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Il Fatto quotidiano, 28 agosto 2013, postilla

Il Prato della Valle a Padova, sul quale un tempo si affacciarono dai loro palazzi il cardinale Bessarione e Palla Strozzi, ne ha viste di tutti colori: sacre rappresentazioni e corse di cavalli, mercati popolari e assassini politici rinascimentali, raduni fascisti intorno a Mussolini e messe oceaniche di Giovanni Paolo II. Bisognava aspettare il 2013 perché questo luogo simbolo del paesaggio e della civiltà urbana veneti corresse il serio rischio di soccombere sotto le ingiurie collegate alla più rapace delle destinazioni: scatolone di cemento per parcheggio sotterraneo, con annessi gli immancabili centro commerciale e albergo. Il consigliere comunale Pd Giuliano Pisani,dopo aver difeso la Cappella degli Scrovegni (minacciata dai progetti dell'ex sindaco e ora ministro Zanonato), guida ora l’insurrezione dei padovani contro la sua stessa maggioranza, affidata al vicesindaco Ivo Rossi.

Gli argomenti del professor Pisani sono solidi: 1) il parcheggio sotterraneo non si può fare perché sotto il Prato si trova il cimitero medioevale dei monaci della prospiciente abbazia di Santa Giustina (un argomento, ahimè, che avrebbe dovuto bloccare anche il mostruoso scempio di Piazza Sant’Ambrogio a Milano, perpetrato con lo stesso fine speculativo); 2) Padova non ha bisogno di altri alberghi: i troppi costruiti negli ultimi anni hanno le camere vuote; 3) il Prato è uno straordinario spazio pubblico per cittadini liberi,è criminale trasformarlo nell'ennesimo supermercato/non-luogo rivolto a clienti anonimi; 4) i posti auto non saranno rivolti ai cittadini, ma saranno venduti, affittati, o comunque saranno a pagamento. Pisani promette una sacrosanta battaglia in consiglio comunale, affiancato da molte associazioni di cittadini (tra cui Amissi del Piovego, Legambiente e Italia Nostra).
Ma ciò che moltissimi padovani si chiedono è: come è possibile che la Soprintendenza per i Beni architettonici del Veneto Orientale abbia approvato la trasformazione di un simile luogo monumentale in un silos di cemento porta-auto? Una maggioranza di sinistra e una soprintendenza che aprono le porte ad una smaccatissima speculazione edilizia: le colate di cemento non coprono solo l'ambiente. Coprono anche troppi tradimenti.

postilla
I disastri delle città e dei territori appaiono e scompaiono all'attenzione dell'opinione pubblica come fiumi carsici. Lo scandalo dell'autosilo al Pra' della Valle emerse in tutta la sua ampiezza nel novembre 2010, grazie a un convegno organizzato a Padova, all'Accademia Galileiana, per iniziativa di un gruppo di associazioni ambientalistiche (vedi qui su eddyburg). Riemerge oggi, e nulla sembra cambiato da allora. Come già allora si argomentò, la vera questione, oltre le degnissime obiezioni dei padovani pensanti a questo stupido incistamento tumorale in un ambito storico-monumentale di pregio assoluto, è l'idea perversa degli autosilo che si sono fatti tanti amministratori. Forse ingannati dagli schizzi irrealistici sfornati dagli studi di progettazione, e che fanno apparire del tutto inserito e digerito dal contesto ciò che non lo è affatto, facendo sparire traffico, inquinamento, rampe di accesso e uscita, modifiche stradali indispensabili. Cose che rendono, in quasi tutti i casi, il modello dell'autosilo indigeribile per i nostri contesti storici, così come è indigeribile anche il suo presupposto, ovvero il diritto naturale all'accessibilità automobilistica se si è residenti, e relative trasformazioni edilizie. Come la cultura urbanistica italiana predica (e quando può pratica) da almeno mezzo secolo

L'ermo colle che sovrasta Recanati e che fu sempre caro a Giacomo Leopardi rischia di scomparire sotto il peso di un residence. Siamo nel 2012 quando, sfruttando il piano casa regionale, spunta fuori un progetto chiamato «Piano di recupero di iniziativa privata», che prevede, tra le altre cose, la trasformazione della casa colonica sul colle da manufatto rurale a lotto residenziale: aumento delle volumetrie, metri cubi di cemento armato e locali interrati. Appresa la questione, i funzionari della sovrintendenza dei Beni culturali prima sbiancano e poi fanno presente ai costruttori che, su tutta l'area, esiste un vincolo imposto dal ministero nel 1955. La vendetta della modernità sulla poesia, però, si consuma qualche tempo dopo, in un'aula del Tar: il vincolo è da sciogliere, sull'ermo colle si può costruire, è proprietà privata. A nulla sono servite le parole dei tecnici, secondo i quali «l'incidenza visuale determinata dagli interventi in progetto si configurerebbe come un danno al patrimonio paesaggistico». Dall'altra parte si ribatte che «il colle così com'è non ha senso», che «la zona è abbandonata al degrado» e che la casa colonica è soltanto «un rudere», concludendo che, in ogni caso, i proprietari della zona hanno il diritto di disporre dei propri averi come meglio credono.

La questione va avanti da anni, con l'amministrazione e la famiglia Leopardi che si oppongono a oltranza al progetto della country house al posto della veduta che ispirò quello che forse è il componimento più famoso del poeta di Recanti. Dietro il progetto c'è una proprietaria terriera, Anna Maria Dalla Casapiccola, titolare di una dimora «esclusiva» nel recanatese nata nel '600 per ospitare i pellegrini diretti a Loreto e che ora dispone di tre camere doppie da 130 euro a notte. La signora, segnalano le gazzette locali, qualche tempo fa si esibì anche in un imperdibile «Corso di bon ton» nel quale lei «molto preparata sull'argomento, essendo continuamente in contatto con personalità di alto rango e del jet set internazionale, ha spiegato con modestia, semplicità e competenza le regole del buon vivere affascinando i partecipanti».
Ogni manuale di letteratura parla del rapporto difficile tra Leopardi e i suoi conterranei, ma il poeta, sicuramente, non si aspettava che i posteri avrebbero avuto in serbo per lui un contrappasso tanto doloroso: la ginestra si arrende alle «magnifiche sorti e progressive», il titanismo nulla può davanti alla ben più prosaica giustizia amministrativa e ai voleri di una donna che svende i propri quarti di nobiltà a turisti con le tasche piene e la voglia di immergersi, almeno per qualche ora, nel fascino per nulla discreto di un'aristocrazia affondata dalla Storia: altro che canto notturno, questa è proprio la notte in cui tutte le vacche sono nere. In Regione, d'altra parte, Leopardi torna utile soltanto quando c'è da far recitare qualche suo verso a uno spaesato Dustin Hoffman in un costosissimo spot delle bellezze locali mandato in onda qualche anno fa.
In Sovrintendenza sono disperati: «Non abbiamo i soldi, non abbiamo personale, non siamo in grado di gestire tutti i casi che ci arrivano», e allora la signora Dalla Casapiccola ha giocato sul velluto e, in poche udienze, ha ottenuto il permesso per fare quello che vuole con la casa colonica, che tra le altre cose è a un tiro di schioppo da un altro simbolo leopardiano: la torre del passero solitario. Un problema - quello della mancanza di fondi - che si presenta sempre uguale davanti ad ogni questione che riguarda i beni culturali sparsi lungo la penisola: Pompei cade a pezzi, ogni volta che dal sottosuolo delle città emerge qualche testimonianza del passato si preferisce coprire tutto e continuare i lavori, i pochi precari della cultura che dispongono di un contratto hanno stipendi da fame. Il paese che, secondo diverse statistiche, dispone della maggior parte dei beni artistici e culturali del pianeta Terra preferisce sempre voltarsi dall'altra parte. L'ultima carta da giocare prima dell'arrivo del cemento è un ricorso al Consiglio di stato. La Sovrintendenza sta lavorando a ritmo febbrile per produrre una documentazione convincente da depositare entro i primi di ottobre: bisogna dimostrare che, i progetti presentati dalla signora Dalla Casapiccola snaturerebbero un'area dall'indiscutibile valore storico e culturale, vincolata da sessant'anni. Detta così potrebbe anche sembrare una cosa semplice, ma il giudizio espresso dal Tar è un precedente inquietante. L'Infinito che scopre i suoi confini; un naufragare molto poco dolce, in questo mare di cemento.

Qui "l'infinito" nei suoi confini

L'Unità, 18 agosto 2013 , con postilla.

Petrolio, petrolio!, un sol grido risuola dall'Alpi al Lilibeo, rimbalza da un grande giornale alla rete ammiraglia del servizio pubblico televisivo. Hanno scoperto nuovi e impensati giacimenti petroliferi in Italia? Macché. «Petrolio» sono, o sarebbero, i nostri beni culturali e paesaggistici, i 4mila musei, le 95mila chiese e cappelle, i 40mila castelli, le 2mila aree archeologiche e via sgasando idrocarburi.

La Rai dovrebbe esporre periodicamente il cartello: «È severamente vietato definire i beni culturali il “nostro petrolio”. Pena la reclusione di alcuni giorni in fortezza». E invece, venerdì, dalla mattina alla sera, con l’assenso di alcuni importanti testimonial, abbiamo visto campeggiare in una nuova trasmissione sulle risorse del nostro Paese la fulminante scritta: «I beni culturali petrolio del Belpaese».

Ora mi domando: come si fa a usare – in una trasmissione nuova di zecca – una espressione tanto equivoca, stantia e offensiva? Il petrolio puzza, inquina, sporca, corrode i nostri marmi, non è rinnovabile... Cose che abbiamo detto e ridetto milioni di volte da quando, decenni fa, un ministro dei Beni culturali, il non memorabile Mario Pedini, dc, emerso poi dalle liste P2, propose quella sciagurata equazione Beni culturali=Petrolio italiano.

Due volte sciagurata perché, oltre ad accostare semanticamente monumenti, palazzi, chiese, centri storici, paesaggi a un “nemico” dei più insidiosi, suggerisce che quei beni fragili e preziosi “devono” per forza rendere dei bei soldi. Come succede, a loro dire, in tutto il mondo tranne che in Italia dove siamo notoriamente dei poveri cretini.

Balle. Sonore balle. I musei - a cominciare dal colossale e pomposo Grand Louvre - non danno profitti (a Londra i dieci maggiori musei sono rigorosamente gratuiti). I danè, i schèi, le palanche, li sordi li può dare un turismo rispettoso e ben organizzato, cioè l’indotto di quel patrimonio sterminato che dovremmo tutelare, curare, manutenere, proteggere.

Anche dalla scemenza. Ho sentito alla radio lamentare che i quadri del sublime Lorenzo Lotto sono «troppo sparsi per le Marche». A parte il fatto che basta andare nella magnifica Loreto e nella non meno bella Jesi per ammirarne già un bel po’, cosa dovremmo fare? Un solo museo di Lorenzo Lotto? La nostra forza sta nella straordinaria, diffusa rete di musei (e non solo) unica al mondo. Attrezziamoci su entrambi i versanti, ma senza mai confondere i beni primari, unici e irriproducibili, con l’indotto economico che essi possono produrre. Non confondiamo la nostra identità nazionale, regionale, locale con lo sfruttamento di un giacimento petrolifero o con quella managerialità improvvisata che propone di accorpare i “troppi” musei italiani.

Turismo rispettoso? Ma non vedete che non si riesce a liberare davvero Venezia dall’incubo delle maxi-navi che portano masse di turisti da un panino, una birra e via? Non vedete che Roma è stata ridotta a una sorta di indistinta e ininterrotta “mangiatoia” dove si ammanniscono quei «surgelati precotti» che camion e furgoni portano a ogni ora (sindaco Marino, se vuol dare una immagine internazionale nuova alla sua città, pensi anche a questo e in fretta)?

A Firenze poi la micragnosità dei passati governi ha indotto anche i responsabili di grandi palazzi, giardini e musei a fissare un tariffario: 20mila per una cena di manager nel Dugento, 30 o 40 mila per un matrimonio esotico a Pitti, e via banchettando o ballando (sì, c’è stato anche un ballo non meno esotico). Non vi pare che siamo ormai ad una sorta di accattonaggio di Stato?

Negli ultimi anni ci sono tele e tavole del ’400, quindi delicatissime, come la Città Ideale di Urbino e la non meno urbinate Madonna di Senigallia di Piero della Francesca che hanno girato per mostre d’arte varia. In Giappone è andato, con altri fragili Raffaello (una trentina), il misterioso ritratto di dama, detta la Muta, perché non c’erano i soldi, 30mila euro, mi pare, per restaurarlo. Eppure una commissione di esperti creata da Francesco Rutelli, quand’era titolare al Collegio Romano, aveva stilato un codice rigoroso per viaggi e prestiti. Tutto dimenticato, ridicolizzato dai nostri petrolieri dell’arte. Un museo di provincia fa pochi ingressi? Chiudiamolo, o accorpiamolo. Pompei non ce la fa a governare problemi complessi aggravati dal turismo di massa e dalla camorra? Diamola ai privati. Magari ai petrolieri medesimi.

Il ministro Bray ha nominato una commissione assai larga di esperti per riformare il suo ministero che al corpaccione (o al testone) già esistente ora ha unito pure il Turismo. Prevarranno i Beni culturali come valore in sé, prevarranno la tutela, la didattica, lo studio, la ricerca, oppure la spettacolarizzazione, l’affitto a questo e a quello, la gestione privatistica? Un’ultima notazione: ma dei piani paesaggistici destinati a salvaguardare quanto resta e a frenare cemento e consumo di suoli liberi, a tenere insieme tutto il patrimonio descritto come in un millenario palinsesto che notizie ci sono? Tutto tace, o quasi. Di quelli non frega niente a nessuno, su giornali e tv.

postilla
Una precisazione sul filo della memoria, per dare il merito (e il demerito) a chi ne ha diritto. Non ho sottomano le annate di Urbanistica informazioni e non posso quindi trovare la referenza precisa, ma ricordo bene che l'invenzione del concetto cui si riferisce criticamente Vittorio Emiliani deve essere attribuita a un altro ministro, non democristiano piduista ma socialista craxiano, Gianni de Michelis. Fu l'abile e intelligente colonnello craxiano che, da ministro del settore, coniò l'espressione "giacimenti culturali". Su Urbanistica informazioni, che in quegli anni dirigevo, commentai quell'espressione, e la politica che le era sottesa, sostenendo che, proponendola, si prefigurava per i beni culturali lo stesso destino dei minerali estratti dalle miniere: essere, appunto, estratti, trasformati (da beni in merci), venduti, consumati, dissolti. Certo, a differenza di altri minerali il petrolio ha una ulteriore caratteristica negativa: inquina.

Circostanziata denuncia di un potere - quello del direttore dei Musei Vaticani - tanto inaffondabile, quanto scientificamente inconsistente. In gioco, il patrimonio culturale delle nostre città. Il Fatto Quotidiano, 15 agosto 2013, con postilla (m.p.g.)

Cosa c’è di meglio, per rilanciare il Monte dei Paschi, di mettere nella sua nuova Deputazione la zavorra di uno dei più chiacchierati e intoccabili residui del vecchio potere democristiano come Antonio Paolucci?

Nato nel 1939 a Rimini in una famiglia di mercanti d’arte molto intraprendenti, Paolucci è uno storico dell’arte la cui importanza scientifica (prossima allo zero) è inversamente proporzionale all’immensa influenza che ha esercitato nel suo governo del patrimonio artistico fiorentino, durato per quasi vent’anni: dal 1988 al 2006.

Un regno lunghissimo – interrotto solo dalla (dimenticabile) esperienza come ministro per i Beni Culturali nel governo del fiorentino Lamberto Dini (1995-96) – che gli ha permesso di creare un sistema di potere ancora intatto (il figlio Fabrizio è l’attuale responsabile delle antichità agli Uffizi).

Il capolavoro di Paolucci fu l’acquisto della Collezione Martelli. Questa importantissima collezione d’arte fiorentina era stata lasciata al Seminario della Curia di Firenze, ma un onere testamentario disponeva che dovesse essere aperta al pubblico: dunque si trattava di una raccolta già, di fatto, della città. Ma il fratello dell’allora arcivescovo, Silvano Piovanelli, si appropriò di decine di opere d’arte immettendole sul mercato antiquario: nel luglio del 1996, Paolo Piovanelli patteggiò la pena di un anno e mezzo di reclusione per furto continuato e aggravato. Paolucci pensò di risolvere l’imbarazzante situazione attraverso un accordo in forza del quale, se lo Stato avesse acquistato il donatelliano Stemma Martelli, la Curia avrebbe donato allo Stato il palazzo e quanto vi era conservato. Così fu: nel novembre 1996 l’arcivescovato incassò ben diciassette miliardi e mezzo di lire per la scultura, e nel maggio del 1998 venne firmata la donazione. Così Paolucci premiò una clamorosa infedeltà con una regalìa colossale: non stupirà che nel 2007 Paolucci divenga direttore dei Musei Vaticani.

È nel passaggio tra Firenze e Vaticano che Paolucci organizza l’“operazione Michelangelo”.
Nel 2004 egli espone a Firenze un piccolo crocifisso ligneo di proprietà di Giancarlo Gallino (antiquario torinese con cui Paolucci aveva già trattato l’acquisto per gli Uffizi di una rovinatissima e strapagata opera di Antonello da Messina), avallandone l’attribuzione a Michelangelo. Nell’estate del 2007, Paolucci si guarda bene dal comperare il “Michelangelo” per i Musei Vaticani, ma scrive al “caro Francesco ” Rutelli, allora ministro per i Beni culturali, consigliandogli caldamente di comprare l’opera per lo Stato. Cosa che avviene, sotto Sandro Bondi, per 3.250.000 euro. Ma visto che la scultura non è di Michelangelo e vale (secondo una stima di Christie’s) 85.000 euro, oggi la Corte dei Conti processa per danno erariale la successora di Paolucci a Firenze, che concluse l’acquisto.

Paolucci stesso, invece, è inaffondabile. L’anno scorso l’allora ministro per i Beni Culturali Lorenzo Ornaghi pensò bene di confermarlo (sebbene dipendente ormai di un altro Stato, il Vaticano) nel massimo organo consultivo del Mibac, il Consiglio Superiore dei Beni culturali, del quale divenne anzi vicepresidente. Ed è da qui che il sempre agile Paolucci spicca il salto verso il Monte dei Paschi. A giugno, a Siena decidono di chiedere due nomi ad “alti organismi scientifici” come il CNR e, appunto, il Consiglio Superiore del Mibac. Quest’ultimo, contro ogni decenza, indica nella terna un proprio membro, anzi il suo vicepresidente: e il gioco è fatto.

