Nell’organigramma del Ministero per i Beni e le Attività culturali la casella del segretario generale è ancora vuota. Quindi il decreto di nomina di chi sostituirà in quel ruolo l’architetto Roberto Cecchi divenuto sottosegretario non è stato ancora firmato. Dovrebbe essere designata la dottoressa Antonia Pasqua Recchia, direttore generale ai Beni architettonici, storico-artistici, ecc., ma, al momento, non se ne ha notizia formale. Da un paio di settimane quindi l’arch. Cecchi cumula ben tre incarichi: quello politico di sottosegretario e quelli tecnici di direttore generale del MiBAC nonché di commissario per l’area archeologica di Roma. Anomalia decisamente pesante, che si poteva evitare rispettando la legge, senza l’indugio di una sola ora. Ma l’Italia di oggi va così, purtroppo.
Le maggiori associazioni per la tutela avevano chiesto al neo-ministro Ornaghi una netta discontinuità rispetto all’era di Bondi, francamente disastrosa, e a quella certo non brillante di Galan. Al contrario egli ha nominato in quel ruolo-chiave il segretario generale di gestioni del Collegio Romano memorabili per l’accettazione supina di tagli feroci, per l’abolizione delle spese di missione, per la totale ibernazione dei piani paesaggistici, per la proliferazione di commissariamenti costosi e spesso dannosi, per l’acquisto a cifre spropositate del crocefisso esposto e strombazzato come Michelangelo, e che, al più, è opera di bottega, e via elencando. Altro che discontinuità. Una continuità perfetta, “inchiodata”. Tanto più che Salvatore Nastasi rimane, a quanto pare, nel doppio incarico di capo di gabinetto e di direttore generale dello Spettacolo (così recita il sito ministeriale). Come prima, più di prima? Certo. Tutto va ben al Collegio Romano.
I Beni culturali sono in fermento. Oggetto di contesa è la poltrona di Segretario generale, il vertice del ministero, fino a qualche giorno fa occupata da Roberto Cecchi, appena nominato sottosegretario. Sul sito web del ministero quel posto risulta vuoto. E a molti è apparso naturale che, ottenuto un ruolo politico, Cecchi presentasse le sue dimissioni. Un candidato alla successione sarebbe anche pronto: Antonia Pasqua Recchia, attuale direttore generale dei beni artistici e storici, paesaggistici e architettonici.
Ma a tutt´oggi le dimissioni, sollecitate anche all´interno del governo, non sono state presentate. Contro il doppio incarico si è espressa la Uil. Affinché Cecchi resti su entrambe le poltrone è intervenuto invece un altro sindacato, la Confsal-Unsa. Ieri ha scritto una lettera a Lorenzo Ornaghi e al premier Mario Monti la presidente di Italia Nostra, Alessandra Mottola Molfino, che dà per acquisite le dimissioni e che chiede al governo «una nuova fase»: sarebbe assolutamente urgente, si legge nella lettera, «che nel massimo ruolo tecnico del ministero, il segretariato generale, sia chiamato chi abbia le capacità per imprimere un decisivo cambio di passo, quando non un´inversione di rotta».
Cecchi non è mai citato, ma è evidente che la più antica delle associazioni di tutela del patrimonio in Italia si riferisce a lui quando chiede di voltar pagina. A Cecchi Italia Nostra imputa di essersi appiattito sul vertice politico del ministero, in particolare quando ministro era Sandro Bondi. Sul versante della tutela paesaggistica, per esempio, si è in una condizione di inerzia. Inoltre l´azione dei commissari, da Pompei a Roma (dove commissario è lo stesso Cecchi), «oltre ad altri gravi effetti negativi e sprechi di risorse, ha di fatto prodotto una smagliatura nella struttura ministeriale». Nell´area archeologica romana molti fondi sono stati destinati a indagare un presunto rischio sismico mentre, come ha mostrato il nubifragio di ottobre, c´è un serio problema idrogeologico. E altre risorse, tante, sono andate per la pubblicazione dell´ultimo rapporto che squaderna i meriti del commissario: 68 mila euro che, calcola Italia Nostra, sono molto di più dei 48 mila che in un intero anno si spendono per le missioni dei funzionari di soprintendenza. «Nei rapporti per Roma e anche nel piano di Cecchi per Pompei», dice Maria Pia Guermandi, archeologa, consigliere nazionale di Italia Nostra, «il ricorso acritico a strumentazioni tecnologiche copre la mancanza di reale innovazione scientifica».
E poi c´è l´appalto per il restauro del Colosseo, duramente contestato dall´Associazione restauratori. E ancora: la vicenda del Crocifisso attribuito a Michelangelo e acquistato alla cifra di 3 milioni 250 mila euro, un´opera, con ogni probabilità, "seriale" e di autore minore (su tutto questo sta indagando la Corte dei Conti). O la storia della commode, il prezioso mobile settecentesco di cui Cecchi ha autorizzato l´espatrio. E poi i conflitti con alcuni dei migliori soprintendenti (Elio Garzillo e Francesco Scoppola, per esempio), spesso sfociati in trasferimenti. Per Italia Nostra è indispensabile che il nuovo segretario generale «sia finalmente in possesso di un curriculum, oltre che di comprovate competenze, di specchiata trasparenza e quindi al di sopra di ogni sospetto».
“Volevo aggiungere il mio nome alla lista di quelli che chiedono una riconsiderazione da parte della soprintendenza per il lavoro progettato in Palazzo Vecchio. Questa idea di sacrificare Vasari per un’avventura donchisciottesca in cerca di una rovina leonardesca mi sembra fondamentalmente sbagliata. Spero che il buon senso fiorentino prevarrà”. Questa email di Keith Christiansen, stimatissimo conservatore della pittura europea del Metropolitan di New York, ha inaugurato l’incredibile pioggia di adesioni (oltre 400, molte qualificatissime) all’appello che appoggia l’esposto presentato da Italia Nostra alla Procura di Firenze per fermare la caccia al Leonardo fantasma. A sua volta, quell’esposto dichiara di partire da un mio articolo, pubblicato dal Fatto mercoledì scorso, che raccontava l’opposizione di una singola funzionaria coraggiosa. Un circolo virtuoso a cui è sempre più affidata la salvezza del nostro patrimonio storico artistico: la resistenza delle parti sane dell’amministrazione, una denuncia sulla stampa, l’attivazione delle insostituibili associazioni per la tutela, il risveglio di un’opinione pubblica qualificata capace di esercitare una pressione internazionale. E, alla fine, il buon senso ha prevalso davvero, anche se più quello romano che quello fiorentino: il MiBAC è intervenuto sulla soprintendente Acidini, e la caccia è stata sospesa.
Se Renzi, come minaccia di fare, si ostinerà nella ricerca, a questo punto dovrà farlo con mezzi non invasivi, cioè senza distruggere nemmeno un millimetro quadrato di un’opera d’arte certa, al fine di cercare un’improbabile rovina. Ma, oltre all’ottenuta sospensione, l’appello chiedeva la costituzione di un comitato scientifico autorevole e terzo rispetto ai promotori di una ‘ricerca’ dichiaratamente ispirata da ragioni di marketing. Infatti Renzi, pur agitando anche la bandiera della ricerca, si è ben guardato da rivolgersi a chi la ricerca della storia dell’arte la fa professionalmente tutti i giorni: la responsabilità scientifica dell’operazione è stata affidata a un ingegnere, peraltro oggi contestato dai suoi stessi colleghi, alcuni dei quali hanno firmato l’appello. Ma per decidere quale fosse la parete giusta su cui cercare, se e come farlo, quando fermarsi e cosa fare dopo, ci sarebbe invece voluto un comitato formato da storici dell’arte, storici delle istituzioni politiche rinascimentali, storia dell’architettura, storici del restauro e così via. A vegliare sull’aspetto conservativo c’era, è vero, l’Opificio delle Pietre Dure: ma dopo che la responsabile delle pitture murali, Cecilia Frosinini, si è sfilata dichiarando che si stava danneggiando Vasari, anche quella tutela non è sembrata affatto sufficiente. D’altra parte, l’Opificio è attualmente guidato dalla stessa Cristina Acidini che dirige la soprintendenza di Firenze. E, come ha ricordato in un’intervista Franca Falletti (direttrice della fiorentina Galleria dell’Accademia), i super-soprintendenti delle grandi città d’arte sono ormai nominati dalla politica con contratti che fanno molto dubitare della loro capacità di resistere alle pressioni politiche. D’altra parte, Matteo Renzi e il suo staff hanno proposto a più riprese di sopprimere del tutto le soprintendenze, passandone le competenze agli enti locali. Ora l’opinione pubblica sa quel che una simile catastrofe comporterebbe: senza l’opposizione di una funzionaria indipendente, il Salone dei Cinquecento si sarebbe presto trasformato in un groviera.
Infine, seguendo un copione alla Sandro Bondi, Renzi ha accusato i firmatari dell’appello di “élitarismo”, mentre lui sarebbe il democratizzatore.
Scatta l´inchiesta della procura sui fori praticati sull´affresco del Vasari a Palazzo Vecchio per cercare una eventuale sottostante opera di Leonardo. Salgono intanto a 300 le adesioni all´appello per lo stop, che è stato deciso per quanto riguarda i fori (non se ne fanno più), mentre continuano i rilievi. «E´ una pazzia» secondo Salvatore Settis. E Christiansen: «Momento sbagliato». Vertice di due ore con il professor Seracini. Acidini tace, il sindaco Renzi tira dritto: «Vicinissimi alla soluzione del mistero».
Vasari, inchiesta della procura
300 adesioni all´appello per lo stop Settis: "Una pazzia". Christiansen: "Momento sbagliato" L´arte nel mirino "È un´operazione spericolata e poi stanno cercando nella parete sbagliata"
E´ stata avviata un´indagine sulle ricerche della Battaglia di Anghiari nel Salone dei Cinquecento. Ieri mattina, ricevuto l´annunciato esposto di Italia Nostra, il procuratore capo Giuseppe Quattrocchi ha aperto un fascicolo. Il presidente nazionale dell´associazione, Alessandra Mottola Molfino, chiede alla procura di verificare se la ricerca con sonde endoscopiche che passano da fori praticati nell´opera del Vasari non integri il reato di danneggiamento di cose di interesse storico e artistico. «Bisognerà vedere se quel tipo di indagini possa aver procurato delle lesioni importanti all´affresco», ha spiegato Quattrocchi, ricordando che «è l´autorità giudiziaria a rilevare i reati. Sentiremo i carabinieri del nucleo tutela patrimonio culturale e le specificità culturali e professionali e ci regoleremo».
Mentre la procura inizia a lavorare, cresce il numero delle firme sotto l´appello per fermare l´intervento sponsorizzato dal National Geographic (250mila euro al Comune di Firenze) scritto dallo storico dell´arte Tomaso Montanari e diffuso dalla stessa Italia Nostra. Ieri sera erano quasi trecento, mentre domenica erano ferme a trentacinque. Un mondo solitamente diviso e poco disponibile ad esporsi come quello dei critici e degli storici dell´arte si è schierato in modo compatto contro l´operazione in corso a Palazzo Vecchio.
Tra i primi a dare l´adesione al documento c´è l´ex direttore della Scuola Normale di Pisa e accademico dei Lincei, Salvatore Settis: «E´ un progetto imprudente - spiega - Sono convinto che questa ricerca sia quasi certamente destinata al fallimento e che rischi di compromettere un affresco del Vasari importantissimo e conservato molto bene. Si celebra così l´anno vasariano in arrivo, bucherellando. E´ una pazzia, un modo sbagliato di spendere soldi pubblici o privati. Bisognerebbe pensare di usare denaro per risolvere la questione dell´archivio del Vasari, da riportare in mani pubbliche». Per Settis, come per gli altri che hanno firmato la lettera, l´affresco di Leonardo non è lì. «Ci sono documenti dello studioso Francesco Caglioti che sembrano indicare con grado di probabilità che la parete dell´affresco di Leonardo sarebbe l´altra, quella di fronte».
Keith Christiansen è il curatore della sezione pittura italiana del Metropolitan di New York, anche lui è tra i firmatari. «C´è solo una piccolissima probabilità che una porzione significativa della battaglia di Leonardo sia sopravvissuta. Se ci fosse stata l´avrebbero rimossa ai tempi di Vasari - dice - Ma a parte questo, va contro l´etica che un´opera d´arte sia compromessa per recuperare qualcos´altro a meno che l´opera in questione sia di importanza marginale. E non è il caso del lavoro di Vasari. Poi c´è il tema dei soldi spesi. Ci sono incalcolabili tesori artistici a Firenze che richiedono attenzione. Lavori per cui mancano fondi. Ora si investe una cifra considerevole nella speranza di trovare qualcosa che nel sedicesimo secolo fu descritta come in rovina? Si tratta di una cattiva idea nel momento sbagliato e non sarebbe stata proposta se Leonardo non fosse diventato una super-celebrità».
Antonio Pinelli, storico dell´arte dell´ateneo fiorentino, è uno dei più esperti conoscitori del Vasari. La sua firma figura fra quelle dell´appello a fermare i lavori. Dice: «E´ un´operazione spericolata e sbagliata alla radice intanto perché cercano nella parete opposta a quella in cui la maggior parte dei critici ipotizza il lavoro su Anghiari. Poi il Vasari aveva una grandissima stima di Leonardo: perché avrebbe dovuto coprire o cancellare la sua opera?». Quindi riprende: «Ma la questione di fondo è: vale la pena di intervenire in quel delicato ecosistema che sono i dipinti vasariani di Palazzo Vecchio? Per cosa?».
Beatrice Paolozzi Strozzi, direttrice del Museo Nazionale del Bargello aggiunge: «In casi come questi la cautela si impone, per questo ho firmato l´appello. Ho messo la mia firma come cittadina, storico dell´arte ed esperta di tutela, al di là del mio ruolo istituzionale, convinta che invece di compromettere l´integrità di un´opera d´arte, occorra attendere che le tecnologie permettano un´indagine assolutamente non invasiva. Non dico, quindi, che le indagini non debbano essere fatte, ma che impongano una valutazione attenta e ponderata, e una interrogazione molto approfondita sul da farsi».
