Tra il 2008 ed il 2011 il bilancio del Ministero per i Beni culturali si è ridotto di un terzo (1,42 miliardi di euro). La nostra spesa per istruzione e cultura (4,4 per cento del Pil; 9,7 per cento della spesa pubblica) si colloca sotto la media europea (rispettivamente 5 e 11 per cento), e siamo sotto al ventesimo posto (peggio di noi, paesi come la Grecia o la Romania). Il massacro dei bilanci degli enti locali ha fatto il resto.
In compenso, siamo l’unico Paese al mondo in cui la tutela del patrimonio storico e artistico sia iscritto tra i principi fondamentali della Costituzione (articolo 9). E quell’enorme e straordinario patrimonio è capillarmente diffuso sul territorio, fuso in un’unica cosa con l’ambiente ed il paesaggio.
L’incredibile vicenda di Corcolle è perfettamente simbolica anche da questo punto di vista: la discarica riusciva in un colpo solo a distruggere l’ambiente (e dunque la salute dei cittadini), il paesaggio (non un valore estetico, ma identitario e ‘sociale’ nel senso più ampio), il patrimonio storico e artistico (con un bene simbolo come Villa Adriana, uno dei 47 siti italiani che l’Unesco ha dichiarato di valore universale per l’umanità). Su Corcolle si è ingaggiata una battaglia che ha visto uniti, e alla fine vittoriosi, il ministro dell’Ambiente e quello dei Beni Culturali (che ha dato qui il suo primo, e speriamo non ultimo, segno di vita). Un’ulteriore prova della bontà della vecchia idea di Giovanni Urbani (rilanciata da Gian Antonio Stella in questi giorni) di unificare i due ministeri. Ma per una vittoria ci sono mille sconfitte.
A Milano non si riescono a fermare le ruspe che devastano il cimitero paleocristiano di Sant’Ambrogio per costruire un parcheggio interrato: una causa evidentemente indegna non dico di una minaccia di dimissioni, ma almeno di una parola, da parte del milanesissimo e cattolicissimo ministro Ornaghi, che come rettore dell’Università Cattolica è pure dirimpettaio dello scempio. Quella di voler costruire parcheggi sotterranei sotto monumenti delicati è una mania italica. Nel centro di Pistoia, per esempio, se ne vuol scavare uno sotto la meravigliosa e fragile chiesa romanica di San Bartolomeo in Pantano: che, come dice il toponimo, sorge su un terreno non esattamente solido.
Oltre alle minacce dal sottosuolo, ci sono quelle che vengono dalle sopraelevazioni e dalle cementificazioni.
A circa centocinquanta metri dalla Cappella degli Scrovegni affrescata da Giotto (uno dei santuari della storia dell’arte italiana) l’amministrazione comunale di Padova vorrebbe costruire un auditorium con un piano interrato profondo 19 metri. Secondo la relazione dell’autorevole commissione scientifica nominata dallo stesso Comune, se i lavori non fossero condotti con particolari cautele, l’alterazione dell’equilibrio della falda potrebbe mettere in pericolo la statica della Cappella (la cui cripta è già perennemente allagata). Dopo l’appello di un folto gruppo di intellettuali e cittadini guidati da Chiara Frugoni, il sindaco Flavio Zanonato si è detto disposto a rinunciare al piano interrato (che dunque non doveva essere così necessario!).
Ma a 200 metri da Giotto, nell’area cosiddetta PP1 (già prevista a verde pubblico), ha preso il via la costruzioni di due torri, una delle quali sarà alta 109 metri, con uno scasso profondo 30 metri e una vasca che interferisce direttamente con l’equilibrio delle acque che minacciano la cappella. Insomma, una metafora perfetta dell’incombere della cementificazione sul tessuto paesaggistico e storico-artistico di quello che un tempo si definiva il giardino del mondo.
Di nuovo vicino a Roma, a Genazzano, il contesto naturale del ninfeo protocinquecentesco collegato all’antico palazzo dei Colonna e attribuito a Bramante (oggi in proprietà del Comune) è in corso di distruzione : un muro di cemento e cinque ville a schiera devastano uno dei più precoci esempi di giardino rinascimentale all’antica. D’altra parte, se attentiamo alla stessa Villa Adriana, perché risparmiare le sue conseguenze storiche?
Più a sud, tra Napoli e Caserta, sorge la reggia borbonica di Carditello, saccheggiata di ogni suo arredo sotto l’occhio annuente della Camorra. Una delle cose che fa più impressione, visitando Carditello e il suo territorio, e che mentre nessuno monta la guardia alla reggia, l’esercito controlla in modo assai efficiente le vicinissime e terrificanti discariche, apostrofando con durezza i cronisti e gli studiosi che usano le macchine fotografiche per documentare lo scempio. Grandi cartelli gialli avvertono che le fotografie sono proibite perché le discariche sono “di interesse nazionale strategico”, e dunque sono protette da “sorveglianza armata”. Per noi, insomma, non è Carditello, non è il patrimonio storico e artistico ad essere strategico per il futuro del Paese. Mentre lo sono la monnezza e i suoi criminosi affari.
Difficile pensare che la salvezza possa venire da sponsor privati, legittimamente interessati ai propri utili e quindi a finanziare solo redditizi luoghi simbolo (come il Colosseo): basti pensare che lo Stato sta per ricomprarsi proprio Carditello, che appartiene virtualmente a Banca Intesa, la quale non ha alcuna intenzione di restaurarla e proteggerla.
Ma per ognuno di questi casi si è creato un movimento dal basso, fatto di comitati di cittadini che chiedono che le loro tasse servano anche a mantenere il patrimonio di cui sono proprietari in forza della Costituzione. È da qui che bisogna ripartire.
Rispondendo a una interrogazione alla Camera il 19 aprile scorso, il ministro Lorenzo Ornaghi diceva di aspettare “sereno l’esito delle indagini”. Fosse stato un po’ meno “sereno” avrebbe potuto evitare di perdere la faccia. Le responsabilità del Mibac in questa storia, infatti, sono tante e pesantissime: una gravissima e continuata omissione della tutela di un inestimabile bene dello Stato. Il primo punto riguarda la nomina di uno come Marino Massimo De Caro a direttore dei Girolamini. La Biblioteca è statale, ma una convenzione prevede che il conservatore del complesso sia un religioso (Sandro Marsano, indagato anch’egli), il quale deve scegliere il direttore della Biblioteca tra gli stessi religiosi . Visto che la Congregazione dell’Oratorio è ormai svuotata, si pensò bene di scegliere De Caro, chiedendo una deroga al Mibac. Ebbene, quando, il 1° giugno 2011, il Direttore Nazionale delle Biblioteche Maurizio Fallace ratificò la nomina, avrebbe dovuto prendere qualche informazione.
E sarebbe bastato Google per capire che era come mettere una volpe a guardia del pollaio. Ciò non venne fatto per una ragione ben precisa: De Caro era consigliere del ministro dei Beni culturali, Giancarlo Galan (probabilmente su richiesta di Marcello Dell’Utri, già capo di Galan in Publitalia). E questo è il secondo punto. Perché, prendendo il posto di Galan, Ornaghi conferma De Caro come proprio consigliere, senza nemmeno chiedersi chi fosse? È stata solo un’imperdonabile leggerezza, o il ministro tecnico ha obbedito a pressioni politiche? Terzo, cruciale, punto. Il 23 febbraio viene disposta una ispezione ai Girolamini. La svolta? Manco per nulla: l’ispezione viene ‘rimandata’. E quando (5 aprile) i bibliotecari onesti chiedono formalmente al Mibac di valutare molto attentamente la consegna della chiave del sancta sanctorum della biblioteca al direttore, da Roma arriva un burocratico, terribile, nulla-osta. L’ispettrice, invece, arriva solo il 17 aprile, cioè quasi venti giorni dopo il mio articolo sul Fatto (30 marzo) che ha fatto esplodere la questione. E ciò che scrive supera ogni immaginazione: la biblioteca appare devastata. Due giorni dopo arrivano i sigilli dei carabinieri.
Quarto punto. Nemmeno la millanteria della laurea (accertata da Gian Antonio Stella il 17 aprile) convince Ornaghi a cacciare il suo immacolato consigliere. Va alla Camera a dire che ne accetta l’autosospensione. Solo dopo una visita del procuratore aggiunto di Napoli, si decide a cacciarlo. Ma non lo dice a nessuno: troncare, sopire. Scandalosamente, Marsano e De Caro rimangono al loro posto: De Caro si dimette il 15 maggio, Marsano viene rimosso (dai suoi superiori) solo il 21. E nella lettera in cui Marsano accetta le dimissioni di De Caro, il religioso scrive che, essendo state suggerite dal direttore Fallace, egli ritiene le dimissioni “un ordine superiore”. Il che fa cadere come un castello di carte le autogiustificazioni che Ornaghi aveva esibito alla Camera, scaricando il barile sugli Oratoriani: sappiamo con certezza che, se Ornaghi avesse voluto, avrebbe potuto indurre De Caro a dimettersi quasi due mesi fa (invece che pochi giorni prima che fosse arrestato!).
Se i Carabinieri del Nucleo di Tutela guidato da Raffaello Mancino e il pool di magistrati guidato dal Giovanni Melillo avessero reagito come il Mibac, oggi la devastazione e il sacco dei Girolamini sarebbero in sereno svolgimento. Lorenzo Ornaghi ha l’occasione di fare qualcosa che nessuno in questo Paese sembra saper fare: chiedere scusa agli italiani, e ringraziare le migliaia di cittadini che, firmando l’appello promosso dallo storico dell’arte Francesco Caglioti, hanno innescato il salvataggio dei Girolamini. Vera supplenza civile e popolare di una tutela pubblica ormai vacante.
Ha vinto la cività
di Antonio Padellaro
Davanti alla sciagurata decisione di aprire una discarica di rifiuti accanto a Villa Adriana, patrimonio dell’Umanità, c’eravamo appellati alla sensibilità civile e istituzionale di Monti e dei suoi ministri. Non è possibile, scrivevamo, che personalità europee, illustri cattedratici e gran commis dello Stato si comportino come quei politicanti da quattro soldi che hanno ridotto l’Italia in brandelli.
Infatti, con una decisione che fa onore a questo governo, Villa Adriana è stata salvata dallo stupro organizzato a cura delle solite cricche affaristiche con buoni addentellati nella Pubblica amministrazione. Una volta tanto è la civiltà che sconfigge la barbarie.Ciò non avviene per caso ma per la combinazione positiva di due fondamentali fattori di democrazia.
Prima di tutto c’è la pressione esercitata da un giornalismo libero che non ha timore di disturbare il manovratore. Lo rivendichiamo con orgoglio noi del Fatto Quotidiano che alle prime notizie sullo scempio che si stava perpetrando non abbiamo perso tempo. Le nostre inchieste sulla discarica di Corcolle che già “puzzava” (e non solo a causa dell’immondizia), unite alla sollevazione dei nostri lettori, cui ha dato voce forte e chiara (è il caso di dirlo) Adriano Celentano, hanno agito da detonatore.
Si chiama opinione pubblica: quando si fa sentire e ottiene il giusto la democrazia è più forte. Oggi possiamo dirlo con orgoglio.Tuttavia, la pressione della libera stampa non sarebbe stata sufficiente senza un governo capace di riflettere e di cambiare strada. Monti e alcuni ministri hanno probabilmente capito che la scelta iniziale era condizionata da valutazioni parziali e orientate non verso il bene collettivo, ma a favore di interessi privati anche oscuri. Conseguenza inevitabile, le dimissioni del prefetto di Roma Pecoraro responsabile del malsano progetto, assieme al presidente della Regione Lazio Polverini non nuova a imprese del genere.
Un cambiamento di rotta che con il governo precedente, ne siamo certi, non sarebbe accaduto. Oggi possiamo dirlo con maggior fiducia: qualcosa sta cambiando.
VILLA ADRIANA È SALVA
Il governo rinuncia alla discarica a Corcolle Prefetto costretto alle dimissioni da Commissario
di Malcom Pagani
Per somigliare definitivamente a Gianni Letta, il sottosegretario Antonio Catricalà dovrà studiare a lungo. Il primo vero esame affaristico-politico dell’era tecnica lo boccia inesorabilmente e, in un’afosa mattina romana di inizio estate, trascina a fondo la fredda logica della devastazione del patrimonio artistico. Villa Adriana è salva. La discarica di Corcolle non si farà. Il commissario straordinario Giuseppe Pecoraro vede il mondo ribaltarsi in una notte. Da padroncino dell’emergenza rifiuti a rifiuto da licenziare in tronco con lo struggente espediente delle dimissioni su richiesta, a sole 48 ore dalla fiducia governativa.
Sostituito da Goffredo Sottile, il grande amico di Luigi Bisignani ha il profilo sgualcito di un uomo che perde due partite in un sol colpo. Aveva affidato la consulenza sulla cava nei pressi di Tivoli a un vecchio amico di famiglia e al suo consulente. Sognava di diventare Capo della Polizia. Rimarrà invece, fino alla prevista sostituzione, Prefetto di Roma. Intorno alla sua figura obliqua, volano stracci e insulti (“irresponsabile”) tra Renata Polverini e Gianni Alemanno. Il sindaco, convinto teorico della giravolta in corso d’opera, tira in ballo la Provincia: “La competenza per individuare le aree idonee o non idonee allo smaltimento di rifiuti è sua” e Zingaretti, lesto, risponde parlando di “stop alle discariche” e guarda lo spettacolo dall’uscio, come è di moda, a propria insaputa: “Non è vero. Non c’entriamo nulla”. Ieri mattina, facendo slittare il previsto Cdm di 40 minuti, nello studio privato del premier a Palazzo Chigi si è svolto un prevertice. Cinque personaggi in cerca d’autore. Facce tirate. Gelo. Il titolare dell’Ambiente Clini, reduce dal Brasile, quello dell’Interno Cancellieri, Monti, Ornaghi e il sottosegretario Catricalà, uno degli sponsor dello scempio. Incredulo. Teso. Il premier, di pessimo umore per la sottovalutazione complessiva dell’intera vicenda, aveva trascorso il pomeriggio precedente ad ascoltare lo sdegno di un altro presidente, quello onorario del Fai, l’amica quasi novantenne Giulia Maria Mozzoni Crespi.
La fondatrice del Fondo ambiente italiano, una donna che dopo aver guidato giganti dell’editoria, si occupa di tutela dei capolavori dal 1975, avrebbe ricordato a Monti la sua recente presenza nel Cda della creatura nata per impedire orrori e saccheggi e chiesto “saggezza e dignità”. Monti l’ha ascoltata. Poi ha fatto lo stesso con Anna Maria Cancellieri, combattiva: “Pecoraro è stanco, va immediatamente sostituito” e impegnata a descrivere i contraccolpi anche mediatici che un’accentuata insistenza governativa avrebbe fatto deflagrare: “I giornali ci descrivono per quelli che non siamo. Il Paese non capirebbe. Dobbiamo fermarci”. Poi, dopo aver registrato la contrarietà di Catricalà al passo indietro: “Mi adeguo, ma è un manifesto di debolezza”, è stata la volta di Clini e Ornaghi. Il primo, laconico, ha ricordato l’opposizione formale del suo ministero.
Il secondo, messo di fronte a un dilemma amletico, ha scelto, per una volta, di essere. “Se andiamo avanti, rimetto oggi stesso il mandato”. Un’opzione coraggiosa, una di quelle curve annunciate da cui fuggire è impossibile. Con le dimissioni del rettore della Cattolica sul tavolo e lo spettro di una minicrisi di governo, Monti, concentrato per l’intera assise, si è deciso. Incarico di commissario straordinario conferito al Prefetto Sottile per cercare rapidamente un nuovo sito che sostituisca Malagrotta (Quadro Alto, Riano, è il preferito di Clini ma in corsa c’è anche il vicino Pian dell’Olmo) e rapido passaggio collegiale in Consiglio dei ministri per esporre la sindone di Clini e Ornaghi e il “sacrificio” di Pecoraro. Nel pomeriggio, dopo mesi di critiche aspre, mentre Clini ammetteva l’addio ufficiale al progetto: “Direi di sì”, Ornaghi ha assaporato la revanche.
Il salvataggio di Villa Adriana gli vale il plauso di mezzo arco costituzionale, compreso quello del nemico di ieri, l’archeologo Carandini, in prima fila nel pomeriggio con Veltroni e mezzo Pd al “Teatro dei Servi”. Ornaghi, comprensibilmente retorico, incassa senza esagerare. Ma è raggiante: “Qui non ci sono né vincitori né vinti. Hanno prevalso ragionevolezza e buon senso. L’unica trionfatrice è la cultura”. L’altra faccia della luna è l’ovale di Renata Polverini. Il governatore non si aspettava un finale del genere. Su Corcolle e sul suo indotto, lavorativo ed elettorale, aveva puntato moltissimo un rilevante segmento di centrodestra laziale. Polverini non si dà pace e prima difende Pecoraro: “Ha subìto un’aggressione assolutamente vergognosa” poi rende, anche plasticamente, la decomposizione in corso nel fu Pdl.
Il bersaglio è l’antico sodale Gianni Alemanno, prima favorevole e poi contrario alla discarica: “Rimettiamo al Sindaco e al consiglio comunale le loro competenze”. Tradotto: trovino rapidamente il sito perché – si rivela Renata – minacciando: “Non sono disponibile a firmare la proroga di Malagrotta e soprattutto” le sfugge in un lampo rivelatorio: “Non sono disposta ad andare verso una soluzione che mantenga un monopolio privato in questa città”. Allora, a guardare oltre capitelli, profili, colonne e appelli, si trattava di questo. La discarica era un affare. Corcolle un nome privo di senso. Bisognava indebolire Manlio Cerroni, il paperone dell’immondizia dal cuore cattocomunista. Togliergli un potere incalcolabile. Ridistribuire, non solo geograficamente, il prodotto di un’equazione. Di un paradosso della modernità precipitato in duemila anni di storia. Ciò che mangiamo. Chi fa sparire i resti. Quanto costa il disturbo. Sopra Roma volano i gabbiani. Fino a ieri vigilavano gli avvoltoi.
