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Il Fatto Quotidiano, 13 marzo 2014

Non c’è davvero nulla di nuovo in Matteo Renzi, a parte la grinta: c’è solo un intenso bricolage che ritaglia da destra, e incolla malamente a sinistra, spezzoni di pensiero, parole d’ordine, slogan. Uno dei più impresentabili che Renzi ha preso di peso dal repertorio populista e selvaggiamente liberista di Silvio Berlusconi è il “padroni in casa propria”. Un’idea texana della convivenza civile che significa che ciascuno deve essere libero di cementificare, sfigurare, distruggere pezzi di ambiente, di paesaggio, di patrimonio storico artistico.

Fin da quando era sindaco, Renzi ha polemizzato aspramente contro quelle che chiama “le catene” imposte dalle soprintendenze, istituzioni “ottocentesche” che impedirebbero la “modernizzazione del Paese”. “Sovrintendente – ha scritto nel suo tragicomico libro Stil novo – è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che?”. Renzi sembra non accorgersi di vivere in un paese massacrato da uno “sviluppo” pensato solo in termini di cementificazione: un paese compromesso non dai troppi no, ma semmai dai troppi sì, delle soprintendenze. E non sono solo le opinioni di Renzi, a preoccupare: è il suo governo di Firenze a far capire come la pensi in fatto di cemento. Vezio De Lucia ha notato come nel piano strutturale del 2010 “le previsioni relative alla proprietà Fondiaria (un milione e 200 mila metri cubi) sono riportate come fossero già attuate: per non smentire la propaganda del sindaco Renzi a favore del piano a sviluppo zero”. Sapendo che il cemento non è telegenico, Renzi cerca di non parlarne troppo. Tanto più stupisce che sia un giornale come Repubblica – subito improbabilmente seguito da Italia Oggi – ad abbracciare, in scala uno a uno, un simile programma. Archiviato il pensiero di Antonio Cederna, sconfessato quello di Salvatore Settis, ora è Giovanni Valentini a scrivere sul giornale di De Benedetti che “troppo spesso le soprintendenze diventano fattori di conservazione e di protezionismo in senso stretto, cioè di freno e ostacolo allo sviluppo, alla crescita del turismo, e dell’economia”.

L’articolo, in prima pagina domenica scorsa, ha lasciato basiti migliaia di lettori che vedevano da sempre in Repubblica un presidio sicuro per la difesa dell’articolo 9 della Costituzione: e da allora si susseguono sul web risposte incredule e indignate di associazioni, funzionari di soprintendenza, singoli cittadini.

È in questa prospettiva che Renzi diventa il campione delle “mani libere” contro le soprintendenze, che l’avrebbero ostacolato nell’allestimento della cena della Ferrari su Ponte Vecchio e fermato nei “sondaggi tecnici” sulla Battaglia di Anghiari di Leonardo in Palazzo Vecchio. Peccato sia tutto falso: sull’osceno noleggio del ponte l’asservita soprintendenza fiorentina non ha aperto bocca, ed è stata una partita tutta giocata dal Comune, con tanto di permesso ufficiale concesso il giorno dopo la manifestazione, e con un incasso pari alla metà di quello sbandierato da Renzi. Quanto a Palazzo Vecchio, giova ricordare che la Battaglia di Anghiari semplicemente non esiste, e che Renzi è stato fermato non dalla soprintendenza (anche in quel caso succube), ma dalla comunità scientifica internazionale, compattamente insorta contro una farsa pseudoscientifica che fa ancora ridere i direttori dei più grandi musei del mondo. Ma i banali dati di fatto non devono oscurare la retorica del Presidente del Fare che spezza trionfalmente i lacci e i lacciuoli frapposti da questa oscura genìa di burocrati. A quando un suo ritratto a torso nudo, mentre aziona una betoniera calpestando l’articolo 9?

L’altra faccia di questa usurata medaglia è l’incondizionato inno ai salvifici privati. Chiedendo la fiducia al Senato, l’unica cosa che Renzi ha saputo dire sulla cultura è che “se è vero che con la cultura si mangia, allora bisogna fare entrare i privati nel patrimonio culturale”. Peccato che i privati ci siano da vent’anni, nel patrimonio, e che a mangiarci da allora non sia lo Stato, ma solo un oligopolio di concessionari fortemente connessi con la politica. E la ricetta è tanto originale che il punto 41 di Impegno Italia (il documento cui ha inutilmente provato ad aggrapparsi Enrico Letta) prevedeva un’unica ideona: “Incentivare lo sviluppo dei servizi aggiuntivi da dare in concessione ai privati”.

Di fronte ai crolli di Pompei, Renzi ha gridato: “L’Italia è il paese della cultura, e allora sfido gli imprenditori: che state aspettando?”. Quando era sindaco di Firenze, Renzi sfidava sistematicamente lo Stato a fare il proprio dovere in fatto di tutela del patrimonio. Ora che lo Stato è lui, sfida gli imprenditori. Fosse il presidente di Confindustria, ce l’avrebbe con gli enti locali. Non c'è davvero nulla di nuovo, se non che il repertorio da palazzinaro anni Sessanta è passato tale e quale dal fondatore di Forza Italia al segretario del Partito democratico. È il manifesto di una nuova stagione di Mani sulla città, un ritorno alla bandiera inverosimile del “più cemento = più turismo”. E siamo solo all’inizio.

Roars.it, 16 marzo 2014 (m.p.g.)

Negli anni in cui Matteo Renzi è stato sindaco di Firenze l’amministrazione non ha brillato per capacità di innovazione, al contrario. L’esposizione del teschio incrostato di diamanti di Damien Hirst a Palazzo Vecchio ha mostrato al mondo come si possa essere al tempo stesso pretenziosi e subalterni. Si è offerto l’edificio-simbolo della storia repubblicana di Firenze alla celebrazione di un oggetto assurdamente dispendioso, concepito come vessillo di disuguaglianza e trappola per la vanità degli oligarchi.

In programma questa primavera, la mostra dedicata a Michelangelo e Pollock prefigura un astorico confronto tra due artisti fumettisticamente presentati come “furiosi”. Il risibile match, che nelle intenzioni di Renzi dovrebbe costituire il dono d’addio alla città, conferma la predilezione per esposizioni-blockbuster di nessuna consistenza scientifica. L’ostinazione con cui si è infruttuosamente cercata la (perduta) Battaglia di Anghiari leonardesca in Palazzo Vecchio è sembrata un’avventata commistione tra dilettantismo storico-artistico, maldestro culto delle nuove tecnologie e fiction rinascimentale in chiave Dan Brown. Certo, esistevano i finanziamenti di National Geographic: ma perché emarginare la comunità scientifica italiana e internazionale? La proposta di “terminare” la basilica di San Lorenzo costruendo la facciata secondo l’”originario” progetto michelangiolesco, lanciata da Renzi a suo tempo in consiglio comunale, si è rivelata episodica e strumentale. Nel frattempo si è disinvestito da istituzioni che non avevano il sostegno dell’industria alberghiera (ma potevano rivelarsi importanti per la comunità dei residenti) e si sono patrocinate iniziative ambiguamente oscillanti tra scoutismo culturale e rapacità commerciale. Non si è infine esitato a impedire senza preavviso ai cittadini il passaggio dal Ponte Vecchio pur di assicurare maggiore privacy agli ospiti di un’esclusiva cena di gala di Luca Cordero di Montezemolo.

La prima cosa da dire è che l’attuale presidente del Consiglio sconta il limite sociologico della città da cui proviene. Firenze è una città di piccole o medie imprese attive in settori ipermaturi e a bassa tecnologia, a conduzione familiare. Alberghi, servizi, editoria finanziata o aggregata a poli museali. Salvo rare eccezioni l’orientamento non è alla competizione ma al controllo proprietario e, qualora possibile, alla rendita confortevole. Le più sbrigative “valorizzazioni” del patrimonio storico-artistico sono remunerative, relativamente anticicliche e non comportano rischio imprenditoriale: perché dunque darsi pena di finanziare progetti a medio e lungo termine, di cui beneficerebbero i cittadini, invece che “eventi” graditi ai visitatori, in primo luogo ai più abbienti? La produzione stereotipa di guide, foulard stampati con motivi botticelliani e cartoline con giglio non impone scelte strategiche né presenta le difficoltà di un’industria high-tech. “La cultura dovrebbe essere il baluardo di una sfida identitaria”, vaticina Renzi in Stil novo[1]. Non è chiaro tuttavia se intenda porre giusta enfasi sull’importanza dell’istruzione o semplicemente accompagnare le dichiarazioni dell’amico Farinetti sull’appeal di torroni e prosciutti doc. “Se è morta non è bellezza. Al massimo può essere storia dell’arte. Ma non suscita emozione”[2]. Ma che vuol dire?

Se per politica della cultura intendiamo una serie coerente di iniziative o provvedimenti volti a promuovere sollecitudine civile, discussione informata e ampiezza di confronti (quanto potremmo sinteticamente definire “apertura della mente”) dobbiamo riconoscere che tale politica non esiste per Matteo Renzi: esistono invece commercio e turismo. A mio parere l’adozione di un punto di vista aggressivamente consumistico costituisce un’incongruità per ciò che Renzi stesso rappresenta come segretario del Partito democratico. Provo a spiegare perché. Le nostre preferenze culturali sono modellate da differenti tipi di marketing. Se desideriamo che il “pubblico” (di una mostra, di un concerto) sia qualcosa di più e diverso da una folla plaudente che sorseggia cocktail e rende omaggio alla munificenza di mecenati pubblici o privati dovremmo porci il problema dell’inclusione. I “mercati culturali” non sono efficienti: esistono alti costi di accesso e pronunciate asimmetrie informative[3].

Personalmente ritengo che l’arte non debba trasformarsi in una sorta di testimonial della disuguaglianza né corteggiare in maniera esclusiva i mondi della ricchezza: almeno non se ci poniamo dal punto di vista dell’amministratore pubblico. Eppure questa è la tendenza dominante. Né credo sia lecita la riconduzione del patrimonio storico-artistico alla sola dimensione del profitto: obbliga la cultura a competere sul breve termine con industrie ben più remunerative. La Costituzione prevede l’investimento pubblico in cultura perché riconosce la specifica complessità del processo di partecipazione[4]. Al pari dell’indigenza, i deficit educativi creano “ostacoli” formidabili alla piena esplicazione sociale e professionale della persona. E’ tuttavia interesse generale, quantomeno in uno stato di diritto, che vi sia (e continui ad esservi attraverso le generazioni) un’opinione pubblica informata e indipendente. Sospinto da un pregiudizio “popolare” (o più semplicemente populista) e dallo spiccato amore per l’acclamazione, il più giovane presidente del consiglio della storia italiana ha sinora mostrato di ignorare le responsabilità di una seria politica culturale. Ha sottostimato i benefici economici e civili della ricerca. Si è circondato di collaboratori fugaci e modesti e ha privilegiato opache reti amicali. Non ha fatto ottimi studi né ha ragione di nasconderlo. In futuro farà tuttavia meglio a evitare dispersive polemiche con i “professori” per valutare senza pregiudizio punti di vista meditati[5]. Perché, malgrado accattivanti appelli all’”uguaglianza”, tanta disattenzione ai temi della cittadinanza? Suppongo che l’organicità di Renzi a cerchie economiche e d’opinione dominanti possa essere la risposta che cerchiamo.

[1] Matteo Renzi, Stil novo, Rizzoli, Milano 2012, p. 50.
[2] ibid., p. 55.
[3] Gustavo Zagrebelsky, Fondata sulla cultura, Einaudi, Torino 2014, p. 44: “le tante conoscenze particolari restano scomposte come tessere di mosaico che non compongono figure… Qualunque avventuriero della conoscenza [può] infilarsi, senza incontrare ostacoli, di fronte a un pubblico ignorante e inconsapevole. Il ‘pubblico’ è già vittima della capacità specialista e dell’ignoranza generalista”. Uno stato di diritto può trascurare il compito di un’educazione permanente dei suoi cittadini?
[4] Sul tema cfr. Salvatore Settis, Paesaggio costituzione cemento, Einaudi, Torino 2010, p. 122 e ss.
[5] Con un ampio e polemico intervento apparso su Repubblica, Giovanni Valentini si è recentemente posto in scia a Renzi attaccando le soprintendenze con argomenti che sono sembrati in larga parte pretestuosi, soprattutto per la mancata distinzione, quanto alle modalità di partnership pubblico|privato, tra filantropia culturale o no profit da un lato, sbrigative forme di “valorizzazione” commerciale dall’altro (I no delle soprintendenze che rovinano i tesori d’Italia, in: la Repubblica, 9.3.2014, pp. 1, 20). A mio avviso la differenza non passa tra capitale pubblico e capitale privato: ma tra “capitale paziente” (per usare la felice definizione di Mariana Mazzucato) e capitale speculativo o rendita. Checché se ne dica la piccola o media impresa attiva oggi in Italia nell’ambito dei servizi al patrimonio non è in grado di (né motivata a) produrre innovazione: sottocapitalizzata, trae la propria sopravvivenza da relazioni politiche e vive di progetti a breve termine (Paolo Sylos Labini, La crisi italiana, Laterza, Bari 1995, p. 9 e ss.). L’attività di agenzie pubbliche in grado di selezionare competenza, procurare strategia e finanziare trasformazione – qualcosa che il MiBACT di oggi, inutile dirlo, è del tutto incapace di fare – potrebbe risultare di grande vantaggio. L’editoriale di Valentini ha sorpreso quanti, sulla prima pagina del quotidiano romano, erano soliti trovare qualificate difese del patrimonio e dell’ambiente intesi come “bene comune”. Sulle retoriche della “sussidiarietà” e le loro implicazioni ideologiche (“neoguelfe” o meglio neocesaristiche) nel contesto della discussione italiana sulle politiche della tutela cfr. Michele Dantini, Inchiesta su “patrimonio” e “sussidiarietà”. Retoriche, politiche, usi pubblicitari, in: ROARS, 9.11.2012, qui. Per una ricostruzione dell’”industria delle concessioni” cfr. Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo, minimum fax, Roma 2013, p. 21 e ss. Cfr. anche, di Valentini, l’elusiva controreplica dal titolo Quelli che difendono le soprintendenze, in: la Repubblica, 12.3.2014, p. 56.

www.left.it, 28 febbraio 2014

Nel rumore di fondo dell’eterno pettegolezzo intorno ai nuovi potenti si è più volte ripetuto che quando Matteo Renzi è a Roma, dorme all’Hotel Bernini Bristol, dell’amico Bernabò Bocca, senatore di Forza Italia e genero di Geronzi. Quel Bocca che, intervistato da Vittorio Zincone nel settembre scorso, si scagliava contro i «divieti» dei soprintendenti, auspicava la realizzazione di due campi da golf a Capalbio e invocava il messianico intervento dei privati. Bocca è nel consiglio di amministrazione di Civita, il più grande concessionario del patrimonio culturale, dunque sapeva cosa diceva. E uno si chiede: ma quando, la sera, Renzi e Bocca si trovano a fare due chiacchere in albergo, se parlano di politica culturale, sono d’accordo o no?

