1 Una costituente per la cultura
Cultura e ricerca sono capisaldi della nostra Carta fondamentale. L'articolo 9 della Costituzione «promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Sono temi intrecciati tra loro. Perché ciò sia chiaro, il discorso deve farsi economico. Niente cultura, niente sviluppo. "Cultura" significa educazione, ricerca, conoscenza; "sviluppo" anche tutela del paesaggio.
2 Strategie di lungo periodo
Se vogliamo ritornare a crescere, se vogliamo ricominciare a costruire un'idea di cultura sopra le macerie che somigliano a quelle su cui è nato il risveglio dell'Italia nel dopoguerra, dobbiamo pensare a un'ottica di medio-lungo periodo in cui lo sviluppo passi obbligatoriamente per la valorizzazione delle culture, puntando sulla capacità di guidare il cambiamento. Cultura e ricerca innescano l'innovazione, e creano occupazione, producono progresso e sviluppo.
3 Cooperazione tra i ministeri
Oggi si impone un radicale cambiamento di marcia. Porre la reale funzione di sviluppo della cultura al centro delle scelte del Governo, significa che strategia e scelte operative devono essere condivise dal ministro dei Beni Culturali con quello dello Sviluppo, del Welfare, della Istruzione e ricerca, degli Esteri e con il premier. Il ministero dei Beni Culturali e del paesaggio dovrebbe agire in coordinazione con quelli dell'Ambiente e del Turismo.
4 L'arte a scuola e la cultura scientifica
L'azione pubblica contribuisca a radicare a tutti i livelli educativi, dalle elementari all'Università, lo studio dell'arte e della storia per rendere i giovani i custodi del nostro patrimonio, e per poter fare in modo che essi ne traggano alimento per il futuro. Per studio dell'arte si intende l'acquisizione di pratiche creative e non solo lo studio della storia dell'arte. Ciò non significa rinunciare alla cultura scientifica, ma anche assecondare la creatività.
5 Pubblico-privato, sgravi ed equità fiscale
Una cultura del merito deve attraversare tutte le fasi educative, formando i cittadini all'accettazione di regole per la valutazione di ricercatori e progetti di studio. La complementarità pubblico/privato, che implica l'intervento dei privati nella gestione del patrimonio pubblico, deve divenire cultura diffusa. Provvedimenti legislativi a sostegno dei privati vanno sostenuti con sgravi fiscali: queste misure presentano anche equità fiscale.
L’atto di citazione notificato dalla Procura della Corte dei Conti a Cristina Acidini (e, insieme a lei, all’attuale sottosegretario Roberto Cecchi, e ai membri del comitato di storia dell’arte del Mibac) costituisce una prima, provvisoria, conclusione della lunga querelle sul Crocifisso cosiddetto ‘di Michelangelo’. Una conclusione che dà torto alla soprintendente di Firenze, senza se e senza ma.
La procura chiede che Cristina Acidini, per aver reso il parere di congruità del prezzo d’acquisto pubblico dell’opera «abdicando alla propria posizione di garanzia circa la correttezza dell’acquisto e il corretto impiego delle risorse del bilancio ministeriale», sia condannata al pagamento di 600.000 euro «per il danno erariale subito dal Ministero».
La richiesta di condanna assimila la posizione dell’Acidini a quella, apicale, di Cecchi – a cui è richiesta la stessa cifra per aver disposto l’acquisto con una serie di «gravi omissioni» –, perché il punto focale di tutta l’inchiesta è la determinazione del prezzo. «La spesa pubblica sostenuta per l’acquisto del crocifisso Gallino ha una dimensione economica irragionevole che, quindi, rappresenta un danno per il pubblico erario», scrive il procuratore: interpellato dai magistrati contabili, Donald Johnston (responsabile internazionale della scultura per Christie’s) ha infatti stimato l’opera in 85.000 euro, il che vuol dire che gli imputati hanno gettato dalla finestra 3.165.000 euro dei cittadini italiani.
Ma i passaggi che colpiscono di più sono quelli in cui la Corte constata che «non è stato avviato il confronto tra gli studiosi» (e che «se tale elementare precauzione fosse stata adottata, sicuramente l’amministrazione» non avrebbe patito un simile danno), e che «attualmente il crocifisso è collocato in magazzino e non fruibile al pubblico».
Chiusura, in tutti i sensi, dunque: chiusura al dibattito, chiusura dell’opera in cassaforte. È questa la linea seguita dalla soprintendente in questi tre anni di polemiche: l’indisponibilità ad accettare il confronto, il tentativo di delegittimare gli interlocutori critici gridando (o meglio sussurrando) al complotto, e financo la sottomissione dell’esposizione delle opere ad una strategia che non ha certo nulla a che fare con l’interesse pubblico. Come si fa, infatti, ad affermare contemporaneamente che il Cristo è di Michelangelo e a lasciarlo per due anni in un deposito, per non meglio precisate disposizioni ministeriali (impartite, magari, dal coimputato Cecchi)?
Pochi giorni fa, Antonio Paolucci ha difeso con sdegno i confini della storia dell’arte, dichiarando di non vedere «come un giudice contabile possa esprimersi su un’analisi storico-artistica». Senza volerlo, l’ex ministro dei Beni culturali ha emesso la diagnosi più esatta dello stato attuale della storia dell’arte: una disciplina letteralmente ‘irresponsabile’. Un mondo autoreferenziale governato da un piccolo gruppo di persone: un gruppo che si ritiene un élite, ma che troppo spesso assomiglia più ad una casta, o addirittura ad una cricca. Tale degenerazione non riguarda solo una disciplina accademica, ma investe la tutela e la gestione del patrimonio storico e artistico della nazione. E questo, in una città come Firenze, vuol dire che l’irresponsabilità della storia dell’arte diventa un problema di tutti.
Il processo che si apre a Roma il 10 maggio potrebbe far cambiare molte cose.
Il professor Andrea Carandini, a 75 anni, conosce l’arte della mediazione ma non sempre la professa. Dal padre, fondatore del Partito Radicale, il presidente del consiglio superiore dei Beni culturali ha ereditato la passione per le scelte definitive e le rotture traumatiche. È per questo (ma non solo) che stamattina Carandini potrebbe dimettersi dalla carica. Non ha certezze di essere rinominato e intuisce che Ornaghi aspiri al repulisti. Al rinnovo delle cariche. Alla discontinuità con la vecchia gestione. Carandini è alle corde. Se da un lato nella sua posizione non scorge inopportunità o conflitto di interesse a far richiedere al Mibac dalla casa di produzione della figlia Amalia quasi 40.000 euro per un (premiato) documentario: Looters of Gods regolarmente finanziato nel 2009 come “progetto speciale”, dall’altro valuta le mosse pubbliche come nessun altro. E questo, in mancanza di meglio, potrebbe essere l’istante adatto al beau geste.
Lo scandalo del Castello di famiglia a Torre in Pietra, restaurato con quasi 300 mila euro erogati dallo stesso Consiglio (ed ermeticamente chiuso al pubblico in opposizione alla legge) è solo uno dei problemi di un’istituzione che Carandini presiede con piglio militare e che rischia di trasformarsi da organo di indirizzo culturale a cabina di regia per gestire i ricchi appalti del ministero. In ogni caso, l’aria che spira attorno alle riunioni del Consiglio è pessima. Il 18 novembre, ad esempio, la seduta fu quasi interamente dedicata alla comparazione di due proposte alternative per Pompei. Per il restauro ballano 105 milioni di euro della Commissione europea. Soldi da investire. A metà novembre Carandini demolì radicalmente l’offerta di Carmine Gambardella (preside ad Architettura nella Seconda Università di Napoli), che voleva offrire gratuitamente al Mibac un progetto elaborato da uno spin off di quattro atenei campani, con importanti università internazionali. Carandini affermò che questo progetto “non è certamente in grado di svolgere il lavoro” voluto dal Mibac. Più violente le critiche a Gambardella di un altro componente del Consiglio, Paolo Portoghesi, l’architetto preferito da Bettino Craxi. Nel verbale del consesso, l’invettiva di Portoghesi sfiora l’insulto: “Chi vive nel mondo dell’architettura, quando sente parlare di questo personaggio non può che esprimere molti dubbi ed è giusto avere dedicato una seduta a valutare il primato di una proposta seria di fronte a una proposta che è soltanto espressione di questo presenzialismo, tipico di persone giovani come Gambardella”. Di fronte a questa mazzata baronal-gerontocratica Carandini quasi si commuove: “Ringrazio moltissimo per la sincerità e la chiarezza”. E di chi è, allora, il progetto alternativo, quello ‘serio’? Ma di Roberto Cecchi, allora onnipotente segretario generale del Mibac, già assai discusso, ma non piegato dal caso del finto Michelangelo esploso clamorosamente in questi giorni. Per Carandini, Cecchi si colloca un gradino sotto Winckelmann: egli avrebbe aperto nientemeno che una “terza era dell’archeologia” basata sulla ricomposizione con l’architettura. Dice Carandini: “Questa applicazione ha avuto solo una possibilità di sperimentazione , attraverso il lavoro dell’architetto Cecchi a Roma, che è andato molto bene. Quindi è una sperimentazione recente che è necessario trapiantare a Pompei”. Ma, sempre al Mibac, fanno notare che più che una ricomposizione tra l’architettura e l’archeologia, essa appaia come una cordata dell’architetto (Cecchi) e dell’archeologo (Carandini).
E che il fine del secondo sarebbe quello di riuscire finalmente a piazzare a Pompei un prodotto che non è mai riuscito a vendere a Roma. Nell’aprile 2008 infatti il Mibac firmò un protocollo di intesa con la cattedra di Archeologia classica della Sapienza. Quest’ultima avrebbe ceduto alla Soprintendenza di Roma un brevetto informatico per realizzare il “sistema informativo territoriale archeologico per il centro storico e il suburbio di Roma”. Non una cessione a tinte filantropiche da ambito pubblico a pubblica soprintendenza. Niente di gratuito. La cessione sarebbe dovuta avvenire “alle condizioni di mercato”, da definire in un accordo separato. E la meraviglia non si quieta. Il brevetto (ottenuto grazie a ricerche finanziate dall’università) non era intestato alla Sapienza, bensì “ai professori Andrea Carandini e Paolo Carafa”. In quel momento Carandini era il coordinatore nazionale della Commissione paritetica per la realizzazione del Sistema Informativo Archeologico delle città italiane e dei loro territori. Insomma, uno strepitoso modello di rapporto pubblico-privato: il superconsulente accademico vende al ministero il proprio brevetto. Ma il piano alla Totò-truffa non andò in porto per la sollevazione dei funzionari della Soprintendenza di Roma, che trovavano scandaloso comprare da un privato ciò che si poteva avere gratuitamente. Carandini – ormai presidente del Consiglio superiore – ha cercato nuovamente di piazzare il suo progetto dopo il crollo di Pompei, proponendo di realizzare un sistema informatico (che per altro la Soprintendenza già possiede) basato sul suo famoso brevetto. Ma la Direzione generale per l’Archeologia riuscì a fermare anche questo secondo tentativo, e fu a questo punto che Carandini pensò di inserirlo nel progetto milionario di Cecchi per Pompei discusso nella seduta del 18 novembre. Sull’ultimo Giornale del’arte Carandini lancia una “strategia del fare” basata su due pilastri: “L’intervento dei privati” e “l’informatica”. L’editoriale si intitola ‘L’ombelico è qui’. Appunto.
Nessuno lo immaginerebbe mai: nel centro di Roma a poco più di un chilometro da piazza San Pietro, nel cuore della splendida tenuta Piccolomini che si estende da Villa Pamphili a via Gregorio VII, in cima a una terrazza naturale unica al mondo, con una vista mozzafiato sul cupolone, in un luogo verde e magico dove si aggirano indisturbate le volpi selvatiche sta per sorgere un campo da golf.
La società Borgo Piccolomini Srl di Alberto Manni (amministratore unico e detentore dell’80 per cento delle quote) ha appena ottenuto l’autorizzazione con determina dirigenziale della Regione Lazio per realizzare in questo luogo unico al mondo un campo pratica per il gioco del golf; la creazione di un percorso vita; la ristrutturazione di tutti i fabbricati esistenti con cambio di destinazione d’uso in club house a servizio del campo da golf e infine anche una piscina.
L’inaugurazione del complesso è prevista nel giugno del 2012 ma il consigliere regionale dell’Italia dei Valori Vincenzo Maruccio, che ha raccolto il grido di allarme del comitato di cittadini “Parco Piccolomini”, ha presentato un’interrogazione al presidente della Regione Lazio Renata Polverini. Per Maruccio quel campo da golf non s’ha da fare. Non solo per le problematiche sollevate dai cittadini che paventano “un grave impatto ambientale su un’area di alto valore paesaggistico” ma anche perché i terreni che lo ospitano non appartengono a una società privata bensì alla Fondazione Piccolomini, che ha finalità pubbliche. Non solo. Secondo Maruccio, la Fondazione è presieduta da Benedetta Buccellato, un’attrice che in passato ha recitato in una fiction diretta da Alberto Manni, proprio il socio principale della società Borgo Piccolomini.
La Fondazione Niccolò Piccolomini nasce da un lascito. Il proprietario della tenuta, il conte Nicolò Piccolomini, morì a 28 anni durante la seconda guerra mondiale dopo avere frequentato l’Accademia di Arte drammatica e destinò al mantenimento degli artisti drammatici indigenti il terreno sul quale sorgerà il campo da golf, più un vero e proprio borgo, una villa cinquecentesca immersa nel verde e numerosi casali .
Nel 1943, per realizzare le volontà del nobile attore, fu creata la Fondazione. Il conte avrebbe voluto che il suo patrimonio fosse utilizzato per “il ricovero e il mantenimento di artisti drammatici inabili al lavoro e l’assegnazione di elargizioni ad artisti drammatici indigenti”. La sua volontà non è mai stata pienamente realizzata. Nel 1980 la Fondazione è divenuta un’Ipab, cioè un’Istituzione Pubblica di Assistenza e Beneficienza sotto la vigilanza della Regione Lazio, che dal 2006 al 2009 ha commissariato la Fondazione. Dal maggio del 2009 a seguito dell’occupazione degli attori, villa Piccolomini è gestita da un consiglio di amministrazione nominato secondo le regole della Fondazione: due membri nominati dalla Regione Lazio, un membro nominato dal Sindaco di Roma, uno dall’Accademia di Arte drammatica e un membro nominato dai sindacati di categoria in rappresentanza degli attori drammatici, che hanno scelto Benedetta Buccellato, vicina alla Cgil che aveva diritto a esprimere il nome in quella tornata. La tenuta di 8 ettari che si estende dalle pendici del Gianicolo fino a via Cava Aurelia, era inutilizzata, ma rappresentava un potenziale polmone verde da sfruttare per il quartiere Aurelio. “Quei terreni devono essere restituiti alla cittadinanza”, secondo Vincenzo Maruccio dell’Idv, “e devono essere aperti ad attività culturali per realizzare lo scopo del lascito: una casa di riposo per attori anziani e non autosufficienti, immersa in un polmone verde per quel quadrante di Roma”.
Sotto la gestione Buccellato invece la strada intrapresa è stata un’altra: mettere a reddito il patrimonio affittandolo con bandi pubblici. Quello per affittare il terreno, secondo Maruccio, presenta però alcuni punti oscuri: “La Borgo Piccolomini Srl diviene locataria di parte dei terreni del parco a seguito di un avviso pubblico del 19 luglio 2010 che prevede come termine ultimo di presentazione delle offerte il 29 luglio 2010. La Borgo Piccolomini appartenente ad Alberto Manni e a Marco Cupelloni, risulta costituita in data 4 novembre del 2010, quindi postuma alla chiusura dei termini previsti per la presentazione delle offerte”. Inoltre Maruccio annota la coincidenza: “Alberto Manni, amministratore unico della Borgo Piccolomini Srl è un regista. La dottoressa Buccellato, presidente della Fondazione Niccolò Piccolomini è un attrice profesionista e ...vanta precedenti duraturi rapporti professionali con Manni avendo lavorato nella fiction “Vento di Ponente” diretta dallo stesso. Con tale contratto di locazione trentennale (per 96 mila euro all’anno Ndr) la presidente Buccellato vincola un bene facente parte di un’Ipab regionale per un periodo di gran lunga superiore alla sua carica”. Benedetta Buccellato difende la sua scelta: “Il comitato dei cittadini sbaglia a parlare di parco pubblico. Si tratta di terreni privati di una fondazione che ha il dovere di mettere il suo patrimonio a reddito per destinare i soldi al sostentamento degli attori, come prevede il nostro statuto. Il campo da golf non porterà nessuna nuova cubatura e riqualificherà la zona. Manni era solo uno dei 4 registi di quella fiction e non è un mio amico. Oggi fa l’imprenditore e ha presentato l’offerta migliore in un bando pubblico con una decina di concorrenti”.
Come è noto, la stampa italiana non ha una gran confidenza con la storia dell’arte, a meno che non si tratti di pubblicare a caro prezzo la velina dell’ultima mostra blockbuster. Non c’è dunque da stupirsi, se in queste ore in cui la farsa grottesca del crocefisso ligneo cosiddetto ‘di Michelangelo’ entra nella fase finale (vale a dire il processo alla Corte dei Conti per alcuni degli attori del suo acquisto pubblico), le pagine dei quotidiani si vadano riempiendo delle più inverosimili balle.
Non potendo certo pretendere che chi firma articoli sulla questione perda tempo a leggere le centotrenta pagine del libro che ho dedicato a questa storia ( A cosa serve Michelangelo?, Torino, Einaudi, 2011), ho pensato che rispondere alle dieci domande frequenti (Frequently asked questions) possa giovare.
1. Perché il Cristo comprato dallo Stato non è di Michelangelo?
Si legge di tutto, in questi giorni: il Cristo sarebbe una copia, un falso, un’opera di scuola. Niente di tutto questo: il Cristo è una scultura realizzata all’inizio del Cinquecento nella Firenze di Michelangelo. Ma non ha nulla a che fare con lui: non ha né lo stile né la somma qualità dell’opera del Buonarroti. È invece stata prodotta in una prolifica bottega di artigiani del legno, e conosciamo a tutt’oggi una ventina di pezzi usciti dalla stessa bottega, alcuni proprio della stessa mano. Una delle imperdonabili colpe del Mibac è stata proprio quella di non riunire in una mostra tutti questi pezzi, permettendo a tutti di farsi un giudizio.
Non sappiamo esattamente quale fosse il titolare di questa bottega: Stella Rudolphha, per esempio, proposto di identificarlo con Leonardo Del Tasso.
Come ha scritto Francesco Caglioti (tra i massimi esperti della scultura rinascimentale): «il Crocifisso appena acquisito dallo Stato non trova rispondenza né in quello di Santo Spirito né in altri lavori di Michelangelo, esso mostra invece somiglianze davvero eloquenticon un’altra decina di Crocifissi ugualmente lignei e piccoli, di solito classificati, per intesa pacifica di tutti, come opere fiorentine anonime del 1500-10 circa. Tali Crocifissi erano in parte ben noti già nel 2004 (io stesso ne avevo segnalato alcuni al venditore), ma la Sovrintendenza di Firenze adottò la curiosa scelta di non presentarne neanche uno alla mostra del Museo Horne. Ci si limitò a schedarli nel catalogo di accompagnamento, riservato a pochi occhi, mentre al grande pubblico fu concesso di osservare il Crocifisso privato a contrasto con due altri Crocifissi lignei fiorentini di dimensioni analoghe ma di tutt’altro stile (uno dei due appartenente o appartenuto – guarda un po’ – allo stesso antiquario torinese). Fu scelto, insomma, di rimuovere ogni paragone imbarazzante e di presentare la nuova scultura alla stregua di un capolavoro assoluto e irrelato».
È importante notare che, ancora alla data di oggi, gli unici storici dell’arte che si sono pronunciati per l’attribuzione a Michelangelo dell’opera sono quelli direttamente coinvolti, a vario titolo, nella pubblicazione (legittimamente) sovvenzionata dall’antiquario. In altre parole, nessun esperto terzo e indipendente sostiene che l’opera comprata dallo Stato sia del Buonarroti. Sarà dunque assai interessante seguire le deposizioni degli storici dell’arte durante il processo.
2. Cosa c’entra la Corte dei Conti con la storia dell’arte?
Sulla «Repubblica» del 18 febbraio, Antonio Paolucci ha dichiarato di non vedere «come un giudice contabile possa esprimersi su un’analisi storico-artistica». Apprendiamo così che per l’ex Ministro dei Beni culturali non esistono procedure, pareri tecnici sindacabili, consulenze terze: padrone in casa propria, perché la storia dell’arte è zona franca. Tutto questo, nei fatti, è stato fin troppo vero. Per decenni il chiuso, intoccabile mondo degli storici dell’arte si è sentito, ed è stato, letteralmente irresponsabile. Ma, naturalmente, la legge dice il contrario, e la Corte dei Conti ha ora la possibilità di affermare che non esistono zone franche dalla responsabilità verso i cittadini e i loro denari.