Ma l'atterraggio a Siena di Paolucci è tutto tranne che pacifico. Non solo egli guida la commissione scientifica delle Scuderie del Quirinale (un mostrificio con mille cointeressenze col mondo delle banche), ma soprattutto è il capo del comitato scientifico dell’Associazione Civita, cui fa capo la potente società di servizi Civita, presieduta da Gianni Letta. Proprio una controllata di Civita, Opera Laboratori Fiorentini, sta prendendo il controllo di tutto il patrimonio artistico pubblico senese: prima di un “ramo d’azienda” dell’Opera del Duomo (cessione su cui ora indaga la Procura di Siena), poi del Santa Maria della Scala e ora anche dei Musei Civici e addirittura della Torre del Mangia, simbolo della città. Insomma, con Paolucci non arriva al Monte dei Paschi un tranquillo pensionato, ma uno dei nuovi padroni di Siena.
Non c'è più nemmeno bisogno dell’ipocrisia gattopardesca: ormai, per non cambiare nulla, non si cambia direttamente nulla. Meglio non rischiare.

postilla
La gravità della denuncia di Montanari non sta solo nella constatazione dell'inamovibilità della nostra classe dirigente. Un gruppo di potere responsabile in prima persona, per avidità personale e incapacità intellettuale, del disastro in cui ci troviamo e che, lungi dal ritirarsi, anche solo per questioni anagrafiche, cerca di perpetuare con ogni mezzo la propria influenza: in prima persona e con l'immortale pratica del nepotismo clientelare.
Gravissimo è l'intreccio di ruoli, cariche, interessi che la vicenda denuncia: un conflitto di interessi esponenziale che avrà pesanti ricadute sia sulla gestione del patrimonio culturale di Siena, ma anche sull'intera vita della comunità cittadina. Concentrare nelle mani di pochi - nominati con criteri opachi e con forti interessi personali - i destini di buona parte dei preziosissimi spazi pubblici della città, quali sono - almeno fino ad ora - monumenti e luoghi culturali, significa stravolgere assetti urbani e sociali sulla base di procedure nè democratiche, nè trasparenti.
Eppure il disagio con cui si confrontano quotidianamente i cittadini di Firenze, con un centro storico e i servizi stravolti dalla "valorizzazione" e dal turismo "culturale" e di cui è corresponsabile, almeno culturalmente, il neo membro della Deputazione MPS, avrebbe dovuto indurre a maggiore riflessione chi sta cercando di uscire dalla melma dello scandalo Monte Paschi.

Ma memoria storica e lungimiranza intellettuale sono merci rare, di questi tempi. (m.p.g.)

Il Fatto Quotidiano, 6 agosto 2013 (m.p.g.)

Diego Della Valle va annoverato tra i padri della Patria o è un furbetto che vuole fare le scarpe al Colosseo? La risposta è nel contratto di sponsorizzazione firmato nel gennaio 2011 tra il padrone delle Tod's e l'allora commissario dell'archeologia di Roma, Roberto Cecchi. Come è noto, in quell'occasione Della Valle si impegnò a donare 25 milioni di euro (deducibili fiscalmente) per finanziare il restauro dell'Anfiteatro.

In cambio di cosa? La Tod's dichiara che costituirà l'Associazione Amici del Colosseo: non, come il nome indicherebbe, una libera riunione di cittadini capace di autodeterminarsi attraverso il voto, ma una fondazione controllata da Della Valle. E quasi tutti i benefici riservati allo sponsor vengono girati da Tod's a questa fondazione.

E i benefici non sono da poco: «realizzare in esclusiva un logo raffigurante il Colosseo»; «gestire in esclusiva l'attività di comunicazione relativa agli interventi di restauro e pubblicizzare l'attività di restauro del Colosseo»; «realizzare, direttamente o tramite Tod's, un "Centro" nelle vicinanze del Colosseo per l'accoglienza dei sostenitori dell'Associazione». Tutto questo, per quindici anni dalla costituzione della fondazione stessa. Non è finita: per due anni dalla fine dei lavori la Tod's potrà utilizzare il logo con il Colosseo abbinato al proprio; stampare il proprio marchio sul retro dei biglietti d'ingresso e sulla recinzione del cantiere; «pubblicizzare in abbinamento a propri prodotti e/o marchi l'erogazione del proprio contributo».

Non c'è bisogno di spiegare perché tutto questo metta in allarme chi ancora crede nella funzione costituzionale del patrimonio artistico: cioè nella sua alterità rispetto al mercato, nel suo legame con la conoscenza, nella sua dimensione egualitaria. In nessun paese occidentale si potrebbe trasformare in un logo l'immagine di uno dei monumenti simbolo del paese stesso (per secoli il Colosseo è stato al posto della corona civica sulla testa delle allegorie dell'Italia), né concedere un monopolio pluriennale sulla comunicazione di una ricerca scientifica (qual è, comunque lo si paghi, il restauro del Colosseo). E costruire ex novo un edificio, per quanto provvisorio, nell'area vincolatissima dei Fori è una bestemmia inaudita.

Ma Diego Della Valle appare in perfetta buona fede. Quando mi ha chiamato per protestare contro le mie critiche, ho capito che davvero non si capacita che qualcuno storca la bocca di fronte a tutto ciò. E la buona fede emerge anche dal contratto stesso. Se quelli che avete appena letto sono i diritti che gli sono stati offerti, Della Valle ha infatti voluto scrivere che non ne approfitterà appieno: per esempio «Tod's non abbinerà l'immagine del Colosseo ai suoi prodotti», e cederà il retro dei biglietti ad associazioni umanitarie.

In qualche modo, Della Valle si rende dunque conto che sarebbe sbagliato usare commercialmente un simbolo dell'identità culturale italiana, ciò che pure uno Stato alla frutta gli ha consentito di fare: non è Della Valle ad essere invadente, è lo Stato che non esiste più. Non c'è molto da stupirsi, perché la controparte pubblica del contratto fu Roberto Cecchi (già direttore generale dei Beni artistici, e poi sottosegretario ai Beni culturali di Monti): che è sotto processo alla Corte dei Conti per il danno erariale causato dall'acquisto del crocifisso implausibilmente attribuito a Michelangelo. E il pdl Francesco Giro (ex sottosegretario ai Beni culturali della brillante fase Bondi-Galan) vorrebbe che l'Associazione Amici del Colosseo fosse presieduta da Andrea Carandini: il noto archeologo che, dopo aver restaurato il castello di famiglia con 288.973 euro pubblici, lo apre ai cittadini per ben due ore al mese (comodamente: il primo lunedì, dalle 9 alle 11). Insomma, non proprio una costellazione di strenui difensori dell'interesse pubblico.

Ma il problema è generale. Per dirla con le parole di Don Raffaé di Fabrizio De André: «Lo Stato che fa? / Si costerna, si indigna, si impegna / e poi getta la spugna / con gran dignità». Anche il seguito è illuminante, e ben si applica al Ministero per i Beni culturali: «mi scervello, e mi asciugo la fronte / per fortuna c’è chi mi risponde». Ecco, è opinione diffusa che all'abdicazione dello Stato non ci sia rimedio se non la taumaturgica apertura a «chi risponde» (naturalmente per interesse), cioè i privati: oggi tocca ai beni culturali, domani sarà la volta di sanità e scuola.
Anche all'interno del governo Letta la partita è proprio questa. La sottosegretaria ai Beni culturali Ilaria Borletti Buitoni ha dichiarato che trova esemplare l'operazione Tod's-Colosseo, e sta cercando di imporre in ogni modo l'ingresso dei privati nella gestione del patrimonio. E siccome il ministro Massimo Bray prova invece a tener fede alla Costituzione su cui ha giurato, il conflitto è feroce. Nell'ultimo Consiglio dei ministri è stato il ministro della Difesa Mario Mauro a cercare di far passare la privatizzazione del patrimonio artistico, dicendo che questa è la linea del suo partito, Scelta Civica (nelle cui liste è stata eletta la Borletti Buitoni, dopo un'oblazione di ben 710.000 euro).

Ma siamo proprio sicuri che la scelta sia tra la Tod's e la rovina del nostro patrimonio? Non è così. Innanzitutto è prioritario incrementare il bilancio dei Beni culturali (siamo ormai a un miserrimo miliardo l'anno: contro i 26 di spese militari, cui si aggiungono i 13 per i bombardieri F35). Infine, anche volendo far partecipare i privati, c'è modo e modo di farlo. Sul web è facile scaricare un altro contratto di sponsorizzazione, quello che dal 2004 regola le donazioni ad Ercolano del miliardario americano David W. Packard. Se si vuol spiegare la differenza tra sponsor e mecenate, basta confrontare articolo per articolo questo contratto con quello Tod's. Packard chiede solo che il logo della sua fondazione benefica compaia nelle pubblicazioni scientifiche della Soprintendenza, e che a Ercolano venga apposta una targa di «dimensioni concordate con la Soprintendenza». Una bella differenza, no? Ma Packard è americano, e chi legga anche solo qualche pagina – per dire – di Tony Judt o di Joseph Stiglitz sa che in America si è superata da qualche decennio l'ideologia privatistica reaganiana cui sono fermi gli apostoli italiani della religione del privato.

In conclusione, Della Valle non è un furbetto, ma neanche un padre della Patria. Perché la Patria si è suicidata.

Il Fatto Quotidiano on-line, 21 luglio 2013 (m.p.g.)

Gentile signora Ilaria Borletti Buitoni,

in una sua intervista pubblicata sull’ultimo numero dell’«Espresso», lei dichiara che io le avrei rivolto «i più ingiuriosi epiteti». Dalla sua piccatissima risposta a Maurizio Crozza – reo di averla accostata a Moira Orfei a causa della sua imponente acconciatura – è facile capire come lei non gradisca né l’ironia, né le critiche. Ma io non le ho mai rivolto ‘epiteti ingiuriosi’: e la sfido a trovarne anche solo uno negli interventi pubblici in cui ho avuto l’ardire di citarla. Ma, a questo punto, mi permetta di spiegarle perché, a mio giudizio, la sua nomina a sottosegretaria ai Beni culturali rappresenti un sintomo eloquente della regressione politico-culturale del nostro Paese.

Scendendo (o salendo?) in politica lei ha donato ben 710.000 euro a Scelta Civica di Mario Monti (un membro del Consiglio di amministrazione del Fai, che lei presiedeva). Quindi Monti l’ha nominata capolista in Lombardia. E, dopo la sua non sorprendente elezione, Scelta Civica ha chiesto che lei diventasse ministro per i Beni culturali (suo obiettivo dichiarato). Ma alla fine ha dovuto accontentarsi di uno dei due posti di sottosegretario in quel ministero. E, dopo tutti i soldi che ha speso, posso anche capire che nella stessa intervista lamenti che la stanza che le hanno dato al Ministero non venisse pulita da anni: come si è mal serviti, signora mia!
Per prenderla con leggerezza si potrebbe rammentare che nel Secolo di Luigi XIV Voltaire ironizza amaramente sulla vendita delle cariche pubbliche che connotò la fase peggiore del governo del Re Sole, quando «si creavano cariche ridicole, sempre facilmente comperate … essendo gli uomini di loro natura vani …, e così si immaginarono cariche di sottodelegati, ispettori visitatori del burro fresco, assaggiatori del burro salato».
A prenderla seriamente, invece, ci si potrebbe domandare (legittimamente, viste le regole del Porcellum) se lei sarebbe membro del Parlamento e del Governo anche senza quella gigantesca donazione. E ci si potrebbe chiedere se questa concatenazione di eventi non rappresenti una forma estrema di privatizzazione del cuore stesso dello Stato.
Ma anche l’accostamento con le pratiche dell’Antico Regime è istruttivo. Perché lei si chiama Ilaria Carla Anna Borletti Dell’Acqua Buitoni, e deve la sua attuale carica all’aver presieduto un’associazione, il Fai, nel cui consiglio d’amministrazione siedono, tra gli altri, Bruno Ermolli, Gabriele Galateri di Genola, Vannozza Guicciardini Paravicini, Galeazzo Pecori Giraldi. E, a capo della sua segreteria al Mibac, lei ha voluto Biancaneve Codacci Pisanelli.

L’ironia sull’affollarsi di cognomi aristocratici e grandi capitali sarebbe gratuita se tutto ciò non avesse molto a che fare con le sue idee circa la funzione e il governo del patrimonio.
Nella sua prima dichiarazione, in occasione della Notte dei Musei del 18 maggio scorso, lei pensò bene di dire che «è assolutamente impossibile che lo Stato abbia risorse sufficienti per ampliare l’offerta culturale senza ricorrere anche al sostegno dei volontari». Come dire: «Non hanno pane? Che mangino le brioches!».

In ogni sua dichiarazione pubblica, lei ripete che bisogna distruggere il «legame indissolubile» tra lo Stato e il patrimonio storico e artistico. E che questa distruzione sarebbe una ‘modernizzazione’. L’unica salvezza, per lei, sarebbero i privati: il modello da perseguire è quello della cessione del brand del Colosseo a Diego Della Valle, o dell’affitto degli Uffizi per eventi privati. Di più: allo Stato dovrebbe rimanere solo la tutela, mentre la gestione dovrebbe essere affidata ai privati, con o senza fini di lucro.

In tal modo, lei si è ritagliata (non so quanto consapevolmente) la parte di periferica cheerleader di una ideologia attuale trent’anni fa: un reperto dell’epoca di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Oggi, al contrario, il dibattito pubblico americano conta gli incalcolabili danni di decenni di privatizzazioni selvagge, e rilancia il ruolo dello Stato. Come ha scritto nel 2010 Tony Judt – forse il più influente intellettuale americano dei nostri giorni – «l’incapacità del mercato e degli interessi privati di operare a vantaggio della collettività è sotto gli occhi di tutti».

E non so se è informata che, da vent’anni a questa parte, la gestione dei principali musei e siti monumentali italiani è stata proprio affidata a concessionari privati che hanno creato solo reddito privato a spese di un patrimonio pubblico morente, utilizzando come schiavi generazioni di giovani precari e desertificando la politica culturale pubblica, ridotta ad un mostrificio commerciale.

Lei forse preferisce un modello di charity gestito da ricche dame dai molti cognomi: ma io dubito fortemente che un ritorno alla beneficenza dell’Antico Regime permetta al patrimonio di svolgere la sua funzione prevista dalla Costituzione. Che è quella di rimuovere gli ostacoli all’eguaglianza, e favorire il pieno sviluppo della persona umana attraverso la conoscenza generata dalla ricerca scientifica. Tutte cose che possono essere assicurate solo da una gestione pubblica: né dai concessionari venali, né dalle ronde della carità.
E lei, da sottosegretario di Stato ai Beni culturali, dovrebbe invece pensare solo ad applicare la Costituzione su cui ha giurato: per esempio lottando per riportare a livelli decenti il finanziamento pubblico al patrimonio (sceso di due terzi dai tempi di Bondi ad oggi). Provando, cioè, a rimediare al doloso sottofinanziamento che mirava proprio a rendere inefficiente il sistema che oggi si vuole privatizzare perché – guarda un po’ – divenuto inefficiente.

Il patrimonio artistico dell’Italia dovrebbe e potrebbe servire alla più cruciale sfida per la sopravvivenza della democrazia nel nostro tempo: ridurre la diseguaglianza.
E invece lei lavora perché un’ulteriore privatizzazione aumenti, rappresenti, celebri questa intollerabile diseguaglianza. Edmund Burke ha scritto che una società che distrugge il tessuto del proprio Stato «si sfalderà in una polverosa disgregazione di individualismi». Non mi stupisco che lei lavori in questa direzione: io lotto per un futuro diametralmente opposto.

Cordialmente,Tomaso Montanari

il manifesto, 12 luglio 2013.

Il "David ai fiorentini", gli Uffizi "macchina da soldi", la facciata simil michelangiolesca per San Lorenzo: Firenze, un luna park messo a reddito Il noleggio di Ponte Vecchio alla Ferrari di Montezemolo per una cena elegante segna l'apice della strumentalizzazione del patrimonio artistico e dello spazio pubblico di Firenze. La vicenda è stata particolarmente imbarazzante per l'arbitrio con cui è stata gestita: il sindaco Renzi ha annunciato che il canone di 120.000 (di cui però nel bilancio comunale non sembra esserci traccia) avrebbe dovuto rimediare ad un analogo taglio alle vacanze dei bambini disabili (ugualmente non documentato). E l'opposizione in consiglio comunale ha svelato che almeno una parte delle autorizzazioni ai ferraristi è stata concessa solo il giorno successivo all'evento. E se questo pasticcio amministrativo conferma il sostanziale disinteresse di Renzi per un governo delle cose che vada oltre l'annuncio mediatico, il cuore ideologico dell'iniziativa merita un'analisi.

Per secoli la forma del discorso pubblico, la forma della vita politica, la forma della civiltà stessa si è definita e si è riconosciuta nella forma dei luoghi pubblici. Le città italiane sono sorte come specchio, e insieme come scuola, per le comunità politiche che le abitavano. Le piazze, le chiese, i palazzi civici italiani sono belli perché sono nati per essere di tutti: la loro funzione era di permettere ai cittadini di incontrarsi su un piano di parità. È per questo che la Repubblica - lo afferma l'articolo 9 della Costituzione - nel momento della sua nascita ha preso sotto la propria tutela il patrimonio storico e artistico nazionale.

Negli ultimi trent'anni, tuttavia, il valore civico dei monumenti è stato negato a favore della loro rendita economica, e cioè del loro potenziale turistico. Lo sviluppo della dottrina del patrimonio storico e artistico come "petrolio d'Italia" (nata negli anni ottanta di Craxi) ha accompagnato la progressiva trasformazione delle nostre città storiche in luna park gestiti da una pletora di avidi usufruttuari. Le attività civiche sono state espulse da chiese, parchi e palazzi storici, in cui ora si entra a pagamento, mentre immobili monumentali vengono incessantemente alienati a privati, che li chiudono o li trasformano in attrazioni turistiche.

Come in un nuovo feudalesimo, le nostre città tornano a manifestare violentemente i rapporti di forza, soprattutto economici: da traduzione visiva del bene comune, a rappresentazione della prepotenza e del disprezzo delle regole democratiche.