Il nuovo commissario tra immondizia e razze equine
Goffredo Sottile, il nuovo commissario per i rifiuti del Lazio, con l’immondizia ha già avuto a che fare, essendo stato commissario delegato per l’emergenza rifiuti in Calabria. Romano, classe 1940, ha intrapreso la carriera prefettizia nel 1969. Un uomo di lungo corso, che ha prestato servizio presso le Prefetture di Nuoro, Frosinone (Capo di Gabinetto) e a Roma, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, in qualità di Capo della Segreteria Tecnica del sottosegretario delegato ai Servizi di Informazione, e il ministero dell’Interno, dove, in ultimo, fino alla nomina a Prefetto, ha svolto le funzioni di vicecapo di Gabinetto e, per molti anni, quella di Segretario del Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica. Nel 2007, su proposta dell’allora ministro Paolo De Castro, fu nominato presidente dell’Unire, Unione nazionale per l’incremento delle razze equine. La sua voglia di trasparenza e pulizia non gli ha portato molti consensi. Lo scorso anno è stato anche vicepresidente generale del Club Alpino italiano.
INTERVISTA. Il professor Salvatore Settis
“Ma sui Beni culturali siamo allo sbando”
di Alessandro Ferrucci
Professore Salvatore Settis, ci spiega l’importanza di Villa Adriana?
È uno dei siti archeologici più importanti al mondo: la Villa privata di un Imperatore molto particolare.
Da che punto di vista?
Adriano era un architetto, un uomo colto, amante della cultura greca. Le fonti ci rivelano che lui stesso progettava. E la Villa era una residenza arredata in modo straordinario: le sue statue e i suoi mosaici sono nei grandi musei del mondo, da quando si è iniziato a scavare nel ’600. Poi c’era un’integrazione straordinaria con il paesaggio, che negli ultimi anni è andata progressivamente persa a causa dell’incuria e dei pochi fondi. Oltre al calo dei visitatori nonostante il bollino Unesco.
Magari questa storia ha portato nuova notorietà alla Villa...
Sarebbe bello, ma lo Stato deve tornare a curarla come merita, stiamo pagando il taglio ai Beni culturali voluto da Berlusconi nel 2008.
Oltre un miliardo...
Di più: ci avviciniamo al miliardo e mezzo di euro. E ora si iniziano a vedere gli effetti di una politica del genere.
Perché solo adesso?
Semplice: progressivamente stanno terminando i fondi già programmati e stanziati. L’incuria di Villa Adriana è il corrispettivo esatto dei crolli di Pompei o della Domus Aurea a Roma. Ma in Italia abbiamo anche altre situazioni preoccupanti.
Come la Cappella degli Scrovegni a Padova.
Un caso clamoroso! Lì gli affreschi di Giotto, incunabolo di tutta la pittura occidentale europea, sono in pericolo. A pochissima distanza hanno iniziato a scavare le fondamenta per realizzare due torri enormi, quando in tutta la zona incide una falda acquifera che già penetra nei sotterranei della Cappella.
Il ministro Ornaghi è intervenuto?
Totalmente assente. C’è qualche timida iniziativa della Soprintendenza locale, niente più.
Possibile?
Purtroppo è così. In compenso il sindaco di Firenze, Renzi, ha dichiarato che Ornaghi andrà a Palazzo Vecchio per visitare quei buchi orribili sugli affreschi di Vasari. Vogliono cercare un Leonardo che non c’è.
A questo punto le chiedo un giudizio generale sul tecnico Ornaghi.
Premesso: non è un tecnico dei Beni culturali e questo lui lo sa benissimo. Per fortuna nel caso di Corcolle si è fatto sentire, aiutato dall’intervento del ministro Clini. Spero vivamente che l’episodio segni una svolta nel suo impegno al Mibac. Per adesso sembra aver avuto pochissima voglia di fare il ministro.
Però ha trovato il tempo per commissariare il Maxxi a Roma.
Lasciamo perdere. Pensi: in quel caso ha defenestrato uno dei migliori funzionari italiani, Pio Baldi, in un altro ha legittimato Marino Massimo De Caro, mercante di libri, sospettato di furti, a dirigere la biblioteca Girolamini.
Lei prima ha nominato Clini. Il ministro dell’Ambiente, assieme a Ornaghi, si è occupato di “inchini” dopo la tragedia della Concordia. A Venezia le navi da crociera entrano ancora.
Il governo dopo essersi stracciato le vesti per il disastro del Giglio, ha trovato una soluzione : le grandi navi non si possono avvicinare a meno di 400 metri dalla costa, con l’eccezione di Venezia. Quindi, il luogo più delicato d’Italia non è tutelato.
Magari non c’è pericolo...
A marzo ero a Venezia quando una di queste navi ha rotto gli ormeggi. Per fortuna sono intervenuti due rimorchiatori che erano nei paraggi. Forse per risolvere il problema aspettano un incidente.
Quando è all’estero, qual è l’aspetto che più la colpisce. Cosa vorrebbe importare?
Al Louvre o al Prado gente come De Caro non sarebbe mai entrata. Da noi non si ragiona per competenze, ma per amicizie. Eppure Ornaghi non sente l’esigenza di scusarsi. Almeno il suo predecessore, Galan, ha ammesso di averlo preso su consiglio di Dell’Utri.
Abbiamo fermato i barbari del Terzo millennio”
I COMITATI RILANCIANO: “NESSUN’ALTRA CAVA, SERVE UN PIANO SERIO PER I RIFIUTI DEL LAZIO”
di Nello Trocchia
Nei pressi della Villa campeggia una scritta: “Adriano scatena l'inferno”. Una invocazione, una preghiera laica impressa su uno striscione per scongiurare l'incubo pattumiera. Sotto un cuore diventato il simbolo della protesta anti-discarica. Protesta pacifica che ha attraversato l'oceano con le petizioni firmate da docenti e presidi di facoltà internazionali. “Il mondo ha sollevato un bel vallo – ricorda il musicista e attivista anti-discarica Alberto Marchetti – come quello che aveva fatto Adriano per fermare i barbari, noi abbiamo fermato i barbari del Terzo millennio”.
Dopo 7 mesi la battaglia è vinta, i comitati si ritrovano nel primo pomeriggio per festeggiare davanti alla Villa Adriana che ormai è salva. Il nuovo sito previsto per il dopo Malagrotta, il mega invaso che serve Roma da 30 anni, non sarà realizzato a 700 metri dalla zona di rispetto della residenza dell'imperatore Adriano. La notizia arriva a metà mattina: il Consiglio dei ministri ha detto no alla discarica in zona Corcolle, al confine tra Roma e Tivoli, il prefetto Giuseppe Pecoraro si è dimesso da commissario per l'emergenza. Parte un tam-tam di messaggi tra i componenti del comitato che fin dall'inizio si sono mobilitati in difesa del sito, patrimonio dell'Unesco. “Ieri il ministro dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi – ricorda Gianni Innocenti, comitato anti-discarica – è venuto a Corcolle, quello che non ha fatto il commissario Pecoraro. Ornaghi si è reso conto che da Villa Adriana si vedeva la parete della cava dove sarebbe sorta la discarica. Così ha vinto il buon senso”.
Al brindisi di metà pomeriggio arrivano tutti. I comitati mettono in fila le personalità del mondo della cultura e del cinema che si sono spesi per la villa: “Franca Valeri, Sabina Guzzanti, Philippe Daverio, Antonio Padellaro, Urbano Barberini”. I turisti e le scolaresche guardano divertiti i festeggiamenti. Gabriella Cinelli gestisce il ristorante di famiglia di fronte alla villa, prende emozionata il libro dei ricordi. “Ha vinto la memoria. Villa Adriana ha sorpreso gli intellettuali del mondo della cultura. In questo volume ho conservato le firme dei grandi da Fellini a Togliatti, da Mastroianni a Bergman”. Una vittoria che è anche una dedica racchiusa nei versi di Adriano: Animula, vagula, blandula, piccola anima smarrita e soave. “L'idea folle di Pecoraro – conclude Gabriella – se realizzata, avrebbe sconfitto la nostra anima”. E c'è chi evoca una staffetta culturale in difesa del sito, patrimonio dell'Unesco. “Abitavo nella villa – ricorda Tito – mio padre era custode, ricordo la battaglia condotta negli anni Sessanta per salvare la residenza dell'imperatore. Quando mi hanno detto che volevano fare la discarica ho pensato che la storia si ripete”. Vittorina è una professoressa in pensione, insegnava italiano e latino al liceo: “È stato evitato uno sfregio. Abbiamo festeggiato alla notizia delle dimissioni di Giuseppe Pecoraro”. Il prefetto che esce sconfitto così come la governatrice del Lazio Renata Polverini che aveva difeso la scelta di Corcolle. Un brindisi che è anche consapevolezza.
I rifiuti prodotti dalla città di Roma ora dovranno trovare un altro buco e si sono persi sette mesi inseguendo siti inidonei, mentre la raccolta differenziata, nella capitale, è ferma al 25 per cento. La legge prevede che si raggiunga il 65 per cento entro il dicembre di quest'anno. Sono circa due mila le tonnellate che ogni giorno finiscono in discarica senza alcun trattamento in violazione della normativa vigente.
“Non è sufficiente – ricorda Gianni Innocenti – salvare Corcolle e condannare un'altra cava. Fino a quando non ci sarà un piano serio dei rifiuti nel Lazio, non si può gioire completamente”.
Arriva il momento del brindisi liberatorio. I comitati si fanno immortalare in una foto e tra i più giovani c'è Giuliano che, con la villa alle spalle, scrigno di storia e memoria, evoca Peppino Impastato, intellettuale e giornalista, ucciso dalla mafia nel 1978: “Aveva ragione lui. Brindiamo alla bellezza”.
La campagna del “Fatto” e l’appello di Celentano
Subito prima che il Consiglio dei ministri decidesse delle sorti di Villa Adriana, ieri sulla prima pagina del Fatto è comparso l’appello di Adriano Celentano: “Caro Monti, ancora un paio di questi colpi e alle prossime elezioni i Grillini te li troverai anche in camera da letto”. Celentano ha fatto propria la preoccupazione di milioni di italiani per un bene che è patrimonio mondiale dell’Unesco e ha lanciato l’allarme per una possibile nuova bomba ecologica.
GIUSEPPE PECORARO
LO SCERIFFO DEI ROM E LE AMICIZIE PERICOLOSE
di Silvia D’Onghia
Ma figuriamoci se Bisignani si è speso per la sua nomina a Prefetto di Roma... Bisignani, nella manifesta ingenuità di Giuseppe Pecoraro, è solo “un imprenditore che conosce tutti”. Ecco perché si è rivolto al faccendiere coinvolto nell’inchiesta P4 per contattare Angelo Rovati, costruttore del parco giochi di Valmontone. La Presidenza del Consiglio non gli aveva risposto, e così il secondo numero in agenda era quello di Bisignani. “Il Pecoraro – si legge nell’interrogatorio del faccendiere – sapendo che ero buon amico di Rovati, mi disse che lo stesso avrebbe avuto problemi e che lui non avrebbe mai potuto autorizzare l’apertura (del parco, ndr) per problemi di viabilità legati all’Autostrada A1”. Oggi, passando da Valmontone sull’A1, Rainbow Magicland lo si saluta con la manina.
Giuseppe Pecoraro è Prefetto della Capitale dal novembre 2008, quando – mettendosi “al servizio della città” – sostituì Carlo Mosca, rispettoso dei Rom e per questo nemico del sindaco Alemanno. Il quale evidentemente, secondo il neo funzionario di Governo, aveva già fatto il miracolo: a Roma “non ci sono emergenze” dichiarò Pecoraro appena insediato e appena sette mesi dopo la campagna elettorale vinta dal candidato del centrodestra sulla paura degli stupri e degli stranieri.
Il Prefetto dettò subito la sua agenda: cortei, sgomberi e, appunto, nomadi. Non una parola – mai, nel corso di questi anni – sulle mani delle mafie che si stavano prendendo la città, lasciando sull’asfalto una scia di morti e vendette. Anzi. “I recenti omicidi non sono assolutamente da attribuire alla presenza della criminalità organizzata”. Non vedo, non sento, ma parlo. Solo “risse tra gruppi di balordi”.
Rimarrà alla storia, oltre alla pessima figura internazionale dovuta alla scelta di Corcolle per la nuova discarica, la pantomima del Piano nomadi. Il motivo per cui era stato tanto voluto da Alemanno e, forse, anche il motivo per cui quell’amicizia è drammaticamente finita. Le prime parole di Pecoraro furono una manna per le orecchie del sindaco. “Intendo realizzare quanto prima un progetto di integrazione sociale delle persone che vogliono e meritano di essere inserite nella comunità”. dichiarazione battuta dalle agenzie il 26 dicembre 2008, Santo Stefano. “Integrazione e monitoraggio dei campi nomadi”: 26 gennaio 2009.
Un climax. “Campi recintati con presìdi di controllo interni ed esterni, ma senza i militari, tesserino d’identificazione da mostrare ogni volta che si entra”: 18 febbraio 2009. “Sgomberare i 200 micro-accampamenti abusivi, arrivare a dieci campi autorizzati”: 7 settembre 2010. “Sgombereremo oltre 50 micro-insediamenti abusivi”: 8 febbraio 2011. Passano gli anni, ma i Rom restano. I campi previsti nel Piano non si realizzano, i sindaci dell’hinterland romano non li vogliono, la guerra agli accampamenti produce solo un grave dispendio per le casse del Campidoglio. E quel filo rosso che collega Palazzo Valentini al Campidoglio, poche centinaia di metri, si spezza. “Il nuovo protocollo sui cortei al momento ‘non è una priorità’. Ne è convinto il prefetto Pecoraro. Ed è scontro col sindaco”, recita un’Ansa del 24 maggio dello scorso anno.
E allora ecco che, nominato commissario per l’Emergenza rifiuti, tra un Cafonal di Dagospia e l’altro, Pecoraro ha prospettato scenari apocalittici con Roma invasa di rifiuti come Napoli: “Prenderò provvedimenti contro chi ci farà andare in emergenza”. Ieri i provvedimenti li hanno presi contro di lui.
Il tempo stringe e si stringe anche il cappio intorno alla piccola comunità di Corcolle. Il ministro Lorenzo Ornaghi è piombato a sorpresa, ieri, nel sito dove dovrebbe spalancarsi la cava che ospiterà l’immondizia di Roma. Ha visitato anche Villa Adriana, che è lì a qualche centinaio di metri. Prima d’ora c’era stato da turista, adesso ha voluto rendersi conto di quale distanza separi il luogo della discarica da uno dei siti archeologici più pregiati al mondo, dove l’imperatore Adriano voleva fossero racchiuse le sue predilezioni culturali. Non ha cambiato idea: se si fa la discarica lui si dimette. Oggi c’è un consiglio dei ministri, ma non è chiaro se si parlerà di Corcolle. Per il prefetto-commissario Giuseppe Pecoraro la partita è chiusa: «Le mie scelte le ho prese: ora tocca agli altri rispettarle o assumersi la responsabilità di fare andare Roma in emergenza». Pecoraro smentisce che ci saranno altre consultazioni, come aveva sostenuto il sindaco di Roma Gianni Alemanno. Si va, aggiunge, «verso la conclusione della conferenza dei servizi. Poi se ci sono degli ostacoli giuridici od opportunità me lo faranno sapere».
I no alla discarica fioccano da ogni parte e sovrastano il sì al quale si abbarbica Renata Polverini. La questione rimbalza sul governo. Ornaghi ha pronte le dimissioni. Clini è contrario. Severino e Cancellieri sono perplesse. E Monti? Se la sua opinione coincide con quella del sottosegretario Catricalà, per Corcolle non c’è speranza. Dal punto di vista tecnico, la discarica potrebbe essere pronta entro un anno. Ma sarà sufficiente solo se i rifiuti sversati saranno pretrattati. E questa è ancora un’incognita, legata anche all’intensificarsi della raccolta differenziata in città (ma Roma è molto indietro). Si fa vivo Manlio Cerroni, proprietario di Malagrotta (che dovrebbe chiudere) e di altre aree prontamente acquistate e di nuovo offerte come sede di discariche (Pian dell’Olmo). Rendono ancora più complicato il cammino della discarica esposti e denunce penali. Le associazioni ambientaliste sono mobilitate. I comitati incalzano: «Corcolle sarà la nostra Tav».
Le procedure commissariali sembrano blindate. Si è proceduto in deroga, Pecoraro ha nominato suoi consulenti. Non sono stati considerati gli organi tecnici del ministero per l’Ambiente e di quello dei Beni culturali, che per prassi, in caso di una discarica, compiono valutazioni sulla tipologia e le quantità di rifiuti, sulla natura geologica del sito, sulle conseguenze sanitarie, sull’incremento di traffico, oltre alle analisi sull’impatto paesaggistico e archeologico.
E cosa farà l’Unesco, nel cui patrimonio è compresa Villa Adriana? Se ne parlerà al summit di San Pietroburgo a fine giugno. Ma, confermano fonti dell’organizzazione dell’Onu, sono arrivate segnalazioni, però non è stata avviata nessuna procedura che può portare all’esclusione del sito archeologico dalla lista di quelli protetti.