È importante capire che la Corte non dovrà decidere se quell’opera è o non è di Michelangelo, ma se i funzionari dello Stato hanno agito in scienza e coscienza per accertarlo (per esempio, chiedendo e acquisendo pareri autorevoli e terzi sull’autografia e sul vero valore dell’opera), o se invece c’è stata una colpa, magari grave o gravissima.
È accertato che pochi anni fa il Cristo fu comprato negli Stati Uniti per l’equivalente di diecimila euro: è normale che lo Stato lo acquisti poco dopo per 3.250.000 euro? Domanda urgentissima, in un momento in cui – per dirne una – la Pinacoteca di Brera non riesce a pagare il conto dell’energia elettrica (equivalente, per un anno, ad un ottavo di ciò che è stato pagato il cosiddetto ‘Michelangelo’).
3. Quali sono le responsabilità del Comitato tecnico scientifico storico-artistico del Mibac?
In queste ore Sandro Bondi è riemerso dalle nebbie per dirne una delle sue: il Cristo lo comprò lui – dice – ma per il «parere vincolante del Comitato consultivo»: certo, se una ha creduto alla nipote di Mubarak, può anche credere alla categoria metafisica del «consultivo vincolante».
Ma il tentativo è chiarissimo: scaricare le colpe sui tecnici veri, i quattro storici dell’arte del comitato. La tattica appare un po’ troppo comoda. Negli ultimi mesi lo stesso comitato composto dalle stesse persone ha, per esempio, espresso parere negativo sulla spedizione a Mosca di un Giotto (dove è andato a ‘impreziosire’ un assurdo inciucio di prelati assortiti) e di un importantissimo Caravaggio: ebbene, in entrambi casi il direttore generale ha spedito le opere in Russia, in barba a quel parere. Non si può dunque sostenere che quando il Comitato dice di non mettere a repentaglio Giotto il Ministero se ne può fregare, ma se dice di comprare una patacca, ebbene quel parere è vincolante. Non conosco i meccanismi del processo contabile, ma riterrei bizzarro che, alla fine, ai quattro storici dell’arte si chiedesse di restituire la stessa cifra chiesta all’allora direttore generale, o alla soprintendente di Firenze: chi dà un parere consultivo non può esser ritenuto responsabile come chi firma il decreto, o chi certifica la congruità del prezzo.
Ciò detto, se esistesse un albo degli storici dell’arte (o semplicemente degli uomini di scienza) Marisa Dalai Emiliani, Carlo Bertelli, Caterina Bon Valsassina e Orietta Rossi Pinelli meriterebbero di esserne radiati.
Per ben tre volte il Comitato è stato chiamato a vagliare la proposta d’acquisto al fine di consigliare il ministro circa l ’attendibilità dell’attribuzione, e circa il prezzo da proporre al venditore. Poiché tra i quattro membri non figurava né un michelangiolista né uno specialista di scultura rinascimentale sarebbe stato ovvio, perfino banale, aspettarsi una nutrita serie di formali consultazioni di esperti italiani e stranieri, riconosciuti e indipendenti. E invece il Comitato non fece niente di tutto questo. In ossequio alla chiara fama dei colleghi che vi avevano scritto (potere della consorteria accademica!), decise di acquisire come unica relazione scientifica il catalogo pubblicato a spese dell’antiquario nel 2004. Così, l’unico organo composto da storici dell’arte chiamato ad esprimersi ufficialmente sull’acquisto del ‘Michelangelo’ risolse la sua alta consulenza nella segnalazione dell’unica voce bibliografica disponibile: e viene da chiedersi se per far questo non sarebbe bastato un bibliotecario, o anche un libraio aggiornato. E, anzi, nemmeno questo adempimento notarile fu svolto impeccabilmente, giacché, di fatto, esso censurò l’importante e autorevole parere negativo di Margrit Lisner.
Nel far ciò, il comitato – forse perché composto in gran parte da storici dell’arte che non fanno attribuzioni – mostrò una deferenza più fideistica che scientifica verso il principio di autorità: poiché i colleghi che hanno scritto sono autorevoli, il loro parere è sufficiente. Al contrario, se anche questi illustri colleghi avessero pubblicato sulla più indipendente delle riviste, sarebbe stato comunque necessario che il comitato si rivolgesse ad esperti terzi, cioè a studiosi che non avevano impegnato il proprio nome e la propria reputazione nell’attribuzione da valutare.
Quando poi si ricordi che il catalogo del 2004 è niente di più che una articolata perizia a più voci pagata dal venditore (e non priva di parecchie mende scientifiche), non si può che rimanere sbalorditi: consigliare al ministro di acquistare l’opera basandosi su quel testo e sull’audizione della proponente è stato esattamente come se un comitato del Ministero della Sanità avesse messo in circolazione un nuovo farmaco basandosi sulla letteratura finanziata dalla casa produttrice di quel farmaco, e sull’audizione di chi ne proponeva l’adozione.
Anche nel loro caso, tuttavia, ‘dimission impossible’: salvo Orietta Rossi Pinelli (dimessasi qualche settimana fa), sono ancora tutti al loro posto a vagliare allegramente gli acquisti del Mibac. E se, almeno, Caterina Bon ha accettato un pubblico dibattito sul caso Michelangelo, Marisa Dalai Emiliani ha invece accusato di lesa maestà chiunque le muovesse una critica. Ma se la professoressa si è rifiutata di discutere della cosa con la Consulta degli storici dell’arte universitari (quelli che in teoria rappresenterebbe in seno al comitato), ora le sarà più difficile trattare con sdegnosa sufficienza i giudici della Corte dei Conti che la stanno per processare.
4. Quali sono le responsabilità di Cristina Acidini, soprintendente di Firenze?
Molte, e assai pesanti. La prima e più importante è stata quella di aver proposto (con una lettera ufficiale spedita all’allora ministro Rutelli il 25 luglio 2007) l’acquisto pubblico del Cristo. La seconda è quella di aver perorato la causa dell’acquisto in seno al Comitato tecnico-scientifico (ai cui membri riferì di«conferme sulla scultura emerse nel recente convegno fiorentino dedicato a Michelangelo»: conferme poi irrintracciabili), anche come autrice di un libro su Michelangelo. La terza – rilevantissima – è quella di aver dichiarato (il 14 novembre 2008) formalmente la congruità del prezzo richiesto (che più incongruo non poteva essere). E una delle cose che il processo aiuterà a capire è come questi tre ruoli potessero stare insieme senza macroscopici conflitti di interesse.
Anche Cristina Acidini si è sempre rifiutata di accettare un confronto pubblico sul Cristo ‘di’ Michelangelo e sulle modalità del suo acquisto. La soprintendente ha preferito buttarla in politica, sostenendo che si trattava di accuse politiche della ‘sinistra’ contro Bondi. In effetti, l’unico giornalista che l’ha indefessamente sostenuta è stato Marco Ferri (del «Giornale della Toscana»), il quale ha addirittura pubblicato un libro, con il Cristino in copertina, zeppo di errori ma zelantissimo nella difesa dell’Acidini. La quale avrà tanti difetti, ma non è un’ingrata: da qualche giorno ha nominato Ferri suo portavoce, facendoselo pagare da Opera Laboratori Fiorentini (la controllata di Civita concessionaria dei servizi aggiuntivi del Polo Museale diretto dall’Acidini stessa: alla faccia dei conflitti di interesse).
Ma, soprattutto, la macroscopica e oggettiva responsabilità dell’Acidini è quella di aver sequestrato in cassaforte il Cristino per ben due anni. La ragione di questa clamorosa decisione è stata la paura di polemiche: ma la paura è notoriamente una pessima consigliera. Se l’Acidini fosse davvero convinta di aver comprato un Michelangelo, perché non esporlo in un museo? Chi comprerebbe un tesoro per tenerlo nascosto? E se occultare il corpo del reato fa aumentare i sospetti, negare ai cittadini la vista di un’opera acquistata coi loro soldi non fa che aumentare il danno erariale.
5. Quali sono le responsabilità dell’attuale Sottosegretario ai Beni Culturali, Roberto Cecchi?
Il vero motore decisionale dell’acquisto del ‘Michelangelo’ è stato l’allora direttore generale Roberto Cecchi. È stato lui a imprimere la svolta risolutiva ad una pratica che avrebbe potuto essere archiviata; è stato lui a fissare il prezzo, decidendo di sottrarre oltre tre milioni di euro ad un bilancio già ridotto all’osso; è stato (soprattutto) lui a firmare il decreto di approvazione del contratto di acquisto (l’atto ufficiale e decisivo di tutta la vicenda); è stato lui a difendere vibratamente l’acquisto, firmando il memoriale di risposta all’interrogazione parlamentare. Insomma, la sua presenza negli studi del Tg1 (il 21 dicembre 2008, edizione delle 20) accanto al ministro e alla scultura stessa ha tradotto in immagine un ruolo effettivo.
Se a Cecchi è andata la gloria, sempre a lui si dovrebbe imputare anche la responsabilità di aver condotto la faccenda in un modo che ha aperto le porte alle polemiche (che, alla fine, hanno guastato su scala planetaria la festa michelangiolesca), e soprattutto alle indagini della Corte dei Conti e della Procura di Roma. Il direttore generale, infatti, ha accettato come oggettiva la perizia del venditore (il catalogo del 2004, sdoganato dal parere notarile del Comitato tecnico scientifico), senza coprirsi le spalle con lo straccio di uno studio indipendente; non è riuscito a farsi dire da dove venisse davvero il pezzo (finendo così a girare al pubblico del Tg1 la leggenda della «derivazione fiorentina»); non si è preoccupato di indagare sul perché l ’Ente Cassa di Risparmio di Firenze avesse rinunciato all’opera; ha permesso che a certificare il prezzo fosse la stessa funzionaria che aveva proposto l’acquisto, creando così un macroscopico caso di conflitto di interesse. E, soprattutto, non si è chiesto perché un vero Michelangelo rimanesse per anni a disposizione, ed anzi fosse finito ai saldi, facendosi comprare per un sesto della (già stracciatissima) richiesta iniziale. Ora, in qualsiasi paese civile (financo nello Zimbabwe, avrebbe detto il mitico Mauro Masi) un funzionario che copre di ridicolo il suo Ministero e il suo ministro viene gentilmente invitato a passare ad altro incarico. In Italia, invece, viene promosso al ruolo di onnipotente Segretario generale del medesimo Ministero, e poi fatto sottosegretario in quanto supertecnico in un immacolato governo di tecnici. Salvo comportarsi come il peggior politico berlusconiano, insinuando (grazie ad un compiacente Paolo Conti, sul Corsera del 19 febbraio) che il suo ‘rinvio a giudizio’ presso la Corte dei Conti farebbe parte di una ‘macchinazione’. Nientemeno! Le toghe rosse vogliono abbeverare i loro cavilli nelle cristalline fontane del Mibac!
6. Quali sono le responsabilità dell’ex Ministro dei Beni Culturali, Sandro Bondi?
L’assetto giuridico sottrae in questo caso il ministro in carica al momento dell’acquisto ad ogni responsabilità contabile. Ma Sandro Bondi ha messo con eccezionale entusiasmo la propria faccia nell’operazione e ha strumentalizzato senza ritegno il nome di Michelangelo e l’iconografia sacra dell’opera. Ciò che, poi, si deve attribuire interamente a Bondi e alla sua appartenenza politica è l’ eccezionale amplificazione, anzi la vera e propria trasfigurazione mediatica del nuovo ‘Michelangelo’. Da questo punto di vista, la vicenda ha rappresentato una esemplare applicazione alla storia dell’arte di uno dei principi cardine del berlusconismo: la fede illimitata nel marketing della comunicazione.
La brevissima prefazione di Bondi al catalogo pubblicato in occasione dell’ ostensione del Cristo a Montecitorio, è identica al comunicato stampa con il quale il ministro aveva annunciato e commentato l’acquisto il 12 dicembre 2008, e individua con chiarezza i due poli tra i quali si sarebbe poi mossa la macchina della propaganda: il nome sommo di Michelangelo e la somma sacralità del tema del Crocifisso. Sul primo punto, il ministro scrive: «In un momento delicato e di crisi come quello che stiamo attraversando, è fondamentale dedicare le poche risorse disponibili a progetti e iniziative che abbiano un significato così alto che possiamo consegnare alle generazioni future». È un concetto chiave per comprendere non solo la genesi dell’acquisto del ‘Michelangelo’, ma anche l’intera visione di Bondi: ed è difficile immaginare un concetto altrettanto intrinsecamente sbagliato. Innanzitutto, esso sancisce una resa incondizionata e senza speranze verso lo scellerato prosciugamento del bilancio dei Beni Culturali, che proprio sotto il quarto governo Berlusconi è arrivato a record inimmaginabili.
È in questo contesto che Bondi arrivò a teorizzare che la risposta a un simile disastro potesse essere la concentrazione delle poche energie residue su opere ed eventi tanto celebri e illustri da assurgere ad un rango simbolico. Un’idea grave non solo perché rivela che l’acquisto del Crocifisso ‘di Michelangelo’ è stato pensato come una foglia di fico enfaticamente posta sull’enorme vergogna dell’abbandono della tutela perpetrato dal governo (da tutti i governi recenti, di destra o di sinistra). Essa è ancor più grave per il valore profondamente diseducativo che rischia di avere su un’opinione pubblica già pericolosamente esposta al rischio di una desertificazione culturale che lascia vivi (ma a questo punto vuoti e muti) solo i nomi di Michelangelo e Leonardo, di Caravaggio e Van Gogh.
7. Cosa c’entra in questa storia Antonio Paolucci?
Moltissimo, quasi tutto: anche se l’attuale direttore dei Musei Vaticani non ha avuto responsabilità burocratiche (e dunque eviterà il processo alla Corte dei Conti), è lui il regista e il motore immobile dell’acquisto pubblico dell’opera. Come Soprintendente di Firenze, nel 2004 egli ‘lanciò’ la scultura ospitandola presso il Museo Horne in una mostra che la presentava, senza se e senza ma, come un Michelangelo e il cui catalogo (da lui sdoganato con una prefazione istituzionale) era di fatto una perizia pagata dall’antiquario che possedeva il pezzo. E quel catalogo (in cui egli stesso sposava l’attribuzione) divenne poi decisivo per l’acquisto pubblico dell’opera.
Il 6 agosto 2007 Paolucci scrisse all’allora ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli consigliandogli «di prendere in seria considerazione l’acquisto» dell’opera, che giudicava «di superba qualità e straordinario interesse». In seguito, e fino a questi giorni, Paolucci ha difeso a spada tratta l’acquisto e la sua pupilla, e successora a Firenze, Cristina Acidini.
8. Cosa c’entra in questa storia Federico Zeri?
Probabilmente niente. Zeri è stato tirato in ballo esattamente dieci anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1998. Un articolo di Antonio Paolucci apparso sull’ «Osservatore Romano» del 16 dicembre 2008 enfatizzava la presunta eccezionalità dell’opera con un titolo audace fino alla blasfemia: “Se non è Michelangelo è Dio”. La frase era tra virgolette perché attribuita proprio a Federico Zeri: ma Paolucci l’aveva ricavata da un articolo del «Giornale dell’arte» del maggio precedente dello stesso 2008, che non cita né fonte né testimoni. Dunque, una patacca nella patacca.
9. Cosa c’entra in questa storia Salvatore Settis?
Evidentemente non avendo migliori argomenti di autodifesa, Roberto Cecchi sta cercando di appollaiarsi sulle spalle dei ‘padri della patria’ della storia dell’arte: in un’intervista al Corriere della Sera (19 febbraio 2012) ha ripetuto il mantra di Zeri, e ha tirato fuori dal cassetto una email di Settis del novembre 2008, in cui l’allora presidente del Consiglio Superiore dei Beni culturali definiva «ottima» la decisione di acquistare un Michelangelo.
Nella sua replica (Corsera del 20 febbraio), Settis ha chiarito che questa «è una citazione irrilevante. Durante la mia presidenza il Consiglio Superiore non ha mai, neppure per un secondo, parlato del Crocifisso (lo fece invece il Comitato di Settore per la Storia dell’arte): è dunque evidente che non posso aver parlato in nome del Consiglio. Né posso aver fatto attribuzioni, e non solo perché non sono un esperto di scultura del tardo Quattrocento, ma perché non ho mai visto (ad oggi) quel crocifisso, e non ho l’abitudine di esprimere pareri senza aver visto. La verità è molto più semplice, anzi banale; e ringrazio Cecchi per aver citato la data dalle mia email (18 novembre 2008), che aiuta a ricostruire il contesto.
Era allora in corso un durissimo scontro con l’allora ministro Bondi: egli tacque quando il bilancio del suo ministero subì un taglio pesantissimo di oltre un miliardo, ma si agitò quando io ne scrissi sul Sole-24 ore del 24 luglio 2008; il sottosegretario Giro ed altri mi invitarono allora alle dimissioni, che Bondi respinse. Ma la gravità della situazione mi spinse a intervenire ripetutamente nei mesi successivi, con alcuni articoli su Repubblica, uno su Die Welt e numerose interviste, in Italia e fuori. […] È in questo clima polemico che Cecchi, senza darmi particolari né sulle procedure né sul prezzo, mi chiese “abbiamo i soldi per comprare un probabile Michelangelo, che ne pensi?”. In quel contesto, c’era un solo senso possibile: verificare se avrei criticato il Ministero, magari sui giornali, perché, in tempi di magra, non destinava quei soldi altrimenti. E la mia risposta aveva un solo senso possibile: la convinzione che, anche in tempi di magra, un buon acquisto può essere un segnale positivo. Nessuna implicazione di tipo istituzionale, né tanto meno attributivo. Non potevo allora immaginare gli inquietanti retroscena che avrebbe più tardi rivelato Tomaso Montanari nel suo A cosa serve Michelangelo?».
10. Perché questa è una storia davvero importante?
La vicenda del finto Michelangelo acquistato dal governo Berlusconi è una metafora perfetta del destino dell’arte del passato nella società italiana contemporanea: raccontarla significa parlare del potere del mercato, dell’inadeguatezza degli storici dell’arte, della cinica manipolazione dei politici e delle gerarchie ecclesiastiche, del sistema delle mostre, del miope opportunismo dell’università e della complice superficialità dei mezzi di comunicazione. La storia del finto Michelangelo insegna che l’amore per l’arte può essere distorto e strumentalizzato fino a diventare un potente vettore di diseducazione, imbarbarimento e mistificazione.
Se vogliamo che Michelangelo non serva solo agli interessi di un pugno di cinici registi del pubblico intrattenimento, ma torni ad essere necessario alla vita interiore di ciascuno di noi, dobbiamo ricominciare a raccontare la storia dell’arte. Quella vera.
L’orgoglio di ieri si è trasformato in imbarazzo. Dopo le presentazioni di rito e un breve tour propedeutico all’applauso del pubblico pagante, il presunto Cristo ligneo di Michelangelo giace in una cassaforte del Polo museale fiorentino.
Blindato e nascosto alla vista nonostante non valga che poche migliaia di euro (per Christie’s ne varrebbe 60.000) e per accaparrarselo (non senza echi flaianei che rimandano alla vendita della Fontana di Trevi a Girolamo Scamorza in “Totòtruffa”) lo Stato italiano avesse sborsato nel 2008 oltre 3 milioni.
Un acquisto perorato dal sottosegretario ai Beni culturali Roberto Cecchi che rinviato a giudizio dalla Corte dei conti per danno erariale, grida al complotto e si difende. Riceve l’abbraccio mortale del ministro di allora, Sandro Bondi, che rivendica la “bontà dell’operazione” e lamenta “accanimento”.
Parla di “situazione indecente” Cecchi, sostenendo che la stessa Corte avesse fornito “legittimità all'acquisto registrando il contratto relativo”, ma dimenticando di rimarcare come ciò accada, per obbligo e senza alcuna valutazione nel merito, per ogni singola acquisizione statale. Al ministero sono in difficoltà e il titolare di ruolo, Lorenzo Ornaghi, impegnato ieri nel Concistoro, ha vissuto con il suo vice un déjà-vu che sta diventando regola.
Il caos del Mibac è senza argini, stride con il basso profilo imposto da Monti e nonostante il cambio d’abito, somiglia alle ultime discutibili gestioni berlusconiane. Ornaghi non ha capito dove si trova, ma regge un dicastero inclinato come la Costa Concordia. Una falla al giorno da coprire, mentre l’aria, pesante, è ammantata da spifferi, fughe di notizie e faide.
