origine, come è ben noto, in una lontana disposizione del t. u. delle leggi di pubblica sicurezza (1931) sul commercio dell’usato, che fu ripresa in funzione dell’esercizio della tutela nel testo unico del 1999 in materia di beni culturali e ambientali. Si vuole dunque oggi che già nella bottega dell’antiquario si formi e si consolidi la qualificazione degli oggetti del suo commercio, secondo due distinti elenchi (del registro tenuto in formato elettronico), quello dei beni che, se se ne volesse programmare l’esportazione, dovranno essere presentati al soprintendente; e quello dei beni che ne sono invece esenti secondo un attestato rilasciato in modalità informatica (dallo stesso soprintendente deve intendersi). Ed è poi il consecutivo art. 65 contestualmente modificato che fissa la disciplina della esenzione. Certo, al soprintendente è data la facoltà di richiedere la presentazione del bene incluso nell’elenco (da lui consultabile, dice l’articolo, in tempo reale) dei beni esenti , ma dovrà sbrigarsi perché l’elenco riguarda le vendite e dunque il bene già è passato nella disponibilità dell’acquirente che è fornito dell’attestato rilasciato in modalità informatica e, se è questa la sua intenzione, lo potrà liberamente esportare.
Ben sappiamo che la inconsulta riforma di organizzazione della trama diffusa della tutela con l’accorpamento delle soprintendenze e la creazione dei poli museali (destinazione preferita dei funzionari storici dell’arte) ha messo in grave crisi l’esercizio della funzione di “dogana” e converrà allora, recondita consapevolezza, formalizzare con questo articolo 68 dello statuto di mercato e concorrenza la resa definitiva alla vivacità del mercato.
la Repubblica online, blog "Articolo 9".6 aprile 2017
La Grecia aveva detto no. No ai 56 milioni offerti da Gucci per sfilare sul Partenone. Il perché l'aveva spiegato bene un poeta greco, Pantelis Boukalas:
«Il Partenone è parte del patrimonio culturale dell’umanità non solo perché è bello, ma perché è un luminoso simbolo di democrazia. L’ultimo tentativo di umiliarlo è stata una richiesta della casa di moda Gucci di tenere una sfilata di moda sull’Acropoli, usandolo come sfondo. L’argomento a favore sarebbe che ciò promuoverebbe la libertà dell’espressione artistica e l’innovazione creativa. Questa artificiosa giustificazione non riesce a spiegare perché la libertà artistica dovrebbe passare attraverso la sottomissione di uno dei più grandi simboli dell’umanità a interessi commerciali. Il valore simbolico del Partenone è stato minacciato anche quando è stato recentemente chiuso al pubblico in occasione della visita del presidente americano Barack Obama, ma il danno sarebbe esponenzialmente più grande se il monumento fosse usato come fondale di un evento commerciale. L’argomento che esso beneficerebbe dell’enorme compenso o della pubblicità dell’evento è solo il travestimento di un cinismo abbietto».
Ora Gucci ha vinto: giocando in casa, cioè a Firenze. E ha risparmiato 54 milioni: per due milioncini tondi la sfilata rifiutata da Atene si farà nelle sale della Galleria Palatina di Palazzo Pitti. Cioè nel museo più sputtanato d'Italia, tra addii al celibato di milionari, prestiti imposti dalla politica, mostre di stilisti.
«Sputtanato»: questa è la parola giusta. Perché è chiaro che non si tratta di un progetto culturale, ma di prostituzione. Durante la conferenza stampa fiorentina il ceo di Gucci ha chiarito come stanno le cose, ironizzando in modo sciacallesco sul disastro della Grecia: «Evidentemente il bilancio greco è più solido di quello italiano...». Dunque, ecco come stanno le cose: prostituzione per povertà.
E ci volevano un direttore tedesco e un consiglio scientifico muto come una sfinge per raggiungere questo mirabile risultato.
Infine, l'immancabile benedizione del ministro Dario Franceschini: «anche la moda è parte del patrimonio culturale e della storia del nostro Paese dove il gusto, l'eleganza e l'educazione al bello fanno parte del nostro quotidiano. Il legame tra moda e arte è sempre stato molto stretto e ha spesso favorito occasioni di incontro suggestive e uniche. Come avviene oggi con un marchio prestigioso dello stile italiano che decide di investire in modo significativo su una grande istituzione culturale nel pieno rispetto della sua missione ... Ritengo molto positivo che queste due eccellenze, parti integranti della cultura e della creatività, stiano dialogando con sempre maggior coraggio».
Ciascuna delle affermazioni di questo vaniloquio, semicolto e in malafede, si può smontare e rovesciare nel suo contrario. L'educazione al bello è sempre stata congiunta all'educazione al giusto: qua siamo di fronte a grandi multinazionali che usano i beni comuni come location per vendere meglio i loro prodotti. Proprio i luoghi che ci dovrebbero liberare dal dominio incondizionato del mercato vengono sottomessi ed umiliati. E non è vero che la moda fa parte del patrimonio culturale come i musei: sono cose del tutto diverse. E la principale differenza sta nel vaglio del tempo: la Galleria Palatina accoglie opere che hanno superato un giudizio plurisecolare. Che senso ha metterle sullo stesso piano dell'ultimo modello di Gucci?
È una sorta di autoglorificazione del presente, che si arrampica sulle spalle del passato: autopromozione a buon mercato, attraverso un falso storico. E se a Pitti troviamo gli stessi abiti che popolano le vetrine delle strade che abbiamo percorso per raggiungere il museo, che cosa abbiamo fatto? In gioco non c’è la dignità dell’arte, ma la nostra capacità di cambiare il mondo. Il patrimonio culturale è una finestra attraverso la quale possiamo capire che è esistito un passato diverso, e che dunque sarà possibile anche un futuro diverso. Ma se lo trasformiamo nell’ennesimo specchio in cui far riflettere il nostro presente ridotto a un’unica dimensione, quella economica, abbiamo fatto ammalare la medicina, abbiamo avvelenato l’antidoto. E quale «dialogo» ci potrà mai essere tra i vestiti di Gucci e le pale d'altare di Andrea del Sarto, o le Madonne di Raffaello?