Sigilli in Biblioteca - Sotto inchiesta il direttore De Caro che, annuncia il ministro Ornaghi, “si è autosospeso”
Paola Maola – Il Fatto Quotidiano
Gli occhi bassi, poche parole preparate, tono della voce dimesso e un po’ impacciato. “Doveva essere una giornata di apertura totale del Complesso. Lo è stata, ad esclusione della Biblioteca che, dopo una denuncia su presunti libri scomparsi, è stata posta sotto sequestro dai carabinieri”. Una triste coincidenza, dunque. Don Sandro Marsano, Conservatore del Complesso dei Girolamini, ieri avrebbe dovuto aprire i locali della più antica Biblioteca di Napoli a cittadini e turisti per la “Giornata di verità”. Una giornata di “contro-informazione”, si diceva, rivolta a tutta la città che, almeno nelle intenzioni degli organizzatori, doveva fare chiarezza dopo le polemiche sulla nomina del nuovo direttore, Marino Massimo De Caro, da ieri autosospesosi e ufficialmente indagato per peculato dalla Procura di Napoli. Perquisite la sua casa di Verona, la foresteria in cui abita quando è a Napoli, interna al complesso dei Girolamini, e anche l’abitazione di padre Sandro. Ieri, i carabinieri ne hanno sequestrati alcuni di cui ora bisognerà accertare la provenienza: non è escluso, infatti, che facciano parte dei libri sottratti alla Biblioteca. Eppure proprio De Caro aveva denunciato la scomparsa di 1500 libri.
Posti, dunque, i sigilli ai por-tali seicenteschi. Il motivo? Per tutelare l’integrità dei volumi custoditi all’interno. E si capisce: la Girolamini possiede un patrimonio di 150 mila volumi antichi e manoscritti, alcuni rarissimi. Non è chiaro, invece, come mai a dirigerla fosse stato imposto dal ministero per i Beni e le Attività culturali (si tratta di una bibilioteca pubblica statale) il sedicente “professor” De Caro, personaggio oscuro, noto per essere legato all’entourage di Marcello Dell’Utri, noto bibliofilo.
Della Biblioteca dei Girolamini si era occupato per primo Tomaso Montanari per Il Fatto. L’aveva visitata e aveva visto pile di libri preziosi poggiate per terra, lattine di Coca Cola sui banconi. Voci intorno parlavano di libri che spariscono con una certa regolarità. Ieri, il ministro per i Beni Culturali Lorenzo Ornaghi ha parlato di “gravi inadempienze” nella contabilità e nella custodia dei libri. Ma è il personaggio di De Caro che ha fatto sollevare i dubbi.
Al momento De Caro è consulente del Mibac nel settore della cultura e dell’editoria nonché delle tematiche riguardanti la normativa in materia di fonti rinnovabili. Era stato scelto da Giancarlo Galan prima quando era ministro dell’Agricoltura e poi ai Beni Culturali. L’attuale ministro Ornaghi l’ha confermato al suo posto “in qualità di consulente esperto”. Il punto è che De Caro non si è mai laureato: iscrittosi all’Università di Siena nel 1992 non ha mai concluso i suoi studi. Si è distinto però per aver mediato nell’affare del petrolio venezuelano mentre era vicepresidente esecutivo di Avelar energia (nel libro di Ferruccio Sansa e Gatti Il sottobosco è “uno dei casi più clamorosi di alleanza tra berlusconiani e dalemiani”). E poi per la buona amicizia con il senatore Dell’Utri: nel 2005, alla Mostra del libro antico sponsorizzata da Dell’Utri, De Caro aveva venduto un incunabolo del 1499 acquistato in Svizzera. Il volume però risultava sottratto ad una biblioteca milanese e l’alacre commerciante librario finì ad essere indagato per ricettazione . La vicenda si concluse con un nulla di fatto: l’oggetto della ricettazione sparì e la posizione delle persone coinvolte fu archiviata.
De Caro è socio di una società di energia del figlio di Dell’Utri e “segretario organizzativo nazionale” dell’associazione “Il Buongoverno-Coesione Nazionale ” costituita lo scorso 27 marzo. Presidente nazionale onorario, ça va sans dire, Marcello Dell’Utri. Erano stati proprio alcuni dei membri del “Buongoverno” al Senato a presentare un’interrogazione al ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, per avviare un’ispezione sulla condotta di Tomaso Montanari e del suo collega accademico Francesco Caglioti che, dopo l’articolo apparso sul Fatto, avevano promosso una petizione per la salvaguardia della Biblioteca. Le firme sono ora circa 4mila tra cui quella di Salvatore Settis, Dario Fo, Gustavo Zagrebelsky e molti altri intellettuali sensibili al tema.
La Biblioteca dei Girolamini è stata affidata in custodia al direttore della Biblioteca nazionale, Mauro Giancaspro. Anche Montanari verrà sentito dai pm: commentando le parole del ministro Ornaghi (che ha specificato che la nomina del direttore della biblioteca non dipende dal ministero), il nostro collaboratore ritiene che Ornaghi avrebbe potuto “revocare immediatamente la ratifica ministeriale alla nomina di padre Sandro Marsano quale Conservatore del Monumento nazionale dei Girolamini, da cui dipende la nomina del direttore della biblioteca, licenziare in tronco De Caro dal ruolo di suo consigliere, nominare immediatamente un commissario straordinario”.
“Giornata di verità” rimandata a data da destinarsi.
Napoli - Ornaghi come Pilato
Tomaso Montanari – Corriere del Mezzogiorno
Tra tanti colpi di scena drammatici, almeno una cosa era evidente fin dall'inizio: a sciogliere l'intricato nodo dei Girolamini sarebbero state la magistratura e le forze dell'ordine, non certo una politica sempre più ignava. Quella politica che pure ha avuto tanta parte nel creare e stringere quel nodo. Una petizione firmata ormai da oltre 3500 persone, e da centinaia di nomi di spicco del panorama culturale e del mondo delle biblioteche, chiede al ministro per i Beni culturali tre cose: rimuovere Marino Massimo De Caro dalla direzione dei Girolamini, dimetterlo dal numero dei suoi consiglieri, aprire una commissione d'inchiesta ministeriale sull'amministrazione passata e recente della Biblioteca.
Rispondendo ieri, alla Camera, alle interpellanze che rilanciavano queste richieste, Lorenzo Ornaghi si è espresso in modo assai evasivo. Se della commissione non ha parlato, circa la direzione della Biblioteca il ministro si è trincerato dietro l'esclusiva competenza della Congregazione dell'Oratorio. Quanto alla carica di consigliere, fonti vicinissime al ministro, riferiscono che Ornaghi avrebbe chiesto a De Caro di dimettersi, finendo poi con l'accettare l'ambigua e compromissoria formula dell'autosospensione, di cui ha riferito a Montecitorio. Ornaghi, invece, avrebbe potuto (dovuto, data la gravità della situazione) fare subito tre cose.
1) Revocare immediatamente la ratifica ministeriale alla nomina di padre Sandro Marsano quale Conservatore del Monumento nazionale dei Girolamini, da cui dipende la nomina del direttore della biblioteca;
2) Licenziare in tronco De Caro dal ruolo di suo consigliere (com'è possibile che a chi millanta pubblicamente titoli di studio — per tacere del resto —, sia consentito di continuare a consigliare un ministro, seppur nella grottesca modalità dell'« auto-sospensione», per definizione in ogni momento revocabile?);
3) Mostrare ai vertici romani della Congregazione dell'Oratorio che è nell'interesse dell'ordine, oltre che in quello dello Stato, nominare immediatamente un commissario straordinario, nella persona del più qualificato bibliotecario in forza al ministro. Il 2 dicembre del 2010, Lorenzo Ornaghi (in qualità di rettore della Cattolica, carica dalla quale è ora — casi della vita — autosospeso) pronunciò un discorso in cui disse che: «Essere 'guelfi', oggi, implica la consapevolezza che la nostra (dei cattolici, ndr) posizione di vantaggio culturale va di giorno in giorno consolidata. Consolidandola, saremo già pronti per quelle nuove 'opere' che — soprattutto per ciò che riguarda la rilevanza e la capacità attrattiva della nostra partecipazione alla vita politica del presente — il futuro prossimo già ci domanda». Per quanto assai singolare, si tratta di una posizione politica rispettabilissima. Ma ora, signor ministro, non è il momento di essere guelfi: è il momento di onorare il giuramento di fedeltà alla Costituzione repubblicana.
Al Ministro per i Beni Culturali, prof. Lorenzo Ornaghi
Gentile signor Ministro,
Le scriviamo a proposito dello stranissimo e increscioso affare che riguarda l’attuale direzione della Biblioteca Nazionale dei Girolamini a Napoli, una delle biblioteche storiche più gloriose d’Italia, nata dalla passione culturale della congregazione di San Filippo Neri. Per volontà di Giovan Battista Vico, in essa confluirono i libri di Giuseppe Valletta: pegno vivo di una stagione in cui Napoli era un crocevia del pensiero filosofico europeo e vera capitale della Respublica literaria universale.
Dopo le enormi perdite e trasformazioni di altri fondi librari avutesi nell’Ottocento, Napoli possiede ormai quest’unico esempio particolare di biblioteca pubblica di origine preunitaria, magnificamente coerente nell’architettura e nelle raccolte in essa ospitate: un organismo che un tempo si affiancava perfettamente alle biblioteche universitarie e alla Nazionale, così come avveniva e avviene in altre antiche capitali italiane, dove però le analoghe biblioteche di origine conventuale, principesca o erudita sono state meno decimate, e svolgono tuttora una funzione preziosissima (si pensi all’Angelica, alla Casanatense, alla Corsiniana e alla Vallicelliana di Roma, o alla Laurenziana, alla Marucelliana e alla Moreniana di Firenze).
Purtroppo le conseguenze drammatiche, mai piante a sufficienza, del terremoto del 1980, hanno contribuito massicciamente a far uscire i Girolamini dall’orizzonte culturale, e prim’ancora dal vissuto quotidiano, della cittadinanza napoletana, con i suoi numerosissimi intellettuali, studiosi e studenti. E ciò spiega perché, nella distrazione ormai consolidatasi, sia cominciata una vicenda come quella che è adesso in corso, e che siamo qui a denunciarLe.
Le chiediamo come sia possibile che la direzione dei Girolamini sia stata affidata dai padri filippini, con l’avallo del Ministero che ne è ultimo responsabile, a un uomo (Marino Massimo De Caro) che non ha i benché minimi titoli scientifici e la benché minima competenza professionale per onorare quel ruolo. E perché questa scelta sia stata fatta in un Paese e in un’epoca affollati fino all’inverosimile di espertissimi paleografi, codicologi, filologi, storici del libro, storici dell’editoria, bibliotecari, archivisti, usciti dalle migliori scuole universitarie e ministeriali, e finiti sulle strade della disoccupazione o della sotto-occupazione (call centers, pizzerie, servizi di custodia).
Le chiediamo inoltre di spiegarci come mai Marino Massimo De Caro, sebbene del tutto estraneo al mondo della biblioteconomia e della funzione pubblica, abbia avuto e abbia comunque curiose implicazioni con i libri, che lo portano tuttavia nel mondo del commercio, facendo emergere fin qui – sempre e soltanto – episodi degni di essere vagliati non da una commissione di concorso, ma dalle autorità giudiziarie (sia pure con l’auspicio dell’innocenza).
Le chiediamo inoltre come mai una figura dai trascorsi così poco chiari e poco chiariti sia stata messa a capo di un istituto che oggi come non mai ha bisogno, tutt’al contrario, non solo di una guida ferrea e irreprensibile, ma di un rappresentante – ben facile da trovare – che respinga ad anni-luce da sé i sospetti di ogni collegamento con quelle gravissime perdite più o meno recenti del loro patrimonio librario che i padri filippini per primi denunciano in questi mesi.
Le chiediamo infine, nel riconsiderare con molta attenzione la scelta di Marino Massimo De Caro come direttore dei Gerolamini (nonché come Suo consigliere personale), di voler creare una commissione pubblica d’inchiesta sull’amministrazione passata e recente di questa biblioteca, prima che la memoria storica dei Gerolamini rimanga affidata soltanto a una maestosa architettura ferita e umiliata, tragicamente solitaria nel cuore di una rete mondiale di traffici rapaci.
Francesco Caglioti, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Dipartimento di Discipline Storiche
Per sottoscrivere la petizione, inviate una mail con nome, cognome e istituzione di appartenenza all’indirizzo: lettera.gerolamini@libero.it
Primo. Occorre affermare con forza la funzione civile e costituzionale del patrimonio. Occorre dire che il patrimonio non è un lusso per i ricchi né è un mezzo per intrattenersi nel “tempo libero”, ma al contrario serve all’aumento della cultura ed è un importante strumento per la rimozione degli “ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” e per l’attuazione piena dell’eguaglianza costituzionale. E occorre anche dire che, dunque, il suo fine non è quello di produrre reddito. Che, cioè, il patrimonio storico e artistico della nazione non è il petrolio d’Italia.
Secondo. Il patrimonio di proprietà pubblica deve essere mantenuto con denaro pubblico: esattamente come le scuole o gli ospedali pubblici. Fatti salvi i principi generali di competenza (per cui vedi il punto 7) potranno ammettersi al più concorsi privati di finanziamenti, di controllata finalizzazione costituzionale. Il patrimonio di proprietà pubblica deve rimanere tale: e sono dunque inammissibili le alienazioni di sue parti a privati. Esso non deve essere privatizzato nemmeno moralmente o culturalmente attraverso prestiti, noleggi, appalti gestionali esclusivi o cessioni temporanee che di fatto ne sottraggono alla collettività il governo, immancabilmente socializzandone le perdite (in termine di conservazione e di degrado culturale) e privatizzandone gli eventuali utili.
Terzo. Il patrimonio appartiene alla nazione italiana (e in un senso più lato esso è un bene comune all’intera umanità), e anzi la rappresenta e la struttura non meno della lingua. È per questo che il sistema di tutela deve rimanere nazionale e statale, e non può essere regionalizzato o localizzato.
Quarto. Il patrimonio è proprietà di ogni cittadino (non pro quota, ma per intero) senza differenze di credo religioso. Il patrimonio, cioè, è laico: ed è tale anche quello religioso e sacro. In altre parole, al significato sacro delle grandi chiese monumentali italiane si è sovrapposto un significato costituzionale e civile che, non negando il primo, impedisce alla gerarchia ecclesiastica di disporre a suo arbitrio di tali porzioni del patrimonio stesso.
Quinto. Il patrimonio che abbiamo ereditato dalle generazioni passate e che dobbiamo trasmettere a quelle future (e del quale dobbiamo render conto a tutta l’umanità) deve rimanere affidato ad una rete di tutelache obbedisca alla Costituzione, alla legge, alla scienza e alla coscienza, e non può cadere nella disponibilità delle autorità politiche che decidono a maggioranza. Ogni forma del plebiscitarismo ormai largamente invalso nel Paese appare, infatti, particolarmente pericolosa se applicata al patrimonio.
Sesto. Il patrimonio storico e artistico italiano è coesteso e fuso all’ambiente e va tutelato, conosciuto e comunicato nella sua dimensione organica e continua. È inaccettabile ogni politica culturale che si concentri sui cosiddetti capolavori “assoluti” (cioè, letteralmente, “sciolti”: da ogni rete di rapporti significanti) per espiantarli e forzarli in percorsi espositivi dal valore conoscitivo nullo. In altre parole, in Italia gli eventi stanno uccidendo i monumenti: e occorre, dunque, una drastica inversione di rotta. Nella stragrande maggioranza, le mostre di arte antica sono pure operazioni di marketing che strumentalizzano le opere, ignorano la ricerca e promuovono una ricezione passiva calcata sul modello televisivo: la discussione e l’adozione di un codice etico – e innanzitutto di una severa moratoria – per le mostre appare dunque urgentissima.
Settimo. È vitale affidare la tutela materiale e morale del patrimonio a figure professionali di sperimentata competenza tecnica e culturale. A seconda dei vari ruoli, esse sono quelle degli storici dell’arte, degli archeologi, degli architetti, dei restauratori diplomati dall’ICR e dall’OPD. Non ha invece alcuna identità specifica (né sul piano intellettuale, né su quello professionale) la figura del cosiddetto “operatore dei Beni culturali”.
Ottavo. Occorre dunque mettere radicalmente in discussione l’invenzione dei corsi e delle facoltà di Beni culturali. Non solo la loro esistenza è intenibile sul piano intellettuale (qual è infatti lo statuto epistemologico dei cosiddetti Beni culturali?), ma sostituendo agli storici dell’arte-umanisti figure di “esperti” o “tecnici” tali corsi e facoltà pongono le premesse per l’azzeramento della tutela e dell’attribuzione di senso culturale al patrimonio stesso. Occorre invece ribadire con forza che la funzione primaria degli storici dell’arte come umanisti è quella di favorire “la riappropriazione critica degli spazi pubblici e dei beni comuni”. Combattere, cioè, perché il tessuto storico delle nostre città torni ad essere lo strumento di crescita culturale garantito dalla Costituzione, e sfugga all’alternativa tra la distruzione e la trasformazione in un parco di intrattenimento a pagamento.
Nono. È necessario restituire dignità e utilità intellettuali alla presenza della storia dell’arte sui media italiani: che attualmente è dilagante, quanto mortificante. Chi può dire di aver appreso, tramite un giornale italiano, qualcosa circa l’attualità della ricerca storico-artistica? Quale saggio, idea, prospettiva scientifica, scuola di pensiero ha potuto trovare uno spazio per presentarsi al grande pubblico? Il novanta per cento degli articoli che trattano di storia dell’arte si occupa di mostre essendone, di fatto, una pubblicità più o meno occulta: gli sponsor comprano sempre più spesso intere pagine dei grandi quotidiani italiani in cui pubblicare stralci del catalogo accanto ad interventi promozionali di noti storici dell’arte. La storia dell’arte rappresenta, di fatto, il fronte più avanzato della mutazione mediatica del dibattito culturale in marketing occulto.