Prima il buco del presidente del Consiglio Superiore, il professor conte Andrea Carandini, colto ad autorimborsarsi per quasi 300.000 euro il restauro del castello di famiglia senza aprirlo al pubblico come legge pretenderebbe. Quando L’Espresso e Saturno tirano fuori l’aristocratica manfrina, Ornaghi è costretto a emettere un sofferto comunicato in cui ribadisce a Carandini la sua fiducia.
Parole che gli valgono un’inaudita reprimenda del Pd: “Spiace davvero – dichiara Orfini – che Ornaghi abbia deciso di coprire comportamenti che umiliano la storia del ministero che è chiamato a dirigere”.
Poi Cecchi. Nonostante non gli avesse concesso le deleghe, in un empito di ecumenismo, Ornaghi aveva deciso di fargli nominare il nuovo direttore generale delle Belle arti e del Paesaggio. Il candidato più autorevole sarebbe stato Gino Famiglietti, coautore del Codice dei Beni culturali. Famiglietti fu rimosso dalla posizione di vice capo dell’ufficio legislativo del Mibac e spedito a Campobasso perché si oppose allo svincolamento di un mobile settecentesco voluto da Cecchi e costata al sottosegretario un procedimento giudiziario concluso con un’archiviazione per abuso d’ufficio. In Molise, Famiglietti non si è dato per vinto, e ha ingaggiato una dura battaglia contro gli insediamenti delle pale eoliche.
Alla fine dello scorso novembre, “Italia Nostra” ha assegnato proprio a Famiglietti il premio Umberto Zanotti Bianco: sorta di Nobel italiano della tutela. Un candidato lontano mille miglia dal modello Cecchi che al suo posto, infatti, nomina Maddalena Ragni. Da responsabile della Direzione generale per i beni culturali e paesaggistici della Toscana, Ragni era salita all’onore delle cronache per lo spostamento (qualcuno insinua la distruzione) di un’area archeologica che avrebbe ‘intralciato’ la realizzazione di un capannone industriale della Laika.
Carandini, Cecchi, gli scandali. Questo il panorama del Mibac, questo lo specchio poco letterario in cui Ornaghi è costretto a osservarsi ogni giorno. Invece di Dorian Gray, nell’immagine riflessa, ad alcuni sembra di intravedere la sagoma di Sandro Bondi.
Paolucci. Il regista dell’operazione
L’epilogo della farsa del finto Michelangelo rigetta i media nella nostalgia. Repubblica data (posticipandola di sei mesi) l’ostensione del legnetto al Tg1 all’era Minzolini. Ma il capolavoro è l’intervista, sempre allo stesso giornale, dell’attuale direttore dei Musei Vaticani, Antonio Paolucci. Ma Paolucci fu il vero regista dell’operazione: da soprintendente di Firenze infatti, organizzò il lancio dell’opera. Sublime la conclusione: Paolucci non “vede come un giudice contabile possa esprimersi su un’analisi storico-artistica”. Apprendiamo così che per Paolucci non esistono pareri tecnici sindacabili o consulenze terze: padrone in casa propria, perché la storia dell’arte è zona franca. Che l’ex ministro dei Beni culturali cominci a confondere l’Italia e il Vaticano?
Nel 2008 Roberto Cecchi volle e ottenne l'acquisto di un falso dell'artista italiano producendo un danno erariale al ministero di oltre tre milioni di euro per un prodotto fatto in serie. Furioso il ministro, ma il suo vice, per ora, resta al suo posto.
Secondo Roberto Cecchi, cattoarchitetto dalle trame celesti, mancato ministro e infine sottosegretario senza deleghe ai Beni culturali del governo Monti, il presunto cristo ligneo di Michelangelo, fatto acquistare su sua pressante insistenza allo Stato per la cifra di 3. 250. 000 euro nel 2008, è una scultura che “può essere facilmente trasportata, senza dare tutti quei problemi di conservazione che altre opere pongono”. La Corte dei conti gli ha dato ragione, trasferendo i quaranta centimetri del crocifisso dai depositi del Polo museale fiorentino alle aule di tribunale e rinviando a giudizio Cecchi ed altre quattro persone per “danno erariale”.
Secondo molti studiosi il Cristo altro non era che un prodotto seriale del valore di poche migliaia di euro. Cecchi si battè per farlo comprare al Mibac (la proposta venne accettata a sole 24 ore dall’offerta) e oggi si ritrova nei guai per un’opera che rischia di rivelarsi una crosta pagata circa 150 volte il suo reale valore. Ancora una volta il professor Roberto Cecchi è oggetto di attenzioni e approfondimenti non esattamente accademici. E la sua posizione nell’esecutivo tecnico, foriera di imbarazzi non cattedratici.
Dopo gli scivoloni di Bondi e Galan, altre ombre, non solo economiche sull’istituzione. Dicono che ieri sera il ministro Ornaghi fosse furibondo per l’ennesimo non commendevole faro acceso sul suo collaboratore. Che attendesse un gesto di buona volontà o una mossa di Cecchi che – giura chi lo conosce – non verrà né oggi né domani. Niente dimissioni per Cecchi (neanche se consigliato in tal senso) perché fanno sapere dal ministero: (“somiglierebbero a un’ammissione di colpa”). La parola per Cecchi è eretica e le stanze del collegio romano non somigliano per nulla a quelle inflessibili della Germania. Dopo l’apertura di un fascicolo in Procura a Roma sulle curiose modalità di cessione del restauro del Colosseo a Diego Della Valle, la scoperta di una serie di lettere firmate nel 2006 (quando era direttore generale dei beni architettonici e paesaggistici) volte a far ottenere al suo editore Armando Verdiglione denaro dal Mibac per il restauro di Villa San Carlo Borromeo e una sofferta archiviazione con proscioglimento per abuso d’ufficio su un vincolo fatto togliere a un mobile settecentesco, Cecchi è ancora in piedi.
Trasversalmente appoggiato dal Pd e dal Terzo Polo, ben visto dal Quirinale (ottimi rapporti con Carandini) Cecchi in queste ore riflette. In attesa che la Corte dei Conti proceda, essere eucaristici sul Cristo ligneo di Michelangelo è affare complicato. Il sottosegretario Cecchi non si limitò infatti a firmare le carte. Pretese, ottenne e interpretò la parte del prim’attore. Fu lui a imprimere la svolta decisiva ad una pratica che avrebbe potuto essere archiviata e ancora lui a fissare il prezzo, decidendo di sottrarre oltre tre milioni di euro ad un bilancio già ridotto all’osso. Cecchi difese con vigore l’acquisto, firmando un aggressivo memoriale di risposta all’interrogazione che un anno più tardi portò in Parlamento una polemica a tinte grottesche che già divampava sui giornali di tutto il mondo.
La Corte dei Conti si è concentrata sulla valutazione che Cecchi dette alla perizia del venditore (la definì oggettiva) e sul catalogo di vendita del Cristo (incomprensibilmente sdoganato come attendibile e autorevole da un passivo Comitato tecnico scientifico). Senza che l’attuale sottosegretario pensasse a coprirsi le spalle con lo straccio di uno studio indipendente.
Nell’operazione, tra buchi e omissioni, i misteri del caso. Cecchi non riuscì a farsi dire da dove venisse davvero l’opera (finendo così per girare al pubblico del Tg 1 l’ipotesi della “derivazione fiorentina”: mentre il Cristo proveniva dagli Stati Uniti, dove era stato acquistato per diecimila euro). Inoltre non si preoccupò di indagare sul perché l’Ente Cassa di Risparmio di Firenze avesse saggiamente rinunciato all’acquisto pochi mesi prima e permise che a certificare il prezzo fosse Cristina Acidini, la stessa funzionaria che aveva proposto l’acquisto, creando così un macroscopico caso di conflitto di interesse. Soprattutto, non si chiese Cecchi, perché un vero Michelangelo rimanesse per anni a disposizione ed anzi fosse finito ai saldi, facendosi comprare per un sesto della (già stracciatissima) richiesta iniziale (18 milioni) posta all’allora ministro Rutelli che rifiutò sdegnato. Oggi, in luogo di un artista, ad essere crocifisso è Cecchi e la sua idea di un ‘ Michelangelo portatile ’ adatto all’industria delle mostre commerciali che promuovono soprattutto chi le organizza. Cecchi, Il supertecnico che intervistato dal Corsera qualche giorno fa ha dichiarato di considerare suo nemico mortale Italia Nostra, la principale associazione per la difesa del patrimonio e del paesaggio italiani, della macchina delle mostre blockbuster è spassionato sostenitore. Non è detto che tra qualche mese, da privato cittadino, non possa promuoverne a pieno titolo.
L’ultimo numero dell’«Espresso» ha rivelato che il Consiglio Superiore per i Beni culturali ha approvato il versamento di 288.973 euro ai proprietari del Castello di Torre in Pietra, a Fiumicino: e cioè al presidente del medesimo Consiglio, il conte Andrea Carandini, e alle sue sorelle. L’aristocratico archeologo ha risposto – noblesse oblige – che non si cura di queste cose, e che dunque non si era accorto che si discutesse di un’elargizione diretta a lui stesso. Se ne fosse accorto – pensa il lettore ingenuo – forse si sarebbe allontanato per qualche minuto dalla presidenza: anche solo per eleganza (gentilizia, se non istituzionale).
Si potrebbe chiudere qua il discorso – magari augurandosi che, di norma, il presidente sia al corrente di ciò che sta discutendo l’organo che presiede – se non fosse che l’«Espresso» ha trascurato la vera sostanza dell’episodio.
Perché lo Stato, cioè tutti noi, dovrebbe elargire una cifra cospicua a un privato non certo indigente per la conservazione di un suo palazzo? La risposta porta diritto al cuore del nostro modello di tutela, ed è che le opere o gli edifici storici non si considerano in base alla loro proprietà, ma al grado del loro interesse culturale. Se un bene è davvero importante (e Torre in Pietra lo è di sicuro, grazie alle opere architettoniche e figurative che racchiude, tra le quali spiccano gli affreschi di Pier Leone Ghezzi) il proprietario deve risponderne alla collettività. Perché, accanto alla proprietà giuridica, esiste una proprietà, costituzionale e morale, ben più ampia: in questo senso, quel bene appartiene a tutta la nazione italiana, la quale dunque può contribuire economicamente al suo mantenimento. Naturalmente, però, questo diverso modo di possedere deve potersi esercitare, nell’unico modo possibile: quel bene, per quanto privato, dev’essere accessibile a tutti. È per questo che l’articolo 38 del Codice dei Beni Culturali impone l’«accessibilità al pubblico dei beni culturali oggetto di interventi conservativi», prescrivendo che «i beni culturali restaurati o sottoposti ad altri interventi conservativi con il concorso totale o parziale dello Stato nella spesa, o per i quali siano stati concessi contributi in conto interessi, sono resi accessibili al pubblico secondo modalità fissate, caso per caso, da appositi accordi o convenzioni da stipularsi fra il Ministero ed i singoli proprietari», e ancora che «gli accordi e le convenzioni stabiliscono i limiti temporali dell’obbligo di apertura al pubblico».
E qui casca l’asino (absit iniuria verbis) perché Torre in Pietra non è visitabile. Se non siete Mara Carfagna (che ha noleggiato il castello, e ci si è sontuosamente sposata), o Silvio Berlusconi (che le ha fatto da testimone) non avete infatti nessuna possibilità di vedere come sono stati spesi i vostri soldi. Sul curatissimo sito internet ( www.castelloditorreinpietra.it ) la voce “visita” si risolve in una galleria di belle fotografie, e mentre abbondano le indicazioni per l’affitto, non c’è traccia dell’assoluzione dell’obbligo di accessibilità. Volendo approfondire la faccenda, ho chiamato l’amministrazione per ben tre volte, e in giorni diversi, presentandomi come un privato cittadino, come un insegnante e infine come uno studioso di barocco romano e chiedendo quali fossero le modalità per visitare il castello. La risposta è stata sempre la stessa, cortese ma assai stupita: «Il castello è privato – ha capito? Pri-va-to! – e non è visitabile. Ma se le serve per un matrimonio chiami al …».
Quel che sarebbe grave (perché illegale) per ogni cittadino, diventa gravissimo per il presidente del Consiglio superiore per i Beni culturali.
In un paese normale, basterebbe molto meno per dimettersi.
Ma in Italia, dove i ministri comprano case senza saperlo, figuriamoci se il professor Andrea Carandini si sente tenuto ad accorgersi di auto-stanziarsi trecentomila euro, o a sapere se casa sua sia aperta o no ai cittadini che gli elargiscono quella somma. E poi, il pensiero unico ortodosso sul patrimonio culturale non prevede oggi la totale abdicazione dell’interesse pubblico nei confronti degli interessi privati? E il conte Carandini all’ortodossia – comunista o ultraliberista, poco importa – ci ha sempre tenuto.
Il 20 gennaio scorso i funzionari del Comune si sono presentati a Palazzo Venezia chiedendo la documentazione su un piccolo restauro in corso, appena un paio di ponteggi. Gelosissimi delle loro competenze che comprendono la tutela dei beni culturali, i funzionari dello Stato si sono rifiutati e s'è scatenato un parapiglia: nervi tesi, voci stridule che si sovrapponevano, qualche minaccia, torve lettere tra le amministrazioni. È il primo frutto avvelenato del decreto attuativo sulla legge per Roma Capitale, che affida al Campidoglio funzioni nella valorizzazione e, tremate!, anche nella tutela dei Beni Culturali. Così, a dispetto delle leggi e della Costituzione repubblicana, il sindaco oltre che sulla città potrà allungare le mani anche sulla archeologia, l'arte, i monumenti: ovvero il nostro patrimonio più importante e prezioso.
DECRETO FUORI LEGGE. Redatto dal precedente esecutivo, approvato il 21 novembre scorso nella prima riunione operativa del Consiglio dei ministri del governo Monti, e ora in via di conversione in legge, il decreto contiene diversi profili discutibili. All'articolo 1 viene «istituita un'apposita sessione della Conferenza Unificata tra Roma Capitale (il Comune), lo Stato, la Regione Lazio e la Provincia». Gli articoli 2 e 4, attribuiscono alla Commissione competenze nella «valorizzazione.... anche ai fini del rilascio di titoli autorizzatori, nulla osta e pareri preventivi nell'ambito di procedimenti amministrativi concernenti beni culturali presenti nel territorio di Roma Capitale». Nella sostanza i rappresentanti del Sindaco potranno mettere bocca dall'orario dei musei dello Stato fino al rilascio delle licenze per costruire in zone di interesse archeologico, artistico o architettonico. Si tratta di una della funzioni fondamentali della tutela, che la Costituzione, articolo 117, affida all'esclusiva potestà allo Stato, vale a dire al Ministero dei Beni Culturali. Anche il Codice per i Beni e le Attività Culturali (D. Lgs. 42/2004) ribadisce che il Mibac ha «le funzioni di tutela sui beni culturali», estendendole a scanso di equivoci a tutti gli interventi che coinvolgono beni pubblici o privati. Eppure qualcuno ha voluto equivocare. Ma c'è di più: è assai discutibile che una conferenza possa emettere autorizzazioni o pareri sull'impatto ambientale.
A tutela dei cittadini, la Legge 241 del '90, prescrive tassativamente per ogni procedimento di individuare un'amministrazione competente e uno specifico responsabile — persona fisica. Una sessione della Conferenza per Roma Capitale non è, né potrà mai essere, un'amministrazione competente o una persona fisica da individuare come responsabile. Il decreto, insomma, appare in palese contrasto con la Costituzione e con la legge. In palese contrasto con la Costituzione e con la legge, il decreto in definitiva crea evidenti problemi — di fronte a un ricorso contro un'autorizzazione chi ne risponde, una conferenza? —, per non parlare dei conflitti d'interesse: i lavori del Comune di Roma li autorizza il Comune di Roma! Dulcis in fundo: i beni ecclesiastici sono esclusi da un provvedimento tanto singolare. «Orate fratres»: ecco i privilegi «a divinis». Pretesa dall'attuale Sindaco di Roma Alemanno, lasciata in eredità dal precedente governo Berlusconi all'attuale di Monti, questa normativa contiene tali e tanti punti controversi che avrebbe meritato una più seria e pacata discussione parlamentare invece d'essere approvata frettolosamente come decreto legge, peraltro l'ultimo giorno utile prima della decadenza del provvedimento. Gli interessi in gioco sono enormi e, per fare qualche ipotesi d'attualità, Alemanno avrebbe un paio questioncelle da risolvere. A cominciare dal parcheggio sotto via Ripetta, cui il sindaco tiene tanto e che dovrebbe sorgere in un terreno sovraccarico di antiche e importantissime vestigia, che fino a oggi hanno imposto di negare qualsiasi autorizzazione.
E poi i lavori per le pretese Olimpiadi, gli scavi della Metro (dai costi triplicati col sindaco che dà la colpa agli archeologi, che hanno semplicemente svolto il loro lavoro e con estrema puntualità), e tanti altri appetiti che si scatenano mangiando. Ma al di là del fatto che oggi in Campidoglio ci sia Alemanno, d'ora in avanti e per sempre questo decreto prevede che Regione, Provincia e Comune — amministrazioni antonomisticamente soggette, per non dire sensibili, a pressioni più o meno limpide —, decidano sul nostro patrimonio. E questo attraverso la sessione di una Conferenza che rischia di restare in bilico fra una trincea di veti incrociati e un mercato delle vacche. Il 21 febbraio scadono i termini per la conversione in legge di questo decreto.
Iniziative
Se ne discute:
L'associazione obiettivo comune organizza per questo lunedì una discussione pubblica sul secondo decreto per Roma Capitale. L'appuntamento è presso il Tempio di Adriano, piazza di Pietra (www.obietttivocomune.it).
Appello per l'incolumità della cappella degli Scrovegni
L’appello per l’incolumità di uno dei massimi monumenti dell’arte italiana, la Cappella degli Scrovegni a Padova è stato promosso da Alessandro Nova, Steffi Roettgen e Chiara Frugoni (massima studiosa della cappella) ed è stato scritto da questa ultima.
Chi volesse sottoscriverlo, può mandare un’email al professor Sergio Costa: gs.costa@alice.it
Gli affreschi di Giotto della Cappella Scrovegni a Padova corrono il rischio di essere distrutti perché la delicatissima situazione idro-geologica sottostante sarà modificata inesorabilmente dalla progettata costruzione di un Auditorium a meno di 200 metri dalla cappella. Nella stessa zona esiste anche il progetto di un grattacielo di 104 metri ed è stato appena ultimato un parcheggio, cioè una vasta cementificazione che ha modificato l’assorbimento delle piogge nel terreno.
I risultati di uno studio affidato dal Comune nel 2011 a tre ingegneri sulle possibili conseguenze che la costruzione dell’Auditorium avrebbe sull’area circostante, sono possibilisti, ma segnalano che la falda profonda dell’area Auditorium è in collegamento con quella della Cappella. E’ evidente che non si può affidare a un progettista di una nuova opera la salvaguardia dell’ambiente né affidargli il verdetto sulla possibilità che l’Auditorium danneggi la Cappella, nell’immediato o negli anni futuri.
Chiediamo che prima che inizi la costruzione dell’Auditorium, si realizzino opere di massima salvaguardia del sottosuolo della Cappella, possibilmente a seguito di un concorso internazionale.
Quanto valgono gli affreschi di Giotto, rispetto ai vantaggi portati dalle nuove costruzioni? Non lasciamo soli i padovani a discuterne il prezzo, perché non c’è prezzo.
Chiara Frugoni
Francesco Aceto
Roberto Bartalini
Francesco Caglioti
Laura Cavazzini
Keith Christiansen
Maria Monica Donato
Vittorio Emiliani, per il Comitato per la Bellezza
Julian Gardner
Carlo Ginzburg
Maria Pia Guermandi, per Eddyburg
Donata Levi, per PatrimonioSos
Franco Miracco
Tomaso Montanari
Alessandra Mottola Molfino, per Italia Nostra
Alessandro Nova
Titti Panajotti, per Italia Nostra Padova
Giuseppe Pavanello
Antonio Pinelli
Giuliano Pisani
Serena Romano
Steffi Roettgen
Salvatore Settis
Giovanna Valenzano
Bruno Zanardi.
