I promotori e i firmatari del presente appello chiedono a chi si candida a governare l’Italia impegni programmatici per il rilancio della cultura intesa come promozione della produzione creativa e della fruizione culturale, tutela e valorizzazione del patrimonio, sostegno all’istruzione, all’educazione permanente, alla ricerca scientifica, centralità della conoscenza, valorizzazione delle capacità e delle competenze.
La crisi economica e la conseguente riduzione dei finanziamenti stanno mettendo a dura prova l’esistenza di molte istituzioni culturali, con gravi conseguenze sui servizi resi ai cittadini, sulle condizioni di lavoro e sul futuro di molti giovani specificamente preparati ma senza possibilità di riconoscimento professionale. Questa situazione congiunturale è aggravata dalla crisi di consenso che colpisce la cultura, che una parte notevole della classe dirigente – pur dichiarando il contrario – di fatto considera un orpello inattuale, non elemento essenziale di una coscienza civica fondata sui valori della partecipazione informata, dell’approfondimento, del pensiero critico.
Noi rifiutiamo l’idea che la cultura sia un costo improduttivo da tagliare in nome di un malinteso concetto di risparmio. Al contrario, crediamo fermamente che il futuro dell’Italia dipenda dalla centralità accordata all’investimento culturale, da concretizzare attraverso strategie di ampio respiro accompagnate da interventi di modernizzazione e semplificazione burocratica. La nostra identità nazionale si fonda indissolubilmente su un’eredità culturale unica al mondo, che non appartiene a un passato da celebrare ma è un elemento essenziale per vivere il presente e preparare un futuro di prosperità economica e sociale, fondato sulla capacità di produrre nuova conoscenza e innovazione più che sullo sfruttamento del turismo culturale.
Ripartire dalla cultura significa creare le condizioni per una reale sussidiarietà fra stato e autonomie locali, fra settore pubblico e terzo settore, fra investimento pubblico e intervento privato. Guardare al futuro significa credere nel valore pubblico della cultura, nella sua capacità di produrre senso e comprensione del presente per l’avvio di un radicale disegno di modernizzazione del nostro Paese.
Per queste ragioni chiediamo che l’azione del Governo e del Parlamento nella prossima legislatura, quale che sia la maggioranza decisa dagli elettori, si orienti all’attuazione delle seguenti priorità.
Puntare sulla centralità delle competenze
Promuovere e riconoscere il lavoro giovanile nella cultura
Investire sugli istituti culturali, sulla creatività e sull’innovazione
Modernizzare la gestione dei beni culturali
Avviare politiche fiscali a sostegno dell’attività culturale
I promotori e i firmatari del presente appello chiedono di accogliere nei programmi elettorali queste priorità e di sottoscrivere i dieci obiettivi seguenti, che dovranno caratterizzare il lavoro del prossimo Parlamento e l’azione del prossimo Governo. Il nostro sostegno, durante e dopo la campagna elettorale, dipenderà dall’adesione ad essi e dalla loro realizzazione.
1) Riportare i finanziamenti per le attività e per gli istituti culturali, per il sistema dell’educazione e della ricerca ai livelli della media comunitaria in rapporto al PIL.
2) Dare vita a una strategia nazionale per la lettura che valorizzi il ruolo della produzione editoriale di qualità, della scuola, delle biblioteche, delle librerie indipendenti, sviluppando azioni specifiche per ridurre il divario fra nord e sud d’Italia.
3) Incrementare i processi di valutazione della qualità della ricerca e della didattica in ogni ordine scolastico, riconoscendo il merito e sanzionando l’incompetenza, l’inefficienza e le pratiche clientelari.
4) Promuovere sgravi fiscali per le assunzioni di giovani laureati in ambito culturale e creare un sistema di accreditamento e di qualificazione professionale che eviti l’immissione nei ruoli di personale non in possesso di specifici requisiti di competenza. Salvaguardare la competenza scientifica nei diversi ambiti di intervento, garantendo organici adeguati allo svolgimento delle attività delle istituzioni culturali, come nei paesi europei più avanzati.
5) Promuovere la creazione di istituzioni culturali permanenti anche nelle aree del paese che ne sono prive – in particolare nelle regioni meridionali, dove permane un grave svantaggio di opportunità – attraverso programmi strutturali di finanziamento che mettano pienamente a frutto le risorse comunitarie; incentivare formule innovative per la loro gestione attraverso il sostegno all’imprenditoria giovanile.
6) Realizzare la cooperazione, favorire il coordinamento funzionale e la progettualità integrata fra livelli istituzionali che hanno giurisdizione sui beni culturali, riportando le attività culturali fra le funzioni fondamentali dei Comuni e inserendo fra le funzioni proprie delle Province la competenza sulle reti culturali di area vasta.
7) Ripensare le funzioni del MiBAC individuando quelle realmente “nazionali”, cioè indispensabili al funzionamento del complesso sistema della produzione, della tutela e della valorizzazione dei beni culturali, per concentrare su di esse le risorse disponibili. Riorganizzare e snellire la struttura burocratica del ministero, rafforzando le funzioni di indirizzo scientifico-metodologico e gli organi di tutela e conservazione, garantendone l’efficienza, l’efficacia e una più razionale distribuzione territoriale.
8) Inserire la digitalizzazione del patrimonio culturale fra gli obiettivi dell’agenda digitale italiana e promuovere la diffusione del patrimonio culturale in rete e l’accesso libero dei risultati della ricerca finanziata con risorse pubbliche.
9) Potenziare l’insegnamento delle discipline artistiche e musicali nei programmi di studio della scuola primaria e secondaria e sviluppare un sistema nazionale di orchestre giovanili.
10) Prevedere una fiscalità di vantaggio, compreso forme di tax credit, per l’investimento privato e per l’attività del volontariato organizzato e del settore non profit a sostegno della cultura, con norme di particolare favore per il sostegno al funzionamento ordinario degli istituti culturali. Sostenere la fruizione culturale attraverso la detraibilità delle spese per alcuni consumi (acquisto di libri, visite a musei e partecipazione a concerti, corsi di avviamento alla pratica artistica); uniformare l’aliquota IVA sui libri elettronici a quella per l’editoria libraria (4%); prevedere forme di tutela e di sostegno per le librerie indipendenti.
Promotori:MAB Musei Archivi Biblioteche
AIB – Associazione Italiana Biblioteche
ANAI – Associazione Nazionale Archivistica Italiana
ICOM Italia- International Council of Museums
Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli
Federculture
Italia Nostra
Legambiente
Comitato per la bellezza
1) Può la Bellezza essere uno dei temi centrali, unitamente alla cultura e, in particolare, alla cultura della tutela, della vostra campagna elettorale, uno dei punti-cardine del vostro impegno politico?
2) La Bellezza è anche per voi un bene sociale, un diritto di tutti, uno dei pilastri di una nuova politica per la società italiana, partendo dal patrimonio storico-artistico, dal paesaggio, dai siti archeologici, dai centri storici?
3) La Bellezza è stata sfregiata, mortificata e profondamente intaccata, dalle coste alla montagna, dalla campagna alla città, nel patrimonio storico-artistico-archeologico e in quello di biblioteche, archivi e fondi musicali, a causa della latitanza di una politica per la cultura, a causa dell’imperversare di condoni, di abusi e di inquinamenti d’ogni genere. Siete d’accordo?
4) Concordate sul fatto che il lassismo di Comuni e Regioni verso una edilizia di mercato utilizzata come fonte di entrata corrente per Enti locali vicini al collasso si è trasferita sul paesaggio imbruttendolo, mentre mezza Italia crolla o smotta e che c’è un restauro colossale del territorio e del patrimonio edilizio vecchio e antico da promuovere, anche a fini sociali?
5) Ha senso una diffusione sfrenata di pale eoliche (che richiedono strade e sbancamenti di terreni collinari e montani già fragili anche laddove non c’è vento sufficiente, persino in zone di alto pregio paesaggistico e archeologico), di pannelli solari senza limiti di sorta, spesso su terreni coltivati, oppure la creazione di maxi-impianti fotovoltaici?
6) E per la pianificazione urbanistica e paesaggistica, oggi negletta, siete pronti a riportarla in onore attuando anzitutto il Codice per i Beni culturali e per il Paesaggio, la co-pianificazione Ministero-Regioni, contro un consumo di suolo e un dissesto spaventosi che esigono un piano pluriennale per “rifare l’Italia”, mettendola in sicurezza? Vi impegnate a votare, al più presto, una legge che riduca nel modo più drastico il consumo di suolo?
7) Siete disposti ad appoggiare una autentica “ricostruzione” del Ministero come quello dell’Ambiente e ancor più di quello per i Beni e le Attività Culturali, indebolito, snervato, semidistrutto dalle ultime gestioni, da Bondi a Ornaghi?
8) L’Italia era riuscita negli anni Ottanta e Novanta a recuperare sull’Europa “verde” più avanzata creando una ventina di Parchi Nazionali (da quattro che erano, da decenni) e coprendo con la tutela il 10 per cento del territorio nazionale. Ma da anni ormai i Parchi di ogni livello mancano di fondi persino per la sopravvivenza. Vi impegnate affinché la politica dei parchi venga ripresa e potenziata ad ogni livello?
9) Musica lirica, sinfonica, popolare, dal vivo, tutte le forme di teatro, di spettacolo, di cinema sono forse state degnate in Italia della giusta attenzione dagli ultimi governi? O non vi sono sembrate al contrario condannate alla più stentata e mortificata sopravvivenza, e magari ad una fine prematura? Vi impegnate a finanziarle in modo selettivo ma adeguato premiando le produzioni di qualità, i talenti meritevoli, le compagnie di giovani, le iniziative di ricerca e di riscoperta?
10) Arte, cultura, musica, paesaggio continuano ad essere trattati in due modi sbagliati: a) come materie da privilegiare soltanto a chiacchiere continuando in realtà a speculare sulle aree, sui centri storici, sulle coste e sulle montagne,ecc. b) come “il nostro petrolio”, come “una macchina da soldi”, cioè come una serie di giacimenti da “sfruttare” cavandone profitti laddove essere sono possibili, abbandonando il resto a se stesso. Non credete invece, con noi, che sia giunto il momento di considerarle un tutt’uno inscindibile, un valore strategico “in sé e per sé” (e non per i profitti che può dare), il “motore” reale di tante attività indotte, come il turismo culturale e naturalistico?
Voi candidati, voi leader dei partiti, siete pertanto disposti a condividere questa battaglia politica e culturale di civiltà per la Bellezza come bene di tutti e come diritto sociale nei termini che abbiamo qui esposto? E a verificare con noi periodicamente il vostro reale impegno su questi temi cruciali una volta eletti?
È stata, invece, l’Agenda di Monti a sorprendere: nel senso che molti pensavano che la destinazione del peggior ministro del suo governo proprio ai Beni culturali fosse stata un incidente. E invece no: la deprimente e imbarazzante paginetta che l’Agenda Monti riserva all’«Italia della bellezza, dell’arte e del turismo» certifica che non c’è differenza tra il professore e i politicanti che ha commissariato. Certo, direte, non è una gran notizia dopo l’incredibile disinvoltura con cui il castigamatti si è trasformato nell’ennesimo matto: un Monti che, incurante del laticlavio da senatore a vita, ha presentato l’ennesima lista personale (vero abominio democratico), si è alleato nientemeno che con Fini e Casini, e si è financo messo a fare del sarcasmo sulla statura di Brunetta.
Se questa era la caratura culturale dell’uomo, non si può certo stupirsi se sulla cultura ha le idee più dozzinali che si possano immaginare. Nemmeno una parola di quella pagina è dedicata al valore civile del patrimonio storico e artistico, mentre l’idea chiave è che «investire nella cultura significa anche lavorare per rafforzare il potenziale del nostro turismo, poiché già oggi cultura, bellezze naturali ed enogastronomia sono i pilastri della nostra attrattiva». Sai che novità: su questo dogma craxiano si fonda l’industria culturale che sta trasformando il patrimonio in una Disneyland che forma non cittadini consapevoli, ma spettatori passivi e clienti fedeli. È a questo dogma che dobbiamo la privatizzazione progressiva delle città storiche (Venezia su tutte), e un’economia dei beni culturali che si riduce al parassitario drenaggio di risorse pubbliche in tasche private, socializzando le perdite (l’usura materiale e morale dei pochi ‘capolavori’ redditizi) e privatizzando gli utili, senza creare posti di lavoro, ma sfruttando selvaggiamente un vasto precariato intellettuale. È grazie a questo dogma che prosperano le strapotenti società di servizi museali, che lavorano grazie a un opaco sistema di concessioni, e che stanno fagocitando antiche istituzioni culturali e cambiando in senso commerciale la stessa politica del Ministero per i Beni culturali. Appare, insomma, realizzata la profezia di Bernard Berenson, che già nel 1941 intravide un mondo «retto da biologi ed economisti dai quali non verrebbe tollerata attività o vita alcuna che non collaborasse a un fine strettamente biologico ed economico»; un mondo in cui ci sarebbe stato spazio per «ricreazione fisiologica sotto varie forme, ma di certo non per le arti umanistiche».
In tutto questo, può essere di qualche conforto che il Fondo per l’Ambiente Italiano lanci le Primarie della cultura, una consultazione online che sottopone al vaglio dei cittadini temi forti da presentare poi ai vari candidati. Benissimo: anche se non tutti i temi proposti sono condivisibili, e anche se la trovata di Giotto, Dante, Leonardo, Verdi e Fellini candidati e comizianti è abbastanza imbarazzante.
Ma il punto non è quello. Il punto è che questa lodevole iniziativa rischia di rafforzare l’idea che la cultura sia materia per ricche signore in vena di beneficenza. E che poi, quando qualcuno di quella eletta cerchia ‘sale’ in politica, allora deve fare sul serio, e dunque deve dimenticarsi di queste ciance da salotto, e trattare la cultura come merita: cioè rigorosamente a calci nel sedere.Proprio come ha fatto un certo Mario Monti, il cui governo ha tagliato ancora su scuola, università e patrimonio culturale, e che – per citare un solo episodio – è stato a un passo dal sigillare Villa Adriana in una discarica.
Un certo Mario Monti, che è membro del consiglio di amministrazione del Fai.
Il manifesto, “alias”, 6 gennaio 2013
«Sarebbe assurdo che una generazione precedente potesse limitare l’uso che (della terra, n.d.r.) faranno le generazioni successive, poiché la terra appartiene ad esse proprio come appartenne ai loro predecessori, al loro tempo». Sono parole che potrebbero provenire da uno dei tanti benemeriti difensori dell’ambiente, parole che figurerebbero benissimo anche in un editoriale del nostro manifesto. Sono invece tratte dalle Lezioni di Glasgow di Adam Smith, i corsi accademici che il maggior fondatore della moderna teoria economica tenne nell’università scozzese tra il 1762 e il 1764 (tradotte in italiano da Giuffré nel fatidico 1989). Già, proprio quello Smith di cui il neoliberismo, fuori e dentro d’Italia, si è – indebitamente – appropriato come padre nobile al fine di legittimare la propria ideologia imperniata sull’homo œconomicus, egoista e dedito solo al profitto immediato, tale quindi da giustificare anche lo sfruttamento senza tregua di quei beni comuni apparentemente gratuiti (perché senza cartellino di prezzo), che chiamiamo ambiente o territorio o, semplicemente, natura.
Il nesso tra neoliberismo e distruzione dei beni comuni è diretto e profondo, e il riconoscerlo è merito non piccolo di quest’ultimo libro di Salvatore Settis – Azione popolare Cittadini per il bene comune (Einaudi «Passaggi», pp. 240, € 18,00) –, l’archeologo che da anni si è trasformato in intellettuale militante per la tutela non solo del patrimonio storico-artistico, come pure ci si potrebbe attendere da un esperto del settore, ma di quel bene molto più fragile – perché perlopiù intangibile e quindi meno o per nulla difeso – che è il paesaggio italiano. Questo era appunto il tema di Paesaggio costituzione cemento (Einaudi 2010), che ricostruiva il dibattito secolare sulla difesa del territorio, partito addirittura prima dell’unità d’Italia, all’epoca degli stati italiani pre-risorgimentali, e che trovò una sintesi felice nell’articolo 9 della Costituzione, che considera i beni culturali e il paesaggio come un unico patrimonio culturale da salvaguardare. A quel libro e alle sue ultime pagine, che esortavano a resistere alla crescente devastazione attraverso forme di azione popolare da intraprendere per una più piena attuazione della condizione di cittadinanza, si riallaccia il titolo di questo nuovo testo, che fonde assieme una vasta serie di analisi che si nutre di apporti provenienti dalle più diverse discipline: storia, economia, sociologia, diritto, filosofia e persino biologia evolutiva.
Pur in tanta ricchezza e complessità, l’obiettivo è sempre chiaro e mai perso di vista: la rivalutazione del bene comune, al di là di ogni uso retorico o strumentale, e dei beni comuni, senza cui il primo diventa solo un slogan vuoto, da stiracchiare per l’ennesima campagna elettorale. Di beni comuni oggi si parla molto, e anche confusamente, finendo per comprendervi tante cose diverse, a volte troppe. Al primo posto non possono che esservi i «beni comuni materiali naturali», come li chiama Giovanna Ricoveri ispirandosi a Empedocle: terra, acqua, aria, energia (in Beni comuni vs merci, Jaca Book 2010, di cui è imminente l’uscita in inglese con il titolo Commons vs commodities, con prefazione di Vandana Shiva). Ma se questo può bastare per i cosiddetti paesi in via di sviluppo, non è così per un paese come l’Italia, la cui identità storica è fatta anche di luoghi, di paesaggi, di monumenti che fino a poco tempo fa erano parte del demanio pubblico e che lo sciagurato federalismo demaniale rischia di smantellare una volta per sempre, all’insegna di quello slogan «padroni a casa nostra» che riflette, come forse nessun altro, lo sgretolamento dell'idea stessa di una cittadinanza italiana.