Anche da questo punto di vista Matteo Renzi non inventa nulla, e si limita a cavalcare con la massima efficacia mediatica la tendenza, vincente, per cui la città non produce cittadini, ma clienti. Nel famoso pranzo di Arcore, egli ottenne che il 20% degli introiti del David di Michelangelo, massimo feticcio del desertificante turismo fiorentino, andassero al Comune e non allo Stato. Vale la pena di notare che quei proventi venivano indirizzati al bilancio di Capodimonte, a Napoli: che, grazie al leghismo gigliato di Renzi, si trovò da un giorno all'altro senza nemmeno la carta igienica. E "il David ai fiorentini" fu il primo messaggio alla pancia della città. Poco dopo Renzi ha dichiarato che «gli Uffizi sono una macchina da soldi se li facciamo gestire nel modo giusto». E quindi ha trivellato gli affreschi di Vasari in Palazzo Vecchio alla ricerca della Battaglia di Anghiari di Leonardo, spacciando per ricerca scientifica una penosa operazione di marketing delle emozioni che esaltava Dan Brown ai danni della conoscenza scientifica.

Insomma, straparlando continuamente di Brunelleschi, Leonardo e Michelangelo, il sindaco sta usando il patrimonio artistico fiorentino come "arma di distrazione di massa" capace di deviare l'attenzione dell'opinione pubblica dall'esercizio del potere: ha, per esempio, proposto di costruire la facciata che Michelangelo aveva progettato per San Lorenzo (sarebbe come scrivere una canto della Commedia partendo da qualche verso) proprio mentre firmava l'accordo per lo scellerato tunnel Tav che sventrerà una parte di Firenze.

Anche da questo punto di vista, tuttavia, Renzi non è un innovatore, piuttosto un conservatore estremista. Nel senso che estremizza, e vira in salsa mediatica, l'ormai secolare abitudine dei fiorentini di vivere di rendita alle spalle del loro passato. Un passato che non diventa leva di costruzione del futuro, ma una specie di parco giochi da mettere a reddito: come è stato chiaro quando Renzi ha messo il veto alla costruzione della moschea nel centro storico. A Firenze le periferie sono abbandonate a se stesse, ma la cartolina del centro è intoccabile. O meglio: ci si possono fare speculazioni edilizie (come lottizzare il Teatro comunale del Maggio, che Renzi vorrebbe liquidare), si possono espellere le librerie o immaginare facciate pseudo-michelangiolesche: va bene tutto quello che è funzionale alla servitù del turismo e alla rendita del passato. Dunque non la moschea, pericolosamente carica di futuro.

Il noleggio di Ponte Vecchio segna, tuttavia, un punto di non ritorno, perché svela il progetto politico e sociale del futuro leader della Sinistra italiana. Nella costituzione riscritta da Renzi la Repubblica - per ora il Comune di Firenze - favorisce la manifestazione delle diseguaglianze, inibisce il pieno sviluppo della persona umana, sottopone alla ferrea legge del mercato il patrimonio storico e artistico e il paesaggio della nazione.

Il Sole 24 Ore, 1 luglio 2013

Con l'eliminazione del vincolo di rispettare la sagoma negli interventi di demolizione e ricostruzione del patrimonio edilizio esistente per effetto del Dl 69/2013 (decreto "del fare") si potrà rimodellare profondamente la conformazione delle città, superando gli indici di edificabilità assegnati dai piani regolatori alla sola condizione di non aumentare la volumetria preesistente.
Secondo il Testo unico dell'edilizia (Dpr 380/2001) gli interventi di ristrutturazione edilizia consistono nelle opere rivolte a trasformare gli organismi edilizi «mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un edificio in tutto o in parte diverso dal precedente». Questi interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti.
Nella ristrutturazione edilizia è compresa anche la demolizione e ricostruzione. Mentre la possibilità di modificare la sagoma era già riconosciuta dal Testo unico per le opere che non comportano la demolizione integrale, il decreto "del fare" consentirà di modificare la sagoma anche nelle operazioni di demolizione e ricostruzione.

Le possibilità di intervento
La norma entra in vigore con la legge di conversione del decreto, quindi al più tardi il 21 agosto. A breve sarà possibile, ad esempio, trasformare un'autorimessa composta da più piani interrati (a cui il titolo edilizio originario riconosceva la permanenza di persone per lo svolgimento di attività lavorative), in una palazzina che trasferisce la volumetria nel soprassuolo (aumentando l'altezza dell'edificio preesistente o erigendo ex novo sull'area sovrastante), collocando nel sottosuolo i parcheggi senza permanenza di persone.
Il caso può apparire irragionevole, ma corrisponde alla realtà di diversi interventi realizzati in Lombardia durante la vigenza dell'articolo 27, comma 1, lettera d), della legge regionale 12/2005, che per primo aveva eliminato l'obbligo del rispetto della sagoma negli interventi di demolizione e ricostruzione. La norma era stata annullata dalla sentenza della Corte Costituzionale 309/2011 per il contrasto con il principio fondamentale contenuto nella definizione di ristrutturazione del Testo unico sull'edilizia. Ma la definizione ora è stata riscritta nei termini citati eliminando così il vizio di incostituzionalità.

Senza giungere al caso limite appena illustrato, si deve rimarcare che il solo vincolo del rispetto della volumetria consentirà agli interventi di demolizione e ricostruzione infedele di superare l'indice edilizio (generalmente espresso dal rapporto tra la volumetria o superficie edificabile e la superficie dell'area di intervento) assegnato dallo strumento urbanistico comunale, tutte le volte in cui esso sia inferiore alla volumetria esistente. Questo è un caso molto frequente nei tessuti consolidati delle nostre città, dove gli edifici sono stati costruiti ben prima dell'approvazione del primo piano regolatore (che ha poi imposto indici inferiori all'esistente), se non prima della stessa legge urbanistica nazionale del 1942.

il Fatto quotidiano online, 25 giugno 2013

Il disegno di legge ‘sulle semplificazioni’ varato dall’ultimo Consiglio dei Ministri prevede che le opere d’arte nei depositi dei musei italiani possano essere prestate a pagamento a musei stranieri che vogliano esporle (fino a venti anni) in spazi ‘dedicati alla cultura italiana’.
Noleggiare il patrimonio non è un’idea nuova: una analoga trovata era contenuta in un disegno di legge di un certo Domenico Scilipoti, e poi nei pensamenti dei famosi Saggi Maschi Anziani nominati da Napolitano. Prima ancora era una proposta dell’ultraliberista Istituto Bruno Leoni, nonché una bandiera del Giornale. E ci si chiede che idea abbiano tutti costoro della dignità e del prestigio dell’Italia, che si ridurrebbe ad escort della vita culturale internazionale.

L’idea è sbagliata perché i depositi dei musei non sono magazzini polverosi, ma una riserva (visitabile per tutti coloro che lo chiedano) che funziona come la cassa di espansione di un fiume: il museo si allarga e si contrae, ed è un unico campo di ricerca, che non si può smembrare a piacimento per decenni. Sarebbe come noleggiare, per anni, i volumi meno richiesti delle nostre biblioteche.

Ed è un’idea anche pericolosa, perché per la prima volta una norma di legge prevederebbe non una valorizzazione culturale (come impone il Codice dei beni culturali), ma una messa a reddito diretta del patrimonio: e di qui alla vendita il passo sarebbe quasi automatico, e giustificabile con gli stessi (pessimi) argomenti.

È poi facile immaginare che le stesse pressioni che oggi i direttori dei musei subiscono per prestare i ‘capolavori’ alle mostre, domani le subirebbero per periferizzarli nei depositi: e metterli così a disposizione dei noleggiatori. E, a quel punto, chi potrebbe resistere ai fondi sovrani dei paesi arabi, che si accingono a comprare l’Alitalia?

Dal ministero dei Beni culturali replicano che questa sarebbe solo una ‘facoltà’, e che i direttori dei musei potrebbero sempre opporsi. È un’obiezione curiosa: lo strapagato staff centrale del Mibac apre una falla confidando che venga chiusa dai sottopagati e umiliati direttori dei musei! Quegli stessi direttori che (insieme ai funzionari responsabili del territorio, vera trincea della tutela) una pessima circolare diramata proprio in questi giorni dal segretario generale del ministero, Antonia Pasqua Recchia, sottopone alla vessazione di una rotazione triennale che è il frutto avvelenato di una pedissequa applicazione di alcune norme internazionali per la prevenzione della corruzione.

La circolare rischia di stroncare ogni serio progetto di ricerca e divulgazione museale: e la motivazione appare pretestuosa, perché i musei italiani non sono (purtroppo) autonomi centri di spesa. Se proprio qualcuno deve essere a rischio di corruzione, si tratta semmai dei gradi superiori: i soprintendenti e i direttori regionali. E invece questa norma rischia di avere risultati paradossali: potrebbe dover ruotare Antonio Natali (che è lo specchiato direttore degli Uffizi dal 2006) e invece rimanere fermissima al suo posto Cristina Acidini (dallo stesso anno sua superiora diretta come soprintendente di Firenze), che è in attesa di giudizio alla Corte dei Conti per un danno erariale di 600.000, per aver fatto comprare allo Stato un Crocifisso ligneo implausibilmente attribuito a Michelangelo. La verità è che i direttori di museo sono spesso gli ultimi argini che proteggono il patrimonio da una valorizzazione selvaggia: e invece di rafforzarne la dignità e l’autonomia (come da tempo sarebbe necessario), con questa assurda norma una parte della burocrazia centrale del Ministero sembra cercare una facile resa dei conti.

E in tutto questo che fa il ministro Massimo Bray, che tanta fiducia ha suscitato nei ranghi periferici della tutela, e nei cittadini che amano il patrimonio culturale? L’impressione è che non sia facile risalire la china di anni in cui i ministri dei Beni culturali sono stati soggiogati dai colleghi dell’Economia e dello Sviluppo (i quali si permettono di proporre per decreto modifiche al Codice dei Beni culturali), ma anche immobilizzati da una alta burocrazia interna che è ormai la vera guida del Mibac.

Bray si sta dedicando con passione ed energia a risolvere le singole, quotidiane emergenze partorite da un sistema al collasso. È riuscito ad arginare l’imperialismo della Protezione Civile, e ha rigettato l’ipotesi di cedere alla gestione dei privati con fini di lucro i monumenti economicamente improduttivi: ma non è riuscito a bloccare il noleggio ai musei stranieri, e ha potuto leggere la circolare sui direttori dei musei (approvata da Ornaghi) quando ormai era stata diramata.Gli alti papaveri del Mibac (benevolissimi verso gli imbelli Bondi, Galan e Ornaghi) osteggiano e ora criticano apertamente Bray, perché è fin troppo evidente che ha davvero voglia di cambiare lo stato delle cose.

Ma se questa voglia non si trasforma velocemente in una visione precisa e coerente, e nella forza di attuarla, la maledizione dei Beni culturali rischia di colpire anche Bray. E se anche questi dovesse fallire, per il nostro povero patrimonio storico e artistico ci sarebbe ben poco da fare.

La Repubblica 22 giugno 2013

COLPO di coda di Ornaghi, colpo di grazia ai musei italiani. Delegittimati davanti ai colleghi stranieri dallo scarso potere decisionale, umiliati da stipendi miserevoli, marginalizzati dall’assenza di risorse, i direttori dei nostri musei sono ora ufficialmente messi alla gogna da una circolare in gestazione da mesi (quando Ornaghi eraministro).

Ma diffusa solo ora dal segretario generale del ministero dei Beni culturali. Ne ha dato notizia il 20 giugno in queste pagine Francesco Erbani: l’idea di base è che nessun funzionario potrà restare allo stesso posto per più di tre anni, e ciò «come misura di prevenzione della corruzione». Il tutto in un intrico di norme e codicilli che, si pretende, risponderebbero a superiori disposizioni nientemeno che dell’Onu e del Consiglio d’Europa. Peccato che tali sollecitazioni, se pure esistono, non siano affatto vincolanti per l’Italia, dove l’obbligo costituzionale della tutela, come ha dimostrato Giuseppe Severini, costituisce un’“eccezione culturale” anche rispetto alle norme, in altri settori ben più cogenti, dell’Unione Europea. Peccato che in nessun Paese aderente all’Onu o al Consiglio d’Europa si stiano mettendo sul banco degli imputati i direttori di museo, ritenendoli (come vuole la circolare ministeriale) «particolarmente esposti alla corruzione».

Negli ultimi mesi, nuovi direttori sono stati nominati in importanti musei: al Louvre Jean-Luc Martinez (dopo dodici anni di brillante direzione di Henri Loyrette), al Getty Museum Timothy Potts, per fare solo due esempi. In nessuno di questi e altri casi è venuto in mente a qualcuno di contingentare la durata della direzione invocando pretese “sollecitazioni Onu”.

La sorda matrice burocratica che informa il tortuoso linguaggio della circolare è dunque made in Italy:ma è il prodotto dell’Italia di oggi con le sue marcate tendenze al suicidio, e non di quell’Italia dove fu creata l’istituzione-museo, non di quella dove nacque l’idea stessa di norme e strutture pubbliche della tutela, che dagli antichi Stati italiani si irradia fino ad oggi in tutto il pianeta. A monte dei pretestuosi giri di parole con cui la circolare schiaffeggia l’intero staff del ministero si legge la stolta concezione che assimila funzionari di soprintendenza e direttori di museo a passivi ingranaggi di una qualsiasi burocrazia, prefettura o anagrafe o catasto.

Si è dunque perso per strada, in questo smemorato Paese, l’alto progetto con cui l’Italia liberale da cui tanto ci resta da imparare inventò le soprintendenze territoriali e le articolazioni museali: strutture concepite come istituti di ricerca sul territorio, di conoscenza del patrimonio e dei paesaggi, di protezione della memoria storica, di custodia dell’anima stessa del Paese. Eppure fu questa concezione, nobile e funzionale insieme, a ispirare l’altissimo statuto della tutela scolpito nell’art. 9 della Costituzione. Perciò le soprintendenze furono espressamente ricordate, nella discussione in Costituente, da Concetto Marchesi, uno dei due proponenti dell’art.9 (l’altro fu Aldo Moro). Perciò la Corte costituzionale ha riconosciuto il ruolo delle soprintendenze e di «particolari misure di tutela» per «salvaguardare beni cui sono connessi interessi primari per la vita culturale del Paese e conservare e garantire la fruizione da parte della collettività» (sentenza nr. 269/1995).

Si parla tanto oggi, spesso a vuoto, di gestione e di valorizzazione dei beni culturali: ma come si fa a valorizzare quel che non si conosce? Le funzioni conoscitive (cioè di ricerca) delle direzioni museali e delle soprintendenze sono essenziali non solo alla loro missione, ma alla democrazia e alla vita culturale del Paese. Il loro obiettivo è di accrescere le conoscenze sul patrimonio e sui paesaggi, di farli conoscere ai cittadini, di consegnarli alle generazioni future migliorandone lo stato di conservazione e il contesto di fruizione. Quel che accomuna i musei di tutto il mondo (quelli, beninteso, che meritano questo nome) è la centralità della ricerca, la specificità delle competenze, la continuità dei programmi. È su questa base che inthe profession, come si dice, si svolge una perpetua conversazione, alla pari, fra archeologi e storici dell’arte di ogni Paese.

È su questa base che si stendono progetti di mostre, si formulano programmi di cooperazione, si stabiliscono sinergie, si scoprono affinità, si coltivano differenze. Professionalità e potere decisionale sono sempre intimamente connessi, anche se l’Italia mortifica i direttori dei musei sottoponendoli a una schiacciante gerarchia che toglie loro quel che i colleghi americani, francesi o tedeschi hanno di norma: il potere di dire l’ultima parola. Se di una riforma c’è bisogno, è per dare più potere, più indipendenza e più responsabilità ai direttori di museo, e non per umiliarli considerandoli d’ufficio come esposti alla corruzione. Chi ha scritto la circolare non sa forse che tre anni non bastano per conoscere a fondo un territorio e tutelarlo adeguatamente? Non sa che i musei più seri (per esempio negli Usa) progettano mostre ed altri eventi con cinque o sei anni di anticipo?

Non sospetta che denunciare la supposta corruttibilità dei funzionari italiani vuol dire esporli al ridicolo e al disprezzo dei loro colleghi? O il vero scopo di chi ha concepito la perversa misura è di impedire la conoscenza dei territori e dei musei, di paralizzare la tutela, di rendere impossibile la ricerca, di vietare ogni rapporto alla pari con i musei stranieri?

Qualcuno parla di oscure manovre di corridoio, secondo cui il pessimo ex ministro Ornaghi avrebbe deciso di sparare nel mucchio per colpire pochi funzionari a lui sgraditi. Se a un provvedimento già di per sé negativo si dovesse aggiungere questo ulteriore ingrediente, il degrado di quel ministero ne risulterebbe ancor più evidente. Ma è arrivato ora il momento della verità: se queste pretese sollecitazioni Onu sono vere, saranno applicate immediatamente anche ad altre categorie, come i professori universitari, i direttori generali di tutti i ministeri, i magistrati? O il sospetto di corruzione è riservato ai funzionari di soprintendenza?

Il nuovo ministro Massimo Bray ha trovato al Collegio Romano un paesaggio di rovine, e in qualche altro caso ha già mostrato la volontà di rimediare. Fiduciosamente aspettiamo che salvi presto dalla gogna il personale che da lui dipende, e che anzi ne valorizzi e riconosca le capacità migliorando la job description e le prospettive di carriera, accrescendo gli stipendi, provvedendo alle nuove massicce assunzioni che sono necessarie. Un ministro giovane e colto come lui non può essere il becchino del suo ministero. Può e deve essere il difensore della Costituzione.

La Repubblica, 20 giugno 2013

Dirigere un museo come la Galleria Borghese o Palazzo Barberini a Roma, gli Uffizi a Firenze, un sito archeologico, Pompei o Ercolano, per esempio, un complesso monumentale, sarà una mansione a termine. Durerà tre anni. Poi bisognerà cambiare aria, per evitare che si formino “posizioni dominanti”. E che si sia a rischio di corruttela. E lo stesso vale per un funzionario di soprintendenza: niente vigilanza per più di trentasei mesi sul medesimo paesaggio, sulla vallata o sulla cresta di collina di cui lui conosce ogni albero. È scritto in una circolare appena emessa dal segretario generale del ministero per i Beni culturali, Antonia Pasqua Recchia. Il ministro Massimo Bray di questa vicenda, pur sollecitato, non vuol parlare. Fa però sapere di aver chiesto un appunto a Recchia per verificare se è possibile interpretare diversamente le direttive internazionali da cui la circolare ha origine.