Decimo. Il fronte più importante nella battaglia per la salvezza del patrimonio storico e artistico italiano è quello che passa nella scuola. È vitale difendere e anzi ampliare l’asfittico spazio concesso negli orari scolastici a quella “storia dell’arte che ogni italiano dovrebbe imparar da bambino come una lingua viva, se vuole aver coscienza intera della propria nazione” (la citazione è da Roberto Longhi).
Chi davvero ha a cuore il futuro delle opere d’arte, e della natura e della storia che le hanno generate – cioè chi ha a cuore il futuro del nostro Paese , deve lottare perché le prossime generazioni escano dall’ analfabetismo figurativo che ha afflitto quelle precedenti, e che ha sempre reso cieca la classe dirigente della Repubblica.
* Tq è un movimento di lavoratrici e lavoratori della conoscenza trenta-quarantenni
Quel decalogo per evitare il marketing culturale
Salvatore Settis – la Repubblica, 5 aprile 2012 (m.p.g.)
La demeritocrazia che da decenni governa il destino, e il declino, di un’Italia assai distratta ha regole di ferro. Fra queste: avanti i mediocri, quelli bravi si arrangeranno all´estero; meglio rifriggere banalità condivise, pensare è noioso; largo ai vecchi, i giovani possono aspettare. Perciò leggendo il manifesto TQ "sul patrimonio storico-artistico della nazione italiana" (da oggi disponibile integralmente sul loro sito, n.d.r.) c’è di che stupirsi. Giovani di trenta-quarant’anni che hanno scelto per parlare d’Italia la prospettiva della loro generazione; anzi, i «non pochi storici dell´arte che hanno deciso di aderire a TQ» che convincono gli altri a firmare un manifesto come questo; addirittura, un testo che non ricicla sciocchezze sui "beni culturali" come "petrolio d’Italia", da "sfruttare" fino ad esaurirlo come fosse un combustibile, ma proclama che «il fine del nostro patrimonio non è di produrre reddito», ma di esercitare un’alta funzione civile, di «rappresentare e strutturare, non meno della lingua», la comunità nazionale.
Si sente vibrare molta indignazione e non poca speranza, nelle parole dei TQ. Indignazione (altra singolarità) rivolta in primo luogo verso la corporazione stessa degli storici dell’arte, corresponsabili dell’«inesorabile degrado del ruolo della storia dell’arte nel discorso pubblico italiano», di aver trasformato la loro disciplina in «un fiorente settore dell’industria dell´intrattenimento» prestandosi alla «mutazione mediatica del dibattito culturale in marketing occulto» di mostre ed eventi, anzi dei loro sponsor. Speranza, invece, nella nascosta forza di una disciplina ancora capace di trovare in se stessa le ragioni di un forte ruolo civile, la dignità di una disciplina umanistica, lo status di «sapere critico, strumento di riscatto morale, di liberazione culturale e di crescita umana».
Quello degli storici dell’arte, suggerisce il "manifesto TQ", non è il silenzio degli innocenti. Infatti essi non tacciono, anzi sono impegnati in un vano chiacchiericcio intorno a mostre spesso inutili o dannose, ad attribuzioni implausibili, a "scoperte" mediatiche che rallegrano sindaci e assessori, ma reggono lo spazio di un mattino. Stanno alla larga invece (con pochissime eccezioni) da temi scottanti come il degrado della tutela, la prevaricazione dell’effimero (le mostre) sul permanente (musei e monumenti), la morte annunciata del Ministero dei Beni culturali per mancanza di fondi e di turn over, ma anche per l´espediente, già troppe volte ripetuto, di una sede vacante non di nome, ma di fatto.
Il decalogo che conclude il "manifesto TQ" parte da affermazioni di principio, ma contiene anche importanti proposte. Sua stella polare è l’art. 9 della Costituzione, che congiunge la promozione della cultura e della ricerca con la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione. Ma dobbiamo constatare, scrive amaramente il manifesto, che oggi «la Repubblica né promuove né tutela». Per invertire la rotta, occorre che gli storici dell´arte si impegnino a rilanciare il ruolo della disciplina nella società. Occorre che «la funzione civile e costituzionale del patrimonio» diventi, come in passato, cardine della cultura e della vita della polis: poiché il patrimonio italiano, «coesteso e fuso all’ambiente» e al paesaggio, ne costituisce la più alta cifra simbolica, deposito di memorie e laboratorio del futuro.
Occorre rafforzare e non smantellare il sistema pubblico della tutela, mantenendolo in capo allo Stato per assicurare, secondo Costituzione, identità di criteri in tutto il territorio nazionale. Occorre agire sulla scuola, «ampliando l’asfittico spazio concesso a quella storia dell´arte che ogni italiano dovrebbe imparar da bambino come una lingua viva, se vuole avere coscienza intera della propria nazione», come scrisse Roberto Longhi. Occorre «mettere radicalmente in discussione i corsi di Beni Culturali», che hanno provocato un pericoloso divorzio della storia dell’arte da altre discipline umanistiche. Occorre, insomma, porre rimedio all’«analfabetismo figurativo che ha afflitto le generazioni precedenti e ha sempre reso cieca la classe dirigente della Repubblica».
E´ importante che siano i giovani di TQ a rimettere con determinazione sul tavolo temi come questi. Per chi ha orecchi da intendere, essi dovrebbero servire da contraltare al banale economicismo che considera sinonimi "valorizzazione" e "sfruttamento", e nel patrimonio vede non una risorsa etica e civile, ma un salvadanaio da svuotare. Discorso contrario non solo alla Costituzione e a una secolare tradizione civile e giuridica, ma anche a una concezione meno stantia dei meccanismi socio-economici. Dalle elaborate misurazioni di due economisti americani, David Throsby e Arjo Klamer, risulta che il patrimonio culturale ha due componenti: una è il valore monetario, ma assai più importante è la componente immateriale o valoriale, per definizione fuori mercato.
Dalla conservazione del patrimonio e dalla sua conoscenza derivano benefici stabili per la società nel suo complesso, che accrescendo la coscienza civica e il senso di coesione dei cittadini finiscono col tradursi anche in sviluppo economico. In senso analogo ha argomentato Amartya Sen, pensando alla sua India dove il recupero di storia e arte è andato di pari passo con l’eccezionale rilancio economico. Ma queste idee di innovativi economisti del sec. XXI mostrano, come meglio non si potrebbe, quanto fosse lungimirante la nostra Costituzione del 1948: l’art. 9, infatti, sancisce «la primarietà del valore estetico-culturale», che non può essere «subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici», e pertanto dev’essere «capace di influire profondamente sull’ordine economico-sociale», come ha ripetutamente affermato la Corte Costituzionale. Toccherà ai trenta-quarantenni, ma anche a quelli ancor più giovani, mostrare che i Costituenti avevano ragione.
Non solo archeologi. E neanche solo architetti. Per salvare Pompei arriverà anche un prefetto. Avrà il compito di vigilare che vengano ben spesi i tanti soldi che l'Europa ha destinato per il restauro e la salvaguardia del sito. E di assicurare che sui 105 milioni appena approvati dalla Commissione di Bruxelles non possa mettere le mani la camorra.
Si conosce anche il suo nome: Fernando Guida, attualmente viceprefetto, responsabile dell'ufficio che al ministero dell'Interno si occupa dello scioglimento dei consigli comunali condizionati dalla criminalità.
L'annuncio verrà dato giovedì prossimo a Napoli in un incontro al quale parteciperanno tre ministri, Lorenzo Ornaghi, Fabrizio Barca e Anna Maria Cancellieri, oltre al prefetto del capoluogo campano, Andrea De Martino, e alla Soprintendente Teresa Cinquantaquattro. La quale, però, assicura di non sapere nulla della decisione. E cade letteralmente dalle nuvole. "Giovedì firmerò con il prefetto di Napoli un protocollo d'intesa sulla legalità", dice Cinquantaquattro, "ma di prefetti ad hoc per Pompei nessuno mi ha mai detto niente". La voce di un prefetto che controllasse gare d'appalto, procedure di assegnazione dei fondi e sicurezza dei cantieri circolava da tempo. Si era parlato anche di un coordinamento fra alti funzionari. Ma la conferma che l'orientamento sia invece quello di designare un prefetto con competenze specifiche su Pompei arriva da fonti molto autorevoli del governo. Troppi appetiti potrebbero scatenarsi intorno a quei soldi e l'Europa non tollererebbe che su una questione del genere la camorra possa prevalere. Quando alcuni mesi fa ha visitato Pompei, il Commissario europeo Johannes Hahn è stato esplicito: eserciteremo un monitoraggio costante sul modo in cui verranno spesi i soldi.
La Soprintendenza di Napoli e Pompei è stata tenuta fuori dalla decisione. E non è questione di poco conto, visto che sarà comunque quell'ufficio a dirigere i restauri e a gestire gli appalti. L'esclusione della Soprintendenza pesa anche per l'esperienza del passato. Nel sito archeologico si sono infatti succeduti prima una serie di direttori amministrativi, definiti anche city manager, e poi alcuni commissari. Il primo commissario fu proprio un prefetto, Renato Profili, al quale è succeduto Marcello Fiori, che proveniva dalla Protezione civile e le cui iniziative hanno lasciato una scia di polemiche e di inchieste giudiziarie. Fra questi funzionari e la Soprintendenza i rapporti non sono mai stati semplici. L'allora soprintendente Piero Guzzo arrivò al punto di presentare le dimissioni per i contrasti insanabili con il direttore amministrativo Luigi Crimaco.
Ora la partita è delicatissima. E lo sblocco dei fondi, già annunciato nei mesi scorsi, non scioglie i nodi, che invece si aggrovigliano. Pompei vive in una condizione di perenne emergenza. Gran parte di via dell'Abbondanza, sulla quale si affacciano le domus colpite da crolli, è chiusa. E in questa zona persiste il pericolo che cedano i muri sui quali preme un terrapieno. Nel frattempo prosegue lo stillicidio di danni alle strutture e di distacchi di intonaco. Nelle scorse settimane sono stati messi a punto cinque bandi di gara per altrettanti progetti di restauro. Ma il ministro Ornaghi, in visita agli scavi, ha detto che i primi cantieri si apriranno soltanto in autunno. A Pompei sono arrivati anche nuovi funzionari, sia archeologi che architetti. Ma il loro inserimento non è stato semplice, a causa del fatto che pochi di essi avevano approfondite conoscenze del sito.
Mentre Pompei rischia di perdere pezzi ogni giorno che passa, fioccano i progetti nelle aree fuori dello scavo. L'ultimo è patrocinato dal sindaco Claudio D'Angelo. È una specie di archeo-park, la ricostruzione fedele di alcuni edifici pompeiani, il foro, le terme, le domus. Una Pompei finta, una patacca estesa su oltre un chilometro quadrato nella zona a nord del sito, verso il Vesuvio, una zona che nel rapporto stilato tempo fa dall'Unesco veniva indicata come assolutamente inedificabile. D'Alessio è andato anche in America a raccogliere fondi (sembra ci vogliano 15 milioni). Così se Pompei crolla è pronto il suo clone.
Filippomaria Pontani è nato a Padova nel 1976. Ha studiato filologia classica alla Normale di Pisa, e ora la insegna all'Università di Venezia. Marino Massimo De Caro è nato a Bari nel 1973. Ha studiato economia e giurisprudenza all'Università di Siena, ed è diventato vicepresidente esecutivo di Avelar Energia. E’ balzato agli onori delle cronache per i rapporti con Dell'Utri: tra commerci di libri antichi e partecipazione in affari petroliferi venezuelani. In un paese normale, questi due coetanei avrebbero, a questo punto della loro vita, scarse possibilità di incontrarsi. Nel nostro, invece, si sono conosciuti a Napoli pochi giorni fa. Perché? Perché De Caro dirige, da qualche mese, la Biblioteca dei Girolamini. In qualunque paese del mondo occidentale, un istituto culturale dell'importanza dei Girolamini sarebbe guidato da un bibliotecario superqualificato.
Ma noi preferiamo spedire nei call center i più brillanti addottorati in paleografia o biblioteconomia, e affidare i Girolamini al protagonista di alcuni illuminanti paragrafi dell'appena uscito Sottobosco. Berlusconiani, Dalemiani, Centristi uniti nel nome degli affari, di Ferruccio Sansa e Claudio Gatti (Chiarelettere 2012). Ne cito un solo passaggio: " Il 27 dicembre 2007 De Caro si lamenta di un capitano dei carabinieri del Nucleo del patrimonio artistico di Monza che lo sta "scocciando" per un libro acquistato in un'asta pubblica in Svizzera. E’ indagato per ricettazione, spiega, e la cosa ha bloccato la sua nomina a console onorario del Congo perché il ministero degli Esteri non sta concedendo il nullaosta. Il 24 gennaio 2008 De Caro ritorna sulla questione con Micciché, il quale promette di aiutarlo: "Stai tranquillo che Aldo ti segue. Devo mandare una persona a Milano... dalla giudice". Il 17 luglio 2009 De Caro potrà finalmente rilassarsi perché il sostituto procuratore di Milano Maria Letizia Mannella, "rilevato che l'incunabolo non è stato rinvenuto fisicamente, malgrado le numerose ricerche", chiede il non luogo a procedere. In altre parole, visto che l'oggetto della presunta ricettazione è scomparso e che le tre persone coinvolte si accusano a vicenda, la pm finisce con l'archiviare il tutto.
A nominare De Caro direttore è stata la Congregazione dell'Oratorio, cui sono affidati il Monumento Nazionale e la Biblioteca Statale dei Girolamini. Ma passa ogni voglia di farne carico all'ingenuità di quei buoni padri, quando si apprende che "il dott. Marino Massimo de Caro è stato chiamato a collaborare con il Ministero dei Beni Culturali dal Ministro Giancarlo Galan in data 15 aprile 2011 in qualità di consulente esperto per l'approfondimento delle tematiche relative alle relazioni con il sistema impresa nei settori della cultura, dell'editoria nonché delle tematiche connesse all'attuazione della normativa concernente l'autorizzazione alla costruzione e all'esercizio di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili e al loro corretto inserimento nel paesaggio. Il Ministro Lorenzo Ornaghi in data 15 dicembre 2011 ha confermato l'incarico al dott. Marino Massimo de Caro, come ha fatto con altri consiglieri del Ministro Galan, in qualità di consulente esperto per l'approfondimento delle tematiche relative alle relazioni con il sistema impresa nei settori della cultura e dell'editoria" (così una comunicazione dell'Ufficio stampa Mibac). Impresa della cultura: forse si allude ad iniziative come quelle promosse da De Caro a Napoli, vale a dire invitare a parlare il responsabile stampa della prelatura dell'Opus Dei, o profanare la tomba di Giovan Battista Vico nella speranza di trovarne le ossa. Davvero Ornaghi ricaverà preziosi consigli da questo prezioso consigliere.
Il professor Pontani, per studiare un prezioso codice del '400 testimone in parte unico di opere di Gemisto Pletone, ha dovuto per mesi faticosamente concordare un appuntamento (solo altri 5 studiosi, stando al blocco delle richieste, sono arrivati a consultare manoscritti negli ultimi 6 mesi). Dieci anni fa, invece, tutto era stato semplice e lineare, e soprattutto - mi scrive Pontani - "non si vedevano pile di libri del '600 gettate in terra". Mercoledì anche io ho visitato la Biblioteca, dove mi ero recato nell'ingenua speranza di concordare l'accesso all'archivio di un mio allievo, dottorando della Federico II. E lì non solo ho appreso che il tetto pericolante non consente l'ingresso all'archivio (che però non viene, curiosamente, messo in sicurezza), ma ho avuto la stessa esperienza di Pontani: quella di trovarmi in una biblioteca esposta ad un grave pericolo, e popolata da presenze incongrue (la più innocua essendo quella di un pastore tedesco che dissemina ossi ed escrementi nelle sale monumentali). Si tratta di un nuovo, triste episodio della travagliatissima storia recente del meraviglioso complesso oratoriano conficcato nel cuore di Napoli.
Nel 1962 due padri Filippini vennero condannati a quattro anni per l'incredibile saccheggio degli arredi della chiesa e del convento: un tesoro di oreficerie, arredi, paramenti allora valutato un miliardo di lire. Oltre ad una grande quantità di libri. E proprio quelle razzie di volumi (che l'attuale conservatore padre Sandro Marzano mi ha detto esser continuate fino al 2007: ma con quali denunce?) potrebbero essere invocate per fornire alibi alla deriva attuale. Alla fine degli anni settanta, dopo una lenta rinascita, Gerardo Marotta ottenne dal governo di collocare nel convento la sede delle attività e dei libri dell'Istituto di studi filosofici. Sarebbe stato troppo bello: come scrisse Luigi Firpo in un commovente articolo uscito sulla "Stampa" nel 1981, "ci si è messo di mezzo il terremoto". Trasformato in un ricovero per gli sfollati di un palazzo vicino, il complesso dei Girolamini vide la sua sorte segnata per altri decenni. Fino ad oggi, quando torna di terribile attualità l'invocazione con cui Firpo chiudeva il suo articolo: "si allontanino i cattivi custodi, e si dia credito e spazio alla Napoli seria e civile che chiede per sé e per tutti noi un meno avvilente destino".
La figura chiave di questa storia è il nuovo direttore della biblioteca napoletana dei Girolamini: il ‘professore’ Marino Massimo De Caro, che incontro assorto nel maneggio dei volumi più pregiati della collezione, tra pile di libri preziosi incongruamente poggiate sul pavimento, lattine vuote di Coca cola che troneggiano sugli antichi banconi, un’avvenente ragazza ucraina a condividerne l’alloggio conventuale.
La biblioteca (pubblica fin dal Seicento e ora statale: 150.000 volumi, in massima parte antichi) è una delle più importanti d’Italia. Ma oggi è chiusa. Perché dev’essere riordinata, dice padre Sandro Marsano, il giovane sacerdote oratoriano, che ti accoglie, gentilissimo ed entusiasta, nel meraviglioso complesso secentesco . Perché accadono cose strane, dice invece la gente che abita intorno al convento: che ti parla di auto che escono cariche, nottetempo, dai cortili della biblioteca.