La riflessione di Settis oscilla costantemente tra memoria storica, battaglia politica e legale in nome disamina del presente e tensione verso il futuro, tenacemente sorretta dalla convinzione che se non si sa guardare indietro, non si può sperare di saper guardare avanti. Di qui l’ampia ricognizione di carattere giuridico sull’antica sull’antica nozione di usi civici o beni colletti vi, «un altro modo di possedere» (la definizione è del giurista Paolo Grossi) oggetto di una secolare battaglia politica e legale in nome dell’egemonia della proprietà privata che ha sempre cercato di ridurla ai minimi termini in quanto ostacolo al profitto dei ceti dominanti. Ma la proprietà collettiva, forma spontanea di auto organizzazione socio-economica pervasa da spirito comunitario, ha ricevuto anche di recente critiche drastiche da parte di scienziati sociali sulla base della teoria detta «tragedia dei beni comuni», secondo cui essi sarebbero inevitabilmente destinati a perire per l’eccesso di consumo collettivo. Una teoria che il lungo lavoro empirico di Elinor Ostrom, l’economista scomparsa da pochi mesi, ha rivelato privo di fondamenta, un puro asserto ideologico. È anche a lei che Settis guarda per rivalutare il principio di cooperazione che il neoliberismo ha sempre vilipeso in favore della competizione ossia del mercato, trattato come una sorta di entità metafisica, di nuova religione secolare, che l’autore smaschera come un falso mito. Così come smaschera come vera ed estrema antipolitica il tentativo di screditare come antipolitici tutti quei fermenti spontanei di protesta contro la politica ufficiale che esclude la voce dei cittadini proprio quando si tratta di decisioni vitali per la salute e il benessere della comunità (gli esempi al riguardo si sprecano, ma per chi scrive da Vicenza, già città del Palladio e ora di basi militari, il riferimento è immediato).
Dopo un ministro latitante, Lorenzo Ornaghi, il peggiore di una storia quarantennale,un'Agenda che assomiglia a un brodino di dado (vecchio) a fronte di un ministero per i Beni e le attività culturali vicino al collasso, all'immobilità e quindi all'impotenza contro speculatori, tombaroli, privatizzatori sciolti e a pacchetti, lottizzatori legali e abusivi, piazzisti di pale eoliche tanto inutili quanto devastanti (magari su vigneti e oliveti di pregio) e di distese di panelli fotovoltaici messe a tappezzare campi prima coltivati. Con tutto lo spettacolo dal vivo che boccheggia, riduce programmazione e spesso qualità, ricerca e avanguardia. Tutto qui lo sforzo del professor Monti e dei suoi collaboratori per un «motore» strategico come la cultura? Una paginetta palliduccia, con appena 14 righe dedicate ai beni culturali (retoricamente definito patrimonio «che non ha eguali al mondo») e le altre 17 al turismo. Che per l'Agenda sembra davvero l'unica ragione di conservazione di un complesso che vanta oltre 4.000 musei, 95.000 fra chiese e cappelle, 2.000 siti e aree archeologiche, 40.000 fra torri e castelli, migliaia di biblioteche antiche e di archivi plurisecolari, di palazzi civici ed ecclesiastici inseriti in oltre 20.000 centri storici dei quali almeno mille di una bellezza stordente, con 800 teatri storici e tanto altro ancora. Spesso ben restaurato in anni che parevano infelici e che ora ci sembrano persino felici, inserito in paesaggi mirabili, «fatti a mano» per secoli. Quella che Goethe, ammirato, chiamò, riprendendo Averroè, «una seconda natura» (la natura naturata) costruita da artisti, artigiani, artieri geniali e di gusto. Eppure il presidente della Repubblica Napolitano, agli Stati generali della cultura, aveva detto cose ben più forti e profonde esortando a desistere dai tagli e a darsi una politica perla cultura, perla ricerca, secondo l'art. 9 della Costituzione. Nell'Agenda Monti viene vantato l'avvio del progetto Pompei che - come ha giustamente rilevato Maria Pia Guermandi su Eddyburg- è tutto finanziato dalla Ue e dall'aprile scorso non ha mosso ancora un sol passo. Con quella Soprintendenza speciale di fatto commissariata.
Per i grandi musei statali la ricetta-Monti è la «partnership pubblico-privato», con lo Stato esangue che non ha euro da investire e chiede ai privati di sostituirlo cedendo loro, a quanto si può capire, la gestione e la regia tecnico-scientifica. Saremmo l'unico Paese sviluppato in cui i privati entrano nei musei statali non per dare soldi ma soprattutto per prenderne. «I privati dentro la gestione di un museo pubblico?», mi chiese stupito un importante storico dell'arte americano allorché Ornaghi lanciò la Grande Brera privatizzata. «Ma è come mettere la volpe nel pollaio...». E la storica dell'arte Jennifer Montagu, inglese, bollò l'operazione Brera (con l'Accademia di Belle Arti allontanata dal palazzo piermariniano) come «decisione vergognosa e disastrosa». Per contro l'ex ambasciatore Sergio Romano definiva «giacobini» i tanti intellettuali che - a partire da Catherine Loisel conservateur en chef del Louvre - si opponevano a quel progetto. Perché difensori del primato dell'interesse generale su quelli privati?
Cosi va l'Italia e ancor peggio andrebbe se dovesse prevalere l'idea che un patrimonio «che non ha eguali al mondo» (Monti dixit) fosse trattato come un «giacimento», una «macchina da soldi», e non come un valore strategico «in sé e per sé» (sia o no redditizio). Anche per il Pd c'è però un insegnamento. in questo mediocre capitoletto dell'Agenda Monti: ribalti il discorso e sulla cultura imposti un'orgogliosa strategia alternativa, ridia slancio e fiducia ai tanti operatori culturali (pubblici e privati) capaci, meritevoli, coraggiosi e però frustrati, preveda incentivi per i privati che vogliono essere sponsor e mecenati, restituisca entusiasmo ai milioni di italiani (e di stranieri) che amano il Belpaese, la sua arte, la sua musica, il suo teatro, le sue città, i suoi inarrivabili e minacciati paesaggi. Dica forte e chiaro che la Bellezza è un bene sociale che riguarda tutti.
La Repubblica, 11 dicembre 2012
Finalmente rivelati i progetti del ministro Lorenzo Ornaghi. Rispondendo con solo nove mesi di ritardo a una lettera firmata da oltre cento direttori di musei, archivi, biblioteche che lamentavano lo stato deplorevole dei beni culturali e il nessun riconoscimento dei loro meriti e del loro lavoro, il ministro ha parlato chiaro (Corriere della sera,8 dicembre): bando alle ciance, la vera priorità del nostro tempo è «evitare a ogni costo il diffondersi della peste dell’invidia e delle gelosie sociali», che porterebbero a «un incattivimento della società italiana più pericoloso dello spread, più nefasto di ogni immaginabile stallo dei partiti o del sistema rappresentativo- elettivo». Ecco dunque l’agenda Ornaghi: la pace sociale si raggiunge rinunciando a invidie e gelosie, ognuno si accontenti del suo stato, zitti e mosca. Quanto al suo dicastero, pro bono pacis,sarà meglio non rispondere nemmeno al direttore degli Uffizi, anzi bastonarlo se si accorge che il suo stipendio è un decimo di quello dei suoi colleghi americani e un ventesimo di quello di un deputato (italiano) che vende il voto al miglior offerente. No all’invidia sociale, viva l’armonia. È un modello che si può estendere: per esempio, guai ai disoccupati che vorrebbero lavorare, sono solo degli invidiosi. Vergogna se un malato che non può curarsi per i tagli alla sanità dice che chi può permettersi un’assicurazione godrà di miglior salute. Vituperio su alunni, insegnanti e genitori che vorrebbero una scuola pubblica funzionante, e osano ricordare che secondo la Costituzione (art. 33) scuole e università private, compresa la Cattolica di cui Ornaghi è stato rettore fino a un mese fa, hanno piena libertà ma «senza oneri per lo Stato». Tutta invidia. Qualcuno si permette di ipotizzare «una società in cui tutti i meriti ottengano il loro giusto compenso»? Ma è una «critica sprovvista di un realistico contributo costruttivo », anzi «un malvezzo». Questi «incattivimenti» meglio eliminarli alla radice, pax
vobiscum. E perché non affrontare gli altri nodi della politica stigmatizzando anche gli altri vizi capitali? Un brillante biologo conteso da università di tutto il mondo vorrebbe una cattedra in Italia (ma non può: i concorsi sono bloccati da sette anni)? Pecca di superbia! Un operaio di Taranto protesta perché all’Ilva si registra un aumento dei tumori fino al 419 %? Si è macchiato di un altro vizio deplorevole, l’ira. Un malato si lamenta della pessima qualità del cibo in ospedale? Si penta, sta peccando di gola. Un direttore resiste all’idea di privatizzare attività e biglietteria del suo museo? Ma è avarizia! Restano due vizi nella lista, lussuria e accidia. Del primo abbiamo registrato fin troppi esempi (in Parlamento e nei CdA), ma non incattiviamoci al punto di ricordarli. Di accidia viene accusato frequentemente proprio Ornaghi, ma si tratta palesemente di «distorsioni o fratture che caratterizzano la nostra convivenza civile». E a Gian Antonio Stella che gli aveva chiesto ragione della sua ostinata assenza dalla scena (detta in linguaggio curiale, quel Ministero è davvero “sede vacante”), il ministro risponde serafico che sì, magari fra un mesetto, «trascorso questo periodo di feste», potrebbe concedergli un incontro.
Piuttosto, in questa politica- catechismo, varrà la pena di ricordarsi anche dei Dieci Comandamenti.Settimo: Non rubare,per dirne una. Ma allora come mai Ornaghi ha difeso in Parlamento il suo consigliere Marino Massimo De Caro, arrestato pochi giorni dopo per il furto di migliaia di libri nella biblioteca napoletana dei Girolamini di cui, proprio in quanto consigliere del ministro, era stato nominato direttore? E come mai Ornaghi non ha sentito nemmeno il bisogno di scusarsi via via che la magistratura scopriva altri furti del De Caro (ancora e sempre in galera), in decine di altre biblioteche in cui entrava come suo consigliere? Forse per non «incattivire»? Sarà, invece, ostensione di bontà la sua tesi, spesso ripetuta tra un coro di fischi, che è meglio che lo Stato se la svigni dai musei e ceda il passo ai privati? Per troppo tempo abbiamo sperato che la destra “colta e pulita” del governo Monti segnasse un progresso rispetto alla destra becera e incolta dei governi Berlusconi, ma almeno in questo caso non è così. Sarà forse per carità cristiana, ma certo Ornaghi ha voluto dimostrareurbi et orbi che il povero Bondi non era, dopotutto, il peggior ministro possibile. Bisogna ammetterlo, ce l’ha fatta.
Vogliamo costruire democrazie vivaci e partecipate o autoritarismi tecno-consumistici? E che facciamo sul piano delle politiche universitarie, dopo avere lanciato ambiziosi appelli pro-cultura: incoraggiamo la ricerca di base o ci limitiamo a istituire un'ora di simpatica ricreazione aggiuntiva in Humanities nei dipartimenti di economia aziendale e ingegneria, come qualcuno suggerisce? Professionalità o "atmosfera creativa"? La prospettiva cambia: "cultura" è a nostro avviso un elementare diritto di cittadinanza, non l'insieme dei beni di consumo voluttuari riservati a (potenziali) startupper adolescenti. La ricerca non applicativa cade decisamente fuori dall'agenda del Sole 24ore, e con essa i temi dell'equità sociale e delle pari opportunità, che pure la Costituzione riconosce. Spiace. Perché il binomio "cultura e sviluppo" può e deve essere interpretato anche nel senso della crescita civile, in termini dunque che non sono economicistici. "Creare capacità" e "liberarsi dalla dittatura del PIL". Questi gli appelli lanciati da Martha Nussbaum nel suo ultimo libro, e l'argomento è stato riproposto in maniera incessante in tempi recenti. Non possiamo immaginare una società in cui le sole competenze tecnico-economiche decidano della sorte di tutti.
La "platea" e il "Presidente": questi in sintesi gli Stati Generali della Cultura convocati dal Sole 24ore al teatro Eliseo di Roma il 15 novembre. O quantomeno le voci memorabili di un evento concepito come autocelebrazione di un establishment e risoltosi invece (quasi) nel suo contrario. Il "Presidente" è Giorgio Napolitano al netto delle retoriche agiografiche: sul suo intervento, applaudito a lungo, si è già scritto molto. L'inefficienza dell'apparato burocratico desta "vergogna", e occorre rimuovere il pregiudizio anticulturale di questo governo e dei precedenti. No ai tagli lineari, sì a trasferimenti di risorse a scuola, ricerca e tutela del patrimonio. "Mi domando come sia stato possibile, qualche tempo fa", si è chiesto Napolitano volgendosi verso Francesco Profumo "che un oscuro estensore di norme abbia preteso di redigere una norma che prevedeva l'immediata soppressione di dodici istituti di ricerca". Urla e contestazioni hanno interrotto più volte Ornaghi e Profumo. Eravamo tuttavia presenti al Teatro Eliseo: niente tumulti scomposti. Nessuna "antipolitica". Né luoghi comuni. Ma l'indignazione di una platea di ricercatori, intellettuali, insegnanti, attori, artisti, che assistono da decenni al dominio dell'incuria o del saccheggio. Niente più vane parole o cerimoniali autoreferenziali: questo era stato chiesto all'iniziativa del Sole 24ore, che da mesi si muove sul tema con la possessività del monopolista e la rozza efficienza di un esercito di occupazione; e questo è stato preteso. Le voci di dissenso del pubblico hanno ricevuto un sostegno vasto, immediato e inatteso. Voci non solo giovani, anche se in prevalenza tali: early career, outsider, "lavoratori della cultura" e "talenti" cui ci si rivolge oggi da più parti nel desiderio di diffondere nel paese attitudini all’“innovazione" e alla "sfida". Così Corrado Passera, prevedibilmente. L'attuale ministro dello Sviluppo non sembra avere progetti né attenzione specifici per la "cultura" o la ricerca non applicativa ne perla storia dell'arte anche se si sofferma volentieri sul tema dei musei da trasformare in fondazioni. Non devono essergli chiari i rapporti tra "tutela", "valorizzazione" e "gestione", che articola ogni volta invocando risorse private e al tempo stesso affannandosi a rassicurare i sostenitori dell'intervento pubblico. Affascinato dal modello Louvre Abu Dhabi, Passera si muove tra Richard Florida ("classe creativa") e Chris Anderson (i "makers"). Può non essere un torto per un ex-banchiere e amministratore delegato, ma è importante stabilirlo nel momento in cui il ministro «diviene ospite d'obbligo agli incontri dedicati alle politiche del patrimonio (oggi gli "Stati generali della Cultura", ieri "Florens2012"). A nostro avviso è insufficiente (e predatorio) interessarsi a istruzione e tutela solo in termini propedeutici, dal punto di vista delle politiche economiche. Il dibattito sulla "crisi", le deludenti performance dell'economia italiana e il crollo della "Seconda Repubblica" non sembrano avere avviato una riflessione sufficientemente severa sulla classe dirigente: qualità, composizione, processi di reclutamento e selezione. Un economista come Pierluigi Ciocca ha posto di recente una domanda che aspetta una risposta. "Come può un fenomeno complesso quale la crescita economica, che investe l'intera società, non dipendere anche da variabili metaeconomiche? Cultura, istituzioni, politica influiscono sulla crescita". Nelle proposte confindustriali di riforma delle politiche educative incontriamo esortazioni o desiderata quantomai generici ("banda larga", "infrastruttura sociale" nel senso di mutualismo e charity, "legalità") che non pongono in discussione autoinvestiture, presunzioni di "eccellenza", atteggiamenti esclusivi.
Tra le difficoltà del Paese c'è la scarsa cooperazione tra competenze. Cerchie accademiche, finanziarie e industriali coabitano le une accanto alle altre nell'arrogante convinzione di ospitare ciascuna le risorse migliori, come in monopolio. Avremmo bisogno di tutt'altro. La scarsa cultura del ceto imprenditoriale italiano è un ostacolo formidabile alla competitività del sistema industriale. Nelle parole di Fabrizio Barca, anche lui all'Eliseo: "quello dell'istruzione, in Italia, è un insuccesso che si riflette sulla capacità delle persone di trovare occupazione, sulla capacità dei lavoratori di interagire con il lavoro più specializzato, sulla capacità degli imprenditori di concettualizzare le proprie intuizioni produttive". Ignoriamo quali conseguenze potrà avere l'appuntamento romano, preceduto dalla diffusione a stampa di un indice di proposte formulata da Pier Luigi Sacco (critico nei confronti del "made in Italy" ossessivamente celebrato da imprenditori alla Montezemolo e dagli aedi degli "antichi mestieri"). Certo gli "Stati Generali" hanno colpito duramente la reputazione di alcuni tra politici e intellettuali invitati. Le rudi maniere del direttore del Sole, designato a coordinare la tavola rotonda, hanno tacitato i più esornativi testimonial dell'evento, Carlo Ossola e Andrea Carandini, stupefatti per il trattamento riservato. A infrangere definitivamente il cerimoniale hanno poi pensato le contestazioni ai ministri "culturali". Tra le proposte avanzate da Sacco incontrerà forse maggiore favore quella mirata a creare un'agenzia per l'export a sostegno delle "industrie creative" nazionali. Una recente ricerca, coordinata dalla Fondazione Symbola, ha rilevato le difficoltà, per le industrie culturali, di inserirsi sul piano internazionale: finanziamento, infrastruttura, lingua. Proprio su questo ci permettiamo di offrire un suggerimento. Va bene il "made in Italy", vanno bene moda, design, food, architettura. Ma perché non prevedere specifiche misure a beneficio della ricerca accademica e non, sollecitando incentivi editoriali alla traduzione in lingua inglese della saggistica e della narrativa italiane? O trasformando gli Istituti italiani di cultura all'estero in sedi qualificate perla promozione dei migliori tra gli artisti più giovani (adesso non lo sono affatto)? Le retoriche dominanti che accompagnano il processo di valutazione della ricerca universitaria attualmente in corso insistono (nel modo spesso più velleitario e subalterno) sulla necessità di "internazionalizzare" gli studi. Con opportune politiche culturali e minimo impegno finanziario potremmo creare una lieve infrastruttura globale a supporto di “cultural heritage", autodisciplina e "talento".
Mai era stato sferrato un così duro attacco al cuore del Kulturstaat, al famoso modello tedesco, e sarebbe molto meglio dire europeo, al Monopolio statale della cultura umanista e giacobina: molto danaro pubblico e nessun mercato libero. Sarebbe insomma vicinissimo al definitivo fallimento lo Stato come educatore illuminista e come finanziatore della celebre Zivilisation che i soldi pubblici rendono sempre meno Kultur e dunque sempre più pappa convenzionale.
Drammaticamente onerosa per il sistema fiscale già stremato, ma anche banale, solo passato e niente futuro, la nuova decadenza, l’ultimo tramonto dell’Occidente.
Dunque secondo i quattro autori di questo Kulturinfarkt, un robusto pamphlet di grande successo in Germania, la smisurata offerta e il monopolio statale stanno portando le istituzioni culturali verso il crack non solo economico. Hanno infatti generato conformismo, depresso la creatività, «addomesticato le avanguardie», messo sotto controllo la libertà e la modernità, disarmato la cattiveria contro il potere che viene persino esibita «anche in politica estera» con il compiacimento del potere stesso.