La Grecia ha un bilancio messo peggio del nostro. Ma noi abbiamo perso la dignità, grazie ad una classe politica abissale e a un ceto di intellettuali servile fino al grottesco. E ora anche grazie al patrimonio culturale più sputtanato del mondo.
la Repubblica, 5 aprile 2017
. Il Fatto Quotidiano online, 2 aprile 2017 (p.s.)
Non c’è regione in Italia che possa contenderle il triste primato. Che siano 149, come si legge nell’elenco regionale, pubblicato dall’ufficio speciale di coordinamento delle attività tecniche e di vigilanza sulle opere pubbliche della Regione, o 113 come registrato sul sito del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, poco importa. La Sicilia è l’indiscussa leader delle infrastrutture nazionali incompiute. Nelle campagne di Caltagirone, al confine tra il territorio di Aidone in provincia di Enna e quello di Mineo nel Catanese, sul fiume Margherito, c’è uno di quei relitti. La diga di Pietrarossa, l’infrastruttura che avrebbe dovuto potenziare la copertura di irrigazione dei campi della Piana di Catania, è lì, da 27 anni.
Incompleta e abbandonata. Ma non dimenticata. Hanno promesso di portarla a termine non solo Rosario Crocetta, l’attuale Presidente della regione siciliana, ma anche Raffaele Lombardo e Totò Cuffaro, i suoi predecessori. Gli agricoltori dei Consorzi di bonifica che sono nell’area ne chiedono il completamento, la politica regionale s’impegna. A parole. Così a febbraio la questione è riproposta da Nello Musumeci, deputato della Lista Musumeci verso Forza Italia, che presenta un’interrogazione «al governo regionale per completare i lavori». Insomma sembra proprio l’ennesima storia di un’opera pubblica mai terminata che invece sarebbe utile completare. Non è così. «La diga di Pietrarossa è un’opera pubblica abusiva, che va demolita, con il conseguente ripristino dei luoghi e uno studio archeologico dell’intera zona, finalizzato al pieno recupero dei reperti dell’insediamento romano venuti alla luce in contrada Casalgismondo», proponeva nel 2010 Sebastiano Russo, presidente del circolo “Il Cigno” di Legambiente di Caltagirone.
«La diga di Pietrarossa è un’opera da demolire. Oltre a essere un abuso in un sito archeologico, si caratterizza per irregolarità e violazioni di legge». Roberto De Pietro, l’ingegnere autore di un particolareggiato studio sull’opera, è categorico. Eppure la diga è stata realizzata al 94,61% e sono stati spesi 75.147,869 euro stanziati dalla Cassa per il Mezzogiorno. «La diga è stata pensata in un periodo in cui opere simili si realizzavano in Sicilia, violando leggi, a volte in modo sfacciato», spiega l’esperto. Il lungo iter dell’infrastruttura inizia nel 1988, prima con lo stanziamento dei soldi pubblici e dopo con la Lodigiani spa – CO.GE.I spa che si aggiudica l’appalto. E’ il 1990 quando i lavori lavori affidati al Consorzio di Bonifica 7 Caltagirone, in regime di concessione dall’Agenzia per la Promozione dello Sviluppo del Mezzogiorno, iniziano. «Senza autorizzazioni, sprovvisti del preventivo nullaosta della Soprintendenza di Enna e senza essere sottoposti a una valutazione di impatto ambientale», scrive De Pietro.
Nonostante la procura di Enna abbia avviato un’inchiesta già da tempo, il cantiere subisce un primo stop soltanto nel 1993. Già perché nel frattempo è stato scoperto un vasto insediamento romano, solo parzialmente indagato. Il fermo dura poco. I lavori riprendono per poi arrestarsi definitivamente nel 1997 quando i magistrati di Enna emettono il provvedimento di sequestro della diga e dodici avvisi di garanzia per abuso, rifiuto di atti d’ufficio, deturpamento di bellezze naturali e archeologiche.
Due anni prima, un altro capitolo della storia. Sulla struttura si rilevano alcune lesioni. La Lodigiani-Cogei chiede un nuovo finanziamento. Ulteriori 20 miliardi di lire per provvedere ai lavori imprevisti. Colpa del sisma del 1990, afferma l’impresa. Ma non è così. Un’inchiesta della procura di Caltagirone accerta che i danni danni sarebbero dovuti a errori nella costruzione e che l’impresa avrebbe tentato una truffa. Il fermo lavori del 1997 non è senza conseguenze.
L’impresa di costruzioni Imprepar-Impregilo Partecipazioni spa, subentrata alla Lodigiani-Cogei, avvia una causa di risarcimento per danni subiti a seguito della sospensione. Una sentenza del Tribunale di Catania ne quantifica un credito nei confronti del Consorzio di Bonifica 7 Caltagirone pari a circa 4,7 milioni di euro. Nel 2014 con un atto di Pignoramento notificato presso la Regione Sicilia la società Imprepar-Impregilo Partecipazioni spa ha pignorato tutte le somme a qualsiasi titolo dovute dall’Assessorato regionale dell’Agricoltura al Consorzio di Bonifica 7 Caltagirone. Non è tutto. Il Consorzio a sua volta avvia una causa civile contro l’impresa. Il Motivo? Risarcimento danni.
