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Il nostro appello di qualche settimana contro la privatizzazione per decreto economico della Pinacoteca statale di Brera ha ricevuto centinaia di adesioni. In testa ci sono i responsabili di alcuni grandi musei e istituti stranieri, a cominciare dal conservateur en chef du Louvre, Catherine Loisel, dal direttore per la parte antica della National Gallery di Washington, Jonathan Bober, da Jennifer Montagu del Warburg Institute. Con loro, tanti direttori di grandi musei italiani: Matteo Ceriana dell’Accademia di Venezia, Anna Coliva della Galleria Borghese, Anna Lo Bianco di Palazzo Barberini, Rita Paris del Museo Archeologico nazionale di Roma, Maria Grazia Bernardini di Castel Sant’Angelo, Luisa Ciammitti della Pinacoteca di Palazzo dei Diamanti di Ferrara, Mariolina Olivari dei Musei Civici Pavia e Castello di Vigevano, ecc., il segretario generale regionale dei BC del Molise, Gino Famiglietti, la responsabile dell’Assotecnici del Ministero, Irene Berlingò, storici dell’arte, museografi, archeologi di alto livello, Licia Borrelli Vlad, Salvatore Settis, Andrea Emiliani, Antonio Pinelli, Piero Guzzo, Mario Torelli, Carlo Pavolini, editori come Rosellina Archinto, Giovanna Pesci Enriques e Mario Curia, il più volte ministro Giovanni Pieraccini, fondatore di “Roma Europa”, storici e scrittori, Carlo Ginzburg, Piero Bevilacqua, Alberto Asor Rosa, Corrado Stajano, Jacqueline Risset, Roberta De Monticelli, rappresentanti delle associazioni: Italia Nostra (la fondatrice Desideria Pasolini, Nicola Caracciolo vice-presidente, numerosi consiglieri), “R.Bianchi Bandinelli”, Comitato per la Bellezza, Amici di Cesare Brandi, Eddyburg, Patrimonio Sos, Rete dei Comitati, Mountain’s Wilderness, ecc. Docenti dell’Accademia di Belle Arti di Brera (Francesca Valli, Flaminio Gualdoni, Ezio Cuoghi e molti altri), magistrati appassionati ai temi dell’arte e del paesaggio come Paolo Maddalena, Ferdinando Zucconi Galli Fonseca, Gianfranco Amendola, architetti e urbanisti quali Pier Luigi Cervellati, Vezio De Lucia, Paolo Berdini, Sauro Turroni. Centinaia di adesioni qualificate, con tanti stimati dirigenti del MiBAC quando il Ministero aveva ancora una politica e non era ridotto al fantasma di oggi.

Contro il nostro motivato “no” ad una Fondazione Grande Brera di diritto privato nella quale lo Stato, detentore del patrimonio, immobiliare e mobiliare, perde il controllo tecnico-scientifico della gestione che passa a soggetti non ancora identificati (dopo un decreto convertito in legge!), sono volate accuse di “conservatorismo”, ma dietro di esse è rimasta una gran confusione (che senso ha, ad esempio, paragonare il complesso di Brera alla Biennale di Venezia?). Malgrado ciò, il ministro Ornaghi si è già mosso operativamente chiamando i due primi soci (Fondazione Cariplo e Camera di Commercio), parlando di “fondazione di partecipazione”, di organismo “senza fini di lucro privato”. Ma chi può credergli con queste premesse? Il nodo di fondo è infatti la natura della Fondazione “mista”. Può svelarla soltanto uno statuto che chiarisca “chi governa”, “chi comanda”, “in base a quali criteri”.

Il dibattito succeduto alla nostra presa di posizione non ha dunque fornito certezze di sorta sulla privatizzazione. Ha semmai accresciuto dubbi, perplessità, distinguo. Questo è importante. Il nostro fondato timore è che si vada – oggi per Brera, domani per il Maxxi, dopodomani per la Galleria Borghese o per Santa Maria della Scala di Siena – ad una Fondazione all’italiana in cui lo Stato ci mette gli edifici, il patrimonio, una cospicua dote finanziaria, i servizi esistenti, la tradizione, la consolidata attrattiva internazionale, e i privati, con poca spesa, si prendono la gestione, o meglio la parte redditizia della gestione.

Ci viene chiesto cosa proponiamo in alternativa: proponiamo la politica per i beni culturali che vige in ogni Paese civile, non imbarbarito come sembra il nostro, e cioè una Repubblica (Stato, Regioni, Comune, ecc.) in grado di tutelare per davvero il patrimonio storico e artistico e il paesaggio italiano, di destinare fondi correnti e investimenti decorosi quanto certi all’apparato di tutela e di gestione dei suoi beni (e non l’avvilente miseria attuale), di diminuire tasse e imposte ai proprietari di dimore e giardini storici, ai mecenati veri, agli sponsor accrescendo così investimenti, lavori, occupazione e anche ritorno fiscale. Uno Stato, un Ministero, Soprintendenze che rialzano la testa, riacquistano dignità, privilegiando merito e competenza. Musei pubblici che puntano su didattica di massa, ricerca, rapporto con città e territori, mostre di qualità e di riproposta e non ambiscono ad essere emporii, luna-park del consumo più o meno artistico. Su tutto ciò è importante discutere e il senso della nostra lettera è anche questo: non si possono assumere decisioni tanto importanti in chiave soltanto economicistica senza aver discusso a fondo i problemi strategici posti nel terzo millennio da un grande museo statale da anni in sofferenza come Brera il cui rilancio riteniamo indifferibile.

Vi riproponiamo di seguito il testo della lettera rivolta al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al presidente del Consiglio, Mario Monti e al ministro per i Beni e le Attività culturali, Lorenzo Ornaghi e ad essa alleghiamo l’elenco completo dei firmatari.

Gentile presidente della Repubblica, Gentile presidente del Consiglio, Gentile ministro per i Beni culturali,

leggendo con più attenzione il decreto, poi disegno di legge, sullo sviluppo approvato nei giorni scorsi, abbiamo amaramente constatato che all’art. 8 del medesimo è stato inserito un provvedimento che con lo sviluppo ha ben poco a che fare e che invece apre un varco, a nostro avviso decisivo, in direzione della trasformazione dei grandi musei italiani da pubblici a Fondazioni di diritto privato, con tutte le implicazioni che ciò comporta. Si stabilisce infatti la creazione della “Grande Brera” quale Fondazione privata incaricata di gestire la Pinacoteca Nazionale di Brera e i suoi beni, mobili e immobili.

Anzitutto notiamo che, nel “concerto” ministeriale predisposto per questo importante disegno di legge governativo, non figura il ministro competente per i Beni culturali il cui apporto (e ciò è gravissimo) viene giudicato palesemente inessenziale.

In secondo luogo l’art. 8 del decreto-legge n.83 del 22.6.12 ora convertito in legge, conferisce ad una Fondazione di diritto privato l’intera collezione di Brera, stratificatasi in due secoli, il grande immobile che la ospita (dal quale l’ex commissario Resca ha provveduto a sloggiare l’Accademia di Belle Arti antecedente alla Pinacoteca), nonché ulteriori beni mobili e immobili. E’ pienamente costituzionale un simile trasferimento? Rappresenta davvero una prosecuzione della tutela garantita dall’art. 9 della Costituzione al patrimonio storico-artistico? O non apre al contrario, da apripista, una fase del tutto nuova con l’ingresso di soci privati in un grande museo statale? Dopo la Grande Brera privatizzata, sarà più facile avere i Grandi Uffizi privatizzati o la Galleria Borghese, gli Archeologici di Napoli e di Taranto.

Fra l’altro nell’ultimo comma dell’art. 8 della legge Passera (Ornaghi assente) si dice che “la Fondazione può avvalersi di personale appartenente ai ruoli del Ministero per i beni e le attività culturali e degli enti territoriali che abbiano acquisito la qualità di soci promotori”. Può avvalersi: dunque può ancora non avvalersene, può essere tagliato in ogni momento il cordone ombelicale che lega da sempre questa Pinacoteca Nazionale al Ministero specificamente incaricato della tutela e al personale tecnico-scientifico che esso seleziona.

Il fine generale è quello di una “gestione secondo criteri di efficienza economica”. Il che, se ci consente, rappresenta uno schiaffo ai direttori dei grandi musei nazionali i quali stanno da mesi compiendo sforzi eroici per tenere aperte, vive e vitali tali istituzioni dovendo lottare con fondi ridotti al lumicino (negli ultimi dodici anni il bilancio ministeriale è crollato da 2,5 a 1,5 miliardi. Altro che “efficienza economica”. Questi valorosi servitori dello Stato e i loro predecessori hanno creato musei ammirati in tutto il mondo ed ora sono costretti ad una gestione non “secondo criteri di efficienza economica”, bensì in condizioni di umiliante sopravvivenza (i loro stipendi variano fra i 1700 e i 1900 euro netti). Una “economia di guerra” che minaccia lo sviluppo dello stesso turismo culturale, il solo in crescita, con pericoli continui di chiusure parziali o totali, con la riduzione o l’annullamento delle attività didattiche, per giovani e giovanissimi, e di quelle di ricerca ben più importanti culturalmente di altre attività prettamente “commerciali”.

Perché non si è discusso questa operazione-Grande Brera alla luce del sole? Perché si è esclusa da essa il Ministero per i Beni e le Attività culturali? Perché si è infilato un provvedimento di questa portata quasi nelle pieghe di un decretone per lo sviluppo? Eppure si tratta di una operazione che apre la strada, chiarissimamente, alla privatizzazione dei maggiori musei italiani, già tentata nel recente passato, lontana dai grandi modelli italiani ed europei, e che ora si fa passare nel fragoroso silenzio degli organi di informazione, della maggioranza degli intellettuali italiani e degli addetti ai lavori. Spettacolo avvilente rispetto alla reazione riservata anni fa ad una proposta, forse più ingenua, ma certamente più chiara e lineare, di privatizzazione avanzata dall’allora ministro Giuliano Urbani. In questo caso il ministro competente non c’è, non sente, non vede. Ci pensa il collega dello Sviluppo. Anche l’Arte è più che mai una merce. C’è ancora qualcuno che voglia discutere in positivo nel nostro Paese senza facili populismi, ma con serietà e rigore culturale?

Vittorio Emiliani, Maria Pia Guermandi, Tomaso Montanari (promotori)

Questa volta è colpa dei tarli del terzo millennio e dell’umidità, se la trave (moderna) ha ceduto a Villa dei Misteri e non si vedono ancora i benefici del grande piano per Pompei presentato in aprile da Monti e da quattro Ministri. Piano presentato in prefettura a Napoli. Non ancora, perché la prima seduta di gara per la valutazione dei progetti per le prime cinque domus pompeiane, prevista per l’11 settembre, è stata spostata al 17 causa ricorsi. Ma la macchina è avviata e ogni tre mesi circa le gare per i progetti saranno espletate con regolarità, informano in soprintendenza. Un meccanismo studiato alla perfezione, tanto da ottenere dall’Unione europea il finanziamento di 105 milioni su fondi Fesr: la salvezza di Pompei in quattro capitoli — messa in sicurezza di strutture e impianto urbano a partire da aree qualificate ad alto rischio dalla “Carta archeologica del rischio”; irreggimentazione e drenaggio

delle acque nell’area non scavata demaniale che incombe sulla strutture antiche (e che fu alla base del crollo della cosiddetta Casa dei Gladiatori a novembre di due anni fa); messa in sicurezza restauro e valorizzazione secondo la metodologia della conservazione già programmata e infine miglioramento della dotazione e delle competenze tecnologiche della soprintendenza. Ed anche in cinque punti, i piani esecutivi: quello della conoscenza, delle opere, della fruizione e del miglioramento di servizi, della sicurezza e del rafforzamento tecnologico e della capacity building.

Bei concetti. Ottime intenzioni. Ma innanzitutto secondo le valutazioni già espresse dai tecnici sotto la soprintendenza di Pier Giovanni Guzzo, le necessità economiche per salvare Pompei dal degrado al quale è esposta soprattutto da due anni in qua, non è di 105 milioni, ma almeno di 500 milioni. 44 ettari scavati, tre quarti dei 66 totali, 1500 domus, 3 km di perimetro e confine e 56 mila metri quadri considerati ad alto rischio sono cifre spropositate anche per la disponibilità dei fondi Fesr messi a disposizione dal-

l’Europa senza alcuna integrazione, anzi con previsione di ulteriori tagli da parte del governo italiano. Il recupero alla fruibilità, per il Grande Piano per Pompei, è infatti di 23 mila metri quadri soltanto: come si vede, la metà di quelli considerati a rischio.

Il tallone di Achille dell’area archeologica tra le più importanti al mondo, Patrimonio dell’Umanità per l’Unesco dal ‘97, continua a essere incredibilmente, una cosa che uno dei suoi più grandi scopritori, l’archeologo Amedeo Maiuri, aveva risolto con mezzi di molto inferiori allo spiegamento di forze che lascia intuire un progetto del terzo millennio. Si chiama ordinaria manutenzione. Ricordando che i fondi del Grande Piano sono europei, quello che lo Stato italiano ha fatto per Pompei è circoscritto all’invio — pure necessario — di 8 architetti, 12 archeologi e 1 amministrativo: una squadra a ranghi ridotti, di veri eroi, che sta lavorando senza tregua per l’analisi e la diagnosi dei luoghi. Una corsa contro il tempo e contro le precipitazioni atmosferiche. Una corsa con il fiato corto, perché il degrado arriva comunque prima. Manutenzione ordinaria invece era quella che è stata spazzata

via dai commissariamenti straordinari e dalla loro filosofia, tesa al conseguimento immediato di benefici dalla vita breve.

La salute di un monumento è provata dal termometro della quotidianità e quando il mercurio continua a scendere, senza portare a febbroni improvvisi ai quali porre rimedio diventa difficile. Fino a una quindicina di anni fa a Pompei esisteva una squadra che si occupava dei piccoli danni quotidiani. Crolli minimali o rischi prospettati di volta in volta attraverso ispezioni continue. Gli “ispettori” giravano con un piccone telescopico, che arrivava anche ad altezze elevate, con cui sondavano la tenuta delle pietre, lo stato dei legni, la forza dei perni e dei chiodi. In caso di dubbi, l’intervento era immediato. In questo modo la grancassa del crollo avvenuto, a cui assistiamo da alcuni anni, in cui si arriva a paradossi dove la notizia arriva prima alla tv e poi alla soprintendenza, sarebbe un sistema da dismettere perché finalmente inutile.

Tra i paradossi del governo tecnico di Mario Monti rischia di esserci la massiccia estromissione dei saperi tecnici dai ministeri, i quali stanno per essere consegnati al controllo assoluto della casta burocratica dei ministeriali, alla faccia della ‘società civile’. La spending review ha infatti stabilito che i comitati tecnico-scientifici ministeriali in scadenza vengano soppressi: il che ha provocato la morte di tutti quelli del ministero per i Beni culturali. Una piccola morte che si somma ad altri cupi segnali che sembrano annunciare una morte più grande: quella dello stesso Mibac.