In sedici anni è quasi raddoppiato il numero delle compagnie di prosa, di musica, dei centri di studio e delle case editrici producendo molti più artisti che arte, più scrittori che libri… Ma il pubblico è diminuito, sia pure di poco, passando da quasi 23 milioni a quasi ventuno milioni, spalmati però nelle varie proposte. E poiché «ogni allestimento scenico viene utilizzato una sola volta, la conclusione è che a ogni singolo spettatore, sempre lo stesso, vanno sempre più risorse di produzione». Le cifre diventano astronomiche «ma i prezzi rimangono convenienti perché si vogliono mantenere basse le soglie di accesso». Ogni biglietto per il teatro dell’Opera di Zurigo, se non ci fosse un finanziamento annuale di 55 milioni, «dovrebbe costare 150 euro in più». E ci sono gli sconti, i “biglietti famiglia”, «dal 2009 i giovani al di sotto dei 26 anni entrano gratis nei musei della Francia e così pure nel Regno Unito, per non parlare dei festival gratuiti in Svizzera e in Francia». Eppure i prezzi per i concerti pop sono aumentati di molto, «ogni teenager sborsa almeno 50 euro» e gli spettacoli privati estivi all’aperto «così popolari in Germania, Austria e in Svizzera costano fino a 100 euro a persona e fanno il tutto esaurito mentre il museo accanto, il cui biglietto costa 5 euro, rimane vuoto».
Insomma si fa demagogia, retorica sociale, circenseria, si getta fumo negli occhi e intanto si crea una vera e propria “bolla letteraria”: «Nel 2011 ci sono stati in Germania 778 premi letterari. Ne vanno aggiunti 881 nell’ambito dei media e della pubblicistica».
Sono tre premi al giorno, anche di cucina, tutti sovvenzionati dallo Stato alla parola cultura «per sostenere la prestigiosa opera di scrittori ed editori di libri: 24mila novità editoriali all’anno di letteratura dilettantesca». Ma le vendite non sono mai sufficienti e il prodotto è mediocre perché è mediocre l’idea che possano venire fuori i geni di stato, i menestrelli finanziati, i poeti ministeriali: un residuo di terzo internazionalismo e di fascismo, roba da stato platonico. E chissà come si arrabbierebbero Leopardi o Rimbaud se sapessero che la loro eversione e il loro autismo, la loro rabbia contro il mondo è finita sugli autobus, ad arredare il muro delle stazioni o è diventata tarantella di piazza.
L’aiuto statale espande e perpetua anche un falso mercato delle arti. Il sostegno agli artisti è sussidio sociale, assistenza, elemosina sotto le mentite spoglie della promozione: a Berlino il 6 per cento degli artisti sopravvive senza percepire alcun reddito, il 31 per cento guadagna meno di 12mila euro all’anno, il 78 per cento di coloro che si definiscono artisti di professione vive al di sotto delle soglie di povertà. Solo il 7 per cento è inserito in un circuito produttivo e il 10 per cento ha una galleria che espone le sue opere. «Il genio artistico vuole recare gioia – scriveva Nietzsche – ma quando si trova a un livello molto alto gli manca facilmente chi ne goda: offre cibi che nessuno vuole. Ciò attribuisce all’artista un pathos talvolta ridicolo e commovente insieme; perché in fondo non ha alcun diritto di costringere gli uomini al godimento». Poi ci sono gli artisti dilettanti. Il 70 per cento dei francesi si occupa di fotografia, il 27 per cento gira filmati. Il censimento ha contato in Francia più artisti che agricoltori. Ma la grande assente da questa vendemmia d’arte è ovviamente l’arte. A Berlino trovi il vino, il cibo, i libri e gli artisti stralunati, le cantate corali e la simpatia in strada, ma non l’arte che è il contrario di tutto questo, un atto solitario, una cattiva azione contro qualcuno o contro tutti, una coltellata al mondo, il mezzo espressivo che porta fuori la propria disperazione come scriveva Liu Hsin-wu, uno degli scrittori più amati del famoso Sessantotto: «Si fa poesia o arte quando si sta male». Mentre, aggiungeva, «quando si sta bene si fa la rivoluzione di piazza» o in subordine il corteo di protesta, il concerto, la cantata, la festa, il festival e la pubblica pernacchia.
Le conseguenze, semplifica Cesare De Michelis (Marsilio) introducendo l’edizione italiana, sono «i musei non visitati, i teatri vuoti, i libri non letti …». Anche il sottotitolo italiano, “Azzerare i fondi pubblici per far rinascere la cultura”, è più radicale e sbrigativo di quello tedesco: «Troppo di tutto e ovunque le stesse cose». Purtroppo le parole in Italia non appartengono infatti allo stesso mondo. Il Kulturstaat italiano significa irragionevole incuria del patrimonio che l’Europa ci invidia, il degrado dei siti archeologici, le clientele al posto delle competenze, un’inefficienza che viene da lontano anche se, certo, negli ultimi venti anni è diventata disprezzo governativo verso la cultura ridotta con faciloneria da cummenda allo slogan delle tre “i” (impresa, inglese, internet), perché diceva Tremonti «con la cultura non si imbottiscono i panini», e dunque maltrattamento sistematico nelle aule dove si costruisce il futuro e nelle vestigia dove si conserva il passato.
E in Italia lo Stato finanzia la festa del pistacchio, il premio zucca d’argento, il pittoresco delle sagre paesane addottorate con cattedre universitarie. La cultura assistita in Italia è la marchetta, che è più antieconomica del pizzo mafioso. E “marchette e zoccole” è il binomio che ha affossato la Rai, che è ancora la prima industria culturale italiana. Ecco dunque che la cultura finanziata col danaro pubblico da noi significa un’altra cosa ancora perché il modello del Kulturstaat all’italiana rimanda più alla pirateria dell’isola della Tortuga che al disagio dell’abbondanza della Germania della Merkel: noi sovraproduciamo parassiti, loro cultura di massa.
Provate adesso a immaginare come diventerebbe la Valle dei Templi se fosse affidata alla Humboldt-Universität di Berlino o il Maxxi di Roma se fosse gestito dalla Staatsgalerie di Stoccarda che, disegnata da James Stirling, è il paradigma di tutti i musei che hanno l’ambizione di esser anche un centro civico, una moderna piazza di attrazione urbana. E Pompei? Quale meraviglia diventerebbe nella mani ricostruttrici della municipalità di Dresda, la città che subì tre bombardamenti, un fuoco peggiore di quello del Vesuvio? Finanziata dalle tasse, la bellezza di Dresda è di nuovo “superba” al punto che se ne infischia dell’Unesco che nel 2007 le tolse il riconoscimento di patrimonio dell’umanità per il ponte sull’Elba, quattro corsie, approvato con due referendum popo-lari, una meraviglia di modernità e di paesaggio futurista.
Tutto è cominciato quando, una sera del dicembre 2008, ho visto apparire in televisione, al Tg1, il ministro dei Beni culturali e un alto funzionario di quel Ministero con un piccolo Cristo scolpito nel legno. Essi spiegavano che si trattava di un capolavoro di Michelangelo, che era stato appena acquistato dallo Stato, e che questa mirabile acquisizione compensava il taglio da un miliardo e oltre 300 milioni di euro che era appena stato inflitto al bilancio dei Beni culturali. Il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione erano condannati alla rovina: ma avevamo un capolavoro di Michelangelo. Per di più facilmente trasportabile in grandiose mostre all’estero.
Era tutto falso, tutto sbagliato, tutto distruttivo. Ma non tanto per quei soldi gettati, e non certo per l’attribuzione sbagliata: semmai per il valore diseducativo, intellettualmente desertificante, di quella propaganda. Era come se, in un attimo, quello stesso Stato che mi paga ogni mese per insegnare nelle aule universitarie distruggesse i valori e i contenuti di quello stesso insegnamento: il senso critico, la ricerca storica della verità, l’educazione al patrimonio contestuale.
Ed ecco, quella sera ho pensato che se io avessi taciuto, avrei perso il senso della mia stessa vita di studio e di ricerca. Lo Stato, la comunità dei cittadini mi aveva permesso di studiare storia dell’arte (e di farlo alla Normale di Pisa): in quel momento ebbi la percezione che se avessi scelto di chiudermi dentro la mia biblioteca, la mia tranquillità, la mia serena e appagata vita di studioso, avrei tradito quei cittadini, e la mia stessa coscienza. Così cominciai – io che non l’avevo mai fatto – a scrivere articoli sui giornali, e poi libri di denuncia.
Una sola bussola ha guidato questi scritti, e la dico con le parole di un bellissimo intervento di Giorgio Bassani sui Sassi di Matera: «ho un obbligo solo, quello di fare il ‘pazzo’. Cioè di dire tutta la verità, a tutti costi». «La parte che tocca a noi – ripeteva Bassani, parlando come presidente di Italia Nostra – è quella del ‘pazzo’, e siamo decisi a non assumerne altra».
In questi anni ho cercato di raccontare soprattutto l’agonia delle città italiane: a partire da Firenze, dove vivo, e da Napoli, dove insegno. Città diverse solo in apparenza, ma condannate entrambe: la seconda ad una rovina materiale più evidente, con uno dei patrimoni artistici più importanti del mondo che va letteralmente a pezzi, e l’altra condannata ad una rovina morale, perché ridotta a feticcio turistico alienante, a «macchina da soldi» come teorizza il suo sindaco-format. E se il declino terribile di Venezia (tra torri faraoniche, grandi navi e privatizzazione della città) è il futuro di Firenze, il destino tragico dell’Aquila terremotata rischia di sommare Napoli e Firenze: un grande centro distrutto che nessuno ricostruisce, ma che già si immagina come una sorta di enorme centro commercial-turistico, trasformandosi letteralmente in ciò che molte delle nostre città d’arte sono moralmente, e cioè città senza cittadini.
Invece non avrei mai immaginato, da studioso del barocco romano, di scrivere autentici pezzi di inchiesta: uno dei quali (quello sul saccheggio della Biblioteca napoletana dei Girolamini, apparso sul Fatto) ha innescato un’inchiesta che ha portato in carcere dodici persone, tra cui un consigliere del ministro per i Beni culturali e braccio destro di Marcello Dell’Utri.
Ma oltre alla sacrosanta denuncia del disastro del patrimonio e del paesaggio italiani, credo che uno storico dell’arte che parla ai cittadini, abbia un altro principalissimo dovere. Mi riferisco al dovere di provare a dire a cosa serve davvero il patrimonio storico e artistico della nazione. Questa è la cosa che mi sta più fortemente e più profondamente a cuore.
Dopo la rivoluzione epocale dell’articolo 9 della Costituzione repubblicana il patrimonio ha cambiato funzione. E la sua nuova funzione non è più la legittimazione del potere dei sovrani degli antichi stati italiani, ma è la costruzione sostanziale della nuova sovranità, quella dei cittadini. Il patrimonio appartiene oggi al popolo italiano. Che lo mantiene con le proprie sudatissime tasse non perché sia ‘bello’ e non perché sia il nostro petrolio, cioè una fonte di ricchezza materiale. Il novanta per cento della nostra fatica quotidiana, ventitré ore delle nostre ventiquattro, nove decimi delle nostre città, la quasi totalità dei nostri desideri e del nostro immaginario sono asserviti al potere del mercato e del denaro. Se pieghiamo a questo stesso, unico fine anche il poco che resta libero e liberante ci comportiamo esattamente come il Re Mida del mito e delle favole: ansiosi di trasformare tutto in oro, non ci rendiamo conto che ci stiamo condannando a morire di fame.
Il patrimonio, invece, è come la scuola: è un potentissimo strumento di educazione alla cittadinanza e di innalzamento spirituale. L’articolo 3 della Costituzione affida alla Repubblica il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Il patrimonio storico e artistico della nazione è precisamente uno degli strumenti che permettono alla Repubblica di rimuovere quegli ostacoli, e di rendere effettiva la libertà e l’eguaglianza dei cittadini. Ma perché questo sia vero occorre che gli storici dell’arte come me facciano il loro lavoro. Nel dicembre del 1944 Roberto Longhi, scriveva al suo più caro allievo, Giuliano Briganti: «il primo bombardamento di Genova dovrebbe risolversi in un interminabile esame di coscienza per noi storici dell’arte. Anche noi, gli anziani soprattutto, siamo responsabili di tante ferite al torso dell’arte italiana, almeno per non aver lavorato più duramente, e per non aver detto e propalato in tempo quanti e quali valori si trattava di proteggere. Anche se il desiderio era di lavorare per molti, di esser popolari (e tu ricorderai che il mio proposito era quello di arrivare un giorno a scrivere per disteso il racconto dell’arte italiana a centomila copie per l’editore Salani) si è lavorato per pochi, e anche voi giovani siete sempre in pochi, direi anzi che andate diradandovi: proprio oggi che ci bisognereste a squadroni. Di qui, del resto, si risale ad altre vecchie carenze della nostra cultura: la storia dell’arte che ogni italiano dovrebbe imparar da bambino come una lingua viva (se vuole avere coscienza intera della propria nazione): serva, invece, e cenerentola dalle classi medie all’università; dalle stesse persone colte considerata come un bell’ornamento, un sovrappiù, un finaletto, un colophon, un cul-de-lampe di una informazione elegante». Oggi, nel 2012, a settant’anni di distanza possiamo fare nostre le parole di Longhi. Il patrimonio storico e artistico della nazione, quello che – secondo il rivoluzionario articolo 9 della Costituzione – la Repubblica dovrebbe tutelare, è sottoposto ogni giorno ad un bombardamento di degrado materiale, sfruttamento morale, abbandono culturale.
Oggi come nel 1944 gli storici dell’arte, gli intellettuali in generale, devono farsi l’esame di coscienza di cui parlava Longhi: abbiamo fatto tutto quello che potevamo per spiegare «quanti e quali valori si trattava di proteggere»? Abbiamo provato ad essere davvero ‘popolari’, cioè a parlare al popolo sovrano, che del patrimonio è l’unico padrone? Abbiamo fatto in modo che la storia dell’arte non serva solo agli storici dell’arte?
Nell’XI canto del Purgatorio Dante parla della lingua degli italiani: quella di Guido Guinizzelli, di Guido Cavalcanti e di lui stesso che la stava elevando all’altezza di una vera lingua nazionale. Ma pochi versi prima Dante parla dell’altra lingua degli italiani: quella di Cimabue e Giotto. Una lingua di figure, ma soprattutto di palazzi, chiese, strade, campagne, coste, montagne. E oggi è vitale bisogno che gli italiani del futuro, i bambini e i ragazzi di oggi, imparino (e possibilmente reinsegnino ai loro genitori) questa nostra seconda lingua nazionale: che reimpariamo tutti che il patrimonio storico e artistico che ci appartiene in quanto cittadini sovrani è la forma dei nostri luoghi, è una indivisibile fusione tra arte e ambiente, è un tessuto continuo di chiese, palazzi, strade, paesaggio, piazze. Non una specie di contenitore per ‘capolavori assoluti’, ma proprio il contrario, e cioè la rete che congiunge tante opere squisitamente relative, e che hanno davvero un significato (artistico, storico, etico, civile) solo se rimangono inserite in quella rete.
Per uno storico dell’arte, scrivere sui giornali significa dunque poter allargare il pubblico a cui è destinata quella «resurrezione del passato» (per usare una frase di Jules Michelet molto amata da Francis Haskell) che è l’obiettivo del suo lavoro.
Leggendo la motivazione del premio, Alessandra Mottola Molfino ha detto che i miei articoli hanno sottoposto a dura e radicale critica anche il Ministero dei Beni Culturali. È vero: in questo drammatico momento il patrimonio artistico italiano va difeso anche dalle deviazioni dei vertici del Mibac.
Pochi giorni prima di sapere che Italia Nostra mi aveva conferito il Premio Bassani ho appreso che il ministro Lorenzo Ornaghi ha chiesto i danni al «Fatto quotidiano» e al sottoscritto perché il ministero sarebbe stato diffamato in un mio articolo dello scorso luglio dedicato all’insensata, dannosa e mio parere illegittima mostra del Rinascimento fiorentino a Pechino.
In quell’articolo, infatti, scrissi che uno dei problemi del Mibac è la «corruzione della burocrazia». Il contesto del pezzo (tutto tessuto con brani di Antonio Cederna e Roberto Longhi) era chiarissimo: non si parlava di mazzette, o illeciti. Sostenevo, invece, la tesi che il corpo dirigente del Mibac sia corrotto, letteralmente: putrefatto, disfatto, dissolto. Una specie di 8 settembre del patrimonio storico e artistico della Nazione.
E d’altra parte, le prime vittime di tutto questo sono le centinaia di funzionari irreprensibili abbandonati in prima linea. La maggior parte dei miei articoli di denuncia di casi di malatutela scaturisce da accoratissime email di soprintendenti e funzionari, che ogni giorni chiedono a me (come a Salvatore Settis, a Gian Antonio Stella e a un pugno di altri volenterosi) di aiutarli nella loro battaglia quotidiana: una battaglia in cui si sentono traditi da una burocrazia ‘corrotta’ nei princìpi, cioè immemore della sua missione e piegata alla volontà della classe politica. Ed è anche per dare voce alla grande maggioranza del Mibac che si deve criticare con durezza la minoranza corrotta che lo tiene in scacco.
È una situazione davvero grottesca: Ornaghi è il più acceso sostenitore dello smantellamento del ministero (vuole, per esempio, conferire Brera ad una fondazione), io sono invece convinto che lo Stato-collettività debba continuare a mantenere per tutti un patrimonio di tutti. Ma sarebbero le mie argomentate critiche, e non la sua pessima politica, a colpire la tutela pubblica!
Se promuovendo questa intimidazione il ministro Ornaghi ha inteso mettermi un bavaglio, otterrà il risultato esattamente opposto. Non desidero entrare in politica, non desidero alcun incarico nel ministero, non rispondo che alla mia coscienza: desidero continuare a fare per tutta la vita il professore universitario di storia dell’arte. E credo che tra i diritti e i doveri che la Costituzione mi garantisce e mi impone ci sia anche quello di denunciare pubblicamente la rovina delle opere che studio, e di investigarne le cause. Anche quelle che riguardano una burocrazia e una politica che non servono più quella stessa Costituzione.
Oggi, grazie ad Italia Nostra e al Premio Giorgio Bassani, queste idee sono un poco più forti.
Grazie.
Il testo costituisce un ampliamento del discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Bassani 2012 di Italia Nostra, svoltosi a Ferrara il 18 novembre 2012.