Comunque stiano le cose, è incredibile che a dirigere uno dei santuari della cultura italiana sia uno degli esemplari più pregiati della fauna del Sottobosco esplorato da Ferruccio Sansa e Claudio Gatti nel libro uscito proprio ieri. Lì De Caro è il mediatore nell’affare del petrolio venezuelano, «uno dei casi più clamorosi di alleanza tra berlusconiani e dalemiani». E se i contatti con Massimo D’Alema sono stati preparati dalla sua carriera di portaborse parlamentare in area postcomunista, all’intima amicizia con Marcello Dell’Utri De Caro arriva grazie alla sua passione vera, quella per i libri antichi. Non che si tratti di un interesse culturale, intendiamoci: la cultura, notoriamente, fattura.
De Caro è titolare di una libreria antiquaria a Verona, ma soprattutto è assai attivo nel commercio internazionale: meglio se di alto livello e di memoria corta. In una delle sue conversazioni telefoniche con Aldo Miccichè (ex democristiano, condannato per bancarotta fraudolenta e latitante in Venezuela) intercettate dalla procura di Reggio Calabria, e pubblicate da Sansa e Gatti, De Caro si lamenta perché i carabinieri del Nucleo di tutela per il patrimonio artistico gli stanno addosso per la ricettazione di un prezioso esemplare dell’Hypnerotomachia Poliphili (un incunabolo del 1499) sottratto ad una biblioteca milanese e venduto nel marzo del 2005 alla Mostra del libro antico sponsorizzata da Dell’Utri. L’indagine finirà nel nulla, ma solo perché la Procura di Milano è costretta a chiedere il non luogo a procedere visto che «l’incunabolo non è stato rinvenuto fisicamente, malgrado le numerose ricerche».
Forte di questo curriculum immacolato, De Caro approda al Ministero dell’Agricoltura, come consigliere per le bioenergie di Giancarlo Galan. Ma la svolta surreale avviene quando questi, passando ai Beni culturali, se lo porta dietro e infine lo lascia in eredità al suo remissivo successore Lorenzo Ornaghi, che lo nomina prontamente suo consigliere diretto per l’editoria (e il suo mercato, immaginiamo). Così il ministro del patrimonio del governo supertecnico dei competentissimi professori si fa consigliare da una specie di Lavitola del libro.
Ma quando fai notare a padre Marsano che affidare la preziosissima biblioteca della sua Congregazione a uno come De Caro sarebbe più o meno come mettere un piromane a capo della Forestale, il religioso risponde – non so se candido o diabolico –, che ben altre sono state le insidie patite dai Girolamini, visto che tra il 1960 e il 2007 sarebbero spariti ben 6000 volumi. Sparizioni che nessuno ha curiosamente mai denunciato: e la cui evocazione suona come una colossale assoluzione preventiva. Insomma: cosa succede davvero nella biblioteca dove andava a studiare Giovan Battista Vico? È tutto sotto controllo, o siamo in un film dell’orrore? Girolamini o Girolimoni? La risposta è forse negli ossi di Vico: metafora perfetta di una verità che si sdoppia, tra Pirandello e Sciascia. Vico è il nome del pastore tedesco che gira per le sale monumentali della biblioteca con un immenso osso di prosciutto nelle fauci: quasi Almodóvar. Ma le ossa di Vico sono anche quelle del grandissimo filosofo, che si dice siano state riesumate qualche mese fa nella chiesa dei Girolamini, e che ora sarebbero affidate ai Ris di Parma: per capire se se ne può fare un culto, o un business.
A sciogliere dubbi e metafore varrà solo un’agguerrita ispezione del Ministero dei Beni culturali, o meglio un’indagine dei vecchi amici del direttore, i carabinieri del Nucleo di tutela. Ma se Ornaghi continuerà a farsi consigliare da De Caro e a far finta di non vedere, tra poco sarà davvero impossibile distinguere tra gli ossi di Vico (il cane) e le ossa di Vico (il filosofo). E Napoli morirà ancora un po’.
Anche Giorgio Napolitano ha aderito al “manifesto per la cultura” del Sole 24 ore. E nel messaggio inviato in occasione della XX Giornata Fai di Primavera, il Capo dello Stato non solo ha sposato la linea di fondo del “manifesto” (quella, tautologica, per cui la ‘cultura fattura’), ma ne ha esplicitato e radicalizzato il nucleo più controverso. «Se vogliamo più sviluppo economico, ma anche più occupazione – ha scritto il Presidente – bisogna saper valorizzare, sfruttare fino in fondo la risorsa della cultura e del patrimonio storico-artistico».
Sfruttare fino in fondo il patrimonio storico-artistico: difficile trovare una formulazione più estrema della cosiddetta dottrina del petrolio d’Italia, o dei giacimenti culturali, nata nell’Italia craxiana degli anni ottanta del secolo scorso. Ed è anche difficile trovare un’accezione del verbo ‘sfruttare’ che, per quanto metaforica, sia compatibile con la funzione costituzionale del patrimonio (che è quella di produrre non sviluppo economico, ma cultura). Secondo il Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia, sfruttare vuol dire «privare un terreno degli elementi nutritivi», «usare un giacimento minerario in modo da ricavarne il massimo profitto economico», «depredare una regione delle sue risorse naturali», «usare in modo esclusivo», «vivere alle spalle di qualcuno», «usare o abusare di qualcuno o qualcosa». Ciascuna di queste accezioni richiama alla nostra mente centinaia di aggressioni, morali e materiali, al patrimonio storico e artistico della nazione perpetrate in nome della sua messa a reddito. Ed anche l’accezione meno negativa («ricavare il massimo profitto da ciò che si ha a disposizione») è davvero poco edificante, se accostata, non so, a Michelangelo o alla Valle dei Templi.
Con questo messaggio, Napolitano ribalta dunque la dottrina quirinalizia sul patrimonio, che nel 2003 era stata messa a punto (su frequenze, quelle, perfettamente costituzionali) dal filologo classico ed economista Carlo Azeglio Ciampi: «La cultura e il patrimonio artistico devono essere gestiti bene perché siano effettivamente a disposizione di tutti, oggi e domani per tutte le generazioni. La doverosa economicità della gestione dei beni culturali, la sua efficienza, non sono l’obiettivo della promozione della cultura, ma un mezzo utile per la loro conservazione e diffusione. Lo ha detto chiaramente la Corte Costituzionale in una sentenza del 1986, quando ha indicato la “primarietà del valore estetico-culturale che non può essere subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici” e anzi indica che la stessa economia si deve ispirare alla cultura, come sigillo della sua italianità».
Lo «sfruttare fino in fondo» di Napolitano converte il patrimonio in un mezzo piegato al fine del reddito, e dunque smentisce questo illuminatissimo discorso, precipitandoci in un mercatismo senza se e senza ma che appare perfettamente in linea con la politica del governo che il Capo dello Stato sta, virtualmente, guidando.
«Fino a quando gli oggetti dell’istruzione pubblica verranno considerati come gioielli, come diamanti dei quali non si gode se non per il prezzo del loro valore?». Lo scrive Antoine Quatremère de Quincy. Nel 1796.
L'articolo 44, in discussione al Senato il 28 marzo, indebolisce la legge Urbani del 2004 che definiva "insanabile" qualunque intervento non autorizzato su edifici di valore storico e ambientale. Il nuovo testo prevede invece una parziale depenalizzazione. Le associazioni ambientaliste esortano il Parlamento a disinnescare gli effetti del provvedimento.
Il titolo è rassicurante: “Semplificazioni in materia di interventi di lieve entità”. Ma l’articolo 44 del nuovo decreto legge (semplificazioni e sviluppo), che sarà discusso nuovamente da mercoledì prossimo al Senato, nasconde scappatoie per delitti ambientali: una sorta di condono mascherato che non sembra affatto di lieve entità. Già passato alla Camera indenne, l’articolo 44 – sufficientemente fumoso da sembrare, a prima vista, del tutto innocuo – dovrebbe rendere più semplici gli adempimenti riparatori qualora sia stato commesso un abuso edilizio in aree di particolare valore paesaggistico e su beni di importante valore storico culturale. Ma più che semplificare, l’articolo apre la strada a nuovi abusi che saranno puniti meno severamente
Le modifiche introdotte si riferiscono a una legge dello Stato – innovativa in materia ambientale – che nel 2004 fu firmata dall’allora ministro per i Beni culturali Giuliano Urbani e nella quale il legislatore aveva definito assolutamente inestinguibili e insanabili tutta una serie di abusi che violavano le leggi di tutela del paesaggio, anche urbano, e dei beni culturali di primaria importanza pubblica. In sostanza, se spostare una finestra può adesso costare solo un’ammenda e il piccolo abusivo se la può cavare con una sanzione amministrativa, se mette mano a modifiche non autorizzate di un edificio tutelato per il suo valore culturale – modifica ad esempio la merlatura di un castello – rischia sino a quattro anni di carcere. Che ora potrebbero sparire, se non in casi di estrema gravità.
Di fatto, se un bravo avvocato vi aiuta decifrare la gimcana tra commi, regolamenti e riferimenti giuridici, l’articolo depenalizza tutta una serie di reati che fino ad ora la legge sanzionava anche con il carcere senza la condizionale. “Delitti ambientali” che potrebbero diventare semplici abusi da sanzionare. Il problema non è tanto se si sposta una finestra o si cambia il caminetto di casa propria, ma se si mette mano con operazioni speculative su un castello, un edificio storico, un paesaggio (in molti casi sono vincolate anche le piante di alto fusto). Quel che molti temono è che adesso, con la modifica del Codice urbani, sarà meno rischioso compiere abusi edilizi gravi su beni tutelati e quindi in qualche maniera collettivi anche se, ovviamente, l’ultima parola spetta alle interpretazioni dei tecnici comunali, delle Soprintendenze e, infine, dei magistrati. Non è che la nuova normativa faccia carta straccia della vecchia legge. Ma l’articolino inserito nel decreto “lenzuolo” delle semplificazioni (che dopo il Senato tornerà alla Camera) apre la porta a una nuova stagione di abusi: possibili ecomostri sanzionabili primi col carcere, adesso riparabili col portamonete.
Il mondo degli ambientalisti italiani, ma anche i magistrati che si occupano di tutela ambientale, temono non tanto un colpo di spugna sul passato, ma una nuova era di sfregi all’ambiente, al paesaggio, agli immobili di pregio del Belpaese.
Guido De Maio, presidente titolare della III sezione penale di Cassazione (qui l’intervista a De Maio) esprime la «preoccupazione di coloro che hanno a cuore le sorti del patrimonio artistico e culturale del nostro Paese». Rosalba Giugni, presidente di MareVivo e una delle prime ambientaliste italiane a essere venuta a conoscenza dell’articolo nascosto nelle pieghe del decreto, aggiunge carne al fuoco: «In un momento in cui i nostri Beni culturali e ambientali sono sotto attacco, un peggioramento della legge o un allentamento della maglia che tiene a bada gli abusi viene visto dal mondo ambientalista con grande timore. Ci auguriamo che ci sia un grande dibattito parlamentare e ci auguriamo un’attenzione particolare da chi ama il nostro maggior gioiello e il nostro maggior bene primario. I paesaggi, i centri storici, le coste e la natura».
Fortunatamente anche qualche parlamentare ci ha fatto caso. Anzi, per la verità uno soltanto in maniera orizzontale. Il senatore dell’Idv Francesco Pardi, che ha presentato, in Commissione Affari costituzionali, un emendamento che chiede la soppressione dell’intero articolo. In cui, secondo il parlamentare, ci sarebbe anche un’eccezione di congruità giuridica della norma che di fatto viola lo spirito del cosiddetto “Codice Urbani” (Codice dei beni culturali e del paesaggio), la legge che ormai quasi dieci anni fa modificò la legislazione sugli abusi rendendola più specifica e nettamente punitiva. Un passo indietro dunque rispetto a quella che allora apparve come invece come un primo deciso passo avanti a tutela del paesaggio in senso lato.
In buona sostanza si tratta di una modifica di alcune parti dell’articolo 181 che prevede ora due distinte ipotesi di reato: la prima (comma 1) è semplicemente una contravvenzione, punita con l’arresto fino a due anni (quindi coperto dalla condizionale) e un’ammenda; l’altra (comma 1-bis), nella quale si sottolinea la gravità dell’abuso su beni vincolati di particolare interesse pubblico (evidentemente non quello di spostare una porta), configura l’azione come un delitto e lo punisce con la reclusione da uno a quattro anni. La gravità riguarda infatti lavori abusivi in aree vincolate o su beni dichiarati di notevole interesse pubblico e che quindi necessitano di maggiori tutele. A tal punto che, secondo la legge attuale, il reato non si estingue nemmeno quando il trasgressore ripristina spontaneamente la situazione precedente all’abuso (abbattendo o risistemando le cose come erano prima).
In attesa che in parlamento si discuta del caso, viene da chiedersi per quale motivo il ministero di Beni culturali, che ha introdotto la modifica nel “lenzuolo” delle semplificazioni, abbia deciso la controversa innovazione. Necessità di cassa? O semplicemente il primo scivolone del professor Lorenzo Ornaghi?
Le associazioni chiedono che sia dichiarata l'incostituzionalità della norma: "Siamo di fronte al più grave stravolgimento sino ad ora tentato della disciplina paesaggistica, così come scritta nella nostra Costituzione, nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, nella Convenzione europea del paesaggio"
Come nel libro ‘1984‘ di George Orwell, dove il ministero della Pace si occupava di fare la Guerra, le parole sarebbero usate con un significato opposto a quello ufficiale. Per la giunta regionale campana guidata dal Governatore pidiellino Stefano Caldoro (assessore all’Urbanistica il pidiellino Marcello Taglialatela), la delibera appena approvata detterebbe “norme in materia di tutela e valorizzazione del paesaggio in Campania”. Per le principali associazioni culturali e ambientaliste, tra cui Legambiente, Eddyburg, Italia Nostra, Fai – che hanno firmato un comunicato congiunto di condanna del provvedimento – siamo invece di fronte al “più grave stravolgimento sino ad ora tentato della disciplina paesaggistica, così come scritta nella nostra Costituzione, nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, nella Convenzione europea del paesaggio”. E chiedono che ne sia dichiarata l’incostituzionalità.
Chi ha ragione? A leggere la norma prodotta dall’esecutivo, ora al vaglio delle commissioni consiliari regionali, le preoccupazioni del mondo ambientalista appaiono fondate. Leggere per credere il primo comma dell’articolo 7, dal suadente titolo “Strumenti per la pianificazione sostenibile”. Un comma che introduce il concetto di ‘ecoconto‘, che “misura l’impoverimento del valore di un determinato territorio, a seguito della sua trasformazione, e ne quantifica la necessaria compensazione per bilanciarne gli effetti”. “E’ una norma pericolosa – sostiene Fausto Martino, architetto della Soprintendenza ed ex assessore comunale all’Urbanistica di Salerno – perché ammette, in via generale e preventiva, che si possa danneggiare il paesaggio dietro pagamento”. Dando licenza di devastare agli imprenditori con molti capitali e pochi scrupoli.
E non sarebbe l’unica miccia della bomba pronta a scoppiare. Nell’articolo 15, attraverso una serie di criptici commi abrogativi di vecchie leggi, decrittabili solo dagli addetti ai lavori, si distruggono a poco a poco alcuni dei principali strumenti di protezione del territorio campano. Consentendo, ad esempio, l’applicazione del piano casa e l’incremento delle volumetrie anche nelle ‘zone rosse’ a rischio eruttivo, alle falde del Vesuvio. E cancellando alcuni Comuni del salernitano, tra cui Cava de’ Tirreni e Sant’Egidio Montalbino, dal sistema di vincoli del piano urbanistico territoriale della costiera sorrentina ed amalfitana, una legge regionale del 1987 che ha funzionato da scudo contro le mire speculative nelle zone ad alta attrattiva turistica della Campania.
La nota degli ambientalisti, prima firmataria la presidente nazionale di Italia Nostra Alessandra Mottola Molfino, è durissima. Si accusa la giunta campana di aver prodotto un disegno di legge con la finalità dichiarata di “limitare i vincoli che gravano sul territorio per rilanciare il settore edilizio, e allo stesso tempo risolvere il problema dell’abusivismo con lo stravolgimento dei principi di legalità di sanzione e riparazione. Ancora una volta, nel nome di un modello economico arcaico e dissipatore, si tenta l’assalto, forse definitivo, al paese dove fioriscono i limoni”. “Non tutela del paesaggio, quindi – affermano i firmatari dell’appello – ma piuttosto una nuova puntata della discutibile avventura intrapresa con il piano casa, attraverso la quale viene sancita la rinuncia dei poteri pubblici al diritto/dovere di esercitare la sovranità territoriale nell’interesse generale”.
Fa discutere anche la scelta di trasferire la competenza dell’approvazione del futuro piano paesaggistico regionale dal consiglio alla giunta, con la commissione consiliare chiamata a fornire un semplice parere. “Giuridicamente antidemocratico” sostengono le associazioni, preoccupate che uno strumento così importante di tutela e pianificazione venga sottratto al confronto pubblico in aula tra tutte le forze politiche.
Tagliando e ritagliando, l’articolo 15 manderebbe al macero persino la legge regionale che ha costituito la riqualificazione paesistico ambientale dell’antica città di Velia nel Cilento. Una legge approvata all’unanimità nel 2005 su input del consigliere regionale Ds Nino Daniele e su mobilitazione del mondo della cultura, con le adesioni di Francesco Paolo Casavola, Gerardo Marotta, Aldo Masullo, Luciano De Crescenzo, Werner Johannowsky. La cui abrogazione comporterebbe l’addio allo stop alle nuove costruzioni in questa zona.