Quest'ultimo, infatti, nacque come ministero essenzialmente tecnico: in un primo momento Massimo Severo Giannini propose addirittura di costituire, sotto il cappello politico del ministero, un’agenzia tecnica che fosse un grandissimo ufficio per l’organizzazione e il controllo della tutela del patrimonio storico e artistico italiano. Il perché è presto detto: a partire dall’articolo 9 della Costituzione (che lega indissolubilmente tutela e ricerca) il sistema italiano delle soprintendenze si è sempre basato sulla conoscenza. Come per decidere quali farmaci mettere in commercio ci vogliono i medici, così per dirigere gli Uffizi ci vuole uno storico dell’arte, e per conservare il Colosseo un archeologo. Era dunque perfettamente naturale che anche al vertice di questo sistema avessero spazio le competenze tecniche: e che, anzi, lì il ministero si aprisse ulteriormente, coinvolgendo docenti universitari e altri esperti. A questo servono (servivano) i comitati tecnico-scientifici: a offrire all’amministrazione e alla guida politica del Mibac gli elementi di fatto in base ai quali prendere le decisioni. Da domani, invece, non ci saranno più storici dell’arte a stabilire se una tavola di Giotto può o non può affrontare un viaggio a Pechino, e non saranno architetti o urbanisti a valutare se Pierre Cardin può costruire la sua torre di 250 metri alle porte di Venezia. No: saranno i direttori generali, e cioè direttamente la struttura burocratico-politica. E c’è un’ulteriore conseguenza: i presidenti dei comitati componevano per metà il Consiglio superiore dei Beni culturali, l’organo che dovrebbe dare l’indirizzo all’intera opera del ministero, e che si trova ora ridotto a una piccola corte di nominati dal ministro (il cui presidente annunciato sarà un filosofo del diritto: sempre a proposito di competenza tecnica!). Il giacobinismo contabile della spending review dà il colpo di grazia a un sistema al lumicino: soprintendenze massacrate nell’organico, tutela sacrificata al marketing della valorizzazione, finanziamenti da allarme rosso , ministri flaccidi e incompetenti. Se c’è una strategia è quella di distruggere la tutela pubblica, per poter poi dire (come si è appena fatto per la Pinacoteca di Brera): ‘Ma qui non funziona nulla: diamo tutto ai privati!’. In tutto questo, l’esecutore testamentario del Mibac, professor Lorenzo Ornaghi, tace.

Il labirinto di Borges, realizzato in ricordo dello scrittore nei giardini della Fondazione Cini sull'Isola di San Giorgio a Venezia, è emblematico degli intricati e rischiosi percorsi da intraprendere per tutelare e valorizzare i nostri Beni culturali. In Italia i musei sono più di tremila, ma anche le fonti istituzionali divergono sul loro numero. Poi ci sono le aree archeologiche, gli archivi e le biblioteche. E su di essi, ogni giorno emergono ritardi o controversie: la biblioteca dell'Istituto per gli Studi filosofici di Napoli finita negli scatoloni, l'opposizione degli storici dell'arte alla nascita della Fondazione Brera a Milano, lo Stato che non paga l'ultima tranche per concludere il restauro alla Galleria dell'Accademia a Venezia.

«C'è un problema di efficienza, non solo una mancanza di fondi pubblici, che vengono spesi male», afferma Pasquale Gagliardi, dal 2002 Segretario Generale della Fondazione Cini, con un passato manageriale e di studioso delle istituzioni culturali. «I burocrati di stato trovano spesso spiegazioni cavillose per giustificare inadempienze; affidarsi ai privati significa, invece, correre il rischio che qualcuno consideri beni o finanziamenti pubblici qualcosa di cui approfittare. C'è, da un lato, un problema di denaro pubblico a volte gestito con scarso riguardo. Dall'altra la bramosia di chi non percepisce il valore di gestire risorse comuni». Trovare la via che porti fuori da questo labirinto non è facile, e la strada è stretta: «In Italia manca un'etica pubblica diffusa; ma in nessun Paese del mondo la cultura si fa solo con soldi pubblici. Servono dei privati per i quali l'investimento culturale è una forma di restituzione alla società». Solo che la fenomenologia di questi investimenti, quando ci sono, rivela che i privati (individui, società o fondazioni), prediligono sostenere istituzioni che danno lustro, come la Scala o la Fondazione Cini, trascurando il territorio diffuso, del quale si deve sempre far carico lo Stato.

«Questo perché in Italia manca il mecenatismo classico — dice Gagliardi — e perché è assente un adeguato sistema per la defiscalizzazione dell'investimento culturale. Negli Stati Uniti c'è la corsa per avere il proprio nome sulla targhetta sotto un quadro. Da noi c'è troppo familismo anche in questo. Si lasciano i beni agli eredi, raramente alla società. L'Italia è un Paese di clientele, di salotti buoni, di imprese piccole e poco attente al sociale». Ne consegue che, quando il privato investe in cultura, spesso siamo di fronte a casi di narcisismo individualistico o alla richiesta di poter avere «mani libere» senza lacci e lacciuoli, in un'ottica poco moderna. «Spesso si vogliono abolire i controlli di legge; ma quando si chiede la piena autonomia si sbaglia. Ci vuole un giusto controllo. Anche l'Istituto per gli Studi filosofici, forse, era da gestire in maniera diversa». Meno personalistica? «Non esiste una cultura che non va controllata, che si giustifica in quanto tale. Anche la Cini, per anni, non era interessata al numero di visitatori e non si occupava di quanto fossero distribuiti i libri da lei promossi. La cultura non ha prezzo è uno slogan senza senso». Ma è auspicabile affidare la memoria collettiva a un soggetto privato? Se i «nuovi privati» fossero arabi, russi? «Sarei contrario. I beni sono un patrimonio collettivo e vanno assicurate garanzie e benefici collettivi».

E allora che fare? «Agire in partnership, con finanziamenti privati e statali legati a progetti condivisibili. L'economia non è la negazione della cultura. Lo stato non può fare da solo, bisogna fare connubio. Ma ci vuole anche un personale pubblico partecipe, con qualità tecniche e morali. Quando Pasquale Gagliardi, Segretario Generale della Fondazione Cini dal 2002 gli storici dell'arte si oppongono ai privati, mi sembra un riflesso spontaneo. Talvolta, ciò, è proprio anche dei sovrintendenti, ma non qui a Venezia, dove con Renata Codello abbiamo collaborato con intesa e ottenendo risultati. Ci ha anche difesi nel contrastato intervento alla manica lunga e nel rifacimento del refettorio palladiano». Per la gestione dei musei, dunque, «si potrebbe puntare sulle fondazione di partecipazione, che mantengono un equilibrio tra bene pubblico e progetto privato mirato». Progetti che, alla Cini, riescono meglio anche per la fortissima attrazione del luogo. «Potremmo dare vita — conclude Gagliardi — a laboratori per artisti contemporanei oppure ospitare scrittori che intendono scrivere un racconto su Venezia». Anish Kapoor, Vilcram Seth e il Nobel V.S. Naipaul si sono già assicurati un posto vista San Marco.

Gentile presidente della Repubblica, Gentile presidente del Consiglio, Gentile ministro per i Beni culturali,

leggendo con più attenzione il decreto-legge n. 83 per lo sviluppo divenuto legge nei giorni scorsi, abbiamo amaramente constatato che all’art. 8 del medesimo è stato inserito un provvedimento che con lo sviluppo ha ben poco a che fare e che invece apre un varco, a nostro avviso decisivo, in direzione della trasformazione dei grandi musei italiani da pubblici a Fondazioni di diritto privato, con tutte le implicazioni che ciò comporta. Si stabilisce infatti la creazione della “Grande Brera” quale Fondazione privata incaricata di gestire la Pinacoteca Nazionale di Brera e i suoi beni, mobili e immobili. Tutto ciò anche dopo il confuso “pasticcio” della Fondazione Museo Egizio di Torino.

Anzitutto notiamo che, nel “concerto” ministeriale predisposto per questo importante disegno di legge governativo, non figura il ministro competente per i Beni culturali il cui apporto (e ciò è gravissimo) viene giudicato palesemente inessenziale.

In secondo luogo l’art. 8 del decreto-legge n.83 del 22.6.12 ora convertito in legge, conferisce in uso ad una Fondazione di diritto privato l’intera collezione della Pinacoteca di Brera, stratificatasi in due secoli e il grande palazzo che la ospita. accanto ad altre istituzioni e cioè l’Accademia di Belle Arti - che l’ex commissario Mario Resca ha provveduto a sloggiare, là insediata prima della creazione della Pinacoteca - la Biblioteca Nazionale Braidense, l’Osservatorio astronomico, l’Orto botanico, l’Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere. Istituti tuttora operanti, viva eredità culturale dell’illuminismo lombardo che la scissione operata dalla Fondazione farebbe deflagrare. E’ pienamente costituzionale un simile trasferimento? Rappresenta davvero una prosecuzione della tutela garantita dall’art. 9 della Costituzione al patrimonio storico-artistico? O non funge al contrario, da apripista, per una fase del tutto nuova con l’ingresso di soci privati in un grande museo statale? Dopo la Grande Brera privatizzata, sarà più facile avere i Grandi Uffizi privatizzati o la Fondazione Galleria Borghese, privata come gli Archeologici di Napoli o di Taranto. Col pretesto, ribadito più volte dal ministro Ornaghi, che, tanto, lo Stato non ha più soldi.

Fra l’altro nell’ultimo comma dell’art. 8 del decreto-legge Passera (Ornaghi assente) si dice che “la Fondazione può avvalersi di personale appartenente ai ruoli del Ministero per i beni e le attività culturali e degli enti territoriali che abbiano acquisito la qualità di soci promotori”. “Può” avvalersi: dunque può anche non avvalersene, può essere tagliato in ogni momento il cordone ombelicale che lega da sempre questa Pinacoteca Nazionale al Ministero specificamente incaricato della tutela e al personale tecnico-scientifico che esso seleziona.

Il fine generale è quello di una “gestione secondo criteri di efficienza economica”. Il che, se ci si consente, rappresenta uno schiaffo ai direttori dei grandi musei nazionali i quali stanno da mesi compiendo sforzi eroici per tenere aperte, vive e vitali tali istituzioni dovendo lottare con fondi ridotti al lumicino (negli ultimi dodici anni il bilancio ministeriale è crollato da 2,5 a 1,5 miliardi). Altro che “efficienza economica”. Questi valorosi servitori dello Stato e i loro predecessori hanno creato musei ammirati in tutto il mondo ed ora sono costretti ad una gestione non “secondo criteri di efficienza economica”, bensì in condizioni umilianti di mera sopravvivenza (i loro stipendi variano fra i 1700 e i 1900 euro netti). Una “economia di guerra” che minaccia e ostacola lo sviluppo dello stesso turismo culturale, il solo in crescita, con pericoli continui di chiusure parziali o totali, con la riduzione o l’annullamento delle attività didattiche, per giovani e giovanissimi, e di quelle di ricerca ben più importanti culturalmente di altre attività prettamente “commerciali”.

Perché non si è discusso di questa operazione-Grande Brera alla luce del sole? Perché si è escluso da essa il Ministero per i Beni e le Attività culturali? Perché si è infilato un provvedimento di questa portata nelle pieghe di un decretone per lo sviluppo? Eppure si tratta di una operazione che apre la strada, chiarissimamente, alla privatizzazione dei maggiori musei italiani, già tentata nel recente passato, lontana dai grandi modelli italiani ed europei, e che ora si fa passare nel fragoroso silenzio degli organi di informazione, della maggioranza degli intellettuali italiani e degli addetti ai lavori. Spettacolo avvilente rispetto alla reazione riservata anni fa ad una proposta, forse più ingenua, ma certamente più chiara e lineare, di privatizzazione dei Musei statali avanzata dall’allora ministro Giuliano Urbani. In questo caso il ministro competente non c’è, non sente, non vede. Ci pensa il collega dello Sviluppo. Anche l’Arte è più che mai una merce. C’è ancora qualcuno che voglia discutere in positivo nel nostro Paese senza facili populismi, ma con serietà e rigore culturale?

Per aderire alla lettera aperta: http://www.petizionionline.it/petizione/no-alla-grande-brera-privatizzata/7783

I promotori:

Vittorio Emiliani, Maria Pia Guermandi, Tomaso Montanari

I primi sottoscrittori:

Giovanni Pieraccini, Alberto Asor Rosa, Salvatore Settis, Vezio De Lucia, Carlo Ginzburg, Luigi Manconi, Andrea Emiliani, Desideria Pasolini dall’Onda, Gianfranco Amendola, Paolo Maddalena già vice-presidente Corte costituzionale, Rosellina Archinto, editore, Catherine Loisel, Conservateur en chef Musée du Louvre, Pier Luigi Cervellati, Jonathan Bober, Curator of Old Master Prints National Gallery of Art Washington, D.C., Giovanna Pesci Enriques, presidente Ass. Artelibro, gli archeologi Licia Borrelli Vlad, Mario Torelli, Pietro Giovanni Guzzo, Carlo Pavolini, Gino Famiglietti, direttore generale MiBAC per il Molise, Carlo Alberto Pinelli, Corrado Stajano, Donella e Gianandrea Piccioli, Matteo Ceriana, direttore Gallerie dell’Accademia di Venezia, Rita Paris, direttrice Museo Archeologico Nazionale di Palazzo Massimo, Roma, Luisa Ciammitti, direttrice Pinacoteca Nazionale di Ferrara, Anna Lo Bianco, Direttrice Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini, Roberta De Monticelli, Jennifer Montagu, Warburg Institute, London, Danielle Mazzonis già sottosegretario ai Beni culturali, Giovanna Borgese, gli storici dell’arte Antonio Pinelli, Università di Firenze, Francesco Caglioti, Università Federico II Napoli, Andrea De Marchi, Università di Firenze, Massimo Ferretti, Scuola Normale Superiore Pisa, Michele Dantini, Università del Piemonte Orientale, Angela Ghirardi, Università di Bologna, Nicola Caracciolo, vicepresidente Italia Nostra, i consiglieri nazionali di Italia Nostra: Ebe Giacometti, Franca Leverotti, Maria Rita Signorini, Laura Cavazzini, Università di Messina, Fiorella Scricchia Santoro, Sofia Boesch Gajano, Pierluigi Carofano, Scuola speciale BC Siena, Federica Tonioli, Arte medievale Università di Padova, Maria Letizia Gualandi, presidente Corso di laurea BC, Pisa, Anna Bisceglia, Galleria Palatina Firenze, Cristiano Giometti, Felicia Rotundo, Soprintendenza Siena-Grosseto, Maria Chiara Cadore, Soprintendenza Friuli-Venezia Giulia, i docenti dell’Accademia di Belle Arti di Brera, Flaminio Gualdoni, Francesca Valli, Valter Rosa, Sandro Scarrocchia e Stefano Pizzi, Giuliana Ericani, direttore Museo Civico di Bassano, Ezio Cuoghi, direttore della scuola di Nuove tecnologie dell’arte dell’Accademia Belle Arti di Brera, Mario Curia, editore d’arte (Mandragora), Alessandra De Vita, Progetto Ercolano, Antonio Porto, economista, Helen Ampt, Maria Luisa Catoni, Ist. di studi avanzati, Lucca, Maria Fratelli, dirigente settore Musei comunali Milano, Oriana Orsi, ispettrice Musei Civici Imola, i docenti Alberto Lucarelli, Diritto pubblico, Napoli, Claudio Greppi, Dipartimento di Storia, Siena, Lia Formigari, Dipartimento Filosofia, Sapienza Roma, Flavio Fergonzi, Università di Udine, Alberto Gajano, Università di Siena, Francesca Brezzi, Filosofia morale Roma 3, Giuliana Ricci, Storia dell’Architettura Politecnico di Milano, Francesco Petrucci, Fisica applicata ai Bc, Ferrara, Filippo Maria Pontani, Università di Venezia, Rossano Pazzagli, storico, Università del Molise, Massimo Quaini, Università di Genova, Reinhold Mueller, già docente Storia Medioevale Cà Foscari, Maurizio Bertolotti, presidente Istituto Mantovano di Storia contemporanea, Giulia Rodano, consigliere regionale Lazio, Paolo Berdini, urbanista, Sauro Turroni, architetto, Francesca Alesse, ricercatrice CNR, Lorenzo Carletti, CNR Pisa, Nino Criscenti, Gianni Sofri, Mariolina Olivari, Franco D’Emilio, segretario Confsal-UNSA Emilia-Romagna, Alessandro Nova, Patrimoniosos, Francesco Poli, Alberto Cornice, Daniela Pinna, Anna Stanzani, Sergio Landucci, Francesca Salatin, Mirella Cavalli, Piero Bevilacqua, storico, Università La Sapienza, Roma, Giampaolo Ermini, Giandomenico Cifani, Italia Nostra L’Aquila, Iginio Tironi, Mariolina Olivari, vicedirettrice Brera, Francesca Flores d’Arcais, Emanuela Fiori, Maria Cristina Passoni, Maria Beretta, Filomena Cioppi, Fabio Torchio, Simona Lecchini Giovannoni, Gennaro Luongo, Università di Napoli “Federico II”, Alberto Primi, Paolo Togni, Serena Sandri, Cinzia Neri, Cristina Quattrini, Sabina Spannocchi, Laura Fenelli, Alfredo Stussi, Armanda Pellicciari, Andrea Conti, Gianni Negrelli, Cecilia Ghibaudi, Edoardo Villata, Francesca Mattei, Antonello Nave, docente e storico dell'arte, Firenze, Irene Berlingò, presidente Assotecnici, Marco Vincenzo, Mattia Patti, Cecilia Frosinini, Enzo Mecacci, segretario Accademia degli Intronati, Siena, Massimo Maugeri, Annalisa Pezzo, Biblioteca comunale degli Intronati, Siena, Elisa Angelini, Anna Colombi Ferretti, Maria Maddalena Lombardi, Paola Delbianco, Biblioteca Civica Gambalunga Rimini, Chiara Toschi Cavaliere, presidente Italia Nostra Ferrara, Andrea Bacchi ,Università di Trento, Angela Donati, Università di Bologna, Giuseppe Arcidiacono , docente Composizione Arch. Un. Reggio Calabria, Paolo Bensi , docente Storia sociale Dip. Arch. Genova, Fabrizio Lollini , Università di Bologna, Alessandro Volpe , Università di Bologna, Federico Fischetti , storico dell'arte Sopr. di Modena-Reggio E., Patrizia Cuzzani , responsabile Museo della Resistenza Bologna, Oretta Solaroli, Daniela Trastulli, regista, Luca Errera, Nicoletta Serio, Cecilia Cavalca, Fulvio Cervini, Università di Firenze, Fulvio Frati, Michela Metri, Maria Genova, Orietta Piolanti, Maria Luisa Polichetti, ex direttrice ICCD, Rita Cassani, Pinacoteca Nazionale di Ferrara, Stefano Pezzoli, Istituto Beni Culturali, Bologna, Elisa Griglione, Maria Malatesta, Università di Bologna, Maria Luisa Masetti, Stefano Conti, Manuela Mattioli, restauratrice, Cristiana Mancinelli Scotti, Elena Montanari, Soprintendenza BSAE Mantova, Alessandra Basso, Claudia Cavatorta, CSAC - Università di Parma, Pierangelo Cavanna, Ferruccio Farina, il Consiglio Scientifico del "Centro Interdipartimentale di Ingegneria per i Beni Culturali" dell'Università di Napoli Federico II: Salvatore D'Agostino, Gennaro Improta, Paola D'Agostino, Metropolitan Museum di New York, Anna Esposito, Luciana Sepe, Patrizia Piscitello, Polo Museale Napoli, Maria Paola Pilandri, Soprintendenza Beni Architettonici e Paesaggistici di Ravenna, Ferrara, Forlì-Cesena, Rimini, Marina Gerra, Soprintendenza Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici, Parma, Marina Angelini,

Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, Elena Pedrotti, Claudio D'Amico, Università di Bologna, Enrico Venturelli, Nicoletta Serio, Fulvia Donati, Università di Pisa, Anna Bacchilega, Serena Romano, Université de Lausanne, Maria Perla Colombini, pres. Ass. Italiana Archeometria, Chimica, Università Pisa, Marinella Pigozzi, Università di Bologna, Stefania Biancani, Massimo Teodori, Alberta Fabbri, Museo d'arte di Ravenna, Corinna Giudici, direttore Archivio foto Soprintendenza Bologna, Gian Marco Vidor, Berlino, Giuseppe Adani, presidente del C.s. Fondazione Il Correggio, Roberto Spocco, Archivio Storico Comunale Parma, Renato Parascandolo, già direttore di Rai Educational, Nicola Spinosa, già Soprintendente Polo Museale Napoli, Massimiliano Biscuso, Silvia Alessandri, Alessandra Malquori, Enrica Ambrosini, Paola Pirolo, Lidia Bortolotti, IBC Servizio Musei, Bologna, Gianfrando Draghi, Michele Feo, Paola Italia, Nino Vaccaro, Angela Nannetti, Francesco Federico Mancini, Marina Miraglia, Paola Cavazzuti, Luciano Puccianti, Maria Grazia Bernardini,

Direttore Museo Nazionale di Castel Sant'Angelo, Linda Guzzetti, Raffaella Fontanarossa, Paola Tumminelli, Alessandra Sarchi, Pierangelo Cavanna, Silvia Camerini Maj, Vincenzo Marzo, Bruno Santi, ex soprintendente, Giovanna Monetti, Daniele Fratini, Maria Giovanna Vezzalini, Cesare Benzoni, Maria Monica Donato, Scuola Normale Superiore - Pisa, Luigi Schiavulli, Gianni Lodi, Benedetta Campana Heinemann, Berlino, Uwe Heinemann, Berlino, Donata Vicini, già direttore dei Musei Civici di Pavia, Letizia Lodi, Direttore Museo Certosa di Pavia, Sbsae di Milano, Claudia Salmini, Bruno Taddei, Luisa Tognoli Bardin, Silvia Baroni, Stefano Monetti, Veronica Lisino, Gabriella Prisco, già ISCR, Flavia Matitti, Accademia di Belle Arti di Firenze, Enrico Parlato, Paolo Castellani, Polo Museale della città di Roma, Paola Pettenella, Responsabile settore archivi storici del Mart, Erminia Irace, Università di Perugia, Emanuela Rollandini, conservatore

Castello del Buonconsiglio, Trento, Alessandro Pasetti Medin

Soprintendenza Beni Storico-Artistici di Trento, Lia Camerlengo

conservatrice del museo del Castello del Buonconsiglio, Trento, Paola Bassani, Adriana Capriotti, Polo Museale della Città di Roma, Beatrice Sica, Grazia Gobbi Sica, Alberto Caprioli, compositore e direttore d’orchestra, Luisa Giordano, Renata Casarin, Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici di Mantova, Brescia e Cremona, Barbara Fabjan, Alba Costamagna, Maria Virginia Cardi, Accademia di Brera di MIlano, Giulia Mastrapasqua, Comune di Milano, Paola Porcinai, Ugo Locatelli, architetto e artista.

T. Montanari, Nicole, ti ritroveremo a Brera?; V. Emiliani, Se Brera diventa privata; T. Montanari, Ministro, faccia il suo lavoro ; Emiliani-Del Frà, No alla Grande Brera privata

Invito i lettori di questo blog a firmare l’appello che chiede al presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio e al ministro per i Beni Culturali di non imboccare la strada della privatizzazione della Pinacoteca di Brera.

Negli ultimi due post del blog (e in non pochi dei vostri commenti), troverete alcune delle ragioni per cui credo che la creazione della fondazione di diritto privato della ‘grande Brera’ sia un errore in sé, e un primo, micidiale passo verso la privatizzazione del patrimonio storico e artistico italiano. Ma c’è una ragione morale, e dunque più profonda e radicale, della quale finora non ho parlato e che però è stata evocata dalle reazioni milanesi.

In un’intervista al Corriere della sera, il ministro Lorenzo Ornaghi ha smentito di voler privatizzare, ma ha contemporaneamente dichiarato che la sua missione principale, nel caso di Brera e non solo, è quella di «trovare finanziatori privati illuminati».

Ma quale progetto di nazione tradisce un’affermazione come questa? Certo non il progetto che la nostra Costituzione ha tracciato.

Con l’articolo 9 della Carta il patrimonio storico e artistico cambia funzione: dopo secoli in cui esso ha rappresentato il dominio dei sovrani degli antichi stati italiani, ora esso rappresenta visibilmente la sovranità dei cittadini. Di più: esso è uno straordinario strumento per costruire l’eguaglianza sostanziale dei cittadini e attuare l’unità nazionale. Brera appartiene a Mario Monti come al portiere del suo condominio: e a un milanese come a un pugliese. E lo garantiscono il fatto che Brera sia mantenuta con le tasse di tutti, e il fatto che sia governata da storici dell’arte assunti, per merito, con un concorso pubblico.

Conferire Brera a una fondazione vuol dire spezzare questo fascio di significati. Quando Stefano Boeri plaude alla scelta del ministro, conformandosi alla ‘Milano ornaghiana’, lo fa sostenendo che in questo modo il museo sarà più vicino al territorio: ma questo miope cedimento culturale al leghismo non tiene conto del fatto che Brera appartiene alla comunità nazionale, anzi ne è un segno visibile. Quando gli enti locali lombardi nomineranno i vertici della ‘loro’ Brera e quelli campani faranno altrettanto con il loro Capodimonte, cosa rimarrà del progetto per cui i costituenti vollero il patrimonio ‘della nazione’ tra i principi fondamentali dell’Italia nuova?

E quando Ornaghi cerca «finanziatori illuminati» egli fa regredire il patrimonio in una condizione di dipendenza dalla ricchezza privata: una minorità da ancien régime, aggravata tuttavia da un fatto capitale. La ricchezza privata, in Italia, drena la ricchezza pubblica per colpa di un’evasione fiscale così massiccia da renderci interlocutori non credibili agli occhi degli altri stati membri dell’Unione europea. Dunque, da una parte lasciamo illecitamente la ricchezza nelle tasche private a detrimento della cassa pubblica: e poi mendichiamo l’aiuto della ricchezza privata per mantenere il patrimonio artistico di tutti. Derubati, supplichiamo i ladri di mantenere i beni di tutti.

Ma questo aiuto non sarà dato gratuitamente. Il Museo Egizio di Torino è presieduto da un membro della famiglia reale italiana, quella degli Agnelli. Il quale tra pochi giorni lascerà il posto alla moglie del presidente di Telecom Italia e Generali. Così il patrimonio che doveva servire alla costruzione dell’eguaglianza torna a veicolare e legittimare significati di profonde differenze sociali. Non è difficile immaginare Brera nelle mani della Milano già da bere, fino a ieri cupamente berlusconiana, e quindi crepuscolarmente formigoniana.

L’Egizio prima e ora Brera tornano simboli del primato della Casta: un primato fondato sul privilegio, e sull’illegalità dell’evasione fiscale più gigantesca d’Europa. Anzi, meno che simboli: orpelli da affidare ai cadetti incapaci, o alle mogli (relegate da una delle borghesie più maschiliste del mondo ad occuparsi del ‘bello inutile e innocuo’ dell’arte). I musei gestiti con la condiscendenza della beneficenza: luoghi da cui bandire il rigore della scienza e la formazione dei cittadini, e da piegare invece fino a ridursi cornici docili per i riti di autocelebrazione di una ricchezza incivile e ignorante. Il mito è, naturalmente, quello americano: ma si dimentica che i musei americani sono collezioni di milionari infine consacrate alla proprietà e al godimento pubblici, quelli italiani saranno collezioni pubbliche privatizzate contra legem. La diffidenza – direi l’odio – per lo Stato che trasuda dai commenti dei fautori dell’ingresso dei privati nel governo di Brera viene motivata con un’esigenza di efficienza: ma è palpabile l’insofferenza per tutto ciò che è ‘pubblico’.

La Fondazione di Brera non è solo uno sfregio alla Costituzione e al Codice dei Beni culturali, una lesione dei diritti dei lavoratori, una minaccia allo statuto scientifico del museo e alla libertà e al primato della conoscenza. No, è anche un passo drammatico verso la perversione del patrimonio: da strumento pubblico (cioè di tutti) di costruzione dell’eguaglianza costituzionale a trofeo del nuovo feudalesimo castale che sta nascendo dalle ceneri di un Paese senza progetto.

L'appello su eddyburg

Per firmare l’appello

Brera ai privati? No, grazie

Luca Del Fra

E’ intorno alla Grande Brera che si combatte la nuova battaglia della cultura italiana: insorgono

intellettuali, storici dell’arte, tecnici, giornalisti,asserragliati e combattivi attorno a un appello al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Indirizzata anche al Presidente del Consiglio Mario Monti e al ministro Lorenzon Ornaghi, la missiva ha sollevato un vespaio poiché sotto i toni pacati nasconde un j’accuse contro l’ennesima privatizzazione di una delle più importanti istituzioni culturali italiane.

Di grande intorno a Brera infatti per ora si profila solo l’ennesimo pasticcio, ovvero la creazione

di una fondazione privata che prenda in gestione la sede e il patrimonio della Pinacoteca Nazionale,

un classico colpo di mano agostano, inserito all’articolo 8 al momento della conversione in legge del decreto sviluppo, provvedimento peraltro a firma di Passera, ministro dell’Economia e non del suo collega Ornaghi dei Beni Culturali. Nelle sonnacchiose giornate estive la cosa era passata quasi inosservata finché non ha sollevato il caso su l’Unità Vittorio Emiliani, primo firmatario dell’appello, cui hanno aderito circe 120 intellettuali tra cui Settis, Asor Rosa, Guermandi, Ginzburg, Montanari, oltre a restauratori, funzionari del Mibac, e il vicepresidente emerito della Corte Costituzionale Paolo Maddalena. «È pienamente costituzionale un simile trasferimento» della gestione a una fondazione privata? Domandano al capo dello Stato, e proseguono: «Rappresenta

davvero l’applicazione della tutela garantita dall’articolo 9» della Carta?

Naturalmente sono domande retoriche, visto che tutti i grandi musei europei, tra cui quelli italiani, sono dello Stato e non privati. Così, prosegue l’appello, si apre la strada a una privatizzazione degli Uffizi, della Galleria Borghese e così via, malgrado la fondazione privata si sia dimostrata un modello gestionale spesso disastroso, come il ministro Ornaghi sa bene avendo ancora per le mani i cocci del Maxxi, il Museo delle Arti del XXI secolo, nato appena tre anni fa proprio come fondazione privata e di recente commissariato.