Peraltro, nuovi “no” alla cultura erano già programmati. Confermati dal ministro Ornaghi. Secondo Federculture, un’altra amputazione al bilancio del MiBAC per 103,3 milioni nel 2013. Portato a 125 nel 2014 e a 137,5 nel 2015. Un autentico svenamento e disossamento. Puniti i fondi per la tutela, pochi e già salassati (- 61,6 milioni). Coi tecnici sparuti, e malpagati, delle Soprintendenze ai beni architettonici che dovrebbero sbrigare ciascuno 4-5 pratiche edilizie o urbanistiche al dì nel migliore dei casi e addirittura 79 nel caso di Milano. In un Paese aggredito da cemento+asfalto da ogni parte. Parlare in queste condizioni di “meno Stato e più privati” significa l’eutanasia del Ministero fondato nel 1974 da Giovanni Spadolini e con essa dell’interesse di un ceto dirigente alla cultura e alla ricerca.
Un suicidio economico, oltretutto: il turismo culturale è il solo a “tirare”:+ 20 % negli ultimi due anni. Nel decennio le presenze italiane nelle città d’arte sono aumentate del 17 % ; quelle straniere addirittura del 54 %, e rappresentano ben più della metà (esattamente il 57 %) del totale. Ne tengano conto quanti chiacchierano a vuoto di “petrolio”, di “economia della cultura”: questa non è formata direttamente da musei, siti, borghi o castelli, bensì dal loro indotto turistico. Se però non si tutelano e restaurano adeguatamente i primi, se li si lascia imbruttire, assediare dal cemento, da auto e pullman, da un repellente apparato di “mangiatoie”, di negozi di souvenirs, dehors di plastica e di altre schifezze, si dissipa anche l’indotto.
C’è ancora chi straparla di musei – per esempio gli Uffizi – come “macchine da soldi”. Per i musei in sé stessi è una ignorante sciocchezza. Per l’indotto è un altro discorso. Il più visitato museo del mondo, il Louvre, alla soglia (inquietante) dei 9 milioni di ingressi, nel 2008 ha ricevuto 118,8 milioni di sovvenzione statale (circa il 60 % delle entrate) per poter chiudere in pareggio e fare ancora cultura. Non molto diversa la situazione del Metropolitan Museum. Al convegno dell’Eliseo mi pare che lo slogan “sfruttare i beni culturali”, specie dopo la secca presa di posizione di Giorgio Napolitano, sia finito in retrovia. Soltanto il presidente della Fondazione Roma, Emmanuele Emanuele, ha evocato la formula magica: se il settore pubblico non è in grado di gestire, subentriamo noi. Col patrimonio e coi soldi dello Stato com’è previsto per la Grande Brera? Anzi, con una “dote” più ricca di denaro pubblico? Il contrario di quanto succede con le Fondazioni Usa che i soldi li mettono anziché prenderli. Si sono avanzate altre proposte. Per ora un po’ fumose invero. Nessuno che pensi, ad esempio, a riattivare una buona legge come la n. 510 dell’82 (Scotti) la quale mise in moto – con una detrazione fiscale secca e certa – oltre 300 miliardi di lire di restauri privati in dimore e giardini storici. Per cui, in capo a pochi anni, il Fisco, avendo promosso lavori e occupazione, ogni 100 lire di detrazione, ne incassò 147. Ci vuole uno Stato capace di agevolare concretamente i privati che donano, danno, sponsorizzano. Non privati che pretendono di sostituirsi allo Stato. “Quelli sarebbero volpi nel pollaio”, ha commentato un noto storico dell’arte americano. Da noi non sarebbe la prima volta.
Il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2012
I ripetuti, forti e argomentati “vergogna!” che giovedì hanno clamorosamente cambiato l’agenda dei cosiddetti ‘Stati generali della cultura’ sono l’unico risultato concreto (ma imprevisto e imbarazzante) della retorica sulla ‘costituente della cultura’ che il Sole 24 Ore alimenta ossessivamente da nove mesi. Ma la montagna ha partorito un topolino interessante.
Il parterre schierato sul palco del teatro romano ‘Eliseo’ rappresentava in modo impeccabile l’ossificazione mortuaria della cultura italiana. E come si può chiedere di indicare nuove prospettive a chi ha imbottigliato la cultura italiana in una strada senza uscita?
Fa piacere sentire Giuliano Amato che riscopre l’articolo 9 della Costituzione: ma come non ricordare che l’ormai permanente blocco indiscriminato delle assunzioni dei giovani ricercatori italiani o dei soprintendenti fu inventato proprio da lui? E il danno è stato molto più grave dei pochi benefici ottenuti risparmiando su quei comparti strategici. Che il ministero per i Beni culturali sia “un morente ibernato” è verissimo: ma come non stupirsi che a dirlo sia uno dei congelatori, quell’Andrea Carandini che si precipitò a presiederne il Consiglio superiore quando Salvatore Settis sbatté la porta a causa del maxi-taglio da un miliardo e 300 milioni di euro disposto da Tremonti e subìto da Sandro Bondi?
E non parliamo dei ministri in carica: Lorenzo Ornaghi sale sul palco per dire “meno Stato e più privati”. Niente male per un ministro della Repubblica che dovrebbe invece difendere la dignità e i finanziamenti del sistema di tutela (un tempo) migliore del mondo. E quando un ragazzo gli urla: “Lei parla come un economista, non come un ministro della cultura”, il malcapitato ex rettore della Cattolica mormora che “non si può dire che questo governo non abbia fatto nulla per i beni culturali”. E invece è proprio così, tanto che Ornaghi non riesce a fare un solo esempio concreto.
Che il vento sia bruscamente cambiato se n’è reso conto il direttore del Sole, che nell’editoriale di ieri ha abbandonato la retorica vetero-craxiana sulla cultura come giacimento economico da cui estrarre reddito, e ha parlato della priorità della tutela del patrimonio, finalmente indicandolo come un valore in sé, e non come l’ennesimo strumento del mercato.
In tutto questo, l’affondo del capo dello Stato è apparso provvidenzialmente fuori degli schemi: in tempi di crisi si devono dire molti no, “ma alla cultura bisogna dire molti sì”. Certo, uno si chiede perché Napolitano abbia controfirmato la nomina a ministro dei Beni culturali dell’unico ministro non tecnico del governo Monti: nomina che è stata un vero segnale di disprezzo per la cultura. Ma non è mai troppo tardi, e la frustata presidenziale al governo e all’establishment culturale ha fatto capire che è finito il tempo in cui la pomposa definizione di ‘Stati generali’ può designare un teatrino in cui i responsabili dello sfascio si parlano addosso commentando lo sfascio medesimo. Se non altro di questo siamo gratissimi al Sole 24 Ore.
L'Unità, 10 novembre 2012
Il ministro per i Beni Culturali, Lorenzo Ornaghi (sin qui, con Sandro Bondi, uno dei più inerti) rimarrà negli annali del Collegio Romano se riuscirà a far tradurre dalle Soprintendenze in atti esecutivi la direttiva emanata contro il bancarellume, abusivo e non, che affligge ormai quasi tutti i centri e gli edifici storici del Belpaese, contro i camion e i camioncini “porchettati” piazzati davanti ai più bei monumenti di Roma (da Castel Sant’Angelo al Colosseo), contro gli squallidi gazebos di plastica con stufe a gas incorporate. Se farà piazza pulita di questo autentico ciarpame da fiera paesana e peggio, il professor Ornaghi meriterà di venire ricordato per qualcosa di buono.
Alcuni Comuni hanno emanato regolamenti severi. Anni fa Bologna ha vietato tavolini, dehors, ombrelloni davanti a palazzi vincolati dalle Soprintendenze e Sergio Cofferati si è preso la nomea di sindaco-sceriffo per aver tentato di “bonificare” la zona di piazza Verdi ridotta a latrina notturna (la birra scorre a fiumi). Milano ha fissato alle 23 lo stop alle bevute. A Roma invece Alemanno ha ritardato alle 23 (facendo marcia indietro in qualche caso) l’entrata in vigore dei varchi elettronici rendendoli praticamente inutili, in omaggio ai tanti voti “bottegari” ricevuti quando scalò il Campidoglio fra una selva di saluti romani.
Già i presidenti di ambulanti, esercenti e commercianti attaccano Monti e Ornaghi alzando la voce e minacciando serrate contro una norma di civiltà: per i centri storici e per il turismo più qualificato (quello che rende davvero checché ne pensino certe teste di legno). L’assalto rumoroso alle città antiche, di giorno e di notte, sta allontanando i pochi residenti. Mancando ogni controllo sociale, è più facile commettere ogni sorta di reato, a cominciare dallo spaccio di droghe, fiorentissimo (e ogni tanto ci scappa il morto), è più facile per la malavita impossessarsi di una vasta rete di locali. Intere strade sono state stravolte in poche settimane quando sono arrivati, in massa, gli orrendi negozi di souvenirs gestiti dai cinesi. Imbruttite violentemente in pochi giorni e per sempre. Via antiquari, boutiques, venditori di stampe, tutte sigle di commercianti veri, qualificati, che nessuno ha difeso, a principiare dalle loro stesse corporazioni. I gelatai poi hanno concorso all’imbruttimento dei rioni antichi con enormi coni di plastica colorata, illuminati al calar del giorno. Una volta certe categorie usavano la Dc ma pure il Psdi per aver voce nei consigli comunali. Nell’ultimo eletto a Roma è entrato per il Pdl un rampollo della famiglia Tredicine i cui camion-bar deturpano in modo strategico i punti più panoramici di Roma impedendo ai turisti di fotografarli, ed è uno che conta. Ora tanti grideranno al neo-centralismo del governo Monti e del suo ministro Ornaghi. Ma cos’hanno fatto molti, troppi Comuni per arginare un fenomeno così aggressivo e indecoroso? Coraggio professor Monti, passi ad altre misure qualificanti, impedisca, per esempio, l’attracco delle colossali navi-crociera a San Marco. Avrà altri applausi dall’Italia (e dall’Europa) più civile.
“Unità”, 10.11.12
ROMA — Via le bancarelle da Ponte di Rialto a Venezia, legittime o abusive che siano. Via i camion bar dal Colosseo, centurioni compresi, via i banchi del mercato di San Lorenzo a Firenze che asfissiano la basilica e nascondono le Cappelle medicee, via i tavolini e i dehor di via Toledo a Napoli. E già che ci siamo sloggino pure gli ‘gnuri’, le carrozze con cavallo di Palermo, “odorosa” presenza fissa davanti al Teatro Massimo. Via tutto, l’operazione “piazza pulita” del ministro Lorenzo Ornaghi non risparmierà nessuno.
Se anche solo un quarto della direttiva appena emanata dal ministero per i Beni culturali sarà realizzato, le città d’arte cambieranno faccia e i monumenti “respireranno”. L’obiettivo del provvedimento è «contrastare l’esercizio di qualsiasi attività commerciale e artigianale su aree pubbliche di particolare valore archeologico, storico e artistico, non compatibile con la tutela del decoro ». Aggiungendo all’elenco anche le strade, le piazze e gli spazi urbani pubblici realizzati da oltre settant’anni. In pratica, tutti i centri storici d’Italia.
Attenzione, non si tratta di una direttiva che riguarda solo venditori abusivi di chincaglieria varia e i titolari di bar e ristoranti che piazzano tavolini dove vogliono. È indirizzata anche a chi ha concessioni storiche («non danno mai luogo a diritti intangibili», scrive il ministro) o regolare permesso per l’occupazione di suolo pubblico. Se le direzioni regionali del Mibac, sentite le soprintendenze, riterranno quelle attività lesive della bellezza artistica della zona, perché antiestetiche o «pregiudicanti la visuale dei beni vincolati», inviteranno gli enti locali a prendere provvedimenti per chiuderle o, nel caso dei mercati, per spostarle. Perché «la tutela del patrimonio culturale è preminente agli interessi privati». Già da tempo alcuni comuni hanno messo divieti a salvaguardia del decoro. Per esempio l’ordinanza di Milano “anti-movida” per la chiusura dei dehor alle 23. E a Roma ieri sono stati presentati i nuovi minibus color crema per i venditori di gelati, con un look più “integrabile alle aree di pregio”.
Ma appena il sindaco Alemanno ha provato a ridisegnare gli spazi concessi a bar, ristoranti e locali nelle “cartoline” della città, subito si è sentito aria di serrata. La profezia è facile, succederà anche con la direttiva Ornaghi. Giacomo Errico, presidente Fiva (ambu-lanti) della Confcommercio non ci gira intorno: «È una follia — dice — un tentativo maldestro di uccidere i mercatini, con l’unico risultato di favorire abusivi e grandi marchi. Se Ornaghi pensa che ci adegueremo, si sbaglia. Sentirà la nostra protesta. Come nel 1995, quando in 80 mila andammo a Roma per l’aumento della Tosap». E però oggi per vedere la basilica di San Lorenzo a Firenze tocca salire sui tendoni delle bancarelle, e non si riesce quasi a fotografare il Castello Sforzesco di Milano senza immortalare anche un venditore di gelati. «Ma chi lo dice che siamo troppi? — sbotta Errico — Roma ha 2 milioni di turisti al giorno, spostare gli ambulanti in periferia significa ucciderli».
C’è anche chi prova a stimare il danno economico. «Perderemo la metà dei 26 miliardi attuali di introito — dice Mauro Bussoni, vice direttore generale di Confesercenti — 200 mila persone rischiano di perdere il posto. Il ministro ha perso il cervello». I “tavolini selvaggi”, però, non sono un’invenzione. «Le autorizzazioni le danno i Comuni — chiosa Bussoni — possibile che oggi il problema del nostro patrimonio artistico siano i commercianti?».
Postilla
Al solito, sarebbe utile vedere (come probabilmente già sa chi è coinvolto) i particolari delle intenzioni ministeriali, e come si mescolano ai poteri degli altri livelli di governo coinvolto. Quello che è certo, è che così come posta dall’articolo la questione rischia di cadere nel trito calderone degli interessi di bottega contro altri contrastanti interessi di bottega. Che immagine di città ne esce? Da un lato la cosiddetta vitalità economica locale e spontanea, che dà vita a quartieri e monumenti, evoca certe foto Alinari con gli atri muscosi e i fori cadenti che l’iniziativa modesta dei commercianti trasforma in polmoni di vita urbana, in qualche modo contribuendo alla loro grandezza. Ma l’uso vuol dire usura, e allora interviene l’altra idea più aulica di città, quella che immagina un mondo bellissimo modellato sulle sublimi vedute dei quadri di De Chirico, o di certi affascinanti plastici sfornati dagli studi di architettura o restauro. Spazi dove ci si muove con il rispetto dovuto al valore culturale, simbolico, e perché no anche sociale degli ambiti e degli oggetti che li compongono. Peccato che da questa specie di contrapposizione dialettica manchi il contenitore sociale per eccellenza, ovvero la città che la società abita: tutta, non i vasi incomunicanti della segregazione funzionale che tanti danni ha già fatto e continua a fare ovunque. La domanda da porsi forse sarebbe: sino a che punto possono convivere la conservazione e la valorizzazione (non quella puramente mercificata naturalmente) di alcune porzioni urbane, con il tipo di vitalità che trasforma dei potenziali cimiteri in poli di vitalità e interazione, stimolando nuove idee, inseriti nel contesto, tali da produrre identità e rispetto per nulla timoroso da parte di tutti i cittadini? L’alternativa, guerra fra botteghe a parte, è una specie di mosaico fatto da gated communities che si guardano in cagnesco l’una con l’altra, da sopra le recinzioni fisiche o elettroniche, in uno scenario che magari non ricorda più certo degrado commerciale da improvvisazione, ma di sicuro non ha nulla a che vedere con la città, storica o non storica che sia (f.b.)
Amaro declino del sito archeologico più famoso al mondo. Le cause sono sempre quelle, da troppi anni a questa parte: incuria, mala gestione, arretratezza culturale. L’Espresso, 8 novembre 2012 (m.p.g.)
I lavori annunciati dal governo non sono ancora partiti. I conti restano in rosso. E il sito archeologico rimane a rischio
No. Crolli no: non cominciate a farne un caso. Al massimo, qualche pezzetto di intonaco scrostato». Uno degli addetti al controllo ha appena finito il suo giro di ricognizione tra le Domus di Pompei: negativo, recita il suo rapporto. Nessun danno, almeno in superficie. Come se bastasse: «I media si accorgono di Pompei solo quando crolla qualcosa», chiosa nervoso. Su Napoli e provincia ha piovuto tutta la notte, un nubifragio. Quando piove, nella città antica piove sul bagnato: il rischio che quell'acqua produca danni è più alto che altrove. Due anni fa, il crollo della Schola Armaturarum fu provocato dallo smottamento di un terrapieno proprio a causa delle abbondanti piogge. Non c'era un sistema per veicolare l'acqua piovana, nel sito archeologico più grande al mondo. E non c'è nemmeno ora: a Pompei l'anno zero non è ancora arrivato.
Full Monti
«E' necessario che il sito rimanga in piedi con lavori di qualità e in sicurezza per i lavoratori, aveva dichiarato ad aprile il presidente del Consiglio, Mario Monti, presentando al mondo il "Grande progetto Pompei": 105 milioni di euro, 63 milioni nazionali e 42 di risorse europee, investiti nei prossimi te anni per la manutenzione del sito archeologico. Uno studio del 2005, commissionato dalla Soprintendenza, stimava in 260 milioni di euro il costo degli interventi necessari per la messa in sicurezza di tutta l'area degli scavi. Gli obiettivi, ha aggiunto Monti,«sono due: la messa in sicurezza di tutto il sito e che ciò avvenga attraverso lavoratori capaci e onesti, tenendo fuori la criminalità organizzata che è forte nel territorio. Sono trascorsi sette mesi e, ancora, nessun cantiere è stato aperto. I primi interventi tra l'altro non saranno di manutenzione e messa in sicurezza delle zone già accessibili ai visitatori ma riguarderanno il restauro e l'apertura di cinque nuove domus - la Casa del Criptoportico, la Casa di Sirico, quella del Marinaio, quella delle Pareti rosse e la Casa dei Dioscuri - con un costo di cinque milioni di euro. Per la scorsa estate era attesa la pubblicazione del bando per la "mitigazione del rischio idrogeologico", cioè proprio quello che serve per evitare infiltrazioni d'acqua e crolli: ad autunno inoltrato non c'è ancora traccia. Eppure, per velocizzare le operazioni sono state effettuate negli ultimi mesi pure ventidue nuove assunzioni di architetti e professionisti. «Da come agiremo sul sito archeologico, dipenderà molto della reputazione che potremo avere come Paese.