Tutto indica che la «profonda sintonia» che Renzi ha dichiarato di avere con la destra di Berlusconi in tema di riforma della Costituzione (sic!), vige anche in tema di beni culturali. Il nuovo presidente del Consiglio ha detto più volte di voler abolire le soprintendenze («Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che?», così nel suo libro Stil novo, a p. 23), e, nella manciata di parole che ha dedicato alla cultura in chiusura del comizio di paese con cui ha chiesto la fiducia al Senato il 24 febbraio, è riuscito a dire solo che «se è vero che con la cultura si mangia, allora dobbiamo aprire i Beni culturali agli investimenti privati».

Anche da questo punto di vista, il governo Renzi-Alfano si pone in perfetta continuità con quello Letta-Alfano. Alla vigilia della sanguinosa staffetta che lo ha cancellato, Enrico Letta aveva presentato Impegno Italia, sedicente manifesto di una svolta possibile. L’unico punto dedicato alla «cultura» (il 41esimo, su 50) prevedeva di «rafforzare la gestione economica dei beni artistici e culturali. Incentivare lo sviluppo dei servizi aggiuntivi da dare in concessione ai privati». Se si ricorda che il presidente di Civita si chiama Gianni Letta, si comprenderà forse perché il governo Enrico Letta avvertisse questa urgenza. Ma il problema va ben oltre il contingente conflitto di interessi. Infatti, il documento di Letta è stato fatto proprio dalla direzione Pd che lo ha defenestrato, ed è proprio quella l’unica cosa detta da Renzi al Senato.

Una vera telepatia unisce dunque Renzi a quel Dario Franceschini che solo pochi anni fa definiva «il vicedisastro» e «una delusione continua», e che ora ha messo alla guida del ministero per i Beni culturali, pardon al ministero del Petrolio.

Intervistato dal Sole 24 Ore all’indomani della nomina, Franceschini non ha infatti trovato di meglio che riesumare l’ormai inascoltabile luogo comune del patrimonio culturale come petrolio d’Italia: «Penso che il ministero della cultura sia in Italia come quello del petrolio in un paese arabo». E ancora: «La cultura è il nostro petrolio». Insomma, il ministro è riuscito ad avverare in un batter d’occhio il profetico anagramma sfornato poche ore prima da Stefano Bartezzaghi: «Dario Franceschini = Dir frasi canoniche». Il copyright della canonicissima metafora del petrolio spetta al deputato democristiano Mario Pedini (1918-2003), noto soprattutto per essere uscito nelle liste della P2. Ma a renderla celebre fu Gianni De Michelis, che nel 1985 proclamò che: «Le risorse necessarie alla conservazione non ci saranno finché non ne viene evidenziata la valorizzazione economica». Partiva allora il tormentone dei “giacimenti culturali”, al cui prodotto finale ben si attaglia questa analisi di Joseph Stiglitz: «I Paesi che abbondano di risorse naturali sono tristemente famosi per le attività di ricerca della rendita. In tali Paesi è molto più facile diventare ricchi ottenendo un accesso privilegiato alle risorse che generando ricchezza. Questo è spesso un gioco a somma negativa».

La politica culturale, ancora una volta, non cambia verso.

Il Fatto Quotidiano, 25 febbraio 2014 (m.p.g.)

Come una perversa macchina del tempo, il discorso pubblico sul patrimonio culturale ci ha riportati di peso nei plumbei anni Ottanta. Intervistato dal Sole 24 Ore, il neoministro per i Beni culturali Dario Franceschini non ha trovato di meglio che riesumare l’ormai inascoltabile luogo comune del patrimonio culturale come petrolio d’Italia: “Penso che il ministero della Cultura sia in Italia come quello del petrolio in un paese arabo”. E ancora: “La cultura è il nostro petrolio”. Insomma, il ministro è riuscito ad avverare in un batter d'occhio il profetico anagramma sfornato poche ore prima da Stefano Bartezzaghi: “Dario Franceschini = Dir frasi canoniche”.

Il copyright della canonicissima metafora del petrolio spetta al deputato democristiano Mario Pedini (1918-2003), noto soprattutto per essere uscito nelle liste della P2. Ma a renderla celebre fu Gianni De Michelis, che nel 1985 proclamò che: “Le risorse necessarie alla conservazione non ci saranno finché non ne viene evidenziata la valorizzazione economica”. Partiva allora il tormentone dei giacimenti culturali, al cui prodotto finale ben si attaglia questa analisi di Joseph Stiglitz: “I paesi che abbondano di risorse naturali sono tristemente famosi per le attività di ricerca della rendita. In tali paesi è molto più facile diventare ricchi ottenendo un accesso privilegiato alle risorse che generando ricchezza. Questo è spesso un gioco a somma negativa”. Parole che evocano la privatizzazione dei cosiddetti “servizi aggiuntivi” avviata da Alberto Ronchey su quell'onda, nei primi anni Novanta: un processo che doveva riguardare solo caffetterie e bookshop, e che ha invece finito per fagocitare l'intera vita del sistema museale italiano, inclusa la didattica e la progettazione delle mostre. Per intendersi è come se una scuola pubblica avesse dato in gestione al Cepu non la mensa, ma l’insegnamento stesso. Un’economia di rendita che ha prodotto un oligopolio di concessionari con importanti connessioni politiche (i primi due sono Civita, presieduta da un certo Gianni Letta, ed Electa, di proprietà Berlusconi...), creando pochi posti di lavoro stabili, una produzione culturale di infima qualità (la cosiddetta “valorizzazione”) e non di rado danni materiali al patrimonio: la peggiore delle economie petrolifere.

Ma degli anni Ottanta non abbiamo solo i nostalgici: ne abbiamo ancora i protagonisti. Giuliano Amato ha dichiarato ieri al Corriere che “i beni culturali hanno uno spaventoso bisogno di manager dei Beni culturali, non necessariamente chi ha gestito un McDonald’s riesce a esserlo, ma difficilmente può esserlo un bravo archeologo”. Chissà se il giudice costituzionale Amato sa che le sue parole (oltre a cozzare col fatto che il direttore-presidente del più grande museo del mondo, il Louvre, è proprio un archeologo) cozzano con la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, imperniata sul principio che nel governo del patrimonio la “primarietà del valore estetico-culturale non può essere subordinata ad altri valori, ivi compresi quelli economici” (così una sentenza del 1986).

Ma il più anni Ottanta di tutti è Matteo Renzi, il quale, nel suo comizietto al Senato, ha biascicato che “se è vero che con la cultura si mangia, allora dobbiamo aprire i Beni culturali agli investimenti privati”. Una vera telepatia lo unisce a quel Dario Franceschini che solo pochi anni fa definiva “il vicedisastro” e “una delusione continua”: ecco perché lo ha messo a far la guardia al barile del petrolio. Speriamo che ora non gli passi anche un cerino.

Il Fatto Quotidiano, 15 febbraio 2014
Cosa c’è di male a far sfilare alcuni Masai agli Uffizi in occasione di una sfilata di moda, si chiede Caterina Soffici. C’è di male che il tema di quella sfilata era il “neocolonialismo”, e che ai ricchi bianchi fasciati da lini chiari seguivano i selvaggi in costumi tradizionali, portati a Firenze come bestie da serraglio. Alla faccia della diversity! Qualunque direttore di museo americano ci avrebbe rimesso il posto.

I musei, in Italia, hanno a che fare con la conoscenza e l’educazione (lo dice l’articolo 9 della Costituzione), e con il pieno sviluppo della persona umana (art. 3). Nell’età del totalitarismo ideologico neoliberista per cui tutto è merce, e nell’Italia di Matteo Renzi, Oscar Farinetti e Marco Goldin sembrerà strano: ma è per questo che i musei sono mantenuti (anche se a stento) con il denaro delle tasse di tutti, e non quello di chi ci fa le serate cafonal. Ma – si obietta – in America e in Inghilterra nei musei si banchetta eccome. Il Victoria and Albert di Londra – scrive Soffici – la sera si trasforma in “un circo Barnum”

Prima risposta: non lo fa per sopravvivere, lo fa per libera scelta e con regole precise; da noi ci sia arrangia svendendo i gioielli di famiglia a prezzi da ribasso, e in condizioni rischiose. Seconda risposta: i musei italiani sono diversi, perché non nascono quasi mai come tali, ma sono in luoghi storici delicatissimi, inadatti a simili carnevalate. Terza risposta: non è un caso che abbiamo l’articolo 9, da noi l’arte è per tradizione inclusiva e non esclusiva; quello che conta è il tessuto diffuso e la sua funzione civile, difficilmente compatibile con l’esclusività del lusso.

Quarta risposta: anche là esiste un dibattito assai acceso. Lo scrittore americano Jonathan Franzen ha scritto: “Un autentico spazio pubblico è un luogo dove ogni cittadino è il benvenuto, e dove la sfera puramente privata è esclusa o limitata. Il motivo per cui negli ultimi anni i musei d’arte hanno registrato un forte aumento di visitatori è che i musei rappresentano ancora quel genere di spazio pubblico. Com’è piacevole l’obbligo del decoro e del silenzio, la mancanza di consumismo sfacciato”.

E Michael J. Sandel, venerato professore di Filosofia politica ad Harvard: “Perché preoccuparsi del fatto che stiamo andando verso una società in cui tutto è in vendita? Per due ragioni, una riguarda la disuguaglianza; l’altra la corruzione (...) Assegnare un prezzo alle cose buone può corromperle. Se trasformate in merci, alcune delle cose buone della vita vengono corrotte e degradate. Dunque, per stabilire dove va collocato il mercato e a che distanza andrebbe tenuto, dobbiamo decidere come valutare i beni in questione: la salute, l’istruzione, la sfera familiare, la natura, l’arte, i doveri civici, e così via”. Non per tutti, in inglese, “museo” è sinonimo di “circo Barnum”.

Il Fatto Quotidiano, 15 febbraio 2014
Cosa c’è di male a far sfilare alcuni Masai agli Uffizi in occasione di una sfilata di moda, si chiede Caterina Soffici. C’è di male che il tema di quella sfilata era il “neocolonialismo”, e che ai ricchi bianchi fasciati da lini chiari seguivano i selvaggi in costumi tradizionali, portati a Firenze come bestie da serraglio. Alla faccia della diversity! Qualunque direttore di museo americano ci avrebbe rimesso il posto.

I musei, in Italia, hanno a che fare con la conoscenza e l’educazione (lo dice l’articolo 9 della Costituzione), e con il pieno sviluppo della persona umana (art. 3). Nell’età del totalitarismo ideologico neoliberista per cui tutto è merce, e nell’Italia di Matteo Renzi, Oscar Farinetti e Marco Goldin sembrerà strano: ma è per questo che i musei sono mantenuti (anche se a stento) con il denaro delle tasse di tutti, e non quello di chi ci fa le serate cafonal.

Ma – si obietta – in America e in Inghilterra nei musei si banchetta eccome. Il Victoria and Albert di Londra – scrive Soffici – la sera si trasforma in “un circo Barnum”.

Prima risposta: non lo fa per sopravvivere, lo fa per libera scelta e con regole precise; da noi ci sia arrangia svendendo i gioielli di famiglia a prezzi da ribasso, e in condizioni rischiose. Seconda risposta: i musei italiani sono diversi, perché non nascono quasi mai come tali, ma sono in luoghi storici delicatissimi, inadatti a simili carnevalate. Terza risposta: non è un caso che abbiamo l’articolo 9, da noi l’arte è per tradizione inclusiva e non esclusiva; quello che conta è il tessuto diffuso e la sua funzione civile, difficilmente compatibile con l’esclusività del lusso.

Quarta risposta: anche là esiste un dibattito assai acceso.

Lo scrittore americano Jonathan Franzen ha scritto: “Un autentico spazio pubblico è un luogo dove ogni cittadino è il benvenuto, e dove la sfera puramente privata è esclusa o limitata. Il motivo per cui negli ultimi anni i musei d’arte hanno registrato un forte aumento di visitatori è che i musei rappresentano ancora quel genere di spazio pubblico. Com’è piacevole l’obbligo del decoro e del silenzio, la mancanza di consumismo sfacciato”.
E Michael J. Sandel, venerato professore di Filosofia politica ad Harvard: “Perché preoccuparsi del fatto che stiamo andando verso una società in cui tutto è in vendita? Per due ragioni, una riguarda la disuguaglianza; l’altra la corruzione (...) Assegnare un prezzo alle cose buone può corromperle. Se trasformate in merci, alcune delle cose buone della vita vengono corrotte e degradate. Dunque, per stabilire dove va collocato il mercato e a che distanza andrebbe tenuto, dobbiamo decidere come valutare i beni in questione: la salute, l’istruzione, la sfera familiare, la natura, l’arte, i doveri civici, e così via”. Non per tutti, in inglese, “museo” è sinonimo di “circo Barnum”.