Parla Cecilia Frosinini, la funzionaria dell´Opificio che ha aperto il caso chiedendo di essere sollevata dall´incarico
«Rifarei tutto quello che ho fatto ma ora basta riflettori su di me - La mia missione è quella di tutelare le opere d´arte, qui si fa un intervento invasivo»
Tutto è cominciato dalla sua lettera e da un passo indietro. Il sindaco Matteo Renzi l´ha chiamata «un´obiezione di coscienza» quella di Cecilia Frosinini. Lei, direttrice della sezione restauro pitture murali dell´Opificio delle Pietre Dure, ha preferito parlare di una «questione etica» e adesso dice: «ma basta riflettori su di me». Fino a qualche giorno fa, la sua è stata una voce solitaria, adesso è diventato quasi un coro. «Rifarei esattamente quello che ho fatto. Ho molta stima nei confronti di Marco Ciatti che mi ha sostituito nel controllo tecnico delle operazioni sull´affresco del Vasari e non è certo questo che è in discussione, né la competenza dei restauratori che lavorano sui ponteggi al Salone dei Cinquecento». Il tema che solleva Cecilia Frosinini si fonda su altri punti, uno etico: «La mia missione è quella di tutelare le opere d´arte, qui invece si fa un intervento invasivo sulla pittura» (del Vasari, in particolare della Battaglia di Scannagallo) aveva detto e anche scritto nella lettera inviata fra gli altri alla soprintendente Cristina Acidini. E qualche riga sotto chiedeva di essere sollevata dall´incarico di seguire il lavoro del gruppo di Seracini esprimendo un «dissenso fermo nei confronti delle operazioni e delle attività che mi possano venire imposte secondo scelte di ente locale e sponsor e che ritengo lesive del mio ruolo professionale e scientifico e contrarie alle funzioni che lo Stato mi chiede di svolgere nell´ambito della ricerca e della conservazione».
L´altro punto sollevato dalla responsabile delle pitture murali dell´Opificio riguarda il fondamento scientifico dell´operazione: «comunicazioni sommarie esclusivamente in fase di proiezione di slides» ha scritto, aggiungendo che non c´è stata «alcuna disponibilità da parte dell´ingegner Seracini ad un sia pur minimo contraddittorio o integrazione delle informazioni fornite». Alle Pietre Dure all´inizio «non è stato concesso di decidere in piena autonomia se partecipare a una attività che prevede anche la possibilità di giungere alle ricerche endoscopiche pure attraverso accesso dal fronte, praticando strappi di superficie pittorica e fori nell´intonaco vasariano». E´ quella lettera che accende piano piano il dibattito sull´opportunità o meno di avviare in quel modo la ricerca sul capolavoro perduto di Leonardo, la Battaglia di Anghiari. Cecilia Frosinini è una storica dell´arte che lavora all´Opificio dal 1990. In questi giorni, assieme ad altri studiosi e restauratori sta esaminando nel laboratorio fiorentino un´opera di Leonardo, «l´Adorazione dei Magi», per scriverne l´analisi scientifica. Fa parte del comitato scientifico per il restauro della Sant´Anna e la Vergine, capolavori sempre di Leonardo che sono al Louvre. Alla fine della mostra dedicata a Leonardo in corso a Londra, è stata chiamata a intervenire al convegno di chiusura sul tema: «La tecnica artistica di Leonardo e le indagini scientifiche».
Acidini tace, il sindaco tira dritto
«Vicinissimi alla soluzione del mistero» Prevede di staccare due centimetri quadrati di dipinto, ma non vogliamo decidere da soli «Mi sembra un tentativo pretestuoso degli esclusi di bloccare una ricerca straordinaria. E´ un attacco demagogico»
Il sindaco tira dritto: «E´ difficile negare che lì sotto ci sia qualcosa, la soluzione al mistero è vicinissima». Dopo aver letto l´attacco degli studiosi di mezzo mondo all´operazione Battaglia di Anghiari e l´esposto di Italia Nostra in base al quale la procura ha aperto un´inchiesta, Matteo Renzi rilancia, facendo capire che questi giorni di studio nel Salone dei Cinquecento hanno dato buoni risultati. In effetti una sonda è andata molto in profondità in uno dei fori, come se avesse incontrato una cavità o semplicemente una crepa. Sapremo nei prossimi giorni qualcosa di più.
Ma intanto stop ai fori. Per il momento la prima fase della ricerca si conclude qui, in attesa di conoscere i risultati dei sondaggi. E´ un effetto delle polemiche? Di certo queste hanno messo a dura prova i nervi di alcuni dei protagonisti. L´ingegner Maurizio Seracini dell´Università di San Diego che guida la spedizione ieri si è detto amareggiato, «mi sembra solo un tentativo pretestuoso degli esclusi di bloccare una ricerca straordinaria. Un attacco demagogico che rischia di farci deridere dal mondo». La soprintendente Cristina Acidini contattata più volte non ha voluto spiegare nulla.
Ieri alle 13.30 summit fra il sindaco, la soprintendente (destinataria con lui della richiesta degli studiosi di fermare i lavori), Marco Ciatti dell´Opificio, Seracini e i tecnici impegnati nella ricerca. Bisognava fare il punto sui lavori e discutere delle lettere che mettono gli esperti d´arte di mezzo mondo contro l´operazione in corso a Firenze. Si è deciso di non fare più fori sull´opera del Vasari, almeno fino a mercoledì, quando ci sarà una nuova riunione. Sarebbe stata la stessa Acidini a chiedere tempo con l´obiettivo di riflettere sui dati acquisiti. I lavori però proseguiranno sui sei buchi già realizzati, l´endoscopio passerà da quelle piccole fessure per fare altri campionamenti. Il ponteggio resterà nel Salone dei Cinquecento almeno fino a fine dicembre nel Salone e si pensa anche di dare la possibilità gruppi guidati di visitatori di salirci.
«Finora abbiamo fatto sette buchi (in realtà sei ndr) e le indagini non sono andate bene, sono andate benissimo - ha detto il sindaco davanti al consiglio comunale - Il quadro che avevamo è stato confermato e anche rafforzato. Credo sia difficile negare che lì sotto ci sia qualcosa». Cosa c´è sotto? Renzi non scende nei particolari, ricorda che c´è un contratto con il National Geographic. Ma si intuisce che parla dell´intercapedine esistente dietro l´affresco del Vasari e anche di tracce di sostanze organiche, riferibili a possibili pigmenti utilizzati per la pittura a olio. C´è qualcosa ma non è chiaro cosa: «Oggi è impossibile dire che lì sotto c´è Leonardo». Per questo occorrerebbe una seconda fase di indagine, dopo una prima conclusa con i buchi praticati in fessure già esistenti o in stucchi ottocenteschi. «L´affresco non è stato toccato» sottolinea il sindaco. Per la seconda fase si richiederebbe invece un´indagine più invasiva (si dovrebbero staccare almeno 2 centimetri quadrati di affresco) oppure il passaggio da dietro il muro dove ci sarebbe Leonardo. «Potremmo deciderlo noi, ma voglio che ogni passo sia fatto di comune accordo con l´Opificio delle Pietre Dure», dice Renzi. Nel frattempo restano da analizzare bene i dati raccolti con le microsonde: «I ponteggi resteranno lì un altro mese e su richiesta si potranno visitare». Anche da chi ha promosso l´appello salva-Vasari: «Salvatore Settis se vuole può venire a vedere quello che abbiamo fatto, è il benvenuto», garantisce il sindaco a proposito dell´accademico dei Lincei primo firmatario dell´appello. Per il resto però, chiunque parli di «vandalizzare» verrà querelato: «Stiamo risolvendo il più grande enigma della storia dell´arte. Di fronte ad un mistero che può fare una persona normale? Verificare se esiste». Quanto all´esposto di Italia Nostra alla procura di Firenze, dice il sindaco, «siamo a completa disposizione della magistratura».
Roma al tempo di Caravaggio non è solo l'ennesima kermesse caravaggesca promossa da Rossella Vodret nei due anni che sono passati dalla sua nomina a soprintendente di Roma: è letteralmente un atto di alto tradimento, culturale e professionale. La frenesia caravaggesca della dottoressa Vodret è tale che, al posto del Bacco di Bartolomeo Manfredi, a Palazzo Venezia c'è un cartello che informa che l'opera arriverà solo il 1 dicembre, al ritorno dalla inconsistente mostra su «Caravaggio en Cuba», sempre realizzata su progetto della Vodret. Insomma, per disciplinare il traffico aereo dei Caravaggio movimentati dalla soprintendenza di Roma ormai ci vuole una torre di controllo dedicata. Ma la cosa più grave di Roma al tempo di Caravaggio è che quasi quaranta opere sacre sono state strappate dagli altari veri che ancora le accolgono nelle chiese per essere esibite a Palazzo Venezia, rimontate su finti altari di finto marmo, in una specie di galleria cimiteriale per cui davvero non c'era bisogno di scomodare Pier Luigi Pizzi. In questo momento le chiese di Roma sono dunque ridotte ad un colabrodo, anche perché quello di Palazzo Venezia non è l'unico luna park in attività: la stessa Vodret ha, per esempio, autorizzato l'espianto dalla Cappella Cerasi (in Santa Maria del Popolo) e la spedizione a Mosca della Conversione di Paolo di Caravaggio, un atto che distrugge (pro tempore, salvo incidenti) uno dei pochi ecosistemi artistici del tempo di Caravaggio che ci sia arrivato intatto. E ai musei non va molto meglio: i pochi caravaggeschi dell'appena inaugurato Palazzo Barberini che non sono a Cuba sono stati deportati in Piazza Venezia, e anche la Galleria Borghese e la Corsini hanno pagato un alto prezzo all'ambizione della soprintendente. D'altra parte, quale sia la considerazione della soprintendenza per i musei, lo dice lo stato del disgraziatissimo Museo Nazionale di Palazzo Venezia, che sembra sempre il parente povero della mostra di turno nello stesso palazzo un degrado espresso perfettamente dal busto quattrocentesco di Paolo II ridotto a decorazione del guardaroba della mostra. E sta proprio qua l'alto tradimento: è la soprintendente stessa a lacerare il fragile e unico tessuto artistico romano che è pagata per difendere. In un conflitto di interessi intollerabile, la Rossella Vodret curatrice della mostra chiede i prestiti alla Rossella Vodret soprintendente: e, non sorprendentemente, li ottiene tutti. Tutto questo per una mostra che non ha nulla - ma davvero nulla - a che fare, non dico con la ricerca scientifica degli storici dell'arte seri, ma nemmeno con un buon progetto di divulgazione. Il presidente della Fondazione Roma, Emmanuele E. M. Emanuele, scrive in catalogo che l'«assunto scientifico dell'esposizione è il confronto tra le due correnti del naturalismo e del caravaggismo»: che, invece, sono la stessa cosa. Ma non bisogna fargliene troppo carico, perché è davvero difficile capire quale sia, quel famoso assunto: il "tempo di Caravaggio" (morto nel 1610) viene infatti dilatato fino al 1630, dimenticando un secolo di distinzioni storico-critiche e ammannendo al pubblico un polpettone indigeribile. Fin dalla prima sala (dove tiene banco un confronto, malissimo impostato, tra un capolavoro di Caravaggio e una tela della bottega di Annibale Carracci), la mostra appare dilettantesca, slabbrata, disinformata: una mostra come la si sarebbe potuta fare nel 1922. E nel 2011, con un tavolo pieno di monografie, tre milioni di euro in tasca e una buona ditta di traslochi a disposizione, l'avrebbe fatta meglio un laureando qualunque dei (pessimi) corsi triennali in Valorizzazione dei Beni culturali. Ciliegina sulla torta, ecco la strizzatina d'occhio al mercato dell'arte. Finalmente tutti possono vedere il quadro lanciato a giugno come un Caravaggio a prova di bomba. L'esame diretto conferma che il Sant’Agostino è un gran bel quadro: ma dipinto trent'anni almeno dopo la morte del Merisi. A parte la curatrice della mostra, il proprietario e la professoressa Danesi Squarzina (che lo ha pubblicato), nessuno crede all'attribuzione a Caravaggio. Una pattuglia di specialisti autorevoli (tra cui Ursula Fischer Pace) pensa che sia un'opera del cortonesco Giacinto Gimignani, mentre a me ricorda addirittura le primissime prove di Carlo Maratti nella bottega di Andrea Sacchi (1640 circa). Comunque sia, siamo lontani anni luce da Caravaggio: e ora c'è solo da sperare che non si provi a rifilarlo allo Stato italiano per qualche milione di euro. Non molti sanno che in Senato giace da mesi un'interrogazione in cui il senatore Elio Ianutti (IDV) chiede al ministro per i Beni culturali perché Rossella Vodret ricopra il posto di Soprintendente di Roma senza esser mai riuscita a superare un concorso da dirigente. Ebbene, dopo il colossale disastro di «Roma al tempo di Caravaggio», la soprintendente di Roma potrebbe prendere in considerazione una soluzione che farebbe risparmiare tempo al Senato e al suo ministro: dimettersi.
Ornaghi e Cecchi, la strana coppia. Il neoministro dei Beni culturali che non sa nulla di Beni culturali, si è visto imporre un sottosegretario, Roberto Cecchi, che rischia di saperne anche troppo. Fortemente caldeggiata da Montezemolo e da una parte del PD, la sua nomina appare, già in queste ore, la più sbagliata possibile: nonostante gli inviti di Ornaghi, Cecchi ha rifiutato ieri di dimettersi dalla carica di Segretario generale del Ministero.