Ci giochiamo la faccia, ha dichiarato il ministro della Coesione territoriale, Fabrizio Barca. La figura ce l'ha. La faccia, in verità, Pompei se l'era già giocata con la gestione commissariale che Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso avevano affidato a Marcello Fiori. In due anni, sono state dilapidati 80 milioni di euro: poco per i restauri e tanto sperpero di denaro tra stipendi da record, consulenze, bottiglie di vino e operazioni di marketing. Dopo le denunce dettagliate de "l'Espresso", la Procura della Repubblica di Torre Annunziata aprì un fascicolo e la Guardia di Finanza più volte è stata a Pompei per acquisire la documentazione di gare e affidamenti. Sono passati due anni, come per il crollo della Schola Armaturarum: le macerie sono ancora lì coperte da un telo di nylon, l'inchiesta pure. Bel quadretto». Una volta, qui, c'erano squadrette di manutentori: pioveva lo stesso, eppure crolli così clamorosi non li ricordo, racconta un anziano custode, aggirando una grande pozzanghera nel Foro della città antica. Ogni giorno, restauratori e artigiani che lavoravano stabilmente nel sito archeologico, intervenivano ai primi segnali di degrado. Bastava una crepa, un muro un po' scrostato e,con azioni mirate e pochi spiccioli, si preveniva il peggio.
Oggi, se non si attende il crollo poco ci manca. E si interviene, quasi sistematicamente, affidando lavori a ditte esterne con la pratica della "somma urgenza" con nomi che, spesso, si ripetono. Aumentano i costi, cresce il rischio per il patrimonio artistico e culturale. Mentre a Pompei spariscono i manutentori, ormai in via di estinzione come i panda: ne sono rimasti in servizio sette, ma solo due hanno ancora forza e competenza per intervenire. Due per quarantaquattro ettari di patrimonio archeologico fruibile, dove intanto il degrado continua la sua inesorabile marcia. Sette i crolli negli ultimi due anni. A febbraio, si era staccato l'intonaco della Domus di Venere in Conchiglia, uno degli affreschi più noti al mondo. L'ultimo crollo, a settembre, nella famosa Villa dei Misteri: una trave di castagno, lunga cinque metri, si è staccata dal soffitto, da un'altezza di otto metri, e si è schiantata sul pavimento della Domus più visitata. Era marcia, come deteriorate appaiono alcune che ancora sono fissate nel sottotetto della Villa. E' successo di notte: fosse caduta di giorno, a Pompei ci sarebbe pure potuto scappare il morto. La causa? Un'infiltrazione d'acqua, a quanto pare.
Conti in rosso
Per ripristinare le "squadrette" basterebbe assumere una cinquantina di persone: costo medio 39 mila euro all'anno. Meno di due milioni di euro,che garantirehbero più sicurezza e maggiore salvaguardia del patrimonio.E posti di lavoro. Soldi che, in parte, verrebbero recuperati dagli affidamenti diretti alle ditte chiamate d'urgenza quando c'è qualche cedimento. Oggi, negli Scavi di Pompei lavorano in 213: i loro stipendi, circa 8,3 milioni di euro, li paga il Mibac, il ministero dei Beni culturali. Per il funzionamento e la manutenzione ordinaria viene utilizzato l'incasso: circa 19 milioni per 1,7 milioni di visitatori paganti. Se Pompei fosse un'azienda privata, tra costi di gestione e personale, sarebbe già fallita. Eppure, secondo un vecchio studio del Mibac, servirebbero almeno altri 500 addetti per far funzionare al meglio il sito. Prevalentemente custodi. Garantirebbero la fruizione di tutti o quasi i 67 ettari del sito, l'apertura serale per almeno quattro mesi all'anno, un aumento di almeno il 50 per cento dei visitatori. Per raggiungere il pareggio, bisognerebbe aumentare il costo dei biglietto dagli attuali 11 euro a 15,50 euro, la stessa cifra che si paga per l'ingresso al Moma di New York. Il paradosso è che in cassa, oggi a Pompei, ci sono circa 57 milioni di curo non spesi. Sembra un contrappasso, dopo l'era Fiori in cui si registrarono 54 voci di spesa negli ultimi due giorni di commissariamento: 15 milioni di euro tra il 29 e il 30 luglio 2010, proprio mentre si preparavano gli scatoloni per andar via.
Amaro declino del sito archeologico più famoso al mondo. Le cause sono sempre quelle, da troppi anni a questa parte: incuria, mala gestione, arretratezza culturale. L’Espresso, 8 novembre 2012 (m.p.g.)
I lavori annunciati dal governo non sono ancora partiti. I conti restano in rosso. E il sito archeologico rimane a rischio
No. Crolli no: non cominciate a farne un caso. Al massimo, qualche pezzetto di intonaco scrostato». Uno degli addetti al controllo ha appena finito il suo giro di ricognizione tra le Domus di Pompei: negativo, recita il suo rapporto. Nessun danno, almeno in superficie. Come se bastasse: «I media si accorgono di Pompei solo quando crolla qualcosa», chiosa nervoso. Su Napoli e provincia ha piovuto tutta la notte, un nubifragio. Quando piove, nella città antica piove sul bagnato: il rischio che quell'acqua produca danni è più alto che altrove. Due anni fa, il crollo della Schola Armaturarum fu provocato dallo smottamento di un terrapieno proprio a causa delle abbondanti piogge. Non c'era un sistema per veicolare l'acqua piovana, nel sito archeologico più grande al mondo. E non c'è nemmeno ora: a Pompei l'anno zero non è ancora arrivato.
Full Monti
«E' necessario che il sito rimanga in piedi con lavori di qualità e in sicurezza per i lavoratori, aveva dichiarato ad aprile il presidente del Consiglio, Mario Monti, presentando al mondo il "Grande progetto Pompei": 105 milioni di euro, 63 milioni nazionali e 42 di risorse europee, investiti nei prossimi te anni per la manutenzione del sito archeologico. Uno studio del 2005, commissionato dalla Soprintendenza, stimava in 260 milioni di euro il costo degli interventi necessari per la messa in sicurezza di tutta l'area degli scavi. Gli obiettivi, ha aggiunto Monti,«sono due: la messa in sicurezza di tutto il sito e che ciò avvenga attraverso lavoratori capaci e onesti, tenendo fuori la criminalità organizzata che è forte nel territorio. Sono trascorsi sette mesi e, ancora, nessun cantiere è stato aperto. I primi interventi tra l'altro non saranno di manutenzione e messa in sicurezza delle zone già accessibili ai visitatori ma riguarderanno il restauro e l'apertura di cinque nuove domus - la Casa del Criptoportico, la Casa di Sirico, quella del Marinaio, quella delle Pareti rosse e la Casa dei Dioscuri - con un costo di cinque milioni di euro. Per la scorsa estate era attesa la pubblicazione del bando per la "mitigazione del rischio idrogeologico", cioè proprio quello che serve per evitare infiltrazioni d'acqua e crolli: ad autunno inoltrato non c'è ancora traccia. Eppure, per velocizzare le operazioni sono state effettuate negli ultimi mesi pure ventidue nuove assunzioni di architetti e professionisti. «Da come agiremo sul sito archeologico, dipenderà molto della reputazione che potremo avere come Paese.
Ci giochiamo la faccia, ha dichiarato il ministro della Coesione territoriale, Fabrizio Barca. La figura ce l'ha. La faccia, in verità, Pompei se l'era già giocata con la gestione commissariale che Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso avevano affidato a Marcello Fiori. In due anni, sono state dilapidati 80 milioni di euro: poco per i restauri e tanto sperpero di denaro tra stipendi da record, consulenze, bottiglie di vino e operazioni di marketing. Dopo le denunce dettagliate de "l'Espresso", la Procura della Repubblica di Torre Annunziata aprì un fascicolo e la Guardia di Finanza più volte è stata a Pompei per acquisire la documentazione di gare e affidamenti. Sono passati due anni, come per il crollo della Schola Armaturarum: le macerie sono ancora lì coperte da un telo di nylon, l'inchiesta pure. Bel quadretto». Una volta, qui, c'erano squadrette di manutentori: pioveva lo stesso, eppure crolli così clamorosi non li ricordo, racconta un anziano custode, aggirando una grande pozzanghera nel Foro della città antica. Ogni giorno, restauratori e artigiani che lavoravano stabilmente nel sito archeologico, intervenivano ai primi segnali di degrado. Bastava una crepa, un muro un po' scrostato e,con azioni mirate e pochi spiccioli, si preveniva il peggio.
Oggi, se non si attende il crollo poco ci manca. E si interviene, quasi sistematicamente, affidando lavori a ditte esterne con la pratica della "somma urgenza" con nomi che, spesso, si ripetono. Aumentano i costi, cresce il rischio per il patrimonio artistico e culturale. Mentre a Pompei spariscono i manutentori, ormai in via di estinzione come i panda: ne sono rimasti in servizio sette, ma solo due hanno ancora forza e competenza per intervenire. Due per quarantaquattro ettari di patrimonio archeologico fruibile, dove intanto il degrado continua la sua inesorabile marcia. Sette i crolli negli ultimi due anni. A febbraio, si era staccato l'intonaco della Domus di Venere in Conchiglia, uno degli affreschi più noti al mondo. L'ultimo crollo, a settembre, nella famosa Villa dei Misteri: una trave di castagno, lunga cinque metri, si è staccata dal soffitto, da un'altezza di otto metri, e si è schiantata sul pavimento della Domus più visitata. Era marcia, come deteriorate appaiono alcune che ancora sono fissate nel sottotetto della Villa. E' successo di notte: fosse caduta di giorno, a Pompei ci sarebbe pure potuto scappare il morto. La causa? Un'infiltrazione d'acqua, a quanto pare.
Conti in rosso
Per ripristinare le "squadrette" basterebbe assumere una cinquantina di persone: costo medio 39 mila euro all'anno. Meno di due milioni di euro,che garantirehbero più sicurezza e maggiore salvaguardia del patrimonio.E posti di lavoro. Soldi che, in parte, verrebbero recuperati dagli affidamenti diretti alle ditte chiamate d'urgenza quando c'è qualche cedimento. Oggi, negli Scavi di Pompei lavorano in 213: i loro stipendi, circa 8,3 milioni di euro, li paga il Mibac, il ministero dei Beni culturali. Per il funzionamento e la manutenzione ordinaria viene utilizzato l'incasso: circa 19 milioni per 1,7 milioni di visitatori paganti. Se Pompei fosse un'azienda privata, tra costi di gestione e personale, sarebbe già fallita. Eppure, secondo un vecchio studio del Mibac, servirebbero almeno altri 500 addetti per far funzionare al meglio il sito. Prevalentemente custodi. Garantirebbero la fruizione di tutti o quasi i 67 ettari del sito, l'apertura serale per almeno quattro mesi all'anno, un aumento di almeno il 50 per cento dei visitatori. Per raggiungere il pareggio, bisognerebbe aumentare il costo dei biglietto dagli attuali 11 euro a 15,50 euro, la stessa cifra che si paga per l'ingresso al Moma di New York. Il paradosso è che in cassa, oggi a Pompei, ci sono circa 57 milioni di curo non spesi. Sembra un contrappasso, dopo l'era Fiori in cui si registrarono 54 voci di spesa negli ultimi due giorni di commissariamento: 15 milioni di euro tra il 29 e il 30 luglio 2010, proprio mentre si preparavano gli scatoloni per andar via.
Autore: Pappaianni, Claudio |
Amaro declino del sito archeologico più famoso al mondo. Le cause sono sempre quelle, da troppi anni a questa parte: incuria, mala gestione, arretratezza culturale. L’Espresso, 8 novembre 2012 (m.p.g.) |
I lavori annunciati dal governo non sono ancora partiti. I conti restano in rosso. E il sito archeologico rimane a rischio
No. Crolli no: non cominciate a farne un caso. Al massimo, qualche pezzetto di intonaco scrostato». Uno degli addetti al controllo ha appena finito il suo giro di ricognizione tra le Domus di Pompei: negativo, recita il suo rapporto. Nessun danno, almeno in superficie. Come se bastasse: «I media si accorgono di Pompei solo quando crolla qualcosa», chiosa nervoso. Su Napoli e provincia ha piovuto tutta la notte, un nubifragio. Quando piove, nella città antica piove sul bagnato: il rischio che quell'acqua produca danni è più alto che altrove. Due anni fa, il crollo della Schola Armaturarum fu provocato dallo smottamento di un terrapieno proprio a causa delle abbondanti piogge. Non c'era un sistema per veicolare l'acqua piovana, nel sito archeologico più grande al mondo. E non c'è nemmeno ora: a Pompei l'anno zero non è ancora arrivato. Full Monti Ci giochiamo la faccia, ha dichiarato il ministro della Coesione territoriale, Fabrizio Barca. La figura ce l'ha. La faccia, in verità, Pompei se l'era già giocata con la gestione commissariale che Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso avevano affidato a Marcello Fiori. In due anni, sono state dilapidati 80 milioni di euro: poco per i restauri e tanto sperpero di denaro tra stipendi da record, consulenze, bottiglie di vino e operazioni di marketing. Dopo le denunce dettagliate de "l'Espresso", la Procura della Repubblica di Torre Annunziata aprì un fascicolo e la Guardia di Finanza più volte è stata a Pompei per acquisire la documentazione di gare e affidamenti. Sono passati due anni, come per il crollo della Schola Armaturarum: le macerie sono ancora lì coperte da un telo di nylon, l'inchiesta pure. Bel quadretto». Una volta, qui, c'erano squadrette di manutentori: pioveva lo stesso, eppure crolli così clamorosi non li ricordo, racconta un anziano custode, aggirando una grande pozzanghera nel Foro della città antica. Ogni giorno, restauratori e artigiani che lavoravano stabilmente nel sito archeologico, intervenivano ai primi segnali di degrado. Bastava una crepa, un muro un po' scrostato e,con azioni mirate e pochi spiccioli, si preveniva il peggio. Oggi, se non si attende il crollo poco ci manca. E si interviene, quasi sistematicamente, affidando lavori a ditte esterne con la pratica della "somma urgenza" con nomi che, spesso, si ripetono. Aumentano i costi, cresce il rischio per il patrimonio artistico e culturale. Mentre a Pompei spariscono i manutentori, ormai in via di estinzione come i panda: ne sono rimasti in servizio sette, ma solo due hanno ancora forza e competenza per intervenire. Due per quarantaquattro ettari di patrimonio archeologico fruibile, dove intanto il degrado continua la sua inesorabile marcia. Sette i crolli negli ultimi due anni. A febbraio, si era staccato l'intonaco della Domus di Venere in Conchiglia, uno degli affreschi più noti al mondo. L'ultimo crollo, a settembre, nella famosa Villa dei Misteri: una trave di castagno, lunga cinque metri, si è staccata dal soffitto, da un'altezza di otto metri, e si è schiantata sul pavimento della Domus più visitata. Era marcia, come deteriorate appaiono alcune che ancora sono fissate nel sottotetto della Villa. E' successo di notte: fosse caduta di giorno, a Pompei ci sarebbe pure potuto scappare il morto. La causa? Un'infiltrazione d'acqua, a quanto pare. Conti in rosso |
Amaro declino del sito archeologico più famoso al mondo. Le cause sono sempre quelle, da troppi anni a questa parte: incuria, mala gestione, arretratezza culturale. L’Espresso, 8 novembre 2012 (m.p.g.) |
I lavori annunciati dal governo non sono ancora partiti. I conti restano in rosso. E il sito archeologico rimane a rischio
No. Crolli no: non cominciate a farne un caso. Al massimo, qualche pezzetto di intonaco scrostato». Uno degli addetti al controllo ha appena finito il suo giro di ricognizione tra le Domus di Pompei: negativo, recita il suo rapporto. Nessun danno, almeno in superficie. Come se bastasse: «I media si accorgono di Pompei solo quando crolla qualcosa», chiosa nervoso. Su Napoli e provincia ha piovuto tutta la notte, un nubifragio. Quando piove, nella città antica piove sul bagnato: il rischio che quell'acqua produca danni è più alto che altrove. Due anni fa, il crollo della Schola Armaturarum fu provocato dallo smottamento di un terrapieno proprio a causa delle abbondanti piogge. Non c'era un sistema per veicolare l'acqua piovana, nel sito archeologico più grande al mondo. E non c'è nemmeno ora: a Pompei l'anno zero non è ancora arrivato. Full Monti Ci giochiamo la faccia, ha dichiarato il ministro della Coesione territoriale, Fabrizio Barca. La figura ce l'ha. La faccia, in verità, Pompei se l'era già giocata con la gestione commissariale che Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso avevano affidato a Marcello Fiori. In due anni, sono state dilapidati 80 milioni di euro: poco per i restauri e tanto sperpero di denaro tra stipendi da record, consulenze, bottiglie di vino e operazioni di marketing. Dopo le denunce dettagliate de "l'Espresso", la Procura della Repubblica di Torre Annunziata aprì un fascicolo e la Guardia di Finanza più volte è stata a Pompei per acquisire la documentazione di gare e affidamenti. Sono passati due anni, come per il crollo della Schola Armaturarum: le macerie sono ancora lì coperte da un telo di nylon, l'inchiesta pure. Bel quadretto». Una volta, qui, c'erano squadrette di manutentori: pioveva lo stesso, eppure crolli così clamorosi non li ricordo, racconta un anziano custode, aggirando una grande pozzanghera nel Foro della città antica. Ogni giorno, restauratori e artigiani che lavoravano stabilmente nel sito archeologico, intervenivano ai primi segnali di degrado. Bastava una crepa, un muro un po' scrostato e,con azioni mirate e pochi spiccioli, si preveniva il peggio. Oggi, se non si attende il crollo poco ci manca. E si interviene, quasi sistematicamente, affidando lavori a ditte esterne con la pratica della "somma urgenza" con nomi che, spesso, si ripetono. Aumentano i costi, cresce il rischio per il patrimonio artistico e culturale. Mentre a Pompei spariscono i manutentori, ormai in via di estinzione come i panda: ne sono rimasti in servizio sette, ma solo due hanno ancora forza e competenza per intervenire. Due per quarantaquattro ettari di patrimonio archeologico fruibile, dove intanto il degrado continua la sua inesorabile marcia. Sette i crolli negli ultimi due anni. A febbraio, si era staccato l'intonaco della Domus di Venere in Conchiglia, uno degli affreschi più noti al mondo. L'ultimo crollo, a settembre, nella famosa Villa dei Misteri: una trave di castagno, lunga cinque metri, si è staccata dal soffitto, da un'altezza di otto metri, e si è schiantata sul pavimento della Domus più visitata. Era marcia, come deteriorate appaiono alcune che ancora sono fissate nel sottotetto della Villa. E' successo di notte: fosse caduta di giorno, a Pompei ci sarebbe pure potuto scappare il morto. La causa? Un'infiltrazione d'acqua, a quanto pare. Conti in rosso |
Autore: Pappaianni, Claudio |