Benefattori della cultura o commensali?
I dettagli della cena che ha fatto infuriare la sovrintendenza
di Elisabetta Ambrosi e David Perluigi,

Qualunque visitatore che oggi entri al Metropolitan di New York può apprezzare i magnifici mazzi di fiori che adornano la sala principale. Un legato testamentario di una signora che ha voluto donare a tutti un piccolo dettaglio di bellezza. Se oltreoceano il mecenatismo ha ancora qualche legame con l’antico significato di colui che aiuta gli artisti ridotti alla fame – o comunque i musei – ad esempio donando con discrezione una collezione privata – da noi il mecenate è l’invitato del salotto buono alla cena “cafona”, stile Grande Bellezza. Che si affitta nientemeno la Galleria Borghese, a Roma, uno dei più bei musei del mondo, utilizzandone l’esterno per una cena sotto enormi en dehors (d’altronde ne è piena la Capitale), di ferro e plastica. Con tanto di cucina abusiva e di danni ai basamenti di tufo del piazzale, denunciati da un furioso Sovrintendente capitolino, che ha preso carta e penna per scrivere al competente Soprintendente del ministero dei Beni culturali.

3 febbraio scorso: sotto gli enormi gazebo – anzi, pardon, sotto il jardin d’hiver firmato dall’esperto di allestimenti Jean Paul Troili – va in onda una cena a tema immortalata da un video esclusivo che pubblichiamo oggi su ilfattoquotidiano.i . Quale il leitmotiv? L’ineffabile agitazione vitale dei ritratti dello scultore Giacometti, la cui mostra veniva inaugurata proprio quel giorno? O il Caravaggio tormentato e ascetico del San Girolamo, presente in Galleria? Macché. Per la cena barocca e dall’età media avanzata meglio ispirarsi alle nature morte del Merisi, opulente solo per chi non sa leggerne la decadenza raccontata dai frutti imprecisi.

Ad affollarsi intorno ai centrotavola con uva e melograni, trecento soliti arcinoti, questa volta in veste di novelli mecenati dell’associazione onlus “Mecenati per Roma”, presieduta da Maite Carpio: produttrice e già finanziatrice di Sant’Egidio, ex veltroniana, già nel Cda dell’Opera di Roma, soprattutto sposata con Paolo Bulgari (a sua volta sostanzioso donatore dell’Accademia di Santa Cecilia).

Invitati? Oltre all’esuberante direttrice della Galleria Anna Coliva, insignita della Légion d’Honneur dall’ambasciatore di Francia Alain Le Roy, lo stesso Alain Le Roy, Gianni Letta, ça va sans dire, (“Stasera vi dovete accontentare dello zio”), i principi Ruspoli, Gaetano Caltagirone, Paolo Scaroni e Fulvio Conti, Sonia Raule, Ferdinando Brachetti Peretti e Rosi Greco, Ginevra Elkann e marito, Luigi Abete, Carlo e Lucia Odescalchi. E poi i fondatori-dei-mecenati Jacaranda Caracciolo Borghese, Silvia Venturini Fendi e Miuccia Prada, il sottosegretario al Mibac Ilaria Borletti Buitoni, Carlo e Lisa Vanzina, Joaquin Navarro Valls, l’Ambasciatore d’Israele Naor Gilon, gli immancabili coniugi Bertinotti e la presidente del Maxxi Giovanna Melandri, apprendista-Coliva del mix pubblico privato all’italiana.

In questa vicenda in cui, al solito, la sensibilità culturale si traduce in spaghettata tra potenti, ci sono vari aspetti. I danni, anzitutto, riportati da una dettagliata relazione della Sovrintendenza capitolina, allertata – insieme alla Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico per il Polo Museale della Città di Roma e alla Sovrintendenza ai Beni culturali – dal presidente del II municipio Giuseppe Gerace. Come riportato sulle pagine romane di Repubblica , oltre ai danni al piazzale, nella relazione del Sovrintendente Claudio Parisi Presicce, è stato evidenziato come vi fosse addirittura una cucina mobile montata senza autorizzazione, così come la tensostruttura collegata al padiglione principale del museo. Anche se le normative spiegano che l’autorizzazione è concessa solo se le strutture utilizzate “sono posizionate a distanza dalle emergenze monumentali e non coinvolgano le alberature e gli arredi presenti in loco”. Ma c’è, soprattutto, una gigantesca questione di stile. Non si poteva, ad esempio, fondare prima l’associazione, di cui non c’è praticamente traccia in rete, e renderla operativa (ad oggi c’è solo una vaga idea di finanziamento per vaghi studi su Caravaggio), invece di buttarsi subito sul magna magna? “Perché rinfocolare l’odio di classe, quando la charity è diffusa in tutto il mondo? Perché alzare i forconi del populismo se il pubblico può esistere solo col Privato”, ha scritto un’indignata Paola Ugolini. Glielo diciamo noi: in Francia fanno pure i bed and breakfast nei consolati, per racimolare fondi. Ma i tubi innocenti e i tiranti legati alle statue del Bernini, fossero anche copie fatte nella Silicon Valley, sono tutt’altra cosa. Perché l’immagine che si dà ai cittadini impoveriti è indelebile: mentre i ricchi si comprano pure la bellezza, il beneficio di tanta “eccellenza” sembra arrivare più alle persone coinvolte che a quelle istituzioni che si vorrebbe difendere dai tagli.

Non troviamo scuse
La legge Ronchey è stata superata dal Codice del 2004
di Tomaso Montanari

La posta in gioco, materiale e simbolica, del padiglione per feste montato accanto alla Galleria Borghese si comprende guardando alle mille altre situazioni analoghe (anzi, per la verità, assai peggiori) che costellano l’Italia: dalle auto da corsa che rombano nel Teatro Greco di Siracusa ai Masai fatti sfilare agli Uffizi nell’ambito di una sfilata di moda con annessa cena esclusiva; dalla festa di capodanno all’Archivio centrale dello Stato alle partite di golf disputate nelle sale di lettura di una Biblioteca Nazionale, fino al Ponte Vecchio noleggiato alla Ferrari da Matteo Renzi.

Anni e anni di sistematico e pianificato massacro dei bilanci degli enti locali e del ministero per i Beni culturali inducono sindaci, assessori e direttori di biblioteche e musei a far qualche soldo attraverso la privatizzazione temporanea dei loro gioielli. Come ha detto la direttrice della Borghese: “Senza risorse, è l’unico modo di mantenerci”. Ma la prostituzione per indigenza è il modo peggiore per rapportarsi agli interessi privati che chiedono di legittimarsi attraverso l’appropriazione dello straordinario spazio pubblico del nostro patrimonio. E, infatti, in nessun paese del mondo l’apporto dei privati è necessario per garantire la sopravvivenza delle istituzioni culturali pubbliche: perché un simile situazione di ricatto genera necessariamente sudditanza, svendita dei beni comuni, arbitrio.

Se invece lo Stato facesse la sua parte – e cioè se destinasse alla cultura almeno il 3% della spesa pubblica (la media europea è il 2,2, in Spagna è del 3,3: da noi dell’1,1) – potrebbe poi decidere da una posizione di forza quali contropartite eventualmente concedere ai privati.

Nel frattempo, sarebbe vitale che il ministero per i Beni culturali facesse rispettare le regole: perché se è vero che dalla pessima legge Ronchey (1993) i privati possono, in vario modo, “entrare nei musei”, il Codice dei Beni culturali (2004) prescrive che “i beni culturali non possono essere ... adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione”. E i pregiudizi possono essere elevatissimi: nel 1997 abbiamo perduto per sempre la più bella architettura barocca italiana, la torinese Cappella della Sindone, distrutta da un incendio scoppiati dalle cucine provvisorie installate negli adiacenti locali del Palazzo Reale in vista di una cena offerta da Lamberto Dini e Gianni Agnelli a Kofi Annan. Ma c’è un rischio anche più grande: trasformare il patrimonio culturale – che la Costituzione vuole al servizio del pieno sviluppo della persona umana e della costruzione dell’uguaglianza sostanziale – in un potente fattore di legittimazione della disuguaglianza, del dominio del mercato, dell’arbitrio assoluto di una ricchezza disonesta, ignorante, grottesca. Trasformare uno strumento di inclusione in una location esclusiva sarebbe letale: la grande bellezza non sopravvive alla grande ingiustizia.

l Fatto quotidiano, 2 febbraio 2014

Bologna regala a Farinetti una Disneyland in campagna
di Carlo Tecce


72 ettari a dieci km dalla città. il comune ci ha messo 55 milioni di euro, coop e fondazioni altri 45. conta di portarci 10 milioni di turisti all’anno.

La chiamano esperienza sensoriale. Non materiale. E sarà un olezzo di vacche, un profumo di mandarini, un impasto di pizza. E la mungitura farà il latte e il latte sarà mozzarella e la mozzarella sarà capricciosa e la capricciosa sarà fatturato. Un monumento a Eataly, in mezzo a svincoli e viadotti, a una radura larga e lunga 72 ettari, due volte il Vaticano. E il Colosseo sarà invidioso, Venezia e Firenze creperanno. E otto o nove, chissà dieci milioni di italiani e stranieri verranno qui. Dove la pianura bolognese s’ingrossa per i capannoni e le vetrate; la campagna sventrata ansima per il cemento, il legname, i pannelli fotovoltaici e d’acciaio. Ma Natale detto Oscar Farinetti, imprenditore con la passione per Renzi e il biologico di lusso, ha giurato: sarà la Disneyland per il cibo tricolore, datemi 100 milioni di euro, un treno veloce e vi porto 10 milioni di donne, bambini e uomini. E Bologna, la signora rossa sbiadita, s’è consegnata, disarmata, forse disperata.

La sigla Caab suona anonima. La politica l’ha creata vent’anni fa. E ci ha speso oltre 100 miliardi di lire. Caab è un mercato di proprietà pubblica, primo azionista il Comune (80%), che vive di notte e dorme di giorno, che distribuisce frutta e verdura, che incassa centinaia di milioni di euro, che fa lavorare 2000 persone, che sta a Bologna eppure non vicino a Bologna. La stazione centrale è lontana dieci chilometri e un binario morente è ficcato in qualche anfratto. Bob Dylan ha cantato qui per Giovanni Paolo II, era il ’97.

Anno 2012. I limoni e la bietola sono affari precari. E così Andrea Segré, presidente di Caab, ambizioso e renziano, fustigatore di sprechi alimentari (teorizza e pratica il consumo di yogurt scaduti), s’è inventato un acronimo più affascinante, doppio senso, doppio scopo: Fico, fabbrica italiana contadina, dove vendere e mostrare i prodotti. E Farinetti non c’era. Il sindaco Virgilio Merola, candidato da Pier Luigi Bersani e presto convertito a Matteo Renzi, osserva con l’entusiasmo di un vigile che incanala il traffico. E Farinetti non c’era. Il professor Segré, che insegna Agraria e frequenta la Leopolda di Renzi e che gestisce con profitto il Caab, fa un giretto che a Bologna è convenzionale: cooperative, fondazioni, mecenati, cattolici, agnostici. Ci vogliono dei milioni, non pochi, non troppi. Un mese di attesa, un anno e giorni, un anno e mezzo.

E appare Natale detto Oscar Farinetti. Ovazione bolognese. Il padrone di Eataly fa un paio di visite e spiega come va il mondo: va verso Eataly. Distribuisce consigli non richiesti, calcola il flusso economico e occupazionale, invoca il piano di trasporto pubblico, pretende un convoglio per il Caab, promette, ringrazia e arrivederci. E il progetto di Fico diventa Eataly World: il Consiglio di amministrazione approva, il Comune di Merola ratifica. E quei giretti bolognesi, cooperative, fondazioni e l’ex massone Fabio Alberto Roversi Monaco, vanno in estasi. Plasmano una società e sganciano 45 milioni di euro. E annunciano contributi asiatici: Giappone, Azerbaigian, Cina. Il Comune, pronto, regala 55 milioni di patrimonio immobiliare. Ecco i 100 milioni che voleva Farinetti. Il vecchio mercato verrà dimezzato, stalle e serre saranno le trincee di protezione e il marchio di Eataly World avrà uno spazio equivalente a 50 campi da calcio, sarà maestoso e luminoso al centro di un parco agroalimentare da 80.000 metri quadri. Farinetti ha già previsto 30 ristoranti, 40 laboratori e 50 punti vendita. E ha garantito al notaio che ha officiato al concepimento di Fico che, non tardi, verserà la quota nominale di un milione di euro . Ma quel che incasserà Eataly World, fra tagliate di manzo e olive impanate, va a Eataly. Farinetti ha fretta. Vuole inaugurare il 1 novembre 2015, appena finisce l’Expo di Milano. Perché il modello contrattuale che verrà sperimentato per i sei mesi milanesi – fra tempi determinati, stagisti e volontari – sarebbe perfetto per il Fico, ovvero Eataly World.

Natale detto Oscar non è più ospite di Bologna: il capoluogo emiliano è ospite di Farinetti. Ha convocato una conferenza stampa a Milano, l’11 di febbraio, e gli intrusi saranno Segré e forse Merola. Le ruspe stanno per cominciare a smontare il Caab e i milioni pubblici e privati costruiranno Eataly World. Se va male, Farinetti se ne torna a Firenze. Se va bene, ci guadagna un sacco di denaro. Per pareggiare il bilancio ci vorranno almeno 5,5 milioni di visitatori, che comprano, che mangiano, che vanno e vengono in automobile.