Ma è soprattutto il rilievo finale degli appellanti a essere decisivo: «Nell’ultimo comma dell’articolo 8 –scrivono– si dice che “la Fondazione può avvalersi di personale appartenente ai ruoli del Ministero per i Beni Culturali”. Dunque può anche non avvalersene, può essere tagliato in ogni momento il cordone ombelicale che lega la Pinacoteca Nazionale al Ministero e al personale tecnico scientifico». Secondo il provvedimento, insomma, la grande collezione di Brera potrebbe essere affidata perfino a un personale non qualificato. Un rischio più reale di quanto si creda, considerandola progressiva sparizione degli egittologi dal Museo Egizio di Torino dopo la sua trasformazione in fondazione privata.

Il fronte del no alla fondazione in queste ore si è molto allargato, arrivando a includere perfino

Mario Resca, manager che non ha mai nascosto la sua simpatia per i metodi del «privato nella cultura» e conosce bene la situazione essendo stato per tre anni commissario straordinario di Brera:

«Costituire una fondazione –ha dichiarato–, significa abdicare, è uno smacco». L’affidamento a

una fondazione dei locali di Brera poi corrisponderebbe allo sfratto di altre istituzioni culturali

che coabitano con la pinacoteca: l’istituto Lombardo di Scienze, Lettere e Arti, la Biblioteca Braidense, l’Orto Botanico, l’Osservatorio astronomico oltre all’Accademia di Belle Arti, la prima scintilla da cui è nato l’intero complesso, cui è stata comunque già affidata una nuova sede, ancora da restaurare. «È una coabitazione difficile –spiega la docente di Storia dell’arte Francesca Valli– ma rappresenta una importante eredità dell’Illuminismo lombardo che andrebbe conservata».

All’eredità culturale si aggiungono le osservazioni di Patrizia Asproni presidente di Confcultura,

che benché da posizioni ultraliberiste osserva: «In questo Paese la creazione di nuovi “enti” porta

alla superfetazione normativa, burocratica e alla corsa alla poltrona. Pensare al contenitore giuridico, prima che al contenuto è quello che accade sempre in Italia. Da un governo di tecnici ci

aspettavamo qualcosa di meglio».

Un cavallo di Troia per far saltare il sistema statale

Vittorio Emiliani

Nasce di soppiatto malgrado il nome ambizioso, la fondazione di diritto privato Grande Brera, e nasce male, senza quel serio, informato dibattito preventivo che un’operazione di questa portata esige. Nasce con un articolo infilato, all’ultima ora, nella balena del decretone per lo sviluppo, lasciando fuori dal «concerto» interministeriale il ministro per i beni culturali. Roba da matti. Ma

Ornaghi è felice, la sostiene e porta alcuni esempi. A partire dal Museo Egizio di Torino, che sin qui ha suscitato più polemiche che altro: non tutte le collezioni sono state devolute alla Fondazione con una perdita di valore fondamentale; il personale tecnico-scientifico ha preferito rimanere con lo Stato e quindi alla Fondazione è mancato un apporto unico, in compenso il CdA ha nominato direttrice (caso unico) una non egittologa… Questo il luminoso precedente?

Ornaghi cita Venaria Reale che nulla ha che fare con la complessità della Pinacoteca di Brera nata nel primo ‘800 da una razzia «politica» di migliaia di opere soprattutto umbre, marchigiane, emiliano-romagnole ad opera del figliastro dimNapoleone e dalla successiva stratificazione di donazioni. Pinacoteca, fra l’altro, venuta dopo l’Accademia di Belle Arti e altre istituzioni culturali importanti, espressione del miglior illuminismo lombardo. Con problemi, certo, che non risolverà la privatizzazione e quindi la sua scissione da quel contesto storico. Nella Fondazione entreranno il Comune (soldi pochi), la Regione (idem), la Camera di Commercio e i privati. Questi ultimi vorranno dei benefici, dei ritorni, magari dei profitti, specie con l’Expo 2015.

Ma nessun museo europeo o americano - non il Grand Louvre, non il Metropolitan Museum - è autosufficiente o «rende». Ha invece bisogno, di puntuali iniezioni di denaro pubblico, federale, locale, nazionale. Lo stesso ex soprintendente di Brera Carlo Bertelli è prudente, suggerisce una indagine ministeriale sul reale funzionamento delle Fondazioni italiane. Perplessa pure Patrizia Asproni (cultura di Confindustria), che pure ad un convegno romano sbottò: «Io il Ministero dei

Beni culturali lo butterei e darei tutto all’Economia». Inaspettatamente negativo Mario Resca fresco ex commissario di Brera, che caldeggia, con buon senso, una seria politica di detassazioni per i privati. Questo ci si aspettava da un governo di tecnici per rilanciare cultura e ricerca, motori di una

nuova economia, e invece….

C’è chi propone un Polo Museale Brera-Cenacolo autonomo per tenersi a Milano gli incassi. Attenti perché il Polo Museale romano ha speso 3,5 milioni (di cui 700.000 per l’allestimento) per la solita solfa caravaggesca, stroncata dai più, lasciando i propri musei al verde. Ci vuole una politica nazionale per i beni culturali. Ci vogliono progetti seri e fondati da proporre ai privati. Non un ambiguo e macchinoso cavallo di Troia destinato a far saltare il sistema museale statale.

Per firmare l’appello contro la privatizzazione di Brera

agosto). “Gli scandali culturali e la loro riduzione a fatti economici o di bilancio tormentano, in un degrado sonnolento, il nostro futuro”, continua il giurista, che cita il saccheggio della biblioteca napoletana dei Girolamini, denunciato dal Fatto, e “lo scempio che sta perpetrandosi a Venezia con le navi che devastano il Canal Grande e il Canale della Giudecca. E le presuntuose ristrutturazioni commerciali operate da altrettanto presuntuosi archistar, di edifici storici, o progetti di nuove opere, autorevolmente con vigorosa preoccupazione denunciate da Salvatore Settis”. Se non di questo, di che si occupa il ministro Ornaghi?

Dopo il mio articolo sull’avvio della privatizzazione della Pinacoteca di Brera (Fatto, 17 agosto) e uno analogo di Vittorio Emiliani (Unità, 20 agosto) decine di intellettuali stanno firmando una durissima lettera in cui si chiede a Napolitano e a Monti di fermare il processo imposto a Ornaghi dal supercollega Corrado Passera, e di aprire un vero dibattito pubblico sulla gestione del patrimonio storico e artistico della nazione tutelato dalla Costituzione.

Il primo atto di questa discussione si è svolto ieri sul Corriere, dove un’intervista al ministro Ornaghi sembra il manifesto del disimpegno, del pilatismo, dell’abdicazione dello Stato dalla propria missione .

“Non ci sono manovre di svendita ai privati. Meno che mai progetti di privatizzare gli Uffizi o la Galleria Borghese”, dice Ornaghi. Che nelle stesse righe, tuttavia, dichiara che bisognerà trovare dei privati disposti a finanziare la Grande Brera. Ci faccia capire, signor Ministro. Lei i soldi per Brera non li chiede a Monti o a Passera, ma li chiede ai privati: gli stessi privati ai quali garantisce di non voler fare nessuno spazio nella conduzione dei musei. E, di grazia, chi sarebbero i privati disposti a regalare alla comunità quei milioni che la comunità non sembra più disposta a impiegare per se stessa? Dove sarebbero i mecenati pronti a finanziare gratuitamente il patrimonio di una nazione immemore di se stessa? Quali sarebbero gli strumenti legislativi e fiscali, e dove l’orizzonte culturale, di un mecenatismo all’americana, disposto a finanziare i musei per ottenere dividendi di legittimazione culturale? Io vedo solo enti locali pronti a lottizzare i Cda dei grandi musei (chi sarebbe felice di un Formigoni che mette bocca nelle nomine di Brera, di un Renzi che governa gli Uffizi o di un De Magistris che gestisce Capodimonte?), sponsor che mirano a piegare il patrimonio al proprio marketing (come nel caso del Colosseo concesso a Della Valle), e ministri che si affrettano a costruire gli strumenti giuridici per cui tutto questo sia possibile.

“Siamo seri”, ammonisce Ornaghi, minimizzando l’allarme. Bene, siamo seri: e cominci lei, signor ministro, a provarci. Le pare serio aver nominato nel Consiglio d’amministrazione della fondazione della Scala (quella che, secondo lei, dovrebbe far da modello a Brera) un suo affezionato creato? Le pare serio aver designato a guidare il Consiglio superiore dei Beni culturali un ignaro filosofo del diritto? Le pare serio non aver ancora messo piede nel centro dell’Aquila devastato dal terremoto di tre anni e mezzo fa, e mai ricostruito? Le pare serio spedire a Pechino delicatissime opere del Rinascimento per ragioni promozionali?

Le pare serio non aver ancora spiegato come sia stato possibile che un suo consigliere abbia svaligiato la biblioteca pubblica che dirigeva, complice la struttura del ministero che lei dirige? Mi rendo conto che è assai più facile per lei – programmaticamente “neoguelfo” – esibirsi in un dibattito su fede e bellezza al meeting di Cl, confrontandosi nientemeno che con un vescovo , con la soprintendente di Firenze sotto processo alla Corte dei Conti per aver acquistato un crocifisso (non) di Michelangelo brandito da prelati in tutta Italia come un vessilo sanfedista, e con un professore della Cattolica di cui lei è (scandalosamente) ancora il rettore. Ma, se l’obiettivo è quello di essere seri, lei dovrà dare ben altre risposte a chi le chiede di rispettare il giuramento di fedeltà alla Costituzione e dunque di trovare i mezzi con cui la Repubblica (cioè lo Stato-persona) continui a tutelare il patrimonio della nazione, cioè dello Stato-collettività, cioè di noi tutti.

Il suo problema, signor ministro, non è quello di “trovare dei finanziatori illuminati”, come ha dichiarato al Corriere, la sua missione non è quella di fare “fund-raising” appaltando agli enti locali o ai privati i pezzi pregiati del patrimonio, in un’ottica per cui tutto ciò che non sarà appetibile sarà destinato alla rovina. No, il suo dovere è conservare e rendere accessibile un patrimonio che si potrebbe mantenere con il 5% dell’evasione fiscale annua che il suo governo sta cominciando a combattere.

Ma finché lei non farà nulla di tutto questo, non potremo che domandarci, con Guido Rossi, “di che si occupa il ministro Ornaghi?”.

Anni fa per Ferragosto impazzava la speculazione di Borse più folle. Oggi il governo dei “tecnici” nella pancia del Decreto Salvaitalia decide di varare la privatizzazione di uno dei maggiori Musei italiani – la Pinacoteca statale di Brera – aprendo con essa le porte alla privatizzazione proposta da Giuliano Urbani ministro berlusconiano e contro cui insorsero i direttori di tutti i maggiori musei del mondo. Nel torrido agosto 2012 quasi nessuno commenta la clamorosa notizia. Non c’è un ex ministro, un ex sottosegretario, un responsabile culturale di qualche partito importante, nessuna associazione (temo) che alzi un grido di allarme e di dolore. O almeno un vagito.

Che il ministro per i Beni culturali, il Magnifico Ornaghi, fosse persino più latitante del mellifluo Bondi lo sapevamo. Ma che lasciasse al più potente collega Corrado Passera il compito di dare il via alla maxi-privatizzazione tutta “politica” di Brera non era prevedibile. Fra l’altro il disegno di legge (al cui articolo 8 si prevede la privatizzazione di Brera) è stato “concertato” da Monti coi ministri dell’Economia, dello Sviluppo economico, della Giustizia, delle Politiche agricole, della Cooperazione e del Turismo, assente il solo Ornaghi (forse l’hanno lasciato dormire…).

Si crea infatti la “Fondazione la Grande Brera” col compito di “valorizzare” e gestire “secondo criteri di efficienza economica” il museo creato da Napoleone e dal figliastro Eugenio di Beauharneis razziando opere di grande pregio in tutta Italia (Piero delle Francesca a Urbino, Raffaello a Città di Castello, Barocci a Ravenna, ecc.). Il decreto stabilisce “il conferimento in uso alla Fondazione mediante assegnazione al relativo fondo di dotazione, della collezione della Pinacoteca di Brera e dell’immobile che la ospita” (un sontuoso palazzo del Piermarini dal quale tempestivamente il commissario Mario Resca ha cacciato la più antica Accademia di Belle Arti). Nella Fondazione di diritto privato “La Grande Brera” entreranno rappresentanti dei privati e degli Enti locali. Saranno loro a nominare i tecnici? Pensiamo proprio di sì. Quale primo atto si potrebbe aprire nel cortile piermariniano un bel ristorante tipico meneghino con risòtt e luganeghìn. Quale miglior valorizzazione?

Ma è costituzionale affidare ad una Fondazione privata un patrimonio pubblico ingentissimo, anche per qualità, arricchito da donatori privati (soprattutto nel ‘900) illusi di rendere ancor più grande la principale Pinacoteca statale di Milano e della Lombardia? Noi pensiamo proprio di no e ci meravigliamo che nessuno, sin qui, insorga e se ne indigni. E poi, cosa vuol dire uniformarsi nella gestione ai “criteri dell’efficienza economica”? Che i direttori dei musei italiani sono tutti degli incapaci perché non sanno trasformarli in “macchine da soldi”? Qui bisogna avvertire il ministro Passera (Ornaghi lasciamolo dormire) che i suoi super-ragionieri non sanno nulla della redditività dei musei: non sanno, ad esempio, che lo Stato francese copre ogni anno per il 60 % il passivo del Grand Louvre, dotato di servizi come un ipermercato (forse loro, in vacanza premio, lo credevano in attivo), o che il Metropolitan Museum di New York copre con le entrate proprie soltanto la metà dei costi. Vuol dire che a Brera si faranno mostre decisamente commerciali (magari Caravaggio ch’el tira tant), manifestazioni d’alta moda e simili, presentazioni di auto (se Marchionne ne produrrà ancora in Italia) e non più ricerca, mostre di ricerca, studi e indagini scientifiche? Vuol dire che, invece di far entrare gratis, come avviene, civilmente da noi, circa la metà degli utenti (anziani, giovani, scolaresche, studiosi, ecc.), si esigerà da tutti – al pari dei Musei Vaticani - un salato biglietto d’ingresso? “I beni culturali sono il nostro petrolio”, lo sentenziò l’on. Pedini Mario, ministro dei Beni Culturali, di cui si ricorda soltanto che faceva parte della Loggia P 2.

Al di là dell’ironia, la decisione del governo Monti, lungi dall’essere “tecnica” (come quella di vendere un po’ di gioielli pubblici), realizza in pieno le linee della politica che Berlusconi-Tremonti con la “Patrimonio Spa” e col discusso Museo Egizio di Torino ebbero soltanto modo di abbozzare. Ora essa viene varata col gran pavese. In nome, fate largo, dello Sviluppo. Tutti zitti?

Chi saranno i nuovi padroni della Pinacoteca di Brera? Non più i milanesi, né il popolo italiano: o almeno non solo.