Dimenticare Pompei |
Data di pubblicazione: 04.11.2012 |
Autore: Pappaianni, Claudio |
Amaro declino del sito archeologico più famoso al mondo. Le cause sono sempre quelle, da troppi anni a questa parte: incuria, mala gestione, arretratezza culturale. L’Espresso, 8 novembre 2012 (m.p.g.) |
I lavori annunciati dal governo non sono ancora partiti. I conti restano in rosso. E il sito archeologico rimane a rischio
No. Crolli no: non cominciate a farne un caso. Al massimo, qualche pezzetto di intonaco scrostato». Uno degli addetti al controllo ha appena finito il suo giro di ricognizione tra le Domus di Pompei: negativo, recita il suo rapporto. Nessun danno, almeno in superficie. Come se bastasse: «I media si accorgono di Pompei solo quando crolla qualcosa», chiosa nervoso. Su Napoli e provincia ha piovuto tutta la notte, un nubifragio. Quando piove, nella città antica piove sul bagnato: il rischio che quell'acqua produca danni è più alto che altrove. Due anni fa, il crollo della Schola Armaturarum fu provocato dallo smottamento di un terrapieno proprio a causa delle abbondanti piogge. Non c'era un sistema per veicolare l'acqua piovana, nel sito archeologico più grande al mondo. E non c'è nemmeno ora: a Pompei l'anno zero non è ancora arrivato. Full Monti Ci giochiamo la faccia, ha dichiarato il ministro della Coesione territoriale, Fabrizio Barca. La figura ce l'ha. La faccia, in verità, Pompei se l'era già giocata con la gestione commissariale che Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso avevano affidato a Marcello Fiori. In due anni, sono state dilapidati 80 milioni di euro: poco per i restauri e tanto sperpero di denaro tra stipendi da record, consulenze, bottiglie di vino e operazioni di marketing. Dopo le denunce dettagliate de "l'Espresso", la Procura della Repubblica di Torre Annunziata aprì un fascicolo e la Guardia di Finanza più volte è stata a Pompei per acquisire la documentazione di gare e affidamenti. Sono passati due anni, come per il crollo della Schola Armaturarum: le macerie sono ancora lì coperte da un telo di nylon, l'inchiesta pure. Bel quadretto». Una volta, qui, c'erano squadrette di manutentori: pioveva lo stesso, eppure crolli così clamorosi non li ricordo, racconta un anziano custode, aggirando una grande pozzanghera nel Foro della città antica. Ogni giorno, restauratori e artigiani che lavoravano stabilmente nel sito archeologico, intervenivano ai primi segnali di degrado. Bastava una crepa, un muro un po' scrostato e,con azioni mirate e pochi spiccioli, si preveniva il peggio. Oggi, se non si attende il crollo poco ci manca. E si interviene, quasi sistematicamente, affidando lavori a ditte esterne con la pratica della "somma urgenza" con nomi che, spesso, si ripetono. Aumentano i costi, cresce il rischio per il patrimonio artistico e culturale. Mentre a Pompei spariscono i manutentori, ormai in via di estinzione come i panda: ne sono rimasti in servizio sette, ma solo due hanno ancora forza e competenza per intervenire. Due per quarantaquattro ettari di patrimonio archeologico fruibile, dove intanto il degrado continua la sua inesorabile marcia. Sette i crolli negli ultimi due anni. A febbraio, si era staccato l'intonaco della Domus di Venere in Conchiglia, uno degli affreschi più noti al mondo. L'ultimo crollo, a settembre, nella famosa Villa dei Misteri: una trave di castagno, lunga cinque metri, si è staccata dal soffitto, da un'altezza di otto metri, e si è schiantata sul pavimento della Domus più visitata. Era marcia, come deteriorate appaiono alcune che ancora sono fissate nel sottotetto della Villa. E' successo di notte: fosse caduta di giorno, a Pompei ci sarebbe pure potuto scappare il morto. La causa? Un'infiltrazione d'acqua, a quanto pare. Conti in rosso |
Amaro declino del sito archeologico più famoso al mondo. Le cause sono sempre quelle, da troppi anni a questa parte: incuria, mala gestione, arretratezza culturale. L’Espresso, 8 novembre 2012 (m.p.g.) |
I lavori annunciati dal governo non sono ancora partiti. I conti restano in rosso. E il sito archeologico rimane a rischio
No. Crolli no: non cominciate a farne un caso. Al massimo, qualche pezzetto di intonaco scrostato». Uno degli addetti al controllo ha appena finito il suo giro di ricognizione tra le Domus di Pompei: negativo, recita il suo rapporto. Nessun danno, almeno in superficie. Come se bastasse: «I media si accorgono di Pompei solo quando crolla qualcosa», chiosa nervoso. Su Napoli e provincia ha piovuto tutta la notte, un nubifragio. Quando piove, nella città antica piove sul bagnato: il rischio che quell'acqua produca danni è più alto che altrove. Due anni fa, il crollo della Schola Armaturarum fu provocato dallo smottamento di un terrapieno proprio a causa delle abbondanti piogge. Non c'era un sistema per veicolare l'acqua piovana, nel sito archeologico più grande al mondo. E non c'è nemmeno ora: a Pompei l'anno zero non è ancora arrivato. Full Monti Ci giochiamo la faccia, ha dichiarato il ministro della Coesione territoriale, Fabrizio Barca. La figura ce l'ha. La faccia, in verità, Pompei se l'era già giocata con la gestione commissariale che Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso avevano affidato a Marcello Fiori. In due anni, sono state dilapidati 80 milioni di euro: poco per i restauri e tanto sperpero di denaro tra stipendi da record, consulenze, bottiglie di vino e operazioni di marketing. Dopo le denunce dettagliate de "l'Espresso", la Procura della Repubblica di Torre Annunziata aprì un fascicolo e la Guardia di Finanza più volte è stata a Pompei per acquisire la documentazione di gare e affidamenti. Sono passati due anni, come per il crollo della Schola Armaturarum: le macerie sono ancora lì coperte da un telo di nylon, l'inchiesta pure. Bel quadretto». Una volta, qui, c'erano squadrette di manutentori: pioveva lo stesso, eppure crolli così clamorosi non li ricordo, racconta un anziano custode, aggirando una grande pozzanghera nel Foro della città antica. Ogni giorno, restauratori e artigiani che lavoravano stabilmente nel sito archeologico, intervenivano ai primi segnali di degrado. Bastava una crepa, un muro un po' scrostato e,con azioni mirate e pochi spiccioli, si preveniva il peggio. Oggi, se non si attende il crollo poco ci manca. E si interviene, quasi sistematicamente, affidando lavori a ditte esterne con la pratica della "somma urgenza" con nomi che, spesso, si ripetono. Aumentano i costi, cresce il rischio per il patrimonio artistico e culturale. Mentre a Pompei spariscono i manutentori, ormai in via di estinzione come i panda: ne sono rimasti in servizio sette, ma solo due hanno ancora forza e competenza per intervenire. Due per quarantaquattro ettari di patrimonio archeologico fruibile, dove intanto il degrado continua la sua inesorabile marcia. Sette i crolli negli ultimi due anni. A febbraio, si era staccato l'intonaco della Domus di Venere in Conchiglia, uno degli affreschi più noti al mondo. L'ultimo crollo, a settembre, nella famosa Villa dei Misteri: una trave di castagno, lunga cinque metri, si è staccata dal soffitto, da un'altezza di otto metri, e si è schiantata sul pavimento della Domus più visitata. Era marcia, come deteriorate appaiono alcune che ancora sono fissate nel sottotetto della Villa. E' successo di notte: fosse caduta di giorno, a Pompei ci sarebbe pure potuto scappare il morto. La causa? Un'infiltrazione d'acqua, a quanto pare. Conti in rosso |
I lavori annunciati dal governo non sono ancora partiti. I conti restano in rosso. E il sito archeologico rimane a rischio
No. Crolli no: non cominciate a farne un caso. Al massimo, qualche pezzetto di intonaco scrostato». Uno degli addetti al controllo ha appena finito il suo giro di ricognizione tra le Domus di Pompei: negativo, recita il suo rapporto. Nessun danno, almeno in superficie. Come se bastasse: «I media si accorgono di Pompei solo quando crolla qualcosa», chiosa nervoso. Su Napoli e provincia ha piovuto tutta la notte, un nubifragio. Quando piove, nella città antica piove sul bagnato: il rischio che quell'acqua produca danni è più alto che altrove. Due anni fa, il crollo della Schola Armaturarum fu provocato dallo smottamento di un terrapieno proprio a causa delle abbondanti piogge. Non c'era un sistema per veicolare l'acqua piovana, nel sito archeologico più grande al mondo. E non c'è nemmeno ora: a Pompei l'anno zero non è ancora arrivato.
Full Monti
«E' necessario che il sito rimanga in piedi con lavori di qualità e in sicurezza per i lavoratori, aveva dichiarato ad aprile il presidente del Consiglio, Mario Monti, presentando al mondo il "Grande progetto Pompei": 105 milioni di euro, 63 milioni nazionali e 42 di risorse europee, investiti nei prossimi te anni per la manutenzione del sito archeologico. Uno studio del 2005, commissionato dalla Soprintendenza, stimava in 260 milioni di euro il costo degli interventi necessari per la messa in sicurezza di tutta l'area degli scavi. Gli obiettivi, ha aggiunto Monti,«sono due: la messa in sicurezza di tutto il sito e che ciò avvenga attraverso lavoratori capaci e onesti, tenendo fuori la criminalità organizzata che è forte nel territorio. Sono trascorsi sette mesi e, ancora, nessun cantiere è stato aperto. I primi interventi tra l'altro non saranno di manutenzione e messa in sicurezza delle zone già accessibili ai visitatori ma riguarderanno il restauro e l'apertura di cinque nuove domus - la Casa del Criptoportico, la Casa di Sirico, quella del Marinaio, quella delle Pareti rosse e la Casa dei Dioscuri - con un costo di cinque milioni di euro. Per la scorsa estate era attesa la pubblicazione del bando per la "mitigazione del rischio idrogeologico", cioè proprio quello che serve per evitare infiltrazioni d'acqua e crolli: ad autunno inoltrato non c'è ancora traccia. Eppure, per velocizzare le operazioni sono state effettuate negli ultimi mesi pure ventidue nuove assunzioni di architetti e professionisti. «Da come agiremo sul sito archeologico, dipenderà molto della reputazione che potremo avere come Paese.
Ci giochiamo la faccia, ha dichiarato il ministro della Coesione territoriale, Fabrizio Barca. La figura ce l'ha. La faccia, in verità, Pompei se l'era già giocata con la gestione commissariale che Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso avevano affidato a Marcello Fiori. In due anni, sono state dilapidati 80 milioni di euro: poco per i restauri e tanto sperpero di denaro tra stipendi da record, consulenze, bottiglie di vino e operazioni di marketing. Dopo le denunce dettagliate de "l'Espresso", la Procura della Repubblica di Torre Annunziata aprì un fascicolo e la Guardia di Finanza più volte è stata a Pompei per acquisire la documentazione di gare e affidamenti. Sono passati due anni, come per il crollo della Schola Armaturarum: le macerie sono ancora lì coperte da un telo di nylon, l'inchiesta pure. Bel quadretto». Una volta, qui, c'erano squadrette di manutentori: pioveva lo stesso, eppure crolli così clamorosi non li ricordo, racconta un anziano custode, aggirando una grande pozzanghera nel Foro della città antica. Ogni giorno, restauratori e artigiani che lavoravano stabilmente nel sito archeologico, intervenivano ai primi segnali di degrado. Bastava una crepa, un muro un po' scrostato e,con azioni mirate e pochi spiccioli, si preveniva il peggio.
Oggi, se non si attende il crollo poco ci manca. E si interviene, quasi sistematicamente, affidando lavori a ditte esterne con la pratica della "somma urgenza" con nomi che, spesso, si ripetono. Aumentano i costi, cresce il rischio per il patrimonio artistico e culturale. Mentre a Pompei spariscono i manutentori, ormai in via di estinzione come i panda: ne sono rimasti in servizio sette, ma solo due hanno ancora forza e competenza per intervenire. Due per quarantaquattro ettari di patrimonio archeologico fruibile, dove intanto il degrado continua la sua inesorabile marcia. Sette i crolli negli ultimi due anni. A febbraio, si era staccato l'intonaco della Domus di Venere in Conchiglia, uno degli affreschi più noti al mondo. L'ultimo crollo, a settembre, nella famosa Villa dei Misteri: una trave di castagno, lunga cinque metri, si è staccata dal soffitto, da un'altezza di otto metri, e si è schiantata sul pavimento della Domus più visitata. Era marcia, come deteriorate appaiono alcune che ancora sono fissate nel sottotetto della Villa. E' successo di notte: fosse caduta di giorno, a Pompei ci sarebbe pure potuto scappare il morto. La causa? Un'infiltrazione d'acqua, a quanto pare.
Conti in rosso
Per ripristinare le "squadrette" basterebbe assumere una cinquantina di persone: costo medio 39 mila euro all'anno. Meno di due milioni di euro,che garantirehbero più sicurezza e maggiore salvaguardia del patrimonio.E posti di lavoro. Soldi che, in parte, verrebbero recuperati dagli affidamenti diretti alle ditte chiamate d'urgenza quando c'è qualche cedimento. Oggi, negli Scavi di Pompei lavorano in 213: i loro stipendi, circa 8,3 milioni di euro, li paga il Mibac, il ministero dei Beni culturali. Per il funzionamento e la manutenzione ordinaria viene utilizzato l'incasso: circa 19 milioni per 1,7 milioni di visitatori paganti. Se Pompei fosse un'azienda privata, tra costi di gestione e personale, sarebbe già fallita. Eppure, secondo un vecchio studio del Mibac, servirebbero almeno altri 500 addetti per far funzionare al meglio il sito. Prevalentemente custodi. Garantirebbero la fruizione di tutti o quasi i 67 ettari del sito, l'apertura serale per almeno quattro mesi all'anno, un aumento di almeno il 50 per cento dei visitatori. Per raggiungere il pareggio, bisognerebbe aumentare il costo dei biglietto dagli attuali 11 euro a 15,50 euro, la stessa cifra che si paga per l'ingresso al Moma di New York. Il paradosso è che in cassa, oggi a Pompei, ci sono circa 57 milioni di curo non spesi. Sembra un contrappasso, dopo l'era Fiori in cui si registrarono 54 voci di spesa negli ultimi due giorni di commissariamento: 15 milioni di euro tra il 29 e il 30 luglio 2010, proprio mentre si preparavano gli scatoloni per andar via.
Non bastano la seicentesca Arpa Barberini o il primo esemplare di pianoforte, un Cristofori del 1722, a evitare che il Museo nazionale degli strumenti musicali in cui sono esposti sia un vertiginoso buco nero della tutela in Italia, il simbolo dello stato comatoso in cui versa il patrimonio storico artistico. Dal 9 giugno il Museo, che ha sedea Roma in una palazzina dietro la chiesa di santa Croce in Gerusalemme,è chiuso. Si dice che lo si debba ristrutturare, ma non c' è alcun cantiere aperto. Solo sei custodi divisi su tre turni vigilano su quasi novecento oggetti che hanno pochi eguali al mondo per valore e bellezza e che, senza climatizzazione perché l' hanno staccata, sono rosicchiati dai tarli. Nei tre magazzini al piano terra si accatastano sotto la polvere pianoforti, cembali e violoncelli. Negli scaffali brandelli di violini, tastiere fatte a pezzi. Dovunque lo struggente senso di un tesoro in abbandono. E sul futuro solo voci. Lo scenografo Pier Luigi Pizzi starebbe lavorando a un progetto di allestimento, ma intanto alcune parti sono state inglobate e altre lo sarebbero dalla vicina Direzione generale del cinema e da quella dello spettacolo dal vivo che, come il Museo, appartengono allo stesso ministero dei Beni culturali. Ma c' è chi sostiene che il secondo piano, dove altri strumenti sono ammassati, potrebbe far gola a società private che organizzerebbero mostre, anche con la consulenza di ex dirigenti del ministero in pensione. Sulla vicenda è scattata una denuncia della Cgil che ha diramato un comunicato e che, insieme al Comitato per la Bellezza, ha lanciato un appello per salvare il museo dalla distruzione. Così deperisce un prezioso ma debole presidio che ha un solo difetto agli occhi di chi misura tutto in termini contabili: non attira molti visitatori, circa 13 mila l' anno, anche se fra questi figurano studiosi del mondo intero e storici della musica che vengono a Roma per vedere uno dei tre esemplari esistenti del Cristofori del 1722, campanelli d' età ellenistica, sistri in bronzo del VII secolo a.C., tamburelli cinesi, cembali del Seicento con delicate pitture, ghironde, chitarre settecentesche, arpe, organi intarsiati e poi il ciacciac futurista di Giacomo Balla. Un repertorio accumulato in gran parte da un solo collezionista, Evangelista Gorga, un tenore che nel 1896 fu Rodolfo nella prima esecuzione della Bohème di Puccini e che si dedicò a raccogliere strumenti di tutte le epoche e di tutto il mondo. Dal 1964 la collezione è nel museo, unico in Europa per quantità e valore del materiale. Ma sempre bistrattato, vilipeso, senza che nessuno si impegnasse in politiche di valorizzazione, come attestano le denunce di Antonio Latanza, che lo ha diretto per vent' anni. Ora l' abbandono è completo. La chiusura del Museo è stata decisa dalla direttrice ad interim Rossella Vodret, che nel giugno scorso era Soprintendente al Polo museale romano (di cui il Museo degli strumenti fa parte) e che da lunedì scorso è in pensione. La Vodret aveva destituito la precedente direttrice, Luigina Di Mattia. Nell' ultimo anno dal museo sono state staccate alcune sale, che tuttora sono inutilizzate. Fra queste anche la cosiddetta "sala dell' azoto" dove pianoforti e spinette venivano ricoverate per uccidere i tarli. Un' operazione che ora non si fa più se non mandando gli strumenti in laboratori privati. È stato anche smantellato l' auditorium che ospitava concerti e conferenze. Ora vi stazionano le scrivanie di tre funzionari amministrativi sfrattati dai loro uffici passati ai colleghi di Spettacolo e Cinema. Senza manutenzione, senza una temperatura costante di 19-20 gradi gli strumenti musicali rischiano danni irreparabili. Il legno è materiale vivo, l' umidità lo gonfia. In agosto, denunciano alla Cgil, si superavano di molto i 40 gradi. Gli studiosi ancora ricordano il signor Pietro Patacchiola, restauratore capo, che con la direttrice Luisa Cervelli passava in rassegna gli strumenti anche due, tre volte la settimana, uno per volta. E qualcuno lo rammenta seduto a suonarli, quando c' era bisogno che anche solo per un attimo riprendessero vita. Ora pianoforti, organi e cembali giacciono muti, in attesa che il ministero ne fissi la sorte.