Su questo punto Taglialatela smentisce nettamente. E in un’intervista a Ottavio Lucarelli sulle pagine napoletane di Repubblica rimanda al mittente le preoccupazioni degli storici: “Non c’è alcun pericolo per Velia. E’ vero, è prevista l’abrogazione della legge di tutela. Ma è anche vero che quella legge non è stata mai attuata e finanziata e che comunque per Velia esistono i vincoli approvati nel 2009 per il piano del Parco del Cilento. E’ inaccettabile essere messi sotto accusa su fatti inesistenti”. E per quanto riguarda le critiche mosse dagli ambientalisti nel merito del ddl, Taglialatela ha replicato così: “Ecoconto potrà anche sembrare una brutta parola, ma è il modo in quale in tutta Europa si determinano le politiche ambientali e paesaggistiche, senza incrementi di volumetrie, individuando una serie di meccanismi compensativi attraverso la delocalizzazione degli interventi da alcune aree ad altre aree, o mettendo a disposizione un’area per riqualificare l’esistente – ha detto l’assessore al fattoquotidiano.it – Quanto alle riflessioni sul ‘costo’ del paesaggio, se chiediamo a un privato un intervento di riqualificazione ambientale, è necessario che il privato abbia un interesse, altrimenti non lo compie. Ma contrariamente a quel che pensano alcuni, non credo che gli imprenditori siano tutti palazzinari speculatori. Al contrario – ha concluso Taglialatela - gli imprenditori chiedono solo di potersi muovere tra regole certe e applicate. Agli ambientalisti va bene questa impostazione o vogliono continuare a dire sempre no a tutto?”.
«Essendo io stato assai studioso di queste antiquità, e avendo posto non piccola cura in cercarle minutamente e misurarle con diligenza … penso di aver conseguito qualche notizia dell’architettura antica. Il che, in un punto, mi da grandissimo piacere, per la cognizione di cosa tanto eccellente, e grandissimo dolore, vedendo quasi il cadavere di quella nobil patria, che è stata regina del mondo, così miseramente lacerato». Così, nel 1519, scriveva Raffaello, rivolgendosi a papa Leone X, che lo aveva incaricato di censire e disegnare le cadenti antichità di Roma. E così possiamo dire ancora noi, dopo mezzo millennio: visitare e conoscere il paesaggio e il patrimonio storico artistico dell’Italia, ci dà, insieme, un grandissimo piacere e un grandissimo dolore.
In alcuni luoghi, tuttavia, c’è spazio solo per il dolore: così nella reggia borbonica di Carditello, che sorge tra Napoli e Caserta.
Quel luogo, un tempo incantato, è oggi precipitato in un inarrestabile gorgo di abbandono e decadenza, che fa apparire surreali ed ipocriti gli intonaci ancora nuovi del corpo centrale della grande fabbrica settecentesca, dovuti ad un effimero e costoso restauro avvenuto una dozzina d’anni fa.
Nelle ultime settimane sono stati sbarbati e rubati i cancelli, le acquasantiere della cappella, i gradini di marmo delle scale (!) e perfino l’intero impianto elettrico. Quel che non si poteva asportare è stato distrutto, e nelle ali fatiscenti che un tempo ospitavano le attività agricole della tenuta è possibile rinvenire di tutto: da cumuli inquietanti di schede elettorali, a mappe e rilievi dell’area, gettati alla rinfusa sotto tetti sfondati. Con un’inversione simbolica, l’abisso si attinge salendo sulla meravigliosa terrazza sommitale: il pavimento di cotto è stato strappato e rubato, mattonella per mattonella, e così i balaustrini di marmo che reggevano i parapetti. La reggia si è, insomma, trasformata in una gigantesca cava di materiali pregiati, che non è difficile immaginare indirizzati verso le oscene ville dei signori della malavita locale.
Né serve alzare lo sguardo verso il panorama: il turbine di gabbiani non segnala il mare, ma la discarica di Maruzzella, criminalmente realizzata su un terreno acquitrinoso in cui il percolato penetra fino alla falda, avvelenando i frutteti circostanti, oggi commoventemente in fiore, e compromettendo per decenni la catena alimentare, e dunque l’uomo.
Così, in questa distruzione simultanea dell’ambiente, del paesaggio, e del patrimonio storico e artistico pare di scorgere davvero «il cadavere della patria», cioè il volto sfigurato dell’Italia.
Sfigurato da chi? Anche qui salgono alle labbra le parole di Raffaello: «Ma perché ci doleremo noi de’ Goti, Vandali e d’altri tali perfidi nemici, se quelli li quali come padri e tutori dovevano difender queste povere reliquie di Roma, essi medesimi hanno lungamente atteso a distruggerle?». I vandali siamo noi: i ladri italianissimi che ogni notte si infilano nella reggia (in un territorio lasciato in mano alla Camorra), i cittadini che non reagiscono, immemori della loro stessa identità. Ma soprattutto i proprietari, che hanno permesso questo scempio: il Consorzio di Bonifica del Volturno, indebitatosi al punto da farsi pignorare la reggia dal Banco di Napoli. E poi quest’ultimo, e dunque Banca Intesa, che invece di farsi carico di questo straordinario complesso, lo mette all’asta per recuperare il credito. E infine il Ministero per i Beni culturali, che avrebbe avuto tutti gli strumenti per imporre il rispetto della tutela, fino ad arrivare ad un esproprio che avrebbe potuto salvare un patrimonio ormai in gran parte compromesso. Una catena di vandalismo, diretto o indiretto, di cui non si intravede la fine.
Cosa fare, a questo punto? Domani il ministro Ornaghi sarà a Carditello, e presiederà una riunione che dovrebbe decidere la sorte della reggia.
Il Ministero per i Beni culturali potrebbe anche comprarla direttamente. Ma indigna l’idea che lo Stato possa regalare altro denaro pubblico a una proprietà che ha permesso che un bene pubblico fosse devastato. Forse sarebbe più saggio e più equo costringere Banca Intesa (non del tutto sconosciuta al governo Monti) a essere all’altezza di quella magnifica immagine di mecenatismo e sollecitudine per l’interesse pubblico tanto celebrata dalla retorica dominante. Sarebbe, infatti, paradossale che in un momento in cui i cosiddetti ‘mecenati’ acquistano o noleggiano i beni pubblici capaci di produrre reddito, lo Stato sollevasse proprio uno di loro dal peso di un bene assai difficile da valorizzare, e peraltro colpevolmente ridotto al disastro.
Qualunque sarà – se ci sarà – la soluzione, essa non potrà riguardare solo l’edificio monumentale di Carditello, ma dovrà far parte di un piano di rilancio complessivo di un territorio che ora sente di non avere futuro. A quale funzione si può assegnare un edificio che sorge in una zona in cui all’imbrunire non è prudente circolare? Quale prospettiva turistica esiste per un sito in cui, quando il vento tira dalle discariche, l’aria è irrespirabile?
Il miglior lavoro di documentazione e informazione su questo intreccio infernale che divora una delle terre più feconde e belle del mondo è stato fatto dall’eccezionale gruppo di giovani intellettuali napoletani che si riunisce nelle ‘Assise della Città di Napoli e del Mezzogiorno’ e opera attraverso la Società di studi politici di Napoli. Il loro dossier si chiama «Campania chiama Europa». L’Italia, ormai, sembra fuori dal gioco.
II ministro Ornaghi ha chiesto di correggere il decreto che assegnava al Comune maggiori competenze: «La tutela spetta allo Stato». Oggi la discussione in Parlamento E’ ancora infuocato il percorso di conversione in legge del decreto su Roma Capitale: il Ministero dei Beni e delle attività culturali (Mibac) negli ultimi giorni ha deciso, finalmente e tardivamente, di prendere posizione contro gli evidenti profili incostituzionali riguardo il patrimonio capitolino. Questa settimana il provvedimento completerà il suo iter in commissione bicamerale per poi approdare in aula, ma l'esito non è affatto scontato. Al centro dello scontro ci sono ora i beni culturali della Capitale: il decreto nella sua versione iniziale assegnava al Comune di Roma funzioni di tutela e valorizzazione, sottraendole al Mibac. Nel primo caso il provvedimento era patentemente anticostituzionale, essendo la tutela assegnata allo Stato dall'articolo 117 della Carta, cosa ribadita nel Codice dei beni culturali del 2004. Per la valorizzazione invece la decisione è assai discutibile: le amministrazioni locali infatti ben di rado hanno svolto appropriatamente questi compiti. A conferma, basterà rammentare alcune luminose iniziative proprio del Comune di Roma: aprile 2009, proiezioni di immagini sulla parete del Foro Traiano per il Natale di Roma, con il filmato della dichiarazione d'entrata in guerra dell'Italia fascista a fianco di Hitler che Benito Mussolini fece il 10 giugno del 1940; dicembre 2010, l'Ara Pacis diventa un autosalone, con il sovrintendente comunale Broccoli che autorizza la presentazione di due city car; ottobre 2011, esibizione di carri armati e blindati al Circo Massimo. E dopo le adunate di forconi e tassisti al Circo Massimo del gennaio 2012, è della settimana scorsa l'ultima proposta: dotare di un patentino comunale i centurioni che affollano i siti di interesse artistico chiedendo soldi ai turisti per farsi fotografare insieme a loro. In una riunione congiunta con i rappresentanti della commissione bicamerale, il ministro Lorenzo Ornaghi e il sottosegretario Roberto Cecchi hanno chiesto di modificare il testo della legge, limitandone gli aspetti incostituzionali sulla tutela e ridimensionando le funzioni di valorizzazione. Un intervento atteso e dovuto, senz'altro positivo nei suoi esiti, anche se permane qualche incongruità. Viene istituita una Conferenza delle sovrintendenze, tra cui quella speciale del Comune di Roma che, si legge all'articolo 4, «può essere chiamata a pronunciarsi in merito al rilascio dei titoli autorizzatori», mentre all'articolo 7 si specifica che Roma Capitale concorre «alla definizione di indirizzi e criteri riguardanti le attività di tutela, pianificazione, recupero, riqualificazione e valorizzazione del paesaggio». Malgrado la vaghezza degli enunciati, la tutela — e le autorizzazioni fanno parte della tutela — è di stretta competenza dello Stato. E questi cedimenti, che sembrano un contentino per l'amministrazione capitolina, comporteranno un appesantimento burocratico nella funzione di tutela. La Conferenza delle soprintendenze — in realtà una conferenza di servizi si riunisce da oltre vent'anni — nasce infatti con una forte vocazione a diventare un luogo di scambi opachi o una trincea dei veti incrociati, insomma un organismo barocco ma non funzionale. Il testo così modificato oggi sarà nuovamente in discussione alla commissione bicamerale e, nonostante contenga in altre sue parti indubitabili vantaggi per la Capitale — come l'ingresso al Cipe—, dal Comune di Roma si potrebbero alzare le barricate proprio sulle modifiche in materia dei beni culturali. In questo caso i rappresentanti del Pd, tra cui Marco Causi, correlatore della conversione in legge, e di Api, Idv e forse Lega, potrebbero optare per un doppio testo da votare a maggioranza.
Il sindaco di Firenze Renzi ha annunciato magnum cum gaudio che alcuni ricercatori avrebbero dimostrato inoppugnabilmmente che dietro l’affresco del Vasari si nasconde una versione leonardesca della Battaglia d’Anghiari. Tra le riserve scientifiche all’operazione quella di Salvatore Settis
Si è capovolta la gerarchia naturale dei valori». Salvatore Settis, storico, archeologo, ex direttore della Normale di Pisa, ha presieduto fino al 2009 il Consiglio superiore dei beni culturali. Sè anche primo firmatario dell´appello di 101 studiosi, intellettuali e storici dell´arte che nei mesi scorsi ha chiesto di interrompere le ricerche della Battaglia di Anghiari, fortemente voluta, invece, da Palazzo Vecchio. E non usa cautele nell´esprimere il suo giudizio su un´operazione che definisce «soltanto mediatica»: «Invece di salvaguardare al massimo un´opera d´arte certa quale è la Battaglia di Scannagallo del Vasari», spiega Settis, «cioè di cercare di non farle correre alcun rischio, si va alla ricerca di un´opera soltanto ipotizzata, con possibilità secondo me minime di trovarla davvero, trattando quella certa come se fosse un incomodo di cui quasi non si vede l´ora di liberarsi. Fino a giungere addirittura ad ipotizzare di poter togliere qualche pezzetto rifatto nell´Ottocento, ammesso che ci sia...».
Professor Settis, ammetterà che anche la sola ipotesi che si possano trovare delle tracce di un´opera di Leonardo sottostante quella del Vasari, possa valere quantomeno la curiosità di una indagine...
«Il dramma di questo paese, che si sta replicando in modo esemplare in questo caso, è che occuparsi di beni culturali sembra ormai risolversi in una continua spettacolarizzazione, mirata su singole opere d´arte, o singoli interventi di restauro. Un fatto di costume che io giudico altamente negativo, perché orienta l´attenzione soltanto su operazioni di immagine, che riguardano dieci o venti monumenti di grande richiamo, lasciando che tutto il resto vada in malora».
D´altra parte esistono dei risultati scientifici, che Comune e Soprintendenza hanno sempre sostenuto di considerare sufficienti a procedere.
«Ma è mai possibile che in un luogo di straordinaria importanza come il Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, e avendo a che fare con opere di un Leonardo e di un Vasari, si considerino sufficienti le analisi di un laboratorio privato di Pontedera? E´ mai possibile che non valesse la pena, in un caso del genere, di ricorrere, prima di qualsiasi dichiarazione e di qualsivoglia annuncio, quantomeno a un controllo incrociato di dati, prodotti da laboratori di altissimo livello, diversi e indipendenti, cioè che non sapessero niente l´uno dell´altro, in modo da essere supercerti di quello che si sarebbe detto? Tutto questo non è stato fatto e mi chiedo perché. Tanto più che almeno una funzionaria dell´Opificio delle pietre dure, da tutti riconosciuta come molto seria, ha chiaramente detto che i dati a disposizione non le sembravano attendibili. E´ ovvio che anche solo questi dubbi avrebbero dovuto obbligare alla massima prudenza».
Non la convince nemmeno l´ultima novità, e cioè l´accertata «compatibilità» fra i pigmenti rilevati sotto l´affresco del Vasari, e quelli repertati e certificati dal Museo del Louvre nel 2010 e relativi alla Gioconda e al San Giovanni Battista di Leonardo?
«Ripeto, qui si trattava di fare confronti secondo un metodo ben più rigoroso, come quello, per esempio, che abbiamo adottato in occasione degli studi sulla pendenza della Torre di Pisa. Ogni volta che abbiamo dovuto fare analisi di qualche tipo, geologico, statico, prima di prendere una decisione tecnica le abbiamo ripetute due o tre volte affidandole ogni volta a laboratori diversi, e che laboratori: dall´Università di Harvard al Politecnico di Milano, ad altri ancora sparsi per il mondo. Insisto: un Vasari e un Leonardo non avrebbero meritato altrettanto impegno? Del resto ad ammettere un errore non c´è niente di male, capita a tutti, si guardi il caso dei neutrini che sembravano più veloci della luce, un errore non a caso venuto fuori proprio grazie al controllo incrociato di dati elaborati da laboratori diversi».
Si può sempre obiettare che l´indagine è partita con lo stimolo di uno sponsor privato, che se ne è accollato tutti gli oneri e ha anzi dotato il Comune di fondi utilissimi al suo disastrato bilancio.
«Proprio perché si ha avuto la fortuna di trovare uno sponsor del genere, in tempi come questi, mi si deve spiegare perché non lo si sia utilizzato per la priorità delle priorità, e cioè la tutela e la conservazione del patrimonio storico artistico, che come tutti sanno sta andando in malora. E di cui, diciamo la verità, non importa davvero niente a nessuno, perché quel che importa è di fare, ogni tanto, cose spettacolari, anziché, giorno dopo giorno, investire sulla conservazione capillare di tanti beni diffusi su tutto il territorio nazionale. Ma mi meraviglio che da una regione come la Toscana, e da una città come Firenze, non solo non venga questo esempio, ma arrivi quello contrario».
L’occasione era ghiotta: uno degli uomini più ricchi della città voleva costruirsi una cappella gentilizia, e aveva messo gli occhi sulla loro chiesa. Francesco Feroni era un nuovo ricco: da buon fiorentino aveva scelto di fare il mercante, e l’aveva fatto con grandissima determinazione (perfino troppa: non disdegnava neanche il mercato degli schiavi), trasferendosi ad Amsterdam e mettendo insieme una fortuna.
Nel 1673 si era sentito abbastanza ricco da poter tornare in patria, dove il denaro gli ottenne il titolo marchionale e un ruolo di spicco sulla scena pubblica del granducato di Toscana, che, sotto Cosimo III, si avviava ad un quieto, irreversibile tramonto. In questa storia di successo non poteva mancare una cappella familiare, un luogo in teoria dedicato al riposo eterno, ma in verità assai più utile per rafforzare, legittimare e perpetuare il potere e il prestigio terreni.
Il neomarchese Feroni era così lanciato verso questo traguardo che aveva pensato di comprarsi nientemeno che la Cappella Brancacci, pronto a distruggere gli affreschi di Masaccio, Masolino, e Filippino Lippi.
Da parte loro, i frati non avevano obiezioni: «per acquistarsi un benefattore di quella portata – racconta un loro confratello vissuto qualche decennio più tardi – nulla sarìa calso più non veder quei mostacci, con zimarre e mantelloni all’antica abbigliati».