"Gli affreschi di Giotto minacciati dall'auditorium" l'appello che divide PadovaDario Pappalardo -la Repubblica
«Gli affreschi di Giotto sono in pericolo». A Padova, il progetto di costruzione di un auditorium a 200 metri dalla Cappella degli Scrovegni mette in allarme Italia Nostra e un gruppo di storici e intellettuali - da Salvatore Settis a Carlo Ginzburg - che lanciano un appello per scongiurare l'avvio dei lavori. «La delicatissima situazione idrogeologica sottostante al luogo che contiene gli affreschi del Trecento sarà modificata inesorabilmente», dicono. Il disegno dell'architetto austriaco Klaus Kada prevede la realizzazione di un enorme cubo bianco nell'area di piazzale Boschetti: una casa della musica con una sala grande di 1300 posti, che affaccerebbe direttamente sul Piovego, il canale cittadino, alle spalle della Cappella degli Scrovegni. Negli ultimi mesi, il Comune ha affidato a tre ingegneri un'indagine sulle eventuali conseguenze della nuova costruzione. Il responso è che l'edificazione del’auditorium sarebbe possibile «purché non vengano modificate le quote locali della falda acquifera nell'area degli Scrovegni». Nello spazio di qualche centinaio di metri, intanto, è stato appena realizzato un parcheggio, mentre è già aperto il cantiere per un grattacielo che supererà i 104 metri.
«Gli affreschi di Giotto rappresentano il principale patrimonio identitario, culturale ed economico della città. Chi arriva a Padova viene per lo più per visitarli. Non saremmo mai così suicidi da metterli in pericolo», spiega il vicesindaco di Padova Ivo Rossi. «Abbiamo speso 300 mila euro per affidare l'esame ai tre saggi. Faremo ulteriori valutazioni, la nostra attenzione sarà massima. Il progetto dell'auditorium non è stato ancora assegnato: se dovessimo scoprire che ci sono problemi, saremmo pronti a modificare i nostri propositi. Padova vanta una lunga tradizione musicale e ha bisogno di uno spazio di questo tipo. In Italia, spesso, si rischia di restare fermi e di non concretizzare nulla».
Se anche Facebook è in fermento - il gruppo KADAstrofe (che gioca col nome dell'archistar Kada) diffonde la protesta sul social network - storici e intellettuali non si sentono rassicurati dall'esito delle indagini commissionate dal Comune di Padova. «La situazione idrogeologica della Cappella è già molto fragile e la falda profonda dell'"area auditorium" risulta in collegamento - spiega la storica Chiara Frugoni, tra i principali promotori della raccolta di firme a cui ha aderito anche il veneto Franco Miracco, consigliere del ministro dei Beni culturali Ornaghi. Nel 2009 si denunciò che il terreno intorno non era in grado di assorbire l'acqua piovana e si creavano ristagni. È facile capire quale pericolo l'acqua rappresenti per le pitture. Chiediamo che prima che inizi la costruzione dell'auditorium si realizzino opere di massima salvaguardia del sottosuolo della Cappella, possibilmente a seguito di un concorso internazionale». Dal Comune ribattono: «I controlli alla falda acquifera degli Scrovegni sono costanti. Vengano pure a controllare la documentazione. Si tratta di un falso problema: fino agli anni Cinquanta, e quindi per 700 anni, prima che si intervenisse, il fiume che scorre lì vicino aveva un regime diverso. Quando c'erano le piene, la Cappella si trovava sempre con l'acqua che la lambiva, per fortuna, però, gli affreschi si sono conservati».
L'auditorium della discordia per ora rimane un progetto nel cassetto. Al di là delle contestazioni, mancano ancora i finanziamenti. Il costo dei lavori si aggira attorno ai 60 milioni di euro. La Fondazione Cassa di Risparmio aveva stanziato prima 55 milioni, poi 35. Adesso la situazione è ferma. E dal Comune non escludono di pensare presto a soluzioni alternative.
A partire dal luogo dove far sorgere la casa della musica. Magari un po' più lontano dagli affreschi di Giotto, che quest'anno festeggiano il decennale del loro restauro, conclusosi nel 2002
L'intervista - a Salvatore Settis
«In duecento anni, è la seconda volta che la zona in cui si trova la Cappella degli Scrovegni, viene messa in pericolo per ragioni di guadagno». L'archeologo e storico dell'arte Salvatore Settis, tra i primi firmatari dell'appello contro la costruzione dell'auditorium di Padova, si riferisce a quando, nel 1827, gli ultimi eredi, i Gradenigo, fecero abbattere Palazzo Scrovegni, bisognoso di restauri, e minacciarono di fare lo stesso con la Cappella attigua. Dopo anni di contesa, l'aggressione fu sventata con la vendita della piccola chiesa al Comune di Padova, nel 1880. «Quella distruzione è ancora da risarcire», dice ora Settis.
Professore, perché non si deve costruire l'auditorium? «In primo luogo per il problema di natura idrogeologica che comunque esiste: anche se il rischio fosse solo dell'1 per cento, bisogna fermarsi. Occorre sempre prendere per buona la valutazione più allarmistica: se un aereo "potrebbe" cadere, io non lo prendo. Stiamo parlando di Giotto».
E la seconda ragione? «Non si deve cambiare la funzione storica di quell'area, ma rispettarla. A un passo ci sono anche gli Eremitani con le pitture di Mantegna. Adesso, oltre a un parcheggio, e ad altra cementificazione, si procede alla costruzione di un grattacielo. Tutto questo mi sembra perverso e non è degno della città di Padova».
Insomma, la zona va lasciata così com'è... «C'era un progetto di dedicare tutta quell'area al verde pubblico. Ecco, sarebbe il giusto modo per riparare a quel danno di quasi due secoli fa».
Ci si attendevano dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali segnali di novità, di discontinuità, che invece tardano ad arrivare. Ve ne sono semmai di segno contrario. E' di pochi giorni or sono la nomina di una "amministrativa", peraltro stimata, Maddalena Ragni, alla direzione generale che da qualche anno accorpa, nientemeno, i Beni artistici e storici e quelli architettonici. E' la prima volta dalla più recente riforma del MiBAC che viene nominato un dirigente di estrazione amministrativa. Gli storici dell'arte - un tempo colonna portante del Ministero - sono come scomparsi dal suo vertice. A Roma, dopo anni di commissariamento, è ancora da coprire il posto di titolare della Soprintendenza speciale di Roma e Ostia Antica che tutela a fatica decine di migliaia di ettari. E' di due giorni fa il documento degli archeologi romani che chiedono direttamente al ministro Ornaghi di nominare al più presto il nuovo soprintendente "fra gli archeologi di più alta professionalità tecnico-scientifica". Perché? Perché voci fondate darebbero infatti per favorito al Collegio Romano un architetto e non un archeologo. Per ragioni che con la professionalità non hanno molto a che vedere. Forse perché gli archeologi della Soprintendenza romana - i quali reclamano anche assunzioni di personale qualificato e lo sblocco di 32 milioni di euro già stanziati - avevano coraggiosamente protestato contro un commissariamento molto discusso.
C’è un modo radicale di risolvere l’annosa disputa (tornata d’attualità col pasticcio del Colosseo) sul ruolo dei privati nella gestione del patrimonio storico e artistico pubblico: alienarglielo direttamente. Voleva farlo il governo Berlusconi, ora lo stanno facendo, alla spicciolata e lungo tutta la Penisola, enti di ogni tipo e di ogni colore politico.
A Venezia il Comune vende a Miuccia Prada un pezzo pregiato del Canal Grande: Ca’ Corner della Regina. Una sorta di versione radicale della privatizzazione della Punta della Dogana, ceduta (temporaneamente) al bilionario Pinault. Si potrà discutere all’infinito su chi possa garantire la miglior tutela e il miglior godimento del palazzo (se, cioè, il ricchissimo privato o il comune sempre in bolletta): ma bisogna sottolineare che il Comune ha usato i 40 milioni di Prada per risanare il bilancio ordinario, non per realizzare qualcosa di durevole (un asilo o un ospedale, per esempio). In altri termini, la generazione presente decide di sottrarre a quelle future un bene comune per ricavarne un fuggevole beneficio una tantum.
A Parma l’Ospedale Vecchio, fondato nel 1476 e di proprietà del Comune, è stato affidato a un’impresa locale attraverso lo strumento del project financing, che prevede l'affidamento al privato del 44% della struttura per ventinove anni. Il risultato è che si pensa di realizzarci un albergo e un centro commerciale, mentre l’Archivio di Stato di Parma, ospitato dall'ultimo dopoguerra nell'Ospedale, è stato trasferito in periferia e la Biblioteca Civica giace pressoché abbandonata.
A Firenze, lo strombazzatissimo Anno Vespucciano (cioè le celebrazioni per il quinto centenario della morte di Amerigo Vespucci) si apre in modo tragicomico con la notizia che l’Ospedale di San Giovanni di Dio, cioè la viva eredità della famiglia Vespucci a Firenze, è stato venduto (con tutte le opere d’arte e le testimonianze storiche che contiene) dalla Asl ad una società privata. Nell’anno 1400 Simone Vespucci, il prozio di Amerigo, dispose in testamento che tutte le sue case di Borgo Ognissanti fossero trasformate in un ospedale, a beneficio della popolazione. La filantropia di Simone si irradia fino al 2012: ma non andrà oltre, perché – in nome di un presente onnivoro – decidiamo di tagliare questo prezioso filo di senso civico che lega il passato al futuro. E anche in questo caso, la Asl non investirà il ricavato in qualche progetto duraturo (magari nel restauro della Villa di Careggi di Lorenzo il Magnifico, che le appartiene e che va in rovina), ma lo userà per ripianare il bilancio ordinario, sommando danno a danno.
Sempre a Firenze, la Facoltà di Architettura sta vendendo a privati il Palazzo San Clemente «il quale – scriveva Giorgio Vasari nel 1568 – per ricchezza di diverse varie fontane … non ha pari in Fiorenza, né forse in Italia». Risulta che la destinazione d’uso potrebbe cambiare radicalmente: da sede dei Dipartimenti di Costruzioni e Restauro, e di Urbanistica e Pianificazione del Territorio (nonché di buona parte della biblioteca e di alcuni importanti archivi storici), a sede di un albergo di lusso. E cioè: da luogo dove si impara a tutelare e conservare l’architettura del passato, ad architettura essa stessa stravolta e violata per essere suddivisa in camere. E ancora: da luogo dove si studia la più virtuosa distribuzione dei nostri preziosi spazi storici, a spazio esso stesso privatizzato; da luogo votato al reddito culturale collettivo, a luogo deputato a produrre reddito monetario privato.
A Pisa è l’Ospedale dei Trovatelli, praticamente in Campo dei Miracoli, ad essere venduto con tutti i suoi beni. Il 16 dicembre scorso l’asta (24 milioni di base) è andata deserta, e alla prossima il complesso (che appartiene alla Asl) verrà battuto con un ribasso del 10%, per poi passare alla trattativa privata. La probabile trasformazione in albergo potrebbe mettere a rischio lo splendido edificio e le opere che contiene, tra cui la ruota cinquecentesca su cui venivano esposti i bambini, ricollocata all'interno. Continuiamo a scendere: in Lazio il Comune di Priverno (Pd) ha appena messo in vendita l’edificio nel quale è ospitato il Museo Medievale di Fossanova, che è l’antica foresteria della gloriosa Abbazia in cui è morto san Tommaso d’Aquino. Il destino del museo è probabilmente quello di tramutarsi in un ristorante, e per ottenere una deroga al vincolo della legge regionale attraverso cui è stata finanziata la realizzazione del museo si dovranno esporre altrove le opere: dove, ancora non è dato saperlo.
Concludiamo, in gloria, nella Campania in cui tutto è possibile. Va in vendita il Casino reale di Carditello, una delle residenze extraurbane preferite da Carlo di Borbone e Ferdinando IV, decorata da artisti come Philipp Hackert e Fedele Fischetti e già centro di una complessa azienda agricola, ma oggi teatro di spettacolari discariche di monnezza. Carditello appartiene al Consorzio di bonifica del Volturno, che è indebitatissimo nei confronti del Banco di Napoli, cioè di Banca Intesa: nel prossimo marzo il complesso sarà battuto all’asta, se la Regione Campania non troverà 9 milioni di euro.
Si potrebbe continuare a lungo, fino a disegnare una mappa della inarrestabile trasformazione che, convertendo la ricchezza del popolo italiano in ricchezza privata, inverte un secolare processo di civilizzazione.
E il messaggio di quella mappa è chiarissimo: la recessione economica sta diventando regressione culturale.
L’intervista del neo-ministro per i Beni Culturali, Lorenzo Ornaghi, comparsa ieri sul “Corriere della Sera” contiene punti e spunti interessanti. Vi sono tuttavia taluni temi strategici della tutela sui quali sarebbe utile conoscere il suo più che autorevole parere: 1) nell’intervista si parla dei piani-casa (per lo più orrendi) voluti da Berlusconi e solo in parte corretti, non c’è notizia invece dei piani paesaggistici che MiBAC e Regioni dovrebbero avere già redatto da quel dì, e che sono lo strumento fondamentale di difesa dall’aggressione cementizia in atto, per cui la priorità delle priorità è fare il punto su di essi dopo la latitanza dei predecessori di Ornaghi, soprattutto di Sandro Bondi; 2) non vi sono accenni alla grave situazione del personale dei Musei che, senza interventi urgenti, porterà a chiusure sempre più frequenti: qua e là i portoni cominciano a rimanere penosamente, forzosamente sbarrati, magari la domenica; 3) silenzio pure sul rapporto centro-periferia che da anni ormai inceppa i meccanismi della tutela: Ornaghi non ne porta ovviamente colpa di sorta, ma, a fronte della megastruttura centrale, ci sono fior di soprintendenze ancora gestite “ad interim”, e (sono dati recenti forniti dall’arch. Roberto Cecchi oggi sottosegretario) quelle ai Beni Architettonici risultano così sguarnite di personale che, a Milano, ogni tecnico dovrebbe affrontare 79,24 pratiche al giorno…Mi fermo qui: questa è la realtà oggettivamente devastata della tutela dei beni culturali e paesaggistici e ad essa poco lenimento possono apportare i privati, le fondazioni, le associazioni. Su questi tre punti (ma ve ne sarebbero alcuni altri) lo Stato c’è o non c’è. Senza vie di mezzo.
Il ministro ribadisce la volontà di far decollare, coi dovuti paletti, l’operazione-Colosseo. Tutti siamo favorevoli. In chiarezza e con una premessa: il grido “il Colosseo crolla!” è clamorosamente fasullo. Il monumento-simbolo – l’ha chiarito bene la sua direttrice Rossella Rea ad “Ambiente Italia” (Rai3) – è stato “messo in sicurezza” coi 40 miliardi di lire forniti a metà degli anni ’90 dalla Banca di Roma. A cosa serviranno i 25 milioni di euro della Tod’s? L’ha specificato la stessa Rea: a) ripulire con nebulizzazioni i marmi dell’Anfiteatro; 2) rifare le cancellate; 3) togliere l’asfalto dai percorsi interni riscoprendo il travertino originario; 4) creare il Centro Servizi. C’entra tutto ciò con la sicurezza strutturale del Colosseo? Meno di zero. Il monumento “soffre”, questo sì, per le scosse continue del vicino traffico veicolare, anche pesante, e per l’eccesso di “pressione antropica”, cioè di visitatori. Qualcuno vuole eliminare il traffico? Per Alemanno è più facile gridare “al crollo”. Quanto ai 5 milioni di visitatori…se ne vogliono tanti di più.
Sono 1.562 i progetti orfani dell'otto per mille dopo che i 45 milioni a disposizione nel 2011, racimolati con le dichiarazioni dei redditi 2008, hanno preso altre vie rispetto alle quattro (calamità naturali, lotta contro la fame nel mondo, assistenza ai rifugiati, salvaguardia dei beni culturali) indicate dalla legge e per le quali i contribuenti ogni anno scelgono di destinare la loro quota di Irpef allo Stato. Dei progetti rimasti al palo, il 76% riguarda interventi per il patrimonio artistico, il 13% per le calamità, l'8% per la fame nel mondo e il 3% per i rifugiati. E’ dal 2001 che la quota dell'otto per mille da destinare al sociale si assottiglia, anche se mai come l'anno scorso era arrivata a rimanere completamente a secco. La continua decurtazione, operata soprattutto per far fronte alle esigenze dei conti pubblici, ha fatto sì che in undici anni (dal totale 2011) il fondo dell'otto per mille disponesse di 1,2 miliardi, ma in realtà abbia potuto "spendere" solo 510 milioni. Meno della metà. Il resto delle risorse ha preso altre strade.
L'otto per mille nel 2011 ha lasciato a bocca asciutta 1.562 progetti che aspiravano a ricevere una parte dei 145 milioni che i contribuenti hanno destinato allo Stato nel 2008 attraverso la dichiarazione dei redditi. A essere penalizzati sono soprattutto gli interventi nel campo dei beni culturali, che rappresentano il 76% delle proposte arrivate alla presidenza del Consiglio. Seguono, ma a grande distanza, i progetti contro le calamità naturali il 13% delle richieste), quelli contro la fame nel mondo (8%) e, infine, le misure di assistenza ai rifugiati. L'andamento delle richieste presentate entro lo scorso metà marzo alla presidenza del Consiglio e che come ogni anno Palazzo Chigi avrebbe dovuto scremare sulla base dei requisiti dei candidati, per poi predispone il piano di ripartizione, è in sintonia con quanto avvenuto nel passato. Negli ultimi undici anni, infatti, i progetti relativi ai beni culturali hanno sempre rappresentato di gran lunga la maggioranza e questo spiega perché nel periodo 2001-2011 abbiano ricevuto complessivamente oltre 346 milioni di euro, contro i 103 milioni destinati alle calamità naturali, i 48 milioni peri rifugiati e i 18 milioni per debellare la fame nel mondo.
Già nel 2006 e nel 2008 per la scarsità delle risorse - in quegli anni l'otto per mille a disposizione era, in entrambi i casi, di 89 milioni, poi ridotto, per effetto del trasferimento delle finanze ad altre finalità, rispettivamente a 4,7 e 3,5 milioni - alcuni settori erano rimasti a secco. Nel 2006 gli oltre 4 milioni avevano aiutato solo i progetti contro la fame nel mondo, mentre due anni dopo erano state privilegiati i progetti sulle calamità naturali, a cui erano stati trasferiti tutti i 3,5 milioni. Mai, però, si era arrivati a non avere neanche un soldo da destinare alle quattro aree di intervento previste dalla legge. Nel 2011, infatti, i 145 milioni si sono lentamente assottigliati, fino a scomparire del tutto. I primi 64 se ne sono andati a luglio scorso, quando la manovra (il D1 98) ha deciso che quelle risorse servivano a far fronte alle emergenze della protezione civile. A dicembre è stato il sovraffollamento delle carceri a presentare il conto e così il decreto legge m ha dirottato 57 milioni per finanziare l'edilizia penitenziaria. I residui 24 milioni sono caduti sotto le esigenze dei conti pubblici, che per raddrizzarsi racimolano risorse dove ce ne sono. Saldo finale: zero. Poco importa - ma questa è storia che si ripete da anni - che i contribuenti abbiano destinato i soldi allo Stato, piuttosto che alla Chiesa cattolica o alle altre confessioni religiose, per vederli impegnati nel sociale.
D'altra parte è dal 2001 che le risorse dell'otto per mille lottano con le necessità del bilancio statale, bisognoso di reperire finanze. Per esempio, nel 2004 la Finanziaria sottrasse dal fondo dell'otto per mille 8o milioni, che furono in parte utilizzati per ripianare i buchi dei conti pubblici, ma anche per inviare il nostro contingente militare in Iraq e per il Fondo di previdenza del personale di volo. Così che negli ultimi undici anni l'otto per mille ha perso più della metà delle risorse: aveva a disposizione 1,2 miliardi, ma alla fine sono rimasti solo Sto milioni. Di fronte a ciò assume ancora più rilievo la proposta di evitare che la quota del contributo possa prendere strade diverse da quelle previste dalla legge e che i contribuenti si aspettano. Lo stop all'abitudine di svuotare il teso- retto dell'otto per mille è contenuto in un disegno di legge- frutto di un collage di diversi progetti parlamentari - approvato a fine settembre dalla Camera e ora all'esame del Senato. Il Ddl prevede nuovi criteri di ripartizione dei soldi, piano che ora predispone entro fine luglio di ogni anno la presidenza del Consiglio sulla scorta delle indicazioni delle amministrazioni competenti. Secondo la proposta, invece, anche le commissioni parlamentari - che ora hanno solo una funzione consultiva e che in passato si so- no spesso trovate in disaccordo sulla ripartizione operata da Palazzo Chigi - dovrebbero dire la loro su come suddividere i soldi. Sempre che i fondi non vengano dirottati altrove. Ma anche in questo caso il Ddl impone qualche vincolo: lo storno delle risorse può avvenire solo di fronte a esigenze impreviste assolutamente straordinarie.