Il padre nobile di Bologna, Romano Prodi, ha posto una semplice domanda: “E con i trasporti come farete, voi dispersi in campagna?”. Il dubbio di Prodi non ha contagiato il sindaco Merola, né la Confindustria locale, né Provincia né Regione. Peggio. È vietato criticare Farinetti e Eataly World. Soltanto Alberto Ronchi, assessore alla Cultura, s’è permesso di suggerire un po’ di riflessione. Per Farinetti è l’investimento perfetto: rischio d’impresa zero contro un sostegno pubblico che vale 55 milioni e una superficie da base aerospaziale. E mentre un dirigente ti indica dove fiorirà la zucca e dove toseranno le pecore, proprio lì, fra le prossime piante di peperoncino e di finocchio, scoloriscono una ventina di Filobus Civis. Dovevano salvare i pendolari bolognesi, non dovevano inquinare e neanche fare rumore. Straordinari. Poi un giorno Bologna s’è accorta che questi Filobus non potevano circolare. E li hanno buttati qui. Prima di un monumento a Eataly World, c’è un monumento alla memoria. Ma non è Fico.

E Siena vuol dare a Eataly Santa Maria della Scala
di Tomaso Montanari

E ora tocca a Siena. Dopo aver accompagnato Oscar Farinetti in giro per la città, il sindaco di Siena Bruno Valentini (Pd, di osservanza renziana) ha detto che il complesso monumentale del Santa Maria della Scala potrebbe diventare un mega-supermercato di Eataly. E ora si aspetta che il sindaco risponda a una interrogazione, dei consiglieri comunali Andrea Corsi e Massimo Bianchini, che lo invita a render pubblico il progetto e ad aprire “una discussione sulla politica culturale del Comune di Siena con particolare riferimento al ruolo da assegnare all’antico Spedale senese”.

Dare un senso ai duecentomila metri cubi dell’ospizio che nel Medioevo accoglieva i pellegrini che percorrevano la Francigena, e che oggi occupa l’ “acropoli” senese è una delle sfide del governo di una Siena orfana del Monte dei Paschi. Il progetto più sensato sarebbe trasformare la Scala nel Museo di Siena per eccellenza, portandoci la Pinacoteca Nazionale e altri musei, il dipartimento di storia dell’arte dell’Università insieme a varie biblioteche, da unire a quella di uno dei più importanti storici dell’arte italiani, Giuliano Briganti. Un progetto che non esclude certo spazi espositivi, caffè e altri luoghi pubblici. Un progetto capace di trasmettere un’idea forte di cittadinanza basata sulla cultura.

Ma fin dagli scorsi mesi ha preso quota un’alternativa commerciale. Molti segnali lasciavano pensare che anche la Scala sarebbe finita in mano a Civita, la più grande concessionaria nazionale di patrimonio culturale, presieduta da Gianni Letta. Attraverso una sua controllata, Civita gestisce già il Duomo e la Torre del Mangia, e mira a conquistare i musei delle contrade e l’assai discutibile Museo del Palio da costruire nell’ambito della candidatura di Siena a capitale europea della cultura 2019. Ma ora le cose sembrano cambiare: un po’ perché la Procura di Siena ha aperto un’inchiesta sulla gestione del Duomo, un po’ perché il vento renziano fa volare la soluzione Farinetti.

Se davvero Eataly riuscisse ad aprire dentro uno dei più importanti spazi storici italiani, si tratterebbe di una importate svolta simbolica nel processo di mercificazione di quello che la Costituzione chiama “il patrimonio storico e artistico della nazione”. Il nuovo negozio fiorentino di Eataly viene reclamizzato sui giornali locali con intere pagine come questa: “Eataly Firenze merita una visita anche solo per gustare ... il Rinascimento. Antonio Scurati, celebre scrittore e professore universitario, ha curato in esclusiva per Eataly un percorso museale che racconta i luoghi, i valori e le figure storiche che hanno contribuito al periodo artistico e culturale più fulgido di sempre. Chiedi l’audioguida al box informazioni”. Ma se il progetto del sindaco di Siena andasse in porto, Eataly non avrebbe più bisogno di mascherare un supermercato dietro un museo inesistente: sarebbe il museo a trasformarsi in supermercato. E possiamo solo immaginare cosa ne verrebbe fuori: una specie di Mall del Gotico, una Gardaland di Duccio, una Las Vegas di Simone Martini.

Ora Siena è a un bivio, deve decidersi: i suoi straordinari beni comuni monumentali possono ancora servire a formare cittadini, o devono trasformarsi in una fabbrica di clienti? Il Santa Maria della Scala sarà una 'piazza' della cultura o sarà un supermercato?

Se Eataly aprirà un negozio a Siena, i senesi avranno un altro posto in cui poter andare a mangiare. Ma se a Farinetti verrà consegnato il Santa Maria della Scala, allora sarà Eataly a essersi mangiato Siena, e i senesi.

Studi Trentini, 2, 2013 (m.p.g.)

«Il museo è un'istituzione permanente senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali e immateriali dell'uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le comunica e specificamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto». Nell'imbarbarimento del discorso pubblico dell'Italia del 2014 anche la piana ed innocua definizione del museo messa a punto dall'International Council of Museums rischia di suonare rivoluzionaria. Ripartiamo dunque da queste parole: per tornare ad indicare con fermezza il senso dei musei.

«Il museo»
Sia consentito ricordare che delle nove Muse nessuna presiedeva alla pittura, alla scultura o all'architettura: il museo prende il nome da un consesso che praticava la poesia in tutte le sue varianti, il canto, il mimo e il teatro, la scienza e la storia. È l'uomo tutto intero intero, il vero progetto del museo. Le competenze specialistiche sono fondamentali: ma l'ago della bussola segue l'humanitas, la civilizzazione, «il pieno sviluppo della persona umana» (Costituzione della Repubblica, art. 3).

«è un'istituzione»
Politica: il museo è un'istituzione politica, un elemento cruciale nella costruzione della polis. E con le altre istituzioni politiche dell'Italia di oggi il museo condivide lo smarrimento, la confusione, a volte la corruzione, spesso il discredito. Ma, proprio come loro, non può essere sostituito con qualcosa di meglio: come loro, per tornare ad essere utile deve tornare ad essere davvero istituzione. Non asservita ai fini di chi temporaneamente la dirige: ma indipendente, autorevole, obbediente solo alla scienza, alla coscienza, alla legge.

«permanente»
Il museo non è una mostra. Non è effimero. Non si smonta. Non apre a singhiozzo. Non deve essere fagocitato, occultato, distrutto dalle mostre che ospita, né spolpato da quelle che alimenta. Deve essere un indirizzo sicuro: dove un cittadino sa che può trovare le opere che cerca.
Non può ridurre la sua attività scientifica, né la sua attività didattica, alle mostre. Forse in questo momento dovrebbe rifiutarsi di accoglierle, promuoverle, alimentarle. È un contesto intellettuale, non un'attrezzeria di scena.

«senza scopo di lucro»
Le opere dei musei sono uscite, faticosamente, dal circuito economico. Hanno un senso nuovo. Un senso che non si vende e non si compra. Un senso che dà senso a ciò che, invece, si vende e si compra.
Un museo che presta le sue opere a pagamento non è un museo. Un museo che noleggia le sue sale a pagamento non è un museo. Non si può servire a due padroni. In Italia, i musei pubblici dovrebbero essere gratuiti. Devono esserlo: come le biblioteche e le scuole.

«al servizio della società e del suo sviluppo»
I musei non sono al servizio di chi li dirige, né di chi ci lavora, né di chi li studia.
Non sono al servizio del denaro, né della classe politica. Non sono al servizio delle società di servizi – che, a Firenze o a Roma, ne hanno fatto 'cosa loro' – ma al servizio della società.

In Italia i musei sono al servizio del progetto della Costituzione: della sovranità del popolo, dell'uguaglianza sostanziale, del pieno sviluppo della persona umana. Al servizio dell'integrazione e della dignità di tutti. L'arte del passato, e i suoi legami con gli uomini e con la natura, ci introducono in un mondo di forme in cui sperimentiamo la disciplina e la libertà, l'invenzione e il realismo. E ci fa anche capire quanti modi diversi ci sono stati, e ci sono, per essere uomini: ci educa alla complessità, alla tolleranza, alla laicità. In una parola, accresce e sviluppa il nostro essere umani: la nostra humanitas, come si dice almeno dai tempi di Cicerone.

«aperta al pubblico»
Al pubblico: non al privato. Come la biblioteca, anche il museo deve essere una piazza del sapere. Non un luogo dove si va una volta nella vita, per vaccinarsi: ma uno spazio pubblico aperto. Ai cittadini, prima che ai turisti. Un luogo dove i bambini possono crescere, gli adulti rimanere umani, gli anziani godersi la libertà. Un luogo dove si va per vedere anche un'opera sola: come si va in biblioteca a leggere un libro. Un luogo dove, chi lo desidera, possa essere guidato: ma dove chi vuole perdersi possa farlo. Un luogo comodo: con molte sedie, buoni ristoranti, belle librerie.Un luogo aperto alla vita quotidiana, non il tempio di uno stanco rito sociale.

«che effettua ricerche»
Il cuore vero del museo è la ricerca. Un museo che non fa ricerca è un deposito di roba vecchia. Il fine non è la tutela: la tutela è uno strumento per la conoscenza. Quella scientifica, che poi deve diventare diffusa. Un museo non è una discarica per politici trombati, giornalisti finiti, membri cadetti di grandi famiglie. Un museo che non è guidato da un ricercatore è come un aereo che non è guidato da un pilota.Se non capiremo che un museo è più vicino ad un laboratorio di fisica che ad un club esclusivo, il museo non avrà futuro.

«sulle testimonianze materiali e immateriali dell'uomo e del suo ambiente»
Il museo è come l'orco della favola: segue l'odore del sangue umano. Non per divorarlo, però: per farlo scorrere più forte. Al centro di ogni museo c'è l'uomo, nel suo contesto: l'ambiente. Il museo non può diventare opaco, non deve essere un feticcio, un idolo. Il museo è un mezzo: più e trasparente, più funziona. Non deve separare dall'ambiente: deve permettere di ricostruire i nessi, non spezzarli. Deve dichiarare la propria condizione di frammento: non autodivinizzarsi, non assolutizzarsi. Non può essere un mondo separato: ma un crocicchio di strade che portano fuori dalle sue mura.

«le acquisisce, le conserva, le comunica»
Le acquisisce per conservarle, le conserva per comunicarle. Un museo che non sa comunicare è meglio chiuderlo. Un museo che appalta la didattica o le mostre a un concessionario, non è un museo.
Nessun mezzo della comunicazione moderna è troppo basso: un museo di ricerca e senza fini di lucro non dovrebbe temere alcun canale di comunicazione. E fosse dato ai musei un millesimo del denaro gettato per comunicare le grandi mostre trash! Il patrimonio è come il repertorio della musica, o quello del teatro: va eseguito, generazione dopo generazione. Va narrato: è indivisibile dal lavoro di chi lo studia, lo 'parla', lo rimette nell'anima dei sui coetanei, lo tiene al centro del discorso pubblico.

«e specificamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto»
Studio vuol dire amore, educazione vuol dire tirar fuori l'umanità che è chiusa nell'uomo, il diletto è la dolcezza che ci avvince alla vita.Se un museo riesce a ridare a queste tre parole il loro significato etimologico, quello profondo: ebbene, quello è davvero un museo.

A Verona il sindaco vorrebbe mettere un tetto all’Arena e fare dell’Arsenale austriaco un ipermercato. Il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2014

"Non esiste mondo fuori delle mura di Verona: non c’è che purgatorio, supplizio, l’inferno stesso”, scrive Shakespeare: certo, sotto Flavio Tosi anche dentro quelle mura la situazione non è molto più allegra. Almeno per la cultura.

Non è certo colpa di Tosi se la straordinaria qualità del tessuto artistico veronese è occultata da decenni sotto la coltre di paccottiglia collegata proprio a Romeo e Giulietta: anche se la giunta ci ha messo del suo, spiaggiando di fronte all’Arena una incredibile panchina a forma di cuore per foto di coppia. Da notare il divisorio centrale, che impedisce ai senzatetto di dormirci durante la notte: limiti dell’amore al tempo della Lega. Il tono culturale è invece da cercare nell’idea di Gianni Morandi (sic), che ha proposto a Tosi di dotare di un tetto proprio l’Arena: “Ho pensato che in fondo una copertura avrebbe potuto valorizzare l’anfiteatro, i grandi eventi e la città di Verona”.

Magari il settantenne ragazzo di Monghidoro scherzava, ma il sindaco si è precipitato a Roma: dove però è stato gelato dal ministro per i Beni culturali, il quale deve avergli fatto notare che un anfiteatro romano non è esattamente un palasport. Poco male, a Verona non mancano i progetti di “valorizzazione”. Uno dei più contestati riguarda l’Arsenale austriaco, importantissimo monumento di architettura e urbanistica militare dell’Impero asburgico, e cornice di un giardino pubblico assai frequentato nonostante le pessime condizioni. I cittadini, riuniti in un comitato, chiedono che anche gli edifici trovino una destinazione sociale e culturale, in una città che ha fame di spazi pubblici. La giunta, invece, dopo aver lasciato andare in malora il complesso, preferisce destinarlo alla speculazione edilizia, immaginando di trasformarlo in centro commerciale, attraverso il discutibile strumento del project financing. Il Comune dovrebbe, per di più, investire ben 12 milioni di euro in un progetto che porterà a una privatizzazione di due terzi del complesso per 99 anni. L’appello online che chiede il ritiro dell’operazione (“perché palesemente contraria all’interesse pubblico e a quello delle attività commerciali della zona e perché porterebbe a un enorme aumento del traffico, già ora insostenibile, e a una forte diminuzione del verde pubblico”) ha già raccolto oltre 2500 firme. Un altro caso che ha visto una vivace mobilitazione popolare riguarda Palazzo Bocca Trezza, già sede dell’Istituto d’Arte Nani: un bell’edificio del Cinquecento, ancora denso di decorazioni a stucco e ad affresco.

