loader
menu
© 2024 Eddyburg

Riuscite a immaginare 16 pale eoliche più alte del grattacielo Pirelli piantate su un'antica strada romana a corona del magnifico sito archeologico di Saepinum? Eppure il sovrintendente, poi sconfessato dai superiori e inquisito dal giudice penale e dalla Corte dei Conti, disse sì. E quel «sì» pesa maledettamente. Ponendo un problema generale: fino a che punto la firma di un solo funzionario, magari infedele, può impegnare lo Stato?

Ma la storia non è tutta qui. Sulla trincea opposta, a difesa delle rovine, c'è un altro dirigente che per affermare il rispetto della legge è andato a beccarsi una richiesta danni di 23 milioni di euro, che mai nella vita potrebbe pagare, da parte dei costruttori dell'impianto. E chi risulta essere padrone per metà della società pronta a investire decine di milioni di euro? Un terzo funzionario pubblico.

Ma partiamo dall'inizio. E dal cuore del problema: i resti di Saepinum, una città sannitica e poi romana adagiata nella valle del fiume Tammaro, vicino all'odierna Sepino, in provincia di Campobasso. Scavate a partire dagli anni 50, le rovine hanno una caratteristica: i contadini della zona hanno costruito qua e là delle abitazioni con le pietre a vista recuperate dalle macerie dell'antico insediamento. E tutto l'insieme, i colonnati della Basilica e il Foro e le grandi porte di accesso e le case coloniche offrono un colpo d'occhio che non dev'essere molto diverso dalle visioni che avevano nei secoli scorsi, visitando i nostri siti archeologici, i grandi viaggiatori come Thomas Coryat, Wolfgang Goethe o Alphonse de Sade. Massimo esempio di questa meravigliosa commistione, il Teatro. La cui cavea è circondata da una corona di case in pietra. Luogo di fascino straordinario. Indimenticabile.

È impossibile che chi vuole costruire una palizzata di pale eoliche alte 130 metri sulla cresta delle colline che dominano la valle abbia visitato Saepinum. A meno che, ovvio, non se ne fotta delle bellezze naturali e dei tesori archeologici. Ma ancora più stupefacente è che un sovrintendente addetto a tutelare quel patrimonio sia stato di manica così larga. Per non dire dell'indecente appoggio al progetto della Regione di Michele Iorio.La storia puzza fin dall'inizio. Occhio alle date: la società «Essebiessepower» invia alla Sovrintendenza per i beni archeologici del Molise il progetto per tirar su la gigantesca palizzata eolica sul crinale collinare mercoledì 11 maggio 2005. E il 18 maggio, nonostante il weekend di mezzo, in soli 7 giorni, il sovrintendente Mario Pagano dà la risposta: ok. Un prodigio prodigioso di efficienza. Fatto sta che, nella fretta di concedere il permesso, il funzionario «dimentica» che da un quarto di secolo, dal 1982, lo studio «Saepinum — Il museo documentario dell'Altilia» del professor Maurizio Matteini aveva documentato che proprio lì dove andranno le pale c'è un'antica strada sannitica «risalente ai secoli V-IV secolo a.C. sopravvissuta come callis romana» sicché, scriverà il procuratore regionale della Corte dei Conti Francesco Paolo Romanelli, era fuori discussione «la sua qualificazione come area archeologica».

Poche settimane e appena il superiore diretto del disinvolto funzionario, il direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici Gino Famiglietti, viene a sapere della cosa, si mette di traverso, rivendica d'avere per legge l'ultima parola e avverte la Regione di voler imporre un vincolo per «salvaguardare l'incontaminato contesto paesaggistico che incornicia il gioiello archeologico monumentale e paesaggistico di Sepino-Altilia».

Da quel momento (vi risparmiamo i dettagli giuridico-burocratici) si apre una commedia surreale. Di qua la direzione regionale insiste nell'opporsi al progetto eolico, annulla l'autorizzazione concessa dal sottoposto, dà battaglia su tutti i fronti legali e amministrativi per bloccare lo stupro di quelle colline e dell'antico tratturo. Di là, mentre dilaga la rivolta degli ambientalisti appoggiati da un furente Vittorio Sgarbi, Mario Pagano va avanti come niente fosse nel suo rapporto diretto con la «Essebiesse». Un rapporto anomalo, accusa la Corte dei Conti. Soprattutto in due momenti. Il primo è l'impegno a versare 50 mila euro l'anno per 29 anni di sponsorizzazione in favore del parco archeologico da parte dei costruttori che chiedono (sbalorditivo, per uno sponsor) «la massima riservatezza».

Il secondo è l'ok del funzionario, a dispetto delle diffide dei superiori, alla nuova richiesta della società: vuol coprire l'antico tratturo nel quinto secolo a.C. «con misto di cava al fine di preservarlo dal passaggio degli automezzi». Una presa in giro. Ma lui dice sì all'istante. Una scelta che convince infine il magistrato contabile sulla «buona +fede» o no del sovrintendente. Al punto che l'accusa con cui gli chiede 1.147.127 euro di danni archeologici e paesaggistici gronda d'indignazione: «aperto dispregio alle regole», «macroscopica negligente condotta di servizio», «assoluta e inspiegabile arrendevolezza»… Parallelamente, va avanti un'altra partita. Quella avviata dal Tar che, avendo dato la Regione l'ok all'impianto (che importa, ai giudici amministrativi, dei resti archeologici?) decide su ricorso della società di accelerare nominando un commissario ad acta, Vincenzo Caprioli. Il quale, convinto evidentemente che sia la prima parola di Pagano quella che conta, a prescindere dall'annullamento disposto dai suoi superiori, tira diritto: la palizzata eolica s'ha da fare. Anzi, «gli attuali impianti eolici possono costituire anche un ornamento del paesaggio naturale». Sic… Fatto sta che passano i mesi e gli anni. E la battaglia per difendere Saepinum vede entrare in campo, oltre alla Corte dei Conti (udienza il 9 ottobre prossimo) e al ministero, che infine sposta il funzionario a Perugia (mica male, come realtà artistica e paesaggistica, per un uomo così «attento» ai beni da tutelare…), anche la magistratura ordinaria. Che rinvia a giudizio il sovrintendente (processo il 27 settembre) per «danno a bene immobile aggravato dal fatto che si tratta di bene vincolato».

Qualche settimana, insomma, e vedremo come va a finire. Un'ultima curiosità: di chi è questa «Essebiessepower» che sembra avere così buone conoscenze in Regione e non solo? Di un signore di nome Gennaro Spasiano, che in certe carte figura anche come direttore dei lavori a Sepino, e di sua moglie Antonella Del Gaudio. I quali, insieme, da soli o coi figli sono presenti con quote di maggioranza o di partecipazione importante, in altre 11 imprese che si occupano di energia rinnovabile. Un piccolo impero eolico, collegato tramite società in comune a un impero ben più grande: quello di «Fortore energia», gruppo alleato di un big tedesco dell'energia, finito mesi fa, a ragione o a torto, nelle intercettazioni dell'inchiesta sulla cosiddetta P3 del faccendiere Flavio Carboni.

Tutto ciò presuppone tanti soldi di contributi e tanti d'investimento. Ogni pala eolica di quelle progettate a Sepino, per capirci, costa secondo Legambiente intorno ai tre milioni di euro. Tre milioni per 16 uguale 48.

Ma chi è questo Spasiano, un milionario? Macché: è un funzionario della Provincia di Caserta, già sub commissario delegato all'emergenza rifiuti per il Casertano negli anni più controversi e oggi «esperto delle energie rinnovabili» (così dice il sito ufficiale) con uno stipendio lordo di 80.606 euro e 93 centesimi. Tolte le tasse, per comprare una sola pala dovrebbe risparmiare 60 anni.

Il museo chiude di domenica. Non un piccolo museo, che chiuso sarebbe comunque una ferita, ma la Galleria nazionale d’Arte antica di Palazzo Barberini a Roma, che ospita la Fornarina di Raffaello, l’Annunciazione di Filippo Lippi, il Ritratto di Enrico VIII di Hans Holbein. I custodi non sono sufficienti e non possono più cumulare straordinari, le maggiorazioni festive sono troppo salate e così, dopo aver tenuto sbarrate alcune sale nelle domeniche di primavera, da domenica scorsa si è adottata la soluzione più drastica: niente visite. Tutti fuori. E pazienza che a restare senza Raffaello, ma anche senza Mattia Preti e Pietro da Cortona, fossero tanti turisti stranieri, che in questi giorni si accalcano nelle vie di Roma.

Palazzo Barberini off limits di domenica (anche la prossima e quelle successive) è uno smacco per il sistema dei Beni culturali in Italia. Che va ad aggiungersi agli orari ridotti della Ca’ d’Oro e di Palazzo Grimani a Venezia (i cui custodi sono stati trasferiti per tenere aperte alcune sale delle Gallerie dell’Accademia). Alle tante domus non visitabili a Pompei. Alle sezioni inaccessibili del Museo Nazionale Archeologico di Napoli. Alle difficoltà di tenere aperti altri musei meridionali, come quelli archeologici di Pontecagnano e di Buccino, in provincia di Salerno, da poco restaurati anche con fondi europei. Oppure al paradosso del museo di Baia, in provincia di Napoli, dove le sale sono accessibili solo di mattina perché alcuni restauratori si sono trasformati in custodi.

Una lista dolorosa, e incompleta, effetto dei tagli ai finanziamenti e della drastica riduzione dei custodi. Ma le conseguenze dell’asfissia in cui giace il nostro patrimonio si scontano anche altrove. L’Istituto centrale per i Beni sonori e audiovisivi, l’ex Discoteca di Stato, ha perso la propria autonomia. Poche righe nelle norme della spending review ne hanno decretato il trasferimento presso la Direzione generale dei Beni librari, lasciando nell’incertezza assoluta il direttore e i quasi 40 fra funzionari e tecnici che custodiscono un immenso archivio sonoro (le voci e le musiche che hanno fatto la storia d’Italia, raccolte su oltre 500 mila supporti).

In grave affanno è anche l’Archivio centrale dello Stato a Roma. La goccia che potrebbe far traboccare un vaso colmo da anni è la decisione della direzione di non rinnovare il contratto a cinque giovani precari addetti a recuperare i faldoni nei depositi. Ma, appunto, è solo una goccia. Sullo sfondo c’è la crisi in cui si dimena una delle strutture fondamentali per la memoria di un paese, l’Archivio che in 140 chilometri di scaffalature custodisce le carte in cui quella memoria è consegnata. Falcidiato dai tagli, con un personale sempre più scarso, invecchiato, mortificato eppure tenace nel non abbandonarsi allo sconforto, l’Archivio centrale condivide la sorte di altre strutture della tutela in Italia. Ieri si è svolta un’assemblea dei lavoratori e il direttore, Agostino Attanasio, ha garantito che troverà una soluzione per i cinque giovani precari. I quali lavorano all’Archivio da otto anni, sono stati addestrati a un compito solo apparentemente manuale e invece essenziale per recuperare una media di 70 mila buste l’anno. L’alternativa alla quale aveva pensato la direzione era di rivolgersi all’Ales, una società del ministero che dal prossimo anno dovrebbe essere liquidata: ma, assicurano all’Archivio, il costo sarebbe maggiore rispetto a oggi e per un numero di addetti minore, il che renderebbe ancora più difficile il funzionamento del servizio.

Su Palazzo Barberini si scaricano i paradossi che gravano su tutto il ministero. Per sistemare nell’edificio la Galleria si sono attesi decenni, a causa del braccio di ferro ingaggiato con il Circolo ufficiali che lì era installato. Una battaglia memorabile. Finalmente, nel 2007, Palazzo Barberini ha recuperato la destinazione a museo. Ci sono voluti però altri quattro anni di costosi (22 milioni) e accurati restauri perché le oltre 500 opere, che vanno dai crocifissi duecenteschi ai dipinti neoclassici, fossero ospitate in 37 sale. Ora l’allestimento è di fascinosa bellezza. Ma, a dispetto dell’impegno profuso, un anno dopo la fine dei lavori, si scopre che il personale di custodia è insufficiente. 30 persone su 3 turni sono poche. Con gli straordinari dimezzati si è andati avanti tenendo chiuse la domenica alcune sale. Domenica scorsa i custodi sarebbero stati appena 2. Non c’era altra scelta che chiudere. Fuori al portone sono comparsi i biglietti amareggiati o infuriati di persone venute da tutto il mondo. All’indirizzo elettronico di Palazzo Barberini anche la mail indignata di un professore di Anversa, Willem Lemmens, che lamenta «l’assoluta mancanza di intelligenza delle cose » di chi in Italia gestisce il patrimonio culturale.

Il ministro per i Beni Culturali Lorenzo Ornaghi ha scritto al «Corriere della sera» per rispondere ad una doppia lettera aperta in cui Italia Nostra ed alcuni storici dell’arte (tra cui il sottoscritto) gli chiedono spiegazioni sulla mostra del Rinascimento fiorentino a Pechino e sulla designazione del filosofo del diritto Francesco De Sanctis alla presidenza del Consiglio superiore dei beni culturali.Nel breve testo, tuttavia, di risposte non ce ne sono. Il ministro non parla della sicurezza delle fragilissime opere d’arte spedite in giro per il mondo come agenti di commercio (Italia Nostra chiedeva di sapere «quante opere vengono prestate ogni anno, quali e quante opere sono tornate danneggiate, quale è stato il “ritorno” in termini economici e di prestigio culturale»), né si degna di spiegare perché ha messo un filosofo del diritto nel ruolo che fu di Federico Zeri e Salvatore Settis.

In compenso, sotto il belletto un po’ avariato di un’involuta prosa curiale cova un veleno non meno curiale: Ornaghi ne fa una questione di stile. Il «fraseggio» della lettera di Italia Nostra e i valori su cui essa si fondano gli paiono «ideologicamente grossolani». Se preoccuparsi per l’incolumità del patrimonio è «grossolano», ci si chiede quali siano i parametri di giudizio del massimo tutore (per fortuna pro tempore) di quello stesso patrimonio: non dimettersi dalla carica di rettore della Cattolica infischiandosene dei mille conflitti di interesse deve apparire ad Ornaghi una mossa ideologicamente raffinata; designare al vertice del Consiglio superiore dei Beni culturali l’ex rettore di un’altra università privata senza alcuna competenza deve sembrargli raffinatissimo; nominare nel consiglio di amministrazione della Scala il proprio assistente personale dev’essere per lui un vero vertice di raffinatezza.

Ma la lettera di Ornaghi tocca l’apice laddove ‘rettifica’ una frase della lettera di Italia Nostra relativa alla nomina di Marino Massimo De Caro alla direzione della Biblioteca dei Girolamini: «non ho mai nominato De Caro a un tale incarico», precisa, risentito, il ministro. Ma si guarda bene dall’aggiungere che De Caro (oggi in carcere per averla svaligiata, quella biblioteca) fu nominato grazie ad un improvvido nulla osta del suo ministero; che un’ispezione ministeriale ai Girolamini fu insabbiata per ragioni su cui la magistratura sta indagando; e soprattutto sul fatto che egli ha incluso De Caro tra i propri consiglieri personali. Tutti atti che gli devono apparire così poco «grossolani», anzi così fini, da non doversene minimamente scusare.

Fino ad oggi il ministro ha detto di aver confermato De Caro perché parte del ‘pacchetto’ ereditato da Giancarlo Galan (il che non è comunque vero, perché due di quel gruppo furono espunti), lasciando intendere di non aver avuto sostanzialmente alcun rapporto con il detentore dell’imbarazzante primato di essere il primo consigliere del ministro dei Beni Culturali finito in carcere per aver saccheggiato una biblioteca statale.Ma a giudicare da quanto si legge sull’ultimo numero dell’Espresso, le cose non stanno proprio così. Il 25 febbraio scorso De Caro comunica al suo mentore Marcello Dell’Utri (allora momentaneamente espatriato in America latina, in attesa del verdetto della Cassazione sui suoi rapporti con la mafia) che i senatori del Buongoverno (il gruppo di Dell’Utri coordinato dallo stesso De Caro) hanno presentato un subemendamento per esentare dall’Imu gli edifici storici di proprietà della Chiesa. Il consigliere De Caro può anche riferire al senatore che Ornaghi (ministro-e-rettore-della-Cattolica) «è contentissimo» (strano, vero?). Memorabile il commento di Dell’Utri che, con un piede nella latitanza, benedice l’operazione: «È cosa di giustizia, sottoscrivo».