Pubblichiamo il contributo di un lettore di patrimoniosos che ha analizzato in maniera puntuale ed esaustiva i gravi rischi che il patrimonio culturale della Nazione correrà se verrà approvato l'articolo 68 della legge annuale sul mercato e sulla concorrenza (sulla quale verrà posta la fiducia il prossimo 5 aprile). patrimonioSOS, 1 aprile 2017
Legge annuale per il mercato e la concorrenza in approvazione con voto di fiducia alla Camera il 5 aprile 2017.
Disposizioni riguardanti i beni culturali che mettono in grave pericolo il patrimonio culturale nazionale
Segnalazione e appello urgente affinché dalla legge si stralciato l'articolo 68
Premessa
Il disegno di legge è giunto ormai al terzo passaggio alla Camera che avverrà il 5 aprile e sarà blindato con voto di fiducia. È dunque assolutamente necessario che l’articolo, il 68 del testo finale, sia stralciato dalla legge e non venga approvato, soprattutto con voto di fiducia.
L’articolo è stato inserito nel disegno di legge in itinere mediante un emendamento discusso la scorsa primavera durante il passaggio al Senato avvenuto presso la Commissione Decima Industria, con parere favorevole dato dalla Commissione Cultura. La versione attuale è quella che corrisponde al testo numero 3.
L’emendamento è stato inserito su richiesta e pressione diretta del gruppo d’interesse Apollo 2 che rappresenta case d'aste internazionali, associazioni di antiquari e galleristi di arte moderna e contemporanea e soggetti operanti nel settore della logistica di beni culturali, rappresentato dall’avvocato Giuseppe Calabi di Milano, avvocato di fiducia di Sotheby’s, che ha materialmente redatto il testo della legge concordandolo, come si legge in un trafiletto uscito su Plus24 del Sole24 n. 667 del 13 giugno 2015, direttamente con l’allora Presidenza del Consiglio e l'attuale Ministro.
La legge annuale per il mercato e la concorrenza è strumento nuovo introdotto dalla «legge sviluppo» del 2009, al fine di rimuovere gli ostacoli regolatori, di carattere normativo o amministrativo, all’apertura dei mercati, di promuovere lo sviluppo della concorrenza e di garantire la tutela dei consumatori, anche in applicazione dei principi del diritto dell’Unione europea, nonché delle politiche europee in materia di concorrenza (vedi nota alla fine del'intervento).
Non è dunque la sede adatta per infilare di sottecchi e mediante un colpo di mano che ha evitato qualsivoglia discussione nelle sedi deputate, una norma che incide in maniera così profonda e irreversibile sul patrimonio culturale nazionale cambiando in maniera sostanziale l’oggetto della tutela, definito dall’articolo 10 del Codice dei beni culturali, con il falso e ridicolo pretesto di “semplificare le procedure relative al controllo della circolazione internazionale delle cose antiche che interessano il mercato dell'antiquariato”.
Commento
L’articolo innova infatti in maniera sostanziale l’articolo 10 del Codice dei beni culturali che individua il patrimonio culturale da assoggettare a tutela, innalzando l’età minima che un oggetto deve avere per farne parte, che passerà dai 50 anni (termine per altro vigente in tutta Europa e negli USA, ad esempio) ai 70 anni, e introducendo, per ora limitatamente alle norme riguardanti l’uscita dal territorio nazionale (ma il Codice dei beni culturali è costruito in modo tale da prevedere simmetria assoluta fra l’articolo 10 e il 65 che stabilisce cosa vada sottoposto al controllo del Ministero in caso di uscita dal territorio) il pericoloso, scorrettissimo e quanto mai aleatorio, ondivago e soggettivo concetto del valore economico quale indice (primario fra l’altro) di valutazione dell’interesse culturale. Cosa che evidentemente non può essere.
L’articolo, restringendo gli ambiti di applicabilità del Codice dei beni culturali, di fatto elimina dal patrimonio culturale della Repubblica, costituzionalmente protetto dall’articolo 9, un’ampia e importante fetta di beni mobili e immobili (che peraltro nulla hanno a che vedere con la circolazione internazionale) che oggi vi rientrano e/o possono rientrare. Tutti i beni, ivi compresi quelli di proprietà pubblica ed ecclesiastica, che oggi hanno fra i 50 e i 70 anni e gli immobili di proprietà privata che oggi hanno fra i 50 e i 70 anni, non saranno più protetti né proteggibili.
L’articolo senza procedere a un esame coordinato e strutturato della legge di tutela, senza il necessario contraddittorio sull’argomento con il Parlamento e con i cittadini, depaupera in maniera indiscriminata e irrimediabile il patrimonio culturale che è di tutti, a solo ed esclusivo vantaggio di una minima parte di essi, i mercanti internazionali di arte e le grandi case d’aste. L’articolo viola la Costituzione. L’articolo va stralciato dalla legge in approvazione perché la tutela e anche la valorizzazione del patrimonio culturale nulla hanno a che vedere con il mercato e la concorrenza.
Quelli che si cerca di fare passare per inutili controlli paralizzanti il mercato antiquariale sono in realtà controlli sostanziali volti a verificare se fra le cose presentate a uno dei 18 uffici esportazione del Ministero vi siano potenziali beni culturali prima incogniti all’Amministrazione. Qualora tali beni, sulla base di un’approfondita disamina tecnico-scientifica, siano riconosciuti come tali, vengono fermati e assoggettati al regime di tutela che, fra le altre cose, comporta l’inclusione in forma espressa nel patrimonio culturale nazionale e il divieto di uscita definitiva dai confini del territorio.
L’articolo in parola, restringendo in forma massiva e indiscriminata l’ambito delle cose che necessitano di autorizzazione all’uscita, di fatto depaupera in maniera irreversibile il patrimonio culturale nazionale. Il tutto senza più avere l'obbligo di presentazione degli oggetti in uscita alla visione diretta degli uffici esportazione e solo dietro autocertificazione da parte dei richiedenti (ci si domanda peraltro come si possa autocertificare un prezzo ai sensi del DPR 445/2000 che non lo prevede).