Il documento sta girando per gli uffici, dove suscita forti malumori: per alcuni è un colpo durissimo, l’ennesimo, che si abbatte su un corpo sfibrato, quello di chi custodisce il nostro patrimonio culturale ed è chiamato a compiti delicatissimi, ma da anni viene mortificato a causa dei tagli di bilancio, con un personale ridotto ai minimi termini, invecchiato e pochissime possibilità di ricambio.

La circolare è stata scritta, spiega l’architetto Recchia, in ossequio alla legge approvata nel novembre del 2012 (la numero 190) che risponde a una sollecitazione dell’Onu e del Consiglio d’Europa e che impone un piano triennale di prevenzione della corruzione. Ogni amministrazione deve stilarne uno. Il ministero per i Beni culturali lo ha adottato il 3 aprile scorso, quando c’era ancora Lorenzo Ornaghi (Bray gli è subentrato il 28 aprile). Già nel piano di Ornaghi si legge che la tutela archeologica, storico-artistica, architettonica e paesaggistica, divisa per zone di competenza e affidata, zona per zona, a singoli funzionari risponde a esigenze di competenza, che si acquisiscono col tempo, ed è dunque necessaria, ma, al tempo stesso, favorisce «la costituzione di posizioni dominanti nell’esercizio della funzione autorizzativa e suscettibili di episodi corruttivi». E per queste figure, il vero nerbo della tutela in Italia, sempre di meno, sempre più anziane (la media d’età è oltre i 57anni), costrette a pagarsi la benzina per i sopralluoghi, si auspica l’introduzione della rotazione.

Ma la circolare compie un passo in più. Oltre ai funzionari di zona, indica i direttori dei musei, quelli delle aree archeologiche e dei siti monumentali. Anche loro sarebbero, si legge, «particolarmente esposti alla corruzione». E per questo si invitano le Direzioni generali e quelle regionali ad applicare una serie di misure. Fra le quali, appunto, «risulta necessario prevedere un termine triennale per la durata dell’incarico ». La rotazione non è obbligatoria, aggiunge Recchia, «ma se un soprintendente ritiene indispensabile mantenere al suo posto oltre i tre anni un direttore di museo, deve motivarlo adeguatamente e, nel caso di episodi di corruzione, ne risponde personalmente». Ma i tre anni partono da subito? Chi li ha compiuti in una sede è già a rischio di rotazione? «Per quanto mi riguarda, sì», replica Recchia.

Le reazioni alla circolare si sono rincorse da un ufficio all’altro, da un museo archeologico a uno d’arte. Spesso restano sotto traccia, la paura di esporsi è tanta. Ma l’impressione di un’ulteriore sferzata a un personale che già si regge solo sulla forza di volontà, è molto diffusa. Anna Coliva, direttrice della Galleria Borghese, trova «singolare che si colpiscano proprio quelle figure che nel ministero non hanno facoltà di spesa: anche per far riparare una lampadina siamo costretti a una trafila fra le più farraginose che paralizza molte iniziative. È davvero strano che si imponga a noi la rotazione e non a figure dirigenziali che negli ultimi anni si sono moltiplicate a dismisura». Su un altro aspetto insiste Coliva: niente di tutto ciò accade in musei francesi, inglesi o americani, dove i direttori cambiano, la rotazione è vivace, masulla base di rigorose valutazioni e non di burocratici automatismi. Lei, architetto Recchia, sa se in altri paesi si applicano criteri altrettanto rigidi? «Su questo non ho indagato ». Ma perché la rotazione vale per il direttore di un museo e non per un direttore generale del ministero o per un direttore regionale? «Perché i loro contratti sono triennali, mentre chi guida un museo teoricamente può farlo a vita».

Anna Coliva dirige la Galleria Borghese dal 2007 e su di lei potrebbe cadere la mannaia della rotazione. Come su molti suoi colleghi, Anna Lo Bianco, per esempio, che dirige da oltre tre anni la Galleria di Palazzo Barberini, dove ha gestito un difficile riallestimento, una volta recuperate le sale occupate per decenni dal Circolo Ufficiali. A Maria Paola Guidobaldi, che dal 2000 regge il sito archeologico di Ercolano, impegnata in un esperimento di collaborazione con il magnate americano David Packard, esempio di partnership pubblico-privato fra i più produttivi in Italia. Ma di casi se ne possono citare infiniti fra i funzionari, che hanno accumulato anni di competenze e di esperienze e che, per 1.300-1.400 euro al mese, sorvegliano come possono che non si compiano scempi al paesaggio o non si manomettano opere d’arte.

La rotazione, come principio in sé, viene auspicato: ciò che colpisce è la rotazione triennale per decreto. Un direttore di museo come Rita Paris (che guida dal 2004 il Museo nazionale romano di Palazzo Massimo a Roma, stipendio 1.700 euro al mese) segnala il rischio «che si interrompano progetti scientifici, che si perdano saperi. È necessario intensificare i controlli, ma che cosa c’entriamo noi con la corruzione? ». E cita diversi esempi: «Uno scavo archeologico comporta anni di indagini, come pure la realizzazione di un catalogo o il rinnovo di alcune sale. Mantenere i contatti con i colleghi di altri paesi è un impegno che dura nel tempo. E che dire della programmazione di una mostra. Sono stata di recente al Metropolitan di New York dove abbiamo portato la statua del Pugile a riposo: lì pianificano esposizioni già per il 2016».

La Repubblica, 21 maggio 2013

La demeritocrazia incalza e, col favore delle “larghe intese”, occupa il Palazzo, e già il Pdl torna a intonare la litania dei condoni. Qualche curriculum: Giancarlo Galan ha presieduto la regione Veneto negli anni (1995-2010) che l’hanno issata in cima alle classifiche per la cementificazione del territorio, 11% a fronte di una media europea del 2,8 %; da ministro dei Beni culturali, ha chiamato come consigliere per le biblioteche Marino Massimo De Caro, che col suo consenso è diventato direttore della biblioteca dei Girolamini a Napoli, dove ha rubato migliaia di libri (è stato condannato a sette anni di galera per furto e peculato). Per tali benemerenze, Galan oggi presiede la Commissione Cultura della Camera. Maurizio Lupi ha presentato nel 2006 un disegno di legge che annienta ogni pianificazione territoriale in favore di una concezione meramente edificatoria dei suoli, senza rispetto né per la loro vocazione agricola né per la tutela dell’ambiente. Ergo, oggi è ministro alle Infrastrutture e responsabile delle “grandi opere” pubbliche. La commissione Agricoltura del Senato è naturalmente presieduta da Roberto Formigoni, ricco di virtù private e pubbliche, fra cui spicca la presidenza della Regione Lombardia negli anni (1995-2012), in cui è diventata la regione più cementificata d’Italia (14%) battendo persino il Veneto di Galan. Flavio Zanonato, in qualità di sindaco di Padova, ha propugnato la costruzione di un auditorium e due torri abitative a poca distanza dalla Cappella degli Scrovegni, mettendo a rischio i preziosissimi affreschi di Giotto: dunque è ministro per lo Sviluppo economico, che di Giotto, si sa, può fare a meno. Vincenzo De Luca come sindaco di Salerno ha voluto il cosiddetto Crescent o “Colosseo di Salerno”, 100 mila metri cubi di edilizia privata in area demaniale che cancellano la spiaggia e i platani secolari: come negargli il posto di viceministro alle Infrastrutture? Marco Flavio Cirillo, che a Basiglio (di cui è stato sindaco), presso Milano, ha pilotato operazioni immobiliari di obbedienza berlusconiana, disseminando nuova edilizia residenziale in un’area dove il 10% delle case sono vuote, ascende alla poltrona di sottosegretario dell’Ambiente. E quale era mai il dicastero adatto a Nunzia Di Girolamo, firmataria di proposte di legge contro la demolizione degli edifici abusivi in Campania, per l’incremento volumetrico mascherato da riqualificazione energetica e per la repressione delle “liti temerarie” delle associazioni ambientaliste? Ma il ministero dell’Agricoltura, è ovvio.

Che cosa dobbiamo aspettarci da un parterre de rois di tal fatta? Primo segnale, l’onorevole De Siano (Pdl) ha presentato un disegno di legge per riaprire i termini del famigerato condono edilizio “tombale” del 2003, estendendoli al 2013, con plauso del condonatore doc, Nitto Palma, neopresidente della commissione Giustizia del Senato, e con la scusa impudica di destinare gli introiti alle vittime del terremoto. Se il governo Letta manterrà la rotta del governo “tecnico” che gli ha aperto la strada col rodaggio delle “larghe intese”, si preannunciano intanto cento miliardi per le cosiddette “grandi opere”, meglio se inutili, con conseguente criminalizzazione degli oppositori per “lite temeraria” o per turbamento della pubblica quiete. Più o meno quel che è successo all’Aquila al “popolo delle carriole”, un gruppo di volontariato che reagiva all’inerzia dei governi sgombrando le macerie del sisma, e venne prontamente disperso e schedato dalla Digos. In compenso, i finanziamenti per le attività ordinarie dei Comuni e delle Regioni sono in calo costante, e sui ministeri-chiave (come i Beni culturali) incombono ulteriori tagli selvaggi travestiti da razionale spending review, come se un’etichetta anglofona bastasse a sdoganare le infamie. La tecnica dell’eufemismo invade le veline ministeriali, e battezza “patto di stabilità” i meccanismi che imbrigliano i Comuni, paralizzano la crescita e la tutela ambientale, scoraggiano gli investimenti, condannano la spesa sociale emarginando i meno abbienti, comprimono i diritti e la democrazia.

Ma il peggior errore che oggi possiamo commettere è di fare la conta dei caduti dimenticando la vittima principale, che è il territorio, la Costituzione, la legalità. In definitiva, l’Italia. L’unica “grande opera” di cui il Paese ha bisogno è la messa in sicurezza del territorio e il rilancio dell’agricoltura di qualità. Il consumo di suolo va limitato tenendo conto di parametri ineludibili: l’enorme quantità di invenduto (almeno due milioni di appartamenti), che rende colpevole l’ulteriore dilagare del cemento; gli edifici abbandonati, che trasformano importanti aree del Paese in una scenografia di rovine; infine, il necessario rapporto fra corrette previsioni di crescita demografica e pianificazione urbana. Manodopera e investimenti vanno reindirizzati sulla riqualificazione del patrimonio edilizio e sulla manutenzione del territorio.

Su questi fronti, il governo Monti ha lasciato una pesante eredità. Ai Beni culturali, Ornaghi ha sbaragliato ogni record per incapacità e inazione; all’Ambiente, Clini, che come direttore generale ne era il veterano, ha evitato ogni azione di salvaguardia, ma in compenso si è attivato in difesa di svariate sciocchezze, a cominciare dallo sgangherato palazzaccio di Pierre Cardin a Venezia. Ma dal governo Monti viene anche un’eredità positiva, il disegno di legge dell’ex ministro Catania per la difesa dei suoli agricoli e il ritorno alla disciplina Bucalossi sugli oneri di urbanizzazione: un buon testo, ergo lasciato in coda nelle priorità larghintesiste di Monti & C. e decaduto con la fine della legislatura.

Verrà ripreso e rilanciato il ddl Catania? Vincerà, nel governo Letta, il partito dei cementificatori a oltranza, o insorgeranno le voci attente alla legalità e al pubblico bene? Il Pd, sempre opposto ai condoni, riuscirà a sgominare la proposta di legge dell’alleato Pdl? Anche i forzati dell’amnesia, neosport nazionale assai in voga in quella che fu la sinistra, sono invitati non solo a sperare nei ministri e parlamentari onesti (che non mancano), ma anche a ripassarsi icurricula devastanti dei professionisti del disastro. Se saranno loro a vincere, sappiamo che cosa ci attende. Se verrà assodato che il demerito è precondizione favorevole a incarichi ministeriali, presidenze di commissioni ed altre incombenze, si può preconizzare la fase successiva, quando il supremo demerito, se possibile condito di qualche condanna penale, sarà conditio sine qua nonper ogni responsabilità di governo. Che cosa dovremmo aspettarci da questa nuova stagione della storia patria? Il capitano Schettino alla Marina? Previti alla Giustizia? Berlusconi al Quirinale?

Il patrimonio culturale come baluardo di democrazia ed uguaglianza: un bene comune sotto attacco. Recensione dell'ultimo volume di Tomaso Montanari "Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane " (minimum fax)
Civitas è il termine latino da cui deriva il nostro ‘città’, ma in latino indica, nella sua prima accezione, la cittadinanza e i diritti ad essa connessi. Le città che sono al centro dell’indagine di Tomaso Montanari nel suo ultimo libro Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane (minimum fax, 2013), sono appunto civitates, ossia l’insieme, inscindibile, di edifici, monumenti, chiese e cittadini.

Attraverso la denuncia dell’uso distorto del patrimonio culturale di molte delle nostre città più importanti, da Roma a Milano, da Napoli a Venezia, da Siena a Firenze e L’Aquila, il volume (che si presenta domani a Roma) ricostruisce l’inesorabile processo di privatizzazione cui i nostri beni culturali sono sottoposti. Da patrimonio di tutti, costituito nei secoli per la publica utilitas o comunque divenuto tale da lungo tempo, questo bene comune sta subendo una trasformazione radicale per quanto riguarda la funzione – da sociale ad economica – che ne comporta appunto la vendita, e più spesso svendita, a privati, spesso mascherati sotto la veste di fondazioni.

Come ha ben visto Salvatore Settis, la privatizzazione delle città, è l’altra faccia della privatizzazione della tutela (i cui costi continuano peraltro ad essere pagati dallo Stato, cioè da tutti noi). Il patrimonio culturale è elemento fondamentale dello spazio pubblico, e lo spazio pubblico rappresenta il cardine del concetto di città: come ben sanno i lettori di eddyburg, senza spazio pubblico non c’è città e i cittadini sono di fatto rigettati in una condizione di abitanti o turisti la cui funzione prevalente diviene il consumo. A partire da questi principi, si snoda il ragionamento di Montanari, sottolineando con forza come il degrado e la sottrazione pubblica di monumenti e siti non sia solo un danno culturale, pur gravissimo ed irrisarcibile, ma costituisca un fattore, non secondario, dell’involuzione della vita democratica attualmente in atto in Italia, e non solo. L’assalto ai beni comuni scatenato a livello mondiale dalla fase neoliberista, in Italia particolarmente si esprime attraverso un attacco ai beni culturali, particolarmente violento sui centri storici e non casuale vista l’importanza e la vastità del nostro patrimonio.

Ci avviamo verso un impoverimento radicale della civitas, non solo dal punto di vista patrimoniale quindi, ma da quello dei diritti, perché se i cittadini avranno sempre minori possibilità di accedere ad opere d’arte, monumenti, architetture, in maniera non superficiale, ne sarà diminuita la loro possibilità di conoscenza e consapevolezza della storia attuale e presente e quindi ne verranno drasticamente circoscritte le possibilità di formazione e crescita sociale.

Ne Le pietre e il popolo si dimostra esemplarmente come dietro la stucchevole affermazione, che però tanto piace ai privati, del patrimonio culturale come “volano per lo sviluppo” oltre alla vecchia ma mai rinnegata equivalenza fra beni culturali e petrolio dei tempi di De Michelis, ci sia soprattutto il vuoto pneumatico di idee sulla funzione di quel patrimonio.

Non sapendo più a che serve, politici di ogni parte e intellettuali a loro organici ne cercano affannosamente un uso possibile: inevitabile che in un’epoca di trionfo dell’economia sulla politica, quello mercantile non possa che essere il fine privilegiato. Da qui l’accento sempre più esasperato sulle attività di valorizzazione, intesa principalmente come marketing orientato al turista. E quindi mostre prive di qualsiasi retroterra scientifico ed eventi che utilizzano i nostri monumenti e siti come quinte di lusso. La tutela al servizio del mercato, in estrema sintesi.

Leggendoli tutti assieme gli orrori che i nostri politici hanno architettato e gli alti funzionari Mibac hanno permesso (o addirittura favorito) si coglie anche l’accelerazione spaventosa che questo processo di privatizzazione ha subito negli ultimi anni.

Questo libro è importante perché rompe il velo di ipocrisia che circonda questo ambito: storia dell’arte, monumenti, mostre, sono confinati sui media fra i temi di “alleggerimento”, quelli con cui si conclude, “in bellezza” appunto, un tg, rivelando in questo modo quale ne sia la considerazione generale: il bello come momento di svago, di evasione rispetto alle cose che contano sul serio.

Ed è importante perché nell’additare, con lucidissima spietatezza, le responsabilità, Tomaso Montanari non si ferma alle solite risposte: certo i politici, gli alti dirigenti Mibac brillano per ignoranza e arroganza, ma la responsabilità va cercata anche in chi questa ignoranza non ha saputo o voluto dissiparla. E quindi l’accademia in genere e gli storici dell’arte in particolare che solo in pochi casi hanno compreso come fosse prioritaria quella funzione di diffusione della conoscenza che costituisce il primo e più efficace strumento di tutela. Come ci aveva insegnato Andrea Emiliani: “La coscienza del possesso sociale è la sola garanzia valida ad allontanare lo spettro della distruzione”.

Ma l’importanza di Le pietre e il popolo risiede principalmente nella sua capacità di riadditarci il senso smarrito: beni culturali e paesaggio non servono a suscitare emozioni estetiche, tanto passeggere quanto superficiali, ma sono attrezzi poderosamente efficaci per capire il presente e la realtà, interpretandone la complessità senza banalizzazioni. A disposizione di tutti: esserne privati significa quindi essere più poveri non solo dal punto di vista culturale, ma anche da quello politico, essere insomma cittadini più indifesi perché meno armati contro le insidie della semplificazione e dell’omologazione.

E’ una battaglia politica, quindi quella a difesa del nostro patrimonio: non è un caso, allora, che fra i più scatenati fautori della valorizzazione mercantile dei beni culturali ci siano quegli esponenti della nostra classe politica più abili nell’uso dei media e nell’acquisizione di un consenso inteso fine e non come mezzo. La politica come marketing di sé stessi, così come il patrimonio culturale.

L’esempio paradigmatico di questa doppia equivalenza politica = cultura = marketing è proprio la città del fiorentino Montanari, dove da anni, con la connivenza e le omissioni dei più alti dirigenti del Ministero dei beni culturali, il patrimonio culturale, considerato alla stregua di una vera gallina dalle uova d’oro, è asservito a finalità di puro marketing e di visibilità personale, finalità del resto teorizzate nell’imbarazzante Stil Novo, pamphlet dell’attuale sindaco.