Mentre già si pensava di demolire la culla della pittura rinascimentale, sorse spontanea quella che le fonti definiscono «una lega di difesa contro il minacciato vandalismo», una sorta di Italia Nostra del tardo Seicento, che coinvolse l’Accademia del Disegno e quindi convinse la granduchessa madre Vittoria della Rovere a dare «ordine espresso che non si toccassero tali dipinture». Il Feroni provò a replicare che egli «avria fatte segare con ogni diligenza le mura del primo ordine, ove sono le pitture più insigni, e gli artefici assicuravano di poterne venire a capo senza il minimo detrimento di cotali pitture». «Ma tant’è – continua il frate – la granduchessa, ferma qual salidissima colonna nel suo impegno, non volle a verun patto che le mura e le pitture della cappella fosser toccate». A quel punto, il Feroni e il suo denaro si arresero: e noi oggi abbiamo ancora la Cappella Brancacci.
Lo schema ci dovrebbe esser familiare: un patrimonio da mettere a reddito; uno sponsor disinvolto che è disposto a pagare, ma vuol piegare quel patrimonio al proprio interesse; un’opinione pubblica che insorge; il potere politico che, alla fine, interviene e salva il patrimonio. Ma oggi, oltre trecento anni dopo i fatti del Carmine, il rischio è che l’opinione pubblica non trovi più un potere politico disposto a difendere i beni comuni.
La retorica dominante sottomette, infatti, la cultura all’economia: il manifesto del giornale di Confindustria propone il fortunatissimo slogan «Niente cultura, niente sviluppo».
È un modello pericoloso, perché trasmette l’idea che la cultura non sia un fine in sé, ma un mezzo (nobile quanto si vuole) per raggiungere un fine più alto: in ultima analisi, quello del denaro. E se il patrimonio storico e artistico diventa un mezzo, le conseguenze non possono che essere quelle tratte dal marchese Feroni.
Si parla molto di ‘nuovo mecenatismo’: ma il mecenate è un donatore che non chiede nulla in cambio del proprio dono, se non la gloria e la riconoscenza della comunità. E di questi mecenati non c’è una grande abbondanza, come dimostra l’imbarazzante fuggi-fuggi di fronte alla proposta di adottare il restauro di un monumento, lodevolmente lanciata dal Comune di Firenze. Ci sono piuttosto degli sponsor, che calcolano con grande attenzione il ricavo economico dei loro investimenti sul patrimonio: e per ottenere un ricavo adeguato in tempi commercialmente utili, il bene (che sia il Colosseo, il Fondaco dei Tedeschi a Venezia o il Salone dei Cinquecento a Firenze) rischia di essere compromesso, moralmente o perfino materialmente.
La presidente di ConfCultura Patrizia Asproni si è detta scandalizzata che «oggi i privati che gestiscono i servizi museali, e quindi la loro valorizzazione economica, non controllano l’orario di apertura del museo, né il prezzo del biglietto. È evidente che queste restrizioni impediscono fortemente la libertà e la capacità di fare impresa e la conseguente messa a reddito del bene».
La signora Asproni sembra non ricordare che, secondo l’articolo nove della nostra Costituzione, il fine di quel bene non è la produzione di reddito (privato), ma di cultura (pubblica). Ed è per questo che è lo Stato, e non un privato in cerca di lucro, a dover mantenere quel patrimonio: e lo potrebbe fare destinando ad esso anche solo il 5% dell’attuale evasione fiscale.
Perché è certo giusto ricordare che la cultura è una condizione essenziale per lo sviluppo: ma è fatale dimenticare che lo scopo vero della cultura è quello di sottrarre almeno una minima parte della nostra vita al dominio del denaro e del mercato, e di farci così rimanere esseri umani. Quando non lo saremo più, nessuno sviluppo economico potrà salvarci.
Fra gli addetti ai lavori, o alle macerie, dei beni culturali e paesaggistici gira da giorni una vignetta col ministro Lorenzo Ornaghi accompagnato da una scritta: “Chi l’ha visto? Scomparso dopo l’8 settembre”. L’8 settembre del governo Berlusconi, di ministri alla Bondi che al Collegio Romano non c’era quasi mai o alla Galan la cui impresa più memorabile rimane la candidatura di Giorgio Malgara, amico caro del Cavaliere, alla presidenza della Biennale di Venezia, sonoramente bocciata da una marea di firme, veneziane, nazionali e internazionali, per la riconferma di Paolo Baratta.
Il professor Ornaghi al Collegio Romano ci sta dalla mattina alla sera, fino a notte. Però da più parti gli viene chiesto di non lasciar fare tutto al capo di gabinetto, l’onnipotente e onnipresente Salvo Nastasi o al sottosegretario Roberto Cecchi. Ma, per ora, Ornaghi non dà segni di vita. Un’occasione ora ce l’ha ed è rappresentata da Arcus SpA che Corrado Passera ministro di molte cose fra cui le Infrastrutture e soprattutto il suo vice-ministro Mario Ciaccia (un tempo a capo di Arcus) paiono decisi a cancellare. E che Ornaghi per ora non difende, in un fragoroso, monastico silenzio. Premetto che Arcus – anche da me attaccata in passato per le infinite pratiche clientelari – così come è stata non va proprio. Ma il dato delle sue origini, e cioè finanziare opere di restauro dei beni culturali e paesaggistici attraverso il 3 o il 5 per cento sugli appalti delle grandi opere, mi è sembrato e mi sembra utile. Più che mai oggi che il MiBAC è alla canna del gas e non riesce più a far fronte ad impegni di mera sopravvivenza, a cominciare (voglio sottolinearlo) dai settori che meno “fanno notizia”, cioè gli archivi e le biblioteche storiche, ormai agonizzanti o sottoposti a tagli mortali. Per risalire poi ai siti e alle aree archeologiche sempre meno difese, ai musei minacciati di chiusura, alla continua smagliatura della tutela del paesaggio esposto a ferite: cito il caso più recente, davanti alla già devastata piana di Scalea in Calabria, campo di marte di n’drangheta e camorra, si è deciso di costruire un altro porto da oltre 500 posti-barca, un’altra opera inutile che infliggerà il colpo mortale alla povera Scalea già vistosamente imbruttita da asfalto&cemento. Come gran parte, ahimè, della Calabria.
Ma torniamo ad Arcus SpA presieduta, dal 2010, dall’ambasciatore Ludovico Ortona che conosco come persona di qualità. Essa è stata, sin dagli inizi, stravolta nelle sue nobili funzioni originarie, da ministri alla Lunardi che destinò circa un quarto dei fondi di allora, a “Parma capitale della musica”, cioè al suo collegio elettorale. O alla Matteoli che pure convogliò il flusso dei finanziamenti sulla propria area di influenza archeopolitica. Non a caso ho citato due ministri delle Infrastrutture. I loro colleghi dei Beni culturali hanno contato sempre pochino nella partita per il riparto dei fondi. Oppure hanno delegato – nel caso di Bondi – loro rappresentanti, come l’archeologa padovana Elisabetta Ghedini, sorella dell’avvocato del Cavaliere.
In mezzo a questa pioggia di denari regolata da rubinetti assai più politico-clientelari che tecnico-scientifici, sono state finanziate anche opere degne come il restauro di Villa Adriana a Tivoli o del Bosco di San Francesco a cura del FAI, della Galleria Sabauda di Torino, della chiesa di Santa Cecilia a Roma, ecc. Per dire quanto possa essere importante mantenere questo flusso di fondi (197 milioni per il triennio 2009-2112), dando ovviamente ad esso regole e priorità di scelta inattaccabili, citerò soltanto un caso: quello del centenario della morte del più moderno dei grandi poeti italiani fra ‘800 e ‘900, Giovanni Pascoli. L’altro giorno si è letto che per il Comitato pascoliano di San Mauro non c’è un solo euro ministeriale, mentre Arcus ha già destinato 700.000 euro al restauro e alla catalogazione delle carte di Pascoli esistenti presso l’archivio di Castelvecchio di Barga dove visse negli ultimi anni. Senza i fondi Arcus, nulla si sarebbe fatto per il poeta nel 2012. Da sprofondare.
Insomma, Arcus va rivista, dalla testa ai piedi, riducendo a 3 componenti il suo consiglio e rafforzando il raccordo tecnico-scientifico col MiBAC. Fra l’altro ci sarà da qualche parte il progetto di riforma che Paolo Baratta fu incaricato di redigere per il ministro Rutelli. Abolendo Arcus, tout court, non si risparmia un euro (essa si finanzia coi grandi appalti), ma si toglie altra acqua al già assetato, morente settore dei restauri. Vuol dare, per favore, un segno di vita e di “resistenza” il ministro Ornaghi dicendo cosa vuol fare o non fare? Essere “tecnici” non vuol dire essere muti.
Ci sarebbero molte ragioni per non prendere sul serio il manifesto «per una costituente della cultura» lanciato dal giornale di Confindustria: prima tra tutte «una determinata opacità, oscillante tra convenzionale deferenza per le competenze umanistiche e indifferenza o fatale estraneità al tema» (così, perfettamente, Michele Dantini sul “Manifesto”).
Tra gli stessi firmatari molti confessano (ovviamente in privato) di trovare il testo irrilevante («Me l’hanno chiesto, son cose che passano come acqua»), mentre altri raccontano di esser stati inclusi a loro insaputa, o addirittura dopo un diniego. Ma la solenne adesione dei ministri Passera, Profumo e Ornaghi e il successo che il “manifesto” sta riscuotendo nel paese più conformista del mondo, significano che esso ha interpretato nel modo più rassicurante un’opinione diffusa.
Al famoso “la cultura non si mangia” di Giulio Tremonti, il giornale di Confindustria oppone un discorso che vuol essere «strettamente economico»: “la cultura si mangia eccome”.
Niente di nuovo: è questo il dogma fondante del trentennale pensiero unico sul patrimonio culturale, per cui «le risorse non si avranno mai semplicemente sulla base del valore etico-estetico della conservazione, [ma] solo nella misura in cui il bene culturale viene concepito come convenienza economica» (Gianni De Michelis, 1985). Su questo dogma si fonda l’industria culturale che sta trasformando il patrimonio storico e artistico della nazione italiana in una disneyland che forma non cittadini consapevoli, ma spettatori passivi e clienti fedeli.
È a questo dogma che dobbiamo la privatizzazione progressiva delle città storiche (Venezia su tutte), e un’economia dei beni culturali che si riduce al parassitario drenaggio di risorse pubbliche in tasche private, socializzando le perdite (l’usura materiale e morale dei pochi “capolavori” redditizi) e privatizzando gli utili, senza creare posti di lavoro, ma sfruttando un vasto precariato intellettuale.
È grazie a questo dogma che prosperano le strapotenti società di servizi museali, che lavorano grazie a un opaco sistema di concessioni e che stanno fagocitando antiche istituzioni culturali e cambiando in senso commerciale la stessa politica del Ministero per i Beni culturali.
È in omaggio a questo dogma che la storia dell’arte è mutata da disciplina umanistica in “scienza dei beni culturali” (e infine in una sorta di escort intellettuale), e che le terze pagine dei quotidiani si sono convertite in inserzioni a pagamento. Appare, insomma, realizzata la profezia di Bernard Berenson, che già nel 1941 intravide un mondo «retto da biologi ed economisti dai quali non verrebbe tollerata attività o vita alcuna che non collaborasse a un fine strettamente biologico ed economico». Di tutto ciò il manifesto confindustriale non si occupa, preferendo affermare genericamente che «la cultura e la ricerca innescano l’innovazione, e dunque creano occupazione, producono progresso e sviluppo».
Naturalmente questo è vero, ed è giusto dire che anche dal punto di vista strettamente economico investire in cultura “paga”. Ma il pericolo principale di questa stagione è la debolezza dello Stato e la voracità con cui i privati declinano la valorizzazione (leggi monetizzazione) del patrimonio. E che il manifesto del Sole non intenda per nulla smarcarsi da questa linea dominante, induce a crederlo il nome del primo firmatario, quell’Andrea Carandini che è un guru del rapporto pubblico-privato nei beni culturali, visto che è riuscito ad autoerogarsi fondi pubblici per restaurare il castello di famiglia chiuso al pubblico.
Né tranquillizza il fatto che il “manifesto” fosse accompagnato da un articolo di fondo del sottosegretario Roberto Cecchi, artefice del più smaccato trionfo degli interessi privati in seno al Mibac (dal caso clamoroso del finto Michelangelo alla svendita del Colosseo a Diego della Valle). Induce, infine, a più di un dubbio la sede stessa in cui il “manifesto” è comparso, quel Domenicale che da anni pratica (almeno nelle pagine di storia dell’arte) un elegante cedimento delle ragioni culturali a quelle economiche, con lo sdoganamento di “eventi” impresentabili e di “scoperte” improbabili.
Un meccanismo approdato a una filiera completa: 24 Ore Cultura produce le mostre (per esempio l’ennesima su Artemisia Gentileschi), Motta (dello stesso gruppo) ne stampa i cataloghi, il «Domenicale» le vende con una pubblicità martellante. Dopo il pirotecnico lancio iniziale, il «Domenicale» ha dedicato ad Artemisia altre quattro pagine, con foto di Piero Chiambretti che visita la mostra e con l’immancabile sfruttamento intensivo della condizione femminile di Artemisia (stupro incluso). Così, una mostra mediocre che si apre con la commercialissima trovata di un letto sfatto che si tinge del rosso della verginità violata di Artemisia si trova a essere la mostra più pompata della storia italiana recente.
È forse pensando a questo tipo di esiti che il “manifesto” consiglia l’«acquisizione di pratiche creative, e non solo lo studio della storia dell’arte»? Più che un programma per il futuro, la santificazione del presente. La risposta vera a quanti affermano che la “cultura non si mangia” è, innanzitutto, che «non di solo pane vive l’uomo»: la nostra civiltà non si è mai basata solo su un «discorso strettamente economico», e la cultura è una delle pochissime possibilità di orientare le nostre vite fuori del dominio del mercato e del denaro. Il punto non è «niente cultura, niente sviluppo», ma: lo sviluppo non ci servirà a nulla, se non rimaniamo esseri umani. Perché è a questo che serve la cultura.
Sarebbe stato assai meglio se, invece del fumoso e conformista “manifesto” confindustriale, gli intellettuali italiani avessero sottoscritto una dichiarazione antiretorica e pragmatica come quella pronunciata, qualche anno fa, da uno dei massimi storici dell’arte del Novecento, Ernst Gombrich: «Se crediamo in un’istruzione per l’umanità, allora dobbiamo rivedere le nostre priorità e occuparci di quei giovani che, oltre a giovarsene personalmente, possono far progredire le discipline umanistiche e le scienze, le quali dovranno vivere più a lungo di noi se vogliamo che la nostra civiltà si tramandi. Sarebbe pura follia dare per scontata una cosa simile. Si sa che le civiltà muoiono.
Coloro che tengono i cordoni della borsa amano ripetere che “chi paga il pifferaio sceglie la musica”. Non dimentichiamo che in una società tutta volta alla tecnica non c’è posto per i pifferai, e che quando chiederanno musica si scontreranno con un silenzio ottuso. E se i pifferai spariscono, può darsi che non li risentiremo mai».
Al ministero chiamano Lorenzo Ornaghi "professore Ponzio" e non solo perché ha governato, almeno sino ad oggi lavandosene le mani, la più scandalosa delle emergenze, i Beni Culturali, immenso e immensamente malandato patrimonio dell´identità italiana.
Ma anche perché «siamo ai piedi di Pilato» è la realistica e simpatica espressione popolare ed evangelica che egli stesso usò con i colleghi della Cattolica quando seppe che non gli avrebbero dato la Pubblica Istruzione.
Vi entrò dunque da «tecnico serio, ma senza competenza» mi dice una imprenditrice veneta del restauro. E infatti «non so cosa significa Beni Culturali» confessò il giorno del giuramento al Quirinale. Lo sfogo fu preso come scaramanzia e come viatico, un cuscinetto di ironia tra se e sé, e uno spazio di libertà tra sé e quel difficile mondo sottosopra.
Professore di Scienza della Politica e Rettore magnifico di lunga esperienza, Ornaghi era infatti molto bene attrezzato a studiare, capire e affrontare, e con nuovi codici magari, i Beni Culturali senza la sgangherata inefficienza di Bondi, che negava i crolli di Pompei e maltrattava la cultura viva e la cultura morta, e senza le polemiche sopra le righe della meteora Galan.
Ornaghi sembrava persino finalmente libero dalla politica politicante, come fu soltanto il rimpianto Alberto Ronchey tanti anni fa. E dunque sembrava perfetto per una legge quadro sull’architettura, per una nuova normativa sul cinema, per una ristrutturazione della lirica, per mettere a punto un piano di guerra che, come quello di Befera contro gli evasori, scovi e insegua uno per uno i tombaroli che da Cerveteri ad Aidone, da Palestrina ad Aquileia rovinano le nostre rovine e derubano gli italiani. «Forza Ornaghi!» pensammo dunque quando lo nominarono. E invece: chi l’ha visto?
Brianzolo, 64 anni, cattolicissimo e scapolo, cappotto nero da prete, poco meno di due pacchetti di "Camel light" al giorno, una voluta somiglianza con il suo maestro morale don Giussani, compiaciuto della parola "Padania" in onore dell´altro suo maestro Gianfranco Miglio, il ministro ha esordito presentando un pio libro di Maurizio Lupi, riceve tutti i giorni Buttiglione e Quagliariello e insieme fanno combaciare asole e bottoni di una nuova ipotetica Dc, combatte «la dittatura relativista della cultura laicista»…
È insomma molto attivo nella militanza ciellina, ma non ha preparato piani di riscossa per Pompei dove continuano quei minicrolli che sono la rivolta delle pietre contro l’incuria che viene certo da lontano ma costò al povero Bondi l’eccessiva fama mondiale di killer of Pompei’s ruins.