L’articolo mette dunque in pericolo il concetto stesso di patrimonio e l’articolo 9 della Costituzione della Repubblica e va soppresso.
L’eliminazione a monte della possibilità di controllo all’uscita da parte del Ministero di tutti gli oggetti che abbiano meno di 50 anni e di tutti quelli di qualsiasi età, tipologia ed epoca (ad esempio, dipinti, disegni, sculture, mobili, opere di design, oreficerie, libri, stampe, incisioni, manoscritti, documenti, beni etnografici, strumenti musicali, archivi, carteggi, ecc.) che abbiano un valore economico sotto i 13.500 euro, sulla base di una semplice autodichiarazione, è inaccettabile.
Dettaglio
Le norme relative alla circolazione internazionale hanno quale unico scopo quello di evitare l'uscita definitiva dal territorio della Repubblica, e dunque la perdita, di beni culturali. Rispondono al principio della tutela del patrimonio culturale sancito dall’articolo 9 della Costituzione. A tal fine gli uffici esportazione del Ministero dei beni culturali svolgono un controllo preventivo sulle cose che, in base a determinate caratteristiche, sono potenzialmente suscettibili di essere beni culturali.
Attualmente i requisiti che rendono obbligatorio il passaggio negli uffici esportazione (articolo 65 del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 recante il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio) per l’uscita definitiva sono l'interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, ecc., l'essere opera di autore non più vivente, l'esecuzione da oltre 50 anni. Gli stessi che, come è ovvio, presiedono all'individuazione dei beni culturali in generale (articolo 10 del Codice).
L’articolo in questione, oltre ad innalzare la soglia di obbligatorietà (e, per simmetria, anche i criteri per l'individuazione di tutti i beni culturali, compresi gli immobili) ai 70 anni, introduce - solo nella disciplina della circolazione internazionale - un nuovo parametro, mai prima preso in considerazione dalla normativa nazionale, quello del valore economico, sottraendo al controllo degli uffici esportazione tutte le cose che, indipendentemente dalla loro età ed interesse culturale, stanno sottosoglia.
La norma stabilisce che sia l'età che il valore venale sono autocertificati dal richiedente e che su tali dati il rilascio degli attestati e certificati avvenga in automatico: non si dà alcun potere agli uffici esportazione di controllare tali dati, di stabilire se la somma indicata è congrua, di vedere se davvero il bene ha gli anni dichiarati. Ciò è del tutto folle e troppo sbilanciato a disfavore della Pubblica Amministrazione e rende davvero inutile l'esistenza di un ufficio.
Nella disciplina attuale, il valore venale dei beni non costituisce un indice d'interesse culturale, come è giusto che sia visto che gli andamenti del mercato sono ondivaghi, spesso legati a fenomeni esterni che nulla hanno a che vedere con il reale valore culturale del bene. Il mercato ha leggi diverse. Il mercato è influenzato dalle mode e dai gusti.
Il valore di mercato non è dunque un elemento oggettivo, dato una volta per tutte, ma oscillante e mutevole nel tempo e nei luoghi. Il mercato è fatto da chi compra e chi vende. È dunque un parametro troppo empirico ed aleatorio per pretendere di affidarvi il discrimine fra ciò che è bene culturale e ciò che non lo è. Quello che il mercato stabilisce infatti non è il valore dell'opera, ma la sua quotazione, ovvero la stima probabilistica che le attribuisce chi compra e scambia. Una sorta di spread, di indice di credibilità e affidabilità che nulla ha a che vedere con il valore culturale. E nemmeno con quello venale visto che può capitare che opere stimate sottosoglia vengano poi vendute in asta con valori superiori.
Oggi il valore venale è autodichiarato in sede di richiesta di rilascio dell'attestato di libera circolazione al solo scopo di avere un prezzo sulla base del quale effettuare l'eventuale acquisto coattivo per le raccolte dello Stato.
Poiché il valore venale sarà dichiarato mediante autocertificazione, il risultato pratico sarà l'uscita definitiva della stragrande maggioranza dei beni che costituiscono il patrimonio culturale del nostro Paese, senza alcuna possibilità di controllo.
Il patrimonio culturale diffuso, quello che rende l'Italia unica, sarà depauperato in brevissimo tempo, senza alcun vantaggio per il mercato che, dalla sovrabbondanza di offerta risulterebbe soltanto deprezzato e svalutato, e con reale perdita per il Paese, di certo meno attrattivo in termini di turismo e sviluppo economico. La norma in esame di fatto deprime i territori, le autonomie locali, il turismo, ed è espressione di una visione ristretta e passatista del patrimonio culturale del tutto contraria all'incentivazione del mercato che pretenderebbe di favorire.
Se davvero si volesse rilanciare il mercato italiano dell'arte altri dovrebbero essere i provvedimenti da adottare. Anziché modificare la normativa di tutela, bisognerebbe intervenire sulle aliquote IVA e doganali all'importazione che in Italia sono maggiori che negli altri Paesi. La semplificazione dovrebbe essere strutturata in modo tale da attirare nel Paese il mercato internazionale dell'arte e non da farlo fiorire unicamente fuori dai nostri confini. Di fatto quello che si incentiva è l'uscita e non l'entrata. Allungare il periodo già individuato quale soglia per l'uscita dal territorio nazionale non è misura per rilanciare il mercato italiano ma soltanto per deprimerlo ulteriormente e depredare il patrimonio di tutti.