Triste ironia della sorte che ciò avvenga proprio nella città del Rinascimento, l’epoca nella quale, proprio attraverso la cultura, gli uomini erano riusciti a costruire potenti mezzi di emancipazione e a rendere ancora più vero il detto di origine medioevale secondo il quale “ l’aria della città renda liberi”.

Le pietre e il popolo si presenta domani, 21 maggio, alle h. 17, a Roma, presso la sede della Soprintendenza Archeologica a Capo di Bove, via Appia Antica, 222.
Ne parleranno, assieme all’autore, Paolo Berdini, Vezio De Lucia e Maria Pia Guermandi.

L'articolo è inviato contemporaneamente a L'Unità on-line, blog "nessun dorma"

Corriere della Sera, 8 maggio 2013

Un altro inverno così e delle meravigliose Cascine di Tavola resteranno solo macerie. Sulla tenuta modello di Lorenzo il Magnifico scoperchiata nel lontano 2008 dai barbari palazzinari che volevano trasformarla in un condominio di lusso, si sono accaniti i mesi più piovosi da decenni a questa parte, con precipitazioni di almeno un terzo superiore alla media e «filotti» di pioggia anche di undici giorni consecutivi.

Va da sé che a metà marzo il giornale online Notizie di Prato titolava: «Ancora crolli alla Fattoria Medicea». Un delitto. Tanto più che il fallimento della società proprietaria del complesso potrebbe aprire, almeno sulla carta, opportunità insperate. Dato per scontato che la prima asta vada deserta, è possibile che le Cascine possano finire per una somma non astronomica in mano pubblica. Certo, il Comune di Prato che deve farsi perdonare il permesso dato a suo tempo ai costruttori per stuprare la straordinaria tenuta agricola rinascimentale, non potrebbe farcela da solo. Troppi soldi per l'acquisto, probabilmente non meno di 11 o 12 milioni di euro. Troppi per i restauri, che saranno lunghi e complessi. Ma se si mettessero insieme il Comune, la Provincia, la Regione, il Ministero dell'Agricoltura e quello dei Beni culturali che potrebbero studiare insieme un progetto per recuperare nella loro integrità gli orti, i campi coltivati, i canali della rete di irrigazione così com'erano mezzo millennio fa? Magari anche l'Europa, davanti a un progetto serio, potrebbe scucire un po' di soldi...

«Il guaio è che la Regione, finora, non ci sente», spiega Mariarita Signorini, vicepresidente di Italia Nostra in Toscana e appassionata sostenitrice della battaglia per salvare le Cascine. «È arrivata a spendere quattrocento milioni di euro per tappare i buchi finanziari pazzeschi dell'ospedale di Massa ma su questi bisogni culturali è assai meno sensibile». Riuscirà a far qualcosa di nuovo il ministro dei Beni culturali sulla cui groppa sono caduti tutti i problemi lasciati irrisolti da un sacco di tempo?

Certo, non è solo il Comune di Prato ad avere il dovere di farsi perdonare dai cittadini italiani. Il progetto per stravolgere l'antica fattoria medicea, un «insolito edificio quadrato a corte centrale e torri angolari, attribuito a Giuliano da Sangallo» trasformandola in un complesso immobiliare di 160 bilocali (alcuni col giardinetto privato) più un hotel a quattro stelle più un ristorante e negozi e parcheggi e campi da tennis e centri benessere con saune, fitness e palestre, infatti, aveva avuto il via libera perfino di una dirigente della Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici. Dirigente poi messa sotto inchiesta dalla magistratura insieme coi responsabili della società «Agrifina» che, coinvolti anche in una brutta storia di fatture false, avevano venduto tutto a loro volta «chiavi in mano» all'immobiliare Fattoria Medicea, costituita al 60% dalla Re Sole e al 40% da Pirelli Real Estate che da allora ripetono: «Noi non c'entriamo». Ecco, se dai loro sensi di colpa potessero rinascere le Cascine...

del Fatto Quotidiano, 6 maggio 2013), dedicato alla componente pricipale del nostro patrimonio: alla maggiore ricchezza d'Italia (se non ci si chiude nell'ottica distruttiva delle "merci" e dei "giacimenti cultural". Articoli su Napoli (Vincenzo Iurillo, Roma (intervista di Ferruccio Sansa a Vezio De Lucia), Enrico Fierro (Palermo), Michele Concina (Venezia), l'Aquila (Tomaso Montanari)

Tomaso Montanari

Il vero capolavoro della storia dell’arte italiana non è quella singola scultura di Michelangelo, o quel singolo Caravaggio: è ciò che oggi chiamiamo il “centro storico”. La Carta di Gubbio del 1960 lo definisce un “organismo urbano unitario cui va riconosciuta la qualità di bene culturale”. Un'opera d’arte abitata, insomma: come un corallo vivo. Di questi capolavori in Italia ne abbiamo circa 22.000: creati al tempo dei fenici, degli etruschi, dei greci, dei romani. Oppure medioevali, rinascimentali, barocchi e giù giù fino allo spartiacque della Grande Guerra. I nemici dei centri storici sono tanti. Il primo è lo spopolamento: nel 1971 il centro di Perugia aveva 15.000 abitanti, oggi 9.000; quello di Roma ne contava 358.291 nel 1951, 118.197 nel 2003. E poi la speculazione edilizia, le liberalizzazioni selvagge dei negozi, il turismo ossessivo (che umilia Venezia e prostituisce Firenze). L’abbandono della manutenzione ordinaria da parte delle amministrazioni, stroncate dalle leggi finanziarie degli ultimi vent'anni: il disastro è clamoroso a Napoli e a Palermo. La tragedia dell’Aquila è il culmine di uno sfascio diffuso. C’è un nesso tra il collasso della vita civile e politica e il collasso del patrimonio artistico. Per secoli, anzi per millenni, la forma dello Stato, la forma dell’etica, la forma della civiltà stessa si è definita e si è riconosciuta nella forma dei luoghi pubblici. È vero anche oggi, e questo è il problema: la sfida non è la ricostruzione materiale, è la ricostruzione civile.

Napoli, città chiusa per crolli
di Vincenzo Iurillo

Napoli. Il luogo simbolo dello scempio del patrimonio chiesastico napoletano è il perimetro murario del Chiostro di Santa Chiara. Imbrattato dai graffiti come una stazione della metropolitana. Con tanto di cuoricini e di improbabili “ti amo” verniciati sulle pareti. Impossibile non farci caso per i turisti, non molti, che si radunano all’ingresso, macchinetta fotografica rigorosamente al collo, costretti a brancolare a tentoni per la distruzione sistematica dei cartelli di segnalazione. Per fortuna l’attiguo Monastero di Santa Chiara gode ancora di discreta salute. Ma di fronte, la guglia dell’Immacolata di piazza del Gesù soffoca tra le sterpaglie che lesionano il marmo. Lo stesso problema del campanile della chiesa di S. Agostino alla Zecca e della chiesa del Gesù Nuovo.

Pochi sanno che il numero di chiese di Napoli è addirittura superiore a quello di Roma. Peccato che su 500, più di 200 risultino chiuse al pubblico, come la Chiesa di Sant’Aniello a Caponapoli, la Chiesa dell’Arciconfraternita di San Girolamo dei Ciechi, o la Chiesa di Santa Maria Vertecoeli. Diroccate come la Cappella di Sant’Antonio alla Vicaria o la Chiesa dei Santissimi Cosma e Damiano che si staglia tra i rifiuti di Largo Banchi Nuovi, un’opera del 1700 che John Turturro ha scelto per uno degli sfondi del film “Passione”. Sottoposte a lavori di restauro infiniti. Nel peggiore dei casi, saccheggiate dai ladri che si sono portati via altari, maioliche, candelabri, vasche sacre. È quel che è accaduto alla Chiesa di Santa Maria in Cosmedin in piazza Portanova, risalente ai tempi dell’Imperatore Costantino. Depredata di tutto. Persino delle reliquie di un cardinale.

Succede questo e altro a Napoli, capitale della convivenza tra bello e degrado, dove la medaglia del riconoscimento di patrimonio Unesco è appannata da decenni di incuria, e l’invito della nuova edizione del Maggio dei Monumenti a visitare “chiostri, cortili e sagrati” fa sorridere amaro Antonio Pariante e Vincenzo Giunta, tra gli animatori del Comitato di Portosalvo, presidio intellettuale di lotta per la riqualificazione delle bellezze culturali del centro storico. “Proviamo a visitare - dicono - il cortile medievale del complesso monastico di Sant’Anna dei Lombardi, che comprende la bellissima Chiesa dove sono custodite le opere del Vasari”. È una sollecitazione provocatoria. Quel cortile è inaccessibile, ora è il parcheggio delle auto dei carabinieri della caserma Pastrengo. L’ingresso è sbarrato da un cancello con lamiera “graffitata” per ostacolare lo sguardo dei curiosi. La scala di piperno antico, a sua volta, è divelta. Un orrore.

I monumenti e i palazzi “laici” non se la passano certo meglio. Due esempi per tutti. La celeberrima piazza del Plebiscito, la cui pedonalizzazione fu l’avvio del Rinascimento Napoletano degli anni ‘90, è stata letteralmente presa d’assalto dai graffitari. Che non hanno risparmiato neppure i leoni di pietra presso il colonnato e le statue equestri di Carlo III di Borbone e di suo figlio Ferdinando I. E il meno conosciuto Palazzo Penne, architettura durazzesca del 1400, nei pressi del Largo Banchi Nuovi, nel ventre di Napoli. Un rudere, ormai. Mortificato da brutti e mal eseguiti lavori di ristrutturazione, per i quali nessuno ha pagato prezzo: il processo si è concluso tre settimane fa con l’assoluzione di tutti gli imputati.

Se uno vuole aprirsi a un cauto ottimismo, può visitare la Chiesa di Sant’Anna dei Lombardi, un prodigio dell’architettura del XV secolo, passando purtroppo per la fontana di Carlo II d’Asburgo vandalizzata dalle scritte “Wc”. Chiesa bellissima e tutto sommato ben tenuta. Tranne che per le infiltrazioni d’acqua che stanno rovinando la cappella delle sculture del Mazzone. Sembra che l’acqua stia mettendo in pericolo anche la Chiesa di S. Giacomo degli Spagnoli, annessa al palazzo dell’amministrazione comunale.
Ma il problema non sono solo le piogge. A Napoli il terremoto del 1980 è un incubo mai superato. La Chiesa di San Michele Arcangelo nei pressi di piazza Dante, di stile barocco, è stata chiusa per un restauro post-sisma durato circa 30 anni. Le lesioni alle volte sono visibili a occhio nudo. Ma almeno questa è accessibile.

Le chiese chiuse e mai riaperte per il sisma si contano a decine. Una ferita mai rimarginata, nonostante i 150 milioni di euro spesi in trent’anni nella sola provincia napoletana. Il restauro della chiesa Ecce Omo, tra i bassi dei vicoli, è costato svariati milioni. La chiesa però è chiusa.

Ma anche quando sono disponibili, le, discutibili scelte di gestione lasciano sbarrate al pubblico i gioielli del cuore di Napoli, ad esempio nel ponte di fine aprile, per lo sconforto di chi immagina le file per visitare i musei e le chiesi di Firenze. È il caso della Chiesa e del vicino Chiostro di Santa Maria la Nova, che ospita anche le sedute del consiglio provinciale. Ingresso sbarrato per il vicino Museo d’Arte Religiosa Contemporanea. Semaforo giallo al Museo di Capodimonte: è aperto, ma il piano che ospita le opere di Andy Wahrol, no. I carabinieri si sono annessi un cortile sacro per le loro auto, la polizia si è accontentata di parte di un sagrato per gli scooter degli agenti. La “porta d’ingresso della Casa del Signore” occupata da vespe e moto è quella della Chiesa di San Diego dell’Ospedaletto, costruita nel 1700, di fronte alla Questura. “Scusi, lei è della Soprintendenza”? La signora urla ma è gentile.

È di Napoli. C’è una piccola folla che si ripara dalla pioggia. “Stiamo aspettando qualcuno della Soprintendenza che ce la apra, avevamo appuntamento alle 11 ma è già trascorsa mezz’ora”. Non disperi. C’è invece da disperarsi a Largo Giusso, fotografando i muri della Cappella Pappacoda. Sono rovinati dai murales. Il frutto di ore, giorni, settimane di lavoro. Si tratta della Cappella attigua alla Chiesa di San Giovanni Maggiore. Di un fascino struggente, ben tenuta, spesso utilizzata per convegni e concerti, con cura e rispetto. Ma tutto intorno è il caos, tra bottiglie di birra rotte e un insopportabile tanfo di piscio. È Napoli, bellezza.

Roma deserta: persi due abitanti su tre
di Ferruccio Sansa

Il centro storico di Roma in pochi decenni ha perso i due terzi dei suoi abitanti: siamo passati da trecento ad appena centomila. Ormai i centri storici rappresentano meno del 10 per cento delle nostre città”. L’architetto Vezio De Lucia è senza dubbio uno dei massimi esperti italiani - e non solo - di centri storici.

Architetto, ecco, partiamo proprio da Roma. Quali sono le emergenze più urgenti nella Capitale? “Non vorrei nemmeno fare un elenco, sono decine. Basta sfogliare le cronache che parlano di crolli nella Domus di Nerone, lungo le Mura Aureliane... il punto è un altro: si è abbandonata ogni politica per salvare il centro storico. Una volta, giustamente, si riteneva che i centri storici dovessero essere fatti di pietra, ma anche di abitanti. Che dovessero essere salvaguardati i monumenti, ma anche la vita”.

In concreto cosa si proponeva di fare? “I nostri centri, e Roma in particolare, hanno perso ogni senso sociale. Non sono più abitati da tutti gli strati della popolazione. Abbiamo scacciato chi ha meno soldi, gli artigiani. Oggi le città storiche sono un concentrato di turismo, ricchi e attività opulente”.

Che cosa si può fare per mantenere davvero vivi i centri? “In Italia negli anni Settanta ci fu chi ebbe il coraggio di riportare le abitazioni popolari nei centri storici. Il primo fu Pierluigi Cervellati a Bologna. Poi toccò al grande sindaco di Roma, Luigi Petroselli. Un’idea straordinaria. Non l’unica: Petroselli lanciò il progetto dei Fori che fece parlare tutto il mondo. Si volevano recuperare i fori di Nerva, Cesare, Augusto, Traiano che sono nella zona di via dei Fori. Così l’archeologia sarebbe tornata al centro della città. Non chiusa in un recinto, ma come parte della vita attuale”.

Sono passati trent’anni e non se n’è fatto niente... “Nulla. Peccato, la nostra sinistra aveva avuto intuizioni importanti, ma oggi sembra quasi vergognarsene. Adesso, e non voglio fare campagna elettorale, però vedo che un candidato, Ignazio Marino, sta riproponendo quel progetto”.

Qualcuno teme di trasformare la città in un museo... “Macché, sarebbe il contrario. Così il nostro patrimonio tornerebbe a far parte della vita contemporanea. Ricordatevi cosa dicevano i “ragazzi di vita” di Pasolini che abitavano le borgate: “Andiamo a Roma”. Ma sono la stessa città”.

E l’architettura moderna? Noi non siamo contrari, anzi, ma soprattutto in città come Roma i nuovi interventi, di qualità, dovrebbero trovare spazio nelle periferie che sono tanto degradate”.

Centri storici trasformati in vetrine, deserti, senza abitanti, ma anche cadenti... “Certo, le risorse sono poche. Ma è una questione culturale, prima ancora che politica. E pensare che restaurare le nostre città porterebbe lavoro”.

Senza contare il turismo, la nostra principale industria... “Appunto, sarebbe anche un investimento redditizio. Ma abbiamo perso la cultura dei centri storici. Pensiamo ai singoli monumenti, mentre le nostre città sono un monumento nel loro insieme. I palazzi e le persone. E poi...”.

E poi? “Ci siamo dimenticati che la nostra storia è fatta di città. Ognuna diversa dalle altre, ognuna con una lingua propria. Ecco, le città ci ricordano chi siamo stati e chi possiamo essere. Ho sentito in questi anni parlare tanto di identità. Più di qualsiasi discorso sono le città la nostra identità”.


L’Aquila, dopo i discorsi l’Italia l’ha abbandonata
di Tomaso Montanari

Ieri gli storici dell’arte italiani si sono trovati all’Aquila per scuotere con forza tutte le istituzioni e ogni cittadino italiano: non ha paragone al mondo la tragedia di un simile centro monumentale (già) abitato che ancora giaccia distrutto, a quattro anni dal terremoto che l’ha devastato, e dalle scelte politiche che l'hanno condannato a una seconda morte. Dopo la migrazione di massa nelle new town imposta dalla Protezione Civile di Bertolaso e Berlusconi e passivamente subita dall'amministrazione Pd, il centro monumentale poteva morire in pace: non serviva più a nulla. Se non a resuscitarlo, con calma, per farne un parco a tema, Aquilaland.

Un destino prefigurato dall’ipotesi di parcheggi sotterranei e centri commerciali a spese del tessuto storico monumentale e abitativo. L’Aquila è oggi, suo malgrado, il simbolo della perdita di tutti gli elementi centrali della tradizione culturale italiana: il rapporto strettissimo tra città e cittadini; tra monumenti e vita politica; tra arte e spazio pubblico. Coerentemente con questo progetto distruttivo, durante i tre anni e mezzo del commissariamento berlusconiano nel centro dell'Aquila non si è tirata su nemmeno una pietra.

Da circa sei mesi , invece, è finalmente partita la più colossale campagna di restauri dell’Europa di oggi. Grazie all’ex ministro Fabrizio Barca e all'impegno di Fabrizio Magani (direttore generale dei beni culturali abruzzesi) e di tutto il personale delle soprintendenze, qualcosa finalmente si è mosso, almeno per gli edifici vincolati: 23 cantieri sono avviati, 2 stanno per esserlo, altri 25 partiranno a breve. In molti casi si tratta di luoghi simbolo: il Teatro nell’ex chiesa di San Filippo Neri (avviato con un milione e duecentomila euro raccolti dal cd “Domani”), Palazzo Ardinghelli (i primi 7 milioni vengono dal governo russo), la chiesa della distrutta cittadina di Onna, finanziata dal governo tedesco. O la meravigliosa basilica dove riposa San Bernardino, il grande predicatore senza denti che infiammava l’Italia centrale del Quattrocento contro le lobbies degli usurai e del gioco d'azzardo.