Il Decreto Sviluppo varato dal ministro Corrado Passera il 26 giugno scorso, infatti, non si occupa solo di edilizia, trasporti o settore energetico, ma – all’articolo 8 – stabilisce che «a seguito dell’ampliamento e della risistemazione degli spazi espositivi della Pinacoteca di Brera e del riallestimento della relativa collezione, il Ministro per i beni e le attività culturali, nell'anno 2013, costituisce la fondazione di diritto privato denominata “Fondazione La Grande Brera”, con sede in Milano, finalizzata al miglioramento della valorizzazione dell’Istituto, nonché alla gestione secondo criteri di efficienza economica». Il decreto prevede «il conferimento in uso alla Fondazione, mediante assegnazione al relativo fondo di dotazione, della collezione della Pinacoteca di Brera e dell'immobile che la ospita», e prevede l’ingresso, come soci, degli enti locali lombardi e, quindi, di «soggetti pubblici e privati».

In poche parole: il governo Monti fa il primo grande passo verso la privatizzazione di uno dei principali musei italiani. Un passo sulla cui costituzionalità ci sarebbe molto da dire: possibile che conferire l’intera collezione di Brera ad una fondazione di diritto privato non leda l’articolo 9 della Carta? Ma i problemi non sono ‘solo’ di principio.

Esiste un unico precedente, quello del Museo Egizio di Torino: e non è un precedente brillante. E non tanto per la folcloristica presidenza di Alain Elkann (che scadrà a settembre), quanto per le gravi e paradossali conseguenze di una ‘privatizzazione all’italiana’. Le collezioni dell’Egizio sono state devolute alla Fondazione solo in parte (spezzando tra giurisdizioni diverse complessi archeologici unici), il personale scientifico ha optato di rimanere nello Stato (privando il Museo della più essenziale delle sue componenti) e il consiglio di amministrazione ha nominato la direttrice secondo logiche da manuale cencelli, senza nemmeno consultare il comitato scientifico. E le cicatrici di tutti questi gravi errori, solo in parte recuperati, sono ancora ben visibili.

Ora, ci si chiede, come si comporteranno gli enti locali lombardi, una volta insediatisi sulla plancia di comando della nuova Fondazione? Sarà bene non dimenticarsi che fino a qualche giorno fa ci saremmo potuti trovare la Minetti direttrice di Brera. L’invadenza degli enti locali in un museo di livello e interesse nazionale è un nodo cruciale: non a caso tra i sostenitori di questo tipo di soluzione si conta Dario Nardella, il vicesindaco di Matteo Renzi a Firenze, che come giurista caldeggiava già nel 2003 la cessione degli Uffizi ad una fondazione in cui gli enti locali avessero un peso decisivo. Altro che baloccarsi con l’idea di costruire la facciata michelangiolesca di San Lorenzo o di cercare il Leonardo fantasma sotto il Vasari di Palazzo Vecchio: vi immaginate l’escalation di strumentalizzazione politica della cultura se Renzi potesse nominare il direttore degli Uffizi?

Ma il punto più grave è un altro. Il decreto di Passera (ministro, di fatto, anche dei Beni culturali, vista la sostanziale sede vacante determinata dal sonno di Ornaghi) dice che il fine della fondazione saranno la valorizzazione (eventi, mostre, visibilità mediatica) e la diminuzione dei costi di gestione. Ma un museo come Brera è soprattutto un istituto di ricerca: che riesce a comunicare il suo patrimonio ai cittadini solo in quanto è in grado di produrre e innovare continuamente la conoscenza delle opere che conserva. E la stella polare del cda della Fondazione Brera non sarà certo la scienza, ma il marketing: e così un altro polmone di libertà intellettuale passerà sotto il ferreo dominio del mercato e del denaro.

L’esperienza ventennale della concessione ai privati dei cosiddetti servizi aggiuntivi dei musei italiani «assomiglia ad una soluzione di abdicazione rispetto a competenze centrali da parte degli enti pubblici di gestione» (così, già nel 2009, Stefano Baia Curioni e Laura Forti, economisti della Bocconi). La strada, ancora più radicale, della trasformazione dei grandi musei in fondazioni segnerà un’abdicazione dello Stato ancor più radicale: e con essa un inevitabile allontanamento dagli interessi della collettività.

E non è che l’inizio di un lungo autunno in cui, per pagare la speculazione mondiale sull’enorme debito contratto grazie al Partito Unico della Spesa Pubblica (ancora saldamente aggrappato ai vertici dello Stato), la generazione dei bancarottieri chiuderà in bellezza vendendosi i beni che i padri avevano lasciato alla comunità.

E’ vero che la legge di revisione della spesa non assegna al ministro per i beni e le attività culturali alcuno specifico compito attuativo. E se ne intende bene la ragione. Perché la legge approvata con la fiducia tra luglio e agosto, nel suo articolo 23ter, come già l’articolo 33 della legge 111 del 2011 (la legge di stabilizzazione finanziaria), non modifica in alcun modo il rigoroso regime del demanio culturale come disegnato nel codice dei beni culturali e del paesaggio. Lo aveva sfrontatamente modificato, con il dichiarato fine di dare “massima attuazione al federalismo demaniale”, la legge 116 del 2011 (con le sue “prime disposizioni urgenti per l’economia”), aprendo le maglie dell’assegnazione ai comuni dei beni dello stato, esclusa per i beni di interesse culturale pur soltanto presunto: l’art. 4, comma 16, di quella legge aveva modificato per i soli beni immobili uno dei consolidati requisiti della tutela, spostando a settanta’anni il limite temporale a ritroso che convenzionalmente fin dalla pioniera legge del 1909 era stato fissato al riconoscimento dell’interesse storico e artistico delle “cose”(non essendo soggette alla disciplina di tutela “le cose … la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquant’anni”).

Ebbene, se la legge di revisione della spesa lascia invece integra la disciplina dettata dal codice dei beni culturali e del paesaggio per il patrimonio pubblico, assoggettato alle stringenti regole degli articoli 12 e 53 – 55, si deve constatare che rimangono integralmente estranei all’automatismo di quella legge, con i complessi meccanismi del suo articolo 23ter, i beni di interesse culturale, pur soltanto presunto, e dunque ai costituendi “fondi comuni di investimento immobiliare” potranno essere trasferiti soltanto i beni immobili (la cui esecuzione risalga ad oltre settant’anni) che siano stati riconosciuti privi di alcun interesse culturale con una espressa dichiarazione negativa (che spetta alle direzioni regionali del ministero).

Se il ministro per i beni e le attività culturali non è chiamato a partecipare agli sviluppi attuativi della spending review, alla sua diretta responsabilità è affidata la vigilanza sul rispetto della esclusione del demanio culturale dall’ambito esecutivo della nuova disciplina legislativa.

Sa bene il ministro che il patrimonio pubblico è presidiato dalla presunzione di interesse culturale in forza della quale ogni bene (se immobile) la cui esecuzione risalga ad oltre settant’anni, pur se non sia stato oggetto di formale riconoscimento, è assoggettato al regime del codice dei beni culturali e che i beni immobili di interesse culturale degli enti pubblici territoriali (quindi stato e comuni) costituiscono il demanio culturale. Sa bene che il bene pubblico è soggetto a tutela pur se rivesta un interesse culturale non qualificato, a differenza del bene di appartenenza privata per il quale requisito della tutela è l’interesse culturale “particolarmente importante”; che la vendita dei beni del demanio culturale è preclusa per quelli cui si riconosca valore identitario, come documenti della storia delle istituzioni, e che l’alienazione è altrimenti ammessa (su specifica autorizzazione delle direzioni regionali del ministero) quando “assicuri la tutela, la fruizione pubblica e la valorizzazione dei beni” e che l’osservanza delle prescrizioni dettate al riguardo per conservazione e destinazione è rafforzata dalla clausola legale di risoluzione espressa. Un regime del tutto incompatibile con i meccanismi automatici e indiscriminati - e con gli stessi fini - della legge di revisione della spesa, perciò inapplicabili al demanio culturale.

Non può aver dubbio il ministro che la riserva del demanio culturale, così strutturato, non è forzata dalla legge che avvia il procedimento di valorizzazione economica degli “immobili di proprietà dello stato non utilizzati per finalità istituzionali” “allo scopo di conseguire la riduzione del debito pubblico”, attraverso la costituzione dei “fondi comuni d’investimento immobiliare” affidati alla gestione esclusiva del ministero dell’economia e delle finanze. Spetta al ministro per i beni e le attività culturali presidiare quella riserva con la doverosa fermezza (mettendo innanzitutto in allerta i suoi direttori regionali).

Dear Prime Minister Monti...”. Così si apre la missiva con la quale il professor Lionel Salem ringrazia il presidente del Consiglio per aver reso possibile la restituzione alla sua famiglia del meraviglioso Cristo portacroce di Girolamo Romanino, che apparteneva alla Pinacoteca di Brera. Ma non è una lettera di cortesia. Il mittente chiede che ora Monti faccia staccare di corsa un altro quadro rinascimentale dalle pareti di Brera – una Madonna col Bambino attribuita a Bernardo Zenale – e glielo spedisca a Londra il più speedly possibile. I due quadri facevano parte della collezione del nonno di Salem – Federico Gentili, ebreo e console italiano a Parigi fino al 1940 – e vennero venduti all’asta dal governo di Vichy nel 1941. Secondo la famiglia, quella vendita si dovette alle leggi razziali: su questa base, un tribunale francese ha deciso la restituzione di cinque quadri del Louvre.

L’Avvocatura generale dello Stato italiano, invece, fin dal 2001 aveva dato parere negativo. E questo sia perché lo Stato aveva acquistato i quadri sul mercato (dopo alcuni passaggi di mano), sia – soprattutto – perché la vendita del 1941 non sarebbe legata alle persecuzioni, ma a un debito gravante sull’eredità del Gentili, morto nel 1940.

Dello stesso parere, nel 2012, la Commissione interministeriale per il recupero delle opere d’arte: i quadri non vanno resi alla famiglia, ma sono lecitamente posseduti dallo Stato. Dunque, com’è possibile che il 7 giugno scorso il Romanino di Brera sia stato battuto da Christie’s a New York per la bellezza di 3.650.000 euro, finendo in mano a un collezionista privato ed estero? È stato forse rubato nottetempo? Nossignori, il Romanino è stato vittima della ‘valorizzazione’ : immolato sull’altare della dottrina del marketing abbracciata da tutti gli ultimi ministri dei Beni culturali e perfezionata da Lorenzo Ornaghi. Per quest’ultimo è opportuno, anzi necessario, organizzare a ritmo continuo mostre promozionali all’estero: non importa dove, non importa come, e soprattutto non importa se a prezzo di “qualche rischio”.

Nel 2011, infatti, il Romanino è stato incluso tra i 50 quadri che Brera ha spedito alla mostra Baroque Painting in Lombardy, in Florida. Peccato che Romanino c’entri col Barocco come la Minetti con le novene mariane, o che il Mary Brogan Museum For Art and Science di Thallassee non sia proprio il Metropolitan: la Ragion di Stato imponeva che Brera pagasse un tributo alle celebrazioni di “ITALY@150”. Non appena il quadro è sbarcato negli Stati Uniti gli agenti federali sono entrati nella mostra, hanno staccato il quadro dal muro e lo hanno consegnato alla famiglia che ne richiedeva la restituzione, la quale lo ha prontamente messo all’asta. Con tanti saluti a Brera.

Ora, un cittadino si chiede: se la soprintendente di Caserta invia a 19 istituzioni un verbale di tre pagine per ottenere “ogni notizia utile al recupero” di una zuccheriera e di un cucchiaino “stampati in argento del secolo XX” sottratti a una canonica di Benevento (e non è un exemplum fictum), come diavolo è stato possibile che la soprintendente di Milano nonché direttrice di Brera abbia fatto uscire dall’Italia un quadro strepitoso sul quale da dieci anni pendeva un simile contenzioso? E ora, cosa risponderà il “Dear Prime Minister Monti” al suo cortese corrispondente? Deciderà di sconfessare la posizione giuridica del Mibac, che non riconosce i titoli dei vecchi proprietari, cedendo spontaneamente un altro quadro di Brera, e costituendo così un precedente esiziale? O terrà la linea fin qui seguita dall’amministrazione, negando la restituzione? In quest’ultimo caso, l’errore di Brera apparirebbe in tutta la sua clamorosa gravità, e la Corte dei conti dovrebbe domandarsi di chi siano le responsabilità di questo pazzesco danno erariale. Come rileva l’ottimo sito storiedell’arte.com, la direttrice del museo di Thallassee ha dichiarato che i colleghi italiani erano terrorizzati non tanto dalla perdita di un capolavoro, quanto dall’eco mediatica della vicenda. Nell’amministrazione dei Beni culturali tira, in effetti, una pesante aria di censura.

Niente potrebbe essere più sbagliato: sulla tutela e la valorizzazione del nostro patrimonio urge un’apertissima riflessione pubblica. A meno di non voler continuare a perdere i pezzi.

La città eterna in mano agli alemanni: successe nel 1527, e fu il Sacco di Roma; poi con l’occupazione nazista, ed è meglio sorvolare. Se quelle furono tragedie, oggi il tutto ricicla in farsa. «L’irto e increscioso Alemanno» (profetico Giovanni Berchet!) ne ha detta un’altra delle sue.

Nel 2008, dribblando le domande sulla croce celtica che si era fatto benedire a Gerusalemme, aveva sentenziato che gli sembrava un’enormità aver definito il fascismo un male assoluto («molte persone vi aderirono in buona fede»). Oggi aggiunge che nessuno ha spazzolato il Colosseo come Mussolini: «un intervento così forte, così complessivo, così organico, così significativo» non si vedeva, secondo il sindaco, dal 1938. Poco importa che non sia vero (come ha chiarito la direttrice del monumento parlando con la «Stampa»): il punto è la coazione a sciorinare il proprio intramontato orizzonte culturale.

E immagino i sospiri di Della Valle, che certo non aveva in mente proprio quel modello quando ha deciso di investire 25 milioni in un restauro che durerà tre anni, e che aprirà i cantieri entro dicembre. Folclore a parte, gli interrogativi veri riguardano proprio il ruolo dell’imprenditore. Il ministro Lorenzo Ornaghi – indefesso difensore del patrimonio e dell’interesse pubblici – non ha parlato di ‘sponsorizzazione’, ma di «mecenatismo». La differenza è cruciale. Lo sponsor conta di ricavare (legittimamente) un immediato utile economico dal suo investimento: e ciò molto spesso (se non sempre) risulta in irrimediabile contrasto con il fine costituzionale del patrimonio, che non è quello di produrre reddito, ma cultura ed eguaglianza. Il mecenate, invece, ha un obiettivo di legittimazione morale, culturale e sociale non traducibile in denaro: una figura consueta negli Stati Uniti, non solo grazie alla defiscalizzazione delle donazioni, ma grazie ad un diverso modello culturale. Se Della Valle sarà un mecenate o uno sponsor saranno i fatti a dircelo: quale sarà l’uso di quello che oscenamente viene chiamato il ‘brand Colosseo’? Quanto sarà impattante la nuova sede del centroservizi-merchandising che sarà costruito in un’area delicatissima e supervincolata? Quale l’effettivo controllo del Mibac sui restauri, e quale l’accessibilità alla documentazione?

Fin da ora si può notare che un vero mecenate sarebbe forse stato disposto a legare il proprio nome a monumenti ben più in pericolo del celeberrimo anfiteatro. Ma lo Stato non gli può certo imporre come spendere i suoi soldi: non siamo mica ai tempi di Mussolini!