Stabilire che d'ora in poi il patrimonio culturale della Nazione non potrà più comprendere beni che abbiano meno di 70 anni è cosa gravissima: vuol dire negare in blocco tutta la cultura italiana del Novecento a partire dal secondo Dopoguerra. Non solo sotto il profilo mobiliare ma anche sotto quello immobiliare, visto che l’articolo impone il termine dei 70 anni anche per le cose immobili di proprietà privata, che oggi hanno i 50 anni.
Si arriva così all’assurdo che mentre il mercato internazionale cerca in tutti i modi di approvvigionarsi di opere e pezzi di design italiano degli anni ’50 e ’60, il Paese di provenienza se ne libera dimostrandosi incapace di comprenderne il vero valore culturale e venale. Difficile credere che sul lungo periodo una così scarsa "autostima" possa giovare al mercato internazionale dell'arte.
Il sistema dell’acquisto coattivo all’esportazione ha consentito allo Stato di acquisire talvolta per poche migliaia di euro di pezzi molto importanti che sono diventati patrimonio dei musei.
D’ora in poi questa possibilità è impedita all’origine, viceversa è offerta su un piatto d’argento ai musei esteri.
Il regime dell'autocertificazione non consente più di procedere in tal senso: è infatti applicabile solo per i beni che necessitano di autorizzazione per uscire e quindi che abbiano valore venale superiore ai 13.500 euro. Quello che invece era ed è, e sarebbe ancora, interessante è la possibilità di fare acquisti coattivi sui beni poco costosi (politica che si è sempre tenuta) comprare ad esempio disegni e sculture di grandi maestri e dunque eccezionalmente importanti per il patrimonio, ma anche dipinti, magari di nomi meno conosciuti ma fondamentali per la storia dell'arte, perché facenti parti di pale, polittici, opere che un tempo ornavano chiese, cattedrali, grandi palazzi, per poche migliaia di euro.
Riflessioni ulteriori
Le norme relative alla circolazione internazionale hanno quale unico scopo quello di evitare l'uscita definitiva dal territorio della Repubblica, e dunque la perdita, di beni culturali. Si tratta di un obbligo costituzionale sancito dall'articolo 9. L'articolo 10 del Codice dei beni culturali e del paesaggio definisce i beni culturali e i criteri per individuarli facendo riferimento a tre elementi esterni oggettivi e facilmente conoscibili: assetto proprietario, età, paternità (autore non più vivente). I controlli sull'uscita definitiva stabiliti dall'articolo 65 del Codice sono dunque conformi e simmetrici al dettato dell'articolo 10 e hanno quale unica ratio quella dell'individuazione e salvaguardia di beni culturali non ancora riconosciuti come tali perché sino a quel momento incogniti all'amministrazione.
L'articolo 68 della Legge in approvazione introduce in maniera asimmetrica, vale a dire soltanto in relazione alle norme che regolano la circolazione internazionale, un elemento sinora mai preso in considerazione dalla nostra legislazione e in ogni caso non inserito nell'articolo 10 dal quale il 65 discende e consegue: il valore venale. Al di là del merito, già discusso più sopra, per cui non pare possibile affidare il discrimine fra cosa può o non può essere bene culturale a un dato presuntivo, non oggettivamente misurabile e soprattutto mutevole nel tempo e nei luoghi quale la quotazione economica, se l'articolo 10 stabilisce che determinate cose sono beni culturali indipendentemente dal prezzo e la Costituzione sancisce il principio secondo cui la Repubblica tutela il patrimonio culturale della nazione, il fatto che la nuova formulazione dell'articolo 65 del Codice dei beni culturali ammetta la perdita di beni culturali individuati ai sensi dell'articolo 10, soltanto perché autocertificati con un prezzo inferiore ai 13.500 euro, è del tutto anticostituzionale.
Pare schizofrenico, contrario a ogni logica ed egualmente anticostituzionale che la stessa identica cosa possa essere bene culturale ai sensi dell'articolo 10 del Codice e non esserlo ai sensi dell'articolo 65. E dunque essere dichiarata d'interesse culturale e sottoposta a tutela a termini del procedimento di cui all'articolo 10 e seguenti del Codice ad eccezione del caso in cui in cui l'amministrazione ne sia venuta a conoscenza in virtù di una richiesta di uscita definitiva dai confini nazionali. Con le ovvie e inevitabili disparità di trattamento fra cittadini (a disfavore dei proprietari e a favore dei mercanti) e con l'ancora più nefasta conseguenza che basterà munirsi di un attestato di libera circolazione ottenuto in automatico autocertificando un valore sottosoglia e poi rientrare sul territorio nazionale chiedendo la certificazione in ingresso prevista dall'articolo 72 del Codice dei beni culturali che comporta la non applicabilità della legge di tutela, per sottrarre in forma legalizzata e inappellabile al patrimonio culturale nazionale beni che nell'attuale ordinamento avrebbero potuto, e dunque dovuto, farne parte.
Nota: Il Ddl attualmente all’esame della Camera è stato il primo ad essere presentato dal governo dal 2009. In base alla «legge sviluppo» del 2009 (art. 47, legge 23 luglio 2009, n. 99) le segnalazioni dell’Autorità garante per il mercato e la concorrenza (antitrust) costituiscono la base per la predisposizione, da parte del Governo, del disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza. A seguito di tale innovazione normativa, l'Autorità dal 2009 ha inviato al Parlamento e al Governo, ai sensi degli artt.21 e 22 della legge n. 287/90, segnalazioni generali su proposte di riforma pro-concorrenziale del quadro normativo e regolatorio. Ebbene, nessuna delle segnalazioni dell’Autorità, l’ultima delle quali risale al 2014 reca traccia di provvedimenti inerenti la semplificazione del commercio internazionale dei beni culturali. Per fare un esempio fra i settori indicati dall’Autorità, vi sono: le assicurazioni, con particolare riguardo al campo della RC Auto; i fondi pensione; le comunicazioni; i servizi postali; l’energia e la distribuzione in rete di carburanti per autotrazione; le banche; le professioni; la distribuzione farmaci, ecc.