Siamo alla paralisi: le concessioni per i «servizi al pubblico» sono scadute da anni e le nuove gare, bandite un anno e mezzo fa, si sono arenate. Non rispondono alle esigenze dei musei, non consentono investimenti né guadagni alle imprese, contengono errori e requisiti incongrui per i concorrenti che hanno costretto i Tar di mezza Italia a sospendere o bocciare i bandi. Il Tar del Lazio ha annullato quello per il bookshop del Polo Museale Romano; la Soprintendenza della Calabria ha preferito ritirare il bando per i maggiori musei della Regione; annullata dal Tar la gara per la ristorazione nel Polo Museale Fiorentino (Uffizi, Pitti, Boboli); annullata anche quella per i servizi di biglietteria del Polo Museale Romano; sospeso, a novembre, il bando in Puglia; il Tar della Campania deciderà il 25 gennaio sui servizi di Napoli e Pompei. Uniche gare andate a buon fine: Ravenna e Cerveteri-Tarquinia, alle quali ha partecipato un solo concorrente. Un rosario di bocciature che danno ragione alle tante imprese che hanno ritenuto insostenibili e illegittimi i termini dei bandi. La situazione è di caos e incertezza, i concessionari in proroga garantiscono soltanto i servizi essenziali.
In prima linea, a guidare la rivolta dei concessionari è Confcultura, aderente a Confindustria, che riunisce gran parte delle imprese del settore. Quali sono i punti critici e gli errori di un’operazione sulla quale il Mibac contava molto e che si può ormai dire fallita? Per Patrizia Asproni, presidente di Confcultura, il primo errore è stato quello di suddividere i bandi per specializzazioni: ristorazione, biglietteria, bookshop ecc. Il Mibac ha scartato l’idea dei bandi «integrati», che raccolgano cioè imprese specializzate per gestire insieme i diversi servizi, come avevano raccomandato le due società di consulenza (costate 200mila euro) chiamate dallo stesso Mibac a preparare le linee guida dei bandi. «Il direttore della Valorizzazione Mario Resca ha adottato il metodo “disaggregato” per evitare la concentrazione dei concessionari», spiega la Asproni. Lo scopo dichiarato era cioè quello di «aprire il mercato» dominato da pochi. «Ha ottenuto l’effetto opposto. Le imprese concorrenti sono pochissime, una o al massimo due per sito». Perfino la gara per la ristorazione agli Uffizi, a Boboli e a Palazzo Pitti, una delle più appetibili, ha avuto un solo concorrente e il Tar ha poi annullato la gara. «È la prova, dice ancora la Asproni, che con le gare disaggregate non è possibile bilanciare tra loro spese e ricavi dei diversi servizi e le imprese non possono investire per migliorare i servizi, anche perché la durata della concessione è di soli 6 anni (prima erano 12), troppo pochi per recuperare un serio investimento».
Patrizia Asproni mette poi l’accento sul problema di fondo: i concessionari non possono intervenire nei criteri di gestione dei musei. In primo luogo gli orari di apertura, che sono decisi dal Ministero in maniera spesso non razionale. Altro elemento che soffoca i concessionari: il prezzo del biglietto, deciso dallo Stato senza consultarli. Secondo Confcultura sarebbe necessario lasciare al gestore la possibilità di modulare il prezzo: una politica di incentivi gioverebbe anche al museo, per esempio con sconti in bassa stagione e alle famiglie. Tutto viene invece deciso da commissioni ministeriali. Basti pensare che la percentuale sui biglietti spettante ai privati che gestiscono il servizio è stabilita in anticipo. Per i musei più frequentati è al massimo il 14%, e questo assicura un guadagno, ma nella maggior parte degli altri arriva al 30% e la perdita è garantita: in molti musei con basso numero di visitatori lo sarebbe anche assicurando al concessionario il 100% del prezzo del biglietto. Infatti diversi musei statali hanno scelto di renderlo gratuito. «I concessionari sono ridotti al rango di impiegati, fa notare Patrizia Asproni, eppure non stiamo parlando di “appalti”, ma di “concessioni” e la Cassazione ha stabilito che si tratta di due cose ben diverse. Alle imprese adesso si chiedono “servizi” che devono limitarsi a eseguire. Il principio della concessione è basato invece sul rischio di impresa, e non puoi rischiare i tuoi investimenti se non hai autonomia. Bisogna insomma cambiare il rapporto tra pubblico e privato, stabilire principi di partnership». Certo, questo sistema non funziona e le imprese sono troppo spesso in passivo, non investono, non migliorano i servizi e i musei ne soffrono. La ricetta di Confcultura è drastica: il Mibac è obsoleto. E lancia una proposta politica. «La cooperazione fra Stato, Regioni ed enti locali diventa necessaria per coordinare le iniziative. Il Ministero per i Beni culturali e quello del Turismo sono frammentati. Ci vorrebbe, come in altri Paesi, un Ministero della Cultura che si dedichi alla salvaguardia del patrimonio e allo stimolo della produzione culturale. Le altre competenze, come la gestione, dovrebbero far capo al Ministero per lo Sviluppo economico. Quanto ai servizi al pubblico, conclude Patrizia Asproni, la soluzione è affidare ai privati la gestione diretta dei servizi museali. comprese le decisioni su marketing, orari, personale, prezzi ecc. Naturalmente in accordo e con il controllo delle Soprintendenze in una vera partnership».
Proposte shock ma applicate in molti Paesi stranieri. Quanto ai bandi, sono necessarie decisioni urgenti: vanno ripensati e corretti per uscire dalla paralisi.
Questa telenovela della sponsorizzazione del restauro del Colosseo contiene parecchi passaggi indubbiamente opachi. Intanto non è mai stata pubblicata la convenzione fra Ministero e sponsor Della Valle. Quando la Uil-Bac denunciò, il 4 aprile, alcune ombre, l’allora sottosegretario Giro e l’allora segretario generale nonché commissario all’archeologia romana Roberto Cecchi, oggi sottosegretario, giurarono che avrebbero reso noto quel testo fondamentale entro quindici giorni. Chi l’ha visto? Conosciamo soltanto un testo reso pubblico dalla Uil-Bac e in esso si dice che lo sponsor, in cambio della messa a disposizione di 25 milioni di euro in quindici anni, potrà stampigliare il marchio Tod’s sui biglietti d’ingresso, oggi 5 milioni l’anno, domani di più, per un totale finale di 80-90 milioni, comprati da cittadini di tutto il mondo. E sui tendoni di 2,40 metri che copriranno (per anni) le grandi arcate in restauro, ecc.
Sempre da fonti non ufficiali – dal Codacons che come Uil-Bac ha fatto ricorso – apprendiamo che l’Antitrust distingue in modo molto chiaro fra l’Avviso (cioè il Bando) e l’Accordo intervenuto (cioè la Convenzione, ignota ai più). In base al primo, lo sponsor, oltre che metterci gli euro, doveva caricarsi del completamento dell’attività di progettazione e direzione dei lavori, del coordinamento della sicurezza, dell’appalto a terzi o dell’esecuzione diretta dei lavori. Con l’Accordo, invece, tutto “si risolve nella semplice messa a disposizione di una somma di denaro”, ma, oh sorpresa!, esso “prevede una durata del periodo di sfruttamento dei diritti ben superiore ai limiti introdotti dall’Avviso, pari a due anni oltre il termine della conclusione dei lavori in favore di Tod’s e a 15 anni in favore dell’Associazione” Amici del Colosseo “ai sensi dell’art. 4 dell’Accordo”. Siamo all’abbuffata dei ritorni pubblicitari rispetto agli impegni, soltanto finanziari, nel restauro.
Inoltre – altro rilievo dell’Antitrust – il MiBAC, andata deserta la gara (molto impegnativa) indetta col Bando, “all’indomani della gara” è ricorso alla trattativa diretta “interpellando un numero di soggetti estremamente limitato, senza aver dato adeguata pubblicità al fatto che gli oneri posti a carico dell’eventuale sponsor erano stati sostanzialmente ridimensionati” al solo finanziamento. Chiaro come il sole.
Non so cosa ne dirà il Tar, ma credo che la Corte dei Conti dovrebbe far luce su questo punto nevralgico. L’”Unità” fu uno dei pochissimi giornali a sollevare perplessità in merito l’11 luglio scorso parlando di “convenzione genuflessa”. In generale fu tutto un’“exultate, jubilate”. E adesso si chiede in modo perentorio: ma, allora, volete bloccare i restauri dell’Anfiteatro Flavio che va in pezzi? Poiché il “marchio Colosseo” vale molto di più di 25 milioni di euro in quindici anni e il monumento non sta propriamente crollando, lo Stato deve darsi regole più chiare e comportamenti meno improvvisati. Tutto cioè deve avvenire nel massimo di limpidezza, anche perché, non agendo così, si creano (stiamo parlando di un vero “totem”) precedenti rischiosi. Diego Della Valle fu onesto nella conferenza-stampa: “Non siamo qui per fare beneficenza”. Subito dopo altri gridarono al mecenatismo. Non scherziamo: mecenate è chi dona denari per la cultura senza chiedere nulla in cambio, neppure di essere citato. Come mister Packard ad Ercolano. In fondo in fondo, se l’attuale biglietto d’ingresso fosse stato aumentato di 30 cent con l’indicazione “pro-restauro”, in quindici anni si sarebbero incassati i 25 milioni della sponsorizzazione e forse anche di più. Senza ambiguità, né opacità di sorta.
L'articolo di eddyburg del 2010
«Alla manutenzione, l’Italia preferisce l’inaugurazione». Lo scriveva Leo Longanesi nel 1955, e oggi è ancora più sistematicamente vero.
La morbosa politica ‘culturale’ dei Grandi Eventi rende praticamente inimmaginabile che un ministro o un sindaco trovino conveniente annunciare una campagna di manutenzione ordinaria a tappeto: troppo poco, troppo grigio, troppo umilmente anonimo. Ma il problema è ancora più profondo, e riguarda la mentalità indotta dal consumismo di massa nella sua fase estrema e (chissà) finale: è l’idea stessa della conservazione, della cura quotidiana degli oggetti ad essere uscita dal nostro orizzonte mentale. Se questo è vero per il nostro stesso corpo, lo è ancora di più per il corpo delle nostre città. Non è difficile oggi capire l’ardimento visionario con cui Pippo Brunelleschi pensò la Cupola: difficile è capire l’Opera del Duomo, che incessantemente cura la Cupola e la Cattedrale ogni giorno di ogni mese di ogni anno di ogni secolo. Eppure, senza l’Opera la Cupola non sarebbe né sorta, né tantomeno arrivata fino a noi.
Da un punto di vista culturale, il punto cruciale è la nostra stessa incapacità di vedere il contesto, il tessuto continuo delle nostre città e del nostro Paese. Avendo interiorizzato il modello ‘americano’ (cioè quello di un paese in cui davvero le opere d’arte stanno solo nei musei) pensiamo per antologie, per picchi di qualità, per capolavori letteralmente «assoluti», e cioè sciolti da ogni legame: mostre-ostensioni di singoli feticci, ricerche ossessive di improbabili capolavori perduti (come la Battaglia di Anghiari) in complessi monumentali che lasciamo invece tranquillamente deperire (come Palazzo Vecchio). Ma anche visite iperselettive, teleguidate: quanti entrano in Santa Maria Novella per vedere Giotto e Masaccio, e vi ignorano quasi qualsiasi altra cosa? Quasi che il tessuto monumentale delle nostre città sia un contenitore neutro che diventa visibile solo quando si sfalda: un corpo considerato solo per gli organi pregiati che contiene, e che è possibile espiantare, prestare, far viaggiare, mettere a reddito. In più, quel corpo esteso ha il gran torto di appartenere a tutti e di non poter produrre reddito per nessuno: quindi, letteralmente, sparisce.
Da tutto questo discende l’automatismo per cui la manutenzione, quando va bene, si identifica con il restauro: meglio se spettacolare, e meglio ancora se di un capolavoro «assoluto». E, invece, il miglior restauro è quello che non si fa: che non si fa grazie ad una conservazione programmata e preventiva.
Ma c’è qualcosa di ancora più profondo.
Il crollo della Colonna della Dovizia è simbolicamente avvenuto nella piazza per cui si è prospettato un intervento violentemente ‘modernizzatore’, una terrazza-astronave che sembra progettata apposta per essere rifiutata, quasi per impedire alla radice ogni possibilità di rinnovamento della città. Tra questi due fatti esiste un nesso, e quel nesso è la perdita del senso della storia. La storia non è il «piacere della scoperta» delle trasmissioni televisive, e non è nemmeno la scienza del passato: come ha scritto Marc Bloch, la storia è la scienza degli uomini nel tempo. Quando il grandissimo storico Henri Pirenne giunse a Stoccolma per la prima volta, disse ai suoi accompagnatori: «Cosa andiamo a visitare come prima cosa? Sembra che vi sia un Municipio nuovissimo: cominciamo da lì?». Di fronte allo stupore dei suoi accompagnatori, egli aggiunse: «Se fossi un antiquario, non avrei occhi che per le cose vecchie. Ma io sono uno storico, è per questo che amo la vita».
Firenze non deve scegliere tra saper costruire il proprio futuro e mantenere vivo il suo corpo antico e meraviglioso: è la stessa sfida.
Quella di un vero, autentico, disinteressato amore per la vita.
Appello alla Soprintendente di Firenze Cristina Acidini e al Sindaco di Firenze Matteo Renzi
Desideriamo esprimere la nostra grande preoccupazione per la sorte dell’affresco di Giorgio Vasari in Palazzo Vecchio a Firenze che in questi giorni viene bucato a più riprese nel tentativo di rintracciare quel che potrebbe rimanere della Battaglia di Anghiari di Leonardo.
La dissociazione della dottoressa Frosinini, responsabile del settore pitture murarie presso l’Opificio delle Pietre Dure, ha mostrato che all’interno dell’Opificio stesso non c’è accordo sulla natura e sui rischi di questi interventi.
Riteniamo del tutto improbabile che Vasari abbia sigillato qualcosa di ancora leggibile sotto un muro, e ci preoccupa che siano stati a dir poco sottovalutati i più attendibili risultati della ricerca storico-artistica, i quali mostrano che la Battaglia era con ogni verosimiglianza sulla parete opposta a quella che ora si sta forando.
Condividiamo dunque le ragioni dell’esposto presentato da Italia Nostra alla Procura della Repubblica di Firenze, e chiediamo alla Soprintendente Cristina Acidini e al Sindaco Matteo Renzi di fermare i lavori, e di non riprenderli senza aver insediato un osservatorio terzo, formato da autorevoli specialisti di storia dell’arte del Rinascimento.
Salvatore Settis, accademico dei Lincei
Francesco Caglioti, ordinario di Storia dell’arte moderna, Università di Napoli ‘Federico II’
Tomaso Montanari, professore associato di Storia dell’arte moderna, Università di Napoli ‘Federico II’
Paolo Maddalena, Vice Presidente emerito della Corte costituzionale
Antonio Pinelli, Ordinario di Storia dell'arte moderna, Università degli Studi di Firenze
Alessandro Nova, Direttore del Kunsthistorisches Institut di Firenze
Keith Christiansen, curatore capo della pittura europea, The Metropolitan Museum of Art, New York
Patricia Rubin, Director, Institute of Fine Arts, New York
Elizabeth Cropper, Art Historian
Charles Dempsey, Professor Emeritus, The JohnsHopkinsUniversity
Paola Barocchi, professore emerito di Storia della critica d’arte, Scuola Normale Superiore, Pisa
Desideria Pasolini dall’Onda, Presidente onorario Comitato della Bellezza
Adriano La Regina, Presidente Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte
Mario Torelli, Ordinario di Archeologia e Storia dell’Arte greca e romana, Università di Perugia
Carlo Gasparri, Ordinario di Archeologia e Storia dell’Arte greca e romana, Università “Federico II”, Napoli
Rita Paris, Direttore del Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo, Roma
Maria Pia Guermandi, archeologa, vicedirettore eddyburg.it
Giovanni Losavio, magistrato, Italia Nostra
Vittorio Emiliani, presidente del Comitato per la Bellezza
Chiara Silla, Dirigente Settore Biblioteche, Archivi e Istituzioni culturali della Regione Toscana già direttrice dei Musei Comunali di Firenze
Olivier Bonfait, Professore di storia dell'arte moderna, Università di Digione, Presidente dell'APAHAU
Julian Gardner, Samuel H. Kress Professor, Center for the Advanced Study of the Visual Arts, National Gallery of Art, Washington DCCharles Hope, Professor Emeritus, former Director of the Warburg Institute
Carl Brandon Strehlke, Curator, PhiladelphiaMuseum of Art
Marzia Faietti, Vicepresidente Comité International Histoire de l’Art, Sezione Italiana
Adele Campanelli, Soprintendente per i beni archeologici delle provincie di Salerno Benevento Avellino e Caserta
Gino Famiglietti, Direttore generale Beni culturali del Molise
Luke Syson Curator, Italian painting before 1500 National Gallery London
Daniele Ferrara, soprintendente ai beni storici artistici ed etnoantropologici del Molise
Mirella Barracco, presidente Fondazione Napoli Novantanove.
Cesare De Seta, Ordinario di Storia dell’architettura, SUM,
Giovanni Agosti, Università degli Studi di Milano
Caroline Elam, storica dell’arte
Benedetto Marcucci, Consigliere della Presidente della Commissione Cultura della Camera
Margaret Haines, Senior Research Associate, Villa I Tatti
Roberto Bellucci, Restauratore Conservatore Direttore Coordinatore, Opificio delle Pietre Dure
Carmen Bambach, Curator of Drawings and Prints, The MetropolitanMuseum of Art Andrew Mellon Professor National Gallery of Art
Michela Di Macco, Università La Sapienza, Roma
Carlo Ginzburg, storico
Cecilia Frosinini, storica dell'arte, direttore coordinatore Opificio delle Pietre Dure, Firenze
Sally J. Cornelison, Associate Professor of Italian Renaissance Art, University of Kansas
Steven F. Ostrow, Professor of Art History, University of Minnesota, USA
Andreina Ricci, Ordinario di Archeologia Classica, Università di Tor Vergata, Roma
Anne Markham Schulz, Research scholar, BrownUniversity, Providence, RI
Fabrizio Nevola, Senior Lecturer in History of Architecture, Department of Architecture and Civil Engineering, University of Bath, UK
Novella Barbolani di Montauto, ricercatrice di Storia dell’arte moderna, Università di Roma ‘La Sapienza’
Giovanna Gaeta Bertelà, funzionario tecnico scientifico SBAS FI, in pensione
Nicole Dacos, storica dell'arte, Roma - Bruxelles
Aldo Galli, professore associato di Storia dell’arte moderna, Università di Trento
Christa Gardner von Teuffel, OxfordGirolamo Zampieri, già direttore dei musei civici e direttore del museo archeologico di Padova
Alessandro Angelini, professore associato di Storia dell’arte moderna, Università di Siena
Maria Teresa Filieri, Direttore scientifico, Fondazione Centro Studi Ragghianti
Donata Levi, Ordinario di Storia della critica d’arte Università di Udine e redazione di Patrimonio SOS
Elena Della piana, Professore Associato di Storia dell'Architettura contemporanea e del design, Politecnico di Torino
Laurence Kanter, Chief Curator and Lionel Goldfrank III Curator of European Art, YaleUniversityArtGallery
Alessandro Bagnoli, storico dell'arte, Soprintendenza di Siena
Machtelt Israëls, storica d'arte
Laura Cavazzini, professore associato di Storia dell’arte medievale, Università di Messina
Davide Gasparotto, storico dell'arte, Andrew W. Mellon Fellow, The Metropolitan Museum of Art, New York
Clemente Marconi, James R. McCredie Professor of Greek Art and Archaeology e University Professor, Institute of Fine Arts - New YorkUniversity
Claudio Pizzorusso, professore ordinario di Storia dell’arte moderna, Università per stranieri di Siena
Stefania Tullio Cataldo, chargée de recherche, Museo del Louvre
Maddalena Spagnolo, Research Associate, Columbia University
Michele Dantini, professore di storia dell'arte contemporanea all'università del Piemonte orientale
Mariarita Signorini, restauratrice Polo Museale Fiorentino
Leonardo Rombai, docente di geografia Università di Firenze
Anna Maria Petrioli Tofani, ex Direttrice Galeria degli Uffizi Firenze
Antonella Rubicone, archeologa
Bolko von Schweinichen, architetto
Ornella de Zordo Docente università di Firenze (Consigliere capogruppo comunale di Firenze PerUnaltracittà)
Tommaso Grassi, Consigliere capogruppo comunale di Firenze Sinistra e Cittadinanza
Massimo Ramalli, avvocato amministrativista
Paolo Celebre, Architetto
Gabriella Pizzala, giornalista
Stefano Causa
Liliana Barroero, Ordinario di storia della critica d’arte, Università Roma Tre
Fausto Zevi, Ordinario di Archeologia classica, Università di Roma La Sapienza
Maria Monica Donato, Professore ordinario di Storia dell'arte medievale, Scuola Normale Superiore di Pisa
Gianfranco Fiaccadori, Università degli studi di Milano
Maurizia Migliorini, Professore associato storia della critica d’arte, Università degli Studi di Genova
Alessandra Giannotti, ricercatrice di Storia dell’arte moderna, Università per stranieri di Siena
Barbara Agosti, professore associato di Storia della critica d’arte, Università di Roma ‘Tor Vergata’
Giovanna Perini Folesani, professore ordinario di Storia della critica d’arte, Università di Urbino
Michele Maccherini, professore associato di Storia dell’arte moderna, Università dell’Aquila
Donatella Pegazzano, ricercatrice universitaria, Firenze, Dipartimento di Storia delle Arti e dello Spettacolo
Lucia Faedo, ordinario di Archeologia, Università di Pisa
Paolo Macry, ordinario di Storia contemporanea, Università di Napoli ‘Federico II’
Maria Luisa Catoni
Angela Pontrandolfo, Ordinaria di Archeologia, Università di Salerno
Daniele Menozzi, prof. ord. di Storia contemporanea, Scuola Normale Superiore
Claudio Zambianchi
Alessandra Malquori, storica dell’arte, docente a contratto, Università degli Studi di Firenze
Bianca De Divitiis, Ricercatrice in Storia dell'Architettura, Università di Napoli ‘Federico II’
Rosanna De Gennaro, professore associato di Storia dell’arte moderna, Università di Napoli ‘Federico II’
Carmela Vargas, storica dell’arte, Università Suor Orsola Benincasa, Napoli
Gioacchino Barbera, dirigente superiore storico dell'arte Regione Sicilia
Fabrizio Federici, storico dell’arte
Bruno Zanardi, professore Associato di Teoria e Tecnica del Restauro, Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo"
Angela Dressen, Andrew W. Mellon Librarian, Villa I Tatti, Firenze
Francesca Fiorani, Associate Professor of Art History, University of Virginia
Hellmut Wohl, Professore di Storia dell’arte Emeritus, Boston University
Alice Sedgwick Wohl, editor, Bibliography of the History of Art, retired
Silvia Urbini, storica dell’arte
Gemma Cautela, ispettore onorario Mibac
Amedeo Di Maio, Professore ordinario di Scienza delle finanze e di economia dei beni culturali Università di Napoli L'Orientale
Fina Serena Barbagallo, storico dell'arte, Siracusa
Elena Fumagalli, Università di Modena e Reggio Emilia
Sebastiana Scalora, archeologo
Roberto Paolo Novello, storico dell'arte, Carrara
Maria Cristina Ronc, Regione Autonoma Valle D'Aosta, Dipartimento Soprintendenza per i beni e le attività culturali, MAR-Museo Archeologico Regionale
Maria Pia Bianchi, Docente scuola secondaria II grado, fiorentina
Brenda Preyer, Professor Emerita of Art History, University of Texas, Austin
Antonio Milone, storico dell'arte
Ida Mauro, Ricercatrice , Universitat de Barcelona, Departament de Història Moderna
Sara Fuentes Lázaro, PhD Candidate, Universidad Complutense de Madrid - Kunsthistorisches Institut in Florenz
Valeria Manfrè, Dottoranda, Universidad Autónoma de Madrid, Departamento de Historia y Teoría del Arte
Macarena Moralejo Ortega, Profesora asociada, Universidad Autónoma de Madrid, Departamento de Historia y Teoría del Arte
Daniele Benati, Università di Bologna; Presidente - Italia Nostra, sezione di Bologna
Anne Markham Schulz, Research Scholar, BrownUniversity, Providence, R.I.