Dopo aver interrotto ogni manutenzione (nel silenzio incomprensibile della Soprintendenza), e dopo aver permesso che il giardino e il palazzo stesso diventassero una centrale di spaccio, la giunta Tosi si accorge delle pessime condizioni del complesso. Che, guarda caso, non lasciano scelta: bisogna disfarsene, alienarlo, privatizzarlo: cioè, dati i tempi, svenderlo. E tanto peggio per le associazioni, i comitati e i singoli cittadini che presidiano il palazzo e il giardino, propongono destinazioni sociali più che sostenibili, si riuniscono per protestare a suon di musica.

Ma Tosi non è solo capace di vendere, perbacco: sa anche costruire. Un fiore all’occhiello della politica culturale del sindaco è il museo AMO (si scioglie in: ArenaMuseOpera). Per realizzarlo è stato sfrattato dalla sua sede storica uno dei più importanti musei della città, la Galleria d’arte moderna. E il palazzo (che è quello del tiranno medioevale di Verona Ezzelino da Romano, del patriota Pietro Emilei e infine donato alla città da Achille Forti) è stato alienato (è un vizio) alla Fondazione Cariverona. Quindi Tosi (come presidente della Fondazione Arena) ha sostanzialmente preso in affitto (per modici 6,5 milioni di euro) dalla fondazione bancaria ciò che Tosi (come sindaco) aveva venduto, e ci ha realizzato l’AMO. Non ci sono parole per descrivere lo sconcerto di questo non-museo, che ha un salatissimo biglietto di ingresso ed è vietato (iddio sa perché) ai bambini con meno di quattro anni. La cosa più incredibile è che quasi tutti i documenti esposti sono fotocopie, anche se nessuna didascalia lo ammette. L’altra cosa lunare sono le didascalie stesse, un esilarante diluvio di trascrizioni errate e di errori storici (per esempio: Puccini viene fatto morire nel 1901, invece che nel 1924), sintattici, grammaticali. Il nome dell’Archivio e delle edizioni Ricordi (fondamentali, parlandosi di opera lirica) è quasi sempre tradotto in inglese come “Memories”. Con una variante sublime in cui “Casa Ricordi” si trasforma in una severa ammonizione: “Remember the Family”. Che, in effetti, dopo le disavventure del Trota è anche un buon consiglio politico. Insomma, non è poi un male che i numeri che rinviano all’audioguida siano sempre nascosti dai pesanti tendaggi.

La direttrice e curatrice del ‘museo’, che si firma Kikka Ricchio, è soprattutto nota come coautrice del volume Passione e cucina. Sarà per questo che a Verona c’è chi dice che fare un museo in quel palazzo serviva soprattutto ad aprirci un ristorante aggirando il vincolo monumentale. Di certo c’è che la qualità del ristorante è sideralmente superiore a quella del ‘museo’. Sull’ultimo numero dell’Espresso, Salvatore Settis ha notato che Tosi gareggia con Matteo Renzi in “invettive contro le soprintendenze ai beni culturali”. Si capisce: con una politica culturale così forte, aspira all’esclusiva.

Corriere della Sera, 14 gennaio 2013

Bellezza e occupazione possono andare d’accordo? Protezione dell’ambiente e occupazione possono sostenersi a vicenda? Chi crede solo nell’industrializzazione forzata, nella liberalizzazione edilizia e nella cementificazione del territorio, risponde di no, sostenendo che arte, cultura, ambiente e prevenzione non danno lavoro e comportano solo spese. Molte voci consapevoli stanno dimostrando invece, prove alla mano, che un Paese privo di materie prime come il nostro, può svilupparsi solo puntando sulle sue eccellenze. Suggerisco a questo proposito un bel libro di Montanari, Leone, Maddalena e Settis, sul rapporto fra Costituzione e ambiente, fra ricchezza accumulata nelle mani di pochi speculatori e perdita del lavoro, (Costituzione incompiuta, Einaudi). D’altronde non posso scordare la risposta di una studentessa vietnamita alla mia domanda del perché studiassero una lingua lontana e poco potente come l’italiano: «Perché siete la più grande potenza culturale del mondo!». Accidenti, mi sono detta, possibile che lo pensino i vietnamiti e da noi nessuno ci faccia caso?

Prendo qualche dato fornito da Roberto Ippolito, autore del lucido e informatissimo libro Ignoranti, Chiarelettere. Quest’anno i visitatori della Biennale d’arte di Venezia sono stati 475 mila, l’8% in più rispetto al 2012. A Torino i musei hanno aumentato i loro visitatori del 50% dal 2012. Nella città di Torino e provincia si contano oggi più di 33.000 addetti alla cultura, il doppio dei dipendenti Fiat. Purtroppo spesso la trascuratezza e la speculazione allontanano i turisti, fino a impoverire intere zone di alta qualità artistica. Ippolito cita il caso di Montescaglioso in Basilicata, dove è franata la località Cinque Bocche. «Strade inghiottite, villette crollate, un supermercato sprofondato, cancellato il collegamento con Potenza». Eppure Montescaglioso è un luogo di importanti testimonianze storiche: «Si trova nel parco delle chiese rupestri del Materano, vanta l’abbazia benedettina di San Michele Arcangelo del XII secolo, fa parte dell’associazione città dell’olio».

Come partecipazione alla vita culturale, l’Italia si trova al 23° posto su 28 Paesi dell’Unione Europea. Fra gli ultimi per laureati, per quantità di lettori, abbiamo una dispersione scolastica da Paese sottosviluppato, e la scuola è degradata. Se andiamo a vedere i dati del turismo, risulta che le città più visitate non sono quelle marine o dei divertimenti, ma le città artistiche, fra cui Torino, Firenze e Venezia. I turisti quest’anno hanno speso 32 miliardi , contro i 29 del 2010, con un aumento del 20%. Mentre ci sono città e luoghi artistici importantissimi come Pompei o Agrigento che, a causa dell’incuria, stanno perdendo visitatori. Insomma è chiaro che lì dove la bellezza è tutelata e protetta, dove l’accoglienza è garantita con visite guidate, vendita di libri, presenza di bar e ristoranti, la gente accorre. Dove c’è abbandono e cattiva gestione, la gente scappa. «L’Italia non ha capito che potrebbe recuperare migliaia di posti di lavoro puntando sulle sue vere, invidiate e inesauribili ricchezze». Chi lo dice? un vietnamita innamorato del nostro Paese o un italiano che tocca con mano tutti i giorni i danni che fanno la speculazione, la cementificazione, il cattivo uso del territorio e dei beni culturali ?

L’Unità, 29 dicembre 2013

È un crollo. Rovinoso. Come a Pompei, o quelli degli edifici trascinati via dall’acqua in Sardegna dopo le piogge di novembre. Parliamo della percentuale del nostro territorio posto sotto tutela paesaggistica o ambientale, che dal 2008 al 2011 si è ridotto a meno della metà. Dopo la Legge Galasso del 1985, si disse che oltre il 50% del territorio fosse tutelato. Secondo il «Sole 24 Ore» di inizio 2010, con dati che perciò risalivano almeno al 2008, la percentuale si attestava al 46,9%. Se quella cifra è esatta, e non abbiamo motivo per dubitarne, nel 2011 secondo i dati del rapporto «Minicifre» del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali (Mibac) siamo crollati sotto il 20%. La metà, in tre anni. Come è potuto accadere?

Lo strumento legislativo che servirebbe ad arginarne la distruzione, sono i Piani paesaggistici, uno per Regione da realizzare in copianificazione con il Ministero dei Beni e le Attività Culturali il paesaggio è stato dichiarato per legge un bene culturale. Ma a dieci anni dall’entrata in vigore delle leggi che li prevedevano (d.l. 42 2004 e l. 137 – 2002), i Piani restano ancora lettera morta. Il tutto appare perverso considerando che proprio l’Italia volle nel 2000 lanciare a Firenze la Convenzione europea del paesaggio, i cui contenuti più innovativi stentiamo ad assorbire nel Codice per i Beni culturali, giunto in meno di dieci anni alla sua terza redazione, con esiti deludenti soprattutto per il paesaggio.

Il caso del Lazio è emblematico: già nel 2007 il Piano paesaggistico è pronto e approvato, ma si attendono le controdeduzioni. La giunta Marrazzo tuttavia conosceva bene gli appetiti della sua regione e, con mossa a sorpresa, lo adotta comunque prima in Italia -, dandosi 5 anni di tempo per modificarlo alla luce di quanto emergerà dalle controdeduzioni e dalle risposte che a queste daranno le pubbliche istituzioni.

Durante la giunta di centrodestra del governatore Renata Polverini il piano si arena e nulla sembra muoversi o, meglio, si muove lei, che si affretta a presentare un piano del tutto diverso: è il «piano casa» regionale, frutto della omonima legge promulgata dal governo Berlusconi che scavalca i piani paesaggistici. La parola d’ordine è: più cemento per tutti per rilanciare l’economia, e parte l’assalto al territorio. Nel frattempo quello tutelato nel Lazio cade dal 46,7% del 2008 al 20,8% del 2011.

L’economia non riparte, anzi peggiora, ma, per fortuna, non parte neppure il piano casa: anche un Pdl come Giancarlo Galan, allora ministro dei Beni e delle Attività Culturali, non riesce a mandare giù una porcata dove l’ufficio legislativo del Mibac rileva una ventina di possibili incostituzionalità: il piano viene bloccato. Nel frattempo, all’inizio del 2013, i termini per la definitiva approvazione del Piano paesaggistico del Lazio stanno scadendo: nella ingloriosa débâcle della giunta Polverini, tra gli scandali di Fiorito e compagnia, alcuni funzionari della Regione fanno passare una proroga di un anno, anche perché sono arrivate le controdeduzioni.

A questo punto è lo Stato che comincia a perdere tempo: dalla direzione regionale Mibac del Lazio si impongono una serie infinita di controlli, si chiede più tutela e tutele incrociate tra le soprintendenze archeologiche, architettoniche e paesaggistiche. Cose anche giuste, ma che hanno poco a che vedere con le controdeduzioni: avrebbero potuto e dovuto essere fatte prima, e comunque si possono fare e ottener e anche dopo l’approvazione del piano. Con lo scarso personale a disposizione delle soprintendenze, il risultato è una dilazione di un anno. A termine oramai scaduto. È un atteggiamento non nuovo per taluni dirigenti del Mibac. In generale di fronte a casi simili è difficile stabilire se si tratti di vero amore per i beni culturali o di quella che è definita la tattica del cosiddetto «finto pasdaran della tutela», che in nome dei sacri principi di un proclamato beneculturalismo blocca tutto, in modo che si vada avanti come sempre, cioè male.

Cosa accadrebbe se il piano paesaggistico della Regione Lazio non sarà definitivamente approvato e adottato prima di febbraio? Si dovrebbe tornare alla «normale amministrazione», antecedente al Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2002: ma in Italia nulla è mai «normale».

La storia della tutela del paesaggio nel nostro Paese è una lunga guerriglia tra Stato e Regioni su chi debba esercitare il controllo: già nel 1972, in base alla legge sul decentramento, il cosiddetto «territorio» passa alle Regioni, aprendo la strada al periodo più nero della cementificazione. Il 28 febbraio del 1985 il primo governo presieduto dall’onorevole Bettino Craxi, ministro delle finanze Bruno Visentini, promulga la Legge n. 47: è il primo storico condono edilizio, ne seguiranno altri due. Associazioni, media, società civile , s’indignano: sotto la pressione dell’opinione pubblica l’8 agosto 1985 viene promulgata la legge 431/85 detta anche Legge Galasso dal nome del sottosegretario ai Beni Culturali Giuseppe Galasso (Pri)–, che introduce una serie di tutele e regole sul paesaggio e l’ambiente, obbliga le regioni a fare dei «Piano paesistici» – cosa diversa da quelli paesaggistici e solo parzialmente realizzati –, e una parte del territorio viene comunque vincolata in base a criteri estetici. Ma la battaglia ricomincia: le Regioni si indignano, perché si sentono deprivate dal controllo del territorio che ritengono un loro diritto, oltreché fonte di notevoli interessi.

Si arriva alla Corte Costituzionale che dalla fine degli anni ’90 con una serie di sentenze stabilisce che il paesaggio è competenza dello Stato, o per lo meno anche dello Stato poiché deve essere considerato in maniera unitaria su tutto il territorio nazionale e non regione per regione. Tra le sentenze spicca quella che bloccando la costruzione di un’installazione militare in Puglia, ricorda agli amministratori regionali che il paesaggio è di prioritario interesse nazionale, superando anche le esigenze militari, almeno in tempo di pace.

Sembrerebbe tutto chiaro. Ecco che si arriva al Codice dei Beni Culturali e ai Piani, che da paesistici sono divenuti paesaggistici e prevedono la collaborazione tra Stato e Regioni: la seconda stesura del Codice, del 2006 ministro Buttiglione, prescrive che la copianificazione sul paesaggio avvenga tra Stato – cioè Mibac – e Regioni su tutto il territorio. Terza stesura del 2008, ministro Rutelli: il Mibac copianifica solo per le aree già vincolate (in entrambi i casi estensore del Codice è Salvatore Settis). Così si tradisce lo spirito e la lettera delle sentenze della Consulta, dal momento che le aree vincolate non sono l’intero territorio nazionale, dando oltretutto adito a infiniti contenziosi fra lo Stato e le singole Regioni, che allungano i tempi della realizzazione dei piani, come infatti è avvenuto.