«Ho scelto come nuovo presidente del Maxxi l’ex ministro per i Beni culturali che ha avuto il merito di avviarne il progetto ed intuirne le potenzialità», ha dichiarato Lorenzo Ornaghi, sommerso da un diluvio bipartisan di censure per l’inconsulta nomina di Giovanna Melandri alla guida del maggior museo di arte contemporanea italiano.
Non fa una piega. Come se un ex ministro della Sanità laureato in economia (proprio come la Melandri, del resto) venisse nominato direttore di un ospedale da lui a suo tempo inaugurato, o un ex ministro dei Trasporti laureato in filosofia fosse chiamato a dirigere un aeroporto di cui tagliò il nastro.
Filippo Ceccarelli su Repubblica ed Ernesto Galli della Loggia sul Corriere hanno già spiegato perché questa nomina sia un clamoroso errore. Lo hanno fatto con garbo cavalleresco, perché soffermarsi sullo spessore culturale della Melandri sarebbe come sganciare un’atomica sulla Croce Rossa.
Ma c’è un lato della questione che non hanno considerato. Ed è che la prima, indispensabile condizione per salvare il patrimonio storico e artistico della Nazione (cosa che tutti, a parole, vorrebbero) non sono i fondi, né le leggi: ma è la competenza a prova di bomba che dovrebbero avere tutti coloro che lo maneggiano. In Italia, gli studi di storia dell’arte dovrebbero essere più seri e severi di quelli in ingegneria spaziale (e non lo sono: per colpa della mia corporazione); i concorsi per le soprintendenze e i musei dovrebbero essere durissimi (e invece sono penosi colabrodo); il governo del patrimonio dovrebbe essere lontano anni luce dalle invadenze politiche (e invece è soffocato, colonizzato dalla classe politica più vorace, ma anche più incolta, del globo).
E Ornaghi, in tutto questo, si è trovato come un topo nel formaggio. Unico ministro incompetente in un governo tecnico, ha moltiplicato intorno a sé l’incompetenza come fosse pani e pesci: ha nominato un suo affezionato creato nel Consiglio d’amministrazione della fondazione della Scala; ha affidato ad un ignaro filosofo del diritto la guida del Consiglio superiore dei Beni culturali, che poi ha popolato di psicologi, scienziati della politica e rettori milanesi (senz’altro ottime persone, ma del tutto incompetenti in materia): e giù per tutti i rami delle nomine, fino a fare soprintendente di Roma la musealizzatrice dei lucchetti di Moccia.
Ma il più incompetente tra coloro che Ornaghi ha nominato, e poi difeso fino alla soglia del carcere, è quel Marino Massimo De Caro che lo consigliava per 40.000 euro l’anno, e dirigeva la Biblioteca dei Girolamini col placet del Mibac: non era nemmeno laureato, ma in compenso era uno stretto collaboratore di Dell’Utri. Ha rubato solo 4000 dei libri che custodiva. Quasi quasi dobbiamo ringraziare Ornaghi: avesse scelto un ladro competente, oggi non ci sarebbe più nulla.
Naturalmente Giovanna Melandri è un’altra cosa. Ma il presupposto è esattamente lo stesso: se si parla di quel vago divertimento per ricche signore svampite che è l’arte, la competenza non esiste. E siccome finché i musei sono direttamente sotto il Mibac bisogna pur valutare dei titoli, la scorciatoia è quella di trasformarli in fondazioni: Alain Elkann a presiedere la Fondazione del Museo Egizio è forse meglio della Melandri che presiede il Maxxi? Ci pensino, i sostenitori della Fondazione Brera: e tremino, pensando a chissà quale ferrovecchio del sottobosco politico lombardo il pio Ornaghi immancabilmente infognerà alla testa del massimo museo lombardo.
L’orda dei politici rottamati in cerca di sinecure calerà sul patrimonio artistico come uno sciame di cavallette: c’è da scommetterci, siamo solo all’inizio.
Quando parlo con i miei colleghi universitari francesi o americani dei ‘tagli alla cultura’ italiani, la domanda più ricorrente è: «cosa hanno chiuso?». E qui la faccenda si fa particolarmente penosa, perché si tratta di spiegare loro che l’ipocrisia italica non permette quasi mai di sopprimere davvero qualcosa – sarebbe quasi meglio, paradossalmente –, ma costringe tutti a vivere largamente al di sotto della soglia minima di dignità.
Non si chiudono i musei: no, ma nei bagni non c’è la carta igienica, dai soffitti piove sui quadri, le sale sono aperte a rotazione. E il direttore degli Uffizi guadagna 1800 euro al mese (contro gli 8100 dello stipendio base di Franco Fiorito).
Non si sopprimono le soprintendenze: ma i pochi storici dell’arte e gli archeologi rimasti in servizio in organici ridotti all’osso, non possono usare la macchina di servizio (né farsi rimborsare la benzina o le spese del telefono) nemmeno per fare i sopralluoghi sui monumenti colpiti dal terremoto. E i carabinieri del Nucleo di tutela non possono pagarsi i viaggi per le rogatorie internazionali che consentono di recuperare le opere o i libri rubati.
Non si chiudono gli archivi o le biblioteche: ma se si guastano (succede ogni giorno) i montacarichi che servono a distribuire il pesante materiale cartaceo, non è possibile consegnare i pezzi agli studiosi. E d’inverno non si può accendere il riscaldamento, né d’estate l’aria condizionata: d’altra parte, lo studio non deve forse essere matto e disperatissimo?
Non si eliminano gli enti culturali: ma la prestigiosissima Scuola Archeologica Italiana di Atene è decimata nel personale, ed è costretta da anni ad una indecorosa economia di guerra; l’Accademia della Crusca si aggira ogni anni col cappello in mano; la Società di Storia Patria di Napoli (che possiede la più importante biblioteca sul Meridione) è sull’orlo del fallimento.
Non si chiudono le scuole, ma non ci possiamo permettere gli insegnanti di sostegno, la carta (di qualunque tipo) si porta da casa, e gli autobus per portare i bambini a conoscere le loro città non esistono quasi più.
Non si ha il coraggio di dire che l’università italiana non deve più fare ricerca (per trasformarsi anche ufficialmente in un esamificio e in un concorsificio truccato), ma l’ultimo finanziamento per la ricerca che la mia università mi ha erogato ammonta a 600 euro annui. E l’ho ceduto, come altri colleghi, al dipartimento: in una sorta di colletta che potesse portare ad avere qualche assegno di ricerca per non far scappare all’estero proprio tutti i giovani studiosi più meritevoli.
A questo punto del discorso, qualcuno tira invariabilmente fuori un argomento in apparenza definitivo: «Non ci sono soldi». Ma il mantra del «non ci sono soldi» era già difficile da sostenere prima, visto che nel Paese con l’evasione fiscale più grande dell’Occidente è un po’ dura pensare davvero che ‘non ci siano soldi’: il problema, semmai, è il fatto che preferiamo lasciare quei soldi nella disponibilità dei privati. Gli stessi privati a cui, poi, chiediamo l’elemosina della beneficenza. Una beneficenza che non è a costo zero, visto che – per quanto riguarda, per esempio il patrimonio culturale – si traduce in iniziative contrarie alla funzione costituzionale del patrimonio stesso, che è quella di produrre conoscenza e cultura, e attraverso di esse, eguaglianza e cittadinanza. Questi ‘rimedi’ alla mancanza di denaro pubblico sono infatti tutti all’insegna del mercato, e producono non cittadini, ma clienti: grandi mostre di cassetta (anzi Grandi Eventi), prestiti forsennati di opere delicatissime, iperrestauri a rotta di collo, cessioni di sovranità pubblica a sponsor privati che ‘marchiano’ i monumenti e molto altro ancora. Del resto, l’opzione alternativa è spesso ancora peggiore: non ci sono soldi, dunque che il patrimonio vada pure in rovina.
Ma ora – dopo le feste in costume romano della Regione Lazio, dopo la notizia che il Ponte sullo Stretto ci è costato 300 milioni di euro solo per non esistere, o che il Palazzo della Regione Lombardia ce n’è costato 400, dopo che si apprende che agli incliti consiglieri regionali campani viene distribuito un milione l’anno –, beh, ora è un po’ difficile pensare che il problema sia davvero che i soldi non ci siano. Semmai, il punto è cosa vogliamo farne, di questi benedetti soldi pubblici.
Ma niente paura: quando avremo definitivamente perduto Pompei, potremo sempre nascondere la nostra vergogna sotto una maschera. Naturalmente, una maschera da maiale.
1. Ministero per i Beni e le attività culturali. Nel luglio del 2008 Sandro Bondi subisce passivamente un taglio da 1 miliardo e 300 milioni di euro. Il Mibac non si riprenderà più: per l’anno prossimo Ornaghi annuncia sereno altri 50 milioni di tagli. Morale: la Pinacoteca di Varallo questo inverno non riaprirà; a Brera fino a ieri non c’erano i soldi per riparare i lucernari; a Capodimonte piove sui quadri; a Pompei non si assumono manutentori: e le case romane, si sfarinano.
Ora il governo Monti, con la spending review, per risparmiare 10.000 euro l’anno taglia i comitati tecnico-scientifici, gettando il patrimonio tra le braccia della burocrazia ministeriale. Ma anche le famose Regioni tagliano: nel 2013 la colta Toscana sottrarrà 1 milione e 750 mila euro all’istruzione, due milioni alla cultura.
2. I tagli al Mibac non riguardano ‘solo’ i musei e i siti monumentali, ma anche gli archivi e le biblioteche. A Firenze l’Archivio di Stato non può più climatizzare i depositi: con 36 gradi e un’umidità fuori controllo la memoria storica del paese è a rischio. A Napoli i 300.000 volumi dell’Istituto di studi filosofici non trovano una sede: basterebbe metà di quel che Fiorito è accusato di aver intascato.
3. A Siena chiude il Santa Maria della Scala, fiore all’occhiello del sistema museale cittadino. La crisi del Comune (commissariato) sembra mettere fine ad una delle esperienze culturali più promettenti d’Italia.
4. L’Istituto Centrale per i beni sonori e audovisivi di Roma (la cosiddetta Discoteca di Stato), cioè la memoria sonora del Paese, spacciata dalla Spending review a luglio, è stata salvata in corner dall’insurrezione dei cittadini. Sul sito, un avviso tuttora ringrazia «quanti hanno testimoniato la loro solidarietà e partecipazione». Ve lo immaginate sul sito di un ente pubblico francese, o tedesco?
5. Il mondo dell’arte contemporanea è in ginocchio: i tagli sono del 33%. Il Madre di Napoli è in smontaggio, il Maxxi è commissariato, il Castello di Rivoli si trascina grazie a bilanci provvisori bimestrali, e la Quadriennale di Roma non si terrà per la prima volta dal 1927.
6. Il terremoto in Emilia, Lombardia e Veneto: non ci sono soldi per i monumenti danneggiati. Un esempio? Per il Palazzo Ducale di Mantova ci vogliono 5 milioni di euro, e ne sono arrivati 300.000 mila. Alla faccia di Mantegna. Il centro dell’Aquila, d’altra parte, aspetta da oltre tre anni, ed è ridotto ad una quinta da Cinecittà.
E’ un grande piacere ospitare qui oggi questa conferenza stampa in uno dei luoghi della cultura che come gli altri ha un po’ della nostra anima. E’ segno di una scelta del FAI e di questo siamo molto soddisfatti.
Da anni sono impegnata come direttore archeologo della SSBAR in particolare per il museo nazionale romano e per l’Appia.
Ho avuto la fortuna di vivere un grande periodo per le antichità di Roma, quello della legge speciale del 1981 che, con Adriano La Regina, ha rivolto l’attenzione alla conservazione del patrimonio archeologico della città. Da quel momento si è avviato il progetto che ha coinvolto i monumenti dell’area centrale e del territorio e si è dato vita a un sistema museale (quello del MNR di cui Palazzo Massimo è una sede) che ha permesso di presentare e valorizzare le raccolte in un rapporto coerente con i complessi archeologici di Roma e del suburbio.
Quando si è lavorato per accrescere il patrimonio culturale e migliorarne la fruizione, senza risparmiare l’impegno, se pur tra tante difficoltà, con l’unico obiettivo della tutela e della divulgazione dei risultati, risulta inconcepibile non poter guardare avanti e continuare nell’impresa, dovendo anzi ragionare in termini di “ridimensionamento”.
L’accrescimento del patrimonio culturale e il suo mantenimento hanno dei costi e nella maggior parte dei casi il profitto è assolutamente insufficiente a far fronte alle esigenze. La soluzione evidentemente non è nei maldestri tentativi di trarre guadagno dai beni culturali direttamente, anche se ciclicamente si sono presentati, sotto vesti diverse, esperimenti di sfruttamento, dai giacimenti culturali alle forme di quella cd valorizzazione indirizzata verso “attività” per lo più estranee alla politica culturale. Senza alcun pregiudizio verso le attività che possano avvicinare il pubblico, non possiamo perdere di vista il compito prioritario che i luoghi della cultura devono svolgere: rappresentare l’identità culturale e formare per una fruizione che deve entrare a far parte delle consuetudini della collettività.
Questo compito complesso viene sostenuto, ove più ove meno, dalle competenze specialistiche delle Soprintendenze alle quali è affidata la gestione del patrimonio culturale. Le Soprintendenze, istituite già all’inizio del ‘900, molto prima della creazione del Ministero, oggi, mentre intorno tutto è stato modificato, sono in uno stato di grave sofferenza che potrà solo peggiorare: stanno diminuendo sempre più i tecnici e con loro l’esperienza sul campo, la cura quotidiana verso i monumenti e i problemi della conservazione, l’attenzione per la tutela. Chi resta deve lavorare senza le risorse anche per il solo funzionamento, per poter raggiungere i luoghi e i monumenti, per sostenere la spesa delle bollette dei musei. La macchina centrale, d’altro canto, si è ingigantita rispetto alla situazione originaria e ha costi elevati, in una moltiplicazione di competenze che spesso appare incongrua, rispetto alle necessità di chi opera sul campo, in un rapporto quotidiano con il territorio e con i luoghi della cultura.
Continuare a lavorare in queste condizioni è davvero arduo.
E’ stato scritto e detto esaurientemente al riguardo, i giornali sono densi di articoli ma vorrei, molto semplicemente, esprimere in questa occasione qualche riflessione che scaturisce dall’esperienza sull’Appia, con la preoccupazione che affligge quotidianamente per la sorte di questo patrimonio. E’ un esempio valido perché si tratta di un patrimonio molto esteso, per il quale le amministrazioni hanno trascurato il rispetto delle regole.
In questi anni, con un piccolissimo ufficio, abbiamo cercato piuttosto disperatamente di portare avanti una tutela complessiva, non indirizzata al singolo monumento ma anche al quadro generale di riferimento, in uno stato di carenza di norme certe al riguardo. L’impegno maggiore, accompagnato da un senso di debolezza, è stato ed è proprio nel tentare di motivare la necessità della salvaguardia dell’intero ambito, secondo le linee della legge 431 del 1985 (derivata dal decreto Galasso), che avrebbero dovuto trovare una applicazione più efficace in termini di tutela e gestione, con il presupposto che i BC insistono sul territorio e hanno in questo il loro modo di esistere, di essere conosciuti, tutelati e valorizzati. L’Appia Antica ha una sua specificità che consiste nella relazione inscindibile tra la strada, le testimonianze monumentali e la campagna in cui sono comprese. L’indirizzo della tutela deve essere sostenuto da uno stretto rapporto tra elementi di conoscenza e norme, in una forma di coerenza che non è stata e non è affatto scontata.
Tra le competenze delegate e subdelegate, si tratta, non poche volte, di dover rincorrere il semplice rispetto dell’applicazione delle procedure che, in qualche caso, da sole, sarebbero state sufficienti ad evitare autorizzazioni vergognose e sanatorie.
Si sono concessi condoni dove non era possibile. Si è lasciato che si distruggesse l’integrità di una strada antica, da trattare come un complesso monumentale unitario, con il suo basolato e il ritmo ininterrotto di monumenti, per consentire l’accesso a edifici residenziali, i cui diritti ad esistere, nel modo più utile all’uso privato, sono stati l’unica regola.
La nostra politica di tutela per l’Appia è stata affiancata da azioni per la valorizzazione che hanno portato anche all’acquisto di beni privati - come Capo di Bove e S. Maria Nova - per ricerche, restauri e la fruizione pubblica, con un progetto culturale che tenta di compensare alla mancata attuazione di progetti complessivi, se non per qualche eccezione, creando un modello di gestione coerente di tutela, conservazione e valorizzazione.
Non si può non ricordare l’impegno di Antonio Cederna, di Italia Nostra e di altri che a partire dal 1953 hanno richiamato l’attenzione sull’Appia e sulla necessità di una normativa speciale. Denunce e proposte inascoltate insieme a quelle di Italo Insolera che abbiamo salutato solo poco più di un mese fa in questa sala e che ha voluto aggiungere alla riedizione del 2011 del suo libro Roma moderna, un ultimo capitolo sull’Appia definendola la colonna vertebrale di una nuova struttura in grado di costruire aldilà degli errori e delle speculazioni di Roma moderna…la vera Roma futura.
Fino a un po’ di tempo fa abbiamo creduto che si potesse riuscire a invertire il corso delle cose, riscattando parti di patrimonio pubblico che rappresentassero oltre che una crescita della conoscenza anche una risorsa per la collettività, per dare un contributo alla costituzione di un parco, o come altro lo si voglia definire, autentico e non costruito a tema per soli fini turistici. Non siamo ottimisti oggi nel senso di esser in grado anche solo di mantenere quello che si è realizzato, per non parlare di crescita.
I motivi sono la mancanza di fondi, come si diceva e il grave stato delle Soprintendenze e del personale del ruolo tecnico.
In questo quadro si vuole far credere che il ricorso ai finanziamenti dei privati e a forme di gestione di tipo privato possa rappresentare una risorsa imperdibile e una soluzione. Anche su questo è stato scritto molto e la lettera della collega Anna Coliva sul Corriere della Sera del 21 settembre chiarisce la differenza fra modelli di mecenatismo e di tipo imprenditoriale.
Francamente non mi sembra che il coinvolgimento dei privati sia stato ancora affrontato secondo regole di una corretta partecipazione e di esplicitazione dei diversi ruoli. Perché il ricorso a finanziamenti privati scaturisce dalla debolezza mostrata nel governo dei BC e dalla lagnanza sulla mancanza di mezzi. Si è generato così un equivoco di base che va chiarito senza indugio: il patrimonio culturale non è disponibile al miglior offerente e non può essere oggetto di scambio; in virtù di questo non sono ammissibili forme di sfruttamento che allontanano dalla gestione istituzionale che non può essere messa in discussione e che va sostenuta perché torni a esistere in una condizione dignitosa.