Il sistema di potere attentamente costruito da Cecchi è perfettamente bipartisan: prima alleato del sottosegretario PDL Francesco Giro, egli è ora intrinseco del presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, l’ex comunista ma oggi molto morbido Andrea Carandini, suo garante presso il PD.
Ora Cecchi è a un bivio fatale: da una parte, la sua conoscenza della macchina ministeriale potrebbe permettergli di fagocitare l’inconsapevole Ornaghi; dall’altra, la sua incipiente carriera politica potrebbe esser stroncata dagli strascichi di qualcuno dei molti incidenti che hanno funestato la sua resistibile ascesa.
Come commissario straordinario dell’area archeologica di Roma, Cecchi è stato accusato da Italia Nostra di «riprovevole carenza di trasparenza amministrativa»: una carenza che ha raggiunto l’apice nella svendita del Colosseo alla Tod’s di Diego Della Valle, caso macroscopico di ‘privatizzazione’ di un monumento simbolo dell’identità nazionale, per giunta con utile pubblico incomparabilmente inferiore al valore di mercato (e non a caso la gratitudine di Montezemolo è arrivata al momento giusto).
Italia Nostra ha anche fatto notare che l’architetto Cecchi ha concentrato ingenti risorse economiche sulla verifica del (lì modestissimo) rischio sismico (il cui studio gestisce direttamente) a scapito dei problemi (questi invece serissimi) di dissesto idrogeologico che mettono a rischio tutta l’area del Palatino, e per i quali il commissario non ha fatto niente.
Come direttore generale, invece, Cecchi è stato protagonista in due vicende imbarazzanti. Nell’autunno del 2009 egli tolse il vincolo ad un preziosissimo mobile settecentesco, contro il parere dell’Ufficio legislativo del MiBAC, e facendo invece leva sull’unica voce stranamente fuori dal coro, quella del Comitato tecnico scientifico. Grazie alle intercettazioni telefoniche e agli interrogatori disposti dalla Procura di Roma si è poi appreso che proprio Roberto Cecchi aveva condotto alle riunioni di quel comitato l’avvocato dei proprietari del mobile: un comportamento senza precedenti, e assai irrituale da parte di chi doveva agire nell’esclusivo interesse dello Stato. Per questa vicenda Cecchi è stato indagato per abuso d’ufficio e non rinviato a giudizio (a differenza dell’avvocato Giovanni Ciarrocca, curiosamente).
Ancora più concreto è il coinvolgimento di Cecchi nel pasticcio del finto crocifisso di Michelangelo acquistato dal Ministero sotto Sandro Bondi. È stato lui a decidere di comprarlo, a fissare il prezzo, ad andare al TG1 con l’opera sottobraccio e quindi a firmare la risposta all’interrogazione parlamentare. Proprio in queste settimane la Corte dei Conti sta passando dalla fase istruttoria a quella dibattimentale, e tra poco Cecchi potrebbe esser chiamato a spiegare perché un’opera anonima che vale circa 50.000 euro sia stata pagata dai contribuenti italiani 3.250.000 euro.
Per tacere, poi, della brutta storia della truffa ai danni del MiBAC per cui è indagato l’amico ed editore di Cecchi Armando Verdiglione.
Chi ha a cuore la tutela del patrimonio storico-artistico ha considerato la nomina di Ornaghi come un’occasione perduta. Con quella di Cecchi c’è invece da temere che l’occasione non venga persa per nulla. Ma in un senso diametralmente opposto.
Ieri è stato presentato a Parigi l'accordo per Pompei fra l'Unesco e il ministero dei Beni culturali. In cosa consiste? L'Unesco, ha spiegato il suo consigliere speciale, l'ambasciatore Francesco Caruso, darà al ministero un'assistenza scientifica per la tutela di Pompei e faciliterà la ricerca di sponsor internazionali per finanziare i lavori. Si formerà una «cordata» francese di sponsor, coordinata dall'Epadesa, il Consorzio delle grandi imprese con sede nel quartiere della Defense di Parigi. Le aziende vogliono approfittare della legge francese, molto generosa quanto a sgravi fiscali per le sponsorizzazioni culturali. Secondo Philippe Chaix, direttore generale di Epadesa, nel 2012 potrebbero arrivare a Pompei dai 5 ai 10 milioni di euro, con la prospettiva di aumentare il contributo per gli anni successivi.
C'è anche una cordata italiana? Ieri a Parigi una numerosa delegazione napoletana con il presidente della Regione Campania, Stefano Caldoro, ha annunciato un accordo fra l'Unione industriali e l'Associazione dei costruttori di Napoli per un progetto di sistemazione dell'area archeologica «extra moenia» di Pompei, che comprende anche Ercolano, Oplontis, Torre Annunziata a Stabia, 7500 ettari In tutto. L'idea è quella di sistemare infrastrutture e viabilità per rilanciare il turismo (per esempio, le crociere). «La realtà che circonda Pompei - ha detto Caldoro - è unica al mondo in termini negativi». Come mai è intervenuta l'Unesco? E' normale? Pompei è inserita dal 1997 nell'elenco dei siti Unesco considerati «patrimonio dell'umanità».
Un anno fa, dopo il crollo della Scuola dei gladiatori, l'Unesco ha inviato un'ispezione e quindi approvato un dossier molto severo, manifestando «profondo rammarico e preoccupazione» per la gestione del sito e paventando il declassamento di Pompei a «sito a rischio». Come ha reagito l'Italia? L'Italia ha incassato a malincuore il «cartellino giallo» e per evitare che diventi rosso ha accettato il «tutoraggio» dell'Unesco, peraltro richiesto dagli imprenditori francesi come condizione per investire denaro. Nei mesi scorsi è stato negoziato questo accordo che è inedito, poiché mai prima d'ora l'organizzazione internazionale è intervenuta direttamente su un sito. Un anno dopo il crollo della Scuola dei gladiatori, qual è la situazione a Pompei? I crolli, sia pure di minore entità, sono proseguiti. La nuova soprintendente Teresa Elena Cinquantaquattro ha cercato di tamponare le falle più grandi della disastrosa gestione commissariale, ma i problemi sono strutturali: Pompei ha bisogno di manutenzione come una qualsiasi città, con l'aggravante che è molto più fragile.
Qual è stata la reazione istituzionale ai crolli? Un anno fa, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano definì il cedimento della Scuola dei gladiatori «una vergogna per l'Italia». Il governo annunciò una mobilitazione straordinaria, un piano di tutela con stanziamenti milionari e assunzioni di personale necessario. Ma finora l'esito è stato deludente: nessun piano straordinario di tutela è stato avviato. In attesa dei fondi europei (105 milioni di euro sbloccati e attesi per il prossimo anno) non un solo euro in più è arrivato e in compenso a Pompei ne sono stati sottratti -5 milioni (20% del bilancio) per ripianare i debiti del Museo di Capodimonte di Napoli. Quanto alle assunzioni, promesse e rinviate più volte, finalmente la legge di stabilità le ha sbloccate. Nel 2012 prenderanno servizio 22 tra archeologi, architetti e amministrativi. Basti pensare che attualmente a Pompei lavora un solo archeologo e l'ultimo mosaicista, mai sostituito, è andato in pensione dieci anni fa.
Nonostante i tempi lunghi, pare che qualcosa si muova. Perché qualcuno storce il naso? L'intervento dell'Unesco, «il podestà straniero», è fondamentale per evitare scempi nella tutela o per garantire l'autorevolezza necessaria ad attirare capitali privati, anche dall'estero. Ora il ministero dovrà presentare un concreto piano di tutela, in modo che si sappia che cosa fare, con che soldi e con quali obiettivi. Pompei ha bisogno di una gestione efficiente e di tutela permanente, non di chiacchiere e interventi-spot. Inoltre la pittoresca delegazione campana arrivata ieri a Parigi, a dispetto dell'assenza della soprintendente e di rappresentanti del ministero, pare più interessata ad altro. In particolare al secondo accordo, presentato chissà perché a Parigi ma che con l'Unesco, gli imprenditori francesi e la tutela archeologica di Pompei non c'entra niente, perché riguarda le aree intorno al sito. Italia Nostra ha più volte denunciato il rischio che si tratta di un cavallo di Troia per speculazioni edilizie.
Caro ministro Ornaghi, per il Colosseo fermiamo tutto. E’ questa la richiesta avanzata dall'Ari, l'associazione dei restauratori italiani che sui lavori per rimettere in sesto l'Anfiteatro Flavio ha sempre sollevato critiche. Ma ora che il progetto finanziato con 25 milioni da Diego Della Valle sta per prendere l'avvio, l'organismo che raduna le principali imprese di restauro ritorna alla carica con una lettera aperta al nuovo titolare dei Beni culturali: fermiamo l'appalto, scrive l'Ari, «al fine di evitare danni irreparabili al monumento più celebre d'Italia e conseguentemente all'immagine del nostro paese». Parole dure, che segnalano uno dei punti più critici della tutela in Italia: la progressiva marginalizzazione di una categoria, quella dei restauratori, per la quale in Italia si è spesso menato vanto, ma che versa in uno stato di gravissima sofferenza. Solo ora il prestigioso Istituto superiore per la conservazione e il restauro, fondato da Cesare Brandi nel 1938, ha ripreso i suoi corsi di formazione, rimasti fermi per quattro anni. I fondi a disposizione per restauri sono pochissimi e, denunciano all'Ari, sono spesso distribuiti senza rispettare criteri di qualità.
Il Colosseo, secondo l'associazione dei restauratori, è un caso emblematico. Stando al bando per la gara d'appalto emesso dal Commissario all'area archeologica romana, Roberto Cecchi (da due giorni sottosegretario ai Beni culturali), risulterebbe «che il restauro dei monumenti archeologici non deve essere più di competenza delle imprese di restauro specialistico». Bensì di imprese edili «chiamate a eseguire lavori che per più del 50 per cento sono di pertinenza specialistica». Prevalentemente a loro, secondo l'Ari, sarebbe stato indirizzato il bando. Muratori dunque al posto di restauratori. A meno che le stesse imprese edili non assumano a loro volta restauratori, che però non avrebbero, dicono all'Ari, l'esperienza e le competenze delle aziende che da anni svolgono lavori apprezzati in Italia e nel mondo. Nel febbraio scorso l'Ari denunciò che dei 7 milioni sui 25 totali messi a disposizione da Diego Della Valle, solo un milione avrebbe coperto lavori di restauro delle parti decorate. Dalla successiva documentazione la quota dovrebbe salire a oltre 4 milioni. Ma questa mole di lavori—la pulitura delle incrostazioni con acqua demineralizzata, l'eliminazione della vegetazione, gli impacchi per togliere il calcare dai marmi — verrebbe svolta da imprese edili.
Il restauro del Colosseo «nasce sotto gli auspici peggiori», insiste l'Ari. «Basti pensare che in questi stessi giorni, il Ministero dei Lavori Pubblici ha appaltato il restauro del Palazzo che ospita il Ministero della Giustizia in Via Arenula costruito nel XIX secolo, a imprese di restauro specialistico. Perché mai l'Anfiteatro Flavio costruito nel I secolo dopo Cristo dovrebbe essere restaurato da imprese edili e ricevere quindi cure meno raffinate?»
Un altro aspetto viene sollevato dall'Ari nella lettera a Ornaghi: il restringimento dei tempi per la presentazione dei progetti. Alle imprese che hanno superato una prima fase di selezione il commissario ha chiesto con una lettera inviata il 21 novembre di presentare progetti esecutivi entro 30 giorni invece dei soliti 60. La legge prevede che in casi particolari i tempi possano essere dimezzati. Ma la giustificazione addotta non convince né l'Ari né alcune delle imprese già selezionate: vi sarebbe assoluta urgenza di cominciare i lavori per evitare interferenze, si legge nella lettera inviata dal Commissario, con il cantiere della linea C della metropolitana. «Questa ci appare una forzatura procedurale», scrivono i restauratori dell'Ari. «Gli uffici del commissario non possono impiegare quattro mesi e mezzo a esaminare la documentazione che noi abbiamo inviato per essere ammessi alla gara», dice uno dei restauratori che ha superato la prima selezione, «e poi inviarci un documento di 486 pagine più 80 tavole da studiare ed eventualmente da migliorare e imporci di presentare un progetto esecutivo in 30 giorni. E tutto questo per un lavoro di restauro che è previsto debba durare più di tre anni: 1.155 giorni è scritto con pignoleria nella lettera. Perché tanta fretta che penalizza soprattutto le piccole aziende di restauratori?».
Pompei parla in francese. A Parigi sono stati annunciati ieri due accordi, uno fra il Ministero per i Beni culturali e l´Unesco per favorire una serie di interventi di restauro all’interno dell’area archeologica finanziati da un gruppo di imprenditori d’oltralpe, l’altro, molto diverso, fra Regione Campania, industriali e soprattutto costruttori per investimenti fuori dal sito.
Dell’intesa fra il ministero e l’agenzia dell´Onu per la cultura e il patrimonio culturale si parla da alcuni mesi. Fra dicembre e gennaio scorsi, poco dopo il crollo della Schola Armaturarum, sono andati a Pompei tre ispettori dell’Unesco che hanno stilato un rapporto molto accurato su come salvaguardare gli scavi (manutenzione ordinaria e straordinaria, programmazione degli interventi, assunzione di personale alla soprintendenza) e critico nei confronti delle scelte fatte dal ministero, in particolare dei commissariamenti. Pompei non veniva inclusa nella lista dei beni in pericolo, ma tutto era rimandato a una successiva verifica.