Ma è solo un timido inizio. Il centro è particolarmente esteso perché l'Aquila è una delle rarissime città fondate dai suoi stessi cittadini, e con un piano urbanistico dettagliatissimo in cui gli innumerevoli e meravigliosi spazi pubblici nascono proprio per rappresentare i tanti castelli del Comitatus Aquilanus che nel XIII secolo cercarono uno spazio comune che non fosse solo un mercato, ma una città. Di questo passo, per riavere l'Aquila com’era e dov’era bisognerà aspettare tra venti e trent’anni, ammesso che duri il flusso dei finanziamenti: un miliardo all’anno per i primi dieci anni. E già il primo miliardo appare in forse, come è apparso chiaro durante un’audizione di Barca al Senato, una settimana fa.

Anche ammesso che i fondi arrivino, diventa vitale che il restauro del centro sia progressivamente accompagnato dal ritorno degli abitanti. Non possiamo aspettare l’arco di una generazione per far trasferire gli aquilani dalle new town nelle loro vere case: bisogna immaginare una politica di incentivi che acceleri questo processo, e che faccia progressivamente rivivere il centro. Per far questo, la ricostruzione deve inserirsi in una pianificazione urbanistica governata dalla mano pubblica, e non deviata da interessi privati. Ad essa spetterà anche decidere del futuro delle new town: alcune dovranno essere abbattute, per ripristinare il paesaggio oscenamente cementificato, altre potranno forse trovare un uso proficuo, ma solo all'interno di un piano preciso.
Ma sarà possibile arrivare ad un progetto di città, in un Paese che non sembra avere un progetto su se stesso?

Morte a Venezia, 50 milioni di piedi affondano la laguna
di Michele Concina

Venezia che muore, Venezia appoggiata sul mare. È come una splendida donna ammalata. Ha occhi che incantano e capelli di seta, ma sente che le ossa s’indeboliscono giorno dopo giorno, le arterie s’intasano. Non rischia di sbriciolarsi domattina, la città unica; ma viene consumata in perpetuo, e non potrà certo resistere per sempre. Sott’acqua, la erode il moto delle onde, centuplicato da una finta modernità che ha affollato la Laguna d’imbarcazioni a propulsione meccanica, e dall’incoscienza che l’ha aperta alle colossali navi da crociera. Oltre la superficie, a logorare Venezia sono i quaranta, i cinquanta milioni di piedi che vengono ogni anno a calpestarla.

La dolce ossessione degli ultimi suoi giorni tristi, Venezia la vende ai turisti. “Questa non è più una città, semplicemente. È un parco tematico, una Disneyland di pietra e d’acqua”, spiega Gianfranco Ortalli, decente di Storia medioevale a Ca’ Foscari. Oggi i residenti sono meno di sessantamila. Soverchiati da un esercito di turisti che le stime più prudenti quantificano in 22 milioni di presenze l’anno, quando già nell’88 il Comune fissava a 12 milioni il massimo sostenibile. “La presenza abitativa, coinvolta nella manutenzione della città, è schiacciata dalla presenza turistica, dedita esclusivamente al consumo di Venezia”, accusa lo storico dell’arte Tomaso Montanari. “E la città è gestita come una risorsa non rinnovabile, da sfruttare finché dura”.

Venezia è anche un sogno, di quelli che puoi comperare. Gli osservatori di cose veneziane, anche i più arcigni, concordano su un punto: rispetto a trent’anni fa, molti palazzi sono in condizioni migliori. È il risultato paradossale di due politiche che quegli stessi osservatori condannano, la privatizzazione del patrimonio edilizio pubblico e la terziarizzazione della città. Dato che non hanno soldi per la manutenzione, le istituzioni - a cominciare dal Comune - cedono i loro immobili di pregio ai privati più ricchi, che hanno risorse per metterli a posto. E intanto consentono il cambio di destinazione d’uso degli edifici privati, che vengono restaurati per farne degli alberghi.

Venezia è un imbroglio che riempie la testa soltanto di fatalità. Ma questo arcipelago di palazzi, talvolta rutilanti, è immerso in un tessuto connettivo di strutture in disfacimento. Ponti rappezzati, rive smangiate, fondazioni indebolite, imbarcaderi marciti, canali maleodoranti, scale consunte. Basta ascoltare chi la percorre tutti i giorni, la città di uso pubblico: i 433 gondolieri. “Da almeno una decina d’anni la manutenzione va scemando di continuo”, testimonia il loro presidente, Aldo Reato. “Si fanno solo rattoppi, e neanche di buona qualità”.

Lancia i suoi segnali d’allarme, la Venezia che è di tutti e non solo di qualcuno. In autunno è venuto giù un pezzo di Riva Parisi, poco dopo i sostegni della darsena di piazza degli Alberoni, al Lido. Un mese fa i giornali locali hanno scoperto che si sbriciola il pontile di Santa Chiara e affonda in Laguna la fondamenta delle Zattere. “Colpa del moto ondoso artificiale”, è la diagnosi di Reato. Perché è quasi inimmaginabile la quantità d’acqua che mandano a infrangersi contro le antiche pietre d’Istria le attuali navi da crociera. Mostri alti sessanta metri e lunghi trecento, a cui viene consentito di transitare di fronte a San Marco, di divorare anche visivamente il Palazzo Ducale. Un sistema urbano fragile come Venezia dovrebbe respingerli con le cannoniere; invece, Comune e Autorità portuale fanno a gara perché attracchino, perché scarichino altre folle a oberare la città. “Di fronte al ricatto del denaro anche le istituzioni, prone ai voleri del dio Mercato, sembrano pronte a tutto”, tuona Salvatore Settis, lo storico dell’arte più autorevole d’Italia.

Del resto del mondo non sai più una sega, Venezia è la gente che se ne frega. Neppure la tragedia del Giglio è bastata a interdire i Godzilla del mare. Il decreto emesso un anno fa dal governo Monti vieta il transito a meno di due miglia dalle coste. Con un’unica eccezione: Venezia, che sarà tutelata solo quando qualcuno, chissà come, scoprirà “vie di navigazione praticabili alternative”.
“I veneziani di oggi sembrano decisi a fare il massimo uso del favoloso tesoro che hanno ereditato, a sfruttarlo in ogni modo”, scrive Paolo Lanapoppi, di Italia Nostra, in “Caro turista”, uno dei titoli della coraggiosa casa editrice Corte del Fontego. La zampa del Leone non appoggia più sul vangelo di san Marco, ma su un libro contabile. E sopra c’è scritto: ultimi giorni, approfittatene.


Palermo, in pezzi duecento case e i sogni di rinascita
di Enrico Fierro

Da Palermo. I balati ra Vucciria 'un s'asciucanu mai". I balati, le strade, della Vucciria non si asciugano mai. E invece, trentanove anni dopo l'opera di Renato Guttuso, quei balati sono secchi. Muto il mercato. Non si sente più il venditore di pesce spada, quello che offriva cavallino, l'altro che magnificava la bontà unica delle sue stigghiole. Scomparsi per sempre i mille colori dei venditori di verdure, dei fruttivendoli capaci di tagliare angurie gigantesche con un colpo solo di coltello, perse le meraviglie architettoniche delle piramidi di arance che i venditori componevano sui loro banchi. "Un narratore o un commediografo, davanti alla Vucciria, avrebbero materia di scrittura sino alla fine dei loro giorni", ha scritto una volta Andrea Camilleri.
Ora quel narratore sarebbe sopraffatto dalla desolazione di palazzi transennati, mura fradice di pioggia e case pericolanti dove la vita che fu è raccontata da una selva di parabole arrugginite. É il destino del centro storico di Palermo. Trecento ettari di bellezze incomparabili, stili architettonici che si sono intrecciati e contaminati per secoli, la città disegnata dagli arabi che si mescola a quella pensata dai normanni, islam e cattolicesimo. Tutto questo era il cuore di Palermo. Ferito a morte dalle guerre, ucciso da anni di cattiva politica. Il centro storico della città, scrive Laura Azzolina in "Governare Palermo: storia e sociologia di un cambiamento mancato" – è il simbolo del degrado e, peggio, del dispregio con cui era stata gestita l'edilizia dai governi Dc negli anni del sacco di Palermo, il centro storico presentava ancora agli inizi degli anni Novanta edifici cadenti e le rovine dei bombardamenti del Secondo conflitto mondiale".
Vucciria, Capo, Albergheria, il degrado è qui, basta sfogliare le cronache cittadine per leggere titoli spesso ricorrenti che raccontano di crolli e morti. E rischia di non essere finita qui, visto che le case a rischio già accertato, secondo le stime del Comune, sono più di 250. La svolta rispetto agli anni del "sacco" della città, negli anni Novanta con la Primavera di Leoluca Orlando, quando il vecchio Piano di recupero varato nel 1979 fu sostituito da un impegnativo "Piano operativo di risanamento" finanziato con 25 miliardi di lire nel primo anno, 47 nel 1987, 65 nel biennio 1988-1989 e 70 nel 1990. Dal 1993 una nuova inversione con la definizione di un Piano particolareggiato di recupero affidato agli architetti Cervellati e Benevolo.
"Fu la grande intuizione di Leoluca Orlando", dice Alberto Mangano, per anni assessore del Comune di Palermo, oggi consigliere comunale e presidente della Commissione urbanistica. "Con molte luci e tante ombre – replica Ninni Terminelli, anche lui per anni consigliere comunale e oggi animatore di "Prospettiva politica" – ma Orlando riuscì a smuovere un immobilismo che durava da anni anche con un forte collegamento con l'Unione europea. Poi, con il decennio di amministrazione del Pdl tutto si fermò. Cammarata smantellò l'ufficio Europa del Comune". L'obiettivo di Orlando era quello di riportare almeno 50mila palermitani nel cuore della città, ma dopo anni di piani e previsioni solo in 30mila vivono nel centro storico, in mille sono scappati nei dieci anni di Cammarata. "La spinta propulsiva delle prime giunte Orlando si è fermata in quel periodo", è l'analisi di Mangano.
"Operavamo utilizzando le leggi regionali e i fondi Urban della Comunità europea, l'obiettivo era quello di risanare le case di riportare al centro le attività produttive e commerciali". Furono risanate chiese, recuperato il complesso di Sant'Anna, lo Spasimo, il Noviziato dei Crociferi. Ma oggi, in un periodo di crisi e di tagli feroci ai Comuni, come si fa a continuare l'opera di risanamento? "Dobbiamo puntare all'utilizzo di un teso-retto di almeno 15 milioni avanzati da bandi degli anni passati, ed in più convincere le cooperative sociali che operano in edilizia ad investire nel recupero di palazzi e appartamenti del centro storico. É una strada obbligata in una città dove le aree da destinare all'edilizia economica e popolare sono esaurite da tempo". "I balati ra Vucciria 'un s'asciucano mai" sopravvive solo come antico detto palermitano.
La realtà, scrive la studiosa Teresa Cannarozzo, è che "il centro storico continua ad esprimere contemporaneamente valori e disvalori: elementi di eccellenza, estremo degrado, marginalità sociale ed economica; invadenza della piccola e grande criminalità; crescita esponenziale del valore commerciale degli immobili; appetiti speculativi palesi e occulti. In assenza di politiche pubbliche all’altezza della situazione".

La nostra vita ha bisogno di un Centro
di Tomaso Montanari

Per noi che viviamo nelle vecchie città italiane, è abbastanza consueto dire: «Vado in centro!». Ma provate a fermarvi con la macchina a Forth Worth, in Texas, e chiedete a un passante dov'è il centro. Vi guarderà stupito, senza capire. Infine, vi spedirà in un centro commerciale.
Cosa c'è nel centro 'storico' delle nostre città? Ci sono i luoghi di tutti, quello che si chiamano gli «spazi pubblici»: la piazza, il palazzo del Comune (cioè comune, di tutti), la fontana, la chiesa. Quando fu fondata l'Aquila (quasi ottocento anni fa), lo Statuto comunale diceva che i singoli cittadini dei vari quartieri potevano farsi la casa, solo dopo aver costruito piazza, chiesa e fontana: le cose di tutti venivano prima delle cose private.

Ed erano più belle. Oggi sembra tutto il contrario: sembra che alle cose di tutti non ci teniamo tanto, come se fossero di nessuno. Ma se ci pensate passiamo una gran parte della nostra vita nei 'centri' comuni: a scuola, sui mezzi pubblici, per strada. Allora può servire tornare a conoscere i 'centri' costruiti dai nostri padri. Noi pensiamo che le opere d'arte siano dei singoli gioielli che possiamo trasportare dove vogliamo. Ma i centri storici sono delle vere e proprie opere d'arte: più preziose della somma delle singole opere d'arte che contengono. Perché sono degli organismi viventi, dei libri da sfogliare, dei depositi di memoria: e sono anche abitati.

Prendiamone uno meraviglioso, dove sono tornato pochi giorni fa: San Martino al Cimino, in cui (come accade ancora spesso) paese e centro coincidono. È a pochissimi chilometri da Viterbo, dopo l'ospedale (che è invece brutto in un modo terrificante: un enorme muraglia di cemento che spaccia un colle e un paesaggio). Nell'Europa del Medioevo (forse più unita della nostra) San Martino nasce intorno ad un pezzo di Francia piantato nella Tuscia: un'abbazia dei cistercensi di Pontigny. Ma il momento d'oro del borgo è il Seicento quando la cognata di papa Innocenzo X, Donna Olimpia Pamphilj, ne diventa principessa. La Pimpaccia (così la chiamavano i romani) non era proprio uno stinco di santo, ma porta a San Martino le migliori menti dell'arte romana: e il paese si trasforma in una specie di enorme Piazza Navona sperduta in campagna, con le sue fontane, le sue scale, il gigantesco palazzo Pamphili.

E, certo, va vista l'abbazia con ognuno dei suoi capitelli, va visto il meraviglioso stendardo di Mattia Preti e molto altro ancora: ma a parlare davvero è ogni pietra, ogni grata, ogni getto d'acqua. Come tanti strumenti in un'orchestra.In questa primavera, fatevi portare dai vostri genitori ad ascoltare quelle strepitose orchestre che sono i nostri centri storici.

Corriere della Sera, 29 aprile 2013, con postilla

Riuscirà il nuovo ministro a far convivere Raffaello e Mr. Tourist? La sfida che ha davanti Massimo Bray, il primo ministro dei Beni culturali e del Turismo della nostra storia, è da brividi. Ma va vinta. Per troppo tempo, infatti, la sacrosanta tutela dei nostri tesori d'arte e la gestione (meglio: mala-gestione) delle nostre potenzialità turistiche sono state tenute rigorosamente separate. Contrapposte. Come se l'una escludesse l'altra. Peggio: come se l'una fosse nemica acerrima dell'altra.

Se il direttore editoriale dell'enciclopedia Treccani e della rivista dalemiana Italianieuropei, nonché anima della fondazione «Notte della Taranta», sarà all'altezza del compito è tutto da vedere. E anche se non mancano i plausi per la scelta sorprendente, non è solo Ernesto Galli della Loggia ad avere perplessità. Auguri. Sinceri. A lui e agli italiani, troppe volte delusi dal modo in cui i big politici hanno snobbato questi ministeri, visti come secondari rispetto a quelli «di serie A». L'unione di Beni culturali e Turismo (magari con l'aggiunta del dicastero dell'Ambiente e del paesaggio, come proponeva il Corriere) proprio a questo dovrebbe servire: a dare al titolare di questi settori la possibilità di avere una visione d'insieme. E più ancora la statura, l'energia e il peso politico per battere i pugni sul tavolo in Consiglio dei ministri spiegando anche ai più sordi quanto sostengono non vecchie gentildonne amanti delle belle arti ma lo stesso Sole 24 Ore, il giornale di Confindustria.

E cioè che perfino i grandi progetti come il ponte sullo Stretto «presentano moltiplicatori di reddito inferiori a quelli evidenziati dai progetti culturali: due volte contro 4-5 volte». Il piano industriale del nuovo Louvre nell'area degradata di Lens prevede che i soldi investiti ne fruttino sette volte tanti. Quelli stanziati per il Guggenheim di Bilbao, dice un rapporto Ue, si sono moltiplicati in soli 7 anni per 18.

Sia chiaro: il primo compito di un ministro dei Beni culturali italiani non può che essere la conservazione e la tutela di quel patrimonio straordinario che abbiamo (forse immeritatamente) ereditato e che conserviamo spesso con una sciatteria e un'avarizia che gridano vendetta. E certo vanno evitate come la peste follie stile Las Vegas come la costruzione d'una Pompei virtuale accanto alle rovine archeologiche abbandonate al degrado o gli spot coi Bronzi di Riace che scappano dal museo per andare in spiaggia o la realizzazione di una finta città greca coi finti templi e la finta agorà e perfino un finto Davide di Michelangelo previsti dal progetto «Europaradiso» a Crotone. Alla larga.

Una miriade di esempi virtuosi sparsi per il mondo, però, ci dicono che è possibile conciliare il rispetto, la cura e la tutela dei tesori d'arte con una gestione agile, accorta, lungimirante e redditizia di quello che sta affermandosi come il grande affare del terzo millennio. Spiega la Ue (comunicazione 352/2010) che il turismo è «la terza maggiore attività socioeconomica europea, dopo il settore del commercio e della distribuzione e quello della costruzione. Se si considerano i settori attinenti, il contributo del turismo al Prodotto interno lordo risulta ancora più elevato: si ritiene, infatti, che sia all'origine di più del 10% del Pil dell'Unione Europea e che fornisca circa il 12% dell'occupazione totale».

È in enorme espansione, il turismo mondiale. L'anno scorso, i viaggiatori che hanno fatto una vacanza all'estero hanno superato per la prima volta il miliardo. E noi, che nel 1970 eravamo la prima destinazione del pianeta e oggi stiamo malinconicamente al quinto posto dietro Francia, Spagna, Stati Uniti e Cina, stiamo sprecando un'occasione storica. Basti dire che, come ricorda Silvia Angeloni in «Destination Italy», secondo il «Country Brand Index 2012-2013» elaborato da FutureBrand su 118 Paesi, il «marchio» Italia è il primo al mondo per «l'attrattività legata alla cultura», il primo per il cibo, il terzo per lo shopping e nel complesso rappresenta «la prima destinazione dove i turisti vorrebbero andare». Eppure nella classifica finale, a causa di molti altri fattori come il rapporto qualità-prezzo, siamo solo quindicesimi. Di più: pur avendo l'Italia più siti Unesco (47) di tutti, spiega uno studio PricewaterhouseCoopers che se noi ricaviamo dai nostri 100, Spagna e Brasile ricavano dei loro 130, la Gran Bretagna 180, la Germania 184, la Francia 190, la Cina addirittura 270. Il triplo.