Giornata nera per la Galleria Borghese e se è nera per la Galleria Borghese è nerissima per tutto il patrimonio culturale italiano. Dalla facciata dell'edificio, proprio sotto la terrazza, si è staccato parte dello stemma con i simboli dei Borghese, che quell'edificio costruirono all'inizio del Seicento. Un visitatore è stato appena sfiorato. Mentre si allestiva l'impalcatura per mettere in sicurezza il resto dello stemma, indebolito dalle nevicate, alcuni operai smontavano il bar: niente più caffè e acqua minerale per i duemila visitatori che in media ogni giorno visitano la galleria. Che d'estate sono di più e, allibiti, assistevano allo sgombero, dovuto, si sentiva dire, al mancato rinnovo di una concessione, a royalties non pagate... Scaduta è anche la convenzione con il presidio della sicurezza, per cui da ieri non c'è chi controlli l'impianto di climatizzazione o l'ascensore.

E non è finita: domenica è seriamente a rischio l'apertura del museo. I custodi in servizio saranno 6, la soglia minima per garantire la sicurezza delle sale, le poche che comunque saranno accessibili, e i servizi necessari ai visitatori. Se qualcuno si ammalasse, la Galleria Borghese, con l'Apollo e Dafnedi Bemini, il Ritratto d'uomo di Antonello da Messina e poi Raffaello, Canova, Caravaggio, Tiziano, Veronese, Rubens, non potrebbe aprire. Un altro collasso per il Polo museale romano, ancor più tragico della chiusura domenicale di Palazzo Barberini, dove almeno si è riusciti a mettere una toppa per il mese di agosto, consentendo in via eccezionale l'allungamento dello straordinario ai custodi e garantendo che almeno alcune sale siano aperte. Il problema, alla Galleria Borghese come a Palazzo Barberini, è lo stesso: mancano i custodi, gli straordinari sono stati ridotti dal 100 al 50 per cento e in periodi di ferie il sistema si paralizza, anche perché, denuncia qualcuno, il personale di vigilanza è mal distribuito fra tutti i musei romani.

Da tempo la Galleria Borghese è in sofferenza. Sono partite diverse segnalazioni sui rischi che la neve di quest'inverno ha prodotto. Alcune sale restano chiuse e alla cronica penuria di fondi si è aggiunto il fatto che sono saltate due mostre di arte contemporanea, quella di giugno e quella in programma a ottobre, mostre integralmente pagate da sponsor, con i soldi dei quali si riusciva comunque a pagare straordinari ai custodi per tenere aperto tutto il museo. Problemi burocratici, si è detto, autorizzazioni in ritardo: e gli sponsor sono fuggiti. Il ministero tace, impotente, proprio mentre annuncia per dicembre l'avvio dei restauri del Colosseo con i 25 milioni di Diego Della Valle. Da qualche giorno è insediata una nuova direttrice generale alla Valorizzazione, Anna Maria Buzzi, che ha preso il posto di Mario Resca. Ma ieri alla Galleria Borghese erano in visita i direttori della due principali case d'asta di Taiwan e di Hong Kong. Chissà che impressione avranno ricavato dello stato in cui versa il nostro patrimonio d'arte.

Se all'Italia è toccato il «presidente operaio», Firenze non sfugge al «sindaco storico dell'arte». Non conosco altri casi (beninteso, nelle democrazie occidentali) in cui il capo di un governo (per quanto cittadino) firmi una lettera ufficiale in quanto responsabile e,garante di una ricerca scientifica. E’ quanto ha fatto, il 18 luglio, Matteo Renzi scrivendo alla soprintendente Cristina Acidini una lettera che ha trasformato definitivamente la sua personalissima «caccia al Leonardo» in una ricerca di Stato (e Maurizio Seracini in uno storico-scienziato di corte). Siamo in presenza di una serie di dati accertati», scrive il sindaco-storico-dell'arte. Ma quali? Non è certa la parete sulla quale Leonardo lavorò, è del tutto improbabile che qualcosa fosse ancora visibile quando dipinse Vasari, e se ci fosse stato è impensabile che quest'ultimo lo abbia deliberatamente occultato dietro un inamovibile muro affrescato. L'esistenza della famosa intercapedine «sospetta» è stata smentita dal fisico dell'Università di Firenze che progettò e usò il radar nel Salone dei Cinquecento.

A tutte queste obiezioni, Seracini oppose i famosi prelievi che avrebbe effettuato sulla parete retrostante all'affresco vasariano. Quei prelievi avrebbero restituito proprio le sostanze che appaiono in testa all'elenco che Google sputa fuori quando si digitino nel campo di ricerca le parole Leonardo e pigments: sia pure un tale miracolo, ma è concesso fare delle controanalisi in un laboratorio terzo? Lo chiedemmo in tanti, senza ottenere risposte plausibili. Ebbene, ora ci risponde il sindaco-storico-dell'arte: «Il quantitativo di materiale prelevato nei punti di passaggio individuati dall'Opificio non è risultato sufficiente per ulteriori analisi di laboratorio, motivo per il quale dovrebbero essere effettuati nuovi prelevamenti di campione». Questa è sostanzialmente una dichiarazione di bancarotta scientifica: è la candida confessione che le conferenze stampa trionfalistiche e il documentario con il quale National Geographic ha messo a reddito il suo sostegno all'operazione erano fondati su un esperimento non ripetibile. In altre parole: si passa dalla scienza alla fede, e a Seracini o si crede o non si crede, con buona pace di Galileo e del suo metodo, rottamato per l'occasione. Già, perché se anche i nuovi prelievi si facessero, e se «per caso» l'Opificio non trovasse le stesse sostanze, a quel punto la vicenda si avviterebbe in un eterno stallo tra chi potrà provare che ora non ci sono più, e chi comunque continuerà a sostenere di averle trovate, ma poi di averle (destino cinico e baro!) del tutto consumate in laboratorio.

Infine, Renzi afferma che il «professor Maurizio Seracini» avrebbe pubblicato tale ricerca «su riviste scientifiche». E l'allusione è a Medicea, rivista il cui direttore non è uno storico dell'arte né uno scienziato, ma il giornalista portavoce di Cristina Acidini. Con questa lettera Renzi ha compiuto un passo inaudito, perché ha trasformato una serie di ipotesi di ricerca (che godono di credibilità quasi nulla presso la comunità scientifica di riferimento) in una sorta di verità di Stato. Sulla Battaglia di Anghiari, il Comune ha ora la sua dottrina ufficiale: e chi non la pensa così è un nemico del popolo, un dissenziente, un avversario politico. Aspettiamo di sapere quali saranno le ritorsioni per gli intellettuali eretici che osano pensare della caccia alla Battaglia ciò che il ragionier Fantozzi pensava della Corazzata Potemkin: il confino alle Piagge, la rieducazione con la lettura obbligatoria di Stil novo oppure l'abiura in Piazza della Signoria, sul luogo del rogo savonaroliano?

La risposta di Cristina Acidini, al confronto, appare perfino normale. Intendiamoci: appare normale a coloro che sono ormai abituati al tono vetero-democristiano che vela da decenni l'esercizio del potere più forte e meno controllato della città, quello della Soprintendenza. Acidini giudica «interessanti» i risultati, ignorando che i maggiori studiosi di Leonardo e l'intera comunità internazionale degli storici dell'arte hanno firmato una petizione che dice esattamente il contrario. Acidini vieta (giustamente) ulteriori traumi alla parete vasariana, in nome del «mutare dell'inquadramento deontologico della professione» e dell'«evoluzione della teoria del restauro». Ma tace sul fatto che Cecilia Frosinini, massima responsabile del settore all'Opificio, si era rifiutata, per le stesse ragioni, di avallare la campagna di fori che lei stessa ha invece benedetto. Infine, Acidini invoca l'intervento del Comitato tecnico scientifico del Ministero per i Beni culturali, presentato come istanza superiore e oggettiva. Il che fa un po' sorridere quando si rammenti che i quattro membri del suddetto comitato sono (insieme alla stessa Acidini) in attesa di sentenza della Corte dei Conti per l'acquisto del famoso pseudo-Michelangelo. In queste condizioni, su quale terzietà e autorevolezza possiamo contare? La verità è che nessuno, né in soprintendenza né a Palazzo Vecchio, scommette un euro sul ritrovamento del Leonardo perduto: ma l'importante è continuare il palleggio istituzionale, per dare l'idea che la caccia continui. Almeno sui media, almeno fino alle primarie del Pd.

Chiusure festive, orari ridotti, l'umiliazione dei biglietti rimborsati. Notizie dai nostri beni culturali lasciati a sé stessi. Con la perdita di importanti introiti La Galleria Barberini, restaurata con 24 milioni di spesa, non si può visitare la domenica, iI turismo culturale è una delle poche voci che continuano a "tirare", ma l'Italia sembra fare di tutto per spegnerla. Anche questo governo e il ministro Lorenzo Ornaghi lesinano somme molto modeste perdendo introiti importanti e sfregiando la nostra immagine nel mondo. La domenica rimane clamorosamente chiusa quella Galleria Nazionale di Arte antica del colossale Palazzo Barberini che, dopo anni di lavori e 24 milioni di spesa, con le sue 37 sale rinnovate, fresche, munite di audio-guide in più lingue, col favoloso salone affrescato da Pietro da Cortona, dovrebbe essere fra le formidabili novità di Roma e d'Italia. Mancano i fondi per un paio di custodi, si perde la faccia, si fanno imbestialire i turisti, si rinuncia ad un incasso non trascurabile.

Non ci si poteva mettere attorno ad un tavolo e studiare un tipo di orario meno oneroso di quello su tre turni? Non c'è addirittura una Direzione generale per la Valorizzazione creata per Mario Resca, ex McDonald's, ex Casinò di Campione, che ora la lascia senza glorie particolari per l'Acqua Marcia? E al Polo Museale di Roma l'articolo non interessa? «Il MiBAC (ministero dei Beni e le attività culturali) è imbottito di burocrati, per giunta bizantini», si commenta, «mentre i direttori generali regionali sono dei "nominati" di fatto dalla politica». Con scarsa capacità di controllo se il funzionario addetto agli appalti nel Lazio, Luigi Germani, ha potuto sparire nel nulla, mesi fa, con 5 milioni di euro.

Minacciata di chiusura è la stessa Galleria Borghese, museo unico al mondo, dove la malattia di un custode già provoca drammi e dove si operano umilianti chiusure parziali col rimborso di parte del biglietto. Inoltre due mostre attraenti, per le quali c'erano già gli sponsor, sono già saltate nel 2012 perché la direttrice del Polo Museale romano, Rossella Vodret, bocciata in due concorsi, non ha ritenuto di doverle autorizzare. E il Collegio Romano? E il ministro? Tacciono. «Almeno Bondi si scusava di non poter fare granché», si osserva. Lorenzo Ornaghi ha tacciato di «valori grossolani» "Italia Nostra" contraria all'ultima "esportazione" a Pechino di opere d'arte come articoli-civetta, comprese tavole delicatissime che viaggiare non dovrebbero proprio. Poi si è chiuso nel solito mutismo. Del resto, non ha sostituito col suo giovane segretario nel consiglio di amministrazione della Scala il finanziere-musicofilo Francesco Micheli, suscitando l'ira di Giulia Maria Crespi e del sindaco Giuliano Pisapia? Siamo alla desertificazione della cultura.

La situazione operativa è drammatica ovunque si fa tutela e valorizzazione con musei e siti archeologici strepitosi, difesi dall'impegno personale di chi se ne occupa. Archeologi, storici dell'arte, architetti, archivisti, bibliotecari costretti a usare i loro cellulari, a spendere del loro, visto che "godono" del lauto stipendio (meno della metà delle medie europee) di 1.700 euro che a chi va in pensione frutterà il "grasso" mensile di 1.400, dopo decenni. Dal 2011 sono scomparsi anche i 120 euro al mese del Fondo Unico per l'Amministrazione e, dal 2010, gli incentivi. E i concorsi per la progressione economica da quegli abissi? In cronico ritardo. Il 12 maggio scorso centinaia di funzionari, fra cui le direttrici delle Gallerie Borghese, Barberini, Corsini, di Palazzo Massimo, Colosseo, Appia Antica hanno inviato alle più alte cariche dello Stato una drammatica lettera-appello dove denunciano la follia suicida dello stato in cui sono lasciati beni culturali invece essenziali per rilanciare cultura ed economia. Qualcuno ha loro risposto? Nessuno. O meglio, indirettamente ha replicato un sociologo del tempo libero ritenuto importante. Sul "Corriere della Sera" romano li ha così ritratti: «La gestione storico-artistica è affidata ai soprintendenti: persone colte, topi di biblioteca, che di mestiere dovrebbero scrivere libri. Li attornia uno stuolo (sic!) di addetti, creativi mancati, che avrebbero voluto fare i pittori o gli architetti: gente frustrata, che si mette sempre di traverso “. Volete commentare?

Cinque luglio 2012, ore 17.35: l'Ansa batte, in esclusiva mondiale, una notizia clamorosa: «Caravaggio, trovati cento disegni mai visti». Peccato che i disegni fossero ben noti e, soprattutto, peccato che non siano di Caravaggio. Ma questa è solo l'ultima delle «bufale» storico-artistiche propalate negli ultimi mesi: il Sant'Agostino «di Caravaggio», la «vera» Visione di Ezechiele di Raffaello, l'Autoritratto «di Bernini», il «Guercino» esposto a Castel Sant'Angelo e la seconda Gioconda del Prado. E, naturalmente, il discusso Cristo «di Michelangelo» comprato da Sandro Bondi: per non parlare della ricerca delle ossa del solito Caravaggio o della povera Monna Lisa o della tragicomica caccia al fantasma della Battaglia di Anghiari. Cosa è successo alla storia dell'arte? Perché la rigorosa disciplina di Roberto Longhi ed Erwin Panofsky si è trasformata in un simile allevamento di bufale?

Da una parte questa mutazione è uno dei sottoprodotti del ruolo che la storia dell'arte gioca nel discorso pubblico, specialmente in Italia. Essa è ormai, per il pubblico, sinonimo di «grandi mostre», anzi di «grandi eventi». E nella logica dell'intrattenimento spettacolare è assai difficile mantenere vive le regole, anche le più elementari, del sapere critico. Assai più che nella storia o nella filosofia, nella storia dell'arte si è così verificata una frattura verticale tra l'autoreferenzialità di chi studia seriamente, ma non ha né l'interesse né la possibilità di trasmettere la sua ricerca al grande pubblico e l'improvvisazione di chi ha invece accesso ai media, ma solo per fare «marketing» degli eventi. Ma, d'altra parte, bisogna riconoscere che l'involuzione investe ormai i meccanismi intimi della disciplina. In altri termini, l'incredibile vicenda dei «cento disegni di Caravaggio» è il sintomo (in sé assai poco serio) di una malattia che si sbaglierebbe a non prendere sul serio. Si stenta ormai perfino a dirlo, ma la storia dell'arte è una scienza storica e l'attribuzione (cioè la capacità di riconoscere gli autori delle opere d'arte) non è una dote innata, ma il frutto di un lungo e faticoso esercizio, una tecnica che si impara e che si insegna, un metodo del quale si può dar conto razionalmente e i cui risultati si possono verificare e falsificare.