Ora, in base all´accordo di ieri, l’Unesco metterà a disposizione di soprintendenza e ministero le proprie competenze per gestire lavori necessari a mettere in sicurezza gli scavi. Per finanziare questi interventi si sono fatti avanti alcuni imprenditori francesi riuniti nell’Epad (Établissement public pour l’aménagement de La Défense), l’ente pubblico che amministra il quartiere della Défense, a Parigi. Coordinatrice di questo gruppo è un’italiana, Patrizia Nitti, direttrice del museo Maillol. Dovrebbe anche essere costituita una fondazione, guidata da Unesco e ministero, che sovrintenderà ai lavori. Non è stata definita una cifra. Si parla di un investimento fra i 5 e i 10 milioni annui per dieci anni. Un’entità simile ai 105 milioni di fondi europei sbloccati qualche settimana fa e che si spera di cominciare a spendere entro i primi mesi del 2012. Sembrano sbloccate anche le assunzioni di 22 fra archeologi (9), architetti (12) e amministrativi (1). Ma restano ancora dubbi sul quando effettivamente questi rinforzi prenderanno servizio.
Sul secondo accordo, per il quale molto si era battuto l’allora sottosegretario Riccardo Villari, non si conoscono molti dettagli. Sembra comunque chiaro che si vorrà approfittare della norma inserita nel decreto "salva Pompei", approvato dal governo nella primavera scorsa, che consente di costruire nell’area esterna al sito in deroga alle norme urbanistiche molto severe che tutelano in particolare la visuale del Vesuvio dagli scavi e degli scavi dal Vesuvio (un rilievo paesaggistico la cui tutela il rapporto degli ispettori Unesco sottolinea con vigore). Non ci sono ancora progetti. Si sente parlare di infrastrutture e di alberghi e ristoranti. Su questi aspetti è molto netta Maria Pia Guermandi, consigliere nazionale di Italia Nostra: «I sospetti che abbiamo avanzato fin da quando è stato varato quel decreto diventano più concreti. L’accordo fra ministero e Unesco è una cosa, altra cosa è un’intesa che rischia di trasformarsi nel via libera per una cementificazione dell’area già molto degradata fuori dagli scavi di Pompei».
Stavolta il santo protettore della storia dell’arte ha fatto un piccolo miracolo. Una funzionaria del Ministero per i Beni culturali ha fatto come lo scrivano Bartleby di Melville: ha detto «preferirei di no». Ed ha così inceppato la gioiosa macchina da guerra che si apprestava a cercare la ‘Battaglia di Anghiari’ di Leonardo conficcando alcune sonde in uno degli affreschi di Giorgio Vasari in Palazzo Vecchio.
I predatori del Leonardo perduto hanno una lunga storia: sono decenni che l’ingegner Maurizio Seracini cerca di convincere qualcuno a investire tempo e denaro in questa specie di corsa al santo graal. E ora che aveva trovato i soldi (del National Geographic, le cui telecamere sono già nel Salone dei Cinquecento), la copertura politica (quella del sindaco Matteo Renzi, andato appositamente negli Stati Uniti per concludere gli accordi), e l’accordo della Soprintendente Cristina Acidini, ecco che la funzionaria Cecilia Frosinini – responsabile delle pitture murali all’Opificio delle Pietre Dure – fa obiezione di coscienza, sollevando quella che chiama una «questione etica»: «la mia missione – dice – è tutelare le opere d’arte, qui si fa un intervento invasivo sulla pittura». È difficile pensare ad una funzionaria di soprintendenza come ad una piccola eroe borghese. Nell’immaginario collettivo – devastato da vent’anni di politica del «padroni in casa propria» – i soprintendenti sono avvertiti come grigi passacarte che ci impediscono di fare quel che ci pare delle nostre città o delle nostre case. In un caso come questo, però, ci accorgiamo che se il nostro patrimonio resiste – malgrado tutto – lo dobbiamo a quella sorta di ‘chiesa bassa’ dei funzionari di soprintendenza che, operando in modo fedele al dettato costituzionale, cerca di tener testa ai poteri locali in nome della conservazione e della dignità culturale delle opere e del territorio che sono loro affidati. Cristina Acidini – che è la diretta superiore della coraggiosa dottoresa Frosinini – si era invece platealmente genuflessa a Matteo Renzi: la ‘chiesa alta’ dei pochi super-soprintendenti è infatti totalmente succube, e in ultima analisi complice, del potere politico e finisce per tradire sistematicamente la propria missione avallando e cavalcando le più inverosimili iniziative di ‘valorizzazione’ delle opere che dovrebbe salvaguardare.
Ma perché è così sbagliato cercare il Leonardo perduto? Essenzialmente per tre motivi: perché quasi certamente non esiste più; perché per cercarlo si deve danneggiare Vasari; perché ben altre sono le priorità, anche restando in Palazzo Vecchio.
Nel 1503 il Gonfaloniere della Repubblica fiorentina chiese a Leonardo di raffigurare la Battaglia di Anghiari nella Sala del Consiglio Grande di Palazzo Vecchio, sulla parete che sovrastava i seggi del governo. Il Vinci volle sperimentare una nuova tecnica di pittura murale, che si rivelò fallimentare: già durante l’esecuzione il dipinto come scrive Vasari, «cominciò a colare, di maniera che in breve tempo [Leonardo l’] abbandonò». Rimase visibile solo un meraviglioso viluppo di cavalieri che lottavano strenuamente per uno stendardo. Mezzo secolo dopo il duca Cosimo de’ Medici incaricò proprio Giorgio Vasari di trasformare quella grande sala: e il risultato fu il Salone dei Cinquecento. L’idea di ritrovare Leonardo può apparire romantica, ma se la si guarda con un po’ di senso critico appare antistorica, velleitaria, pericolosa e demagogica.
È da escludere che Vasari, che venerava Leonardo, abbia nascosto un simile capolavoro. Egli aveva tutti i mezzi tecnici per tagliare il muro e salvare il dipinto: lo fece con maestri quattrocenteschi che amava assai meno del Vinci. Solo una mentalità da Codice da Vinci e la nostra infantile illusione di essere al centro della storia può indurci a credere che Vasari abbia seppellito un tesoro sotto un muro inamovibile: per quale futuro, e a quale scopo? Molto più semplicemente, l’intervento vasariano dimostra che nel 1560 di quello sventurato, grandissimo Leonardo non doveva restare più nulla. E, come se non bastasse, la storiografia più autorevole e credibile indica che la parete su cui aveva dipinto Leonardo era quella occidentale, e non quella orientale che ora si vorrebbe sforacchiare.
Ora, per cercare qualcosa che assai probabilmente non c’è più, e che quasi sicuramente non è mai stato in quel punto della sala, si mette a rischio un capolavoro vero e concreto come il ciclo vasariano. E ancora: se la sonda scoprisse qualcosa di promettente (il muro di un palazzo con quella lunghissima e complicata vicenda edilizia è ovunque pieno di intercapedini e preesistenze), che succederebbe? Si chiederebbe lo strappo dell’affresco del Vasari a furor di popolo?
Infine, c’è da chiedersi: è questa la priorità? Qualche giorno fa ho rivisto le sale di Palazzo Vecchio, e (da fiorentino) mi sono vergognato per lo stato di abbandono in cui versano. Gli affreschi del Quartiere degli Elementi sono in pessime condizioni, le pitture del Terrazzo di Saturno cadono letteralmente a pezzi, dai soffitti affrescati delle scale pendono i fili elettrici e lo stesso Salone dei Cinquecento è arredato e illuminato come una sala parrocchiale di provincia, e quando viene sera le statue (anche quelle di Michelangelo o Giambologna) sembrano ombre cinesi.
Il punto 63 dei cento punti usciti dal Big Bang di Matteo Renzi è (rivoluzionariamente) intitolato alla «funzione civile del bello», e propone di «restituire ai cittadini di oggi l’arte del passato» perché «il patrimonio artistico diffuso nel Paese è un bene comune che ci unisce».
La funzionaria Cecilia Frosinini, opponendosi alla demagogia e al marketing in nome della scienza e della coscienza, sta attuando esattamente quel punto. Chissà se Matteo Renzi se ne renderà conto, e comprenderà che se vuole restituire ai cittadini Palazzo Vecchio c’è bisogno di manutenzione, restauro e divulgazione: non di demagogia, marketing, politica dell’immagine.
Il rapporto tra pubblico e privato conosce da qualche tempo una profonda fase di riassestamento sia a livello giuridico che politico-sociale. Effetto del ciclo neoliberista che ha dominato l'economia mondiale fino alla recente fase recessiva, l'accentazione posta sul primato del privato ha vissuto una fase espansiva in tutti i settori fino all'ultimo biennio, durante il quale, al contrario, si è sviluppata una reazione fondata, dal punto di vista ideologico, sulla difesa e riconquista dei "beni comuni", fra i quali rientrano i beni culturali e il paesaggio.
In questo ambito, alcuni recenti episodi hanno riproposto la complessità ancora irrisolta del rapporto fra pubblico e privato, a partire dalla sponsorizzazione dei restauri del Colosseo a opera dell'imprenditore Della Valle, che ha fatto riesplodere polemicamente, e talvolta in maniera alquanto provinciale, la discussione in Italia. Se da un lato, infatti, tale operazione è stata accreditata come un episodio di neomecenatismo, dall'altro, al contrario, l'imprenditore in questione è stato accusato di avere lucrato su uno dei monumenti-icona, forse il più internazionalmente celebrato, ottenendo, in cambio di una cifra tutto sommato non elevatissima, un ritorno di immagine che in termini economici, come è stato calcolato, sarebbe almeno dieci volte superiore all'investimento di partenza. Insomma, un ottimo affare.
Ma mentre l'anfiteatro flavio continua a essere al centro dell'attenzione di sponsor più o meno interessati, a pochi passi di distanza la famosa residenza dell'imperatore Nerone, la Domus Aurea, giace da anni in stato di semiabbandono, esposta a crolli, l'ultimo dei quali, del marzo 2010, disastroso. Questo perché, se trovare sponsor per il Colosseo è assai semplice, la Domus Aurea - seppur monumento di fondamentale importanza, addirittura cruciale nel fenomeno di riscoperta dell'antico che ha dato vita al Rinascimento - non è altrettanto appetibile per neomecenati alla ricerca di un'immediata visibilità.
Eppure, esempi virtuosi di mecenatismo vero e proprio sono possibili, anche in un Paese, come il nostro, che nonostante le reiterate promesse di defiscalizzazione in ambito culturale, non ha mai intrapreso alcuna seria iniziativa normativa in tal senso. A Ercolano, l'imprenditore americano David Packard, da oltre un decennio, finanzia le attività di manutenzione del sito campano, in piena collaborazione con gli organi tecnici della Soprintendenza, a cui è affidata la direzione scientifica e il coordinamento dei progetti. Si tratta di un esempio poco conosciuto, anche per volontà dello stesso Packard, la cui iniziativa si colloca in quel filone di filantropismo anglosassone che pare del tutto alieno al culto della personalità assai frequente, invece, nell'italica antropologia. Una vicenda, se non opposta a quella romana, senz'altro ispirata da differenti impostazioni culturali.
In ogni caso, se, come appare dall'attuale, difficilissima situazione economica, le risorse pubbliche per la gestione del patrimonio culturale saranno destinate a rimanere limitatissime, coinvolgere altri attori - dagli enti locali ai privati, sponsor o mecenati che siano - diviene una necessità ineludibile. Ma questa evoluzione di sistema, che impone un ripensamento della tradizionale struttura istituzionale attualmente in grande affanno, richiederebbe una regia centrale ispirata a una strategia trasparente e innovativa sul piano amministrativo e culturale.
Anche se fino a questo momento l'azione del Ministero per i beni e le attività culturali è apparsa, al contrario, estemporanea e priva di una strategia complessiva, se si vogliono coinvolgere risorse di ambito privato - senza provocare danni al tessuto delle attività di tutela, nucleo fondativo di tutta la gestione del nostro patrimonio culturale - occorrerà elaborare un sistema di regole chiare e culturalmente aggiornate (che non significa piegate ai mantra pubblicitari del momento), uno strumento imprescindibile per attivare le risorse, non solo finanziarie, di parte privata, coinvolgendole in progetti convincenti e di ampio respiro.
In ambito italiano, poi, come accennavamo per il caso Packard, è necessario anche stimolare una cultura del mecenatismo, ancora pressoché assente: una carenza che ben si coniuga con un tipo di capitalismo, quale è quello prevalente in Italia, familistico e attardato su pratiche clientelari e lobbistiche nel senso deteriore del termine. Segno inequivoco di un atteggiamento di puro sfruttamento personale del patrimonio culturale sono, per esempio, gli abusi ancora troppo frequenti sul nostro territorio, a partire da quelli edilizi che ne intaccano aree preziose. I reati edilizi - non più riconducibili, da molti decenni, a necessità abitative, ma degenerazione estrema di un'economia parassitaria e arcaica fondata sulla rendita immobiliare - continuano purtroppo a devastare il nostro paesaggio.
La tendenza a favorire, sul piano dei provvedimenti normativi, il godimento personale ed esclusivo ha portato a un laissez faire generalizzato sul territorio e ha provocato la privatizzazione di porzioni che, anche se singolarmente non elevate, nel loro insieme hanno gravemente limitato l'uso collettivo di ampie aree del paesaggio. Le villettopoli venete e lombarde, lo sprawl urbano che caratterizza tutta la pianura padana e dilaga lungo le nostre coste, la "città stravaccata", oggetto dei sarcasmi anticipatori di Antonio Cederna, sono oggi il risultato di un processo degenerativo che continua, senza sosta, da alcuni decenni.
All'effetto di degrado e di disarmonia che caratterizza ormai, oltre a moltissime periferie urbane, tante aree un tempo destinate a uso agricolo, si aggiunge, nelle zone di maggior pregio paesaggistico, il danno derivante dall'esclusione di tali spazi dal pubblico godimento, in quanto in anni passati, grazie a normative permissive e ad abusi mai sanati e purtroppo mai cessati, molte (troppe) di queste aree sono state accaparrate da privati. Fenomeno che si è ripetuto, per esempio, sui punti più suggestivi dei nostri litorali, come anche all'interno di aree formalmente protette da vincoli.