A legger tutto ciò si capisce, finalmente, perché il ministro Lorenzo Ornaghi scriva al «Corriere» che le preoccupazioni di Italia Nostra sarebbero «ideologicamente grossolane»: egli coltiva frequentazioni assai più pragmatiche e pratica conversazioni assai più raffinate.

Non solo Pompei. E non solo Sud. La crisi dei beni culturali nel nostro Paese va oltre i nomi eclatanti e le aree geografiche. Affonda i grandi siti archeologici e le città d’arte . Colpisce al cuore la nostra cultura. Che si disgrega, giorno dopo giorno, come le rovine di Pompei. L'elenco delle cose che non vanno è lungo: musei chiusi, aree archeologiche segnate dai crolli, opere d'arte colpite dall'incuria, progetti avviati e mai finiti. Difficile sperare in un'inversione di tendenza in un'Italia che destina al settore 1,4 miliardi, lo 0,19 per cento del Pil. Meno di un terzo degli altri paesi europei.

L'allarme è generale ed arrivato persino a Torino, ex città industriale che ha puntato molto sulla riconversione nella cultura. Il 18 marzo scorso, alla chiusura della Galleria Sabauda destinata alla Manica nuova di Palazzo reale, «caldo e umidità soffocanti erano all'origine degli scollamenti che tutti abbiamo visto nelle pezzette messe in fretta sulle tele di una collezione in rovina» racconta uno storico dell'arte del calibro di Enrico Castelnuovo. Sotto accusa finisce il disegno di lasciare le vecchie sale al Museo egizio, secondo alcuni dettato dalla fretta degli sponsor e dalla subalternità dello Stato. La soprintendente Edith Gabrielli al telefono nega tutto, il direttore regionale, Mario Turetta minimizza ma non nega: «Il problema è durato un giorno e mezzo, non ha provocato danni ed è stato subito risolto».

A volte, poi, la cattiva tutela è quasi peggio della natura che torna a essere matrigna . Il terremoto in Emilia danneggia pesantemente chiese e campanili. Che poi vengono rasi al suolo per ragioni di sicurezza. Secondo gli esperti , però, con troppa precipitazione. A Poggio Renatico e Buonacompra la campana adesso tace. Sparite anche le ciminiere di Bondeno e del Molino Parisio a Bologna. «Dopo il terremoto nel reggiano del 1996, i campanili di Correggio, Villa Sesso, Bagno in Piano, simili a quello di Buonacompra, vennero messi in sicurezza e salvati. Lo smantellamento della tutela sta provocando un olocausto del patrimonio: il ministero non c'è più, al suo posto c'è la Protezione civile» spiegano Elio Garzillo e Pier Luigi Cervellati di Italia Nostra.

Quando non c'è il terremoto basta l'uomo (e le poche risorse a disposizione) a fare danni. A Venezia, tanto per dire, la Galleria dell’Accademia è aperta. Tutto bene? Insomma, perché Ca’ d’Oro e Palazzo Grimani, sono a orario dimezzato per mancanza di personale. Senza dimenticare l’acqua che, quando piove, lambisce i dipinti di Brera a Milano. O i Grandi Uffizi a Firenze, il cantiere infinito in cui si è esercitata la «cricca» P4 dei vari Balducci e Anemone.

A Roma a soffrire particolarmente è l'area archeologica centrale. Lo scorso autunno le piogge hanno fatto esondare le fogne che finiscono abusivamente nell’antichissima Cloaca Massima , finche hanno inondato il Foro. Millenni di storia tra i liquami. Al Palatino, d'altro canto, rimangono aree tutte da investigare e altre che possono essere spazzate via da una frana da un momento all'altro. «I restauri richiederebbero molto di più dei 30 milioni arrivati» spiega Maria Grazia Filetici, responsabile di opere di consolidamento ispirate alle tecnologie antiche e autrice di un appello al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per la dignità del lavoro nel settore (a cominciare dagli stipendi) rimasto inascoltato.

A volte, anche se raramente, il problema non sono le risorse: «È la carenza di tecnici che impedisce la capacità progettuale. Si rischia di perdere finanziamenti, di mandare avanti progetti superati o di demotivare i privati» racconta Giuseppe Morganti che scava nella Domus Tiberiana, sul Palatino . In effetti l'area è piena di cantieri avviati e mai finiti, di zone restaurate di nuovo a rischio per mancanza di manutenzione, senza parlare del degrado delle uccelliere Farnese. Altro punto dolente è l'Archivio centrale dello Stato: praticamente la memoria della nazione. Una mostra di qualche tempo fa ha «svelato» depositi semi abbandonati, con intere zone funestate dalle infiltrazioni di acqua e con molti documenti in deperimento. L'Archivio è in affitto dall'Ente Eur, proprietario dello stabile: nel 2012 la spesa sarà di 7 milioni di euro.

Si scende al Sud. Precisamente nell'Anfiteatro Flavio di Pozzuoli. Per terra alcuni blocchetti caduti dalla volta. Nulla di irreparabile, certo. Ma un nuovo segno di uno stillicidio che si consuma quasi tutti i giorni. E se i sotterranei della cavea sono in buono stato (grazie ai fondi Ue), il resto della struttura versa in una condizione disastrosa con le volte puntellate alla meno peggio. Un piccolo museo allestito nell’ambulacro interno è una rovina nella rovina, con reperti coperti di polvere, animali morti e pannelli deteriorati. Se si aggiunge che il giorno della visita il sito è chiuso per mancanza di custodi con scolaresche venute per niente che protestano fuori dal cancello , il quadro è completo. Stessa sorte toccata al Rione Terra, il centro storico di Pozzuoli svuotato e scavato, che doveva diventare un polo turistico e che invece è una città spettrale.

«Le risorse sono inadeguate persino per le emergenze», spiega la soprintendente archeologica di Napoli e Pompei Teresa Cinquantaquattro. «Con venti milioni l'anno, la metà in spese morte, cosa possiamo fare?». Lasciando fuori Pompei, solo l'Anfiteatro di Pozzuoli richiederebbe sei milioni di euro. Un'altra decina per Cuma, «mangiata» dalle acque marine. Senza parlare del Castello di Baia, consacrato nel 2008 "il più bel nuovo museo d'Italia" in attesa di essere completato, con il maschio incastonato nella villa di Giulio Cesare, che cade in rovina. La direttrice Paola Miniero, 1700 euro al mese di stipendio per un lavoro con responsabilità civili e penali, spiega: «Per rimanere aperti abbiamo proposto ai restauratori attività di “monitoraggio conservativo”. In pratica se un custode va in pensione, chiudiamo». A qualche chilometro, nella famosa Piscina Mirabilis, lavora, per uno "stipendio" di 360 euro netti l'anno, l’ottantenne signora Giovanna. Il giorno della nostra visita, però, è chiuso. E lei, alle prese con una dolorosa flebite, urla da lontano verso chi la disturba.

L'emergenza di Napoli città , invece, è quella dei beni artistici. Il soprintendente Fabrizio Vona racconta che può contare solo su 25 storici dell’arte che, assicura, «lavorano giorno e notte». Come Serena Mormone, per esempio, direttore del Gabinetto dei disegni e delle stampe, curatore del fondo grafico dell’Accademia, responsabile dei depositi esterni e di più di una chiesa, che al museo di Capodimonte gestisce le collezioni di Ottocento e Novecento. Vona ci racconta delle finestre rattoppate e delle perdite d’acqua quando piove a Villa Floridiana, che ospita una collezione di ceramiche tra le più belle del mondo. Poi ci mostra anche i sotterranei gotici della Certosa di San Martino, museo dimenticato della scultura napoletana dove le opere giacciono in mezzo a erbacce, calcinacci e umidità. Senza contare alcune delle duecento chiese del centro. Troppe per un bilancio di 3,7 milioni l'anno, che se ne vanno per la metà in bollette. Basta entrare nel Sacro Tempio della Scorziata per rendersi conto della devastazione: spazzatura, topi e puzzo di fogna. Più che sacro, profano.

«Il Mibac sta interrompendo il passaggio generazionale delle conoscenze in un blocco del turnover che dal 2001 al 2011 ha visto il passaggio da 25mila a 18mila dipendenti. Oggi rimangono troppi amministrativi e non abbastanza tecnici. D'altronde, una volta, il ministero lavorava con le soprintendenze, non contro» conclude con amarezza Vona. Il viaggio finisce a Napoli ma potrebbe concludersi a Palermo o a Reggio Calabria dove il museo dei 150 anni di un'Italia in crisi aspetta di essere aperto. E i bronzi di Riace sono sottratti da tre anni alla vista del pubblico.

«Mi vendo!», la canzone di Renato Zero sembra ormai compendiare la triste sorte del MAXXI, il museo, ma forse l’ex Museo delle arti e dell’architettura del XXI secolo di Roma, in via di trasformazione in una sorta d'appendice di un polo del lusso, nascente sotto gli auspici di Bernard Arnault e del gruppo Fendi e Vuitton. Ma sì, la meravigliosa struttura progettata da Zaha Hadid sarebbe destinata a diventare il solito polo multifunzione, in sostanza un pot-pourri all'insegna della commercializzazione».

Faccio in fretta un altro inventario, smonto la baracca e via» recita la canzone di Zero e infatti l'idea è presto detta: al posto dei due edifici ancora da realizzare dell'originario progetto, ecco un bel palazzotto del lusso ad usum Fendi - Vuitton, costruito a spese di Arnault (25 milioni di euro), che lo avrebbe suo per 40 anni al prezzo di circa 500 mila euro l'anno. Dunque, via la biblioteca archivio e via il museo con archivi dell'architettura, largo alla moda, al lusso, all'eccesso: «Io vendo desideri e speranze in confezione spray» cantava Zero. Il progetto nasce dalla direzione di Pio Baldi, prima che la struttura fosse commissariata, ed è perseguito con convinzione dall'attuale commissario Antonia Pasqua Recchia. che al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali riveste anche il ruolo apicale di segretario generale. Chiaro l'intento: racimolare soldi privati per il Maxxi, nato come molte altre Fondazioni sotto i peggiori auspici, vale a dire con un solo socio lo Stato - ma a che serve fare un ente privato di proprietà solo pubblica?-, e per di più quando era ministro Bondi e dunque con un finanziamento miserrimo.

Eppure non poche sono le perplessità: innanzi tutto il nascente palazzotto del lusso, il cui progetto preliminare dovrebbe essere di Zaha Hadid, sorgerebbe su un terreno dello Stato, - difficile capire se dell'Agenzia Spaziale Italiana o del Mibac dunque sarebbe un cosiddetto progetto di finanza (project financing) assegnato al miliardario del lusso Arnault senza bandi o concorsi, cosa discutibile da un punto di vista legale. Anche il manufatto poi sarebbe dello Stato e quindi per la costruzione ci dovrebbe essere un altro bando pubblico, con tutto ciò che comporta di aumento dei costi e probabili ricorsi - basti ricordare o costi del Maxxi stesso pressoché triplicati. Lecito chiedersi se alla probabile crescita della spesa dai preventivati 25 milioni farà fronte lo Stato Pantalone o andrà a detrimento del canone di affitto. Per dirla con Zero «Mi vendo, e già! A buon prezzo si sa», perché anche ammesso tutto funzioni, e sarebbe davvero straordinario, in cambio il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali avrebbe una cifra modesta da girare al Maxxi: 500 mila euro a fronte di un fabbisogno che si aggira sui 10 milioni l'anno.

Ma a comandare sono sempre l'appalto, il cemento e i soldi che portano: in altre parole, molti pensano che il recente commissariamento del Maxxi, con tanto di tradimenti interni alla sua direzione, nasca dalla volontà di «controllare. da vicino gare e assegnazioni da parte di vecchie e nuove cricche. E sono cose che capitano quando il marketing si sostituisce alla cultura. Proporrebbe Zero: «Ti vendo, un'altra identità» perché poi la presenza di un vicino potente e, come capita ai potenti, anche arrogante come la moda e il lusso, probabilmente andrà a infiltrare con logiche di commercializzazione un museo come il Maxxi, già penalizzato da penuria economica ma forse anche da scarsità di idee.

E lo dimostra il fatto che per cercare finanziatori non si sia puntato sull'attività del Maxxi, trovando privati disposti a sostenerla, ma sul sempiterno mattone. Stupisce però che il Mibac usi strumenti come il progetto di finanza che funziona, e non sempre. nell'espansione delle città, ma assai meno nella cultura. E la storia del Maxxi è il simbolo di tante altre strutture pubbliche, costruite a caro prezzo con i soldi dei contribuenti, gestite attraverso stratagemmi come le fondazioni con criteri privatistici -che avrebbero dovuto essere la salvezza di queste stesse strutture- e alla fine svendute ai privati: è il momento di ricominciare pensare a musei pubblici con la pretesa che funzionino. Altrimenti: «Mi vendo la mia felicità, ti dò quello che il mondo distratto non ti dà».

Sulla tutela del patrimonio storico-artistico e del paesaggio non devono abbattersi altri tagli di fondi né amputazioni di strutture e di personale dopo quelle già pesantemente inferte nei mesi e negli anni scorsi fino ad intaccare l’ossatura stessa dei Beni Culturali e quindi la copertura territoriale della tutela. Rivolgiamo un appello forte e accorato al governo Monti affinché con la “revisione della spesa” in corso non pratichi né nuovi tagli di risorse né l’assurdo accorpamento burocratico delle Soprintendenze con altri uffici dello Stato, del tutto estranei alla tutela, né il pre-pensionamento di tecnici di grande esperienza e qualificazione di cui si parla in queste ore e che sguarnirebbe in modo decisivo la salvaguardia territoriale.

Il disastroso terremoto che ha colpito l’Emilia-Romagna e i gravi danni subiti dal patrimonio storico-artistico hanno confermato la mancanza di una politica di prevenzione e di messa in sicurezza antisismica del Belpaese e svelato la contraddizione di fondo di quanti pretendono che una parte del patrimonio diventi una “fabbrica di soldi” e però trascurano poi gli elementi fondamentali della conservazione del patrimonio stesso, “redditizio” o no che esso sia.

Nuovi colpi di accetta sui pochi fondi disponibili e nuovi vuoti nella rete della tutela aggraverebbero in modo irreversibile una situazione, già vicina al coma, la quale esibisce al mondo intero i nostri paesaggi aggrediti da cemento e asfalto senza piani regionali e spesso senza neppure controlli pubblici di sorta, con pesanti infiltrazioni malavitose; i nostri centri storici a rischio di svuotamento totale e/o di trasformazione in sempre più volgari “divertimentifici”; i nostri musei, siti archeologici, archivi, biblioteche immersi in crescenti, penose difficoltà; un Ministero ormai inerte da anni, Soprintendenze devitalizzate, disossate, private di fondi, di mezzi, di tecnici, frustrate da commissariamenti fallimentari a base di supposti “manager” (L’Aquila, Pompei, ecc.). Eppure c’è chi, a livello economico, individua la Salvezza nella magica formula “far fruttare i beni culturali”, “sfruttarli a fondo”, monetizzare in chiave privatistica il nostro patrimonio collettivo.

I firmatari di questo appello vogliono dire chiaro e forte:

“Noi non ci stiamo ad assistere inerti al massacro del Belpaese. Una vera, generalizzata politica di tutela dei beni culturali è l’opposto di una politica che riduce fondi, mezzi, strutture e punta contemporaneamente allo sfruttamento dei beni considerati “redditizi” secondo una logica privatistica.

L’Italia ha bisogno di una vera rinascita culturale, ma, per ritrovare un rapporto forte con la cultura, dobbiamo sgombrare il campo da una serie di luoghi comuni economicistici stratificati su cultura e beni culturali. Eliminiamo per sempre dal nostro lessico la frase: “la cultura è il nostro petrolio”. Dizione altamente pericolosa, anche perché equipara la cultura alla rendita fornita da un propellente fra i più inquinanti. La cultura non è una rendita di posizione. E’ un processo creativo continuo che presuppone ricerca, studio, tutela, restauro, conservazione. E’ un patrimonio di tutti.