A Vicenza torna in questi giorni visibile, dopo un lungo e felice restauro, la Basilica di Palladio: cioè il simbolo stesso della tensione del Rinascimento verso la dimensione civile dell’architettura, verso la bellezza al servizio di un progetto politico, verso l’arte come specchio di una comunità. Bene: e nella Vicenza del 2012, cosa ne facciamo di un luogo come quello?
Pierluigi Sacco (una delle poche voci serie nel circo equestre della cosiddetta ‘economia della cultura’) ha redatto uno studio in cui, tra l’altro, si legge che la Basilica «può così ospitare una programmazione di qualità, ma non centrata sul tema delle grandi mostre, dai costi elevati e bisognose di attrarre flussi molto rilevanti di visitatori per poter raggiungere condizioni di sostenibilità. Non ha alcun senso affollare la Basilica con masse di visitatori distratti, attirati da eventi-spettacolo che lasciano una impronta del tutto effimera sul tessuto culturale ed economico della città – l’idea è invece quella di mettere a punto un programma dai costi contenuti ma dall’elevata qualità di ricerca che funga da ‘laboratorio’ per la città: per i programmi delle scuole, con i quali si possono realizzare forme di stretta cooperazione e di integrazione dei programmi didattici, per gli uffici stile e le aree ricerca e sviluppo delle aziende del territorio, per l’associazionismo culturale, e così via».
E, invece, la Basilica appena inaugurata è stata ridotta a teatro del più effimero evento-spettacolo che la stagione delle mostre trash ricordi: Raffaello verso Picasso. Storie di sguardi, volti, figure (prodotta da Marco Goldin). Quattro milioni di euro per una specie di caricatura di un manuale di storia dell’arte, senza lo straccio di un’idea o di progetto culturale, che non sia l’apoteosi del marketing del capolavoro. Da gennaio la stessa accozzaglia di opere sublimi si sposterà a Verona, ma con un altro imperdibile titolo: Da Botticelli a Matisse.
Fin qui niente di particolare: è notorio che Goldin (indimenticato produttore de Gli Impressionisti e la neve, la mostra che ‘impreziosì’ i Giochi olimpici invernali di Torino) interpreta nel modo più efficiente l’abuso a ciclo continuo della storia dell’arte che è praticato anche in molti altri luoghi (dalle Scuderie del Quirinale al Palazzo Reale di Milano). Quel che invece è davvero notevole è la risposta che Goldin ha dato a coloro che gli hanno mosso queste stesse critiche: «Credo nelle emozioni, non nella conoscenza per pochi sapienti». E ancora: «Ho la convinzione che le opere d’arte non debbano essere relegate alla sola fruizione elitaria riservata ai sapienti».
Ecco l’ultima frontiera del tradimento della storia dell’arte, ridotta a strumento per opporre le emozioni alla conoscenza, e il popolo all’élite. È la stessa retorica che usa Matteo Renzi quando difende dalle critiche degli storici dell’arte la bufala auto-propagandistica della ricerca della Battaglia di Anghiari dietro Vasari, o Silvano Vinceti quando dice di aver trovato le ossa di Caravaggio o di Monna Lisa. Questa retorica prevede che alle obiezioni scientifiche non si risponda con argomenti razionali e verificabili, ma con l’appello ad ineffabili e incontrollabili emozioni. Ed è una retorica tre volte menzognera: mente una volta perché tenta di ammantare di un anelito democratico il marketing della propria carriera politica o dei propri affari; mente una seconda volta, perché illude di far godere dell’arte senza nessuno sforzo di conoscenza; mente una terza volta perché toglie ai cittadini l’unico mezzo per costruire davvero la democrazia: e cioè la conoscenza, che si dipinge falsamente come inconciliabile con l’emozione.
La storia dell’arte è una disciplina umanistica, cioè utile a costruire quella che i latini chiamavano humanitas: la vocazione di noi tutti a non vivere come bruti, ma a seguire la conoscenza. Ma il Dio Mercato ha invece bisogno di clienti, emozionati e ignoranti. Questo insanabile contrasto oppone, per qualche mese, il senso ultimo della Basilica di Palladio a quello del suo effimero contenuto.
In ogni discussione sulla sorte del patrimonio storico e artistico della Nazione, e specie di quello meridionale, arriva sempre il momento in cui uno degli interlocutori tira fuori un argomento in apparenza definitivo: «Non ci sono soldi».
Da questa premessa si fanno discendere una serie di conseguenze, tra loro assai diverse ma unite da una caratteristica precisa: sono tutte contrarie alla funzione costituzionale del patrimonio stesso, che è quella di produrre conoscenza e cultura, e attraverso di esse, eguaglianza e cittadinanza.
Questi ‘rimedi’ alla mancanza di denaro pubblico sono: grandi mostre di cassetta (anzi Grandi Eventi), prestiti forsennati di opere delicatissime, iperrestauri a rotta di collo, cessioni di sovranità pubblica a sponsor privati che ‘marchiano’ i monumenti e molto altro ancora. L’opzione alternativa è spesso quella peggiore: non ci sono soldi, dunque che il patrimonio vada pure in rovina.
Il mantra del «non ci sono soldi» era già difficile da sostenere prima, visto che nel Paese con l’evasione fiscale più grande dell’Occidente è un po’ dura pensare davvero che ‘non ci siano soldi’: il problema, semmai, è il fatto che preferiamo lasciare quei soldi nella disponibilità dei privati. Gli stessi privati a cui, poi, chiediamo l’elemosina della beneficenza al patrimonio.
Ma ora – dopo le feste in costume romano della Regione Lazio, dopo la notizia che il Ponte sullo Stretto ci è costato 300 milioni di euro solo per non esistere, dopo che si apprende che agli incliti consiglieri regionali campani viene distribuito un milione l’anno –, beh, ora è un po difficile pensare che il problema sia davvero che i soldi non ci siano. Semmai, il punto è cosa vogliamo farne, di questi benedetti soldi pubblici.
Ma niente paura: quando avremo definitivamente perduto Pompei, potremo sempre nascondere la nostra vergogna calzando una maschera. Naturalmente, una maschera da maiale.
Puntuale come gli acquazzoni di fine stagione, piove dal governo l’attesa grida che proclama l’imminente salvezza della patria, se solo ci decidiamo a vendere monumenti e segmenti del patrimonio immobiliare pubblico.
Quest’idea di seconda mano si trascina da oltre vent’anni con risultati miserevoli, eppure a ogni crisi spuntano medici improvvisati che promettono all’Italia malata di debito guarigioni miracolose a suon di dismissioni. Comiciò Guido Carli, ministro del Tesoro con Andreotti nel 1991, proponendo una “Immobiliare Italia S.p.A.”, rimasta sulla carta finché il suo fantasma, invecchiato e inacidito, si materializzò dieci anni dopo con la “Patrimonio dello Stato S.p.A.” di Tremonti.
Ma intanto le ipotesi di dismissioni venivano rilanciate quasi a ogni Finanziaria (anche coi governi di centrosinistra): quelle norme confuse e velleitarie costruirono un retroscena di “precedenti” per Berlusconi, che appena insediatosi a Palazzo Chigi nel 2001 rilanciò il tema con la legge 410. In essa si colpiva al cuore l’inalienabilità dei beni demaniali, resi disponibili alla vendita con decreto del ministro dell’Economia.
La “Patrimonio S.p.A.”, col suo sistema di scatole cinesi e “cartolarizzazioni” che innescava la privatizzazione dell’intero demanio e patrimonio pubblico, è stata un fallimento epocale (fu lo stesso Tremonti a firmare nel 2011 il certificato di morte), un costoso carrozzone che non ha ridotto di un centesimo il debito pubblico, anzi ha peggiorato il conto patrimoniale dello Stato senza produrre alcun beneficio di lunga durata.
Con l’acqua della crisi alla gola del governo, si susseguono gesti retorici che mediante l’effetto-annuncio spargono foglie di fico sull’assenza di progetti per il futuro. Della stessa natura è l’etichetta bugiarda di spending review, indistinguibile dai famigerati “tagli lineari” (cioè alla cieca) di Tremonti; eppure il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, in un’intervista a questo giornale (5 agosto) ha esortato a «evitare la filosofia dei tagli lineari ».
Come fosse un’impensata fatalità, i tagli del governo si accaniscono invece sulla spesa sociale e sulla cultura, corrodono l’equità, diffondono una cortina di fumo che comprime la crescita, ma la sbandiera come se ci fosse. Ma le politiche di austerità mirate solo a ridurre il debito frenano l’economia, riducono la competitività e fanno lievitare il deficit nel suo rapporto percentuale con un Pil in calo (è un paradosso osservato da George Soros).
Intanto i tagli in nome del debito pubblico danno per scontato che gli sprechi (che ci sono) siano dovuti alla spesa sociale (che non è uno spreco): ecco perché la scure si abbatte su sanità, scuola, previdenza, cultura. Si occulta invece una scomoda verità: l’accumulo del debito pubblico è aggravato dal debito di banche e imprese, regolarmente ripianato da interventi degli Stati (37% del Pil in Europa a fine 2011, secondo dati Bankitalia). I paladini della deregulation neo-liberista, quando i loro buchi di bilancio diventano voragini, si tramutano sull’istante in neokeynesiani, invocano l’intervento dello Stato e con subita metamorfosi il debito privato diventa debito pubblico, e i cittadini vengono borseggiati. Non solo: dopo essersi mostrati incapaci di amministrare se stessi, banche e mercati si sostituiscono ai governi, colpendo al cuore i principi della democrazia.
Questo processo è ancor più feroce in Italia, perché si aggancia alla cancrena dell’evasione fiscale, nostro non invidiabile primato. Il presidente Monti ha il merito di aver infranto su questo tema la congiura del silenzio di cui furono complici destra e sinistra; tuttavia, non ha (ancora?) lanciato misure commisurate alle gigantesche dimensioni del problema: 142,47 miliardi di tasse non pagate nel 2011, 154 la proiezione per il 2012 (dati Confcommercio). Gli introiti fiscali sono stati irresponsabilmente frenati distribuendo iniquamente la pressione tributaria, massima sui percettori di reddito fisso e quasi opzionale su tutti gli altri, per non dire di sconti, deroghe e condoni. I mancati introiti impediscono di risanare il debito, accrescendolo nel tempo coi relativi interessi e facendo gravare sui più deboli anche i contributi di Stato a copertura delle perdite bancarie. Solo rimuovendo cinicamente dalla scena l’evasione fiscale e i suoi effetti si può sostenere che le dismissioni delle proprietà pubbliche e i tagli alla spesa sociale siano le sole leve disponibili per ridurre il debito.
La dismissione di beni demaniali non è solo inefficace, è anche incostituzionale. La proprietà pubblica è infatti attributo necessario della sovranità, che spetta al popolo (art. 1 Cost.). Demanio, beni pubblici, beni comuni e beni culturali sono, nel disegno della Costituzione, beni essenziali a garanzia dell’esercizio dei diritti civili e degli interessi collettivi (libertà, salute, democrazia, cultura, eguaglianza, lavoro). Sono, come ha scritto la Commissione Rodotà, «funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona». Diritti dei cittadini e beni economici che ne sono la garanzia fattuale si stringono in un solo nodo: vendere le proprietà pubbliche e comprimere i diritti sono due facce della stessa medaglia. In questa corsa al peggio, la farsa del federalismo demaniale si segnala, secondo Paolo Maddalena (giudice emerito della Corte costituzionale), per la violazione di nove articoli della Costituzione, ma anche del principio di «equa ripartizione dei beni fra tutti i cittadini, ispirato ai criteri dell’utilità generale e del preminente interesse pubblico».
Su questo banco di prova il governo Monti si è mostrato finora inadeguato alla sfida. A una stanca retorica dello sviluppo (che secondo Passera coincide con grandi opere, piattaforme petrolifere a un passo dalla costa e massicce cementificazioni) non ha saputo sostituire un progetto di crescita produttiva del Paese.
Ha lanciato un’ottima legge sui suoli agricoli (proposta dal ministro Catania), ma senza darle l’assoluta priorità che sarebbe necessaria, accelerando intanto i tempi di approvazione della pessima norma sugli stadi, col suo enorme spreco di suoli e di risorse pubbliche per basse operazioni immobiliari (la Repubblica, 17 maggio).
Intanto il ministro dell’Ambiente Clini sponsorizza l’orrido grattacielo di Pierre Cardin che sfregerà per sempre Venezia, e il ministro dei Beni culturali Ornaghi coltiva un attonito silenzio. Di fronte all’incerto futuro del Paese, non è accettabile che di ambiente si parli solo per promuoverne le devastazioni, di patrimonio solo per svenderlo.
Se i suoi ministri non sanno elaborare un’idea degna del Paese e della sua Costituzione, possiamo aspettarci che il presidente Monti si impegni in prima persona, ci dica quale è la sua?
Ornaghi e il Consiglio dei Beni culturali: “a sua immagine lo creò”
Tomaso Montanari – blog su Il Fatto quotidiano online
Lorenzo Ornaghi – uno scienziato della politica rettore di un’università privata, Cattolica e milanese – diventa ministro per i Beni culturali in un governo tecnico. Quando il suo governo tecnico taglia i consulenti tecnici di quel ministero eminentemente tecnico, cosa fa quel ministro scienziato della politica rettore di un’università privata, Cattolica e milanese? Tace.
Alcuni di quei consulenti tagliati avrebbero dovuto comporre il Consiglio Superiore dei Beni culturali: un organo importante, che avrebbe dovuto guidare il ministro scienziato della politica in un territorio che non conosce. Ma il ministro scienziato della politica rettore di un’università privata, Cattolica e milanese non si perde d’animo. E nomina l’altra metà del Consiglio.
E chi nomina, quel ministro scienziato della politica rettore di un’università privata, Cattolica e milanese? Nomina:
1) Una professoressa emerita di Scienze politiche (Gloria Pirzio Ammassari);
2) il rettore dell’università di Milano (lo storico contemporaneo Enrico Decleva);
3) il rettore di un’università privata, il Suor Orsola Benincasa di Napoli (il filosofo del diritto Francesco De Sanctis: no, non quello…);
4) il preside della facoltà di Psicologia dell’università Cattolica (Albino Claudio Bosio, docente di Piscologia del marketing: proprio quel che ci vuole per ‘valorizzare’ il nostro patrimonio!), di cui egli stesso è rettore.
Infine, nomina anche uno storico dell’arte: e meno male, direte voi. Sì, ma quello storico dell’arte (Antonio Paolucci) è anche il direttore dei Musei Vaticani: un dipendente di un altro Stato, e uno che ha nel curriculum delizie come l’idea di far acquistare allo Stato (quello italiano, ovviamente: i preti col cavolo che li freghi) il finto crocifisso di Michelangelo, o quella di regalare alla Curia di Firenze diciassette miliardi di vecchie lire per una collezione d’arte che era già vincolata alla pubblica fruizione.
La tutela del patrimonio storico e artistico e del paesaggio della nazione è da oggi affidata a queste salde competenze, a questa eletta meritocrazia, a questa magnifica succursale della conferenza dei rettori, a questo piissimo stuolo di accademici milanesi. A questo punto, Ornaghi può dimettersi dalla carica di rettore della Cattolica: se l’è portata tutta a Roma, non gli mancherà.
Doveva esserci un punto dell’Agenda Monti che mi era sfuggito: ‘Risolvere il problema del patrimonio artistico. Per sempre’.
Fatto.
Psicologi e filosofi i “tecnici” di Ornaghi
Francesco Erbani – la Repubblica
Un filosofo del diritto. Uno psicologo. Uno storico. Una politologa. Infine, uno storico dell’arte. Sono i nuovi componenti del Consiglio superiore per i Beni culturali e paesaggistici. Li ha nominati il ministro Lorenzo Ornaghi. Saranno loro, in quanto membri del massimo organo di consulenza tecnico-scientifica del ministero, a fornire pareri sulla tutela del patrimonio, sulla sua valorizzazione, sui piani paesaggistici. E su tante altre materie che riguardano musei, siti archeologici, centri storici... Nessuno di loro, salvo Antonio Paolucci, ex soprintendente, membro del Consiglio in passato e ora direttore dei Musei Vaticani, museo di un paese che non è l’Italia, ha competenza specifica e profonda sulla materia. Un organo tecnico, dunque, formato da tecnici di altre discipline.
Il presidente, il cui nome era già noto, è Francesco De Sanctis, filosofo del diritto e rettore dell’Università Suor Orsola Benincasa.
Lo psicologo è Albino Claudio Bosio, professore di Psicologia del marketing e anche preside della Facoltà di Psicologia della Cattolica di Milano (di cui Ornaghi è stato rettore: sono solo di questi giorni le sue dimissioni).
Lo storico è un altro rettore, però della Statale di Milano, Enrico Decleva, mentre la politologa è Gloria Pirzio Ammassari, che alla Sapienza di Roma insegna Fenomeni politici. A loro si affiancano altri tre membri. Ma questi nomi sono usciti dal cilindro delle Regioni, dei Comuni e delle Province. E le cose cambiano. SoLo un archeologo di grande esperienza, come Giuliano Volpe, uno storico dell’architettura (Luca Molinari) e una storica dell’arte (Francesca Cappelletti). Ornaghi ha invece preferito pescare in tutt’altri settori disciplinari. Accademici illustri, studiosi che vantano ampie bibliografie, ma, tranne Paolucci, nessuno di loro può esibire altrettanta competenza in materia di tutela del patrimonio.
Al ministero spiegano che Ornaghi ha voluto rinnovare e aprire ad altri ambiti della cultura. E che contava sulla competenza dei presidenti dei comitati di settore (uno per l’architettura, uno per l’archeologia, la storia dell’arte, ecc.), membri del Consiglio e da lui già nominati (sulla base, però, di designazioni fatte da altri). Ma i comitati sono stati tagliati dalla spending review, per cui Ornaghi si è trovato spiazzato ed ha sollevato la questione in Consiglio dei ministri. Ma finora senza conseguenze.
Il Consiglio è stato sempre formato da storici dell’arte, architetti, archeologi, economisti della cultura. Quello scaduto alcuni mesi fa era presieduto dall’archeologo Andrea Carandini e, prima di lui, dallo storico dell’arte e dell’archeologia Salvatore Settis. Fra i presidenti del passato spicca il critico Federico Zeri. Nel 2007 l’allora ministro Rutelli nominò, insieme a Settis, Cesare De Seta, Andrea Emiliani, Paolucci e Andreina Ricci. E persino Sandro Bondi, quando Settis si dimise, denunciando tagli massacranti, e con lui se ne andarono De Seta, Emiliani e Ricci, incaricò due archeologi (una dei quali Francesca Ghedini, sorella dell’avvocato Niccolò) e uno storico dell’architettura. Non così, invece, il tecnico Ornaghi.