Esemplare come poche altre, a tale proposito, è la vicenda del parco dell'Appia Antica, straordinario spazio in cui natura e cultura, perfettamente integrate, hanno creato, nei secoli, un ambiente dalle caratteristiche uniche per fascino e importanza archeologica e paesaggistica. Nonostante questo, l'Appia rappresenta una sorta di bignami dei danni inferti da speculazione edilizia di alto livello, abusivismo e successivi condoni, spregio della legislazione di tutela, vandalismi e degrado in senso lato da parte dei privati.
È il settembre 1953 quando sul "Mondo" esce I gangster dell'Appia, l'articolo con cui Antonio Cederna comincia quella che sarà per lui la battaglia di una vita: soprattutto alla sua penna di "appiomane" dobbiamo infatti se questo luogo riesce a entrare stabilmente nell'agenda delle discussioni sul nostro patrimonio culturale. In oltre 140 interventi a stampa in difesa della regina viarum, Cederna evidenzia, con efficacia rimasta ineguagliata, l'antitesi fra l'enormità del valore culturale ed estetico dell'Appia nel suo complesso e il livello di degrado a cui l'insipienza e l'arroganza del potere e del denaro la vorrebbero ridurre. Prima degli altri, egli comprende la necessità di una tutela integrale di quegli spazi: a lui soprattutto si deve se la regina viarum comincia a essere non solo considerata come un'area di residenze esclusive, ma anche vissuta come spazio di loisir destinato ai cittadini romani.
Alla sua morte, nel 1996, il destino - non il caso - fa sì che sia assegnata a Rita Paris la responsabilità della tutela dell'Appia per conto della Soprintendenza archeologica di Roma. In questo passaggio risiede la sostanziale continuità che la storia moderna dell'Appia Antica riesce a mantenere. La battaglia a difesa di questi luoghi prosegue sia sul piano dell'attività di tutela, sia, con uguale attenzione, seppure con altre modalità, sul versante comunicativo.
L'azione della Soprintendenza si è organizzata e, pur nella costante esiguità delle risorse a disposizione, è riuscita a esprimere una visione della tutela non esclusivamente difensiva, ma vocata a un'espansione degli spazi in termini di qualità della fruizione e di ampliamento complessivo del bene pubblico. È una visione di medio-lungo termine, che si scontra, pressoché quotidianamente, con le pulsioni deregolative di un'interpretazione distorsiva e pre (o post) moderna della proprietà privata, troppo spesso aiutata dalle lentezze e incertezze dell'azione del Ministero a livello centrale. Una visione che tuttavia riesce a reggere le maglie di un sistema, garantendo la piena salvaguardia dei monumenti vincolati e la loro riqualificazione sotto il profilo comunicativo, e conseguendo addirittura alcuni risultati straordinari, primi fra tutti le aree della Villa dei Quintili e di Capo di Bove, restituite, nel loro pur diverso fascino, al "godimento di tutti".
Fra i tanti meriti della Soprintendenza archeologica vi è anche quello di aver garantito, attraverso la massima trasparenza della propria azione, anche un'informazione puntuale e costante sulle vicende dell'Appia, richiamando opportunamente l'attenzione su un bene comune di tanta importanza attraverso periodiche iniziative di illustrazione della propria attività, ma anche di discussione delle molte criticità aperte.
A questo fine mira la mostra fotografica "La via/mia Appia. Laboratorio di mondi possibili tra ferite ancora aperte", visitabile fino all'11 dicembre 2011 nella villa di Capo di Bove, in via Appia Antica 222. Attraverso 70 foto, storiche e recenti, viene ricostruita la storia della tutela della regina viarum, da Luigi Canina (metà Ottocento) a oggi. Una grande parete ricuce le tappe principali: iniziative, proposte di legge, piante storiche, documenti; così come il catalogo, La via Appia, il bianco e il nero di un patrimonio italiano, racconta alcuni dei passaggi fondamentali della storia moderna dell'Appia Antica e ne sottolinea l'esemplarità.
Sono circa 2.500 gli abusi, di varia entità, censiti nel tempo, contro i quali poco o nulla si riesce a fare: lo stesso Cederna, d'altronde, si era dovuto scontrare, ripetutamente, con l'inerzia di un'amministrazione incapace di eseguire le sentenze di abbattimento decretate dalla magistratura. Causa del degrado non è solo l'abusivismo, ma il mancato rispetto delle regole a ogni livello, a partire dalle prescrizioni d'uso, che troppo spesso i privati sentono come un vincolo intollerabile al loro diritto di proprietà, dimentichi del fatto che tale proprietà deve il suo valore a chi nei secoli ha trasformato questo territorio in un luogo di meraviglia, e che il privilegio di risiedervi non può non comportare, in qualsiasi comunità civile, qualche piccolo sacrificio. La norma, invece, sono i ricorsi continui nei confronti dei provvedimenti di vincolo, ricorsi che obbligano la Soprintendenza a un'estenuante guerriglia giudiziaria, spesso perduta per mancanza di adeguata tutela giuridica.
Eppure, nonostante tutto, si succedono anche le scoperte straordinarie e le iniziative di restauro e riqualificazione degli spazi. Nel 2002 la Soprintendenza acquista la Villa di Capo di Bove, riaperta al pubblico, dopo scavi e restauri, nel 2006. E il 12 novembre 2008, nella Villa, è stato inaugurato l'Archivio Cederna: l'insieme dei documenti e degli scritti del principale difensore dell'Appia trova una sede adeguata lungo la "sua" via. L'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, attraverso una convenzione con la Soprintendenza, partecipa all'iniziativa, curando il riordino informatico e collaborando alle iniziative di valorizzazione dell'Archivio.
Intanto l'Appia continua a rappresentare un'esemplificazione completa, nel bene e nel male, della situazione del nostro patrimonio culturale: dalla coesistenza tra necessità della tutela ed esigenze della modernità, tra fruizione pubblica e limiti della proprietà privata, fino alla piaga dell'abusivismo, che qui come altrove pare inestirpabile. Ma, come ci ricordava Cederna nel 1963: "Anche nelle situazioni più compromesse le battaglie condotte per anni dalle forze della cultura, dai tecnici coscienti e dalla stampa libera, non restano mai senza qualche risultato."
Il problema non è certo la persona di Lorenzo Ornaghi.
Il problema è che il patrimonio storico-artistico gode di una considerazione prossima allo zero presso la maggior parte della classe dirigente del Paese, ed evidentemente Mario Monti non fa eccezione. Se le cose non stessero così, non si spiegherebbe perché quello per i Beni e le attività culturali è il solo ministero su dodici che non verrà retto da un tecnico, ma da un rispettabilissimo signore che è competente di tutt’altro: uno scienziato della politica, rettore dell’Università Cattolica e vicepresidente del quotidiano dei vescovi «Avvenire».
Come ai tempi della Prima Repubblica, i Beni Culturali tornano ad essere una cassa di espansione in cui far defluire le tensioni collegate alla formazione dei governi. Ornaghi – scrive il «Giornale» – era voluto al governo «personalmente dal cardinal Bagnasco», e quando lo si è dovuto spostare dalla Pubblica Istruzione cui era destinato, si è trovato naturale dargli i Beni Culturali. E questo sia perché si tratta di un ministero-cenerentola, sia perché è tremendamente radicata l’idea che non esista un tecnico della tutela: che non occorra, cioè, essere storici dell’arte per occuparsi delle opere d’arte. Tanto, come diceva amaramente Benedetto Croce, «l’arte è ciò che tutti sanno che cosa sia». Ed è anche per questo che il patrimonio storico e artistico della nazione cade a pezzi, nonostante la tutela costituzionale.
Sia chiaro, Monti non ha inventato nulla, si è limitato ad aderire all’infausta interpretazione veltroniana di un ministero in cui le «attività culturali» contano quanto (o più) dei «beni culturali»: un vago ‘Ministero della cultura’ votato ad intrattenere gli italiani organizzandone il tempo libero.
Come tutti gli italiani hanno appreso dalle indiscrezioni sui nomi considerati da Monti, non mancava un tecnico perfetto: Salvatore Settis. Il suo altissimo profilo avrebbe, tra l’altro, permesso di fondere il ministero dell’Ambiente e quello per i Beni culturali: affidando così ad un’unica autorità la tutela e il risanamento di quell’unico organismo vivo che è il territorio, il paesaggio e il patrimonio storico-artistico italiano. Ma Angelino Alfano ha sentenziato che dovevano essere «esclusi coloro che avessero fatto del loro impegno una militanza antigovernativa» (Asca, 13 novembre): e il fatto che Settis avesse denunciato la sottrazione di un miliardo e trecento milioni di euro dal bilancio dei Beni culturali ad opera del duo Tremonti-Bondi deve essere stato considerato un imperdonabile atto di militanza.
Ora non ci si può che augurare che Ornaghi impari presto e bene: che legga e ascolti i tecnici veri; che rinnovi a tamburo battente i ruoli chiave del ministero (capo di gabinetto, segretario generale, comitati tecnici), inquinati o asserviti da anni di berlusconismo; che incrementi il bilancio; che proceda ad assumere i tantissimi giovani storici dell’arte e archeologi già idonei; che rinforzi le soprintendenze; che non ceda alle pretese ecclesiastiche sui beni culturali religiosi appartenenti allo Stato; e che faccia molto altro ancora.
E che Dio (e il Vaticano) ce la mandino buona.
Salvare beni culturali e paesaggio
“Ricostruire” Ministero e rete di tutela
Signor Ministro,
il compito che l’aspetta è dei più complessi e insidiosi: così come in altri settori della vita pubblica si tratta di una vera e propria opera di rifondazione politica, o meglio di fondazione, in quanto da anni il Ministero che lei è chiamato a guidare è totalmente privo di una visione culturale organica e degna di questo nome.
Come abbiamo sottolineato nel precedente appello al Presidente della Repubblica, la prima urgenza risiede a nostro avviso in un chiaro segnale di discontinuità rispetto all’immediato passato, caratterizzato da una gestione appiattita sull’emergenza, la casualità, il culto dell’evento, la subordinazione ossessiva della competenza ai desiderata di parte politica.
In attesa di rappresentarle personalmente le nostre considerazioni ci permettiamo di sottolinearle pochi – fra i tanti – temi che a nostro avviso richiedono un intervento immediato.
Occorre procedere, rapidamente, alla pianificazione paesaggistica, così come previsto dal Codice, operazione abbandonata da anni, con colpevole elusione di Ministero e Regioni, ma unico strumento in grado di garantire un governo del territorio adeguato alle finalità che l’articolo 9 della nostra Costituzione ci addita.
Occorre rilanciare l’attività delle Soprintendenze riformandone l’apparato amministrativo e potenziandone le risorse a partire da una radicale redistribuzione fra un corpo centrale ipertrofico e gli uffici periferici, unico presidio territoriale in grado di garantire un monitoraggio costante e una rete di tutela di un paese tanto complesso e stratificato quanto reso fragile dall’abbandono della montagna e da un consumo di suolo dissennato, il più alto d’Europa.
Occorre dare subito alcuni segnali forti dicendo, ad esempio, basta ai commissariamenti che hanno prodotto - da Pompei a L’Aquila - danni e sprechi diffusi, ripristinando quei criteri di competenza e di merito ampiamente ignorati e mortificati anche in ruoli-chiave.
Conosciamo i gravissimi problemi finanziari che gravano sul nostro paese: siamo consapevoli che le risorse, davvero risibili dopo un triennio di tagli draconiani (dallo 0,39 % del bilancio dello Stato del 2000 allo 0,19 di questo esercizio), non sono destinate ad aumentare significativamente nel prossimo futuro. Si tratta allora di pensare, assieme, anche a modalità innovative – ma trasparenti e regolate – di acquisizione di risorse (dagli enti locali ai privati), purché sia sempre garantita la qualità scientifica degli interventi conservativi e di valorizzazione e insieme la tutela dei diritti di chi, esterno alle istituzioni, opera per il patrimonio pubblico.
E si tratta, soprattutto, di fare un’operazione di verità laddove fino a questo momento il nostro immenso patrimonio culturale e paesaggistico è stato vittima dell’ipocrisia reiterata che lo dipingeva come fondamentale “volano” di sviluppo solo a parole, e dell’ignoranza culturale che ha preteso di trasformarlo in una merce pronta per l’uso e l’abuso turistico o, in caso contrario, fastidioso ostacolo allo “sviluppo” drogato del mattone e del cemento. Coi migliori auguri di buon lavoro
Giulia Maria Mozzoni Crespi, fondatrice e presidente onorario del FAI
Desideria Pasolini dall’Onda, fondatrice di Italia Nostra e presidente onorario del Comitato per la Bellezza
Fulco Pratesi, fondatore e presidente onorario del Wwf-Italia
Associazione “R.Bianchi Bandinelli”, Marisa Dalai, presidente
Comitato per la Bellezza, Vittorio Emiliani, presidente, Vezio De Lucia, Luigi Manconi
Eddyburg, Edoardo Salzano
Italia Nostra, Maria Pia Guermandi ed Elio Garzillo, consiglieri nazionali
Rete Comitati Toscani, Alberto Asor Rosa, presidente
Sabato scorso l'archeologo Stefano De Caro (già soprintendente archeologico di Napoli, direttore regionale della Campania e direttore generale per i beni archeologici del MiBac) è stato eletto alla direzione generale dell'Iccrom, che è il Centro internazionale di studi per la conservazione ed il restauro dei beni culturali: un'agenzia intergovernativa con sede a Roma, che presta consulenza all'Unesco ed opera in tutto il mondo. Il fatto che uno studioso e un funzionario italiano prenda il posto dell'egiziano Mounir Bouchenaki rappresenta un successo per il Paese, e in un campo in cui abbiamo un peso strategico. Sembra un'affermazione ovvia, ma non lo è per nulla. L'opposizione più dura e tenace all'elezione di De Caro è infatti venuta dal delegato del governo italiano, che su indicazione del capo di gabinetto dell'allora ministro Galan, Salvo Nastasi, ha invano provato a far eleggere a quel posto non un archeologo, ma un chimico. Ed è solo l'ultima figuraccia dello staff installato da Bondi, e confermato da Galan. Del segretario generale Roberto Cecchi si ricorda, per esempio, il ruolo decisivo nell'irrituale e gravemente inopportuno acquisto del Cristo cosiddetto di Michelangelo (sul quale la Corte dei Conti sta aprendo la fase dibattimentale di un'inchiesta); o, ancora, la parte avuta nello svincolamento di una preziosa commode settecentesca al centro di un'inchiesta penale. Dello stesso Nastasi si possono citare, per esempio, l'improvvido scempio dei giardini di Palazzo Reale a Napoli, o il recente e fallito tentativo di nominare il capo dell'Auditel alla guida della Biennale di Venezia. Ebbene, la sensazione è che se il nuovo ministro Lorenzo Ornaghi vuol provare a riavviare l'ingolfatissima macchina dei Beni Culturali dovrà proprio cominciare dal fare una pulizia radicale nella cabina di guida.