I siti archeologici o i centri storici, gli archivi o le biblioteche, non sono “giacimenti” industriali sui quali intervenire con misure sbrigative ignorando, oltretutto, la storia specifica dell’amministrazione. Non sono cioè rendite da “sfruttare”: sono beni complessi e delicati, da tutelare, da restaurare, da conservare, da vivere, sì, da vivere con rispetto. Sono la nostra storia, la nostra identità, concorrono a fare la nostra qualità di vita. Come il paesaggio dove tutto si tiene.

Il momento economico è grave, gravissimo per il Paese, ma l’Italia, che è già agli ultimi posti negli investimenti pubblici e privati per la cultura e per i beni culturali (pur avendo un patrimonio ingentissimo), non può rattrappire ancor più questa spesa già modesta e talora avvilente. Non può pensare di “risparmiare” sul personale e sugli strumenti della tutela che provvedono a salvaguardare il Belpaese minacciato da ogni parte da cemento legale e illegale. Né stabilire una gerarchia fra beni maggiori e beni minori.

Verrebbe colpita a morte la cultura del “contesto”, cioè una delle conquiste centrali dalla nostra idea di tutela, da Raffaello in qua. Per noi non c’è edilizia maggiore e edilizia minore, non ci sono “monumenti” scissi dal resto della città antica che quindi si può abbattere, sventrare, diradare, ecc. Questa logica aberrante – proposta di recente dall’Ocse per l’Aquila - ci fa regredire, quanto meno, agli sventramenti mussoliniani. Mentre l’Italia può vantare di aver raggiunto negli anni ’60 e ’70 del ‘900 un autentico primato culturale in materia di restauro integrale dei centri storici (anche della città “vecchia”), di vivibilità, di tutela accurata. Sarebbe quindi una regressione raccapricciante.

Possiamo operare salvaguardie e anche risparmi importanti (per esempio nel dissennato consumo di suolo) riportando in onore la pianificazione. A cominciare dai piani paesaggistici lasciati invece marcire da tutti i ministri, da Bondi a Ornaghi, nonostante il Codice per il Paesaggio. Dobbiamo richiamare Stato, Regioni, Enti locali ai loro compiti strategici, alla responsabilità così chiaramente identificata dall’articolo 9 della Costituzione, uno dei più disattesi negli ultimi anni. Da tutti. Dobbiamo richiamare con energia i partiti, i sindacati, i movimenti politici alle loro responsabilità: così il Belpaese corre verso l’autodistruzione. Senza un piano generale per la difesa del suolo e per la messa in sicurezza antisismica (che darebbero molto più lavoro, e più diffuso, alle imprese delle grandi opere), il Belpaese va incontro ad altri disastri, ad altre vittime innocenti, ad altre dissipazioni di beni preziosi ed irripetibili.

Non dobbiamo stancarci di chiarire che la tanto declamata “redditività” dei beni culturali e paesaggistici è semmai indiretta e non diretta. Non sono i musei, ad esempio, a “fruttare” (i mega-musei come il Louvre non “rendono” un solo euro, ma registrano un forte passivo coperto, per oltre la metà, con denaro pubblico). Può rendere invece, può produrre reddito e occupazione l’indotto turistico creato attorno ad essi, con una rete di accoglienza turistica “virtuosa” e rispettosa. Non il turismo miope e speculativo che sfrutta, invade, degrada e consuma sempre più centri storici e paesaggi.

Siamo pienamente favorevoli ad una seria e trasparente politica di detassazione per le donazioni e per gli investimenti privati nei beni culturali recuperando, ad esempio, i criteri della buona legge Scotti del 1982, che favorì in modo molto concreto gli interventi privati in dimore e giardini storici senza far perdere una lira al fisco. Anzi, facendone guadagnare coi maggiori lavori. Buona legge purtroppo mutilata nella grande crisi del 1992-93.

Siamo anche pienamente favorevoli ad una riorganizzazione in senso tecnico (ma tecnico davvero) dell’Amministrazione dei Beni culturali che la renda più snella, che semplifichi le procedure di spesa riducendo grandemente i pesanti residui passivi: bisogna dare più poteri ai Soprintendenti e insieme garantire tutti con regole inattaccabili sul piano della trasparenza e della qualità degli appalti. Su entrambi i versanti sentiamo di dover lavorare con approfondimenti e proposte.

Noi crediamo infatti alla ricerca, alla cultura e ai suoi beni come straordinario generatore di una nuova, epocale rinascita, anche economica, del Paese. Noi crediamo alla Bellezza come pilastro di tale politica, come diritto civile, come bene sociale fondamentale. Di cui dobbiamo essere assai più coscienti di quanto non siamo stati sinora.

Vittorio Emiliani e Desideria Pasolini dall’Onda (Comitato per la Bellezza), Irene Berlingò (Assotecnici), Marisa Dalai (Associazione R.Bianchi Bandinelli), Alberto Asor Rosa (Rete Comitati), Maria Pia Guermandi (Eddyburg), Donata Levi (PatrimonioSos), Carlo Alberto Pinelli (Mountains Wilderness), Giuserppe Basile (Associazione Cesare Brandi), Marina Foschi (Italia Nostra, presidente regionale Emilia-Romagna), Antonio Pinelli, Licia Borrelli Vlad, Pier Luigi Cervellati, Vezio De Lucia, Luigi Manconi, Salvatore Settis, Arturo Osio, Carlo Ripa di Meana (presidente sezione romana di Italia Nostra), Anna Donati (assessore alla Mobilità del Comune di Napoli), Francesco Caglioti, Cesare De Seta, Andrea Emiliani, Mario Torelli, Rita Paris, Anna Coliva, Rossella Rea, Carlo Pavolini, Nicola Spinosa, Ruggero Martines, Bernardino Osio, Maria Luisa Polichetti, Corrado Stajano, Marino Sinibaldi, Marco Bellocchio, Marco Tullio Giordana, Sandro Petraglia, Jacqueline Risset, Chiara Valentini, Carmine Donzelli, Gianfranco Pasquino, Furio Colombo, Ferdinando Zucconi Galli Fonseca, Tomaso Montanari, Massimo Teodori, Giovanna Borgese, Enrico Menduni, Andrea Purgatori, Chiara Frugoni, Marta Bruscia, Sauro Turroni, Gianni Mattioli, Franca Fossati Bellani, Carla Ravaioli, Annarita Bartolomei, Vito Raponi, Mario Canti, Milton Gendel, Gianni Venturi, Benedetta Origo, Giuseppe Marchetti Tricamo, Elena Doni, Roberto Meneghini, Giuseppe Barbalace, Gianandrea Piccioli, Alfredo Antonaros, Antonio Lubrano, Elio Veltri, Violante Pallavicino, Ivana Della Portella, Paolo Sorcinelli, Toni Jop, Isa e Mario Sanfilippo, Arturo Guastella, Nino Criscenti, Stefano Rolando, Fernando Ferrigno, Pino Coscetta, Gabriella Turnaturi, Massimo Loche, Giovanna Arciprete, Paola Germoni, Stefano Antonetti, Giorgio Cerboni Baiardi, Mario Baccianini, Patrizia Guastella, Valentina Gallenti, Gianluca Guastella, Maria Nicoletta Pagliardi, Fedora Filippi, i consiglieri nazionali di Italia Nostra: Nicola Caracciolo, Maria Teresa Roli, Luca Carra, Giovanni Gabriele, Oreste Rutigliano, Teresa Liguori, Leandro Janni, Franca Leverotti, Maria Rosaria Jacono, Ebe Giacometti, Maria Rita Signorini.

La madre dei Caravaggio è sempre incinta. E se i poveri parti non meriterebbero nessuna attenzione, è invece la madre stessa ad indurre a qualche riflessione.

Due illustri sconosciuti agli studi caravaggeschi (e, più in generale, storico-artistici) che si chiamano Maurizio Bernardelli Curuz e Adriana Conconi Fedrigolli annunciano di aver ‘scoperto’ cento (siamo ai saldi estivi, cento al prezzo di uno: «venghino siore e siori!») autografi di Caravaggio nel Civico Gabinetto dei disegni del Castello Sforzesco a Milano.

Si tratta di un fondo ignoto agli studi? Manco per sogno: come hanno ricordato subito i funzionari del museo, esso è noto da sempre, ed è almeno dagli anni cinquanta che gli specialisti di Caravaggio lo frequentano e ne scrivono, interrogandosi su alcuni nessi con l’opera del grande naturalista. Nonostante i dispareri sulla paternità dei singoli fogli, si è concordi nel ritenere che i disegni vadano ricondotti alla bottega di Simone Peterzano (1540-1596), il pittore bergamasco con cui Caravaggio si formò a Milano. Ma ora i due novelli caravaggisti hanno una soluzione geniale, un vero uovo di colombo: quei nessi si spiegano perché i disegni son tutti autografi del giovane Caravaggio. Semplice no? E tanti saluti a quei babbioni degli studiosi che da decenni ci si stillano il cervello.

Le prove? Esilaranti fotomontaggi al photoshop che incollano particolari di disegni, palesemente di mani e di epoche diverse, su quadri di Caravaggio, con effetti tragicomici. Non si fa desiderare l’imperdibile perizia calligrafica che stabilisce che, sì, la scrittura di un biglietto annesso ai disegni è proprio quella di Caravaggio. Insomma, manca solo il Ris di Parma: ma quello ha già dato, avendo autenticato due anni fa le ossa del Merisi a Porto Ercole, nella madre di tutte le bufale caravaggesche.

Non ci sarebbe altro da aggiungere, se non fosse per l’inconcepibile eco mediatica che ogni volta esalta queste operazioni, con l’effetto di trasformare la storia dell’arte in un circo equestre. L’Ansa ha voluto la notizia in esclusiva, dedicandole non so più quanti lanci e parlando di «svolta storica per la storia dell’arte».

Ma nessuno all’Ansa, o per esempio a «Repubblica» (che ha dedicato alla vicenda una pagina francamente imbarazzante), si è posto il problema della credibilità della ricerca. In storia dell’arte, come in fisica, le ‘scoperte’ vengono proposte a riviste riconosciute dalla comunità scientifica, dotate di comitati e basate su un sistema di revisione preventiva che vaglia e seleziona in contributi: e la scientificità di una ricerca (concetto ben presente anche nelle scienze umanistiche) si basa in primo luogo sulla verificabilità delle affermazioni e sul controllo della comunità. Ora, possibile che nessun giornalista si sia chiesto perché una simile ‘scoperta’ non era uscita su nota e autorevole rivista, ma su due ebook di Amazon? O è mai possibile che nessuno sia andato a vedere il sito ufficiale della ‘scoperta’ (http://www.giovanecaravaggio.it/)? Sopra un accompagnamento al piano elettronico degno di un thriller di quart’ordine, una voce da spot di tv locale legge un testo che inizia con queste memorabili parole: «È una autentica rivoluzione del Sistema Merisi, una delle maggiori e articolate scoperte nel campo della storia dell’arte e della cultura». La conclusione è un’apoteosi: «L’operazione Giovane Caravaggio … ha pure un grande valore economico e ricadute istituzionali di enorme valenza: si calcola infatti che solo il valore dei disegni, di proprietà del comune di Milano, possa ammontare a circa 700 milioni di euro». Davvero un geniale omaggio alla ‘valorizzazione del bene culturale’, con ammiccamento alla Giunta Pisapia: che grazie all’intelligenza di Stefano Boeri si è, tuttavia, prontamente smarcata da questo abbraccio mortale. Meno avvertito lo staff del ministro Lorenzo Ornaghi (quello che di solito fa come il Prodi di Guzzanti: sta fermo, non si muove), che si è precipitato a chiamare in Italia da Pechino (dove si trova per festeggiare, con un seguito assai nutrito, la deportazione dei nostri ‘capolavori’ del Rinascimento Fiorentino) per sapere se si poteva cavalcare la tigre caravaggesca, e, chissà, magari girare i 100 disegni da sette milioni l’uno al ministro Passera, per una bella messa all’incanto.

Nessuna redazione potrebbe prendere sul serio una fonte come il sito ‘giovanecaravaggio’, non dico per una notizia politica o economica, ma nemmeno per una di storia politica, per non dire di fisica. Se dichiaro di aver visto a occhio nudo il Bosone di Higgs nel mio salotto, mi portano giustamente alla Neuro: ma se il primo che passa sostiene di aver scoperto un Michelangelo, un Leonardo o un Caravaggio, il circo mediatico lo porta, immediatamente, in trionfo. Quando si parla di storia dell’arte tutto è possibile: in Italia il giornalismo storico-artistico è pressoché defunto, ed è ormai talmente abituato a concepire se stesso come il megafono celebrativo dei Grandi Eventi da non essere più in grado di distinguere una notizia da una bufala. È questo uno dei sintomi più gravi della riduzione di una disciplina umanistica ad escort della vita pubblica italiana: da mezzo per alimentare e strutturare il senso critico, a strumento di ottundimento di massa. E assai prima dell’indegnità della classe politica o dell’insufficienza di fondi, tra le tante cause del disastro del nostro patrimonio storico e artistico c’è anche questa desolante mutazione della storia dell’arte.

Il 6 luglio sarà inaugurato uno ‘spazio museale italiano’ presso il Museo Nazionale della Cina, in Piazza Tian’an men a Pechino, frutto dell’accordo di Stato tra Italia e Cina firmato dai rispettivi ministri della cultura nell’ottobre 2010.

Il primo ‘evento’ italiano sarà una mostra che durerà un anno. Il titolo, originalissimo e inaspettato, è: Rinascimento a Firenze. Capolavori e protagonisti.

Le uniche cose indiscutibili, in questa vicenda, sono l’abnegazione e l’amor patrio con cui il direttore generale per la valorizzazione del Ministero per i beni culturali Mario Resca ha sostenuto questa iniziativa politico-diplomatica.

Alla vigilia della conclusione del suo mandato bisogna riconoscere che - in un Mibac riverso su se stesso, paralizzato dall’incapacità dei ministri e dalla corruzione della burocrazia – l’alieno Resca ha almeno provato a spezzare questa morbosa autoreferenzialità, e ad aprire il patrimonio storico e artistico ai cittadini e al mondo. Ma i burosauri del Mibac si sono vendicati, propinandogli formule che erano già vecchie sessant’anni fa.

Le prime mostre-kolossal all’estero furono fortemente volute da Mussolini (che si vantava, coerentemente, di non essere mai entrato in un museo), e hanno costellato la storia repubblicana fino agli ultimi mesi, in cui si susseguono a ritmo vertiginoso le comparsate di Stato del povero Caravaggio (spesso sostituito da improbabili controfigure): a Cuba, a Mosca, e ora alla Casa Fiat di Belo Horizonte, in Brasile (una sagra del tarocco che evidentemente a Sergio Marchionne non appare folcloristica, a differenza delle sentenze dei tribunali italiani).

Ammettiamo che organizzare scambi di mostre tra Stati non sia un patetico residuo dell’ancien régime, ed abbia ancora un qualche valore diplomatico che superi quello dei buffet che spezzano le trattative sui trattati commerciali. Bisognerebbe, allora, concepire un vero progetto scientifico (con l’intento di aumentare la conoscenza, trattando i visitatori come esseri pensanti e non come barbari da stupire) e con un ‘rischio zero’ per le opere. Lo impone l’articolo 67 del Codice dei Beni culturali (che, in assenza di queste caratteristiche, vieta che le opere varchino i confini della Repubblica), e lo imporrebbe la deontologia degli storici dell’arte: se ci fosse.

Il Rinascimento pechinese è «un’antologia abborracciata, forse dettata unicamente dall’arrendevolezza di alcuni soprintendenti». Sono parole del fulminante articolo con cui Antonio Cederna massacrò, nel 1956, un’analoga iniziativa. E sono perfettamente attuali. Per esplicita ammissione degli organizzatori (il Polo museale fiorentino), il progetto scientifico (obbligatorio) non è scientifico: sostanzialmente si sono prese delle opere a casaccio, badando al fatto che ce ne fossero di grosse e di artisti famosi. Risultato: un grottesco guazzabuglio che riesce a mettere insieme Lorenzo Monaco e Benvenuto Cellini.