Il progetto Pompei coinvolge almeno tre ministri (anche gli Interni, in funzione anticamorra) perché l´Europa ci chiede garanzie per il finanziamento già stanziato e mai erogato di 105 milioni. Ma Pompei è come lo spread, è un impegno che il nostro ministro deve prendere con il mondo, simbolicamente lì è l’Italia intera che rischia il default. Per un ministro dei Beni Culturali che ama il suo Paese, Pompei è il Luogo Comune nel senso del più comune dei luoghi, vestigia e simbolo della civiltà occidentale, valore identitario e tuttavia senza nazionalità, il capolinea di tutte le strade del mondo: salvarlo significa salvare il mondo.
Da sola Pompei vale un ministero, una carriera, una vita. E invece Ornaghi si comporta come un Bondi con molta più cultura che però, in questo caso, diventa un’aggravante.
Ha scritto autorevoli saggi sulle élite pubblicati dal Mulino, parla correntemente inglese, francese e tedesco, è un cultore di musica classica, appassionato di storia di Milano e di società milanese, e non solo in senso alto: la sua prima lettura al mattino sono le pagine dei necrologi.
Perché l’innamorato di Milano non dice una parola sulla sciagurata paralisi della Grande Brera, commissariata e dimenticata? E tace pure sul Palazzo del cinema di Venezia dove al primo scavo, trenta milioni di euro per 3,10 metri di profondità, hanno trovato, sotto una pineta, quel demonio dell’amianto e non c’è esorcista che possa andare avanti né tornare indietro su una superficie di 10mila metri quadrati, mentre l’impresa (la Sacaim) è finita in amministrazione controllata, e c’è ancora in carica un commissario, come del resto all’Aquila, un sub commissario, vice di Bertolaso. E i collaudatori erano quelli della cricca, e forse si farà solo un auditorium, ma un po’ più in là … Questo sì è cinema! In quel buco di Venezia c’è la fantasia della scuola napoletana, è il buco dei magliari d’Italia. Vuole parlarne, signor ministro?
Ornaghi dirige il traffico e controlla gli affari delegando al solito capo di gabinetto Salvo Nastasi, amico più di Letta che di Bisignani, genero di Gianni Minoli, e commissario ovunque e per tutte le stagioni: dal San Carlo di Napoli al Maggio Fiorentino…
Sin dai tempi di Urbani, Nastasi è l’avvolgente potenza invisibile dei Beni Culturali, come l’imam occulto degli sciiti. E infatti Ornaghi, via Nastasi-Letta, costretto dalle reazioni dell’intera città di Venezia, ha confermato Paolo Baratta alla presidenza della Biennale. E però poi gli ha mandato, come guastatore nel consiglio di amministrazione, il presidente della Fondazione Roma Emmanuele Emanuele, vecchio notabile del parastato e del Circolo della caccia, gran protettore di Vittorio Sgarbi, premio letterario Mondello per le poesie raccolte in "Le molte terre" e "Un Lungo cammino", già premiato a Tor di Nona. Pittoresco e manovriero, ha esordito annunziando che è lui l´unico a rappresentare sia il ministero sia l’albo d’oro della nobiltà, e tra Baratta e Ornaghi è cominciata un’agra corrispondenza… Perché?
A Nastasi si contrappone il sottosegretario Roberto Cecchi, più cauto ma non meno avido di supplenza. Già funzionario del ministero, a lui si devono il pasticcio del Colosseo affidato a Della Valle e il famoso malaffare del crocifisso erroneamente attribuito a Michelangelo: tre milioni che un rinvio a giudizio della Corte dei conti ha censurato; sarebbero bastati trecentomila mila euro. Ebbene, il ministro non ha né difeso né cacciato il suo sottosegretario: "professore Ponzio", appunto.
E non dice nulla sul Centro del libro, una struttura agile ma costosa che non ha mai cominciato a lavorare: forse non sarebbe inutile, ma così sicuramente lo è. E ancora: dopo la tragedia della Concordia al Giglio tutti si aspettavano una parola di Ornaghi per bloccare il passaggio delle grandi navi da crociera a Venezia: entrano dalla bocca di porto di Malamocco e poi si inoltrano nella laguna raggiungendo Riva degli Schiavoni che costeggiano sino a imboccare il bacino di San Marco, davanti al Palazzo Ducale, per poi giungere alla stazione marittima attraversando il canale della Giudecca. Neanche Marinetti, il quale nella sua devastazione, voleva asfaltare Venezia, era arrivato a immaginare le navi della follia. Dice Dante: Ed ecco verso noi venir per nave/ un vecchio, bianco per antico pelo/ gridando: ‘Guai a voi anime prave!’ Gli ignavi, appunto.
L'ancora recente scomparsa di Mario Serio, gran commis d'État, prima soprintendente dell'Archivio Centrale dello Stato diventato con lui struttura esemplare, poi validissimo titolare dell’Ufficio centrale e quindi della Direzione generale del Ministero, fino al 2005, non ha suscitato - una dicotomia che si ripete invariabile e allarmante - nessun interesse nei giornali e telegiornali, mentre fra gli addetti ai lavori ha raccolto un numero davvero eccezionale di testimonianze, di e-mail di apprezzamento, di ricordo, di aperto e nostalgico rimpianto. Rimpianto per un Ministero stravolto dal suo stesso ingrandimento a livello centrale (un testone su un corpo sempre più anemico e gracile), dall'immissione di dirigenti esterni che dovevano essere i mitici manager e che invece hanno portato faide e lotte intestine, dalla diàspora dei suoi migliori, con una decadenza dei valori e delle pratiche della tutela da far temere per la sorte stessa del Ministero voluto da Giovanni Spadolini come "diverso" dagli altri e ridotto come e peggio degli altri negli ultimi anni di malagestione.
Si era fatto promotore di quella raccolta di messaggi Pippo Basile, indimenticabile coordinatore di tanti restauri post-terremoto, in particolare di quello umbro-marchigiano del settembre 1997, messo a capo di una ancora formidabile struttura tecnico-scientifica proprio da Mario Serio commissario straordinario per quel sisma che fece poche vittime e però danni assai gravi nell'area vastissima fra Assisi e Urbino. A cominciare dalla Basilica di San Francesco che minacciò di scivolare tutta quanta a valle e che fu invece messa in sicurezza nelle strutture, integralmente restaurata e riconsegnata ai padri francescani in meno di due anni e mezzo. Ministro era Walter Veltroni. Subito dopo il terremoto terribile dell'Aquila, lo stesso Basile, appena andato (assurdamente) in pensione come tanti altri tecnici bravissimi del MiBAC, si presentò sul posto offrendo gratuitamente i suoi saperi (si era fatto una assicurazione da sé e portato il proprio elmetto), ma venne rimandato subito indietro. Basile non serviva. I risultati della ricostruzione, diametralmente opposti a quelli di Umbria-Marche, sono, desolatamente, sotto gli occhi di tutti.
Mario Serio era uno studioso di grande solidità, un uomo molto fattivo e però assolutamente schivo, alieno dai giochi di potere che oggi imperversano (ancora purtroppo), un laico vero per il quale lavorare "in squadra" era la regola di tutti i giorni. Perché Serio, acuto studioso dell’amministrazione in generale, come scrisse Guido Melis nella prefazione ai suoi scritti (o, più sommessamente, ai suoi “materiali per una storia”, usciti presso la Bononia University Press), era fortemente radicato nell’esperienza delle “belle arti” partita con la legge Rosadi in epoca giolittiana. Oggi ci si riempie la bocca parlando soprattutto di beni culturali “da far fruttare”, “da mettere a reddito”, di “apertura ai privati”, di gestioni finalmente “manageriali”. Le recenti montagne di neve cadute nel Montefeltro hanno prodotto seri danni a Urbino (la Chiesa dei Cappuccini) e a Urbania (Palazzo Ducale) minacciando il peggio: ma il ministro Ornaghi, o il sottosegretario Cecchi, chi li ha visti?
A Napoli, duecento lavoratori del patrimonio culturale protestano contro la loro condizione precaria, e chiedono di essere stabilizzati: «Senza di noi –dicono – il Museo Nazionale Archeologico sarà costretto a chiudere». Davvero un brusco ritorno alla realtà, dopo la retorica stantia e nebulosa del cosiddetto ‘manifesto per la cultura’ lanciato in pompa magna dal supplemento culturale del quotidiano di Confindustria.
A trent’anni dalla nascita della ‘dottrina del petrolio d’Italia’ fondata da Gianni De Michelis, siamo ancora in piena ideologia dei giacimenti culturali: guardiamo al patrimonio come a qualcosa da sfruttare per ricavarne la massima rendita possibile. La conseguenza è un’economia dei beni culturali essenzialmente parassitaria, ben simboleggiata dalle strapotenti società di servizi che lavorano grazie a un sistema di concessioni a dir poco opaco, e che stanno cambiando radicalmente in senso commerciale la stessa politica culturale del Ministero per i Beni culturali.
Questo sistematico drenaggio delle risorse pubbliche verso tasche private non ha neanche la legittimazione della creazione di posti di lavoro: tutto si basa su un cinico sfruttamento di lavoratori precari, spesso anche molto qualificati (come gli storici dell’arte e gli archeologi che escono dai dottorati delle università italiane).
Se vogliamo davvero aprire una riflessione sui rapporti tra pubblico e privato nel mondo dei beni culturali, il punto di partenza non può essere la fantasiosa celebrazione delle magnifiche sorti e progressive di un nuovo mecenatismo italiano (di cui, francamente, non si vede traccia), ma una seria analisi della sorte dei duecento precari di Napoli.
Mentre sulla scena internazionale si afferma una «nuova forma di colonialismo il cui dominio non si fonda più sugli eserciti ma sul debito» (Gad Lerner), in Italia prende piede un neofeudalesimo che fa leva sul dissesto degli enti locali e sulla debolezza dello Stato per costruire zone di potere privato sottratte allo spirito e alla lettera della Costituzione.
E, come sempre nella storia, il patrimonio artistico è il luogo in cui tutto questo acquista un’evidenza simbolica. Benetton ‘regala’ sei milioni di euro al Comune di Venezia in cambio delle concessioni che gli consentiranno di stravolgere lo storico Fondaco dei Tedeschi, a Rialto; la ditta Essebiesse dona 50.000 euro all’anno alla Soprintendenza Archeologica di Campobasso, che l’ha autorizzata a piazzare un impianto eolico sull’intatta Sepino; il National Geographic ‘compra’ con nemmeno duecentomila euro il diritto di ‘bucare’ gli affreschi di Giorgio Vasari a Palazzo Vecchio a Firenze, per cercare spettacolarmente un inesistente Leonard. Poteva mancare, in tutto questo, un serraglio di animali esotici mantenuti a caro prezzo per la delizia dei nuovi feudatari? Certo che no: e infatti è a Trieste, nel fiabesco parco del Castello asburgico di Miramare.
Qui, dal 2005, alcune delle serre antiche del parco ospitano un allevamento di rarissimi e delicatissimi colibrì appositamente importati dal Perù. Senza un progetto scientifico, ma grazie ad una serie incredibile di appoggi politici, un privato cittadino è riuscito ad imporre ad un sito monumentale statale un serraglio, peraltro abusivo, che non ha nulla a che fare con l’identità storica di Miramare, né tantomeno con i compiti istituzionali del Ministero per i Beni culturali. E questo sarebbe ancora niente: mantenere il clima necessario ai delicati uccellini costa una fortuna in gas e luce, oltre ad una colossale quantità d’acqua, che è stata procurata con allacci illegali al sistema idrico, e che ha finito per infiltrarsi nel terreno compromettendo la salute dei pini storici del parco. Il tutto è culminato nell’incendio che, l’8 novembre del 2011, ha distrutto parte delle serre antiche di Miramare.
Il fatto che (nel gennaio 2011) a fianco dei colibrì sia sceso in campo Berlusconi in persona (alla schiusa dell’ennesimo uovo triestino il «Corriere della Sera» salmodiò che «al neonato verrà dato il nome di Silvio, per l’impegno preso da Berlusconi a salvare» i minuscoli pennuti) – oltre ad un variopinto schieramento di volti noti che va da Margherita Hack a Laura Pausini, da Piero Angela a Maurizio Gasparri – ha consigliato ai prudentissimi vertici del Mibac di schierarsi dalla parte degli uccellini abusivi, lasciando del tutto solo il soprintendente del Friuli, Luca Caburlotto (insediatosi nel maggio 2010), il quale continua a battersi, con coraggio esemplare, per la legalità e il buon senso, e dunque per la rimozione dei colibrì da Miramare.
Con le biblioteche e gli archivi sull’orlo della chiusura per mancanza di fondi, con la pioggia che entra dai lucernari di Brera, con Pompei che si sgretola, il Ministero per i Beni e le Attività culturali usa oltre 400.000 euro per coprire danni e debiti del colibrì Silvio e dei suoi simpatici colleghi volatili.
Insomma – parafrasando Flaiano –, come sempre la situazione del patrimonio storico e artistico italiano è grave, anzi gravissima. Ma certo non è seria.
E’ probabile e comprensibile che molti dei numerosi visitatori della Cappella di Giotto a Padova non facciano in tempo, storditi dalla visione di uno dei cicli pittorici più straordinari della pittura mondiale, a rendersi conto dell’area sulla quale, agli inizi del 1300, sono stati costruiti la Cappella e il Cenobio (cripta, sotterraneo).
La Cappella e il Cenobio si trovano vicino alle mura cinquecentesche e al fiume Piovego. I pavimento del Cenobio, sopra il quale si trova la Cappella con il ciclo di affreschi di Giotto, da anni è soggetto ad un allagamento sempre più grave ed allarmante.
Messo sotto pressione dall’architetto Serenella Borsella, allora dipendente comunale, il Sindaco di Padova incarica il compianto geologo e docente dell’Università di Padova Vittorio Iliceto di elaborare uno studio sul sottosuolo della Cappella degli Scrovegni e cioè sul Cenobio.
Nel febbraio del 2002 Vittorio Iliceto lo consegna. Lo studio dimostra, in modo inequivocabile, la correlazione fra l’aumento del livello delle acque che allagano il pavimento del Cenobio e quello delle acque del Piovego. Vittorio Iliceto lo conclude con alcune precise proposte che consentirebbero una drastica diminuzione del tasso di umidità ora presente nel Cenobio e un suo possibile riutilizzo. Dicasi “riutilizzo”. Il Cenobio attualmente non è visitabile. Forse perfino il Comune si vergogna di farlo vedere ai visitatori. Iliceto chiede una regimazione delle acque del Piovego già ipotizzabile e l’installazione di una stazione idrometrica.
Risposta alle due richieste dell’autorevole docente dell’Università di Padova ? Nessuna. Nè il Comune, nè le due Soprintendenze competenti, nè la Fondazione Cassa di risparmio di Padova e Rovigo rispondono. Gli anni passano e sulla riva sinistra idraulica del Piovego (la Cappella e il Cenobio si trovano sulla riva destra) i metri cubi di cemento si sprecano. La riva sinistra nei piani regolatori del grande urbanista socialista Luigi Piccinato avrebbe dovuto essere destinata a verde pubblico. Di Piccinato non si ricorda quasi più nessuno. I sindaci di Forza Italia e del PCI guardano con molta sufficienza nei confronti dei piani regolatori riformisti di Piccinato e delle sue aree verdi a poche centinaia di metri dallla Cappella di Giotto. Sull’area exCledca si costruisce un edificio enorme che comprende anche un parcheggio multipiano.
A piazzale Boschetti il sindaco Flavio Zanonato vuole costruire un Auditorium e qualche negozio, ecc. La terza area disponibile, quella chiamata PP1,di proprietà comunale, da sempre era destinata all’Auditorium, ma un sindaco disinvolto e con un certo senso degli affari, Giustina Destro, la vende ai privati, amici degli amici, che ora stanno costruendo un grattacielo alto più di cento metri.
Questa cementificazione già realizzata o programmata quali conseguenze avrà sul regime idrico del Cenobio di Giotto ?
E’ un po’ difficile non prevedere delle conseguenze negative. Almeno dal febbraio 2008 è cominciata la campagna degli Amissi del Piovego (associazione di voga alla veneta) contro la cementificazione dei privati e del Comune di Padova. Nel settembre 2009 a Padova piove a dirotto. L’acqua innonda il Cenobio sia dal pavimento che dalle finestre. Tutta Padova, anche quella che non sapeva dell’esistenza del Cenobio, prende paura. Un valoroso studio di Giotto, Giuliano Pisani, docente del più prestigioso liceo classico cittadino, presidente della Commissione cultura comunale, provoca e comincia a riunire la commissione dentro il Cenobio dove i consiglieri arrivano con opportuni stivali. Ma l’allagamento del Cenobio e lo studio di Vittorio Iliceto continuano a essere ignorati dalle due sovrintendenze, dal sindaco e dalla Fondazione Cassa di risparmio di Padova e Rovigo.
Nel novembre 2011 tre docenti di idraulica dell’Università di Padova in un loro studio esprimono pesantissime riserve sul progetto di Auditorium a piazzale Boschetti che il sindaco Flavio Zanonato sostiene a tutti i costi, contro venti e maree. Il sindaco crede di dimostrare di essere un vero decisionista (si del cemento).
Recentemente 25 autorevoli studiosi fra i quali Chiara Frugoni, autorevole studiosa di Giotto, lanciano l’allarme per la situazione del Cenobio e contro la cementificazione che sta circondando la Cappella e il Cenobio di Giotto. Acqua e cemento stanno facendo e faranno enormi danni. La stampa nazionale se ne occupa.
Sabato 10 marzo, nella mattinata, a Padova si svolgerà un convegno sul tema: “Quale opera per la sicurezza idraulica e statica della Cappella di Giotto e del Cenobio ? Le ragioni della richiesta di un concorso internazionale ?” La relazione introduttiva sarà presentata dal prof. Sergio Costa che ha affrontato il problema già nel settembre 2009 in una pubblicazione che definiva Cappella e Cenobio “un gigante dai piedi d’argilla”. Un particolare: il prof. Sergio Costa è più cocciuto del sindaco Flavio Zanonato.
Padova, 25 febbraio 2012