Nel 2008 subentra un nuovo governo Berlusconi, e il ministro per i Beni e le Attività Culturali, Sandro Bondi, si allinea allo slogan «più cemento per tutti». A più riprese invita il Mibac ad alleviare i controlli e, attraverso pressioni e nomine mirate, agisce sulle Direzioni Regionali – cui spettano le autorizzazioni. Il 28 aprile del 2010 in Parlamento di fronte alla 13° Commissione permanente spiega che alleggerirà la tutela: si arriva a nuovi regolamenti per l’autorizzazione paesaggistica, che scardinano la Legge Galasso, in maniera subdola, attraverso articoli e articoletti depositati nelle varie leggi omnibus e milleproroghe. Sono gli strumenti per smantellare la tutela, la necessaria premessa al crollo della percentuale di territorio vincolato da oltre il 50% a meno del 20%. Il tutto in un silenzio assordante rotto solo dal «Rapporto sul paesaggio» di Italia Nostra del 2010, a firma Maria Pia Guermandi e Vezio De Lucia, che parlano di «convergenza viziosa – tra Stato, Mibac, regioni ed enti locali– nella elusione amministrativa».

Con la precedente normativa di tutela smontata e depotenziata la Regione Lazio, se non sarà approvato entro febbraio il Piano, e tutto il territorio nazionale saranno esposti ai capricci della sorte: di amministratori locali, spesso incompetenti e soggetti a pressioni e lusinghe del territorio, unitamente a Direzioni regionali del Mibac che si dimostrano sempre più una semplice cinghia di trasmissione tra il potere politico nazionale e gli interessi locali. (1 – continua)

L'Unità, 24 dicembre 2013

Il doping delle tesi preconcette, o precotte, più sbagliate ci è ormai entrato in vena. Domanda Fabio Fazio al ministro Massimo Bray perché al Metropolitan Museum vadano molti più visitatori che ai nostri Uffizi. Domanda che non sta in piedi, anzitutto per ragioni fisiche: il milione e 700 mila visitatori degli Uffizi, se raddoppiati o triplicati, non ci “starebbero” (in attesa del raddoppio del Museo) e però il Polo museale fiorentino - che brilla di tante stelle - ha registrato nel 2012 oltre 5 milioni di visitatori, cifra vicina a quella del Met. Che peraltro pratica il sistema del prezzo “consigliato”, cioè i visitatori danno quanto gli aggrada: circa 10 dollari a testa. Meno di quanto costa, in media, il biglietto in Italia. Agli Uffizi 15 euro, i ridotti 11,75.

Quindi, domanda mal posta. Che ne presuppone in genere un’altra (errata). Perché all’estero i grandi musei “sono macchine da soldi” e in Italia no? Una balla sonora. Allo stesso Metropolitan biglietti e altri proventi coprono soltanto ad una metà dei costi, il resto lo si colma con denaro federale, dello Stato, donazioni, ecc. Ugualmente il Louvre che, coi suoi tanto vantati 9 milioni di visitatori e con un apparato di servizi commerciali aggiuntivi da paura ha un 40-45 % di disavanzo annuale. Coperto dal denaro dei contribuenti. Gli inglesi hanno scelto nei Musei nazionali la via della gratuità e, secondo i dati del Department for Culture, i visitatori, dal 2001 al 2012, sono cresciuti del 51 %. Quando i musei impongono un biglietto per le mostre, gli ingressi calano subito. Quindi la gratuità dei musei fa aumentare l’indotto turistico. Dove noi siamo e restiamo deboli, molto deboli.

Il ministro Bray, invece di smentire, dati nazionali e internazionali alla mano, Fazio, ha preferito raccontare la sua tormentata gita ferroviaria a Pompei. E qui cade l’autoflagellazione (o la inarrestabile tendenza “tafazziana”) tipica di noi italiani: parlare soltanto di ciò che va male, e a Pompei non v’è dubbio che è andata molto male. Per l’insipienza degli archeologi? No, per tante ragioni fra le quali il commissariamento demenziale di un certo Marcello Fiori che ora Berlusconi ha eletto timoniere della rinata Forza Italia (auguri) e la sottovalutazione del rischio-camorra negli anni passati. Altra “tafazzata” per la vicenda del gigantesco corno rosso davanti alla Reggia di Caserta: perché non accennare al fatto che la splendida fabbrica, borbonica e murattiana - che ha avuto, certo, problemi seri per i Giardini - è stata splendidamente restaurata anni fa dallo Stato?

Bray è stato efficace, va detto, sui Bronzi di Riace finalmente restaurati e presto di nuovo esposti nel Museo di Reggio Calabria nonostante le pressioni per portarli in città turisticamente più appetibili, o magari all’estero, come sta succedendo al Galata morente dei Capitolini, ai 35 Raffaello mandati nel lontano Giappone o ai tanti Caravaggio fatti viaggiare su e giù in Tir. Con tutti gli stress climatici e fisici del caso. Ma soprattutto sottraendoli ai visitatori stranieri venuti apposta nei nostri musei per ammirarli. E imbufaliti.

Un’altra scemenza ormai in vena: siamo dei poveretti perché nel centro storico romano non circolano (?) le masse di turisti di Berlino, di Londra, o di Parigi. Trascurando due o tre cosucce: a) che l’Italia può offrire una dozzina di capitali dell’arte oltre a Roma (Firenze, Napoli, Venezia, Palermo, Genova, Torino, Milano, Bologna, magari Mantova e Parma, e pure Assisi e Pompei); b) che a Roma il centro storico romano, medioevale, rinascimentale, barocco, neoclassico, ecc. esiste ancora, con una fitta rete di strade, stradette, vicoli e piazzette, che - al pari della Galleria Borghese dove le visite sono ovviamente contingentate per ragioni di sicurezza e di microclima - non possono essere “gonfiate” e trasformate in un totale Divertimentificio essendovi residenti, fissi e saltuari, uffici, pubblici e privati, insomma una città - mentre a Londra (per incendi e speculazioni), a Berlino (per le bombe) e a Parigi (per il barone Haussmann) - il centro storico medievale e successivo non esiste più, se non a brandelli; c) che già la flotta di bus turistici e di quelli dei pellegrini, per ora sgovernata, sta rendendo meno vivibile, a tutti, Roma. Quanto ai dati sul turismo a Roma, ci andrei cauto: quelli ufficiali registrano forse la marea dei B&B in nero sorti di recente e il pianeta delle case religiose offerte a buon prezzo un po’ dovunque? Un’ultima cosa (trascurata dai luoghi comuni calcificati): il turismo che va per chiese, e non solo per musei, chi lo censisce? E però nel Sud le chiese conservano i due terzi circa del patrimonio. A Roma - nel tratto fra Ponte Sant’Angelo e il Pantheon, un paio di Km scarsi - incontri l’antica Zecca e palazzi vicini (Sangallo), l’Oratorio dei Filippini (Borromini), la Chiesa Nuova (2 Rubens, 2 Barocci, un Guido Reni, ecc.), San Salvatore in Lauro (Pietro da Cortona e il Cenacolo dei Piceni, arte veneta), Santa Maria della Pace (Raffaello, Peruzzi, Gentileschi, il chiostro di Bramante, Pietro da Cortona), Sant’Andrea della Valle (grandioso ciclo di Domenichino, Mattia Preti, Lanfranco, ecc.), Sant’Agnese in Agone (Borromini) e, dico niente, piazza Navona (Bernini e altri), Sant’Agostino (Raffaello e Caravaggio), San Luigi dei Francesi (Caravaggio, e che Caravaggio, e Domenichino) e altro ancora prima del Pantheon che, essendo una chiesa, non fa pagare né registra ingressi…Chi fa conoscere o “promuove” questo patrimonio? Nessuno. Santa Maria della Pace è aperta tre mattine, stentate, a settimana.

“Unità”, 24 dicembre 2013

Ogni giorno ce n'è una nuova. Magari con la fine delle "larghe intese" sarà tutto diverso? <sarebbe bello poterlo sperare. Il Fatto quotidiano, 30 novembre 2013

«Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali e immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le comunica e specificamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto». Nell’imbarbarimento del discorso pubblico dell’Italia del 2014 anche la piana ed innocua definizione del museo messa a punto dall’International Council of Museums rischia di suonare rivoluzionaria.

I musei non sono al servizio di chi li dirige, né di chi ci lavora, né di chi li studia. Non sono al servizio del denaro, né della classe politica. Non sono al servizio delle società di servizi – che, a Firenze, a Roma o altrove ne hanno fatto ‘cosa loro’ – ma al servizio della società. In Italia i musei sono al servizio del progetto della Costituzione: della sovranità del popolo, dell’uguaglianza sostanziale, del pieno sviluppo della persona umana. Al servizio dell’integrazione e della dignità di tutti.

dell’arte che lavorano al Polo Museale Fiorentino e che aderiscono alla Cgil e alla Cisl: da oggi raccolgono firme nel piazzale degli Uffizi per protestare contro la privatizzazione della fruizione del Corridoio Vasariano, il meraviglioso ‘passaggio segreto’ dei granduchi che congiunge Palazzo Vecchio a Palazzo Pitti passando attraverso gli Uffizi e sorvolando Ponte Vecchio.

I lavoratori del Polo Museale contestano la decisione della soprintendente Cristina Acidini (nota per aver acquistato il Crocifisso falsamente attribuito a Michelangelo e aver approntato un agile prezzario per la svendita del patrimonio storico e artistico che le è affidato) di affidare le visite guidate del Vasariano al concessionario: Opera Laboratori Fiorentini del gruppo Civita, presieduto da Gianni Letta. Essi fanno notare che all’interno del Polo ci sono forse più che sufficienti e che non ci sarebbe alcun bisogno di privatizzare. Questo è un problema più generale, e riguarda l’assurdo e colpevole sotto-utilizzo degli Ava (Addetti alla Vigilanza e Accoglienza): non di rado superqualificati giovani studiosi (con dottorati di ricerca e master assortiti) lasciati a vegetare sulle sedie dei musei di tutta Italia. La seconda denuncia dei lavoratori fiorentini riguarda le assurde tariffe annunciate dalla Acidini per il servizio privatizzato con Civita: 34 euro a prezzo pieno, 25 il ridotto e (tenetevi forte) 16 il… gratuito!

Lasciamo dunque la parola al comunicato sindacale: «La Fp Cgil e la Cisl Fp hanno avanzato una controproposta che prevede l’offerta di visite guidate garantite dal personale ministeriale, ovvero dal personale interno alla Soprintendenza fiorentina, come già avvenuto in passato con grande successo. Una soluzione del genere eliminerebbe i costi aggiuntivi per l’utenza, che pagherebbe tutt’al più il solo biglietto di ingresso alla Galleria degli Uffizi.
I lavoratori della Soprintendenza non rivendicano benefici economici per se stessi, desiderano piuttosto che i cittadini e i turisti siano esentati da un evitabile balzello. Rivendichiamo con slancio e passione la funzione pubblica del nostro lavoro. È nostro desiderio poter fornire un servizio pubblico, gratuito e qualificato, e poter raccontare il patrimonio che custodiamo.
Reclamiamo l’applicazione dell’art. 3 della Costituzione, ovvero la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale, che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Crediamo che in un periodo di grave crisi economica sia un dovere delle amministrazioni pubbliche utilizzare al meglio il proprio personale e non esigere dalla cittadinanza e dai turisti oneri impropri».

Non si potrebbe davvero dire meglio. Ma non si sarebbe detto tutto, senza dare notizia della replica della Soprintendente: che è davvero illuminante. E ancor più per la forma che per i contenuti.

Cristina Acidini si è detta «perplessa», e ha sottolineato che «il possibile intervento di personale esterno all’Amministrazione coinvolgerebbe il concessionario, che già dal 1998 cura per nostro conto tutti i servizi aggiuntivi». Insomma, giù le mani dalla nostra amata Civita. E la cosa davvero importante da notare è che se la carta intestata del comunicato è del Ministero per i Beni Culturali, la firma è quella dell’ex giornalista dell’edizione toscana del Giornale che oggi cura la comunicazione della Soprintendente, ma essendo nell’organico di Civita.

E cioè: un dipendente di Civita difende gli interessi di Civita per bocca del soprintendente, e usando il simbolo del Mibac. Più che il pieno sviluppo della persona umana sembra il pieno sviluppo degli interessi privati attraverso la svendita del patrimonio pubblico.

Forse dopo ben quindici anni alla soprintendenza di Firenze farebbe bene cambiare il concessionario. O la soprintendente.

Il Fatto Quotidiano, 16 nov. 2013

Giovedì scorso Salvatore Settis ha indirizzato, dalla prima di Repubblica una eloquente lettera in cui ha elencato al cardinale Angelo Scola tutte le ragioni per cui sarebbe grave installare nel Duomo di Milano un ascensore che porti fino a una terrazza-bar da realizzare tra le guglie: un pio ritorno alla Milano da bere che circola almeno da luglio, e che ha trovato un pericoloso sponsor nel ministro Maurizio Lupi. Così conclude Settis: “Dobbiamo forse immaginare che ogni campanile, ogni cattedrale, ogni palazzo pubblico debba essere svilito aggiungendovi ascensori e terrazze-bar e noleggiandolo a ditte private che non vi vedono altro se non un’occasione di profitto? Dobbiamo forse suggellare per sempre, perfino nelle chiese, l’idea che il denaro è l’unico valore corrente? Una sola parola viene in mente per definire l’idea-base che una chiesa debba servire di supporto ad attività di intrattenimento commerciale. Questa parola è: simonia”. Sacrosanto: purtroppo non si tratta solo di immaginazione.