Jurgen Schulz , Professor of History of Art and Architecture, BrownUniversity
Massimiliano Pieraccini, professore associato di tecnologie per i beni culturali, Università di Firenze
Giorgio Marini, curatore, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi
Stefania Tagliaferri , studente Storia e critica dell'arte all'Università degli Studi di Milano
Margherita d'Ayala Valva, storica dell'arte
Ginevra Facchinetti , Bologna
Laura Lombardi, docente di Fenomenologia delle arti contemporanee, Accademia Belle Arti di Milano
Luisa Ciammitti, storica dell’arte
Jessica Nucci, studentessa di Storia dell'arte, università di Pisa
Luigi Giacobbe, Funzionario storico dell'arte, Soprintendenza BB.CC.AA. - Messina
Stefano Isola, professore di Fisica Matematica, Università di Camerino
Beatrice Nizzetto, operatrice culturale
Sara Tartaglia, Dott. in Scienze dei beni culturali e studentessa di Pratiche Curatoriali
Clara Pogliani
Cinzia Maria Sicca, Presidente del Corso di Dottorato in Storia delle Arti Visive e dello Spettacolo, Dipartimento di Storia delle Arti, Università di Pisa
Maria Beltramini, professore associato di storia dell’architettura, Università di Roma Tor Vergata
Andrea De Marchi, Università di Firenze
Germana Borrelli, musicista
Paola Gioia Valisi, studentessa di Storia dell'Arte dell'Università degli Studi di Milano
Maria Rosa Pizzoni, dottoranda di ricerca in Storia dell'Arte
Vinni Lucherini, Università di Napoli
Donatella Martini, manager, Milano
Enrico Castagnoli, libero professionista, Milano
Ginevra Castagnoli, studentessa Milano
Genoveffa Ciampella, pensionata Milano
Artemisia Diegoli, pensionata Cervia (Ravenna)
Ilenia Bove, dottoranda di ricerca in Storia dell’Arte
Marisa Laurenzi Tabasso, Chimico - Professore a contratto dell'Università La Sapienza (ROMA)
Donatella Spagnolo, funzionario storico dell'arte Museo regionale di Messina
Andrea Zezza, professore associato di Storia dell’arte moderna, Seconda Università di Napoli
Antonella Capitanio, ricercatrice di Storia dell’arte, Università di Pisa
Marco Dorati, Ricercatore, Università Carlo Bo di Urbino
Gabriele Fattorini, professore a contratto, Università di Siena
Massimiliano Rossi, Università del Salento
Sonia Chiodo, Professore Aggregato, Storia dell'Arte Medioevale, Università di Firenze
Cecilia Ghibaudi, Funzionaria storico dell’arte, BSAE , Milano
Alessandra Migliorato, funzionario Museo Regionale di Messina
Fiamma Nicolodi, ordinaria di Musicologia presso l'Università di Firenze
Tommaso Casini, Professore associato di Museologia, storia della critica artistica e del restauro, IULM
Gaetano Bongiovanni, funzionario direttivo storico dell’arte, Soprintendenza di Palermo
Jacopo Stoppa, Università degli Studi di Milano
Guido Dall'Olio, prof. associato di Storia Moderna Università di Urbino "Carlo Bo"
Mario Alai, ricercatore di filosofia del linguaggio Facoltà di lettere e filosofia, Universita' di Urbino "Carlo Bo"
Laura Fenelli, Frances A. Yates postdoctoral fellow, the Warburg Institute, London
Samo Štefanac, professore ordinario al Dipartimento di storia dell'arte all'Universita' di Ljubljana
Paola D’Alconzo, professore associato di Museologia, Università di Napoli “Federico II”
Massimiliano Savorra, Professore associato di Storia dell’architettura, Università degli studi del Molise
Marinella Pigozzi, direttrice del dottorato in Storia dell'arte, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna
Stefano Zamponi, Università di Firenze
Virginia Buda, Funzionario Storico dell'arte - Soprintendenza BB.CC.AA. di Messina
Giovanna Ragionieri, docente di Storia dell'arte, Liceo Artistico "Leon Battista Alberti" Firenze
Gabriele Bottino, Professore Associato di Diritto Amministrativo - Università degli Studi di Milano
Paola D’Agostino, Metropolitan Museum, New York
Livia Maggioni, redattrice di storia dell'arte, Dizionario biografico degli Italiani
Riccardo Spinelli, storico dell’arte
Stefania Petrillo, Università degli Studi di Perugia
Lara Conte, Dottore di ricerca in Storia dell'arte
Emanuele Zappasodi, Borsista Fondazione di Studi di Storia dell'Arte Roberto Longhi, Firenze; Dottorando Storia dell'Arte, Università degli Studi di Firenze
Alessandro Brogi, Storico dell'arte
Mattia Patti, Storico dell'arte - Presidente della Fondazione Culturale d'Arte Trossi Uberti, Livorno
Federica De Rosa, storico dell'arte
Silvia Bruno, storica dell'arte, docente scuola secondaria superiore
Federico Fischetti, Storico dell'arte
Irene Sabatini, Storica dell'arte
Simonetta Nicolini, Storica dell'arte
Denise La Monica, storica dell’arte
Debora Minotti, restauratrice dipinti mobili, diplomata Opificio delle Pietre Dure
Serena D’Italia, dottoranda in storia dell’arte
Mauro Campus
Alda (Lara) Fantoni
Matilde Gagliardo, storica dell’arte e regista
Silvia Ottolini, restauratrice Parma
Liletta Fornasari, storica dell’arte, Primo Rettore della Fraternita dei Laici di Arezzo
Clara Rech, Dirigente scolastico liceo Visconti Roma
Fabien Benuzzi, dottorando in Storia dell'Arte, Università Ca' Foscari, Venezia
Patricia Laurati, storica dell’arte
Sergio Momesso, storico dell’arte, insegnante
Chiara Teolato, Storica dell'arte
Erica Bernardi, Scuola di Specializzazione in storia dell'arte presso l'Università degli Studi di Milano
Mario Bencivenni, storico e docente, Liceo Artistico L.B.Alberti Firenze
Enrico Parlato, Università della Tuscia
Lidia Antonini, docente di storia dell’arte, Liceo classico di Spoleto
Anchise Tempestini, storico dell’arte
Marcello Simonetta, storico, New York/Parigi
Noga Arikha, storica, New York/Parigi
Alessandro Savorelli, docente di filosofia, Scuola Normale Superiore di Pisa
Cristiano Giometti, Storico dell'arte, Pisa
Mirco Modolo, dottorando storia dell’arte, Università Roma Tre
Daniele Simonelli, Storico dell'Arte, Cortona (AR)
Giovanna Virde, insegnante di Storia dell'arte
Elena Parenti, insegnante di storia dell'arte
Guido Rebecchini
Barbara Furlotti
Claudio Franzoni, docente di storia dell’arte
Valeria Mirra, dottore di ricerca in storia dell'arte, Roma
Francesco Gatta, storico dell'arte
Federico Micali, regista
Giancarlo Busti
Jan Bigazzi, architetto
Biancamaria Valeri, dirigente scolastico del liceo artistico "Anton Giulio Bragaglia" di Frosinone
Maria Teresa Valeri, dirigente scolastico dell'istituto magistrale "Fratelli Maccari" di Frosinone
Antonio Fazzini, attore
Oreste Pivetta
Donatella Tramontano, Ordinario di Biologia applicata, Università Federico II, Napoli
Irene Recchia, ingegnere
Chiara Cariglia, Università di Perugia
Marta Sironi, collaboratrice alla ricerca, Università di Milano
Luca Del Pia, fotografo
Marco Perrone, informatico
Valentina Incerpi, impiegata
Marina Pugliano, Firenze, traduttrice
Giancarlo Riccio, Giornalista e storico del giornalismo
Andrea Tacchi e Susanna Pasquariello, cittadini di Firenze, musicisti dell’Orchestra della Toscana
Luciano Cateni, Docente di scuola secondaria superiore
Carlotta Baccei, studentessa in Scienze dei BB CC - Storia dell'Arte, Università di Pisa
Daniele Pentassuglio
Francesconi Daniela, studentessa Scienze dei Beni Culturali a Pisa
Letizia Paolettoni, studentessa di storia e tutela di beni artistici, università di Firenze
Anna Maria Pintus, Dirigente scolastico in pensione
Joela Laghi, studentessa di Belle Arti
Agnese Marcheschi, studentessa di Belle Arti
Raffaella Cannizzaro, laureata in scienze dei beni culturali presso l'Università di Pisa
Laura Mariani, storica dell’arte, Archivio fotografico del Castello Sforzesco di Milano
Luca Palozzi, storico dell'arte, borsista Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento di Firenze
Chiara Piccinini, Université Bordeaux 3
Angela Maria Curreli, collaboratrice Soprintendenza di Pisa
Rita Salis, laureata in Storia dell'arte
Marialucia Menegatti , storica dell'arte
Bruno Bevacqua, storico dell'arte
Oscar Cattaneo, studente
Chiara Battezzati, studentessa
Gabriele Donati, dottorando in Storia dell'Arte, Istituto Nazionale di Studi del Rinascimento, Firenze
Costanza Caraffa
Silvia Somaschini, laureanda in Storia e Critica dell'arte, co-curatrice presso la Collezione Giuseppe Iannaccone di Milano
Ileana Servidio, studentessa di Beni Culturali all'Università di Torino
Roberta Manetti, ricercatore, Università del Piemonte Orientale
Simone Amerigo, storico dell'arte, neo-dottorando di ricerca, Università degli Studi di Torino
Dominique Thiébaut (Mme), Conservateur général au département des Peintures, Musée du Louvre
Evelina Borea, ex direttore Istituto Centrale del Restauro
Louis Frank, Conservateur au Cabinet des dessins, Département des Arts graphiques, Musée du Louvre, Paris
Beatrice Paolozzi Strozzi
Ilaria Ciseri
Serena Padovani, Già direttore della Galleria Palatina
Miklós Boskovits, Professore emerito di Storia dell'Arte, Università di Firenze
Dr. Elisabetta Sambo, Fondazione Federico Zeri
Andrea Bacchi, associato storia arte moderna, Università di Trento
Anna Chiara Tommasi, storica dell’arte
Francesca Bottacin
M. Letizia Gualandi, Università di Pisa, Dpt. di Scienze archeologiche
Francesca Rossi, conservatrice del Gabinetto dei Disegni del Castello Sforzesco, Milano
Anna Provenzali, Conservatore del Civico Museo Archeologico di Milano
Maria Cristina Molinari, Direzione Musei Capitolini – Medagliere
Brigitte Daprà, Ufficio Mostre e prestiti, Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Napoli
Maria Rita D'Amato, Civiche Raccolte Grafiche e Fotografiche, Civico Gabinetto dei Disegni, Castello Sforzesco
Marinella Pasquinucci, Prof. ordinario Topografia antica, Università di Pisa
Arnaldo Tranti, designer
Adriana Capriotti, storico dell'arte dir. coord. direttore Servizio Furti, Sequestri, Rapporti con le Forze dell'Ordine, Soprintendenza Speciale P.S.A.E. e Polo Museale della Città di Roma
Fiorella Sricchia, già ordinario storia arte moderna, Federico II, Napoli
Marina Santucci, Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico, Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Napoli
Pier Luigi Leone De Castris, ordinario storia arte moderna, Suor Orsola Benincasa, Napoli
Francesco Aceto, ordinario storia dell’arte medioevale, Federico II, Napoli
Francesco Federico Mancini, ordinario storia arte moderna, Perugia
Lucio Galante, Ordinario di Storia dell'arte moderna – Università del Salento.
Vincenzo Palleschi Head of the Applied Laser Spectroscopy Lab. Institute of Chemistry of Organometallic Compounds Research Area of CNR, PISA
Matej Klemenčič, Direttore del Dipartimento di storia dell'arte, Facoltà di lettere, Università di Ljubljana, Presidente della Società di storici dell'arte di Slovenia
Renata Novak Klemenčič, Dipartimento di storia dell'arte, Facoltà di lettere, Università di Ljubljana
Daniel Pocs, Istituto di Storia dell'Arte, Accademia Ungherese delle Scienze
Elena Bianca Di Gioia, storica dell'arte
Elisabetta Giffi, storica dell’arte
Rolando Bussi, Divisione Arte, Franco Cosimo Panini
Graziana Maddalena, studentessa di Scienze dei Beni Culturali all'Università di Pisa, nonchè rappresentante degli studenti in Corso di Laurea per Ateneo Studenti - Lista Aperta.
Elena Lazzarini, ricercatore (a contratto), Università di Pisa, Dipartimento di Storia Delle Arti
Gabriella Mancini, insegnante, Liceo Artistico Virgilio di Empoli.
Ilaria Di Francesco. Dottoranda in Storia dell'Arte Medievale
Prof.ssa Claudia Urbanelli, Liceo Alberti, Firenze
Silvia Porto Direttore Servizi Amministrativi Liceo Michelangiolo Firenze
Luca Tosi, libero professionista settore storico-artistico
Ballarin Giovanni - Laureando in Beni Culturali - Napoli
Manzo Anna - Insegnante di Lettere – Napoli
Silvia Armando, storica dell’arte
Giovanna Tedeschi Grisanti, prof. di Storia dell' architettura antica, Dipartimento di Scienze Archeologiche, Università di Pisa
Isabella Fiorentini, Funzionario responsabile dell'Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana, Milano, Castello Sforzesco
Irene Baldriga, docente di Storia dell’arte, Roma
Giulia Zorzetti, restauratrice, Napoli
Maria Teresa de Falco, restauratrice, Napoli
Paola Foglia, restauratrice, Napoli
Francesco Virnicchi, restauratore, Napoli
Prof. Gino Fornaciari, Ordinario di Storia della Medicina, Direttore, Divisione di Paleopatologia, Storia della Medicina e Bioetica, Univerità di Pisa
Daniele Fusi, docente di Storia della Musica e Bibliotecario presso l'Istituto Superiore di Studi Musicali (ISSM)
Dr. Luca Pezzati, Coordinatore del Gruppo Beni Culturali, Istituto Nazionale di Ottica, INO – CNR
Mariadelaide Cuozzo (Ricercatrice e Prof.ssa Aggregata di Storia dell'arte contemporanea, Università degli Studi della Basilicata)
Daniele Piacenti , Restauratore di Beni Culturali
Iacopo Cassigoli, storico dell'arte, Firenze
Gianni Turchetta, Ordinario di Letteratura italiana contemporanea Università degli Studi di Milano
Alessio Monciatti, professore associato di Storia dell'arte medievale, Università degli Studi del Molise
Barbara Mancuso, ricercatore Storia dell'arte moderna - Università di Catania
Grazia Maria Fachechi, Ricercatrice di Storia dell'arte medievale, Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo"
Alessandra Perriccioli Saggese, Ordinaria storia arte medioevale, Seconda Università di Napoli
Maria Viveros, docente
Matteo Ceriana, direttore delle Gallerie dell’Accademia, Venezia
Marco Collareta, Direttore Dipartimento storia delle arti, Università di Pisa
Diego Arich (Accademia di Belle Arti di Verona)
Giampaolo Ermini, storico dell’arte
Roberto Ciardi, storico dell’arte, Socio nazionale dell’Accademia dei Lincei
Andrea Paribeni, ricercatore, Dipartimento di Scienze del testo e del patrimonio culturale, Università degli Studi di Urbino 'Carlo Bo'
Giorgia Mancini, Research Fellow, National Gallery, London
Gian Piero Cammarota, storico dell'arte, Soprintendenza BSAE di Bologna
Mattias Quast, storico dell’arte e presidente Associazione culturale amphitheatrum (Spoleto-Heidelberg)
Lucia Fanelli
Charles Davis, studioso (anche) del Vasari
Carlo Bertelli
Anna Lo Bianco, Direttrice della Galleria Nazionale di arte antica, Palazzo Barberini, Roma
Angela Cerasuolo, Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico, Etnoantropologico e per il Polo Museale della citta' di Napoli
Emanuela Daffra, Soprintendenza per i Beni storici artistici ed entonantropologici della lombardia occidentale
Renata Ghiazza, Conservatore Museo del 900, Casa-Museo Boschi Di Stefano, Milano
Orso Maria Piavento, Perfezionando in Storia dell'Arte - Scuola Normale Superiore di Pisa
Rosanna Cioffi, presidente di CUNSTA
Antoni José i Pitarch,Catedràtic d'Història de l'Art (professore ordinario), Universitat de Barcelona.
Cecilia Prete, università degli studi di Urbino Carlo Bo
Roberta Bartoli, Visiting Professor, University of Minnesota
Bruno Ciapponi Landi, Vicepresidente della Società Storica Valtellinese
Monica Grasso, docente a contratto di Iconografia e Iconologia, Università degli studi di Urbino 'Carlo Bo'
Gerardo De Simone, Accademia di Belle Arti di Napoli
Alfredo Bellandi, ricercatore, Università degli Studi di Perugia.
Anna Maria Amonaci, storica dell'arte e della fotografia, docente presso l'Accademia di Belle Arti di Brera.