Ma, perché tutto questo funzioni, occorre che la comunità scientifica si autogoverni e si autocontrolli: per esempio attraverso riviste autorevoli dotate di comitati di studiosi che vaglino preventivamente e trasparentemente le proposte e che in base a tutto ciò siano poi valutate. Invece, nella storia dell'arte di oggi le riviste sono troppo spesso legate a circoli chiusi e «parrocchiali». Peggio: le sedi completamente autoreferenziali e slegate da ogni controllo preventivo (come i cataloghi delle troppe, e spesso dannose, mostre, le strenne bancarie, i libri a vario titolo autofinanziati) sono importanti quanto, e più, delle riviste o delle collane dotate di vaglio scientifico. La storia dell'arte sta così rinunciando ad esercitare il giudizio critico su se stessa e rischia oggi di trasformarsi in uno «studio della domenica» assolto da ogni rigore.

Una situazione che si è man mano sfilacciata fino ad arrivare alla moda delle «scoperte» pubblicate sui quotidiani e ora addirittura ai cento disegni di Caravaggio lanciati in due ebook di Amazon, a cui altri hanno risposto (seppur in buona fede) non attraverso recensioni scientifiche, ma attraverso l'istituto, non particolarmente scientifico, del comunicato stampa. La comunità degli storici dell'arte ha dunque una ragione tutta speciale per accettare di buon grado i meccanismi di valutazione e autocontrollo della qualità scientifica, che (seppur con molte contraddizioni) l'Agenzia nazionale per la valutazione dell'università e della ricerca sta cercando di introdurre anche in Italia e anche nei refrattari studi umanistici.

E’ vero che un controllo troppo stretto può, alla lunga, indurre al conformismo e rallentare il progresso della ricerca, ma in questo momento la storia dell'arte ha bisogno di iniezioni massicce di serietà e credibilità: se non vogliamo trasformarci in guardiani delle «bufale» dobbiamo provare a chiuderne l'allevamento. La risorsa sprecata del turismo culturale

Villa Adriana ora rischia concretamente di perdere lo status di patrimonio dell’umanità. Ora le decisioni adottate dal World Heritage Center dell’Unesco, a seguito della 36esima riunione annuale del comitato che si occupa appunto dei siti considerati patrimonio dell’umanità, sembrano confermare se non aggravare l’ipotesi di tale rischio. Il World Heritage Committee “richiede, allo Stato membro – si legge nel report finale – di informare il Whc in tempo utile rispetto a qualsiasi progetto di sviluppo pianificato nell’area buffer, includendo anche il progetto di sviluppo edilizio del ‘Comprensorio di Ponte Lucano’, per il quale deve fornire inoltre una valutazione sull’impatto in relazione al paragrafo 172 delle linee guida, prima di mettere in atto qualsiasi impegno irreversibile”.

La storia, come ilfattoquotidiano.it ha già raccontato, gira intorno a un’operazione urbanistica che porterebbe alla costruzione di nuove palazzine vicino al celebre monumento a cielo aperto. Capofila del progetto la Impreme Spa di Massimo Mezzaroma.

Sostanzialmente l’Unesco, preoccupata della possibile colata di cemento nelle vicinanze del sito protetto, che violerebbe la buffer zone, una sorta di zona cuscinetto stabilita con un accordo internazionale tra la Repubblica e l’Unesco per proteggere l’area archeologica di Villa Adriana, da delle direttive ben precise allo stato italiano: pena la possibile cancellazione dall’elenco dei siti patrimonio dell’Unesco. Il Comitato del Patrimonio mondiale richiede inoltre “di inviare al Whc entro il 1 febbraio 2014 un report aggiornato sullo stato di conservazione del sito”.

“La documentazione depositata dal governo italiano a marzo scorso – spiega Luciano Meloni, responsabile di Italia Nostra a Tivoli – non è sufficiente secondo il Whc. Sostanzialmente il governo non ha motivato come il Comprensorio Ponte Lucano possa essere compatibile con i criteri con i quali è stato inserito nell’elenco dei siti patrimonio dell’Unesco Villa Adriana”.

Violare la zona buffer potrebbe seriamente compromettere lo status di patrimonio dell’umanità ma nell’ultima audizione in Regione, l’assessore all’urbanistica Luciano Ciocchetti, affiancato dall’immobiliarista Roberto Carlino, presidente della commissione Ambiente, ha rassicurato tutti – comitati cittadini e associazioni ambientaliste – dichiarando che la visuale della Villa sarebbe stata salvaguardata.

“Ciocchetti non ha ben chiari i vincoli inerenti alla buffer zone, la visuale non c’entra niente. In questa zona cuscinetto – spiega Meloni – al massimo si possono costruire solo edifici compatibili con il monumento in questione, quindi al massimo si può edificare un albergo, un punto di ristoro o altre cose simili ma solo in funzione del sito in questione, in questo caso la Villa di Adriano. Costruire palazzine da vendere a privati non si può certo dire che sia un’azione compatibile in tal senso. Tra l’altro non può parlare di autorizzazioni regionali per difendere il progetto di Mezzaroma, quando a monte c’è un accordo internazionale tra il governo Italiano e l’Unesco”.

“Alla luce di questo richiamo ufficiale – dichiara Angelo Bonelli, presidente dei Verdi – è assolutamente urgente bloccare la lottizzazione. L’Italia non vuole e non può riempirsi di vergogna nei confronti della comunità internazionali con un sfregio di tale portata ad uno dei monumenti più importanti del mondo, dal punto di vista storico ed architettonico”.

Dall’ufficio coordinamento Unesco del Ministero per i Beni e le Attività Culturali non abbiamo ottenuto nessuna risposta in merito “poiché – hanno comunicato – non è arrivata ancora nessuna nota ufficiale sull’esito della riunione, quindi al momento non ci possiamo pronunciare”. L’Unesco nel frattempo ha sanzionato ufficialmente il nostro Paese con una sorta di cartellino giallo che, se l’Italia non farà chiarezza sulla colata di cemento, si tramuterà in rosso.

Auriga globetrotter

Francesca Sironi - L’Espresso

Momentaneamente assente. E chissà per quanto. L'Auriga di Mozia, una delle più straordinarie sculture greche, ha lasciato Marsala per fare da star nella mostra olimpionica del British Museum di Londra. Poi sarà trasferito a Malibù e forse anche in Ohio. Tornerà in Italia nel 2014, in un giorno imprecisato. Ma si tratta di un campione molto fragile: ha circa 2450 anni e tanti acciacchi. Per questo — come può rivelare "l'Espresso" - una perizia nel 2008 aveva escluso categoricamente la possibilità che l'opera venisse mandata in tournée. Ma gli assessori della Regione Sicilia l'hanno ignorata, spedendo il capolavoro in una rischiosa missione di propaganda mondiale delle bellezze isolane. Eppure il divieto di espatrio porta la firma di Guy Devreux, responsabile del restauro di marmi dei Musei Vaticani, uno dei massimi esperti in materia. Che scrive: “È impossibile eseguire una fredda descrizione sullo stato di conservazione di questa scultura senza sottolineare che si tratta di un'opera di singolare bellezza, che colpisce in modo indimenticabile ogni visitatore che ha la fortuna di poterla ammirare,,. Il cocchiere è testimone di una rivoluzione: il passaggio da arte arcaica a classica. E’ stato rappresentato "di sbieco", rompendo lo schema arcaico della rappresentazione frontale, e mostra il suo corpo sotto un panneggio "bagnato" tipico della classicità. Lo hanno ritrovato nel 1979 a Mozia, l'isoletta poco distante dalla costa trapanese che ospitava una fiorente città fenicia poi conquistata dai puniti: si tratta infatti, con ogni probabilità, di un'opera saccheggiata a Selinunte dopo l'arrivo dei cartaginesi. Una preda bellica di enorme valore già all'epoca: «Ultima delle più belle sculture sopravvissute dall'antichità», conferma Peter Higgs, curatore della mostra " Winning at the ancient games", realizzata al British Museum per le Olimpiadi.

Ovvio che tutti i musei del pianeta sognino di esporre l'atleta di Mozia. Nel 2007 una direttiva della Regione Sicilia firmata dall'assessore Nicola Leanza lo inserì in una lista di 21 opere inamovibili. Poi l'anno dopo il "certificato medico" dell'esperto dei Musei Vaticani. Ma l'Istituto Culturale italiano di Londra è riuscito a battere il veto. La delegazione sorridente che ha firmato l'accordo col British Museum era formata dall'ormai ex assessore Sebastiano Messineo, il direttore dei beni culturali Gesualdo Campo e il responsabile del servizio museografico siciliano Stefano Biondo. «Il nostro Auriga è la prima statua ospitata nel salone del fregio del Partenone», sottolinea Campo, «ed è un motivo di grande orgoglio e visibilità per la nostra regione. E poi l'Auriga era già destinato a breve ad un altro viaggio». Infatti: dopo Londra, l'Auriga partirà alla volta degli Stati Uniti, per rispettare l'accordo firmato nel 2007 dall'allora ministro Francesco Rutelli. Un'intesa che ha chiuso le trattative per ottenere la restituzione della Venere di Morgantina, trafugata dalla Sicilia e finita al Paul Getty Museum. Così da aprile ad agosto del 2013, il capolavoro di Mozia sarà al Getty di Malibù per la rassegna "Sicily: Between Greece and Rome", esposizione che si sposterà a Cleveland per poi arrivare a Palermo: «Non è detto però che anche l'Auriga vada in Ohio, stiamo ancora discutendo i dettagli dell'accordo», precisa Biondo. Di viaggi comunque si parla, e lunghi. E destinati a riaprire la discussioni su un tema sempre scottante, quello dei prestiti delle nostre opere d'arte.

Come quando, nel 2005, il "Satiro danzante" di Mazara del Vallo venne prestato al Giappone per l'Expo: la Regione aveva promesso che in cambio la sala del museo che ospita il satiro sarebbe stata climatizzata, ma niente è stato fatto. L'anno seguente, per portare il"Cristo Morto" di Mantegna a Mantova Vittorio Sgarbi scatenò una guerra contro la Soprintendenza di Brera: alla fine Rutelli concesse il prestito. E nel 2007, mentre l'Annunciazione di Leonardo veniva preparata per il viaggio a Tokyo, un senatore del Pdl arrivò a incatenarsi al loggiato degli Uffizi per protesta. Ora tocca all'Auriga. E sì che Devrrux era stato categorico: «La scultura del Giovane di Mozia non deve assolutamente più essere trasportata in altre sedi museali. Questo andrebbe a compromettere il suo stato di conservazione in modo irreversibile». Perciò la Fondazione Whitaker; che gestisce il museo di Mozia, ha cercato di opporsi al trasferimento: «Siamo riusciti perlomeno ad ottenere che l'Auriga arrivasse a Londra via mare e terra, e non in aereo», dice Maria Enza Carollo, direttore della Fondazione: «La cabina pressurizzata e le bassissime temperature dell'aereoplano potrebbero danneggiarla gravemente». Negli Stati Uniti però ci andrà di sicuro in jet. E la Fondazione ha scritto una lettera chiedendo dettagli alla Regione. «Ma i malati sono pietre», replica Campo, «molto più solidi di alcuni dipinti che spesso vengono trasferiti in aereo. Non vedo quale sia il problema nell'inviare l'Auriga in America. E poi siamo costretti a farlo nel segno del protocollo del 2007». Su questo punto, il ministero dei Beni Culturali non è d'accordo: il patto con il Getty non indicava quali fossero le opere da scambiare.

Intanto a Mozia i turisti si lamentano. «Abbiamo dovuto risarcire intere scolaresche che hanno rinunciato al viaggio», dice la Carollo, «e la stagione si presenta magra: molti hanno disdetto le prenotazioni». Per l'assessorato, la Fondazione non ha da lamentarsi. In cambio dell'Auriga ha ricevuto per questi mesi dal British Museum l'Apollo di Strangford: una bella statua, ma di certo non una star che possa compensare l'eccezionalità dell'atleta. ll Getty invece, annuncia Campo, «renderà la statua con un nuovo basamento antisismico offerto da loro». Che però non proteggerà l'Auriga nel corso del viaggio per il quale ormai è partito, senza sapere quando tornerà.

Concessioni chi decide?

Tomaso Montanari – Corriere del Mezzogiorno

Tra le tante ipocrisie che avvolgono e nascondono il sistematico tradimento dell'obbligo costituzionale della tutela del patrimonio storico e artistico una delle più insopportabili riguarda la formazione delle decisioni dell'amministrazione pubblica. Chi decide, ad esempio, cosa si può prestare, o cosa no, ad una mostra? La delicata, e ovviamente discrezionale, valutazione del rischio materiale e dell'opportunità culturale dei prestiti è affidata ad organi tecnici (le soprintendenze, i comitati tecnico-scientifici del Ministero per i beni culturali), ma alla fine la decisione finale spetta agli organi amministrativi centrali del Mibac. Il paradosso è che nei rari casi in cui i tecnici danno parere negativo, prevale una pretesa «ragion di Stato» (in realtà quasi sempre la ragione, privatissima, dell'interesse personale dei promotori dell'iniziativa) e alla fine l'opera viene comunque imballata e spedita. Ultimo caso, l'Auriga di Mozia: il meraviglioso marmo greco del V secolo avanti Cristo prestato al British Museum non per una mostra scientifica, ma come «testimonial del patrimonio artistico e culturale siciliano» (parole dell'assessore alla cultura siciliano) in occasione delle Olimpiadi londinesi, e poi destinato ad un lungo soggiorno sulla Faglia di Sant'Andrea, al Getty Museum. Il prestito è avvenuto contro il motivato parere della Soprintendenza di Trapani, e per volere incontrastabile della Giunta regionale: un prestito dei politici contro i tecnici, un trionfo della cosiddetta “valorizzazione" ai danni della tutela. Il ministro Ornaghi, in visita a Mozia, si è detto, come sempre, tranquillo: «La Regione avrà valutato bene». Tutto va bene, madama la marchesa: almeno finché un capolavoro non finirà in frantumi. Chissà se almeno quel giorno qualcuno comprenderà a cosa servono i pareri dei tecnici.

La vicenda dei concerti pop in Piazza Plebiscito incrocia questioni cruciali, e oggi roventi, nel nostro rapporto col patrimonio storico e artistico pubblico: a cosa serve quel patrimonio, e dunque qual è il suo uso corretto? E poi: entro che limiti, e in che modi, il patrimonio pubblico può generare profitto privato?

Non esiste una risposta condivisa a queste domande, né tantomeno una linea univoca e chiara del Ministero per i Beni Culturali, perpetuamente afflitto da una sostanziale ‘sede vacante’.

La soprintendente di Firenze trova normale far svolgere una sfilata di moda (aperta da guerrieri Masai che corrono brandendo spade e lance), e la relativa mondanissima cena, nel sancta sanctorum dell’arte italiana, la Galleria degli Uffizi. Pochi giorni dopo, al contrario, il soprintendente di Napoli giudica fuori posto un concerto di musica leggera in Piazza Plebiscito.

Mi sembrano entrambe posizioni insostenibili, perché non tengono conto della natura e dei fini dei luoghi monumentali a cui si riferiscono.

Il delicatissimo corridoio cinquecentesco degli Uffizi, gremito di sculture antiche, non è fatto per ospitare eventi mondani che lo mettono a rischio materialmente, e lo tradiscono moralmente: i musei pubblici servono a costruire l’eguaglianza dei cittadini attraverso la crescita morale e culturale, non ad approfondire, attraverso l’esaltazione del lusso, il solco che li divide.