Di fronte a Palazzo Madama di colpo mi si para davanti Francesco Sisinni, a lungo direttore generale dei Beni Culturali, negli anni 80-90, da noi spesso criticato. “Mi rimpiangete, eh?…”, ghigna beffardo. Esito un attimo e poi, teatralmente, in un soffio: “Sì, Francesco, sì!” In realtà, non rimpiangiamo lui quanto un Ministero dei Beni Culturali e Ambientali che, nonostante difetti di base, assicurava, col sacrificio personale di “fedeli (e competenti) servitori dello Stato”, una rete di tutela invidiata all’estero. Non sarebbe stato possibile all’epoca promuovere d’autorità ai più alti incarichi persone pluribocciate ai concorsi. Né degradarsi a decine di avvilenti gestioni “ad interim” di Soprintendenze, avendo nel contempo una direzione centrale macrocefala, né disattivare i concorsi per anni, né lasciar tagliare il personale con l’accetta: 19.000 unità (presto 16.000) per tutelare un patrimonio tanto sontuoso quanto aggredito.
“Ogni funzionario della Soprintendenza architettonica di Milano, la più esposta ai pericoli, dovrebbe esaminare al giorno 79,24 progetti di ogni tipo”, ha ammesso, come se lui piovesse da Marte, l’8 novembre al bel convegno di Assotecnici il segretario generale del MiBAC, arch. Roberto Cecchi che negli anni decorsi non ha mai aggrottato un sopracciglio. “Ma non le fa male l’osso del collo a forza di dire sempre di sì?”, domandò Antonio Cederna ad un alto burocrate negli anni ’50. La stella di Berlusconi si offusca e subito c’è chi si “riposiziona”. Dei 19.000 ministeriali, appena il 2 % sono architetti, ingegneri, tecnici (circa 350), altrettanti gli archeologi e gli storici dell’arte. Una miseria. Tutto ciò, ha concluso il riposizionato Cecchi, non consente di attuare l’articolo 9 della Costituzione. Una tranquilla confessione di terribile impotenza.
E’ comprensibile che quanti sono stati nel cuore del potere ai Beni e alle Attività Culturali (nel frattempo perenti), attorno a Bondi, come i Cecchi, i Nastasi, i Carandini, confermati da Galan, difendano le postazioni, patiscano candidati “pericolosi” come Settis (che contro Bondi si dimise), e magari indossino nuove casacche affinché nulla cambi. Dove invece molto deve cambiare, altrimenti si va a fondo.
Il buon documento di base presentato da Assotecnici per il suo convegno è un valido pro-memoria per il prossimo (speriamo) titolare del Collegio Romano. Nell’ultimo biennio di crisi nera in Germania, per formazione e ricerca, la quota di PIL è salita dal 2,40 al 2,78 %. Sullo stesso livello gli Usa, poco sotto la Francia. Noi? In coda. Sono, secondo Matteo Orfini, responsabile del Pd per la cultura, tipici “settori anticiclici” nei quali i Paesi avanzati investono proprio per uscire dalla crisi. Facciamolo anche noi, riqualifichiamo il sistema di tutela, eliminiamo “tutti i commissariamenti”. Costosi e spesso disastrosi (vedi Pompei).
Inversione di rotta possibile però se le scelte per la cultura (così Giulia Rodano, responsabile Cultura dell’Idv) non saranno più subalterne ad una valutazione di redditività. Dovremo abituarci a “fare bene con meno”, ha ammonito l’ex ministro Giovanna Melandri, malgrado quello in cultura sia un investimento in civiltà e con una redditività differita certa. Occorre ridiscutere il modello di Ministero (Marisa Dalai presidente della Bianchi Bandinelli): decentrato com’era o duramente accentrato come l’ha voluto Urbani? E poi basta coi compartimenti stagni, con la sconnessione fra Ambiente-Paesaggio-Patrimonio storico/artistico-Turismo.
Connessione reclamata dai continui, angosciosi drammi ambientali. Il nostro è un paesaggio modificato dall’uomo al 90 %, un paesaggio “rifatto a mano”, con un gigantesco sistema di terrazzamenti dalla Valtellina a Pantelleria in molti punti dissestato. L’esodo di 7 milioni di ex contadini delle terre alte ha accelerato lo sfascio di un sistema idraulico-forestale antico, alvei non ripuliti, sottobosco non curato, canali di scolo abbandonati, torrenti (per disperazione e insipienza) cementificati. Così la montagna “si vendica” a valle. In una Italia per due terzi montagna e collina. Nel contempo sono state disattivate o devitalizzate: la legge Galasso sui piani paesaggistici dell’85, la legge n. 183 dell’89 sui bacini fluviali, la legge Bucalossi sui suoli del 1977 che riservava gli oneri di urbanizzazione ai soli investimenti, lo stesso Codice per il paesaggio. “Fare bene con meno”? Si può, ma garantendo la sopravvivenza all’Amministrazione dei Beni Culturali (e Ambientali) e attuando, aggiornate, le leggi solide e civili che ci siamo dati. Su tutto ciò dobbiamo ragionare presto – per “ricostruire l’Italia” della cultura – in forma seminariale (non seminarile). Con cultura di governo, con laico coraggio. Nell’analisi e nella proposta.
Tutti riconoscono che la più grande ricchezza del nostro Paese è quella che si sostanzia in oltre 3.500 musei, in quasi 100.000 fra chiese e cappelle, in 40.000 torri e castelli, in 20.000 centri storici di cui almeno mille strepitosi (italici, etruschi, greci, romani), ecc. e in paesaggi tanto belli e diversi, “fatti a mano” (una “seconda natura”, scrisse Goethe) che, malgrado una demenziale cementificazione, affascinano ancora tanti turisti.
Tutti lo riconoscono, però questo Ministero – che una volta saggiamente ricomprendeva anche i beni ambientali –, già cenerentola dei Ministeri, coi tagli feroci del governo Berlusconi-Tremonti vede ridotte al lumicino le risorse finanziarie e quelle umane e tecniche: gli archeologi di ruolo sono 341, al pari degli storici dell’arte e degli architetti. Perché non arrestare questa suicida spoliazione e il dilagare dell’ignoranza nelle scuole di ogni grado ribadita dal ministro Gelmini (“ex” per sempre speriamo), un gruppo di associazioni e di persone che si battono per la salvezza di tanto patrimonio hanno rivolto un appello al presidente Napolitano sempre tanto sensibile ai problemi della cultura. Si tratta, oltre a chi scrive, di Desideria Pasolini dall’Onda (fondatrice di “Italia Nostra”), dell’urbanista Vezio De Lucia, del sociologo Luigi Manconi per il Comitato per la Bellezza, della presidente della storica “Italia Nostra”, Alessandra Mottola Molfino, di Marisa Dalai, importante storica dell’arte, presidente della Bianchi Bandinelli, di Fulco Pratesi fondatore e presidente onorario del Wwf-Italia, dell’urbanista Edoardo Salzano e dell’archeologa Maria Pia Guermandi che animano Eddyburg, sito battagliero. Chiedono che il Ministero per i Beni e le Attività Culturali (ma il discorso vale pure per l’Ambiente) venga affidato “ad una persona di alto profilo culturale e morale, di sicura competenza politico-amministrativa e di provata autonomia rispetto alle due più recenti, negative gestioni del Ministero stesso”. Cioè rispetto alle gestioni Bondi e Galan.
Il MiBAC - affermano - è al disastro: risorse per la mera sopravvivenza, investimenti ormai inesistenti, tecnici ministeriali, in assenza di concorsi, pochi e anziani, promosse ad alti incarichi persone bocciate nei rari concorsi ledendo ogni meritocrazia, decine di Soprintendenze gestite ad interim, commissariamenti diffusi e dannosi, co-pianificazione Ministero-Regioni per il paesaggio bloccata mentre la speculazione imperversa, educazione all’arte sempre più inadeguata, ecc. Da qui l’indispensabilità che, per risalire da tanto disastro e per sanarlo, al Collegio Romano vada una persona di alta competenza e moralità che nulla abbia a che fare col recente devastante passato che ha pure disattivato alcune buone leggi.
Un nome potrebbe senz’altro essere quello di Salvatore Settis, studioso di fama, già al Getty e alla Normale di Pisa, dimessosi dalla presidenza del Consiglio Superiore dei Beni Culturali e subito sostituito da Bondi. In questo mondo non mancano personaggi qualificati. Uno di questi è certamente l’archeologo Stefano De Caro appena nominato, primo italiano, direttore generale dell’ICCROM, istituto internazionale per il restauro, malgrado l’opposizione – udite, udite – del delegato italiano inviato a fare quella figura barbina dal Gabinetto dell’ormai perente ministro Giancarlo Galan. Presumibilmente dallo stesso Salvo Nastasi che a Venezia ha spalleggiato l’improvvida scelta di Galan di non confermare alla Biennale Internazionale di Venezia il presidente in scadenza Paolo Baratta (che ha fatto benissimo) per metterci un amico del Cavaliere. Quel Malgara che, davanti a 4.500 firme contrarie da tutto il mondo e ad un parere negativo della Camera, ha almeno avuto la dignità di farsi da parte. Due episodi fra i tanti che confermano l’indispensabilità di imprimere una svolta che salvi insieme il patrimonio di competenze pubbliche, di tecnici tanto bravi quanto sottopagati (1.700-1.800 euro per dirigenti con trenta’anni di carriera) e una fonte di cultura che è anche economica (se la si tutela): il turismo fornisce una quota di PIL vicina a quella della tanto decantata edilizia e una bella fetta di essa viene dal turismo culturale.
Riportiamo il reportage d’apertura dell’ inchiesta di Francesco Erbani
Ecco i soldi europei e tutti corrono al capezzale della città fantasma Il commissario Hahn ha visitato Pompei la scorsa settimana e ha promesso di vigilare su come verranno spesi i fondi Ue. Ma nella partita, complicata dalle polemiche tra soprintendenza e esponenti del ministero, si agitano interessi politici e affaristici. Perché l'area archeologica è una delle "industrie" più appetite dell'intera provincia napoletana.A Pompei attendono i soldi europei: 105 milioni. Sono tanti, ma non bastano a fugare le ansie che gravano sul sito archeologico più bello, più celebre e più complicato che ci sia al mondo. I lavori di messa in sicurezza - ha garantito il commissario di Bruxelles Johannes Hahn - cominceranno nel primo trimestre del 2012. Il che può voler dire anche a marzo, se tutto va bene. E questo è il primo motivo d'ansia. Si guardano in cielo le nuvole. Potrebbero addensarsi e diventare nere. E le piogge a Pompei recano l'incubo dei crolli. L'acqua stagna fra le bàsole della pavimentazione e imbeve pericolosamente i terrapieni che premono dietro i muri delle domus.
E poi i soldi non sono tutto. Chi e come li spenderà? La Soprintendenza, senza rimpolpare i suoi ranghi, difficilmente può farcela. Ma di nuove assunzioni non c'è traccia. Tante promesse a vuoto. Si affollano invece una quantità di soggetti interessati a mettere in qualche modo le mani su Pompei. Fino a creare una specie di ingorgo che, visto da qui, fa molta confusione e quasi più paura della pioggia. Non è la prima volta che accade, anzi è una costante, raccontano a Pompei, una delle industrie più appetite dell'intera provincia napoletana, al centro di un territorio dalle consolidate ramificazioni affaristiche e clientelari. E persino criminali. E poi c'è la crisi di governo, che potrebbe complicare o, al contrario, snellire tutto.
La regola vorrebbe, dicono a Pompei, che i soldi entrassero nelle casse della Soprintendenza, la quale li spenderebbe sulla base di un piano preparato nel frattempo. Troppo semplice. La partita su Pompei, dopo un anno di completa inazione seguito al crollo della Schola Armaturarum, si è improvvisamente agitata nelle ultime settimane. Annunci, promesse. Lotte fratricide dentro il ministero. Fra i più attivi a immaginare scenari complessi c'è il sottosegretario ai Beni culturali Riccardo Villari, napoletano, una carriera politica movimentata (dalla Dc al Ppi, quindi l'Udc, l'Udeur, la Margherita e il Pd, che lo espelle, dopodiché lui fonda un gruppo di "responsabili" al Senato). Diventato sottosegretario nel maggio 2011 e nonostante senta vacillare la propria poltrona, attacca senza mezzi termini l'attuale soprintendente, Teresa Cinquantaquattro, la stessa che dovrebbe gestire i 105 milioni. La accusa di non saper spendere i soldi che ha in cassa (ventidue milioni l'anno, grosso modo, che per metà se ne vanno in spese correnti), di non averlo avvisato del crollo avvenuto due settimane fa e di altro ancora.