Per nulla si è invece badato alla tutela delle opere, scelte in spregio ad ogni criterio, norma, legge. Tra pezzi evidentemente riempitivi, la lista dei deportati comprende ben trentadue dipinti su tavola (tra gli altri di Gentile da Fabriano, Paolo Uccello, Filippo Lippi, Botticelli e Raffaello) e cinque affreschi staccati, tra cui due dei famosi Uomini illustri di Andrea del Castagno, l’Annunciazione di Botticelli degli Uffizi (la bellezza di 5 metri e 50 per 2 e 46!) e il San Girolamo di Ghirlandaio, proditoriamente sottratto alla chiesa di Ognissanti e al suo pendant dipinto da Botticelli. Si tratta di pitture fragilissime, che non dovrebbero viaggiare per nessun motivo: figuriamoci per «una carrettata bassamente propagandistica, una scelta affrettata e fortuita, conforme appunto alla inanità degli scopi confessati» (ancora Cederna).

Come se non bastasse, andrà in Cina anche l’Ercole e Anteo di Bartolomeo Ammannati della Villa di Castello: un gruppo di bronzo, alto due metri e nato per stare su una fontana, che è demenziale esporre al chiuso tra quadri sacri e ritratti. E poi ancora l’analoga Venere Anadiomene di Giambologna, una manciata di robbiane, un disegno di Leonardo e nientemeno che il cosiddetto David-Apollo di Michelangelo, un inestimabile marmo alto un metro e mezzo, conservato al Bargello nei pochi momenti in cui non esercita come commesso viaggiatore.

Ci si chiede come la soprintendente di Firenze, il Comitato di settore (in blocco sotto processo contabile per l’acquisto del famoso pseudo-Michelangelo) e il direttore generale abbiano potuto autorizzare simili enormità: «Grandi equilibristi – è ancora Cederna – disposti sempre all’obbedienza verso i pezzi più grossi di loro, sulla cui mancanza di carattere e di convinzioni generali i vandali sanno di poter contare».

Vogliamo davvero portare ai cinesi un’immagine positiva del nostro Paese? Organizziamo mostre di artisti italiani: non morti da mezzo millennio, ma vivi, e possibilmente giovani. Finanziamo film di grandi registi che raccontino l’Italia di oggi (come quelli meravigliosi di Folco Quilici, sull’Italia vista dal cielo, degli anni sessanta), riproduciamo perfettamente a Pechino qualcuno dei nostri siti monumentali (una Cappella degli Scrovegni in scala uno a uno sarebbe del tutto accettabile alla cultura cinese). Insomma, qualunque cosa che non fotografi un’Italia convinta di avere il meglio della propria storia dietro di sé, ridotta a togliersi le mutande e a far sfilare i propri capolavori, in catene, nella capitale dei nuovi padroni del mondo.

Tutto lascia invece pensare che continueremo a organizzare mostre come questa: clamorosamente inutili, dannose, illegali. Avverando così la profezia del più grande storico dell’arte italiano del Novecento, Roberto Longhi, che nel 1952 si augurava che lo Stato «ponesse un fermo a questa stolida e spesso servile mania esibizionistica dell’Italia all’estero. Mania che, ove non venisse ormai stroncata, finirebbe, oltre agli irreparabili danni materiali, per revocarci stabilmente dal novero delle nazioni culturalmente più progredite».

Strano il caso della Villa di Cesare-Massenzio nel comune di San Cesareo alle porte di Roma. Una delle scoperte più straordinarie degli ultimi vent'anni, dove i quasi 20mila metri quadri di strutture antiche, databili dalla fine dell'età repubblicana al IV secolo d.C. hanno restituito mosaici policromi con paste vitree, marmi pregiati, ambienti affrescati, un sontuoso ninfeo e un complesso termale monumentale con una vasca da 600 metri quadri. Una dimora imperiale riconosciuta dagli studiosi come la villa di Cesare, che qui avrebbe dettato il suo testamento adottando Ottaviano, ma anche la stessa residenza che avrebbe accolto Massenzio il giorno in cui fu acclamato Augusto (306 d.C.). Ebbene, invece di essere musealizzata con un destino 'franco' da parco archeologico, rimane ancora in balia dello spettro del piano integrato edilizio 'Parco della Pietraia' voluto dal comune di San Cesareo e realizzato dalla DueG immobiliare srl.

«L'area archeologica versa oggi in uno stato di totale abbandono. I mosaici e le murature nono sono stati adeguatamente protetti e la neve, il gelo e le piogge dei mesi scorsi hanno fatto uno scempio, oltre alle erbacce che ora stanno infestando le strutture», denuncia Paolo Scacco del Comitato Salviamo la Villa di Cesare. Un'incuria che ha spinto Marianna Madia (Pd) a presentare il 22 giugno scorso una nuova interrogazione

alla Camera per chiedere un intervento del ministro per i beni culturali Lorenzo Ornaghi. Una prima conquista la Villa di Cesare-Massenzio l'aveva portata a casa a luglio 2011 grazie all'intervento dell'ex sottosegretario Francesco Giro che si era attivato per l'apposizione del vincolo diretto. «La mobilitazione popolare nasce ora proprio dal fatto che la soprintendenza non ha ancora apposto il vincolo indiretto, non facendo chiarezza su quella che è l'area di rispetto della villa», dichiara Emilio Ferracci esponente del comitato e per 15 anni ispettore onorario della Soprintendenza. «Ad oggi - insiste Ferracci - non abbiamo alcuna informazione su quale piano edilizio sia effettivamente da considerarsi in itinere, visto che il piano approvato dal comune aveva ricevuto solo un parere di massima dalla sovrintendenza e non definitivo».

In ballo, ben 54mila metri quadrati tra palazzine residenziali, un centro commerciale e la nuova chiesa parrocchiale di San Giuseppe. «Mentre non si sa ancora dove arriverà il vincolo indiretto, l'impresa ha acquisito la disponibilità di aree attigue e sta facendo nuovi sondaggi per verificare ulteriori reperti», avvisa Paolo Scacco. Indagini che hanno riportato alla luce un muro perimetrale della villa e l'antico tracciato della Via Labicana. Alla preoccupazione dei cittadini di veder tramontato l'idea di un parco archeologico, si aggiunge la beffa dell'orologio di Giulio Cesare. Nel corso degli scavi è stata ritrovata una meridiana marmorea di epoca cesarea, che invece di rimanere a San Cesareo è stata trasferita lo scorso anno presso il museo archeologico di Sperlonga, di cui direttore Marisa De Spagnolis, funzionario della soprintendenza, risulta responsabile degli scavi della villa a San Cesareo. L'interrogazione della Madia chiede anche la restituzione della meridiana, tanto per ridare a Cesare quel che è di Cesare.

Domenica scorsa Madonna ha noleggiato gli Uffizi. Così la popstar ha potuto vedere i quadri del popolo italiano senza il popolo italiano tra i piedi, e col vantaggio di noleggiare contestualmente anche la soprintendente di Firenze, che le ha fatto da guida di lusso. Il giorno dopo, lo stilista Stefano Ricci ha organizzato due sfilate nel Corridoio di Ponente degli Uffizi: una è stata aperta da una tribù di Masai, che correvano brandendo scudi e lance di fronte al Laocoonte di Baccio Bandinelli, sotto lo sguardo incredulo dei ritratti cinquecenteschi della Gioviana. Per la gioia di un Occidente narcisista e neocoloniale che balla sull’abisso, tutto è merce, tutto è in vendita: gli abiti griffati, il museo e perfino i Masai, portati a Firenze come bestie da serraglio e numero da circo.

Le cronache locali permettono di capire che il vero tema della serata non erano gli abiti, né tantomeno la storia dell’arte, ma il lusso come valore assoluto: il parterre comprendeva “uno stuolo di clienti danarosi arrivati per l'occasione dai cinque continenti, molti dei quali hanno dovuto ripiegare sull'aeroporto di Pisa per parcheggiare il loro jet privato”. Alcune fotografie – che sembrano ritagliate da Roma di Federico Fellini – documentano poi la cena “esclusivissima” che l’Enoteca Pinchiorri ha servito sulla terrazza degli Uffizi, ospite d’onore un Matteo Renzi immemore dell’austerità che grava sul Paese che egli si candida a guidare. Una nota comunica che, in questo trionfo della sobrietà, l’obolo pagato per ‘privatizzare’ i pubblici Uffizi è stato davvero risibile: 30.000 euro. È vero che altri 100.000 euro Ricci li ha spesi per realizzare l’impianto di illuminazione della Loggia dei Lanzi da lui stesso progettato, ma parliamo di cifre irrilevanti. Pochi giorni fa, per esempio, il Louvre ha accolto un ricevimento di Ferragamo, che aveva sponsorizzato la mostra di Leonardo. Nemmeno quello è stato un bel segnale, ma i francesi hanno tenuto la sfilata fuori dalle sale del Museo, ben alla larga dalle opere (tutto si è svolto nel Peristilio Denon): e ciò nondimeno hanno ottenuto “alcuni milioni”. Come dire: se si arriva a vendere il decoro pubblico, almeno che lo si venda caro. Ma il punto non è questo. Gli Uffizi noleggiati a ore, appartengono oggi al popolo italiano. Che li mantiene con le proprie sudatissime tasse non perché siano ‘belli’, ma perché sono un potentissimo strumento di educazione alla cittadinanza e di innalzamento spirituale. L’articolo 3 della Costituzione affida alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Il patrimonio storico e artistico della nazione (menzionato – caso unico al mondo – sempre tra i principi fondamentali della Carta, pochi articoli dopo) è precisamente uno degli strumenti che permettono alla Repubblica di rimuovere quegli ostacoli, e di rendere effettiva la libertà e l’eguaglianza dei cittadini. Uscito da una messa in cui aveva sentito predicare gli atti di misericordia corporale, il piccolo Luigi Pirandello tornò a casa seminudo perché aveva rivestito del suo abito un bambino che aveva visto coperto di stracci. Ma, una volta a casa, egli venne aspramente rimproverato: e comprese, una volta per tutte, che nessuno prendeva sul serio il cristianesimo. Allo stesso modo, ogni tentativo di mostrare il valore civile dei musei è annullato dal noleggio degli Uffizi.

Se gli Uffizi diventano lo sfondo della “quaglia farcita ai funghi porcini con fagioli al fiasco”; se gli Uffizi diventano una location dove ostentare e celebrare l’onnipotenza del lusso, la diseguaglianza sociale ed economica e il trionfo del denaro di pochi; se gli Uffizi diventano la prosecuzione delle scarpe e delle borse con altri mezzi; se gli Uffizi vengono risucchiati da questo turbine di volgarità e ignoranza provinciali; se non è più possibile distinguere tra gli Uffizi e il Billionaire, ebbene, la Repubblica italiana prende un potentissimo strumento di educazione e di eguaglianza, che mantiene a caro prezzo con i soldi di tutti, e lo trasforma deliberatamente in un altrettanto potente mezzo di diseducazione e discriminazione.

Come dice il comico americano Bill Hicks, “piantatela di mettere il maledetto segno del dollaro su ogni fottuta cosa di questo pianeta”.

Il Consiglio Direttivo di Italia Nostra riunito oggi 23 giugno 2012 si riconosce, sostiene e condivide l’analisi e le critiche espresse nei confronti dell’azione del Ministero dei beni culturali nella conferenza stampa dell’11 giugno 2012 promossa dalle sezioni dei territori colpiti dal sisma.

In particolare respinge:

- l’esautorazione delle Soprintendenze territorialmente competenti e capaci di gestire i problemi della messa in sicurezza del patrimonio culturale.

- l’illegittimo incardinamento degli organi di tutela - che significa acritica subordinazione - alla protezione civile che ha dimostrato scarso interesse alla difesa del patrimonio culturale colpito, come evidenzia il numero ancora imprecisato di demolizioni già realizzate o programmate.

- la tendenza, frutto di ignoranza culturale, di dividere il patrimonio storico delle zone colpite in edifici di serie A da conservare ed edifici di serie B da tutelare.

- l’abbandono del concetto di centro storico come complesso indivisibile da tutelare nel suo insieme, così come Italia Nostra, a partire dalla Carta di Gubbio, ha sostenuto sempre. Il centro storico rappresenta per la popolazione elemento indispensabile di identità civile e sociale.

Segnala con vivissima preoccupazione:

- i ritardi delle operazioni di ricognizione del danno e di messa in sicurezza degli immobili

- la mancanza di trasparenza e di coinvolgimento di queste fasi post-sisma, pericolosa anche sotto il profilo della tenuta democratica.

Vista la gravità e l’urgenza dei problemi, Italia Nostra richiede un incontro immediato con il Ministro Lorenzo Ornaghi ai fini di esporgli nel dettaglio le criticità della situazione attuale e proporgli immediate azioni correttive, senza le quali il Ministero rischia di uscire definitivamente screditato.

La gestione aquilana è un’esperienza da archiviare e Italia Nostra metterà in atto ogni azione legittima affinché non si ripeta.

Roma, 23 giugno 2012

Oggi, lunedì, comincia a Pieve di Cento la complessa operazione di estrazione dalla Collegiata di Santa Maria Maggiore delle grandi tele di Guido Reni (l’Assunzione misura 4 metri x 2,80), di Guercino, di Lavinia Fontana, di Scarsellino e di altri ancora, nonché del grande crocifisso ligneo di fine ‘200. La volta della chiesa è crollata con la seconda forte scossa di terremoto (la messa in sicurezza antisismica degli edifici s’impone ovunque, senza indugio). Le pale d’altare – che bisognava sottrarre ai pericoli di una chiesa scoperchiata - verranno ricoverate nella vicina Cento. I pievesi infatti si sono ribellati all’idea che andassero più lontano. Temevano di non rivederle più. Com’è capitato ai loro antenati con le altre tele di Guercino presenti nella Collegiata. Segno di un forte attaccamento ai propri beni storici, all’identità comunitaria che gli stessi concorrono a mantenere viva. Come il museo della canapa, coltura sviluppata per secoli, fino a metà del ‘900, o quello della liuteria, rifiorita a Pieve con l’arrivo, nel 1900, del faentino Luigi Mozzani (1869-1943), il “Paganini della chitarra”, liutaio non meno pregevole.

Ma questo amore per la conservazione, per la tutela percorre davvero tutta l’area del sisma? E da Roma si è veramente compreso lo sciagurato errore commesso, scientemente, all’Aquila esautorando le Soprintendenze e affidando il timone alla Protezione Civile? Non mi pare. La degenerazione sottoculturale del berlusconismo ha inquinato i pozzi delle politiche della tutela e del restauro. I tagli feroci inferti da Tremonti – e da nessuno riparati – hanno indebolito e in più casi annichilito le Soprintendenze, ridotte con pochissimi tecnici e mezzi. Le dichiarazioni post-terremoto del segretario generale del MiBAC, Antonia Pasqua Recchia, parevano andare in una direzione opposta rispetto all’Aquila, cioè verso una ricostruzione di tipo friulano o umbro-marchigiano. Ma alla guida (si fa per dire) del Ministero c’è un ministro, Lorenzo Ornaghi, che “tecnico” proprio non è e che lascia fare o non fare. Né si avverte la voce del suo sottosegretario, Roberto Cecchi che tecnico è, ma che definì “una cartolina virtuale” il restauro di Venzone.

Così il governo “dei tecnici” si è riaffidato in toto, con una circolare, alla Protezione Civile: le Soprintendenze della zona colpita “dovranno riferirsi esclusivamente alla direzione generale territorialmente competente (…) l’unica struttura del MiBAC” collegata alla Protezione Civile. In tal modo – nota il magistrato modenese Giovanni Losavio già presidente nazionale di Italia Nostra – le Soprintendenze “di merito” vengono “mortificate e in pratica escluse”, sottraendo loro quel “pronto intervento” con cui potevano “adottare immediatamente le misure conservative necessarie”. “Inammissibile, illegittima lacerazione nel compatto tessuto della tutela” che burocratizza e spegne le Soprintendenze.