A Napoli l’intervento di Italia Nostra ha evitato che la Curia realizzasse una caffetteria sulla terrazza absidale del Duomo. A Bologna si sono già “celebrati” alcuni aperitivi sui ponteggi del restauro della facciata di San Petronio: “Unici per la qualità dei cibi, l’esclusiva collocazione, i suggestivi tramonti e la piacevole compagnia”. A Siena è stato appena lanciato “Un te all’Opera”: dove l’Opera non è un teatro, ma l’Opera del Duomo, che nella “cripta” della cattedrale organizza mostre a pagamento. Ma come è possibile che qualcuno pensi di sorbire al piano terra il sangue di Cristo della messa, al primo piano un mojito, al piano di sotto un Caravaggio?
Non ci si è arrivati di colpo: è l'ultimo stadio della trasformazione di molte delle più insigni chiese italiane in attrazioni turistiche a pagamento. A Firenze (sempre all’avanguardia nella mercificazione selvaggia del proprio stesso corpo) si paga per entrare in Santa Maria Novella e in Battistero, le tombe dei Medici in San Lorenzo sono fisicamente coperte da un bookshop, e se si vogliono vedere le “urne dei forti” in Santa Croce occorre sborsare 6 euro (per esigere i quali il portico gotico esterno è stato trasformato in un’orrida biglietteria di metallo e vetro). A Siena si entra in Duomo a pagamento , a Pisa si paga per il Camposanto e il Battistero e San Francesco di Arezzo (con gli affreschi di Piero della Francesca) viene ormai definita “museo” ed è stata affidata alla società Munus (presieduta da Alberto Zamorani: sì, quello di Mani Pulite), che stacca i biglietti in un cubo di cristallo che devasta lo spazio sacro. A Milano costa 6 euro vedere il luogo dove sant’Ambrogio battezzò sant’Agostino. A Verona si paga in Duomo, a San Zeno, a Sant’Anastasia e a San Fermo.

A Venezia l’associazione Chorus-Chiese vende un pass per entrare in ben 16 chiese, tra le quali i Frari. A Ravenna ci vuole il biglietto per varcare la soglia di Sant’Apollinare Nuovo, di San Vitale e di molti altri templi. Una selva di balzelli: un’altra barriera che impedisce l’accesso al patrimonio artistico da parte dei cittadini italiani che lo mantengono con le loro tasse. E di fronte a questo dilagare del culto del denaro non è solo uno storico dell’arte laico come Settis a parlare di “simonia”, cioè di mercimonio del sacro.

Qualche mese fa Francesco Moraglia, il patriarca di Venezia succeduto proprio ad Angelo Scola, ha tuonato contro l’accesso a pagamento nelle chiese: “Non di rado succede che la mentalità funzionalistica si trasformi in mentalità imprenditoriale; fronteggiare tale tendenza e soprattutto recuperare il senso del sacro, del mistero e dell’adorazione è essenziale”. In effetti, il contrasto non potrebbe essere più stridente: nel sito dell’Opera del Duomo di Firenze, dopo una fiscalissima serie di precisazioni sulla validità del biglietto (tipo: “Il biglietto va utilizzato entro la mezzanotte del sesto giorno a partire dalla data selezionata al momento dell'acquisto, e ha validità di 24 ore dal passaggio al primo monumento”), si può leggere che “non è possibile accedere con un abbigliamento non confacente al luogo sacro che si intende visitare”. Ed essendo il bel San Giovanni un luogo ormai sacro al mercato, ci si chiede se l’allusione sia alla bombetta e all’ombrello della City.
Per questo il 31 gennaio 2012, la Conferenza episcopale ha diramato una nota in cui si ricorda che “secondo la tradizione italiana, è garantito a tutti l’accesso gratuito alle chiese aperte al culto, perché ne risalti la primaria e costitutiva destinazione alla preghiera liturgica e individuale”. Salvo poi aprire una gesuitica via di fuga: “L’adozione di un biglietto d’ingresso a pagamento è ammissibile soltanto per la visita turistica di parti del complesso (cripta, tesoro, battistero autonomo, campanile, chiostro, singola cappella, ecc.), chiaramente distinte dall’edificio principale della chiesa, che deve rimanere a disposizione per la preghiera”. Prescrizione comunque clamorosamente disattesa in moltissimi casi, da Santa Croce a Firenze ai Frari di Venezia.
Soluzioni? Un certo Giovanni, nel suo Vangelo ne racconta una radicale: “Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco. Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: ‘Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato’”. E così sia.

Pompei di nuovo al centro delle polemiche, disperante simbolo della sorte del nostro patrimonio culturale. L'Unità, 12 novembre 2013 (m.p.g.)
Rumors, rumor di sciabole, manovre retrosceniche si addensano su Pompei, celebre nel mondo piùche per la sua bellezza, per l’incuria e il dilettantismo nelle italiche politiche culturali, un sito archeologico che vive una ennesima stagione ingloriosa, mentre continuano i crolli. L’ultimo è beffardamente avvenuto proprio su quella via dell’Abbondanza che tutti sanno esseremaggiormente a rischio. Un crollo fortunatamente non poderoso, ma poderosamente amplificato dai media, per tirare la volata alla nomina di un direttore a Pompei figura prevista dal decreto Valore cultura, per rilanciare una situazione in pesante stallo da due anni: a contendersi la poltrona sarebbero Fabrizio Magani e Giuseppe Scognamiglio.

Primo e probabilmente unico caso di un funzionario del Ministero degli Esteri distaccato presso una banca, Scognamiglio è stato consulente al Commercio con l’Estero, responsabile delle politiche di sostegno all’internazionalizzazione del sistema economico italiano, è nei consigli direttivi più vari,dall’Abi a Save the children, oltre che promotore della camera di commercio italo-turca epresidente della società editoriale della banca dove è dirigente. E altro ancora, però non s’è mai occupato di cultura, e godrebbe dell’appoggio del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Patroni Griffi e, a quanto pare, dello stesso presidente Enrico Letta.
Magani è invece un ottimo storico dell’arte in forza al Ministero per i Beni e le Attività Culturali. A circa quattro anni dal terremoto di l’Aquila, dopo che la gestione commissariale e della Protezione civile pur potendo agire in deroga alla normativa non aveva iniziato alcuna ricostruzione, Magani è divenuto direttore regionale per l’Abruzzo e in breve tempo ha avviato molti cantieri, attraverso i regolari percorsi di legge, con precisi cronoprogrammi su cui chiedergli conto, gestiti con trasparenza sul sito ufficiale della sua direzione. Non è certo l’unico funzionario tecnico-scientifico in grado di far marciare la macchina dello Stato meglio di commissari e supermanager: ad appoggiarlo sarebbe il Ministro competente Massimo Bray.
I media danno l’immagine dello scontro, oramai annoso, che in questo paese vede opposti tecnici contro manager per la direzione di entità culturali, ma la cosa convince poco. Perché il profilo di Scognamiglio non è di un manager ma, nella migliore delle ipotesi, di un diplomatico al servizio delle banche, magari ottimo mediatore virtuoso nell’arte del compromesso, nella peggiore delle ipotesi di un lobbista. Il che non significa sia una delle due cose, ma la dice lunga su chi lo sostienein quanto manager, mentre Magani non è un archeologo e allora perché spostarlo, rischiando di non risolvere i problemi di Pompei e riacutizzare quelli de L’Aquila.
Occorre andare aldilà della querelle dei nomi per capire quella che oramai appare la più possenterogna della storia dell’archeologia, cioè Pompei e tutti i suoi guai. Siamo nel 2011, le casse svuotatedal supermanager della protezione civile Marcello Fiori per inutili lavori –a dimostrarlo è anche una relazione della Corte dei Conti–, dopo i crolli quasi quotidiani che rimbalzavano sulla stampa come palle di fucile, a Pompei sembra consumarsi la sconfitta definitiva dei commissariamenti e dei supermanager culturali. Sul sito cala però una inquietante immobilità.
In quel momento si comincia a parlare concretamente di 105 milioni di euro della Unione Europea (UE) da destinare a Pompei, un iter accelerato dall’allora ministro per la Coesione Territoriale, Raffaele Fitto. Di lì a poco alla Soprintendenza di Pompei viene affiancata Invitalia, con il compito di seguire gli aspetti amministrativi: è un nuovo semi-commissariamento, presentato come salvificoma rivelatosi al di sotto delle aspettative, tanto che quasi nulla si muove.
Entra in scena Giancarlo Galan come Ministro della cultura: il suo famigerato Decreto salva Pompei, in realtà svuota ulteriormente le casse della Soprintendenza –senza tuttavia intaccare i fondi UE che non potevano essere distratti–, e scardina una parte della tutela intorno all’area archeologica, ipotizzando la creazione di edifici per il turismo da costruire in deroga alla normativa.Scende subito in campo una non meglio precisata cordata di imprenditori campani, che trovasponda politica in Scilipoti, e si mette a disposizione. Attenzione, non per dare danaro a Pompei, ma prenderne: realizzando quelle strutture che il decreto prevederebbe con soldi non loro mapubblici (forse i 105 mln della UE?).
Nello stesso periodo un consorzio di aziende francesi, queste sì pronte a dare di tasca loro decine dimilioni di euro per ulteriori restauri sul sito vesuviano, si è dileguato nel nulla, e vagli a dar tortovisto quanto accadeva –altro che partecipazione dei privati, quelli che davvero vogliono dar soldi li facciamo scappare.
Entra in scena il Governo Monti, nel 2012 nasce il Grande Progetto Pompei (GPP) da realizzare con i 105 mln UE, una gioiosa macchina da guerra con dentro 4 ministeri, la presidenza del Consiglio, sempre Invitalia e la prefettura antimafia a vegliare sui bandi perché, si disse, quelli di Pompei non dovevano essere inquinati dalla camorra, quasi gli altri bandi godessero invece di una franchigia.
Il piano, da un punto di vista archeologico curato dal Segretariato generale del Mibac, sbandiera una mezza dozzina di importanti interventi, per lo più risalenti a una decina di anni prima, all’epocadella soprintendenza di Pier Giovanni Guzzo, e mai realizzati nel successivo periodo della spendarella commissariale. È però un progetto culturalmente non ineccepibile: Pompei non abbisogna tanto e solo di progetti speciali ma, come dimostrano i crolli recenti, ha soprattutto urgenza, si sottolinea urgenza, di triviale manutenzione, che sarebbe ordinaria in un sito archeologico ma non si riesce a fare per la mancanza di personale specializzato. Difficile poisfuggire all’impressione che rispetto all’ordinario i piani faraonici siano ben spendibili a livello di immagine.
Parola d’ordine del GPP è comunque “sinergie”, termine che ama essere usato nelle conferenze stampa dal tempo dei socialisti craxiani che lo nobilitarono, ma fin da allora si traduce spesso o incompromessi talvolta consociativi, oppure in una macchina burocratica immobile. Forse prevedibilmente e, ahimè, anche previsto, a Pompei si verifica la seconda ipotesi: lo stallo continua.
Estate 2013, un nuovo rapporto Unesco al calor bianco minaccia velatamente di togliere il patrocinio al sito, mentre si fa reale il rischio di perdere i 105 mln UE per scadenza termini. Siprova a correre ai ripari con il decreto Valore cultura, dove si torna all’idea di un plenipotenziario,un direttore con ampie deroghe che tanto assomiglia a un commissario straordinario. In sede parlamentare al momento della conversione in legge è aggiunto un vicedirettore, figura di non chiara funzione burocratica, dunque probabile omaggio alle larghe intese.
Aldilà delle buone intenzioni di tutti, scontate fino a prova contraria, il solo elenco di queste iniziative, percorse da un certo nervosismo normativo e forti incertezze politico-culturali, sembra convergere in un punto. Sorge lo spontaneo dubbio che ancora una volta il problema non sia Pompei ma i 105 mln dell’UE, per i quali sarebbe in corso uno scontro di potere. Certo sommerso ma senza esclusione di colpi e dove si fronteggiano politica, impresa, clientelismi, allegre cordate e su cui pesa anche l’ombra della criminalità organizzata.
Forse in questa luce si spiegano le titubanze, le pressioni, i minuetti istituzionali e i vestalici furoridi questi giorni intorno alla nomina di un direttore per Pompei, che si troverà a dover fare in fretta e a rivedere profondamente il piano stilato due anni fa, già allora inadeguato.
La situazione, si è cercato di spiegare, è assai complessa: Antonio Gramsci, fondatore di questo giornale, ripeteva che a dare la testa contro il muro si rompe la testa e non il muro. Per ora a Pompei i muri continuano a crollare, fenomeno da non sottovalutare: oltre al muro anche la testa può rompersi. Chiedere conferma all’ex ministro per i Beni Culturali Sandro Bondi.

L'Unità, 9 novembre 2013Il dramma di Pompei rischia, come spesso accade in Italia, di trasformarsi in commedia e peggio. Ci sono i mezzi finanziari provenienti dall’Europa, ma se ne vogliono convogliare altri, privati, italiani e stranieri, e per questo si ritiene che la persona più adatta a gestire questa cornucopia non sia un archeologo pur dotato di competenze gestionali (ve ne sono), ma un manager. Come l’ambasciatore Giuseppe Scognamiglio, già consigliere diplomatico di Enrico Letta al tempo in cui era ministro, ed ora vice-presidente di Unicredit. Questa sarebbe la posizione del presidente Letta. Il ministro dei beni culturali, Massimo Bray non pare convinto, teme che un ambasciatore senza competenze specifiche possa non fare decollare il Grande Progetto Pompei previsto dal peraltro discusso decreto Valore e Cultura.