Il sottosegretario, quasi ex, ha mobilitato le università napoletane e altri archeologi, e poi si è fatto paladino di un gruppo di imprenditori, sempre napoletani, interessati più che a salvare Pompei, a costruire fuori degli scavi, forti di un articolo del decreto varato dal governo nella scorsa primavera che prevede si possano realizzare interventi anche in deroga al piano regolatore della città. Alberghi, ristoranti, strade, parcheggi: qualcuno sogna una scorpacciata di cemento. Villari poi si è proposto come l'interlocutore dell'Unesco, che nei mesi scorsi ha redatto un rapporto molto critico su come il ministero è intervenuto a Pompei (ha contestato, per esempio, i commissariamenti stile Protezione civile e ha criticato l'eccesso di attenzione per la valorizzazione a scapito della tutela). E non solo dell'Unesco, con il quale a Parigi il ministero dovrebbe firmare un accordo a fine novembre, ma anche di un'altra cordata di imprenditori, stavolta francesi, disposti a spendere fino a 200 milioni a Pompei. A condizione - ha più volte ribadito Villari, non si sa quanto interpretando i desideri d'oltralpe - che ciò avvenga in sintonia con i loro colleghi napoletani.
Che cosa resti di questa complicata architettura, una volta dimesso il governo Berlusconi, non è chiarissimo. Ma molti temono che non svanisca nel nulla. E non è tutto. Nella partita Pompei entra anche Invitalia, società del ministero dell'Economia, esperta nell'attrarre investimenti. Si dice debba occuparsi di gare d'appalto e di bandi. Invitalia a un certo punto ha sostituito un'altra società che avrebbe dovuto lavorare a Pompei, l'Ales, che almeno era di proprietà del ministero dei Beni culturali.
A Pompei si guarda con preoccupazione a questi scenari. Tornano a profilarsi i fantasmi di una gestione commissariale sotto altre vesti, di soprintendenti molto volatili (ce ne sono stati quattro in due anni) e anche per questo molto deboli. Si agitano personaggi di primo e secondo piano della politica che qui, avvicinandosi elezioni, giocano destini personali. La settimana scorsa è venuto il commissario Hahn. Non aveva mai visitato Pompei. L'ha girata incantato per ore, fino al tramonto, sconvolgendo il protocollo. I soldi arriveranno, ha ripetuto, ma la commissione vigilerà che vengano spesi bene. Un po' come il Fmi per i conti pubblici italiani.
Ma, come se non bastasse la vigilanza europea, ecco che si annuncia la costituzione di una "cabina di regia" formata dagli archeologi del Consiglio superiore dei Beni culturali (Andrea Carandini; Giuseppe Sassatelli; Francesca Ghedini, sorella di Niccolò, l'avvocato di Berlusconi; il direttore generale delle Antichità, Luigi Malnati). "Potremo seguire e controllare tutte le attività che si svolgono a Pompei - ha spiegato Carandini, che del Consiglio superiore è presidente - e tutti gli atti verranno messi a conoscenza della cabina di regia". Ma appena poche ore dopo quell'annuncio, il ministero tira il freno: il Consiglio superiore può esprimere pareri e atti di indirizzo, non sovrapporre nuove strutture. La "cabina di regia" pare abortita prima di nascere.
Sugli scavi di Pompei hanno sempre governato o voluto governare in molti. Dai sindaci della città al vescovo. Senza contare il peso di alcune sigle sindacali che sembrano altrettanti clan familiari. E non dimenticando il ruolo dei potenti bancarellari o dei posteggiatori. L'attuale primo cittadino, Claudio D'Alessio (Udc), per non restare fuori dai giochi, ha chiesto di entrare anche lui nella fantomatica "cabina di regia". Il vescovo Carlo Liberati, che regge il Santuario della Madonna e una vasta rete di proprietà immobiliari, guarda con occhio vigile a ciò che accade dentro gli scavi, pronto a proporre uomini graditi alla curia, come accadde nel 2007 quando festeggiò con un calore che non passò inosservato la nomina a direttore amministrativo di Antonio De Simone, professore di archeologia all'Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli.
E proprio De Simone è una di quelle figure che, in questa effervescenza, potrebbe riproporsi. Non si capisce in che ruolo, ma la voce di un suo interesse a tornare a Pompei circola con insistenza. Villari, per esempio, lo ha sponsorizzato apertamente. De Simone ha lavorato molto a Pompei negli anni Ottanta e nel 2007 si è dato terribilmente da fare per diventare direttore amministrativo, una carica che non c'entrava granché con la sua qualifica di archeologo. Per ottenere l'incarico si rivolse a un consigliere regionale del Pd, Roberto Conte, considerato molto vicino all'allora ministro Francesco Rutelli. Le loro telefonate furono intercettate, perché Conte poco dopo fu arrestato per associazione camorrista (poi, espulso dal Pd, è transitato nel centrodestra). Venne fuori uno spaccato di smodate ambizioni personali, ma anche quanto contasse in certi ambienti politici avere un proprio uomo in un posto cruciale alla Soprintendenza di Pompei.
Signor Presidente, In queste ore nelle quali, grazie alla sua intelligenza e sagacia politica, il Paese sembra avviato a ritrovare un percorso democratico e riformatore positivo, le associazioni che si battono per la tutela si rivolgono a lei e al presidente incaricato affinché la responsabilità dei Beni e delle Attività Culturali venga affidata ad una persona di alto profilo culturale e morale, di sicura competenza politico-amministrativa e di provata autonomia rispetto alle due più recenti, negative gestioni del Ministero stesso.
La situazione del MiBAC è infatti delle più desolanti da ogni punto di vista: risorse ridotte al livello della mera sopravvivenza, investimenti ormai quasi inesistenti, tecnici ministeriali, in assenza di concorsi, drammaticamente insufficienti di numero oltre che anziani, promosse ad alti livelli dirigenziali persone bocciate nei rari concorsi ledendo ogni meritocrazia, decine di Soprintendenze gestite pertanto ad interim, commissariamenti diffusi e in più di un caso altamente dannosi, co-pianificazione paesaggistica Ministero-Regioni praticamente ferma in un Belpaese aggredito dalla speculazione, educazione sempre più inadeguata al rispetto e alla fruizione del patrimonio storico-artistico e del paesaggio, e l’elenco potrebbe purtroppo continuare a lungo.
Anche da tale elenco sommario si evince l’assoluta necessità di porre alla guida del MiBAC una persona di grande autorevolezza morale, culturale e politica la quale, ripetiamo, nulla abbia avuto a che fare col più recente passato e possa dare pertanto un chiaro segnale di discontinuità.
Confidiamo, signor Presidente, nel suo comprovato amore per la cultura e per la bellezza, nella sua illuminata saggezza, nel suo raro senso dello Stato e le auguriamo i migliori risultati in quest’opera tanto difficile quanto meritoria.
Vittorio Emiliani, Desideria Pasolini dall’Onda, Vezio De Lucia per il Comitato per la Bellezza
Marisa Dalai, presidente Associazione “R. Bianchi Bandinelli”
Alessandra Mottola Molfino, presidente nazionale di Italia Nostra
Fulco Pratesi presidente onorario del Wwf-Italia
Edoardo Salzano e Maria Pia Guermandi per Eddyburg
Difficile capire l’esultanza di un politico abile come Giancarlo Galan di fronte al voto sul suo candidato alla presidenza della Biennale, Giulio Malgara, “bocciato” dal pareggio in commissione Cultura alla Camera. In essa il centrodestra doveva risultare in maggioranza, la presidente, berlusconiana della prima ora, Valentina Aprea, aveva negato la parola al sindaco di Venezia, Orsoni (la consentirà, al contrario, il presidente di commissione al Senato, Guido Possa). Una inutile e arrogante scortesia verso la città dove la Biennale nacque nel 1895 promossa soprattutto dal Comune e dal sindaco, il laico-progressista Riccardo Selvatico. Non a caso è venuta proprio da Venezia la prima, corale reazione negativa alla decisione del ministro Galan di non riproporre il presidente in carica Paolo Baratta e di indicare per la successione il manager pubblicitario Giulio Malgara, il cui rapporto con la cultura risulta oggettivamente molto esile. Mentre appare forte quello personale con Berlusconi. Fra l’altro proprio Galan aveva esultato - da governatore del Veneto - quando Rutelli, all’epoca ministro dei Beni culturali, aveva richiamato Baratta alla guida della Biennale. Ai veneziani, ai veneti, agli italiani e a importanti intellettuali dei più diversi Paesi è apparso evidente lo sfregio inferto alla meritocrazia nella nomina al vertice della sola istituzione culturale del nostro Paese che abbia un sicuro stacco internazionale
Operazione, questa, nella quale le due gestioni di Paolo Baratta e del suo staff hanno meriti incontestabili. Anche sul piano del successo di pubblico (oltre 400.000 visitatori quest’anno) e su quello dell’autofinanziamento delle manifestazioni. Ha contato anzitutto l’orgoglio di Venezia e dei veneziani i quali hanno avvertito una Biennale più radicata nel corpo della loro città che il turismo di massa minaccia sempre più di “occupare” e che hanno così mostrato voglia di reagire. Come le città venete. Il secondo elemento: le adesioni all’appello intelligente della “Nuova Venezia” giunte subito da intellettuali non facili a firmare appelli, come Alberto Arbasino, Andrea Zanzotto (scomparso purtroppo in quelle ore), o Salvatore Settis. Ma anche da studenti, pensionati, operai, liberi professionisti, tecnici e così via. Terzo elemento (non certamente l’ultimo): la crescente partecipazione all’appello del mondo della cultura a livello planetario, a cominciare da sir Nicholas Serota della Modern Tate Gallery dai colleghi del Moma, o della Neue Pinakothek di Monaco e di altri prestigiosi musei. Ne terrà conto Galan? Se non lo facesse, rimedierebbe una pessima figura a tutti questi livelli, dimostrando che l’amicizia del Capo conta più dei meriti, delle competenze, del buongoverno delle istituzioni. E del rispetto del Parlamento.
Il commissario europeo Johannes Hahn arriverà mercoledì fra le rovine di Pompei. A lui il compito di sbloccare i finanziamenti per il grande piano di rinascita degli scavi disastrati: 105 milioni in tutto, è stato detto. Ma purtroppo non è così.
Purtroppo non ci sono 105, ma nemmeno cento o cinquanta milioni per le rovine di Pompei. Alla fine, si potrà constatare che non sono realmente spendibili neanche dieci milioni per il rilancio degli scavi, questo patrimonio dell'umanità che si sbriciola ad ogni temporale.
La zona del muro perimetrale venuto giù venerdì scorso è ancora sotto sequestro. Ed è anche lì che il commissario Hahn arriverà per vedere lo stato delle rovine accompagnato dai ministri dei Beni culturali Giancarlo Galan e degli Affari regionali Raffaele Fitto. C'è un programma di interventi da 105 milioni approvato dal Consiglio superiore dei Beni culturali che Hahn deve sbloccare. Ma i soldi per gli scavi sono davvero pochi.
Guardiamolo, il piano. E per cominciare a fare i conti c'è una prima facile operazione di sottrazione: la cifra stanziata di 105 milioni non è tutta per Pompei, ma serve anche per opere di Napoli, della zona Flegrea, di Ercolano, Oplontis, Boscoreale, Poggiomarino. Dunque? Sulla carta per il rilancio degli scavi di Pompei rimangono quarantasette milioni e mezzo di euro, più o meno. Sulla carta.
Ma andiamola a leggerla quella carta. È un lungo elenco di lavori e di opere da realizzare per il restauro di Pompei. Trentanove voci, per l'esattezza. Trentanove progetti: purtroppo la maggior parte sono tutti in fase preliminare. Ovvero il risultato è una lista di cose da fare senza alcunché di operativo. Nulla per cui quei soldi stanziati possano essere spesi realmente, almeno secondo le leggi vigenti.
I progetti esecutivi, quelli cioè davvero operativi, non sono che otto, in tutto. Per un totale di nemmeno otto milioni di euro. Anzi: ce ne è uno in più. Lo stanziamento più caro fra i progetti esecutivi: quattro milioni e mezzo di euro per completare un bunker in cemento armato costruito nel bel mezzo delle rovine, fra porta di Nola e porta Vesuvio. Un deposito brutto che deturpa il panorama antico e che fino ad oggi è già costato quasi cinque milioni di euro.
Il bunker è in assoluto la cifra più impegnativa, seguita soltanto da quel milione e ottocentomila euro stanziato per il restauro della casa di Sirico, domus ignota alle guide turistiche, così come la casa del Marinaio (un milione e mezzo di euro) o la casa di Fullonica di Stephanius (600 mila euro).
Ci sono altre tre domus semisconosciute fra i restauri operativi, insieme ad interventi di muri nelle strade prima di cogliere un restauro degno di nota: quel milione e 769 mila euro per la domus dei Dioscuri, perla rara di restauro fra questi progetti.
In calce all'elenco ci sono quattro voci imponenti: otto milioni per il piano della conoscenza (rilievi e verifiche e indagini idrogeologiche); sette milioni il piano della fruizione della comunicazione; due milioni per il piano della sicurezza; 2,8 milioni per il rafforzamento. Non è specificato per quale sito debba servire. Ma sono in calce a tutte le opere e dunque da dividere ancora una volta per tutti i siti citati nell'elenco.
La gravità di quanto accaduto giovedì (ma reso noto solo oggi) a Pompei, oltre che nella perdita di un elemento del nostro patrimonio archeologico risiede soprattutto nella devastante dimostrazione che nulla o quasi è stato fatto in oltre un anno.
Italia Nostra denunciò una situazione di fortissimo rischio e alcuni crolli (Casa dei Casti Amanti) fin dal gennaio 2010; un anno fa, il 6 novembre, la distruzione della Schola Armaturarum parve riattivare un percorso virtuoso di attenzione sul sito.
Mesi di annunci e promesse, un decreto (il n. 34, del 31 marzo 2011) che sembrò poter cambiare la situazione in tempi brevi e apportare concrete risorse per il piano di recupero del sito stesso.