Nasce così, anche secondo altri esponenti di “Italia Nostra” - l’ex soprintendente arch. Elio Garzillo, e l’archeologa Maria Pia Guermandi – la “questione dei campanili”abbattuti qui in gran fretta. Mentre nel 1996, dopo un pesante sisma, nella Bassa reggiana vennero messi subito in sicurezza e salvati. Inoltre, si è riaperta una pericolosa discussione sul “valore” degli edifici, la stessa che tende di nuovo, dopo decenni di meritato oblio, a distinguere fra beni maggiori, o monumenti, e beni minori. A questa inopinata, micidiale resurrezione – essa marcia assieme alla monetizzazione dei beni culturali (redditizi e non redditizi) – dovrebbero opporsi i soprintendenti e anche i sindaci. “Gli uomini e le loro “cose” non costituiscono più un unicum inscindibile”, commenta Garzillo. “I restauri verranno riservati soltanto alle eccellenze?”, si chiede Maria Pia Guermandi. Le preoccupazioni sono tali che a livello nazionale “Italia Nostra” chiede in merito un incontro urgente al ministro Ornaghi. “La gestione aquilana”, si denuncia nella richiesta, “è un’esperienza da archiviare”.

Finalmente il berlusconiano direttore generale alla Valorizzazione, Mario Resca, ha traslocato dal MiBAC alla privata Società Acqua Marcia senza aver valorizzato nulla né attratto a Brera fondi privati considerevoli. E però gli anni in cui Giovanni Urbani, direttore dell’ICR, elaborava il Piano di prevenzione antisismica dell’Umbria e all’Istituto Centrale del Restauro si lavorava, con fatica ma con passione, alla Carta del Rischio, pur temporalmente vicini, sembrano culturalmente remoti dopo la desertificazione inferta al MiBAC e ai suoi organi tecnico-scientifici. Un’esortazione al commissario-presidente Vasco Errani che ieri ha ribadito di voler “ricostruire” (e non costruire): guardi ai buoni esempi della sua Regione, ai lavori dell’Istituto per i Beni Culturali, ai censimenti, ai restauri filologici, riapra il dialogo con le Soprintendenze, ascolti le voci delle associazioni territoriali.

Resca lascia (nel caos) i Beni Culturali. In concomitanza cominciano a emergere i risultati dei suoi circa 3 anni di servizio per lo Stato, di cui il caso più emblematico e grottesco sono i bandi per i servizi aggiuntivi, oramai nel caos. Arriva al Mibac nel 2008 per la luminosa intuizione dell'allora ministro Sandro Bondi, che vuole un super manager come lui, già in Mc Donald Italia e gran sodale di Berlusconi, tanto da essere anche nel CdA di Mondadori, e lo piazza al comando della neonata Direzione alla valorizzazione del patrimonio. Uno stratega aziendale per portare i metodi del management nei beni culturali e far largo ai privati, e non ci sarebbe settore più indicato per dare spazio alla libera impresa come quello dei servizi aggiuntivi.

Per intenderci si tratta delle biglietterie - in appalto- e di bar, ristoranti, librerie, audioguide, visite guidate -in concessione - che si dovrebbero trovare nella maggior parte dei nostri musei. È stato il ministro Ronchey nel lontano 1994 ad aprire questo settore al partenariato pubblico/ privato. I bandi indetti negli anni '90 ebbero un esito valutato come positivo forse con eccessiva fretta. In una analisi recente - pubblicata da II Giornale dell'arte e mai smentita- infatti è emerso che per i cinque grandi poli di attrazione (archeologico e artistico di Roma, Pompei, Napoli e Firenze) che secondo i dati Mibac del 2009 assommavano il 91% dei visitatori paganti in Italia, i servizi aggiuntivi erano finiti a tre grandi gruppi, che agivano anche con società satellite: Civita servizi (facente capo a Luigi Abete) Electa Mondadori del gruppo Fininvest (e di chi volete che sia?), e infine Prc Codess, appartenente a un gruppo cooperativo.

Esempio tipico della leale concorrenza del nostro libero mercato, l'assegnazione dei servizi aggiuntivi dava l'impressione di essere una spartizione politica da qualche centinaio di milioni di euro. Lo ripetiamo, è un'impressione ma, se è possibile, peggiorata dal fatto che una volta scaduti i contratti per questi servizi, al Mibac nessuno si è peritato di fare nuovi bandi andando avanti con proroghe annuali, cristallizzando un monopolio e incorrendo quindi in varie reprimende della Commissione Europea nonché in salatissime sanzioni - paga Pantalone, no? A questo andazzo pensa di mettere fine Buttiglione che, come ministro nel 2005, con accigliatissima circolare impone di indire i bandi al più presto: ma dall'anno dopo il suo successore Rutelli in materia sonnecchia. Così, quando nel 2009 le gare da bandire per i servizi aggiuntivi sono assegnate alla sua Direzione alla valorizzazione è una occasione d'oro per Resca di mostrare l'efficienza e la moralità del super-manager a confronto della lassista e opaca gestione ministeriale. Invece di fare tesoro di quanto di buono e di cattivo era stato fatto con i precedenti bandi, Resca affida la stesura delle linee guida delle nuove gare a società esterne (Roland Berger Strategy Consultant e Price Waterhouse Coopers) che si prendono un bel po' di soldi (200 mila euro) e un anno di tempo per studiare il caso.

A scanso di equivoci i gestori dei servizi aggiuntivi sono prorogati indefinitamente, fino all'assegnazione dei nuovi bandi -una pacchia per Civita, Prc ed Electa Mondadori di cui Resca è membro del CdA. Le stazioni appaltanti, vale a dire le Direzioni regionali e le Soprintendenze speciali del Mibac, fanno molte osservazioni in merito alle linee guida, che ritengono inadeguate, ma Resca tira diritto, e i funzionari del Mibac si adeguano, sedendosi sulle rive del fiume ad aspettare - non sarà edificante, ma sono sfiniti dai continui attacchi di ministri come Bondi, Brunetta, Tremonti e via dicendo. Si arriva al 2010 inoltrato quando finalmente appaiono le «Sollecitazioni alla domanda di partecipazione»: una specie di pre-bando, redatto seguendo alla lettera le linee guida, per selezionare quanti hanno le caratteristiche per partecipare alle gare. Il bando vero e proprio arriva dopo, trasmesso unicamente alle imprese che hanno passato questa prima fase e che per iscritto e in solido si impegnano a non divulgarne il testo - ennesima prova luminosa della trasparenza negli italici appalti pubblici. Del resto non sorprende, in ballo ci sono ben 22 gare tra cui quelle succulentissime per i già ricordati grandi poli di attrazione (Roma archeologico e artistico, Pompei, Firenze e Napoli). A questo punto, e siano oramai nel 2011, scoppia il caos: già le “Sollecitazioni alla domanda», appaiono piene di incongruenze - a esempio si chiedeva a chi aveva una concessione di fare anche la sorveglianza notturna!!! -, scritte oscuramente, tanto che la pagina Faq (dei chiarimenti) del sito Mibac viene presa d'assalto dalle richieste di delucidazione (ancora oggi periziabili sul sito). Con i bandi veri e propri le cose vanno perfino peggio: fioccano i ricorsi al Tar, con gragnuola di sentenze in favore dei ricorrenti e conseguenti controricorsi.

Le pagine scritte in nome del Popolo italiano dal Tar di Firenze, che l’11 aprile scorso con malcelata ironia sberleffa il Mibac per le grossolane imprecisioni, meriterebbero di apparire a imperitura memoria in un'antologia della letteratura italiana. Ma si tratta realmente di errori? In certi casi sì, il dubbio invece sopraggiunge riguardo a una serie di misure vessatorie imposte dalle linee guida, il cui scopo sembra essere quello di restringere la concorrenza a pochi eletti (o Electi che dir si voglia). È il caso di onerosissime fideiussioni - e materia di plurimi ricorsi - richieste come si trattasse di appalti per lavori pubblici - es. la costruzione di un ponte -, e non di concessioni per dei servizi, come una libreria di un museo. Così, al solito, tutto si blocca e i precedenti gestori continuano a regnare indisturbati: delle 22 gare a oggi ne risultano assegnati appena 3, Paestum, Ravenna e Cerveteri/Tarquinia. Da un punto di vista economico si tratta di realtà minori, eppure anche in questo caso qualcosa non funziona. Si prenda Paestum dove era stata messa a bando anche una biglietteria per il sito archeologico dei templi: ma sul cancello campeggia l'avviso che per comprare i biglietti bisogna raggiungere il vicino museo. Perché nessuno controlla? Resta una domanda: perché con tutta la prosopopea di Resca sull'intervento dei privati, proprio la sua Direzione generale sembra aver originato il blocco delle poche imprese che si affacciavano nei beni culturali, cosicché lo Stato Pantalone rischia di dover pagare salatissimi indennizzi a causa dei ricorsi per i servizi aggiuntivi? Senza rimpianti: Goodbye mister Hamburger.

RESCABOLARIO

Benchmark

Alla Valorizzazione del Mibac snocciola benchmark (tabelle) con mirabolanti risultati: per il 2010 l'aumento è del 12,2% di presenze. Arrivano i complimenti di Berlusconi. Dalle statistiche del Mibac risulta però che al Pantheon, privo di biglietti o tornelli per contare gli ingressi, cambia il metodo di stima approssimativa dei visitatori, che da 1.740.00 mila del 2009 svettano così a 4.721.000 nel 2010. Senza questo aumento di 3 milioni di presenze ”stimate», i visitatori dei luoghi d'arte italiani si sarebbero attestati sui livelli dei 2008. Complimenti mister H!

Fundraising

Propugnatore dell'intervento dei privati nella cultura, una volta nominato nel 2010 commissario straordinario alla Grande Brera, dichiara alla stampa, anche all'Unità, che sarebbe riuscito a reperire dai privati tutti i fondi per la realizzazione del nuovo museo. Quando il suo mandato scade, qualche settimana fa, per Brera il fundraising sui privati ammonta alla mirabolante cifra di euro 0 (zero) e gli unici finanziamenti a disposizione sono pubblici e provenienti dal Cipe. Complimenti mister H!

Know-how

Mentre infuria la polemica sullo sponsor Tod's per Il Colosseo, dichiara alla stampa che dopo quell'accordo lui è costretto a chiedere a Della Valle se può usare l'anfiteatro Flavio per altre sponsorizzazioni. Malgrado lavori da oltre un anno al Mibac non ha ancora il know-how: tali concessioni vanno chieste alla Sovrintendenza competente (i.e. Roma). Oppure gli secca che la più importante sponsorizzazione nel settore Beni culturali non sia arrivata dalla sua direzione? Complimenti mister H!

«Credette Cimabue ne la pittura tener lo campo»: e si sbagliava alla grande – si potrebbe dire, massacrando per par condicio anche Dante –: perché il suo campo non è la pittura, ma il marketing.

L’addetto culturale italiano a Washington, Renato Miracco, è venuto ad Arezzo per spiegare al sindaco Fanfani, all’assessore alla cultura Macrì, al Soprintendente Bureca e al vescovo Fontana perché dovrebbero precipitarsi a spedire negli Stati Uniti il grandissimo Crocifisso di Cimabue conservato nella chiesa di San Domenico. L’opera dovrebbe essere esposta a Washington nel 2013 (in occasione dell’Anno della cultura italiana in America) insieme al Satiro danzante di Mazara del Vallo: non perché qualcuno veda un nesso tra le due opere (almeno spero), ma perché si tratta di due ‘capolavori assoluti’ e ‘rarissimi’.

L’assessore Macrì ha prontamente commentato: «Siamo di fronte a un’occasione irripetibile che offre ad Arezzo due eccezionali opportunità. La prima è di legare, negli Stati Uniti, la cultura italiana alla nostra città. Gli eventi programmati in occasione dell’Anno della Cultura avranno formidabili riflessi mediatici in America e noi saremo sotto la luce dei riflettori. Essere stati scelti per rappresentare l’Italia è una gratificazione, ma soprattutto un “treno promozionale” che non può essere assolutamente perduto».

Non discuto le ottime intenzioni dell’assessore. Ma l’effetto di queste parole è terrificante: dipingono l’Italia come una vecchia aristocratica decaduta che per mantenersi deve prostituire le sue bellissime figliole, con i mezzani che si fregano le mani quando c’è un cliente col portafoglio gonfio. Guai a perdere l’occasione. Ma è davvero a questo che serve, Cimabue? Io credo di no, e credo che spedirlo in America sia profondamente sbagliato per almeno quattro ragioni.

La prima è che è pericoloso. Se tra i giganti dell’arte italiana ce n’è uno raro, fragile, sfortunato, ebbene quello è Cimabue. Il tempo, le alluvioni e i terremoti hanno decimato il corpus di questo patriarca della lingua figurativa italiana, e noi non possiamo mettere a rischio una delle sue poche opere sicure e ben conservate: un colosso di 3 metri e 36 per 2 e 67, dipinto a tempera su legno quando Dante aveva meno di cinque anni. Come possiamo anche solo pensare di caricarlo su un aereo per fargli fare l’uomo-sandwich del turismo aretino? L’anno scorso, l’arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori provò a spedire a Mosca un’opera analoga per importanza e dimensioni, il Crocifisso di Giotto di Ognissanti, ma per fortuna l’Opificio si mise di traverso: e c’è da sperare che anche questa volta gli organi di tutela battano un colpo.

La seconda è che è illegale. L’articolo 9 della Costituzione dice che la Repubblica tutela il patrimonio storico e artistico della nazione italiana. E l’articolo 66 del Codice dei Beni culturali dice che «può essere autorizzata l'uscita temporanea dal territorio della Repubblica» delle opere vincolate solo per «manifestazioni, mostre o esposizioni d'arte di alto interesse culturale, sempre che ne siano garantite l'integrità e la sicurezza». Ma in questo caso non c’è alcun valore culturale, e la natura eccezionale dell’opera rende impossibile garantirne davvero la sicurezza.

La terza è che è diseducativo. Come dimostrano alcune sentenze della Corte Costituzionale, l’articolo 9 dice che il patrimonio serve ad aumentare la cultura, non a fare da volano allo sviluppo economico. Forse mi sbaglio, ma mi aspetterei che un sindaco, un assessore alla cultura, un soprintendente e un vescovo mettessero al primo posto la formazione dei cittadini: e non si strappa un crocifisso da una chiesa, un’opera dal suo contesto originario. E non si assoggetta al mercimonio un testo poetico e sacro così alto.

La quarta è che è inutile. Nessun economista pensa che ci sia davvero un nesso tra l’esposizione del Crocifisso di Cimabue a Washington e il turismo americano ad Arezzo: non c’è alcuna ricaduta, se non per l’immagine personale di coloro che organizzano l’‘evento’, i quali sono gli unici a guadagnarci.

Tutti gli altri – Cimabue, la città di Arezzo, la cultura italiana – hanno solo da perderci.

Questo sisma che non cessa – ancora la terra trema mentre scrivo queste note – ha provocato una immane serie di devastazioni: il patrimonio culturale ha subito danni così rilevanti da rendere irriconoscibili interi centri abitati. Si tratta di un tessuto di edifici e infrastrutture storiche diffuso in modo così capillare da risultare costitutivo del volto di intere cittadine e paesi. E’ quell’insieme di rocche, castelli, ville signorili, edilizia rurale, chiese, conventi, torri che rappresenta la stessa possibilità di identità – e quindi di esistenza - di intere cittadine, da Finale Emilia a Mirandola, da San Felice a Medolla. Per questo ne va respinta l’etichetta di “patrimonio minore”: in questa bassa emiliana, come quasi ovunque in Italia, il patrimonio culturale coincide con lo spazio vitale, il luogo dove si vive e si lavora. Perderlo significa condannarsi ad uno spazio senza identità, un ‘non luogo’ senza storia, nè memoria.

Proprio per questo avremmo voluto vedere, in queste settimane, una reazione immediata ed immediatamente operativa degli organi di tutela territoriali. Al contrario, dobbiamo constatare con amarezza che il modello – negativo – aquilano che ha già provocato il degrado, forse irreversibile, di uno dei più importanti centri storici italiani continua ad essere adottato. il Mibac si è “autoesautorato” dai propri compiti statutari: ormai completamente incardinati nella struttura della protezione civile, gli organi territoriali preposti alla tutela sono scomparsi, in questi giorni, dal territorio e l’attività del Direttore Regionale si riduce quasi esclusivamente alla sottoscrizione di ordini di demolizione. Quasi che l’esercizio della tutela sia considerato ostativo o comunque incompatibile con le più urgenti iniziative di primo soccorso e messa in sicurezza.