Art. 68.
(Semplificazione della circolazione internazionale di beni culturali)
1. Al fine di semplificare le procedure relative al controllo della circolazione internazionale delle cose antiche che interessano il mercato dell'antiquariato, al codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 10:
1) al comma 3, dopo la lettera d) è inserita la seguente:
«d-bis) le cose, a chiunque appartenenti, che presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico eccezionale per l'integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione»;
2) il comma 5 è sostituito dal seguente:
«5. Salvo quanto disposto dagli articoli 64 e 178, non sono soggette alla disciplina del presente titolo le cose indicate al comma 1 e al comma 3, lettere a) ed e), che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre settanta anni, nonché le cose indicate al comma 3, lettera d-bis), che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni»;
b) all’articolo 11, comma 1, lettera d), la parola: «cinquanta» è sostituita dalla seguente: «settanta»;
c) all’articolo 12, comma 1, la parola: «cinquanta» è sostituita dalla seguente: «settanta» e le parole: «, se mobili, o ad oltre settanta anni, se immobili» sono soppresse;
d) all'articolo 14, comma 6, è aggiunta, in fine, il seguente periodo: «Per le cose di cui all'articolo 10, comma 3, lettera d-bis), la dichiarazione è adottata dal competente organo centrale del Ministero»;
e) all'articolo 54:
1) al comma 1, lettera d-ter), la parola: «cinquanta» è sostituita dalla seguente: «settanta»;
2) al comma 2, lettera a), la parola: «cinquanta» è sostituita dalla seguente: «settanta» e le parole: «, se mobili, o ad oltre settanta anni, se immobili,» sono soppresse;
f) all'articolo 63, comma 2, dopo il primo periodo, sono inseriti i seguenti: «Il registro è tenuto in formato elettronico con caratteristiche tecniche tali da consentire la consultazione in tempo reale al soprintendente ed è diviso in due elenchi: un primo elenco relativo alle cose per le quali occorre la presentazione all'ufficio di esportazione; un secondo elenco relativo alle cose per le quali l'attestato è rilasciato in modalità informatica senza necessità di presentazione della cosa all'ufficio di esportazione, salva la facoltà del soprintendente di richiedere in ogni momento che taluna delle cose indicate nel secondo elenco gli sia presentata per un esame diretto»;
g) all'articolo 65:
1) al comma 2, lettera a), la parola: «cinquanta» è sostituita dalla seguente: «settanta»;
2) al comma 3, lettera a), la parola «cinquanta» è sostituita dalla seguente: «settanta» e sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «, il cui valore, fatta eccezione per le cose di cui all'allegato A, lettera B, numero 1, sia superiore ad euro 13.500»;
3) il comma 4 è sostituito dai seguenti:
«4. Non è soggetta ad autorizzazione l'uscita:
a) delle cose di cui all'articolo 11, comma 1, lettera d);
b) delle cose che presentino interesse culturale, siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni, il cui valore sia inferiore ad euro 13.500, fatta eccezione per le cose di cui all'Allegato A, lettera B, numero 1.
4-bis. Nei casi di cui al comma 4, l'interessato ha l'onere di comprovare al competente ufficio di esportazione, mediante dichiarazione ai sensi del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, che le cose da trasferire all'estero rientrino nelle ipotesi per le quali non è prevista l'autorizzazione, secondo le procedure e con le modalità stabilite con decreto ministeriale. Il competente ufficio di esportazione, qualora reputi che le cose possano rientrare tra quelle di cui all'articolo 10, comma 3, lettera d-bis), avvia il procedimento di cui all'articolo 14, che si conclude entro sessanta giorni dalla data di presentazione della dichiarazione»;
h) all'articolo 68:
1) al comma 4, le parole: «dal Ministero» sono sostituite dalle seguenti: «con decreto del Ministro»;
2) al comma 5, la parola: «triennale» è sostituita dalla seguente: «quinquennale»;
i) all'articolo 74, comma 3, le parole: «sei mesi» sono sostituite dalle seguenti: «un anno» e la parola: «trenta» è sostituita dalla seguente: «quarantotto»;
l) all'allegato A, lettera A, nel numero 15 e nella nota (1), la parola: «cinquanta» è sostituita dalla seguente: «settanta».
2. Il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, con proprio decreto da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge:
a) definisce o aggiorna gli indirizzi di carattere generale cui gli uffici di esportazione devono attenersi per la valutazione circa il rilascio o il rifiuto dell'attestato di libera circolazione, ai sensi dell'articolo 68, comma 4, del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, nonché le condizioni, le modalità e le procedure per il rilascio e la proroga dei certificati di avvenuta spedizione e di avvenuta importazione, ai sensi dell'articolo 72, comma 4, del medesimo codice;
b) istituisce un apposito «passaporto» per le opere, di durata quinquennale, per agevolare l'uscita e il rientro delle stesse dal e nel territorio nazionale.
L'Italia dei Renzichenecchi e dei Franceschini è un paese nel quale l'utilità sociale dei beni culturali si misura sulla quantità degli incassi. Ecco alcuni esempi di ciò che stanno dissipando. E più degli esempi preoccupa la direzione del vento che essi indicano. la Repubblica, 30 marzo 2017
«Confrontare l’opere con le scritture»: questa fulminante definizione del compito della storia dell’arte si deve a Raffaello. Ed è tuttora verissima: non comprendiamo le immagini senza la conoscenza della loro storia. Nell’Italia di oggi, tuttavia, sembriamo pensarla al contrario. I nostri politici scrivono che quando la bellezza muore «al massimo può essere storia dell’arte, ma non suscita emozione». Così nella scuola l’”arte” e la “creatività” prendono il posto della storia dell’arte. E le biblioteche vengono “mangiate” dalle immagini, mostre, eventi.