Serena Simoni, docente di Storia dell'arte, Ravenna
Angela Ghirardi, Storica dell'arte dell'Università di Bologna
Stefania Mason, docente Storia dell’Arte, Università di Udine
Silvia Ginzburg, professore di Storia dell’Arte moderna, Università di Roma tre
Grégoire Extermann, ricercatore, Università di Ginevra
Elide La Rosa, redattore de "L'Indice dei libri del mese"
Annamaria Ducci, PhD Storia dell'arte, Lucca
Giuliana Mazzi, professore ordinario di Storia dell'architettura, Università di Padova
Marco Tanzi, professore ordinario di Storia dell’Arte moderna, Università del Salento
Francesca Fabbri, storica dell'arte
Sara Micheli, restauratrice
Maria Federica Manchia, studentessa di Storia dell'arte, Roma
Mario Cobuzzi
Valentina Reino , studentessa di Scienze dei Beni Culturali, Pisa
Lucia Maria Bresci, restauratrice, diplomata presso l'Opificio delle Pietre Dure di Firenze
Antonella Casaccia, restauratrice dipinti mobili diplomata Opificio delle Pietre Dure di Firenze
Oriana Sartiani, Funzionario Conservatore Restauratore Opificio delle Pietre Dure, Firenze
Luca Logi, responsabile archivio musicale Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
Giovanni Sassu, curatore dei Musei Civici di Arte Antica e del Museo della Cattedrale, Ferrara
Manuela Gasperi, Direttore Museo Civico di Bormio
Valter Pinto, professore associato di Storia dell'arte moderna, Università di Catania
Maria Grazia Basile, Milano
Federico Giannini, web designer
Ilaria Baratta, studentessa
Federico Maria Giani, Laureando magistrale in Storia e Critica dell'Arte
Teodora Cordone, docente di Storia dell'Arte, Liceo Classico, Istituto Centro Educativo Ignaziano, Palermo
Andrea Baggio, musicista, Firenze
Lorena Vallieri, storica dello spettacolo, Scandicci (Fi)
Anna Selleri, studentessa alla Sapienza, laurea specialistica in Storia dell'Arte
Camilla Fidenti, studentessa di Scienze dei Beni Culturali, Università di Pisa
Catia Chelli, studentessa di Scienze dei Beni Culturali, Università di Pisa
Laura Tesei, dottoressa in Conservazione dei beni culturali
Chiara Bernazzani, perfezionanda, Scuola Normale Superiore di Pisa
Giulia Santoro, studentessa in storia e tutela dei beni artistici, Firenze
Elena Santoro, studentessa di agraria, Firenze
Georg Satzinger, Professor Institut für Kunstgeschichte und Archäologie, Abteilung für Kunstgeschichtem Regina-Pacis, Bonn
Christine Dupont, Collaboratrice scientifica all'Université Libre de Bruxelles, Membro corrispondente dell'Accademia Reale Belga di Archeologia, Storica presso la Casa della Storia Europea (Parlamento Europeo, Bruxelles)
Daniela Ferriani, funzionario storico dell'arte della Soprintendenza B.S.A.E di Modena e Reggio Emilia
Nunzia Lanzetta, Funzionario Storico dell'Arte, Soprintendenza BSAE di Modena e Reggio Emilia
Maria Reginella, funzionario direttivo storico dell'arte, Soprintendenza di Palermo
Silvia Cangioli, Storica dell' Arte, Firenze
Massimo Magnelli, ingegnere
Enrica Magnelli Menozzi
Marina Porri, studentessa di Storia dell'arte, Università di Pisa, Roma
Serenella Romeo
Martin Gaier, storico dell'arte, Kunsthistorisches Seminar, Universität Basel, Svizzera
Leandro Janni, docente di Storia dell’Arte
Maria Teresa Roli, Consigliere Nazionale Italia Nostra
Luciana Boschin, Presidente Italia Nostra Friuli Venezia Giulia
Christina Strunck, storica dell’arte, Philipps-Universität Marburg, Germania
Harald Wolter-von dem Knesebeck, Professor Institut für Kunstgeschichte und Archäologie/ Istituto di Storia dell'Arte e di Archeologia della Università di Bonn
Claudia Steinhardt-Hirsch , Assistant Professor, Institut für Kunstgeschichte Karl-Franzens-Universität Graz
Mina Gregori, storica dell'arte Presidente della Fondazione Longhi Firenze
Amanda Lillie, University of York
Hildegard Sahler, Bayerisches Landesamt für Denkmalpflege, München
Carlo Sisi, storico dell'arte
Cesare Crova, arch. docente di restauro beni culturali
Ebe Giacometti, storica dell'arte
Chiara Moreschi,Arezzo,laureata in Conservazione dei Beni Culturali
Lisa Miele, storica dell'arte, Napoli
Manlio Marchetta, docente di Urbanistica Università di Firenze
Gianfranco Cartei, Ordinario di Diritto amministrativo Università di Firenze (nel gruppo fiorentivo)
Raphael Rosenberg, Professor Institut für Kunstgeschichte der Universität WienSpitalgasse, Wien
Elena Rossoni, storica dell’arte
Pier Luigi Cervellati, urbanista, ordinario IUAV
Claire Farago, professor Department of Art and Art History University of Colorado and Fulbright-York Scholar Visiting Distinguished Professor Department of Art History University of York, UK
Gerd Blum, Lehrstuhl für Kunstgeschichte Kunstakademie und Hochschule für Bildende Künste, Münster
Linda Pellecchia, Associate Professor Department of Art History, University of Delaware, Newark
Elisabetta Scirocco, dottore di ricerca in Storia dell'arte
Stefania Russo, studentessa storia dell’arte, Catanzaro
Chiara Di Stefano, storica dell'arte, Torino
Bruno Ciliento
Alessia Lenzi, docente di Storia dell'Arte, Liceo Artistico di Porta Romana, Firenze
Dörthe Jakobs, storica dell’arte, restauratrice, Stoccarda
Paolo Gravina
Franca Falletti, storico dell’arte
Ezio Buzzegoli, Restauratore direttore conservatore coordinatore, Opificio Delle Pietre Dure
James David Draper, Henry R. Kravis Curator, European Sculpture and Decorative Arts, The MetropolitanMuseum of Art
Michael Hirst, Professor Emeritus, the Courtauld Institute of Art, London
Diane Zervas Hirst, Art Historian and Jungian psychoanalyst, London
PD Dr. Frank Martin, Corpus Vitrearum Medii Aevi Deutschland/Potsdam, Berlin-Brandenburgische Akademie der Wissenschaften
Prof. Dr. Steffi Roettgen,Kunsthistorisches Institut Florenz
Dr. Brigitte Kuhn-Forte, Forschungsprojekt/Progetto di ricerca Ars Roma, Bibliotheca Hertziana - Max Planck, Institut für Kunstgeschichte
Patrizia Piscitello, Soprintendenza Speciale per il PSAE e per il Polo Museale della città di Napoli
Dalma Frascarelli, docente di storia dell'arte moderna, Accademia di Belle Arti di Napoli
Rudolf Hiller von Gaertringen, Kustos der Kunstsammlung und Leiter der Kustodie der Universität Leipzig (Direttore della collezione d'arte dell'Università di Lipsia)
Marco Pierini, Direttore della Galleria civica di Modena
Maria Luisa Frongia, Professore Ordinario di Storia dell'arte contemporanea, Università di Cagliari
Diane Kunzelman, restauratrice di dipinti, già Opificio delle Pietre di Firenze
Rachel McGarry, Ph.D. Associate Curator, Prints and Drawings, Minneapolis Institute of Arts
Sandra Barberi, Storica dell'arte
Augusto Gentili, Professore ordinario di Storia dell'arte moderna, Università Ca' Foscari, Venezia
Annalisa Pezzo, storica dell'arte, Biblioteca comunale degli Intronati di Siena
Marilina Betrò, Ordinario di Egittologia, Dipartimento di Scienze Storiche del Mondo Antico, Pisa
Antonio Micillo, insegnante di storia dell’arte
Maria Teresa Liguori, Consigliere Nazionale Italia Nostra
Vito Zani, storico dell'arte
Beverly Louise Brown
Silvia Lelli, Università di Firenze
Mary Bergstein, Professor, History of Art + Visual Culture, Rhode IslandSchool of Design (Providence, RI02903, USA)
Christina Strunck, storica dell’arte, Philipps-Universität Marburg, Germania
Angela Guidotti, Università di Pisa
Francesca Flores d' Arcais, storico dell' Arte
Enrico Pusceddu, ricercatore, grup de recerca EMAC. Romànic i gòtic, Universitat de Barcelona
Debora Gay, docente di Storia dell'Arte, Liceo Artistico "Pinot Gallizio", Alba
Elisabeth Oy-Marra, professoressa università di Magonza, Germania
Antonio Dalle Mura, Presidente Consiglio Regionale Toscana Italia Nostra
Prof. ssa Giovanna Procacci
Ilenia Pittui, studentessa di storia dell'arte, Università di Udine
Professore Dr. Henk van Os, Ex-direttore Rijksmusem
Roberto Cara, dottorando in storia dell'arte a Padova
Jennifer Montagu, F.B.A
Luca Baranelli, Siena
Caterina Limentani Virdis, storica dell'arte
Maddalena Napolitani, studentessa Scienze dei Beni Culturali, Università di Pisa
Mattia Vinco, dottorando di storia dell'arte, Università degli Studi di Padova
Davide Da Pieve, laureato in Scienze dei beni culturali
Alessandro Ballarin, professore emerito, università di Padova
Marco Ruffini, Associate Professor in Italian Studies and Art History, Northwestern University (Chicago/Evanston)
Regina Poso, professore ordinario Università del Salento
Francesco Senatore, professore associato di Storia medievale, università degli studi di Napoli Federico II
Raffaella Fontana, ricercatrice CNR
Giovanni Valagussa , Conservatore responsabile Accademia Carrara - Pinacoteca
Mariantonietta Picone, Prof. ordinario di Storia dell’arte contemporanea, Università di Napoli Federico II
Victor M. Schmidt, docente di storia dell'arte medievale, Università di Utrecht
Anneke de Vries, docente di storia dell'arte, Università di Groningen
Alberto Ceccarelli, Roma
Grazia Genovini
Mauro Minardi, storico dell’arte
Maria Teresa Ciccone, Roma
Laura Marino, Cuneo
Antonia Mandic, Torino
Cristina Palma, storica dell'arte, Madrid
Gilberto Ragni, Roma
Luca Giacomelli, perfezionando in Storia dell’Arte, Scuola Normale Superiore, Pisa
Michele Capaldo, Avellino
Irene Amadei, storica dell’arte
Stefania Russo, Roma
Cristina Cavicchioli, Torino
Valentina Marino, Napoli
Livia Levi Sandri, Roma
Valentina Fiscarelli, Foggia
Paolo Steffan, Conegliano
Giovanna Capitelli , professore associato di Storia dell’arte moderna, Università della Calabria
Camilla Anselmi, Milano
Francesca Valli, storico dell’arte, coordinatore Raccolte Storiche Accademia di Brera, Milano
Mario Gionfriddo, architetto Siracusa
Chiara Toschi Cavaliere, presidente sezione Italia Nostra di Ferrara
Carolina Italiano, responsabile MAXXI B.A.S.E Arte
Giuseppe Palermo, eddyburg.it
Marguerite Marie-Lys, Conservateur du patrimoine, Avignon, France
Viviana Bevacqua, Catanzaro
Riccardo Belcari, storico dell’arte, Firenze
Cristiana Morigi Govi, ex Direttore del Museo Civico Archeologico di Bologna
Nadia Sabini, Torino
Sabrina Tolve, Roma
Mario Matteo Tola, Dottore in Conservazione dei Beni Culturali, docente di Storia dell’Arte, Sassari
Isabella Tronconi, Storica dell’Arte e Guida Turistica di Firenze
Sabrina Parisi da Ercolano
Alice Turchi, storica dell’arte, Firenze
Luca Lista, Napoli
Michael Miller, Editor, Berkshire Review, an International Journal for the Arts, Williamstown, MA,USA
Francesca Mortelli, Viareggio
Lisa Marziali, studentessa in Storia e Tutela dei Beni Artistici, università di Firenze
Valentina Saba, studentessa di storia dell’arte, università di Firenze
Enrica Fastuca, Verona
Stefania Gabriela, Vallo della Lucania
Roberta Panzanelli, Firenze
Fabio Marcelli, Perugia
Angela Capillo, Milano
Juliusz A. Chrościcki, professeur Universite de Varsovie; membre CIHA ; president de la committee de l’art (Academie Polonais des Sciences)
Paola Porcinai, Firenze
Stefano Fragasso
Claudia Piredda, Dolianova
Claude Mignot, Paris
Philippe Senechal, Paris, France
Domenico Biscardi, Parigi
Dafne Cola, Italia Nostra
Sylvie Deswarte-Rosa, Lyon
Marialuisa Bergamini, Milano
Marta Ragozzino, Soprintendente per i beni storici artistici e etnoantropologici della Basilicata
Andrea Costa, Responsabile Dipartimento “Ville storiche, Parchi e Aree verdi” Italia Dei Valori, Roma
Doretta Davanzo Poli, Venezia
Patrizia Ranieri, Roma
Michele Desiato, Alatri
Maurizio Trotta, Roma
Chiara Piva, ricercatrice e docente di "storia e teoria del restauro", università Ca' Foscari Venezia
Serena Romano, Professore ordinario di storia dell'arte medievale, Università di Losanna (CH)
Maria Grazia Albertini Ottolenghi, docente di Storia delle Tecniche artistiche, Università Cattolica di Milano
Margherita Ghini, Soprintendenza beni architettonici e ambientali, Parma
Sarah Ferrari, dottoranda in Storia e critica dei beni artistici, musicali e dello spettacolo, Università di Padova
Ieri il Ministero per i Beni e le attività culturali ha messo a bando una posizione davvero cruciale: la Direzione Generale per il Paesaggio, le Belle Arti, l’Architettura e l’Arte contemporanea. È la posizione apicale da cui dipendono il contrasto alla quotidiana distruzione del paesaggio del nostro paese, la tutela del patrimonio storico e artistico, la promozione dell’arte contemporanea e molto altro ancora.
Per fare qualche esempio tratto dalla cronaca di queste ultime settimane: è il direttore generale che decide se i pareri (purtroppo solo consultivi) del comitato tecnico-scientifico degli storici dell’arte vanno seguiti oppure no, e se dunque si può spedire all’ennesima mostra di cassetta in Russia il solito Giotto ormai usuratissimo. O è ancora lui che potrebbe intervenire quando una dirigente importante dell’Opificio delle Pietre Dure denuncia che le è stato imposto di «operare danneggiamenti alla superficie pittorica» degli affreschi di Vasari a Palazzo Vecchio perché Matteo Renzi si accanisce a fare marketing cercando, sotto di essi, un Leonardo che non c’è.
L’attuale direttore generale era una funzionaria molto corretta, Antonia Pasqua Recchia, appena diventata il primo segretario generale donna nella breve storia del Mibac, al posto del discusso architetto Roberto Cecchi, balzato dai ranghi ministeriali a quelli politici con la nomina a sottosegretario.
Anche Cecchi era stato direttore generale per il Paesaggio, le Belle Arti etc.: e fu in quella posizione che decise di comprare un Cristo ligneo improbabilmente attribuito a Michelangelo, e in realtà prodotto di un crocifissaio seriale della Firenze del primo Cinquecento. Pensò bene di farlo senza chiedere uno straccio di parere terzo, e pagandolo 3.250.000, quando il valore commerciale di quell’opera si aggira (nel migliore dei casi) intorno ai 50.000. Un caso su cui sta, comprensibilmente, indagando la Corte dei Conti. Sempre da direttore generale, nell’autunno del 2009 egli tolse il vincolo ad un preziosissimo mobile settecentesco, contro il parere dell’Ufficio legislativo del MiBAC, e facendo invece leva sull’unica voce stranamente fuori dal coro, quella del Comitato tecnico scientifico. Grazie alle intercettazioni telefoniche e agli interrogatori disposti dalla Procura di Roma si è poi appreso che proprio Roberto Cecchi aveva condotto alle riunioni di quel comitato l’avvocato dei proprietari del mobile: un comportamento senza precedenti, e assai irrituale da parte di chi doveva agire nell’esclusivo interesse dello Stato. Per questa vicenda Cecchi è stato indagato per abuso d’ufficio e non rinviato a giudizio (a differenza del legale, curiosamente). Se si aggiunge che come commissario straordinario dell’area archeologica di Roma, Cecchi è stato accusato da Italia Nostra di «riprovevole carenza di trasparenza amministrativa», e che è stato sempre lui il responsabile della svendita del Colosseo alla Tod’s di Diego Della Valle si potrà forse capire come mai il contrariato ministro Ornaghi non gli abbia ancora dato, a un mese esatto dalla nomina a sottosegretario, alcuna delega.
È dunque probabile che Cecchi si stia un poco pentendo di aver abboccato all’amo della tentazione politica: senza deleghe rischia di trasformarsi nel tagliatore di nastri ufficiale del Mibac, mentre il suo potere interno viene smantellato pezzo a pezzo.
Se il nuovo Direttore generale sarà un funzionario «senza rispetti umani», con la schiena diritta e capace di rispondere solo alla Costituzione, alla scienza e alla coscienza, vorrà dire che, al Mibac, le cose avranno ripreso a girare nel verso giusto. Ancora un po’ di pazienza, e lo capiremo.
Pompei, piano piano, scivola via. Ogni crollo fa notizia: ma dov’è la notizia? La fragilissima Pompei è solo la punta dell’iceberg del patrimonio storico e artistico italiano: un iceberg che si scioglie ogni giorno sotto gli occhi di tutti, ma nel disinteresse generale.
Come per tenere aperte le scuole e far funzionare gli ospedali, anche per mantenere il patrimonio ci vogliono soldi. Se lo Stato rinuncia a stanziare quei soldi cessa di essere Stato. Eppure, negli ultimi anni si è fatto esattamente il contrario. «Pompei resta una priorità per il Ministero dei Beni Culturali», ha dichiarato domenica scorsa il ministro, Lorenzo Ornaghi. Ed è la scelta del verbo, che preoccupa: quando lo è stata, signor ministro? Il mitico Sandro Bondi permise a Giulio Tremonti di sottrarre un miliardo e trecento milioni di euro al bilancio del Ministero. E quando Salvatore Settis scrisse che perdere quei fondi significava condannare a morte il patrimonio, per tutta risposta Bondi lo costrinse a dimettersi dalla presidenza del Consiglio superiore dei Beni culturali. E nominò un altro archeologo, ma assai meno spigoloso: Andrea Carandini, tuttora felicemente pontificante.
Per Pompei, in particolare, Bondi ebbe l’idea di esautorare la soprintendenza (cioè la competenza) per nominare un commissario straordinario proveniente dalla Protezione civile di Guido Bertolaso. Col risultato che la tutela e la manutenzione ordinaria sono state completamente trascurate a favore di un rilancio d’immagine attraverso un serrato marketing di ‘eventi’ e campagne mediatiche, culminato nella cementificazione del Teatro Grande. Fu il clamoroso crollo della schola armatorum, avvenuto il 6 novembre 2010, a sancire la fine dell’esperimento, nonché la fine sostanziale dello stesso ministro Bondi.
Del resto, quando si parla di patrimonio culturale, la competenza è notoriamente un optional. E non lo pensava solo Bondi, ne è convinto anche Mario Monti: l’unico ministro non ‘tecnico’ è infatti proprio quello dei Beni Culturali. È stato naturale mettere un prefetto agli Interni, un diplomatico agli Esteri, un avvocato alla Giustizia e un ammiraglio alla Difesa: ma la tutela del patrimonio storico e artistico della nazione non è stata affidata ad uno storico dell’arte, o ad un archeologo, bensì ad uno scienziato della politica. Il quale, peraltro, non pensa neanche a dimettersi dalla carica di rettore dell’Università cattolica: tanto crede nella durata e nell’importanza del suo attuale compito.
E così la salvezza di Pompei non è affidata a un progetto, ad una visione, ad un vero cambio di passo. Si aspetta il deus ex machina di finanziamenti straordinari e colossali che arrivino dall’estero (l’Unione europea, gli imprenditori francesi) come la cavalleria in soccorso degli assediati. Senza troppo parlare degli interessi inevitabilmente collegati a questi fiumi di soldi: da quelli del cemento (che rischia di strangolare definitivamente gli scavi), a quelli della Camorra. Salvare una città antica ritornata alla luce e oggi senza né tetti, né fogne è una sfida tecnica e culturale appassionante. Se avessimo la capacità di fare sistema e avviare una vera ricerca, la messa in sicurezza di Pompei potrebbe essere la nostra ‘corsa alla Luna’. E invece, in Italia, quando si dice ‘economia dei beni culturali’ si intende il merchandising, il marketing delle pubbliche relazioni, il circuito parassitario e clientelare dei ‘servizi aggiuntivi’ dei musei.
E pazienza se, nel frattempo, Pompei scivola via.