Il terremoto ha così evidenziato con spietatezza lo stato di debolezza del sistema di tutela del nostro patrimonio culturale: mancano i mezzi ed è sempre più evidente che il Mibac, annichilito dai tagli lineari tremontiani mai più recuperati, non è più in grado di garantire una decorosa operazione di controllo e manutenzione generalizzata e continuativa del patrimonio che è chiamato a tutelare.

Da anni, per mancanza di risorse e di personale, non vengono più effettuati controlli sistematici, per non parlare dei restauri riservati ormai solo alle “eccellenze”. Le verifiche anche statiche sono episodiche e legate ad eventi particolari. In pratica questo significa l’abbandono ad un destino di inesorabile degrado, accelerato, in questo caso, dall’evento sismico. E bastano davvero pochi anni di mancata manutenzione per aggravare il rischio di vulnerabilità in maniera determinante. Come è successo per Pompei: non appena si cessa l’opera di ricognizione e manutenzione, i danni possono essere devastanti.

La mancanza di un programma di manutenzione degno di questo nome è quindi divenuto il fattore moltiplicatore che ha ingigantito l’effetto distruttivo del terremoto sul patrimonio culturale.

Eppure, anche in questo campo, il Mibac è stato per molti anni un punto di riferimento a livello internazionale, almeno per quanto riguarda le metodologie. A partire dal piano di prevenzione antisismica elaborato da Giovanni Urbani all’inizio degli anni ’80 e da quella Carta del Rischio costituita, faticosamente, a partire dagli anni ’90 dall’Istituto Centrale del Restauro: entrambi i progetti abbandonati per mancanza di risorse e di una visione di politica culturale di ampio respiro.

Da lì occorre ripartire, senza incertezze, abbandonando le chimere della crescita drogata delle Grandi Opere: Italia Nostra propone quindi che le risorse – tutte – previste per la costruzione di infrastrutture quali la pedemontana o la bretella Sassuolo – Campogalliano siano destinate all’opera di ricostruzione e di riqualificazione degli immobili con l’adozione di regole antisismiche finalmente cogenti.

Subito dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980, Antonio Cederna puntò il dito immediatamente sulla mancanza di normative antisismiche e sul dissesto idrogeologico: “Il terremoto è dunque un aspetto di quell’autentico sisma permanente che è il saccheggio generalizzato del territorio e delle sue risorse.”

Forse non è ancora troppo tardi per cominciare ad ascoltarlo.

Con lo sviluppo dell’inchiesta guidata dal procuratore aggiunto di Napoli Giovanni Melillo, la devastazione e il saccheggio della biblioteca napoletana dei Girolamini assumono proporzioni inaudite.

Uno dei punti chiave riguarda il ruolo di Marcello Dell’Utri, padrino politico del direttore Marino Massimo De Caro, ora in prigione con l’accusa di peculato e associazione a delinquere finalizzata alla sottrazione dei preziosissimi libri.

Dall’ordinanza cautelare del GIP Francesca Ferri, resa nota per stralci dalle pagine napoletane di «Repubblica», si apprende che De Caro riuscì ad impedire la perquisizione di un appartamento romano a lui collegato sostenendo che, essendo utilizzato dal senatore siciliano, sarebbe stato coperto dall’immunità parlamentare. E d’altra parte, nelle intercettazioni telefoniche della collaboratrice di Dell’Utri (Maria Grazia Cerone, anch’essa indagata) si legge: «Sinceramente la roba è tanta, la roba è tanta, eh... Tante scatole, perciò è impossibile portarle via».

Dubbi non meno inquietanti emergono circa il ruolo del Ministero per i Beni culturali. Nella stessa ordinanza si legge che la nomina di De Caro alla direzione dei Girolamini è avvenuta «ad onta di ogni regola e grazie all’influenza politica correlata all’incarico fiduciario di consigliere dell'ex ministro per i Beni e le attività culturali Gianfranco Galan».

Tale nomina fu il passo decisivo di «un piano criminale studiato in ogni dettaglio», reso possibile dalla «perdurante assenza di controllo e vigilanza da parte degli organi del Ministero a ciò deputati».

Galan ha chiesto pubblicamente scusa per aver nominato De Caro come consigliere, su richiesta di Dell’Utri. Ma ora si apprende che un altro consigliere ministeriale dette l’allarme sulla figura e l’opera di De Caro fin dall’estate del 2011: perché né Galan né il suo staff ne tennero conto? Si apprende inoltre che l’ex direttore generale per le biblioteche del Mibac, Maurizio Fallace ha riferito ai magistrati «delle insistenti pressioni ricevute affinché rilasciasse il nulla osta della sua direzione generale alla nomina di De Caro, ciò che di fatto avvenne lo stesso giorno».

La Corte dei Conti dovrà ben porsi il problema delle responsabilità dell’enorme danno erariale (oltre che culturale) provocato da una simile condotta: ed è intollerabile che, a fronte di questo tradimento dei vertici del Mibac, i due bibliotecari fedeli che hanno fornito le prime prove dei furti siano tuttora precari (dopo trent’anni), e rischino addirittura il posto.

Il silenzio di Lorenzo Ornaghi è, dunque, ogni giorno più grave. In un paese serio, un ministro il cui consigliere personale finisse in galera per aver saccheggiato una biblioteca pubblica avrebbe un’unica strada dignitosa: le dimissioni. Ma perfino in Italia Ornaghi non può non spiegare perché il suo Ministero non vigilasse, non controllasse e invece obbedisse a «insistenti pressioni»; perché egli stesso abbia confermato De Caro come proprio consigliere (quando invece ne licenziò altri due, egualmente di Galan ma ben più innocui); perché l’ispezione ministeriale che avrebbe permesso di scoprire quelle enormità già a febbraio sia stata congelata fino a ben dopo la denuncia del «Fatto».

Ma il caso dei Girolamini spinge a riflessioni più ampie. La procura di Napoli è riuscita a gestire esemplarmente l’inchiesta perché esiste un pool specializzato in reati contro il patrimonio: non sarebbe l’ora di applicare ovunque questo modello? Non è poi possibile lasciare i carabinieri del Nucleo di tutela sotto il controllo diretto del Ministro dei Beni culturali: troppe vicende degli ultimi mesi (dal Crocifisso ‘di Michelangelo’, al prezioso mobile settecentesco svincolato contro ogni norma, fino allo scandalo colossale dei Girolamini) dimostrano che il patrimonio va difeso anche dalle troppe deviazioni del Mibac.

L’espressione è forte, pulizia etnica. Sta a indicare le demolizioni di campanili e di torri nei paesi emiliani flagellati dal terremoto. E a usarla è Italia Nostra, dietro le cui insegne si ingrossa la schiera di chi vorrebbe metterli in sicurezza, quei monumenti, e non abbatterli. L’espressione la spiega l’architetto Elio Garzillo, fino al 2004 soprintendente e direttore regionale dei Beni culturali in Emilia Romagna: «Quando si demoliscono edifici dicendo che sono di scarso valore, si procede in base al principio che in architettura si può salvare solo ciò che è d’altissimo pregio. È un’idea culturalmente arretrata ».

Il j’accuse viene rilanciato oggi in un incontro promosso a Bologna da Italia Nostra (oltre a Garzillo, partecipano l’architetto Pierluigi Cervellati, Giovanni Losavio e Anna De Rossi, presidenti delle sezioni di Modena e di San Felice sul Panaro, ed Emanuela Guidoboni, storica dei terremoti). Dopo il sisma del 20 e del 29 maggio, una delegazione di Italia Nostra ha battuto l’area più colpita. Urbanisti e architetti hanno visto ciò che resta dei campanili demoliti a Poggio Renatico e Buonacompra, della ciminiera di Bondeno o del Mulino Parisio a Bologna.

Mentre si aspetta di conoscere la sorte delle torri di Reno Centese, Castelmassa, Ficarolo, San Giacomo Roncole e Suzzara, è soprattutto il ministero dei Beni culturali, il bersaglio di roventi critiche: «Le strutture statali di tutela hanno dimostrato un’inedita disponibilità ad autorizzare o tollerare tutte le demolizioni».

Il punto è questo, secondo Garzillo: la sicurezza dei cittadini poteva essere garantita con interventi di consolidamento dei monumenti, senza ricorrere alle demolizioni, per le quali — come a Poggio Renatico — si è usata anche la dinamite. O agli “smontaggi controllati”, secondo alcuni un ipocrita eufemismo, secondo altri la condizione indispensabile per un’eventuale ricostruzione.

La memoria torna al terremoto in provincia di Reggio Emilia del 1996. «A Correggio e a Villa Sesso — racconta Garzillo — siamo intervenuti per incatenare e imperniare i campanili. A Bagnolo in Piano la torre campanaria era completamente sfalzata, sembrava un mazzo di carte sparpagliate. Abbiamo messo putrelle e proceduto con incollaggi. Il lavoro è durato sette giorni e costato 50 milioni di lire. Sono operazioni di prevenzione nell’emergenza, tutte ampiamente documen-tate: basta spulciare gli archivi della Soprintendenza e della Direzione regionale». E invece? «E invece ora si è assecondata la Protezione civile, che fa bene il proprio lavoro, ma deve trovare negli organi del ministero per i Beni culturali un interlocutore consapevole del proprio compito. Che è quello di salvaguardare un monumento e di demolire solo in casi di assoluta necessità».

Secondo Giovanni Losavio, magistrato di Cassazione, il vizio d’origine è nel decreto del ministero che attribuisce il coordinamento degli interventi alla Direzione regionale e non alle Soprintendenze. «Ma la Direzione regionale », spiega Losavio, «è un organo prevalentemente ammini-strativo e non ha le competenze operative e tecniche proprie delle Soprintendenze. In questo modo la tutela è condannata a essere subordinata alla Protezione civile ».

In molti casi le demolizioni sono chieste a gran voce dalle stesse popolazioni. Alcuni sindaci, come Alberto Silvestri di San Felicesul Panaro, hanno spiegato che «tutti i monumenti hanno pari diritti ». Invoca abbattimenti l’assessore della Provincia di Mantova, Alberto Grandi, («dolorosi, ma inevitabili»), beccandosi da Salvatore Settis l’appellativo di Attila.

La memoria di Garzillo corre indietro nel tempo. Giovane funzionario della Soprintendenza napoletana, visse il terremoto del 1980 in Irpinia e Basilicata. «L’allora ministro dei Beni culturali Oddo Biasini mandava ispettori a chiedere a ognuno di noi quanti pronti interventi avevamo realizzato, quanti monumenti avevamo messo in sicurezza. Operazioni che praticavamo sfidando anche le ire di altre istituzioni. Ora la prassi è molto più accomodante».

Dovrebbero lavorare 2.222 anni Rosa Lanteri e i suoi due colleghi

della Soprintendenza di Siracusa, per pagare i danni che vengono loro chiesti per aver fatto il proprio dovere. Cioè preteso d'applicare la legge che vieta di cementificare il Porto Grande ricordato dagli scrittori dell'antichità. E lo Stato che fa? Invece che dare loro una medaglia d'oro fa impazzire quei suoi servitori tra le scartoffie. Senza precipitarsi a difenderli.

Il decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Regione Siciliana del 30 settembre 1988 è chiarissimo fin dal titolo: «Dichiarazione di notevole interesse pubblico del bacino del Porto Grande e altre aree di Siracusa». Vi si dice che «constatato che lungo la costa che dal Castello Maniace va sino alla punta della Mola si gode lo spettacolo affascinante di Ortigia, dello stesso Castello Maniace, dello scosceso Plemmirio, e da lì la foce dei fiumi Ciane e Anapo e l'area delle Saline di Siracusa, il tutto dominato, sullo sfondo, dall'altopiano dell'Epipoli su cui si erge la fortezza del Castello Eurialo con la cinta delle Mura Dionigiane» e che «lo spettacolo di mare costituente l'insenatura portuale, oltre ad essere ricordato da Tucidide a Diodoro a Cicerone, è stato teatro di avvenimenti di fondamentale importanza»: il bacino è «un insieme unico al mondo». E va dunque vincolato. Dubbi interpretativi? Zero.

Tutte le zone nevralgiche di quella che è stata probabilmente la più importante città della Magna Grecia dovrebbero stare a cuore agli amministratori. Basti ricordare che già nel 1947 il soprintendente alle antichità Bernabò Brea ammoniva che il turismo dovrebbe essere «la maggiore risorsa economica di Siracusa. La cura della propria bellezza, il rispetto e la valorizzazione dei propri monumenti non sono quindi per Siracusa solo un lusso o l'adempimento di un dovere verso la cultura, ma un'intima ragione di vita e di benessere, anche dal punto di vista economico».Parole al vento. Per decenni il territorio è stato preso d'assalto dalla speculazione più insensata. Non solo nella parte nord dell'Ortigia, dove è tutto un ammasso di capannoni e ipermercati. Ma fin dentro la grandiosa cinta muraria di 21 chilometri fatta costruire dal tiranno Dioniso I, che secondo Diodoro impiegò sessantamila contadini e si spinse ad affiancarli nei lavori più pesanti così che «il muro fu terminato, al di là di ogni speranza, in 20 giorni».

In un paese serio, in una città seria, quelle mura sarebbero sacre e intoccabili. Tanto più che il Castello Eurialo che domina Siracusa è l'unica fortezza di quel periodo esistente al mondo. E invece? Invece, come denunciano Italia Nostra, Wwf, Legambiente, «Energie nuove» e mille altre associazioni che si riconoscono in «SoS Siracusa» guidata da Enzo Maiorca, hanno costruito dappertutto minando seriamente il Parco delle Mura Dionigiane. Villette a schiera sulla balza della Neapolis. Un centro commerciale ai piedi del castello. Un progetto per 840 alloggi di edilizia popolare in contrada Tremilia...

Tutti edifici tirati su in aree, sulla carta, di rispetto. Sul giornale «La Civetta» Marina De Michele ha denunciato la costruzione di una villetta (autorizzata, pare!) perfino dentro una «latomia», cioè un'antica cava teoricamente protetta. Per non dire di un progetto di lottizzazione alla Pirillina, un magnifico tratto di costa a sud, dove gli ambientalisti tra i quali c'è don Rosario Lo Bello, un prete cugino di Ivanhoe, il leader degli industriali protagonista della svolta nella guerra alla mafia, lottano contro la costruzione di un mega villaggio turistico di 80 mila metri cubi di cemento. Bloccato (per ora) dal vincolo provvisorio che riconosce la necessità di una riserva naturale.

Ma torniamo al Porto Grande. I porti turistici previsti sono in realtà due. Il primo, in fase di realizzazione, si sviluppa a partire dal già esistente Molo sant'Antonio, si chiama «Marina di Archimede» (ogni speculazione è meno vistosa con un nome poetico: c'est plus facile), ha dietro Francesco Caltagirone Bellavista, già finito in manette per il porto a Imperia e, dice il sito web, «prevede opere a terra per 49.467 mq e opere a mare su una superficie di oltre 97.000 mq» per 500 posti barca. Il secondo si chiama «Marina di Siracusa», ha dietro il gruppo Di Stefano, e allargandosi in mare perfino con un'isola artificiale di 40 mila metri quadri a partire dai ruderi di una fabbrica per la spremitura di olio, la «Spero», vorrebbe offrire ai suoi clienti anche 54 appartamenti.

La legge che vincola lo specchio d'acqua, prima citata, è chiara: manco a parlarne. Eppure, miracolo miracoloso, sia il primo sia il secondo porto sono riusciti ad avere qualche anno fa il via libera della allora soprintendente Mariella Muti, moglie dell'architetto Amilcare la Corte, progettista e direttore lavori di una edificazione sulla Balza di Acradina, lavori bloccati perché l'area è sotto vincolo paesaggistico. Quella della Muti è una storia esemplare: il 10 dicembre 2010, dopo aver dato l'ok anche al piano regolatore che prevedeva una zona di concentrazione volumetrica sul pianoro dell'Epipoli (dove c'è l'«inedificabilità assoluta»), se ne andò in pensione a 55 anni grazie alla legge 104 perché doveva accudire la madre malata. Cinque giorni dopo giurava come assessore comunale alla cultura del municipio sul quale per 7 anni aveva «vigilato». Pazzesco? Ma no, spiegò a Panorama: «Fare l'assessore non è poi così impegnativo».