Il caso simbolo è quello della biblioteca di un grandissimo storico dell’arte Giuliano Briganti. Diciottomila volumi e 50 mila fotografie che furono saggiamente acquistati dal Comune di Siena e destinati al grande complesso medioevale del Santa Maria della Scala. Era il primo stadio di un progetto ambizioso: qui dovevano arrivare anche i libri di altri storici dell’arte (Giovanni Previtali, Luciano Bellosi, magari anche quelli di Enzo Carli), qui doveva trasferirsi la Pinacoteca della città, qua anche il dipartimento di storia dell’arte: avremmo così avuto un centro di ricerca formidabile. Senza eguali in Italia.
Purtroppo quel progetto è stato risucchiato dalla grande crisi (economica, ma prima politica e culturale) della città del Palio, e qualche giorno fa un avviso ha informato della chiusura al pubblico della Biblioteca Briganti «almeno per il mese di marzo 2017»: ma di fatto senza un giorno certo per la riapertura. Ufficialmente la colpa è di certi lavori di manutenzione, ma quel che moltissimi senesi dicono (rigorosamente a “microfoni spenti”) è che la biblioteca sarà portata via dalla Scala, e confluirà in quella Comunale, venendo smembrata.
Perché? Il complesso della Scala è stato dato in gestione al gruppo Civita, che lo usa come contenitore per mostre ed eventi: una destinazione per la quale una biblioteca non solo non serve, ma intralcia. Il vento soffia in questa direzione. Nella non lontana Pisa la grande biblioteca della Sapienza (cioè dell’università, ma così importante da appartenere al Ministero per i Beni culturali) è chiusa da cinque anni, e ora i libri sono chiusi in casse, a Lucca: anche in questo caso furono all’inizio invocati danni all’edificio provocati dal terremoto dell’Emilia. Ma una vasta parte della importante comunità intellettuale pisana sostiene che il vero obiettivo era «sgombrare il palazzo della Sapienza dalla presenza di ospiti indesiderati: i libri» (Chiara Frugoni). Anche un’università può, dunque, scegliere di usare un palazzo storico come location di eventi, sfrattando gli strumenti della conoscenza. Una tendenza, ormai: nella stessa Pisa, la Domus Mazziniana era già stata svuotata dai libri, e ridotta a esposizione permanente di cimeli.
D’altra parte, il successo delle istituzioni culturali si misura ormai con i biglietti staccati. E in un’epoca in cui si paga anche per entrare in chiesa, le gratuite biblioteche appaiono irritanti, oltre che inutili. A Torino, qualche tempo fa, la Fondazione Musei ridusse da cinque a due giorni l’apertura della biblioteca della Galleria d’Arte Moderna per recuperare risorse per le mostre: e furono gli studenti a insorgere fino a riottenere l’accesso ai libri. Un bell’esempio di mobilitazione civile, che in questi giorni si replica a Cosenza, dove la gloriosa Biblioteca Civica non paga gli stipendi da quattro mesi perché la Provincia è stata cassata dalla Legge Delrio, e la Regione non ritiene di dover subentrare nei pagamenti. E così un’associazione di cittadini ha lanciato un messaggio assai chiaro: «La Città di Cosenza non può affrontare il futuro senza la sua Biblioteca».
A Napoli – dove i 300 mila libri di Gerardo Marotta sono ancora chiusi in casse – la Biblioteca dei Girolamini (sopravvissuta a un devastante saccheggio) è stata conferita al Polo Museale invece che alla Biblioteca Nazionale: e i progetti che circolano immaginano la grande Sala Vico come un’attrazione museale, e non come un luogo di studio e ricerca. La stessa cosa è successa a Modena, dove la gloriosa Biblioteca Estense è stata sottomessa alla direzione della Galleria: con il risultato che è stata chiusa una sala di consultazione per destinarla a ulteriore luogo espositivo, e che si pensa di smembrare le collezioni librarie storiche. Aggiungiamo che, nel 2018, le tre bibliotecarie dell’Estense andranno in pensione: un problema che riguarda tutti i libri pubblici italiani, visto che nei prossimi quattro anni «circa il 60% dei bibliotecari in organico lascerà il servizio», come ricordò l’anno scorso Giovanni Solimine dimettendosi dagli organi consultivi del Mibact.
Tra un’emozione e un sogno, una mostra e un evento, dovremmo ricordarci che i libri non sono un arredo che possiamo spostare, imballare, smontare: senza le biblioteche, non solo i musei e le mostre, ma perfino i sogni e le emozioni, diventeranno presto incomprensibili.
». la Repubblica, 27 marzo 2017, con postilla
Un vento nuovo soffia sulle città: il respiro delle rovine urbane e della loro rigenerazione. Tre sono le cause principali che vanno seminando le città di rovine: la deindustrializzazione, con la sua scia di fabbriche abbandonate, ma anche di quartieri residenziali che si svuotano quasi da un giorno all’altro; l’abbandono dei centri storici, sempre più dedicati allo shopping e all’intrattenimento; infine, il crescere delle nuove povertà (che includono gli immigrati ma anche gli emarginati), con la conseguente formazione di ghetti urbani. In tutti questi casi, mentre la città perde la sua forma storica e si espande indefinitamente, sorgono nel suo vivo tessuto nuove barriere: i confini della città diventano confini nella città, dove gli abbienti s’insediano in aree più confortevoli, e gli altri si concentrano nei suburbi.