Pompei, l’anno orribile
Vittorio Emiliani – l’Unità
Un anno orribile per l’antica Pompei, che si chiude con un nuovo crollo: nella domus di Loreio Tiburtino, una delle più visitate perché posta all’ingresso delle scolaresche. Un dramma della manutenzione ordinaria e straordinaria, che non sembra finire mai. E qui, caso raro, non sono stati i fondi a mancare quanto le competenze dopo il pensionamento dell’ottimo soprintendente Piero Guzzo, anni or sono. Pompei è una delle Soprintendenze “speciali” (accorpata, assurdamente, con quella, importantissima, di Napoli). Non le mancano i fondi, visto che incassa circa 20 milioni l’anno (per un 30% dirottati altrove). Ma, dopo Guzzo, si sono succeduti, a velocità grottesca, ben tre soprintendenti (ad interim) e due commissari: un prefetto in pensione e un funzionario della Protezione Civile. Che hanno delegittimato nei fatti il soprintendente, cioè l’esperto vero. Dei 79 milioni disponibili, il commissario Fiori ne ha investiti pochi, un po’ più della metà, nella indilazionabile messa in sicurezza di una città esposta al consumo di massa, alle intemperie, al dissesto idrogeologico. Il resto? Finito in “valorizzazioni” discutibili, a partire dal Teatro Grande, rifatto in tufo contemporaneo.
Mi par di sentirli i lai di chi invoca la creazione di una Fondazione Pompei e l’intervento salvifico, soprattutto gestionale, dei privati. Sciocchezze. Ignoranti o maliziose. Bisogna invece rafforzare i poteri, anche gestionali, certo, dei soprintendenti, formarli meglio a tali compiti, dotarli di uffici amministrativi e tecnici efficienti, ricostituire la rete, lasciata sfibrare, dei presidii della tutela. A Pompei i soldi non mancano. Altrove ci vogliono anche quelli. Disperatamente.
Pompei. Crollo nella Domus da restaurare
Alessandra Arachi - Corriere della Sera
Questa volta è toccato alla Domus di Loreio Tiburtino. Ad un pilastro del pergolato esterno, per la precisione, quello che si affaccia sul giardino maestoso e imperiale, nel pieno centro della città antica di Pompei, ad un passo dall'Anfiteatro. E venuto giù ieri, il pilastro, ed era mattina, e non è un dettaglio per una Domus che, tra le altre, è aperta alle visite del pubblico. La Domus di Octavius Quartio, detta di Loreio Tiburtino, è tra le più belle e importanti degli scavi di Pompei. Conserva un impianto originario e anche quello splendido giardino immerso tra verde e specchi d'acqua. L'area del crollo ieri è stata sequestrata, i carabinieri stanno indagando le cause. Ma questa volta sarà difficile trovare spiegazioni a quello che appare come un crollo annunciato. Sono anni, infatti, che la Domus di Loreio Tiburtino è stata inserita nella lista delle case che avevano bisogno di restauri e di supporti. Da quando è cominciata la gestione commissariale negli scavi, perlomeno. Era il 2008 quando l'allora commissario Renato Profili stanziò quasi 460 mila euro per il restauro degli apparati decorativi. Non ci fu mai il bando per quella gara. Nel luglio 2010, però, la soprintendenza si lanciò in un annuncio ben più decisivo: 3 milioni e mezzo di euro per il restauro di sette Domus importanti, quella di Loreio Tiburtino in prima linea, deciso dall'altro commissario, Marcello Fiori. A fine luglio sarebbero dovute partire le gare. A settembre i lavori.
Ieri mattina il crollo. E la soprintendente Teresa Elena Cinquantaquattro che si affannava a dire che «il pilastro non era portante né decorativo», che «l'area è stata scavata negli anni Cinquanta da Amedeo Maiuri, poi ha avuto restauri negli anni Ottanta e da allora più nulla, i lavori del commissariamento non hanno interessato questa parte». Non l'hanno interessata, ma era stato deciso di sì. E anche con urgenza. Ma nulla di fatto. E Pompei continua a sbriciolarsi. E il terzo crollo di quest'anno. E il più importante dopo quello della Schola Armaturarum, del 6 novembre 2010.
«Un crollo che non stupisce, anzi. Mi stupisco che non sia successo di peggio», commenta Andrea Carandini, presidente del Consiglio superiore Beni culturali. E annuncia: «L'allarme non è affatto concluso, ci saranno altri crolli». Il neoministro dei Beni Culturali, Lorenzo Ornaghi, ha fatto sapere che per attivare i 105 milioni di euro stanziati per i restauri degli scavi di Pompei dall'Unione Europea bisognerà aspettare l'autunno prossimo. Ci sono gare d'appalto da fare, di tipo europeo, appunto. E nel frattempo? «Il degrado va fermato subito impegnando squadre per la manutenzione ordinaria», implora Antonio Irlando, responsabile dell'Osservatorio patrimonio culturale. E aggiunge: «Gli interventi straordinari sono molto spesso tardivi. E la domanda che in tanti si fanno è: di chi è la responsabilità del vergognoso stato di conservazione di Pompei?». Anche l'Associazione nazionale archeologi lancia un grido di allarme per gli scavi che tutto il mondo ci invidia e che sono patrimonio dell'Umanità per l'Unesco: «Continueremo ancora per molto a pagare gli errori prodotti dal lungo commissariamento degli scavi. L'unica possibile cura per salvare la città romana sono assunzioni subito».
I precedenti
1 La Schola
Il 6 novembre 2010 nella città antica di Pompei, sulla via dell'Abbondanza, crolla la Schola Armaturarum, la scuola dei gladiatori, restaurata nel 1947
2 Il Moralista
Il 30 novembre del 2010 cede il muro perimetrale che circonda la Casa del Moralista, situata a una ventina di metri dalla Casa dei gladiatori.
Il lupanare
Il primo dicembre 2010, in via Stabiana, crolla una parete di accesso a un ambiente della vicina casa del «lupanare piccolo», chiusa al pubblico.
La soprintendente Cristina Acidini non ha ancora risposto all’appello sottoscritto ormai da cinquecento persone, tra cui i più autorevoli esperti internazionali di Leonardo e Vasari. In compenso Maurizio Seracini comunica che il sindaco Renzi autorizza a far ripartire la ricerca, e sostiene che «chi ha firmato la lettera non è stato informato bene del nostro lavoro».
L’esposto di Italia Nostra alla Procura della Repubblica di Firenze e l’appello degli studiosi si fondano invece su un documento di prima mano: la lettera di rimostranza inviata all’Acidini da Cecilia Frosinini il 23 novembre scorso. La responsabile della pittura murale presso l’Opificio delle Pietre Dure ritiene che: «l’Istituto non sia stato messo in condizione di esprimere la propria valutazione tecnico-scientifica …; l’Istituto non sia stato messo in condizione di esplicare il proprio ruolo tecnico nel valutare la percorribilità delle operazioni richieste; all’Istituto non sia stato concesso di decidere in piena autonomia ... All’istituto quindi è stato negato il suo ruolo di organo della conservazione, imponendogli di operare danneggiamenti alla superficie pittorica attraverso strappi non motivati da considerazioni conservative». La dottoressa Frosinini paventava infine che «le scelte di Ente Locale e sponsor» potessero essere lesive del suo «ruolo professionale e scientifico e contrarie alle funzioni che lo Stato mi chiede di svolgere nell’ambito della ricerca e della conservazione».
Riassumiamo. Il sindaco di Firenze desidera portare avanti una ricerca che agli occhi dei massimi esperti internazionali di Leonardo (tranne che a quelli di Carlo Pedretti, maestro di Seracini) sembra completamente infondata sul piano scientifico. Egli non pensa di dover nominare un comitato scientifico indipendente (come si sarebbe fatto in qualunque paese civile), ma per bucare Vasari ha bisogno dell’assenso della soprintendente di Firenze Acidini, la quale a sua volta ottiene il via libera dalla soprintendente pro-tempore dell’Opificio, che è sempre l’Acidini (una situazione evidentemente infelice, e foriera di più di un conflitto d’interesse). Ma la lettera della Frosinini mostra che l’assenso dell’Opificio non è fondato né sulla scienza né sulla coscienza. Mancando quindi ogni forma di garanzia e di terzietà, la comunità scientifica internazionale (inclusi altri tecnici dell’Opificio e storici dell’arte della stessa soprintendenza di Firenze) invoca una sospensione e un controllo indipendente e autorevole, e Italia Nostra chiede doverosamente la verifica della magistratura.
A questo punto ci si deve chiedere: perché i fori sul Vasari sono stati autorizzati dall’Acidini, se erano in contrasto con l’etica della conservazione o addirittura violavano la legge? E se invece erano perfettamente in regola, perché si è smesso di farli, visto che la Procura non ha disposto nessuna sospensiva?
Da troppo tempo, e su troppe gravi questioni, Cristina Acidini ritiene di non dover rendere conto né alla città, né all’opinione pubblica, né alla comunità scientifica. Ebbene, è venuto il momento di farlo.
A vedere quello che succede a Catania, viene il dubbio se “bene pubblico” significhi bene di tutti o bene di nessuno. È il caso dell’ex-Collegio dei Gesuiti, magnifico edificio settecentesco, in cui il “modo nostro” gesuitico trova una declinazione eccezionale, un unicum che insieme ai centri storici barocchi della Val di Noto è stato dichiarato patrimonio dell’Umanità dall’U.N.E.S.C.O.
L’edificio in questione per oltre quarant’anni, fino al 2009, è stato sede dell’Istituto Statale d’Arte; ed oggi, a due anni dalla piena presa di possesso da parte della Regione Sicilia, versa nel più totale stato di abbandono, come testimoniato dai numerosi video e articoli presenti in rete: v. soprattutto i link al materiale di redazionesottosfratto.it , tra i primi ad aver denunciato oggi la questione.
Ma per avere chiara l’attuale situazione è necessario conoscere gli antefatti.
Nell’aprile del 1999 infatti ha inizio il lungo contenzioso che vede contrapposte due Istituzioni “pubbliche”: da una parte la Provincia Regionale di Catania, ente a cui afferisce l’Istituto d’Arte, dall’altra la Regione Sicilia, proprietaria dell’immobile, che ha destinato a nuova sede della biblioteca regionale universitaria.
Il contenzioso si risolve nel 2006 con sentenza del C.G.A. R.S. a favore della Regione e ai danni di una terza Istituzione che è appunto l’Istituto d’Arte. Si tratta di una sentenza di sfratto che difficilmente poteva diventare esecutiva, dato che implicava l’interruzione di pubblico servizio in mancanza di una sede alternativa, problema non da poco per una scuola i cui strumenti e arredi, indispensabili alla didattica son del tutto eccezionali.
A ciò si aggiunge un altro antefatto di sicuro interesse!
Nel dicembre 2008 la preside dell’Istituto, comunica alla Provincia Regionale di Catania, ente locatario dell’immobile in uso alla scuola la necessità di interventi di manutenzione, segnalando in particolare il cedimento della copertura del vano destinato ad attività motorie e comunicando altresì il provvedimento di interdizione del vano preso in via precauzionale e ricordando che alcun intervento di manutenzione è stato mai fatto rispetto all’intero edificio.
Detta Provincia Regionale, nel gennaio del 2009, ne dà comunicazione alla Regione Sicilia, ente proprietario dell’edificio da circa un decennio; ma passano i mesi e alla tempestività del provvedimento di interdizione, fa da contro il silenzio e l’inattività dei preposti all’intervento; e ciò basterebbe a fare chiarezza sul senso di responsabilità di chi di competenza.
Il 26 maggio del 2009 si verifica il crollo della porzione di copertura per la quale era stato chiesto l’intervento.
È sotto gli occhi di tutti peraltro che il cedimento non è di natura strutturale, trattasi infatti di alcuni assi della copertura in legno a fronte di un edificio storico che copre un area di circa 7500 mq.; ciò è avvalorato dalla perizia tecnica che ne seguì, grazie alla quale fu possibile tenere gli esami di stato nel Luglio del 2009.
Ma a questo punto la vicenda ha una svolta.
Ciononostante e incurante delle proteste e degli appelli di genitori, alunni e personale della scuola, il Comune risponde con un provvedimento che è sentito dai diretti interessati come un atto di forza: un ordinanza di sgombero, in cui viene definito addirittura “illecito” l’uso scolastico dell’immobile, che ricordiamo è da oltre quarant’anni sede dell’Istituto e in precedenza, a partire dall’espulsione dell’Ordine dei Gesuiti nel 1775, è destinato alla didattica e alla formazione nel campo delle Arti e dei Mestieri.
Recidere una tale tradizione, quindi si rivela più difficile del previsto, e così la vicenda si trasforma in emergenza, ed ecco che il cedimento prima descritto diventa pretesto per dichiarare l’inagibilità dell’intero edificio l’11 settembre 2009, e lo sfratto si trasforma in sgombero coatto.
Un distacco doloroso, e con gravi conseguenze; per oltre un mese infatti l’Istituto d’Arte rimane senza una sede a svolgere le lezioni per strada, e quando la sede viene trovata si tratta di un edificio privato per l’uso del quale è stato stipulato un contratto di sei anni, per cui la Provincia Regionale di Catania ovvero la collettività ha sborsato 60000 euro al mese, per i primi due anni, senza contare i costi per smantellamento, trasferimento e ricollocazione di attrezzature speciali e macchinari dei laboratori. Ora è già deciso un nuovo esodo con notevole esborso economico per l’adattamento dei locali, nonché per smantellamento, trasferimento e ricollocazione di attrezzature speciali e macchinari dei laboratori.
Ma i cittadini più accorti si chiedono, a due anni dalla presa di possesso da parte della Regione che ne è del Collegio dei Gesuiti.
Ci si aspetta che siano stati effettuati i “non più procrastinabili lavori di messa in sicurezza”.
E invece il cedimento della copertura del vano, già destinato ad attività motorie, si è trasformato in squarcio con conseguente allagamento permanente. Ciò che rimane di quello che è un gioiello del barocco è ora irriconoscibile, esposto alle intemperie e all’azione dei vandali; le corti vissute fino a due fa da aspiranti artisti sono ridotte a stagni; le piante ruderali sconnettono i “ciacati” e si insinuano nella muratura.
E il senso di responsabilità di noi cittadini si scontra con lo scaricabarile tra gli enti coinvolti, a cui assistiamo sulle pagine della stampa locale.
Dall’articolo de La Sicilia del 19.11.2011 a firma di Pinella Leocata, si riporta la dichiarazione della sovrintendente Vera Greco: «Tutta colpa della Provincia che non ci ha mai consegnato i locali, nonostante la nostra diffida di un anno fa».
L’indomani la replica del Presidente della Provincia Castiglione: «La Provincia ha fatto la sua parte in condizioni di emergenza e di estrema difficoltà: siamo andati via subito, abbiamo trovato un’altra sede, a caro prezzo e abbiamo fatto un trasloco difficile. Cosa vengono a dirci, adesso, di arredi o altri oggetti all’interno? Cosa ci vengono a dire di chiavi da restituire? Siamo entrati per il trasloco dietro autorizzazione della sovrintendenza che poi, quando siamo andati via, ha cambiato le chiavi».
Nel frattempo una cosa non è cambiata: il forte senso di identità e di appartenenza di chi l’edificio l’ha vissuto per decenni, e ritiene inaccettabile un approccio tanto leggero e noncurante alla tutela di un bene così prezioso. Ne è testimonianza la creazione della pagina facebook “Salviamo il Collegio dei Gesuiti-EX ISTITUTO D’ARTE che è diventato un tavolo permanente di denuncia, discussione, e proposte sul destino del Collegio. Essa raccoglie più di 1600 persone, tra cittadini, ex allievi e personale dell’Istituto d’Arte, i quali stanno per dar vita a un Comitato Civico in difesa di questo patrimonio, con l’obiettivo di risvegliare il buonsenso e la responsabilità delle Istituzioni Pubbliche affinché si ponga fine allo scempio del nostro patrimonio culturale e allo spreco di denaro pubblico.
Sarebbe necessario, da parte del mondo della Cultura tutto, ad ogni livello, un intervento in merito a questa vicenda, emblematica di un modo di gestire la Tutela, affinché le Amministrazioni sentano il peso e la responsabilità delle proprie azioni e non-azioni nei confronti dei cittadini e del mondo intero, secondo i principi di trasparenza e partecipazione di cui spesso si parla ma che pochi riscontri hanno nella realtà.
Per maggiori dettagli e approfondimenti questo è il link al blog del Comitato nato nel 2009 in difesa dell’Istituto Statale d’Arte: http://istitutoartecatania.myblog.it/
Che sia appannato anche l’occhio della lince, nato per distinguere, sceverare, giudicare? Bisogna confessare che quando il governo di turno minaccia di tagliare i fondi all’Accademia dei Lincei, agli storici dell’arte non corre un brivido lungo la schiena. Da tempo, infatti, l’Accademia è morta e sepolta alla ricerca storico-artistica, e si è trasformata in una sorta di pensionato di lusso a cui accedono di diritto i baroni della Sapienza, i loro allievi e i loro alleati concorsuali. Ma, a giudicare dal memorabile evento che i Lincei hanno ospitato lunedì scorso, anche i colleghi archeologi non se la passano benissimo. In quell’occasione sono stati solennemente presentati i due volumi del terzo rapporto del Commissario dell’area archeologica di Roma: che è Roberto Cecchi, oggi discusso sottosegretario ai Beni culturali. A mettere in guarda i Lincei doveva bastare il mostruoso prezzo di stampa dei tomi: 68.000 euro. Una vera enormità, se paragonati ai 48.000 euro del costo medio annuale per le missioni sul territorio della Soprintendenza archeologica di Roma (ora peraltro bloccate per legge, senza che il sullodato Commissario muovesse un dito). E poi non era davvero il caso di esaltare il modello commissariale: e cioè l’esautorazione delle soprintendenze voluta da Bondi e Bertolaso, che ha prodotto la svendita del Colosseo a Diego della Valle, e nessun rimedio all’elevatissimo rischio idrogeologico del Palatino. E invece Eugenio La Rocca si è addirittura spinto a definire questa esperienza nefasta «una pietra miliare nella storia degli scavi archeologici». Insomma l’architetto Roberto Cecchi come Giovan Pietro Bellori, Luigi Pigorini, Rodolfo Lanciani o Ranuccio Bianchi Bandinelli: non c’è che dire, uno sguardo linceo. Ma, si sa, le grazie di un sottosegretario sono ambitissime: e specie da chi desidera organizzare mostre imperiali bisognose di fondi pubblici. Tuttavia, non sarà l’appannato bollino della lince a legittimare l’azione di governo di Roberto Cecchi. Ben altri sono i banchi di prova che lo attendono: incoraggiare e tutelare la meritoria, ma ancora insufficiente, ripresa delle assunzioni di storici dell’arte e archeologi; il varo di una legge che salvi finalmente Sepino dalle pale eoliche e dagli errori del Consiglio di Stato; la nomina di un direttore generale del paesaggio e dei beni storico-artistici che sappia guidare una vera e dura azione di tutela morale e materiale, e moltissimo altro ancora. Se Cecchi vorrà contribuire a salvare il patrimonio, e magari anche la propria faccia, non ha che da rimboccarsi le maniche.
La vicenda del commissariamento di Roma e Ostia ha un unico pregio: fra dieci giorni terminerà. Sugli esiti e le conseguenze che purtroppo continueranno a manifestarsi anche in futuro, torneremo nel dettaglio, perché si tratta di un’operazione per molti versi, tutti negativi, esemplare. Qui è importante ribadire il carattere di mistificazione mediatica che l’ha caratterizzata soprattutto in quest’ultima fase. Come ci auguriamo emergerà ben presto con sempre maggiore chiarezza, il commissariamento non ha apportato alcun elemento di innovazione scientifica, anzi ha provocato un’impasse nelle pratiche operative della Soprintendenza, proprio perché non accompagnato da un adeguato percorso metodologico.
Quanto all’Accademia dei Lincei, condividiamo toto corde l’opinione di Montanari: anche in questo campo è giunto il tempo di procedere ad un’operazione di verità. Ricerca e innovazione abitano altrove.
E da molto tempo, come testimonia un aneddoto risalente al 1953. Di fronte ad un Ranuccio Bianchi Bandinelli esterrefatto (per l’ignoranza dell’interlocutore), un archeologo linceo di lungo corso che per carità di patria non nomineremo, manifestò tutta la sua riprovazione per il livello a cui si stava abbassando la veneranda Accademia, rea di concedere riconoscimenti “persino ad una miss” (sic!). Si trattava del Premio Feltrinelli assegnato a Mies van der Rohe. (m.p.g.)
Sulle nostre vetuste istituzioni culturali, in eddyburg:
Il colore della cultura: La nottola di Minerva