Fatto sta che, fuori lei, il Dirigente generale dei beni culturali siciliani Gesualdo Campo si è messo di traverso con una nota durissima ai lavori e ai progetti in corso ricordando che non c'è deroga che possa consentire nuove strutture ricettive entro la fascia di 150 metri dalla battigia. Il che ha convinto «Aquamarcia» a fermarsi per capire meglio. Quanto all'altro porto, i nuovi dirigenti della Soprintendenza Rosa Lanteri (archeologia), Alessandra Trigilia (paesaggio) e Aldo Spataro (beni architettonici) hanno chiesto la revoca della concessione mettendo paletti rigidissimi.

Il verbale della conferenza dei servizi del gennaio scorso è netto. No al progetto perché «rispetto all'intervento principale, ovvero la realizzazione di un porto turistico, la prevalenza delle opere previste (vi è anche una piscina) è evidentemente l'edilizia». E poi no perché il porto ha «un parcheggio multipiano» e «ricade nella buffer zone» dell'Unesco e «non c'è alcuno studio del rischio tsunami» e altererebbe «lo sky-line della città» e via così … Tutte obiezioni basate sulla legge. Fatte invocando la legge. In nome dello Stato.La risposta? Un ricorso al Tar con la richiesta di condannare i tre funzionari a pagare 200 milioni di euro di danni. Pari appunto, per Rosa Litari e gli altri due, a quanto guadagnerebbero in 2.222 anni. Della serie: guai a te. E lo Stato? Non sarebbe il caso che battesse un colpo ai livelli più alti?

Le immagini del degrado abissale di Palazzo Reale mandate in onda da Sky equivalgono ad un salutare e ben assestato calcio nel sedere. Non che non esistano luoghi monumentali di Napoli messi anche peggio: la climax dello sfascio del patrimonio storico e artistico è inesauribile. Quel che è significativo, e perfino simbolico, è che ad esser ridotto in questo stato sia proprio Palazzo Reale: e non solo perché è come se a versare in condizioni allucinanti fosse Palazzo Pitti a Firenze, o Palazzo Madama a Torino.

Il punto è che Palazzo Reale è la sede della Soprintendenza per i beni architettonici, paesaggistici, storici, artistici ed etnoantropologici per Napoli e provincia, retta in questo momento da Stefano Gizzi.

Quale credibilità può avere un’istituzione che non riesce, non sa o non vuole tutelare nemmeno la propria (straordinaria) sede? Come non immaginare che qualunque cittadino napoletano che da oggi riceva un richiamo da parte della Soprintendenza non risponda: «medico, cura te stesso»?

O il soprintendente Gizzi intenderà forse concedere il bis delle sue stupefacenti dichiarazioni sui Girolamini, dicendo che anche questa volta si tratta di un complotto ordito dalla stampa per favorire chissà quali riposti interessi, e che Palazzo Reale è in verità tenuto come Versailles? E che almeno ci si risparmi l’intollerabile ipocrisia della rituale giustificazione economica, per cui la cronica mancanza di fondi giustificherebbe lo sfascio.

Qualcuno ricorda la ‘decorazione’ della cupola della sala prove ipogea del San Carlo, denunciata da questo giornale nell’ottobre del 2010? Un dosso di cemento, irto di cavalli dalla testa di alluminio e compresso tra due alti muri di pietra che lacera la prospettiva architettonica del Palazzo Reale visto da Castel Nuovo, vulnerando un segno fondamentale delle vedute che hanno consegnato a tutta Europa il ritratto di Napoli. I soldi per ferire l’identità storica di Palazzo Reale si sono trovati: come sostenere che non ce ne sono per la manutenzione ordinaria?

E cosa dire della mostra sulla regina Margherita, tenutasi esattamente un anno fa a Palazzo Reale? Una docu-fiction ‘culturale’ composta da tavole apparecchiate con pasticcini veri, grandi schermi che proiettavano improbabili dialoghi ‘storici’, e molti oggetti scelti perché ‘facevano Savoia’. Una mostra senza progetto scientifico, realizzata da una fondazione che produce format espositivi sui soggetti più disparati. E soprattutto una mostra il cui allestimento invadente e grossolano devastava le sale storiche di Palazzo Reale, coprendone gli arazzi e rendendo impossibile il godimento di molti capolavori pittorici.

Ebbene, per quella mostra i soldi si sono trovati eccome. Il Palazzo Reale di Napoli ha dunque tutte le carte in regola per diventare il simbolo della ‘valorizzazione’ all’italiana: lasciar andar in malora tutto il nostro patrimonio all’infuori di qualche sala rileccatissima che possa servire da location per Grandi Eventi.

La vera domanda suscitata dalle immagini di Sky non è «come possiamo cambiare le cose?», ma: «perché, in fondo, non ci interessa cambiarle?». Finché non rispondiamo a questa domanda, nulla davvero cambierà.

I beni culturali, "binomio malefico, un buco nero, capace di inghiottire tutto, e tutto nullificare in vuote riforme verbali; un enorme scatolone vuoto entro ci avrebbe dovuto trovar posto, secondo l'aulico programma spadoliniano, l'identità storica e morale della Nazione, salvo poi non aver saputo infilarci dentro che l’ultimo o penultimo dei Ministeri». Parole di Giovanni Urbani, grande direttore dell’Istituto Centrale per il Restauro, che nel 1983 dedicò un libro e una mostra alla Protezione del patrimonio monumentale dal rischio sismico.

Quel concreto progetto, ispirato dalla semplice idea che prevenire è meglio che curare, stimava le spese (allora) in qualcosa come 2.700 miliardi di lire (5 miliardi di euro), ma cadde nel vuoto. Afflitti da amnesia cronica, i nostri governi fingono di ignorare che l’Italia è un Paese sismico, pronti a stracciarsi le vesti a ogni scossa o a inventarsi soluzioni placebo.

L’incapacità di prevenire i danni dei terremoti non si può certo attribuire all’attuale ministro Ornaghi, ma fa un certo effetto sapere che a coordinare gli interventi del suo ministero non sarà un Soprintendente ma un prefetto, e che dopo i primi ottimismi («numeriamo le pietre e ricostruiamo tutto», 21 maggio) si è passati alla disperazione («sospese le verifiche sui monumenti », 30 maggio). O che, dopo le lesioni alla Basilica del Santo a Padova e l’allarme sulla Cappella degli Scrovegni, le notizie “tranquillizzanti” vengano non da un Soprintendente, ma dal Comune, lo stesso che ha autorizzato a un passo dalla Cappella la costruzione di due alte torri residenziali, le cui fondamenta profonde accentueranno le infiltrazioni d’acqua, già presenti a pochi centimetri dagli affreschi di Giotto.

Ma la causa principale di queste e altre (peggiori) disfunzioni dei Beni culturali non è Ornaghi, bensì l’intrinseca debolezza di quel ministero. Inventato da (o per) Giovanni Spadolini nel 1975, si chiamò ministero per i Beni culturali e ambientali, dizione che restò in piedi fino al 1999, anche dopo il 1986 quando fu creato un separato ministero dell’Ambiente.

Per tredici anni, dunque, vi fu sulla carta un “ambiente” (competenza di un ministero) senza “beni ambientali” (competenza di un altro ministero), e per converso i “beni ambientali” senza “ambiente”. In questo contesto traballante, i Beni culturali furono il fanalino di coda di ogni governo, con ministri e sottosegretari spesso imbarazzanti; è su questa scia di marginalizzazione ormai strutturale che, forse senza intenzione ma certo senza attenzione, Ornaghi divenne il solo ministro decisamente non-tecnico in un governo “tecnico”.

Intanto, si gonfiava negli anni la struttura del ministero, moltiplicando burocraticamente le direzioni generali e aggiungendo le direzioni regionali. In compenso le soprintendenze, glorioso baluardo della tutela sul territorio, venivano minate e delegittimate (anche con pretestuosi commissariamenti), svuotate di personale, borseggiate di risorse, lasciate alla deriva.

Lo sfortunato ministero nacque dalla costola della Pubblica istruzione, dove a dire il vero stava molto bene: anche un ministro come Benedetto Croce, più interessato alla scuola, seppe varare la prima legge sulla tutela del paesaggio (1920).

Si può ancora salvare un ministero ormai agonizzante? Tre proposte diverse sono state fatte negli scorsi anni. Lettera morta è rimasta la prima (Argan - Chiarante), che voleva accorpare i Beni culturali con Università e ricerca, altro “derivato” della Pubblica istruzione. L'idea era di puntare sull’intersezione fra professionalità e campi del sapere, esaltando la ricerca sul campo (essenziale alla tutela), la didattica (per esempio del restauro) e il valore educativo del patrimonio culturale.

Passò invece la riforma Veltroni (1999), che ai Beni aggiunse le Attività culturali, intendendo per tali anche sport, spettacolo e turismo: infelice connubio, che comportò una nuova marginalizzazione del core business del ministero.

Resta in campo la terza proposta, che va anzi rilanciata con forza: formare un ministero forte e funzionale accorpando Beni culturali e Ambiente. Questo fu il progetto di Giovanni Urbani, teso a «una politica della tutela fondata sul rapporto fra beni culturali e ambientali» (1989). Io stesso l’ho riformulato, nel mio libro Paesaggio Costituzione cemento (2010) e altrove; e vi è tornato ora Gian Antonio Stella sul Corriere del 25 maggio, proponendo di aggiungere le competenze sul Turismo.

L’accorpamento ambiente-paesaggio-beni culturali è ovvio: lo mostrano vicende recenti, dalla discarica che minacciava Villa Adriana a quelle a ridosso del Real Sito di Carditello o di Pompei. Lo mostrano le cento fragilità del Paese, dal rischio sismico a quello idrogeologico, che richiedono interventi organici e coordinati di recupero e prevenzione.

Ai disastri sismici stiamo reagendo in modo assai improprio, ridistribuendone i costi sui cittadini con l’aumento della benzina (“tassa sulla disgrazia”) e ipotizzando un’assicurazione obbligatoria contro i terremoti. Bizzarro palliativo, che comporta la finale abdicazione dello Stato al suo compito costituzionale primario, la messa in sicurezza del territorio.

Il teatrino dell’“assicurazione obbligatoria” pretende di archiviare decenni di inadempienze dietro uno scaricabarile indegno di questo (e di qualsiasi) governo. Se lo Stato ha speso 137 miliardi di euro per i danni sismici negli ultimi 40 anni, quale compagnia privata di assicurazione coprirà cifre analoghe? E a quali costi per i cittadini? Che farà chi è troppo povero per pagare le alte tariffe che verrebbero richieste? E chi pagherà l’assicurazione degli edifici abusivi o fabbricati con materiali scadenti, il costruttore (colpevole) o il proprietario (spesso innocente)? Quale stato di polizia va instaurato per obbligare i riluttanti a pagare, anche se disoccupati, il dovuto balzello alle imprese private? 137 miliardi, dopo tutto, sono più o meno l’ammontare dell’evasione fiscale in un solo anno.

100 miliardi, ha dichiarato Passera pochi giorni fa, saranno spesi per le “grandi opere”: ma la prima e maggiore “grande opera” è la messa in sicurezza del territorio e del patrimonio culturale. O no?

La ventilata assicurazione obbligatoria contro i terremoti è una prova d’orchestra: se passa, la prossima mossa (inevitabile) sarà l’assicurazione obbligatoria sulla salute, cioè l’abolizione dell’assistenza sanitaria pubblica, la fine del diritto alla salute sancito dalla Costituzione (art. 32).

Ma proteggere la vita dei cittadini, il paesaggio e l’ambiente è un valore costituzionale primario e assoluto. Richiede un’Italia memore di se stessa e non ansiosa di svendersi a compagnie private.

Richiede un lavoro di prevenzione, necessariamente pubblica, che deve essere guidato da un forte ministero del Patrimonio, che unisca ambiente, paesaggio, beni culturali.

Anche il turismo, purché ci ricordiamo che non è per i turisti, ma per noi stessi, che la Costituzione ci impone la tutela della nostra storia e del nostro territorio.

Postilla

L’analisi di Salvatore Settis è, come sempre, drammaticamente puntuale e quasi del tutto condivisibile.

Sicuramente lo è per quanto riguarda la situazione di crisi ormai irreversibile del Mibac che la gestione del terremoto emiliano sta puntualmente sottolineando. Ormai completamente incardinati nella struttura della protezione civile, gli organi territoriali preposti alla tutela sono scomparsi, in questi giorni, dal territorio e l’attività del Direttore Regionale si riduce quasi esclusivamente alla sottoscrizione di ordini di demolizione.

Sembra quasi che l’esercizio della tutela sia considerato ostativo o comunque incompatibile con le più urgenti iniziative di primo soccorso e messa in sicurezza.

Ma se è ormai urgente una riforma del Ministero, la liaison suggerita con il turismo torna ad appiattire le finalità del nostro patrimonio culturale proprio su quell’aspetto mercantile che ha rappresentato una delle derive più evidenti di questi ultimi lustri.

Dietro la concessione di Settis (“anche il turismo”), si intravede il tentativo di respingere le critiche di sempre: non ci sono più risorse per mantenere decentemente l’insieme del nostro patrimonio culturale, inutile fare le anime belle. Tanto vale rassegnarsi cercando di sfruttare la coperta offerta dalle entrate turistiche. Che si tratti di una liaison dangereuse è ben noto allo stesso autore che sui rischi di un turismo rapace e dissipatore si è espresso sempre con chiarezza esemplare.

Ma la situazione è forse così grave che occorre chinarsi ad un compromesso. Forse, ma i dubbi restano e non solo sui pericoli che un turismo sregolato possa rappresentare su di un patrimonio così fragile come il nostro, ma sulla stessa efficacia per entrambi i settori di un legame contronatura.

Non si tratta tanto di demonizzare il turismo, ma mentre quest’ultimo rappresenta un’attività a pieno titolo economica (la prima industria mondiale), la tutela del patrimonio è e deve restare un servizio al cittadino pari ad altri quali istruzione e sanità. E per conseguenza essere governata da altre logiche che non siano quelle del profitto.

Piuttosto sarebbe necessario e urgentissimo che, in un rapporto chiaro ed equilibrato, un’industria turistica finalmente aggiornata nelle strutture e nella stessa cultura imprenditoriale, contribuisse con fondi finalmente adeguati alla salvaguardia di quel patrimonio e di quel paesaggio che ne costituiscono la prima risorsa. La discussione è aperta. (m.p.g.)

I rischi riguardanti la cappella Scrovegni sono almeno sei e in questo articolo affronterò solo i primi tre (il terzo in maniera incompleta): quanto influiscano sulla sua staticità le differenti fondamenta di abside e navata, con conseguenti crepe e fessure, la mancanza di messa in sicurezza sismica, l’allagamento della cripta. Rimangono da affrontare: la mancanza di sicurezza anti-attentati; la mancanza della messa a norma dell’impianto elettrico con le possibili conseguenze sugli affreschi, il dissesto che la costruzione in atto di due torri vicine alla cappella, con scavi profondi più di 30 metri potrebbe creare alla falda idrica che è in connessione con quella della cappella stessa.

Il terremoto che ha colpito e continua a colpire così duramente la regione emiliana non bada a confini geografici ed è giunto anche a Padova dove è crollato un pezzo di una vela della Basilica del Santo.

Una toppa bianca spicca in mezzo al fondo blu decorato. Anche l’ala destra della chiesa è stata transennata. E la cappella Scrovegni? Le autorità il 30 maggio hanno assicurato che “la cappella è ok”, basandosi come sempre sul loro infallibile occhio o in alternativa, buon senso.