Al contrario, le piazze storiche nascono per accogliere manifestazioni popolari, anche di massa se le dimensioni lo consentono. Il patrimonio monumentale ha senso se è teatro della vita della comunità: un museo e una piazza devono poter svolgere fino in fondo la loro funzione (possibilmente senza confonderle!).

E, francamente, non vedo proprio niente di male nel fatto che Ligabue, o Laura Pausini si esibiscano in Piazza Plebiscito.

Il problema è la tutela dei monumenti sulla Piazza? Se è davvero così, il soprintendente non solo può, ma deve, intervenire con atti formali prima della manifestazione, e non già dopo con un’intervista.

Se il problema è lo sporco, non è certo difficile risolverlo. Due volte l’anno quel salotto gotico che è Piazza del Campo a Siena accoglie trentamila persone, stipatissime per assistere alla corsa del Palio. Quando lasciano la ‘conchiglia’ del Campo, essa è inevitabilmente coperta di rifiuti: che vengono rimossi in meno di due ore. E mi rifiuto di credere che non possa avvenire lo stesso a Piazza Plebiscito.

Il problema è invece l’uso improprio della terrazza di Palazzo Reale? La soprintendenza ha tutti i mezzi per reprimere duramente l’abuso della propria stessa sede: e se è vero che sono stati addirittura staccati gli allarmi notturni del Palazzo, immagino che anche la Procura della Repubblica potrà dare una mano a farlo.

Nel caos che contraddistingue l’utilizzo del patrimonio monumentale italiano c’è un’unica costante: il trionfo dell’interesse privato su quello pubblico.

Anche chi non condivide il mio giudizio sulla sfilata di moda agli Uffizi, trova che aver affittato per la miseria di 30.000 euro il più famoso museo italiano ad un’impresa privata (e al suo marketing) sia stato un’indecenza: una vera svendita di un bene pubblico, i cui contorni dovrebbero destare l’interesse della Corte dei Conti.

Per lo stesso motivo trovo incredibilmente grave lo sconto del 99,9% praticato sulla tariffa pagata da chi occupa Piazza Plebiscito per un’iniziativa che crea un notevole utile privato. Ogni giorno qualcuno ci spiega che per salvare il patrimonio monumentale c’è bisogno di sponsor privati. Personalmente sono assai scettico su questa soluzione, perché l’esperienza insegna che quasi mai i legittimi interessi di lucro del privato coincidono con i fini costituzionali del patrimonio pubblico.

Ebbene, una volta tanto che le due cose coincidono (una piazza è fatta anche per i concerti), cosa fa l’autorità pubblica (in questo caso la Giunta comunale)? Sostanzialmente regala il bene pubblico a chi lo usa per (legittimi) fini di lucro. Si potrebbe ricordare al sindaco, con qualche ironia, che il bene comune non è il bene del Comune: che non può dunque decidere arbitrariamente a chi ‘regalarlo’, ma deve amministrarlo nel vero interesse della comunità.

La prossima volta che qualcuno lamenterà i crolli delle statue sulla facciata di Palazzo Reale verso il plebiscito non dica, per favore, che non si sa come trovare il denaro per restaurarle.

Gli occhi dei senesi e degli italiani che hanno a cuore le sorti del patrimonio storico e artistico della nazione sono puntati su Renato Saccone, prefetto di Siena. Due mesi fa, la sezione senese di «Italia Nostra» gli ha presentato un esposto, rispettoso quanto fermo e documentato.

Il 29 aprile (festa di Santa Caterina: ironia del destino!) del 2011 l’Opera della Metropolitana di Siena (l’ente che da quasi novecento anni mantiene in vita il Duomo) ha ceduto «un ramo d’azienda» ad una società privata con fini di lucro, Opera Laboratori Fiorentini del gruppo Civita, che gestisce dal 1998 tutti i servizi di accoglienza e assistenza alla visita in più di venti musei del Polo Museale di Firenze. Quel «ramo d’azienda» comprendeva «l’accoglienza ai visitatori» e le «attività culturali». Secondo Italia Nostra, supportata da un ottimo ufficio legale, questa cessione è «palesemente illecita, illegittima e perciò nulla» perché avvenuta in violazione dello statuto dell’Opera della Cattedrale.

In sostanza Italia Nostra dice che quest’ultima istituzione non è un’azienda, non agisce per fini di lucro e deve continuare ad operare per l’interesse pubblico: può, al limite, diventare (come è successo) una onlus, ma non già vendere proprie parti ad un’azienda.

Insomma, sarebbe come se il Liceo «Piccolomini» cedesse un suo ‘ramo’ al CEPU, o se tre reparti delle Scotte fossero ceduti ad una clinica privata. È per questo che Italia Nostra denuncia il fatto che questi contratti, «realizzando il soddisfacimento di un interesse privato», contrastano «clamorosamente con l’interesse pubblico».Il mondo che vive delle concessioni del Ministero dei Beni Culturali presenta molti lati oscuri, e non di rado appare un bizzarro ircocervo di clientelismo parastatale d’antan, marketing all’amatriciana, incompetenza e improvvisazione. Di recente, e proprio su queste colonne, l’amministratore delegato di Opera Laboratori Fiorentini ha dichiarato che gli pare normale assumere i parenti dei dipendenti (magari illustri) del Polo Museale Fiorentino: «a parità di condizioni scegliamo qualcuno di cui ci possiamo fidare». Se il Mibac non fosse una perpetua sede vacante, i tempi sarebbero maturi per un azzeramento generale delle concessioni (bloccate da tempo per un incredibile pasticcio legale), e per una azione di moralizzazione e trasparenza che smantelli i monopoli a favore di quell’apertura che, peraltro, ci impone la Direttiva Bolkenstein dell’Unione Europea.Ma nel caso di Siena in gioco c’è molto di più: qui non si tratta di un appalto, ma di una vera e propria alienazione (per di più in cambio di un corrispettivo ridicolo: poche diecine di migliaia di euro) che spezza irreversibilmente una storia plurisecolare. La crisi del Monte dei Paschi e del Comune scuote in profondità uno dei modelli più antichi di governo del bene comune. In questo momento la città ha un disperato bisogno di poter contare sui propri simboli e sulla propria altissima tradizione culturale: e la lunghissima e gloriosa storia dell’Opera della Metropolitana è davvero troppo importante per liquidarla come se fosse una catena di pizzerie da poter dare in franchising.È per questo che in molti aspettano una parola risolutiva da parte del prefetto, a cui spetta la sorveglianza sul fatto che l’Opera Metropolitana di Siena rimanga fedele ai propri antichissimi fini istituzionali, e non venga né spogliata né trasformata surrettiziamente in un’azienda.Se sarà necessario, Italia Nostra è pronta a rivolgersi direttamente al ministro degli Interni e a suscitare su questo caso un vasto movimento di opinione: ma sarebbe assai meglio se Siena dimostrasse di avere ancora gli anticorpi attivi. Ora è il prefetto a dover decidere se dichiarare nulli i contratti tra l’Opera Metropolitana e Opera Laboratori: in molti aspettano la sua risposta.

Le macerie del municipio ottocentesco di Sant’Agostino - fatto saltare con la dinamite per ordinanza del sindaco, e a favore di telecamere – sono anche le macerie del nostro millenario rapporto con l’arte.

L’assessore ai Lavori Pubblici del comune emiliano ha dichiarato all’Ansa che le decorazioni del salone: “non erano opere di valore: si tratta di opere di soggetto campestre realizzate da artisti locali, e comunque non sarebbe stato facile recuperarle … È anche il segno della ripresa. Ora si potrà partire con un concorso di idee per un nuovo palazzo”.

Sull’ineluttabilità della demolizione è difficile avere informazioni precise: bisogna sostanzialmente fidarsi di chi l’ha disposta. Può darsi che davvero non si potesse far niente per salvare il municipio, anche se è impossibile non notare che, se fosse vero, sarebbe singolare averlo lasciato in piedi per due mesi. È però un fatto che, fin dai primi giorni dopo il terremoto, la sezione emiliana di Italia Nostra ha messo in guardia dagli abbattimenti decisi senza reale necessità e senza rispettare le leggi di tutela.

A far sospettare che la decisione sia stata corriva è il resto della dichiarazione dell’assessore, per il quale non si trattava in fondo di opere ‘di pregio’, e per il quale l’esplosione e il successivo, prevedibile, cemento sarebbero vitalistici e futuristici segni di ripartenza.

Personalmente non riesco a capire come la ripresa possa passare attraverso la dinamite e il cemento. “Solo i vandali possono pretendere che la città moderna nasca dalle macerie della città antica. Dobbiamo inchiodarci nel cervello la convinzione che la salvaguardia integrale del vecchio e la creazione del nuovo nelle città sono operazioni complementari, due momenti indissolubili dello stesso procedimento, che antico e moderno hanno prerogative materiali e spirituali distinte e vicendevolmente necessarie … Insomma, solo chi è moderno rispetta l’antico, e solo chi rispetta l’antico è pronto a capire la necessità della civiltà moderna”. Lo scriveva Antonio Cederna nel 1956: e a me sembra sempre verissimo.

Quanto al concetto di ‘pregio’. La Costituzione non tutela “le opere di pregio”, ma il “patrimonio storico e artistico della nazione”. Quel patrimonio è il tessuto continuo di cui parla Cederna, non le singole emergenze ‘di pregio’: ed è il martellamento del marketing che pompa i Caravaggio e i Leonardo veri e finti che ce lo ha fatto dimenticare, inducendoci a pensare che la tutela avvenga su basi estetiche.

Con quale coraggio il Comune di Sant’Agostino, e le soprintendenze emiliane che hanno distrutto il municipio, negheranno domani la distruzione di un giardino, o di un padiglione ottocentesco o liberty, al cittadino che vuole farsi l’autorimessa o la piscina? Non potrà dire, quel cittadino, che la sua personalissima ripresa ha da passare per quella distruzione?

Ma per fortuna in Italia non ci sono solo cittadini che inneggiano al cemento e alle ruspe.

A Ferentino, per esempio, un comitato civico ha ingaggiato una sacrosanta battaglia per difendere il contesto architettonico antico della chiesa romanica di Santa Lucia. Dopo aver denunciato la distruzione di un muro, al più tardi rinascimentale, appoggiato alla chiesa, il Centro ricerche e documentazione Ferentinum ha scoperto che la decisione era venuta nientemeno che dalla Soprintendenza archeologica, che non si era consultata con le altre soprintendenze, e che non aveva ritenuto quel muro – guarda un po’ – ‘di pregio’.

Sempre in Lazio, a Colleferro, è in corso un’altra battaglia: questa volta per difendere il castello medievale sito sul colle eponimo. Nonostante una valanga di pareri contrari (tra cui quello della sua stessa Commissione edilizia), il Comune vorrebbe avallare la costruzione di nove palazzine (una di quattro piani e tutte con garage) in un’area verde addossata al Castello. I cittadini reagiscono (li si può aiutare firmando qua), e propongono destinazioni alternative coerenti con l’interesse pubblico.

Il loro slogan è anche la convinzione di quella parte di Italia che pensa che il futuro non passi attraverso la distruzione: “Non possiamo seppellire sotto una colata di cemento le radici stesse della storia!”.

Siamo certi che i celebrati musei stile Guggenheim di Bilbao di Frank Gehry facciano davvero rifiorire le città? Siamo certi che servano per il marketing urbano, il turismo e la crescita? Contro la retorica dell' «effetto Bilbao» diffusa in gran parte del mondo, retorica che sta portando le città a competere nel collezionare architetture spettacolari, è uscito un libro di Davide Ponzini e Michele Nastasi "Starchitecture. Scene, attori e spettacoli nelle città contemporanee" (Allemandi, pp. 146, 30). Ponzini è un ricercatore dell'area urbanistica che ha studiato a lungo le ricadute di queste architetture in chiave economica e sociale ed è intervenuto in recenti convegni internazionali al termine dei quali, riporta la pubblicistica straniera, persino importanti fondazioni sono state indotte a riflettere su alcune aperture di musei futuri. In alternativa all'insistente celebrazione mediatica di ogni architettura nichilista dell'iperconsumo — che comunque rappresenta e rispecchia i nostri tempi — gli autori propongono una lettura critica delle molteplici implicazioni urbane di edifici, piani e progetti per le varie Bilbao, Abu Dhabi, Parigi e New York. L'architettura, infatti, non è solo un linguaggio e, tantomeno, un «evento». E uno dei temi che si è sottovalutato è la rapida obsolescenza architettonica e mediatica di queste gioiose macchine da guerra messe in scena in città non sempre appropriate. Per dirne una — e forse è una buona notizia — appare incerto il destino dell'approvato nuovo Museo di arte contemporanea di Milano firmato da Daniel Libeskind. Fu vera gloria?

Se c’è ancora un motivo per perder tempo con la galattica bufala caravaggesca, è che essa mette a nudo gli ingranaggi del bufalificio.

Il modello è quello dell’arte contemporanea: dove, da decenni, un ‘artista’ si crea a tavolino, dal nulla. Come lì non conta nulla la qualità, qua non conta nulla la ricerca: la responsabile del Gabinetto disegni del Castello Sforzesco ha detto che non ha mai visto i due ‘scopritori’ studiare le opere.

Quel che invece conta davvero è la comunicazione: i contatti, i lanci, gli eventi, gli scandali e perfino le risse. E se il contemporaneo è, da tempo, materia più da pierre che da critici o storici dell’arte, siamo sulla buona strada perché la stessa fine la faccia la storia dell’arte antica.

Caravaggio, ormai, è più di là che di qua. Negli scorsi mesi, una campagna martellante ha accreditato l’attribuzione di una seconda Medusa. Basta guardarla per capire che è una copia, più tarda e comunque ottusa, di quella celeberrima degli Uffizi. Ma la società di comunicazione «Once – Extraordinay Events» l’ha lanciata in modo assai efficace, anche grazie alla disponibilità di storici dell’arte ‘ottimisti’. E i risultati sono stati clamorosi. In una puntata di «Chi vuol esser milionario», Gerri Scotti ha chiesto quale soggetto fosse stato dipinto da Caravaggio una sola volta: la concorrente ha indicato («senza l’ausilio di alcun aiuto», narrano le cronache) la Medusa degli Uffizi. Ed aveva perfettamente ragione: ma il ‘pubblico a casa’ è insorto, perché la campagna promozionale era stata tanto pervasiva che tutti sapevano che esisteva un’altra Medusa. Il finale tragicomico è stato che, nella puntata successiva, Scotti si è dovuto scusare.

È istruttivo sapere che Once ha curato anche la recente sfilata di moda agli Uffizi, ed è l’«agenzia di riferimento territoriale che supporta la ricerca» della Battaglia di Anghiari brandita da Matteo Renzi.

Masai agli Uffizi, Caravaggio finti, Leonardi immaginari: tutto fa brodo in un marketing per cui l’arte figurativa è, davvero, «carne da cannone», come scriveva Roberto Longhi. In un paese in cui si fa fatica a spiegare perché i monumenti danneggiati da un terremoto non debbano essere abbattuti con la dinamite, tutto questo non è solo un errore: è un crimine.

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