Ad oggi, alla Soprintendenza Archeologica di Napoli e Pompei, non sono state assegnate nè risorse economiche, nè umane. Addirittura, nel mese di giugno, è stato deciso lo storno di alcuni milioni da Pompei al polo museale di Napoli (Capodimonte).
Nessuno dei 25 funzionari promessi, archeologi e architetti, è mai stato assunto: il comma che doveva servire a sbloccare la procedura, fortunosamente inserito nel ddl stabilità (n.2968), giovedì scorso 19 ottobre è stato stralciato perchè palesemente incongruo con il provvedimento. Ultimo drammatico segnale di un livello di incapacità amministrativa del Mibac che ha ormai superato il livello di guardia.
E continuano a rincorrersi, al più alto livello, dichiarazioni a dir poco fuorvianti e pericolose sulla necessità di realizzare “servizi e infrastrutture” non meglio identificate all’esterno degli scavi, quasi a voler giustificare quello strano comma 6 del decreto di marzo che, come denunciò immediatamente Italia Nostra, rendeva possibili, con la deroga da ogni strumentazione urbanistica, operazioni di dubbia utilità se non addirittura dannose per il sito stesso.
Italia Nostra richiede con forza che il piano di recupero e manutenzione di Pompei sia avviato immediatamente, partendo dalle recommendations elaborate dagli ispettori inviati dall’Unesco nel gennaio scorso. A garanzia scientifica e operativa di tale piano è necessario attivare, al più presto, un board di esperti di riconosciuta competenza pompeiana a livello nazionale e internazionale (Pompei è patrimonio universale).
Compito del board sarà inoltre quello di un primo addestramento ai nuovi archeologi che devono essere assunti in tempi rapidissimi (con apposito provvedimento legislativo d’urgenza).
Occorre inoltre stanziare fondi aggiuntivi immediati nelle disponibilità della Soprintendenza, affiancandone il personale con un ristretto gruppo di esperti in procedure amministrative, in grado di avviare in tempi celeri gare e appalti: soluzione molto più idonea ed operativa rispetto ai soliti carrozzoni onerosi e privi di competenze specifiche quali Invitalia.
In prima battuta si potrebbe trattare di risorse non enormi, ma vi è bisogno adesso, subito, di dare il segnale che abbiamo ancora la capacità di tutelare il nostro patrimonio archeologico.
Un anno è passato invano: non c’è più un’ora da perdere.
A Pompei da giorni si guardava intensamente il cielo. Appena diventava grigio, tornava l´incubo della pioggia che gonfiava d´acqua il terrapieno dietro i muri di via dell´Abbondanza. Dal 6 novembre 2010, quando venne giù la Schola Armaturarum (Domus dei Gladiatori), è passato un anno. Ma poco è cambiato. E il crollo c´è stato.
Ha ceduto il muro di cinta nei pressi di Porta Nola, nella zona Nord degli scavi archeologici. Promesse, giuramenti: non è arrivato neanche un soldo di quelli annunciati più volte e neanche un´assunzione è stata avviata. E così il sito - sessantasei ettari di cui quarantaquattro scavati, stesi sotto un cielo nero e ostile - è rimasto senza le protezioni che erano state assicurate dopo che lo sbriciolarsi dei muri aveva scioccato il mondo intero. Mercoledì 26 arriva a Pompei il commissario europeo Johannes Hahn che dovrebbe dare il via libera allo stanziamento di 105 milioni di euro. Una somma che, stando ai trionfalismi del ministero, sembrava già nei cassetti da mesi. «Gravissima è la responsabilità dei Beni culturali di non avere saputo proporre alcuna soluzione: né in termini economici né di risorse umane», è il commento di Maria Pia Guermandi del Consiglio nazionale di Italia Nostra.
Tutti sono d´accordo, almeno a parole, che solo una capillare, costante manutenzione ordinaria può mettere al riparo Pompei dai disastri. È scritto in un piano redatto dalla Soprintendenza e approvato dal ministero. Lo ha ribadito il rapporto dell´Unesco, che rinvia ma non cancella l´ipotesi di inserire gli scavi vesuviani nella lista dei beni in pericolo. Ma i mezzi e gli uomini a disposizione della Soprintendenza diretta da Teresa Cinquantaquattro non bastano. «In un anno abbiamo completato la mappatura di tutto lo scavo e cercato di tamponare le situazioni di massima emergenza. Ma senza quei 105 milioni e senza assunzioni i progetti di messa in sicurezza e di restauro non possiamo realizzarli», spiega la soprintendente. E così prima il ministro Giancarlo Galan, poi il sottosegretario Riccardo Villari sono arrivati ad ammettere che davvero un´abbondante pioggia avrebbe potuto di nuovo trascinare con sé terra, fango e muri antichi. Almeno le profezie al ministero le azzeccano.
L´ultima mazzata si è abbattuta giovedì sera al Senato. Dove è stato stralciato dal disegno di legge di stabilità, approvato cinque giorni prima dal Consiglio dei ministri, il comma sulle assunzioni di nuovo personale a Pompei. Non c´entrava niente con quel ddl e ora seguirà un iter autonomo. «Al ministero sono in stato confusionale», commenta Guermandi. E così affinché arrivino una ventina fra archeologi e tecnici (ma all´inizio si diceva una trentina) occorre aspettare ancora. E intanto la situazione si è fatta disperata. Mancano vigilanti e non si riesce a coprire tutti i turni. Il laboratorio degli affreschi conta su tre restauratori soltanto. Gli archeologi sono sei, gli architetti sette e oltre che a Pompei lavorano a Ercolano, Oplonti e Stabia. Gravissime sono le carenze fra i capotecnici, figure essenziali per vigilare i cantieri, che così sono affidati integralmente alle ditte esterne.
È un anno che si parla di nuove assunzioni. I rinforzi erano garantiti dal decreto legge approvato ad hoc per tacitare lo scandalo pompeiano nel marzo scorso. Sono stati sbandierati prima da Sandro Bondi e poi da Galan come il segno di una risposta forte dello Stato. Recentemente è stato Villari, new entry nel governo e ora investito di una delega speciale per Pompei e l´area napoletana (ha anche aperto un ufficio in Castel dell´Ovo, sul lungomare partenopeo) a indicare e poi spostare in avanti le scadenze: fine settembre, fine ottobre... Ma non è accaduto nulla. Eppure c´erano graduatorie pronte, frutto di un concorso svoltosi due anni fa. Archeologi e architetti idonei erano in attesa di chiamata.
Altro capitolo doloroso, quello dei soldi. Ancora nei giorni scorsi Villari "si augurava" che i 105 milioni sarebbero stati "scongelati" in occasione della visita del commissario europeo. Teresa Cinquantaquattro insiste: «Allo stato attuale abbiamo speso solo i pochi soldi della Soprintendenza. Tutto quel che avevamo è impegnato». Ma la macchina burocratica sarà lenta e complessa. Un ruolo negli interventi a Pompei lo avrà anche Invitalia, società pubblica a metà fra il ministero dell´Economia e quello guidato da Fitto. La cui mission, come si legge sul sito, c´entra poco con l´archeologia: favorire l´attrazione di investimenti esteri, sostenere l´innovazione e la crescita del sistema produttivo, valorizzare le potenzialità dei territori. La comparsa sulla scena pompeiana di Invitalia è recente: nel decreto di marzo si parlava dell´apporto di un´altra società, Ales, questa sì di proprietà dei Beni culturali.
Ma a Pompei nutrono anche altri timori. Villari, sempre lui, ha fatto capire che i soldi promessi da un gruppo di investitori francesi (che potrebbero arrivare a 200 milioni) sono legati a una serie di iniziative fuori del sito archeologico promosse da imprenditori napoletani. Che, tradotto, vuol dire infrastrutture, alberghi e altro. Oltre alla pioggia, su Pompei potrebbe abbattersi un diluvio di cemento.
Una lettera della dottoressa Barbera, Soprintendente della Toscana spiega che a San Casciano i nostri cronisti sono stati respinti da una persona che ha agito in proprio senza indicazioni del suo ufficio. Ma le immagini dimostrano che un funzionario ha ribadito che i giornalisti non potevano fare riprese.
Dalla dottoressa Mariarosaria Barbera, Soprintendente per i beni Archeologici della Toscana, riceviamo e pubblichiamo questa precisazione sull'episodio accaduto a San Casciano dove i nostri cronisti sono stati respinti mentre riprendevano il cantiere di scavo archeologico oggetto di una dura polemica tra lavoratori della Laika e ambientalisti. I fatti, però, stando alle immagini da noi pubblicate, sono andati diversamente.
Gentile Direttore,
una troupe di Repubblica. it si è recata alcuni giorni fa sul cantiere di scavo archeologico di S. Casciano Val di Pesa, loc. Ponterotto per riprendere l'area dell'erigendo stabilimento Laika. Uno scavo recentemente oggetto di una campagna di stampa che, tra i primi effetti, certamente non desiderati ma oggettivi, ha generato l'interesse di malintenzionati che già due volte sono entrati e hanno danneggiato le protezioni di scavo.
Nel video, pubblicato sul vostro sito, un'archeologa perde la calma e tenta di allontanare i giornalisti, pur rimasti in area pubblica a ridosso del cantiere, risolvendosi infine a chiamare i Carabinieri. Fin qui la cronaca.
Poi un pesante tocco di fiction: "la Soprintendenza - commenta il giornalista - ha ordinato agli archeologi sul cantiere di tenere alla larga i giornalisti e diffidarli dal pubblicare le immagini". Come dire: la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, da me attualmente diretta, ha di certo qualche "scheletro nell'armadio" e per questo complotta contro il quarto potere.
Sono francamente dispiaciuta per l'incidente. Ma non riesco a comprendere la ragione di tutto ciò: proprio la settimana scorsa ho rilasciato a Francesco Erbani un'intervista telefonica, né breve né omissiva, rispondendo alle domande poste e spiegando posizione e motivazioni della Soprintendenza (di cui peraltro ho assunto la direzione solo a gennaio). Perché non propormi di visitare lo scavo insieme, con la vostra telecamera? Avremmo organizzato tempestivamente e secondo regole che avrebbero tutelato sia la sicurezza dello scavo sia il diritto di cronaca. Senza spostare l'attenzione dalla consistenza dei reperti, il nocciolo della questione, alla reazione personale di un'archeologa.
Perché è dalla consistenza dei reperti che dipende la decisione del Ministero: le cui valutazioni tecniche e scientifiche saranno presto consultabili dal pubblico sulla rivista archeologica digitale Fasti on line, con un'ampia presentazione dello scavo e dei suoi risultati a cura della Soprintendenza. Le stesse valutazioni che forniamo in questi giorni a parlamentari e associazioni.
Mariarosaria Barbera - Soprintendente per i Beni Archeologici della Toscana
Ed ecco la risposta dei nostri inviati
“La replica della soprintendente di Firenze è stupefacente ed è smentita dal video che attesta come sono andati i fatti. E lascia senza parole l'intenzione di addossare ogni responsabilità all'archeologa che era sul sito di San Casciano e che avrebbe "perso la calma" e agito spinta da una "reazione personale". Noi siamo stati invitati con veemenza ad allontanarci dal cantiere e a non proseguire le riprese in virtù di una motivazione infondata ("lo vieta il Codice dei Beni culturali") che un funzionario della soprintendenza ribadisce parlando al telefono con il maresciallo dei carabinieri. Ciò è ampiamente dimostrabile sulla base della testimonianza di tutti i presenti alla scena, compreso il maresciallo dei carabinieri che ci riferisce il contenuto della telefonata".
Francesco Erbani e Mario Neri
Postilla
Non paia un fraintendimento di lieve entità quello descritto nello scambio epistolare fra Soprintendente e giornalisti. Fortunatamente, in questo caso le riprese consultabili sul sito rendono giustizia ai fatti.
Grave è sicuramente che una Soprintendenza, quindi un’istituzione pubblica, cerchi di porre ostacoli al diritto di cronaca accampando inesistenti norme del Codice dei beni culturali, ma se possibile ancora peggiore è il fatto di rovesciare le responsabilità di una scorrettezza su chi, per posizione professionale, si trova in una condizione di debolezza e ricattabilità, quale è l’archeologa precaria presente sullo scavo al momento delle riprese.
Esemplare illustrazione dell'atavico, desolante atteggiamento “forti con i deboli, deboli con i forti". (m.p.g.)
Come conciliare le ragioni della tutela di paesaggio e beni culturali e le ragioni della crescita industriale? La questione continua a proporsi in un paese come l'Italia ricco di un patrimonio inestimabile, sul quale gravano incuria e indifferenza. Talvolta le due ragioni riescono a convivere, ma molto spesso l'elemento che prevale è il conflitto. Nascono lunghi e faticosi contenziosi che producono solo paralisi. Tanto più insopportabili in un periodo di crisi.
Questa inchiesta si muove fra la Toscana e il Molise. L'ha realizzata Francesco Erbani insieme a Mario Neri per il video della parte toscana. A San Casciano vengono rinvenuti i reperti di due edifici, uno etrusco, l'altro romano, nel cantiere dove si costruisce un capannone industriale di 300 mila metri cubi. Il Comune e l'azienda decidono di smontare i reperti e di rimontarli su una collinetta artificiale. È un'archeopatacca, insorgono le associazioni ambientaliste, che già avevano contestato la localizzazione della fabbrica. Il braccio di ferro è durissimo. I nervi tesi, come dimostra il fatto che la Soprintendenza di Firenze, favorevole alla ricollocazione, ha fatto chiamare i carabinieri per impedire ai nostri giornalisti di filmare o fotografare il sito archeologico.
Nel Molise, invece, potrebbe sorgere un impianto eolico lungo il crinale di una collina che sovrasta il sito archeologico di Saepinum, città prima sannitica e poi romana. Inoltre le pale, alte centotrenta metri, verrebbero impiantate lungo un antico tratturo. La strada, dove è visibile la pavimentazione romana, è stata ricoperta di pietrisco e usata come strada di cantiere. La Procura indaga e il Gip ha sequestrato il sito.