La cappella, terminata nel 1305, era in origine saldamente integrata nel palazzo Scrovegni. Dopo l’abbattimento di quest’ultimo nel 1827, voluto dagli sciagurati ultimi proprietari, i nobili Gradenigo, per farne materiale edilizio, la cappella subì un primo dissesto, a cui concorse anche un ulteriore limite intrinseco all’edificio. La navata poggia infatti sulla cripta, che è ancorata sull’anfiteatro romano; l’abside, aggiunta dopo, poggia invece direttamente sul terreno. Abbattuto il palazzo, la cappella non più sostenuta dal palazzo, risentì delle differenti fondamenta. La crepa fra la navata e l’abside, segnalata fin dal 1835, ne è la prova. Per contrastare questa e altre crepe prodottesi nel tempo, nel 1967 si procedette a: sostituire “il tetto in legno con una nuova copertura in acciaio”, alla realizzazione di “un cordolo in cemento armato alla sommità delle pareti della navata” e alla sostituzione delle catene, spezzate e/o malandate.

Così scrivevano nel 1998 il professore Claudio Modena e gli ingegneri Giovanni Lazzaro e Carlo Bettio dell’Università di Padova nel loro “Aggiornamento sulla statica della cappella degli Scrovegni”. Alla luce del terremoto di Assisi, dove proprio le capriate in cemento sostituite a quelle originarie in legno hanno provocato il tragico crollo delle vele, il rimedio dovrebbe indurre ad un riesame urgente della sua validità. Nel 1998 il prof. Modena posizionò sull’estradosso della volta 6 basi di misura per distanziometri, semplici apparecchi per misurare le variazioni di ampiezza delle fessure stesse ed eventuali scorrimenti. Fatte alcune prove il professore Modena concludeva per indicazioni in generale confortanti, “ma che lasciano aperti aspetti di dettaglio del comportamento statico che possono avere notevole importanza sulla conservazione degli intonaci affrescati, e che devono quindi essere approfonditi”.

Quali furono gli approfondimenti? I distanziometri furono tolti e a tutt’oggi nessuno monitora le fessure e le crepe.

In assenza di qualsiasi altro strumento di valutazione del comportamento della cappella nei terremoti; in assenza di opere per la messa in sicurezza sismica della Cappella e di caratterizzazione sismica del sito, costerebbe poco il ripristino dei distanziometri e il loro sistematico controllo, che dovrebbero comunque coinvolgere l’intera cappella, cripta compresa.

La cripta, chiusa al pubblico, ha il pavimento – una gettata di cemento coperta di fango – costantemente invaso dall’acqua che emerge dalla falda sottostante. Per risolvere il problema del compromesso assetto idrogeologico è stato installato un rozzo vascone appoggiato alla parete ovest della cripta, all’interno del quale è collocata un’ulteriore vaschetta con due pompe che succhiano l’acqua in eccesso del pavimento. Attraverso un condotto la riversano nei condotti di smaltimento esterni, che comunque la rimettono nella falda in un giro senza sosta. I rigagnoli che scorrono sull’impiantito giungono a inumidire la base dei muri perimetrali con quale conseguenza sull’assetto strutturale della cappella, non si sa. O meglio, sempre le solite autorità dicono che non c’è alcuna conseguenza. Su quali dati? Mistero.

Ma chi di noi, se avesse una casa il cui garage immediatamente sottostante fosse sempre allagato, starebbe tranquillo? Certo lo Scrovegni non aveva progettato di scender con gli stivali nella cripta dove nella volta si vedono le stelle dipinte da Giotto. È impossibile però apprezzare la bellezza della cripta perché sono rimasti in piedi i set-ti murari in mattoni che a intervalli ravvicinati, dovevano, durante l’ultima guerra, evitare che le onde d’urto delle bombe facessero crollare la cappella. (La Cappella era infatti segnalata sul tetto affinché i piloti dei bombardieri non la colpissero). Sempre il professor Modena nel 1998 scriveva che occorreva affrontare il problema dei “massicci setti murari presenti nella cripta, addossati alle pareti laterali e alle volte, e con esse ormai probabilmente interagenti”. Una possibilità molto pericolosa e che andrebbe esaminata nelle sue implicazioni. In questi giorni funzionari dell’Unesco stanno censendo i monumenti, sollecitati dal terremoto: a Padova trascureranno obbligatoriamente la cappella che a non è stata ancora dichiarata patrimonio dell’umanità: povero Giotto, che credeva di essere un grande pittore!

postilla

C’è un aspetto della “sicurezza di Giotto” necessariamente sottovalutato da questa pur sistematica lettura: il contesto urbanistico in cui si colloca il complesso degli Scrovegni, e di cui non a caso altri articoli sul tema hanno messo in rilievo la scarsa chiarezza e definizione. Accade infatti che prima la storia e la geografica abbiano scaricato il classico “viale della Stazione” giusto lì davanti, e poi che i vari piani urbanistici per la città non abbiano mai risolto definitivamente il ruolo del quartiere, lasciando aperte fin troppe possibilità di intervenire per singoli progetti. Che per lo stesso motivo si ammucchiano, a volte contraddittori, a volte autoreferenziali come certe proposte di trasformazione che corrono il rischio di compromettere il delicato equilibrio idrogeologico che poi interessa la cappella, e gli affreschi. Forse mai come in casi del genere si dovrebbe capire che ruolo ha l’approccio di metodo urbanistico, contrapposto a quello puramente progettuale (per quanto su una superficie notevole), e come abbia ragione chi preferisce una tutela diversa da quella dei soli vincoli. Almeno quando lo fa in buona fede. Un approccio che di sicuro costa molto meno, salvo che in termini di spremitura meningi (f.b.)

Davanti alle immagini dell’Emilia terremotata e alla civiltà dei comportamenti di tutti, ripenso fra i brividi al Cavaliere che va a visitare impettito l’Aquila diroccata, con trecento morti tutt’intorno, e proclama che lui la ricostruirà in pochi mesi, edificherà le “new towns” (senza sapere di cosa stia parlando) e tutto tornerà “più grande e più bello che pria”. Specie dopo la gran parata spettacolare del G8 scippato alla Maddalena e le solenni promesse di adozioni da parte straniera di questo o quel monumento. Un delirio allucinato che pure tanta parte dell’Italia applaudì al canto “meno male che Silvio c’è”. Un incubo fosco per noi che avevamo in vario modo partecipato alle tragedie di Tuscania, del Friuli, di Umbria e Marche, con centri storici colpiti a morte, chiese rase al suolo o comunque crollanti a partire dalla basilica-simbolo di San Francesco in Assisi riconsegnata invece in piena salute in un biennio, ricavando da quelle ricostruzioni una cura “italiana” apprezzata nel mondo. Non disperdere le comunità locali, far sentire subito il calore della solidarietà, creare condizioni di abitabilità in nuclei vicini a case, casolari, fabbriche e stalle, lavorare sulla coesione sociale, puntare, d’intesa con gli abitanti, sulla ricostruzione com’era dov’era. Anche in Irpinia - dove il “cratere” era stato enorme, tremila i morti, novemila i feriti nel gelo dell’autunno inoltrato - per i beni culturali l’intervento della Soprintendenza speciale di Napoli e di quelle regionali fu efficace e senza “code” giudiziarie, senza “cricche” di mezzo. Nella stessa Napoli - commissario alla casa, Maurizio Valenzi, responsabile degli uffici, Vezio De Lucia - furono risanati e redistribuiti circa 10 mila alloggi senza ombre di sorta.

Perché tutto questo non è stato ricordato abbastanza nei giorni tragici dell’Aquila trasformata in un crudele set televisivo per un presidente che l’“Economist” chiamava “the jester”, il giocoliere, il buffone? Uno che si vantava di seguire un suo modello originale che avrebbe ridato all’Aquila e all’Abruzzo una rinascita pronta e radiosa. L’abbiamo veduta quella rinascita, e l’inquinamento sottoculturale è stato così profondo che anche adesso in loco si favoleggia di archistar, di smart-city, senza avvedersi di altri atroci inganni.

Per quest’area vasta dell’Emilia-Romagna colpita a più riprese dal terremoto la rinascita ha da essere quella evocata dal presidente Napolitano per il Friuli, a cominciare dai beni culturali che sono segni forti di identità collettiva, fondamenta di una intensa storia comunitaria. Citerò un caso che ben conosco: Pieve di Cento, al di là del Reno, verso Bologna, uno dei centri storici che l’intesa fra Soprintendenze ed enti locali aveva restaurato e recuperato nel modo più generale e rigoroso. La sua chiesa maggiore è ora scoperchiata dal sisma, le tele di Guercino, Guido Reni, Albani, Lavinia Fontana sono coperte di polvere, il suo bel teatrino comunale è segnato da crepe profonde. Decenni di sforzi vanificati o sfregiati in una notte? Ho saputo che gli abitanti si mostrano riluttanti persino al necessario trasferimento in laboratorio di quelle grandi tele con l’argomento: “Non le abbiamo lasciate portar via nemmeno a Napoleone, neanche ai Tedeschi…”. Mi sono sentito rassicurato. Anche su questo, come sulle case, sulle fabbriche, sulle stalle del parmigiano-reggiano, la gente di qui non vuol mollare e non mollerà. E se qualcuno – come si dice – vorrà demolire più di quanto serve per scongiurare il pericolo di altre morti, scatterà, credo, con l’opposizione, la molla del recupero, del restauro, del ripristino fedele. L’ha già scritto qui Vezio De Lucia: per decenni l’Emilia-Romagna è stata all’avanguardia in Italia (e quindi in Europa) nella politica di restauro e di riuso dei centri storici, col piano Cervellati-Fanti, preceduto dai censimenti di un grande fotografo, Paolo Monti. Così come fu davanti nella pianificazione territoriale, poi più volte tradita. Sono pagine di ieri che bisogna far tornare in onore. Ora che l’Italia non ha più Arcore come capitale. Ora che essa guarda agli esempi migliori e mostra il dignitoso, paziente coraggio di tante altre occasioni.

Ma che senso ha prendere un quadro degli Uffizi e spedirlo in una cittadina della provincia di Milano per ‘impreziosire’ la visita del papa, che vi si reca a celebrare la Giornata della Famiglia? Per la nostra classe politica (affetta da congenito e inguaribile analfabetismo figurativo) i musei sono ormai depositi di attrezzeria scenica di lusso, da tirar fuori a comando per abbellire i mitici ‘eventi’.

In un primo tempo era stato il celeste Formigoni a chiedere al pio Ornaghi di estrarre da Brera nientemeno che lo Sposalizio della Vergine di Raffaello. Ma una funzionaria coscienziosa aveva fatto notare all’ignaro ministro che si trattava di una tavola assai delicata, a cui forse non era il caso di far correre rischi inutili. Così il ministro aveva eroicamente ripiegato su un Correggio (nientemeno), che sarebbe dovuto andare alla Regione: poi lo yacht di Daccò deve aver fatto il miracolo che la Costituzione non era riuscita a fare, e nessuno aveva più osato attentare alla tutela dei quadri di Brera.

Ma lo spirito del tempo evidentemente esiste davvero, e qualche altro genio deve aver detto che era scandaloso accogliere il papa senza tirar fuori almeno una ‘chicca’. E qui (ma vado per congetture) immagino che il direttore degli Uffizi Antonio Natali (uno dei pochi funzionari Mibac con le idee chiare) sia riuscito ad evitare che partissero Giotto, Raffaello o Leonardo e abbia tirato fuori dal cappello la meravigliosa e da poco splendidamente restaurata Madonna della Gatta di Federico Barocci. Con una generosa lettura iconografica, dagli Uffizi spiegano che il tema del quadro è perfettamente consono al tema della giornata (“La famiglia, il lavoro, la festa”): Giuseppe che lascia gli strumenti del falegname per accogliere Elisabetta e Zaccaria che portano il piccolo Giovanni a trovare il cuginetto Gesù, nato da poco. Al centro del dipinto c’è poi la famosa gatta, intenta ad allattare i suoi piccoli. Sul web non si manca di far notare che Benedetto XVI ama particolarmente i gatti: e certo fargli trovare un quadro con San Paolo primo Eremita nutrito dal corvo sarebbe stata una vera cattiveria, vista la fauna attuale dei Sacri Palazzi.

In questo deprimente aneddoto dell’Italia della decadenza ci sono almeno due morali, una culturale e una costituzionale.

La prima è che i quadri non sono soprammobili. Pochi mesi fa uno storico della chiesa e un prelato hanno usato una Madonna di Giotto per «impreziosire l’anno Italia/Russia» (parole loro): in un incredibile misto di arroganza e ignoranza si trattano i testi sacri della storia culturale occidentale alla stregua di bigiotteria. Si suggerisce che forse Barocci dipinse la Madonna della Gatta in occasione della visita di Clemente VIII ad Urbino: e allora? Barocci era intimamente legato alla sua Urbino, che lasciava assai malvolentieri e il cui Palazzo Ducale ritrae in moltissimi dei suoi quadri. Che senso ha collegare quell’episodio (vero o falso che sia) all’idea di spedire oggi il quadro a Bresso? Quella storiella non avrebbe dovuto (semmai) suggerire che non bisognava spogliare gli Uffizi (che col papa a Bresso c’entrano come il cavolo a merenda), ma rivolgersi ad opere e tradizioni di quella terra (se proprio era necessario tirar fuori un quadro da un museo: e non lo era)?

La seconda è che, entrando nei musei, le opere del passato hanno perso la loro funzione originaria (politica, religiosa, familiare…) acquistandone una puramente culturale (forse più alta, forse più libera: certo diversa). Esse sono uscite dal flusso degli scambi economici: ora non sono più in vendita, e grazie alla Costituzione appartengono a tutti i cittadini italiani, e in maniera più lata a tutta l’umanità. Un cittadino italiano di fede musulmana, o semplicemente ateo, ha tutto il diritto di disapprovare il fatto che un ‘suo’ dipinto venga piegato e strumentalizzato nei rapporti tra il potere politico italiano attuale e il Vaticano. Oltre al fatto che avrebbe tutto il diritto di trovare quel quadro appeso al suo chiodo, agli Uffizi.

Lo giudicherei comunque culturalmente insensato, ma perché non è la Pinacoteca Vaticana a far dono ai cittadini italiani dell’esposizione di qualche sua poco visibile opera? Perché l’Italia non perde occasione per autorappresentarsi come una grande periferia della Città del Vaticano?

Come in questi giorni ci ricordano le tragiche immagini dell’Emilia, il nostro patrimonio è il tessuto vivo e indifeso della nostra identità: ed è su questo che dovrebbero concentrarsi le poche energie economiche e mentali. E invece preferiamo baloccarci con musei ridotti a location di sfilate di moda, o a forzieri da cui estrarre gemme per compiacere i piccoli e grandi potenti del momento.

Sul terremoto abbiamo alcune certezze.

La prima è che, purtroppo, tornerà. Quasi tutta l’Italia è, più o meno, sismica. E certo lo è il Mezzogiorno.

La seconda è che, quando tornerà un forte terremoto al Sud, i danni saranno terribili. E una delle vittime più massacrate sarà sicuramente il patrimonio storico e artistico monumentale.

La terza certezza è che questo si potrebbe evitare, almeno in misura significativa.

Se, nonostante tutto, abbiamo ancora il tessuto storico-architettonico che abbiamo, lo dobbiamo all’umile manutenzione assiduamente curata lungo i secoli. Una manutenzione che oggi è completamente trascurata: per mancanza di soldi, ma assai prima per mancanza di interesse per qualunque cosa non dia un immediato ritorno mediatico.

Oggi, anzi, il nostro patrimonio è ancora più esposto di cento o duecento anni fa. Perché è abbandonato, reso malsicuro dal dissesto dei suoli, non di rado appesantito e compromesso da ‘restauri’ moderni. Non è, per esempio, difficile immaginare che tutto il cemento improvvidamente iniettato nelle strutture delle chiese storiche di Napoli dopo il 1980 le condannerebbe a morte in caso di una nuova forte scossa sismica.

Dunque, che fare? Forse è venuto il tempo di dire che la vera Grande Opera che lo Stato dovrebbe mettere in campo per far ripartire l’economia meridionale è la messa in sicurezza del patrimonio storico e artistico. Sarebbe un investimento economico, sociale, intellettuale e morale.

E consentirebbe anche uno straordinario risparmio: di vite umane, di monumenti e di denaro. Il fiume di denaro che da decenni continuiamo a gettare per riparare ai gravissimi danni sismici che ci ostiniamo a non voler prevenire.

E, purtroppo, la quarta certezza è che nemmeno la lezione dell’Emilia servirà.

© 2024 Eddyburg