Sapete quanti italiani sono occupati nel turismo in senso stretto? Ce lo dice il World Travel & Tourism Council: 869 mila, sette volte e mezzo più degli addetti della chimica. Se calcoliamo anche l'indotto 2.231.000, cioè mezzo milione in più di tutta la metalmeccanica. Eppure, la cultura e il turismo sono rimasti per anni ai margini degli interessi di tutti i governi. E ognuno si è arrangiato per conto proprio. Regione per regione, campanile per campanile. Senza un minimo di visione più larga. Come se proprio la cultura e il turismo non fossero le nostre grandi ricchezze.

Postilla

Vorremmo che Gianantonio Stella, tenace autore di argomentate denunce della mercificazione del territorio in nome del trionfo del cemento, riflettesse con uguale attenzione critica al connubio tra turismo ed economia. Enfatizzare il ruolo economico della fruizione dei beni culturali, nell’ambito dell’attuale economia (quella capitalistica) e in una fase in cui economia e politica sono alleate nella ricerca del maggiore vantaggio economico nel più breve termine è cosa molto pericolosa. Assomiglia molto a quella visione dei patrimoni comuni che Gianni De Michelis, fedele e intelligente ministro di Bettino Craxi aveva battezzato giacimenti culturali. Una visione che su questo sito abbiamo fin dal giorno della sua invenzione. Il rapporto tra turismo ed economia può essere configurato correttamente solo se visto in una visione che sia fondata sul primato del valor d’uso sul valore di scambio, e sulla sostituzioe del termine “valorizzazione” con l’espressione “messa in valore delle qualità dei beni, quindi priorità della loro conservazione: “beni” culturali, quindi, non “merci”.

Nella rubrica di Corrado Augias, la Repubblica, 18 aprile 2013

Salvatore Settis

Caro Augias, nella sua rubrica di martedì scorso, Massimo Gargiulo mi attribuisce l’opinione che sia giusto dare le opere d’arte dei nostri musei in affitto ai privati. Ho ripetutamente preso posizione contro questa idea. Essa sarebbe, infatti, contraria alla legge (e dio solo sa quanto l’Italia abbia bisogno di legalità), ma anche contro la Costituzione, che all’art. 9 incardina la tutela del patrimonio sulla sovranità popolare e sui diritti fondamentali dei cittadini (libertà, giustizia, eguaglianza). Questi valori non hanno il cartellino del prezzo. Donazioni private ai musei (senza fini di lucro) sono le benvenute, ma non sollevano le istituzioni pubbliche dal loro dovere di tutela. Come ha scritto Adriano Olivetti, «chi opera secondo giustizia opera bene e apre la strada al progresso. Chi opera secondo carità segue l’impulso del cuore e fa altrettanto bene, ma non elimina le cause del male che trovano luogo nell’umana ingiustizia». La tutela «secondo giustizia», obbligata dallo statuto costituzionale dei beni culturali, è stata tradita dai recenti governi, che hanno devastato il Ministero con tagli dissennati. Ma questo non vuol dire che bisogna rinunciarvi, né che la «carità» possa prendere il posto della giustizia.

Corrado Augias
Ho chiesto al prof Gargiulo come possa essersi creato l’equivoco sulle opinioni di Settis. Ha risposto, rammaricato, che in una sua precedente lettera da noi pubblicata si trovava d’accordo con Settis: «Che solamente un grande patto nazionale fra soggetti diversi, dallo Stato ai privati, può invertire la tendenza che ha portato a bilanci sempre più esigui e Soprintendenze al collasso». Aggiunge Gargiulo: «Salvatore Settis incentra soprattutto su donazioni incentivate fiscalmente la realizzazione di un grande patto nazionale fra soggetti diversi, dallo Stato ai privati. Non sottovaluto i possibili risultati di una tale proposta, ma li giudico insufficienti, soprattutto in un periodo di crisi. Vedo nell’affitto dei beni che giacciono nei magazzini una possibilità in
più per i musei per offrirsi al pubblico, inventarsi iniziative, vivacizzare l’attività». Replica Settis: «Non vedo questi vantaggi anche perché ogni opera dovrebbe essere comunque seguita dai nostri funzionari (e ce ne sono sempre meno), i costi della sorveglianza renderebbero proibitivo qualsiasi esperimento (peraltro vietato dalle leggi). Anche nel meno organizzato dei nostri depositi, c’è comunque un controllo climatico, dell’umidità, etc.: come facciamo a controllare tutti i singoli salotti-bene dove i quadri finirebbero con l’essere esposti? L’affitto sarebbe solo l’anticamera della vendita. Sono palliativi, per coprire l’oscena ferita di un patrimonio sempre più abbandonato dallo Stato (di questi anni)»

toto oeconomicus: in realtà è un passo indietro rispetto alla Costituzione, un atto della lotta di classe. Il Fatto quotidiano online, 16 aprile 2013

Tra le perle contenute nell’agenda economica prodotta dal collegio di cervelli nominati da Napolitano c’è anche questa ideona: «Allo scopo di moltiplicare i luoghi in cui rendere accessibile il patrimonio culturale disponibile, si potrebbero sperimentare forme di prestito oneroso ai privati … di parte delle opere attualmente chiuse nei magazzini, così da finanziare con il ricavato attività e gestione dei musei esistenti».

Non è una novità: la stessa proposta era contenuta in un disegno di legge presentato il 22 giugno 2010 da un certo Domenico Scilipoti. In compenso è una genialata perfettamente bipartisan, visto che era contenuta anche nel programma di Laura Puppato per le Primarie poi vinte da Bersani: «Altra proposta dissacrante è l’utilizzazione intelligente delle opere d’arte e dei reperti archeologici custoditi nei magazzini dei musei e che non vengono esposti per mancanza di spazio. Si potrebbe affidarli a fronte di adeguato compenso, in locazione ad organizzazioni private che ne curerebbero l’esibizione al pubblico, oppure con apposita convenzione affidarli a enti, istituzioni, fonti termali e alberghi affinché ne curino l’esposizione».

Chi avanza proposte del genere dimostra di non avere neanche la più pallida idea di che cosa sia il nostro patrimonio. Che non ha bisogno di «moltiplicare i luoghi» di fruizione (che andrebbero semmai razionalizzati, e forse diminuiti), perché è già iper capillarmente diffuso sul territorio. Sviati dal modello americano, la nostra percezione è invece museo-centrica: pensiamo di salvare il patrimonio trasformando i grandi musei in fondazioni, e ci preoccupiamo per le opere conservate nei depositi. Ma la percentuale di arte musealizzata è minima, ed è quella più al sicuro. E non c’è nulla di scandaloso nel fatto che i musei abbiano depositi: che non sono magazzini, e tantomeno scantinati umidi, o soffitte polverose, ma sono polmoni attraverso cui il percorso espositivo del museo ‘respira’.

Ma andiamo al cuore del problema: è sensato mettere a reddito il patrimonio, per esempio noleggiando le opere d’arte pubbliche ai privati? Io credo di no. Nel 1948 la Costituzione ha spaccato in due la storia dell’arte italiana, assegnando al patrimonio storico e artistico della Nazione una missione nuova al servizio del nuovo sovrano, il popolo. La storia dell’arte è in grande parte la storia dell’autorappresentazione delle classe dominanti, e per un lungo tratto i suoi monumenti sono stati costruiti con denaro sottratto all’interesse comune. Ma la Costituzione ha redento questa storia: le ha dato un senso di lettura radicalmente nuovo. Il patrimonio artistico è divenuto un luogo dei diritti della persona, una leva di costruzione dell’eguaglianza, un mezzo per includere coloro che erano sempre stati sottomessi ed espropriati.

Ma se noi torniamo a rimettere quel patrimonio nelle mani dei ricchi, se lo privatizziamo, se lo riduciamo ad un’attrezzeria scenica da noleggiare a pagamento, ebbene prendiamo il progetto della Costituzione e lo buttiamo nel cesso. Del resto lo facciamo già: in questi giorni le piazze e i monumenti di Firenze sono, per esempio, privatizzati da un miliardario indiano che ha noleggiato (per un tozzo di pane) mezza città come una location di stralusso in cui organizzare il proprio matrimonio. E il Comune è felicissimo: è l’occasione perfetta per una città il cui unico progetto sul futuro è lo sciacallaggio del passato. Il modello è la Venezia di Cacciari & c., insomma: la conversione della città in un luna park a gettone.

Allora cosa fare, dove trovare i soldi? Partiamo dai numeri. L’Italia spende in cultura l’1,1% del Pil,la metà della media europea (2,2%). Per l’anno in corso saranno tolti altri sessanta milioni alla tutela e alla valorizzazione dei beni storici e artistici, che già cadono a pezzi. L’intero bilancio del Ministero per i Beni culturali (già dimezzato da Bondi e Berlusconi) sarà ulteriormente tagliato, arrivando a un miliardo e 589 milioni di euro. Il patrimonio recentemente sequestrato ad un singolo imprenditore dell’eolico accusato (tra l’altro) di aver devastato il paesaggio italiano è pari a un miliardo e 300 milioni: cioè, noi difendiamo il paesaggio e il patrimonio di tutti con gli stessi soldi messi in campo da uno solo tra le sue migliaia di nemici!

Dove trovarli, dunque, questi soldi? L’Italia ha l’evasione fiscale più grande del mondo: peggio di noi solo la Turchia e il Messico. Con il 2,5 % dell’evasione annuale italiana (che ammonta a 150 miliardi di euro) il patrimonio si potrebbe mantenere sontuosamente: senza regalarlo a speculatori privati, senza ricorrere alla beneficenza, senza ridurci ad avidi usufruttuari del passato.

Ma è molto più facile trattare le opere d’arte come orsi ballerini che si aggirano nei cocktail col piattino delle offerte tra le zampe: e non importa se questo significa umiliarle fino a privarle di quei poteri di umanizzazione, liberazione morale ed educazione intellettuale che le rendono presenze uniche ed insostituibili nella nostra vita spirituale.

Un suggerimento per i saggi del Quirinale: ora che il presidente Napolitano va in pensione, perché non noleggiarlo a pagamento per impreziosire le serate dei vip e ripianare i conti dello Stato?

Corriere della Sera, 8 aprile 2013, postilla (f.b.)

CASERTA — Non si fa in tempo ad arrivare alla Reggia di Caserta: le indicazioni per il parcheggio sembrano fatte apposta per scoraggiare i turisti. Sono tutte sbagliate. Ti fanno girare in tondo. Ti fanno passare la voglia della visita. E, alla fine devono essere riuscite a farla passare davvero, perlomeno a giudicare dalle cifre: da 12 anni a questa parte la Reggia di Caserta perde ogni anno oltre 50 mila visitatori. Se riusciamo ad uscire dal parcheggio (dribblando le scale mobili rotte) non sarà difficile capire il motivo.

Benvenuti nella meraviglia Vanvitelliana. L'Unesco l'ha dichiarata patrimonio dell'Umanità nel 1997. E da quel momento la dimora che i Borboni vollero come il cuore del regno di Napoli ce l'ha messa tutta per perdere di prestigio e di credibilità. Ci siete mai stati dentro la Reggia di Caserta? Avete percorso per intero il vialone che attraversa il meraviglioso parco, costeggia le fontane, arriva a quello spettacolo mitologico che è la fontana di Diana e Atteone?

Giovedì scorso avreste visto una masnada di ragazzini tuffarsi in mezzo ai marmi di quel celebre gruppo scultoreo della fontana, come fossero stati in mare aperto. Si sono arrampicati sul Torrione, ovvero la parte terminale dell'acquedotto, e nessuno ha saputo come fermare quell'orda barbarica.
Nessuno, del resto, ogni giorno pensa che sarebbe il momento di arrestare il traffico delle automobili che sfilano lungo il viale tra le biciclette e le carrozzelle, e non sono certo soltanto le auto dei custodi, perché a giudicare dalla frequenza delle macchine che tagliano il parco, la Reggia sarebbe il luogo più controllato del mondo.

Non è un luogo controllato la Reggia, a dispetto della miriadi di uffici militari e di carabinieri che hanno occupato una parte del palazzo. Non lo è. E basta vedere la sequela di venditori abusivi che affollano il viale prima, e i cortili poi, e si infilano persino dentro le stanze degli appartamenti. Vendono guide taroccate e tarocchi della felicità, ombrelli, palloncini, biglietti per i ristoranti, persino numeri da giocare al lotto. Ormai fanno parte dell'arredamento.

Come, del resto, stanno diventando parte della Reggia quelle recinzioni in alluminio. Era il 5 ottobre scorso quando cadde dal cornicione un capitello, evitando miracolosamente i turisti. Una settimana prima era venuto giù un timpano. E da quel momento le recinzioni di alluminio sono state messe attorno alla facciata esterna, ma anche dentro tutti e quattro i cortili interni. Le impalcature per fare i lavori sono state montate da poco, cioè dopo quasi sette mesi dai crolli, e fino adesso sono servite soltanto a porsi un interrogativo: si sono arrampicati lungo quei tubi lì i ladri che sono saliti sul tetto a rubarsi il rame della gabbia di Faraday, ovvero il parafulmine della Reggia? Già, hanno rubato la gabbia di Faraday, senza che nessuno se ne accorgesse. Del resto i sistemi di allarmi sono precari da quando i fondi sono stati tagliati e alla Reggia deve essere difficile persino comprare la carta igienica, almeno a valutare dai bagni.

Benvenuti nella meraviglia Vanvitelliana dove c'è un gioiello chiamato Teatro della Corte, chiuso al pubblico da oltre dieci anni per problemi con le uscite di sicurezza, o forse per mancanza di personale, nessuno lo sa dire con precisione. Benvenuti alla Reggia. Tornando indietro dalla fontana di Diana e Atteone avrete visto la fontana di Venere e Adone e le dodici cascatelle ricoperte dai muschi e da parecchia immondizia. Vi sarete chiesti perché nel criptoparco dello spettacolare giardino all'inglese nessuno si sia mai occupato di pulire le statue divorate dalla muffa. Vorreste ricrearvi con la visione degli appartamenti e la bellezza in effetti non manca a filare per le Sale Reali e l'importante è non abbassare gli occhi a terra: i pavimenti sono sbeccati, distrutti, devastatati da enormi macchie rosse come quelle nella sala della Primavera, dell'Estate, dell'Autunno. E questo perché?

Perché nonostante il crollo, ci sono ancora una media di millecinquecento persone che ogni giorno vengono a visitare la Reggia di Caserta e i loro passi non fanno bene a pavimenti settecenteschi che un tempo erano protetti e i visitatori camminavano sopra le guide. Ma un giorno, una decina di anni fa, è arrivato un sovrintendente e ha detto: via tutte le guide. Nessuno ha più pensato di rimetterle.

Postilla

Ascoltando qualche anno fa alla Scuola di Eddyburg di Asolo - altro luogo minacciato da analoghe prospettive distorte - l'intervento di Maria Carmela Caiola su Caserta, poi pubblicato su Spazio Pubblico, emergeva tra l'altro come in assenza di un approccio adeguato e contestuale, la Reggia finisse per svolgere ruoli che non le erano propri, diventando anche vittima di un eccesso di pressione dovuto all'assenza di altri spazi. Il racconto del Corriere ce ne segnala alcuni piccoli casi: certo esistono malcostume e disorganizzazione, ma c'è soprattutto un bene culturale che si trova a fungere da tutt'altro, e si logora irrimediabilmente nel farlo. Forse è davvero convinzione collettiva che, come diceva quel genio di Tremonti la cultura non si mangia, ed è ovvio che la si consideri così, fuori da un contesto in cui non riesce a “fare il suo mestiere” oberata da altri ruoli, come quello di unico sfogo per voglie di tempo libero, piccoli appetiti corporativi e simili. Solo all'interno di un'idea innovativa e organica di territorio, società, città e sviluppo, si possono contestualizzare e presumibilmente risolvere questioni del genere, e poi forse iniziare eventualmente a gridare contro malcostume e sprechi (f.b.)

Corriere della Sera, 18 marzo 2013 (f.b.)

Ottanta mini isole per i rifiuti, shopper biodegradabili e totem informativi con aneddoti e curiosità in latino. Saranno installate nell'area degli Scavi archeologici di Pompei e nel Parco nazionale del Vesuvio. Gli slogan, multilingue, sono del tipo: «Hospitum discrimina, barbarorum incuria», «La differenziata è dell'ospite, l'indifferenziata del barbaro», «Don't Be a Barbarian Civilize Guests Recycle». Per il ministro dell'Ambiente Corrado Clini «avviare la raccolta differenziata negli Scavi di Pompei significa rilanciare l'immagine della Campania nel mondo». Superfluo dire quanto sia importante la raccolta differenziata: e ancor più superfluo insistere sull'importanza che essa dovrebbe assumere in luoghi come il sito archeologico di Pompei, frequentati da ben due milioni e mezzo di visitatori all'anno.

Non può essere che positiva, dunque, la prima reazione all'iniziativa del Conai di realizzare un progetto di potenziamento del riciclo che coinvolge, accanto al sito archeologico, il Parco nazionale del Vesuvio con i suoi ulteriori 500.000 visitatori. Un progetto articolato e complesso, che prevede la costituzione di ottanta mini isole per i rifiuti, shopper biodegradabili, buste «compostabili» per contenere i propri rifiuti da deporre, al termine della visita, in appositi contenitori... Ma il problema è che questo non è tutto. Il problema sta, come spesso accade, nella «comunicazione», vale a dire negli incentivi che dovrebbero invogliare i visitatori a rispettare le regole: per cominciare, lo slogan della campagna. Ahimè in latino: hospitum discrimina, barbarorum incuria (la differenziata è dell'ospite, l'indifferenziata del barbaro).

Inizia qui, con questo dotto monito, quello che a mio giudizio rischia di essere il potenziamento di una tendenza già fin troppo visibile a Pompei, vale a dire la «Disneylandizzazione». Alla quale, temo fortemente, contribuiranno non poco i totem installati lungo gli scavi e il parco, con messaggi a loro volta intesi a invogliare alla differenziata, rappresentati da aforismi latini famosi: ignorantia legis non excusat, ad esempio (l'ignoranza della legge non scusa), oppure carpe diem (cogli l'attimo). Brevissima parentesi: come interpreterà questo invito il turista? Come la concessione a gettare i rifiuti nel primo posto che gli capita a tiro?