Potenti meccanismi di rimozione collettiva ci impediscono di cogliere questo processo nella sua preoccupante estensione; solo qualche volta ne vengono a galla aspetti che colpiscono l’immaginazione, come in quella che fu la capitale americana dell’automobile, Detroit, dove dopo le rivolte urbane del 1967 e una crisi che continua fino a oggi, i grattacieli del centro convivono con le baraccopoli tutto intorno, e intanto centinaia di abitazioni abbandonate crollano via via, e la campagna guadagna spazio sulla città, in una sorta di imprevisto ritorno alla natura.
Anche nello stato di New York (per esempio a Buffalo) sono numerosissime le zombie homes, abitazioni abbandonate da chi, dopo la “bolla immobiliare”, non riusciva a pagarne il mutuo e ha preferito sparire nel nulla. Ma «nelle rovine si nasconde la ricostruzione», come ha scritto Béla Tarr (Le armonie di Werckmeister), e nelle città più colte (e più prospere) il recupero delle rovine urbane genera progetti ed esperienze del più grande interesse. L’esempio migliore è lo High Line Park a West Manhattan. Corre lungo la West Side Line, una linea ferroviaria che per cinquant’anni servì una zona di New York a forte densità industriale, poi cessò di operare verso il 1980, e parve destinata alla demolizione. Ma dopo oltre vent’anni di abbandono se ne è fatto un bellissimo, funzionale parco urbano, poco più largo dello spazio occupato dai binari ma lungo oltre due chilometri; una delle destinazioni più popolari di New York, che contribuisce anche alla conoscenza della città, osservata dall’alto.
I binari sono stati lasciati in vista lungo quasi tutto il percorso, e questa preesistenza “archeologica”, insieme con le vedute sulla città e sul fiume, dà alla passeggiata lungo la High Line il gusto e il tono di un’esplorazione della memoria, ma anche di una promessa per il futuro. Non v’è città al mondo che abbia rovine urbane più di Roma; e non penso qui alle baraccopoli e ai suburbi, che pure vi sono, ma proprio alle rovine della Roma antica. Monumenti che sono lì non da vent’anni, ma da venti secoli, ma stiamo rischiando di non vederli più (un antico sottosegretario ai Beni Culturali ha chiamato il Colosseo «un inutile dente cariato »).
La lunghissima convivenza con i resti della Roma pagana e imperiale ha finito col farle apparire come una sorta di quinta teatrale, senza una vera funzione se non quella di alimentare sogni imperiali; e infatti i principali rimaneggiamenti nell’area dei Fori furono fatti in occasione della visita di Carlo V (1536), poi in epoca napoleonica, e infine da un governo fascista che vantava, a vuoto, il ritorno dell’impero sui colli fatali di Roma. Ma non siamo mai riusciti a venire veramente a patti con l’intensa presenza delle rovine, che a Roma penetrano in ogni quartiere, anche nelle periferie. Attorno alla nuda pietra, per citare il titolo di un bel libro di Andreina Ricci (Donzelli), non siamo riusciti a costruire un progetto urbano che integri quelle rovine nello spirito e nella vita della città. Parliamo astrattamente della loro tutela, ma non di come integrarle nella città, da cui anzi ritagliamo con burocratica cecità “parchi archeologici” e aree vanamente “protette”, senza che il cittadino comune sappia nemmeno bene perché.
Sarà forse più facile intervenire su una ferrovia abbandonata a New York che su rovine vecchie di secoli in Europa? Ma allora perché ad Atene sono riusciti a trasformare tutta l’area intorno all’Acropoli in un mirabile parco urbano, una trama di sentieri che raggiunge i Propilei e si snoda lungo le antiche mura, ma anche verso il monumento di Filopappo, secondo il geniale disegno di Dimitris Pikionis? In Italia questo esempio è stato sì riconosciuto (premio Carlo Scarpa della Fondazione Benetton, 2003), ma non capito né preso a modello. La sua sostanza è presto detta: traformare un’“area archeologica”, che come tale rischia di essere uno spazio dell’esclusione, in un vero e vivo pezzo di città, prezioso ma per tutti, senza biglietto di accesso; e dunque farne uno strumento di conoscenza per i cittadini, che è la sola base per una vera tutela.
C’è un nesso fra questa cura sottile, colta, mirata delle preesistenze archeologiche e la recente decisione delle autorità greche di vietare (per quanto ben pagata) una sfilata di moda sull’Acropoli, perché incompatibile con la dignità del luogo? Sì, il nesso c’è: perché fra coltivare la memoria storica mediante i rituali della cittadinanza (una passeggiata intorno all’Acropoli, o sulla High Line) e svendere i monumenti al migliore offerente, considerandoli un’inutile scatola vuota da riempire di “eventi”, c’è davvero un bivio radicale. A Roma, la scelta è: integrare pienamente le rovine nella città facendone patrimonio di conoscenza dei cittadini, o ritagliarle come pompose scenografie di un qualche business da quattro soldi?
postilla
Peccato che Salvatore Settis dimentichi il grande sogno, alimentato da uomini illustri, esponenti di numerosi saperi e animati da profonde passioni (ricordiamo solo Adriano La Regina, Antonio Cederna, Italo Insolera, Vittorio Gregotti, Leonardo Benevolo, Vezio De Lucia) che reiteratamente proposero di fare della ricostituzione dell'unità dei Fori il fulcro d'una rigenerazione dell'intera città, e il grande sindaco Luigi Petroselli che avviò la relizzazione di quel sogno, finalmente divenuto progetto. Si vedano su eddyburg i numerosi articoli contenuti in proposito digitando "progetto fori" nello spazio a sinistra della piccola lente, magari cominciando dall'articolo di Vezio De Lucia Antonio Cederna, Luigi Petroselli, il progetto Fori e dalla sua lezione alla Scuola di eddyburg 2009: L'Appia Antica e il Progetto Fori