Ma torniamo all'effetto Disneyland: Pompei è ormai piena di cartelli, avvisi, superfetazioni di ogni genere che la privano di quella che, come tutti sanno, è la sua unicità: solo Pompei consente al visitatore un viaggio nel tempo, un sogno, un momento di astrazione della realtà... Pompei è una città antica vera, non una falsa città antica, come la moda delle inserzioni, dei totem, delle scritte (peggio ancora se in latino maccheronico) tendono a trasformarla. Per non parlare di una seconda, non meno grave causa di sofferenza: pensare — come è inevitabile fare — alla differenza tra i costi di simili operazioni e la mancanza di fondi destinati alla manutenzione del sito.

Corriere della Sera, 4 febbraio 2013 (f.b.)

LONDRA — L'asfalto di un parcheggio aveva inghiottito l'ultimo Plantageneto. Quel re usurpatore e sanguinario era lì sotto, a Leicester, dimenticato da oltre cinque secoli. Le ossa ancora intatte, con i segni sul cranio dell'ultima battaglia, la spina dorsale incurvata. Shakespeare a Riccardo III aveva dedicato un capolavoro teatrale: «Ho tramato complotti di ogni genere / ho iniettato negli animi il veleno con profezie, calunnie, fantasie / per seminare mortale inimicizia». E con poche parole all'inizio del primo atto, recitate dallo stesso monarca-protagonista, ne aveva dato una magistrale descrizione. Qual è stata la sua sorte?

Riccardo III entrato nella storia inglese con una pessima fama. Sparito. Ritrovato per caso. L'università di Leicester ormai è certa, il margine di errore è ridotto al lumicino. Oggi diranno pubblicamente e definitivamente che lo scheletro scoperto all'inizio dello scorso settembre è proprio di Riccardo III, undicesimo figlio del duca di York, capitolo finale della casata sconfitta dai Tudor. Gli esami del Dna hanno dato il loro responso. La scienza ha consentito di prelevare un campione genetico dai resti e di metterlo a confronto con il profilo di un mobiliere canadese residente a Londra, Michael Ibsen, diretto discendente di Anna di York, sorella di Riccardo III. «Ormai, lo possiamo dire, al 99,9 per cento, è proprio lui», ha confidato al Sunday Times Philippa Langley, membro della «Richard III Society».
Quando, nel 2012, gli archeologi chiesero il permesso di scavare nel centro di Leicester, città che è nel cuore dell'Inghilterra, pensavano ad altro. Non al Plantageneto cresciuto nello Yorkshire, divenuto duca di Gloucester, incoronato il 6 luglio 1483 a Westminster. Pensavano piuttosto di andare alla ricerca di un antico convento distrutto nel Cinquecento, volevano e ne erano sicuri che saltassero fuori le fondamenta della chiesa francescana. Ma è accaduto il più classico degli imprevisti. Buttando all'aria la colata di cemento e scavando un po' hanno visto quello scheletro con i segni evidenti di una sofferenza spinale, con i segni di una lama conficcata in un gamba e con il cranio che mostrava l'affossamento per un colpo ricevuto.

Era morto in battaglia Riccardo III, la battaglia di Bosworth Field il 22 agosto 1485 contro l'esercito dei Lancaster guidato da Enrico Tudor. Il futuro Enrico VII. Che fossero proprio di Riccardo III le ossa intrappolate nella terra per cinque e più secoli sotto il parcheggio? Da almeno tre anni gli archeologi dell'università di Leicester sostenevano che sarebbe stato possibile rinvenire le testimonianze dello scontro armato fra l'ultimo degli York e il primo dei Tudor. E che forse anche i resti di Riccardo III erano lì, nonostante dalle tradizioni arrivasse il racconto delle spoglie fatte bruciare da Enrico VII. Avevano ragione?
Gli esami del Dna, pur lasciando una lievissima porta aperta al dubbio, sciolgono il giallo: lo scheletro è di Riccardo III. Non che tutti siano d'accordo. Ad esempio il professor Mark Horton dell'università di Bristol è scettico: «Il Dna non è la panacea che risolve i misteri storici». E non si fida. Più sicuro Mike Pitts del «Council for British Archeology» che al Guardian dichiara: «I test scientifici aggiunti alle evidenze storiche offrono risposte attendibili». Il dibattito è aperto.
Poi, c'è chi già invoca solenni funerali di Stato per quelle ossa. Li chiede il parlamentare conservatore Chris Skidmore. Forse troppo entusiasta della scoperta. Ma è certo che, una volta superate le diatribe accademiche, Riccardo III troverà degna tumulazione: sarà nella cattedrale di Leicester, proprio di fronte al parcheggio che lo ha tenuto sepolto dal 1485.

A venti giorni da un voto nazionale e regionale importantissimo che può chiudere un ventennio di berlusconismo distruttivo per la cultura e per l’identità nazionale, un ventennio di inquinamento profondo dei pozzi dei saperi fondamentali e di esaltazione provinciale dell’individualismo più becero, bisogna con maggior forza far entrare nel dibattito politico la “ricostruzione” della cultura italiana in ogni ambito. Essa è la leva forte per uscire dall’orrendo pantano in cui il Paese è stato cacciato, per una sua effettiva, durevole rinascita internazionale. Su questo punto altamente strategico il governo Monti purtroppo non è servito ad invertire la spinta berlusconiana verso un degradante declino. Anzi, il ministro Lorenzo Ornaghi è stato, per negatività, pari se non peggiore dei predecessori Galan e Bondi. Il budget del Ministero, già modesto rispetto ai Paesi sviluppati, è stato ancora tagliato con l’accetta: del 40 % nell’ultimo decennio. Per la parte riguardante la cultura la stessa Agenda Monti si è rivelata di una pochezza, di una banalità disarmanti confondendo cultura e turismo.

Il compito strategico di risollevare la cultura in generale e di farne, con la ricerca, la leva essenziale della rinascita generale del Paese spetta dunque al centrosinistra, alla sinistra, spetta al Partito Democratico anzitutto e al suo alleato Sel, a quanti sostengono questo blocco riformatore. Ma nel dibattito elettorale ciò si avverte ancora troppo poco rispetto al disastro in cui siamo precipitati: con archivi e biblioteche (eccezionali per storia e dotazione) ridotti a luoghi spenti e disertati, oggetto di autentiche ruberie come la vicenda dei Girolamini documenta, con grandi musei, alcuni da poco finiti di restaurare splendidamente, che lottano per rimanere aperti come devono, con la rete essenziale dei musei civici che rischia di sfibrarsi, con la didattica in generale, a partire da quella museale, azzerata, con Soprintendenze che non hanno mezzi né personale tecnico per garantire una vera tutela del patrimonio aggredito da ogni parte, specie nel paesaggio sfigurato e nei centri storici oggetto di nuovi insidiosi assalti. Mentre il Paese frana e smotta ad ogni pioggia appena battente, avendo anche in questo caso disossato le Autorità pubbliche, mentre la Lega Nord proponeva di gestire tragicomicamente regione per regione persino il Po e il centrodestra non istituiva le Autorità di Distretto votate in Europa. O si faceva avanzare lo smembramento, allo stesso barbaro modo, di Parchi Nazionali come Stelvio e Gran Paradiso, e si lasciavano gli altri Parchi in una condizione di indigenza che vuol dire impotenza contro speculatori edilizi, bracconieri, cacciatori, disboscatori, ecc.

Il Malpaese rischia dunque di sopraffare il Belpaese e anche gli appelli – come quello recentissimo per l’alluvione di Sibari (e parlo di Sibari, tesoro archeologico) – rischiano ormai di cadere nel vuoto, di non venire raccolti da una stampa sorda e dalla stessa Rai che ha cancellato le trasmissioni culturali o le ha relegate a notte fonda oppure all’ora dei pasti, se va bene. A Appiattita dunque sui peggiori modelli della tv commerciale.

Nell’era berlusconiana, proseguita, come una inarrestabile “onda nera”, anche col governo dei tecnici, si sono tagliati i viveri di sopravvivenza al cinema, pericolante e però sempre creativo, al teatro, che pure continuava a conquistare spettatori, alla musica di ogni genere, dal gregoriano al jazz, alle avanguardie. Certo che in passato vi sono stati, specie negli ex Enti lirici, sprechi, rendite parassitarie e ve ne sono ancora. Ma non è così che si interviene su un corpo malato se lo si vuole, se lo si deve curare. E lo si deve perché cinema, teatro, musica, balletto, arte, paesaggio sono o erano la nostra grande forza. Coi tagli lineari alla Tremonti si sono letteralmente amputate parti del corpo vivo della cultura. Il taglio dei trasferimenti erariali ha spinto i Comuni da un lato a schiacciare l’acceleratore dell’edilizia speculativa pur di fare cassa (senza curarsi dell’impatto orrendo sui paesaggi), dall’altro a ridurre l’attività culturale decentrata, a spegnere le luci di teatri storici restaurati e di moderne sale da musica e da prosa, con effetti a cascata di incalcolabile gravità.

Mille altre cose vi sarebbero da denunciare e quindi da proporre. Ma qui mi fermo, sottolineando soltanto come la formidabile “rete” dei nostri parchi e paesaggi, dei nostri quattromila musei, delle duemila aree archeologiche, delle centomila chiese, dei quarantamila castelli e torri, dei ventimila centri storici, di migliaia di biblioteche antiche e di decine di migliaia di archivi ecclesiastici e civili, degli ottocento teatri storici e di tanto altro ancora sia la nostra identità storica e sia anche, se tutelata adeguatamente, se fatta vivere decorosamente, gran parte dell’attrattiva turistica. Di oggi e ancor più di domani.

Eppure si calcola che il sistema produttivo della cultura occupi quasi 1 milione e mezzo di addetti. Perché il centrosinistra, la sinistra, il Pd non rilancia – a partire dall’”Unità” - una grande, generosa, illuminata battaglia per la Cultura come la madre di tutte le battaglie, anche del lavoro e dell’occupazione qualificata?

Il Fatto Quotidiano on-line, 2 febbraio 2013 (m.p.g.)
Qualche giorno fa Ernesto Galli Della Loggia e Roberto Esposito hanno proposto di cambiare il nome e la missione del Ministero dei Beni culturali in quelli di «Ministero della Cultura».
Proprio ciò di cui c’è bisogno, no?
Tra gli entusiasti plaudenti, si segnala il noto archeologo Andrea Carandini, che ha sobriamente dichiarato: «Questa ipotesi è verosimile solo a un patto: che un nuovo governo dimentichi le tristi vicende di un Ministero dei Beni culturali ormai morto, e sposi una concezione della cultura come ingrediente caratterizzante qualsiasi produzione legata al marchio Italia» (Corriere della sera, 26 gennaio 2013).

Il ‘marchio Italia’: ecco un’idea originale. Proprio quello che ci aspettiamo da un intellettuale: asservire la cultura all’onnipotenza del mercato.
Ma da tempo Carandini è un ardente sostenitore della privatizzazione del patrimonio storico e artistico della nazione: perfettamente in sintonia con il programma di Ilaria Borletti Buitoni, l’ex presidente del Fai che Mario Monti ha voluto capolista in Lombardia perché secondo lui rappresenterebbe «un’eccellenza nella conservazione dei Beni Culturali» (Corriere della sera, 1° febbraio 2013). Non uno storico dell’arte, un soprintendente, un archeologo: ma una gentile ed edificante dama della carità. Charity e Brand Italia: un binomio perfetto.

E infatti, notizia del 1° febbraio (sempre il «Corriere»), Andrea Carandini è in pole position per succedere alla signora Borletti Buitoni alla presidenza del Fai.

Un ammirevole caso di ripensamento, visto ciò che, nel 2000, Carandini scriveva della fondatrice del Fai, l’affascinante e carismatica Giulia Maria Crespi: «Giulia Maria Crespi, breve incontro. Ho incontrato a una cena Giulia Crespi. Walter Veltroni l’ha nominata nel Consiglio Nazionale dei Beni Culturali, immagino in quanto presidente del FAI. “Chi è lei? – mi ha chiesto – e io: Andrea Carandini, nipote di Luigi Albertini”. Ha capito subito, avendo contribuito i Crespi a far fuori Albertini da il ‘Corriere della Sera’, che era stato lui a creare come grande giornale nazionale. Ho pensato, quella sera, a quanto aveva sofferto mio nonno per quel nome, che ora davanti a me sentenziava nel suo esponente attuale. A un certo punto ho parlato della legge 1089 e del problema che manca ad esso un regolamento … A quel punto lei mi suggerisce: “Mi scriva, la prego, sull’argomento…” Ho cercato di spiegare alla signora che la cosa era semplice, e non abbisognava di petizione alcuna. Poi lei candidamente: “Mi dica Carandini, cosa è la 1089?”, che è una debolezza per un consigliere nazionale dei beni culturali. … Sì, una patina di borghesia la vedevo depositata sul suo volto stanco, ma continuavo a sentirmi in imbarazzo, per ragioni sociologiche ed emotive». (Giornale di scavo, Torino, Einaudi, 2000, pp. 79-80).

Ora Carandini deve aver superato l’imbarazzo, e Giulia Maria Crespi non deve sembrargli più sentenziante, o debole. Né il suo volto così stanco.
Certo, forse avrebbe preferito essere al posto di Ilaria Borletti Buitoni, candidata di Monti al Ministero dei Beni culturali. Ma anche prenderne il posto alla presidenza del Fai è meglio di nulla.

E il resto è noia. Patinata di borghesia.

La farsa che si svolge attorno all'anfiteatro flavio, usato come gadget elettorale e merce di scambio della politica. Il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2013 (m.p.g.)
Il Colosseo è una rovina. Non è precisamente una notizia, ma il sindaco di Roma non riesce a farsene una ragione. Due giorni fa Gianni Alemanno ha attaccato frontalmente la soprintendente archeologica della capitale, Mariarosaria Barbera, accusandola di «creare una situazione di elevato allarme». Quest’ultima aveva il torto di essersi preoccupata dei frammenti di pietra che, specie con le piogge forti, si staccano e precipitano al suolo, rischiando di rendere davvero indimenticabile la visita di qualche turista. Da qui l’esigenza di imporre una sorta di ‘zona rossa’ che tenesse i visitatori fuori pericolo: ma siccome per Alemanno il Colosseo è soprattutto un grande spartitraffico (la battuta è di Antonio Cederna), non gli sembrava pensabile spostare nemmeno una fermata dell’autobus: e dunque Comune e Soprintendenza si erano accordati per la soluzione (indecente) di avvolgere il gigante in grandi reti di protezione.

Tuttavia, di fronte alla (comprensibile) gragnuola di critiche ricevuta dalle opposizioni, Alemanno ha rovesciato il tavolo e ha telefonato direttamente al capo dell’odiata soprintendente, il ben più malleabile ministro per i Beni culturali, Lorenzo Ornaghi. E ha fatto bingo: dopo una «chiacchierata cordiale», i due politici hanno deciso di «affidare ad un tavolo tecnico presso il dicastero i temi relativi alla sicurezza delle aree circostanti l’anfiteatro Flavio, presieduto dal segretario generale [del Mibac] Antonia Pasqua Recchia». Tradotto dal burocratese, si tratta di una clamorosa sconfessione della soprintendente, alla quale il suo stesso ministro spara alla schiena, sottraendole di fatto la competenza sul principale monumento archeologico della città.

Questo grottesco teatrino apparirà ancora più sconcertante a chi ricordi il trionfalismo con cui Alemanno aveva annunciato, nel giugno 2011, il salvifico super-restauro del Colosseo sponsorizzato da Diego Della Valle. Ebbene, che fine ha fatto il progetto-pilota della nuova, risolutiva sinergia tra pubblico e privato? È mestamente arenato alla II sezione del Tar del Lazio, dove pende il ricorso delle imprese escluse dal restauro, mentre il Consiglio di Stato dovrà decidere sul ricorso del Codacons contro l’affidamento della sponsorizzazione a Mister Tod’s. Insomma, il Comune e il Ministero avevano concepito un autentico capolavoro amministrativo.

Al di là dell’umiliante cronaca spicciola, questa vicenda è assai interessante perché permette di vedere con estrema chiarezza ciò che condanna il patrimonio storico e artistico italiano ad una fine così ingloriosa.

La prima cosa da dire è che se Roma fosse la capitale di un qualunque altro stato europeo, tutta l’area del Colosseo e dei Fori imperiali sarebbe stata pedonalizzata da decenni. E la riduzione delle vibrazioni e delle emissioni di scarico sarebbe un passo decisivo per la conservazione e la sicurezza dell’anfiteatro: oltre che per la vivibilità e la godibilità di uno dei luoghi più sacri della civiltà occidentale. Ma quest’ultima ovvietà è, d’altra parte, difficilmente comprensibile ad un’amministrazione che tollera il circo equestre dei ‘gladiatori’ che staziona di fronte al Colosseo.

In secondo luogo, il miglior restauro è quello che non si deve fare: quello che viene prevenuto dall’umilissima manutenzione ordinaria. Un’operazione per cui è difficile trovare un paperone in cerca di visibilità globale, e che è invece il precipuo compito delle soprintendenze.

E qua veniamo al punto centrale. Che Ornaghi abbia delegittimato la soprintendente di Roma cedendo alle sguaiate pressioni di Alemanno è gravissimo, ma non è una novità. Il fatto che il Colosseo perda pezzi è, infatti, la diretta, necessaria conseguenza dei micidiali tagli ai fondi e al personale che i governi di ogni colore hanno inferto per decenni al sistema delle soprintendenze, umiliando e svuotando il sistema di tutela migliore del mondo e pensando semmai alla giostra degli eventi.

Ciò che è quasi impossibile far capire alla classe politica italiana, e spesso anche ai giornali e all’intera classe dirigente, è che i danni straordinari del patrimonio si prevengono con la cura ordinaria e con la competenza tecnica degli addetti ai lavori, non con i restauri-evento.

In piena età barocca, il grande scrittore Emanuele Tesauro scriveva che il Colosseo simboleggiava una Roma che «non cessa di ritorcer gli occhi alle deboli vestigia delle sue fuggite potenze, e vi mira sparse per terra le marmoree sue viscere». E che «in quello anfiteatro invece di gladiatori, l’arte con la natura combatte». Oggi, dopo quattrocento anni siamo invece ridotti a guardare sparsi per terra i frammenti di pietra che cadono dal monumento, e a veder combattere l’assenza della politica con l’assenza della tutela.

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