E’ intervenuto Salvatore Settis archeologo e, fra le altre cose, direttore per anni del Getty Research Institute, a perorare la nomina di un archeologo che abbia cultura gestionale. Il Mattino di Napoli ha messo in campo adeguate artiglierie per smantellare la tesi di Settis e sostenere invece la necessità assoluta di nominare subito un manager alla Scognamiglio. Pochi ricordano ormai che la Soprintendenza speciale di Pompei fu creata, assieme a quella di Roma, anni fa (ministro dei Bc, Walter Veltroni) con un soprintendente archeologo e un city manager. La diarchia non ha funzionato, anche perché, dopo una certa data, si sono nominati generali dei carabinieri (più utili se applicati alla lotta alla camorra che controlla la zona, Pompei inclusa) o addirittura commissari di nessuna cultura archeologica (tantomeno pompeiana) sulla base di una “emergenza” proclamata dalla Protezione civile di Bertolaso e poi seccamente negata dalla Corte dei conti. Quest’ultima, esaminati i documenti dell’«emergenza» soltanto alla scadenza del mandato di Marcello Fiori, ha emesso un giudizio «postumo» dei più negativi. L’intera gestione commissariale tra il 2008 e il 2010, ha scritto infatti la Corte, «non sembra rispondere all’esigenza di tutelare l’integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente dai danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi o da altri grandi eventi, che determinino situazioni di grave rischio». Somme ingenti finirono in un “restauro” raggelante del teatro romano, un tempo di tufo e marmo, ora di cemento, altre in musei virtuali, in piste ciclabili e via pedalando fra le rovine.

Rovine bisognose di attenzioni specialissime – come Stabia ed Ercolano – perché le “insulae” e i mosaici, gli affreschi contenuti nella varie dimore sono stati per un paio di millenni sotto una coltre di pomice senza conoscere quindi le mutazioni e le avversità climatiche. A differenza dell’archeologia in parte interrata, in parte no, di aree archeologiche paragonabili per vastità (Ostia Antica, per esempio). Molto, troppo forse si è scavato a Pompei anche perché la camorra scoprì decenni fa il business della pomice. Inoltre negli anni 50 si sono operati “restauri” con materiali cementizi che hanno peggiorato lo stato complessivo di conservazione dei manufatti, soprattutto davanti all’intensificarsi di piogge improvvise e violentissime. Ad imporsi oggi non è tanto un discorso di quantità, di provvista finanziaria, quanto di qualità tecnico-scientifica degli interventi, della loro programmazione, delle priorità da stabilire. Cosa c’entra un manager, di buona cultura bancaria, con tutto ciò? Nella vicina Ercolano le cose vanno assai meglio che a Pompei perché il flusso regolare dei finanziamenti è stato assicurato da un mecenate americano che non vuole “ritorni” pubblicitari e il piano dei lavori è stato definito e attuato dalla Soprintendenza. O no? E a Roma stessa, schivato il rischio di Bertolaso commissario, i lavori non sono andati a buon fine con Proietti e con Cecchi, due tecnici?

Ma i sostenitori della managerialità (gli stessi che parlano del “nostro petrolio”) non si rassegnano facilmente. Hanno applaudito l’arrivo al Collegio romano di un manager, Mario Resca, il quale veniva da aziende importanti nel loro ramo: McDonalds’, il Casino di Campione, o Finbieticola. Doveva “valorizzare” i beni culturali nazionali. Ha combinato qualcosa? A guardare le pubblicità “valorizzatrici” che ci sollecitavano a correre a vedere il Colosseo o il Cenacolo di Leonardo prima che ce li portassero via, pare proprio di no. Per non parlare del rinnovo delle concessioni dei servizi aggiuntivi dove le convenzioni approntate da Resca sono state mitragliate di ricorsi al Tar e giacciono al suolo inanimate (e prorogate). Se questi sono i manager della cultura, aridàtece er Soprintendente. Che sia bravo, certo. E che abbia gli strumenti per snellire le operazioni programmate con rigore scientifico oltre che finanziario.

Corriere della Sera, 6 novembre 2013

Avete mai visto una rivolta di cacciatori in difesa del guardiacaccia? È un po’ quanto sta succedendo a Siracusa dove non accenna a calare il polverone sollevato da un manipolo di costruttori edili, architetti, geometri in difesa del vecchio sovrintendente rimosso dall’assessore ai beni culturali Maria Rita Sgarlata. Ma come, direte, i sovrintendenti non sono forse invisi a tutti coloro che hanno che fare con il cemento perché di solito si mettono di traverso alle betoniere? E non hanno forse dalla loro parte gli ambientalisti?

Macché: nella città di Dionisio va a rovescio. Contro il vecchio sovrintendente Orazio Micali, infatti, si erano schierati un po’ tutti i difensori del patrimonio artistico, paesaggistico e culturale con una lettera firmata da 16 associazioni: da Italia nostra a SOS Siracusa, dall’Archeoclub d’Italia al Circolo Legambiente, dall’Associazione Koinè al Comitato per il Parco delle Mura Dionigiane e così via… Un fronte impossibile da etichettare politicamente perché teneva dentro uomini di destra come Enzo Maiorca e Fabio Granata e della sinistra vicini a Sel.

Tutti uniti nel chiedere la revoca di Micali accusato di esser di manica troppo larga nei confronti del cemento. Ma soprattutto di avere bloccato, dopo che finalmente era stata conclusa la perimetrazione attesa da decenni, l’iter di istituzione del Parco Archeologico di Siracusa. Parco che finalmente impedirebbe di edificare all’interno della cinta delle Mura Dionigiane e in particolare sui fianchi dell’Epipoli dove sorge il grandioso Castello Eurialo. Direte: ma non era già protetta, l’area? Mica tanto, se è vero che le sovrintendenti all’archeologia e al paesaggio Rosa Lanteri e Alessandra Trigilia si erano addirittura viste chiedere 100 milioni di danni per avere bloccato la costruzione sul pianoro dell’Epipoli di 71 villette e due centri direzionali. Intimidazione bocciata dai giudici: le funzionarie hanno applicato la legge.

Dall’altra parte gli «operatori del mattone», chiamiamoli così, dipingono Micali con parole di sperticato elogio: «un ottimo Sovrintendente, “titolato per laurea conseguita” ed in grado di assolvere, con equilibrio, al proprio ruolo di gestione e salvaguardia del territorio, in un momento di forte disagio e difficoltà per la nostra comunità» e capace di «ben continuare a lavorare per una gestione seria, proficua e serena dei suoi Uffici». Va da sé che la decisione della Sgarlata di rimuovere il sovrintendente (nel quadro di una rivoluzione di quasi tutti i dirigenti isolani) sostituendolo con l’archeologa Beatrice Basile è stata accolta come fumo negli occhi. Sit-in in piazza, mozioni di protesta, interrogazioni parlamentari, richieste di dimissioni dell’assessore… E si torna sempre alla denuncia di «Unesco alla siciliana», dove Legambiente ironizza su chi pretende insieme di avere il bollino di «sito Unesco» (che Siracusa ha) ma senza gli impicci di ogni vincolo di tutela che «blocca lo sviluppo» e «sa solo mummificare!»

trovare unità d’azione? Il Fatto Quotidiano, 6 novembre 2013
La grandiosa Cittadella di Alessandria (estesa su venti ettari) è una delle più importanti testimonianze sopravvissute dell’arte della fortificazione monumentale in età moderna. Candidata a entrare nella lista dei siti Unesco, nel 2012 è arrivata prima nella classifica dei “Luoghi del cuore” promossa dal Fai: sono stati 53.953 i cittadini italiani che l’hanno segnalata. Ed è sui suoi bastioni che, il 10 marzo 1821, ha sventolato per la prima volta il tricolore nazionale.

Nel 2007 la Cittadella è stata ceduta dal ministero della Difesa al Demanio: è dunque tornata alla comunità civile? Manco per sogno, è sprofondata nel più completo degrado. Denunciando il quale degrado, Gian Antonio Stella ha scritto sul Corriere della Sera: “È una questione di scelte: o la manutenzione quotidiana, che forse è noiosa e ripetitiva ma salva i monumenti, oppure l’abbandono in attesa, di anno in anno, di decennio in decennio, di un mega-progetto sbandieratissimo e complicatissimo e costosissimo... Scelte: solo una questione di scelte. Certo, in un Paese che vive di proclami roboanti e di promesse di ponti giganteschi e tunnel fantasmagorici ed Expo planetarie, la quotidiana manutenzione del buon padre di famiglia non porta voti, non porta gloria, non porta titoli sui giornali...”. Era il luglio 2011: dopo oltre due anni siamo ancora a quel punto. Poche settimane fa il Demanio ha esplicitato la propria intenzione di affidare in gestione la Cittadella a un concessionario privato.

Quel che è peggio è che il Comune di Alessandria e le associazioni come il Fai sono state tagliate fuori dalla delicatissima fase di costruzione del bando, tanto che il sindaco Maria Rita Rossa ha dovuto dichiarare che bisognerà “mettere dei paletti per la tutela del Bene e la salvaguardia delle legittime aspettative della cittadinanza alessandrina”. Nelle migliori tradizioni: all’incuria segue la privatizzazione, l’incapacità di chi dovrebbe tutelare l’interesse pubblico fa largo al profitto privato. Non era questo il progetto della Costituzione.

Il manifesto, 30 ottobre 2013

a ristrutturazione della Fondazione cassa di risparmio di Perugia, proprietaria del bene storico, fa scattare l'allarme. Sotto accusa la Soprintendenza che in soli due giorni ha dato il via libera
Le Logge dei Tiratori di Gubbio sono diventate il «loggiato della discordia» sui giornali locali. Il motivo è tutto nel progetto di ristrutturazione, o meglio di «chiusura» a base di vetri e acciaio, presentato da Carlo Colaiacovo, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, proprietaria di questo pezzo di patrimonio della città dal 2012 dopo averlo rilevato da Unicredit. La «cura ricostituente» pensata dalla Fondazione ha immediatamente scatenato l'ira dei comitati cittadini, di Italia Nostra, Terra Mater, e dei consiglieri regionali Paolo Brutti dell'Idv e Orfeo Goracci, del gruppo Comunista Umbro, che hanno presentato già un'interrogazione in merito.

«Le Logge», come le chiamano familiarmente a Gubbio, fonte di discordia lo sono state fin dalla loro costruzione, avvenuta all'inizio del XVII secolo, dopo innumerevoli controversie, sopra il lungo edificio, eretto nel 1326, provvisto di porticato e delimitato dalla chiesa di Santa Maria dei Laici, in origine adibito a ospedale. Un affresco con la Madonna tra i SS. Pietro e Paolo datato 1473 e dovuto a un allievo del Nelli ancora oggi ne impreziosisce la facciata. Già dalla metà del secolo XV l'Arte della Lana mirava a costruire, sopra l'ospedale, un locale coperto per «tirare» i panni (cioè per asciugare la stoffa una volta tinta, tesa in modo da farle assumere una lunghezza e una larghezza determinata).

Le Logge, secondo quello splendido principio espresso da Goethe secondo cui «l'architettura degli antichi è una seconda natura», si sono bene integrate nel contesto della città, proprio grazie a quel loro essere aperte, come un tempio greco, dove l'aria e la luce giocano con le prospettive che si intravedono fra le colonne. Da un'angolazione si vede il Palazzo dei Consoli, Piazza Grande, dall'altra la chiesa di S. Giovanni, la prima, antica Cattedrale della città. Un abile gioco di prospettive che ha permesso ai commercianti dell'epoca di intervenire per i propri interessi utilizzando uno spazio pubblico in modo così accorto e poco invadente da far credere che quel livello superiore del loggiato sia da sempre esistito, senza urti né interferenze.

Ma ecco che i proprietari, venuti tragicamente in possesso di un bene monumentale che doveva restare pubblico, cercano di ristrutturare, «rifunzionalizzare», come dicono loro, qualcosa che percepiscono come «vuoto architettonico», senza pensare che altrettanto «vuote» potrebbero essere definite le arcate del Colosseo, dei teatri greci e romani, dei loggiati di Siena e Firenze, e di tutti quelli che abbelliscono le piazze dell'Italia settentrionale e centrale. Arena di Verona, Valle dei Templi... perché non coprirli tutti con meravigliose soluzioni innovative, magari firmate da architetti compiacenti?

Le leve che vengono utilizzate per scardinare le resistenze sono quelle consuete, della filantropia e dell'innovazione capace di portare lavoro in tempo di crisi: le Logge di piazza 40 Martiri saranno trasformate in sala convegni, saranno sede di mostre che andranno a benificio di tutta la città, ospiteranno esposizioni internazionali che permetteranno a Gubbio di uscire dal suo provincialismo e alle Logge di assurgere alle vette della «Piramide» del Louvre. Mutatis mutandis, l'architetto Carlo Salucci, a cui è stato dato l'incarico, si sente un piccolo Ieoh Ming Pei, visto che anche lui deve «coprire» lavorando con vetro e acciaio. Ed è proprio su questo punto che si è scatenata la ribellione: si può accettare che la vocazione «naturale» delle logge dei Tiratori di Lana sia quella di essere un centro Congressi, o che si punti sulla fruizione di un bene finora inutilizzato «anche da parte del pubblico», per quanto la proprietà privata resti con tutte le conseguenze, ma che le Logge si debbano chiudere con vetri e acciaio, proprio no. E su questo si stanno scatenando le polemiche che già alla presentazione del progetto, nella sala conferenze dell'Unicredit, hanno fatto sollevare una parte della cittadinanza, che non ci sta a farsi imbonire, contro i grandi prestigiatori che velatamente ricattano con il più apprezzato di tutti i ricatti, quello del lavoro, mentre decantano lo sviluppo (sostenibile o insostenibile per loro nulla importa) turistico, le promettenti ricadute sulla città, le irripetibili iniziative che si potrebbero svolgere in un terrazzo meraviglioso, finora abbandonato alle intemperie e ai piccioni.

Invece: parquet al pavimento, ascensore e passerella che colleghi la struttura alla piazza. 5 metri x 3,20 la misura di ciascun vetro, "ad alta trasparenza, autopulente e antisfondamento" pubblicizzato con il linguaggio tipico del piazzista. Ma dare «la colpa» alla proprietà in fondo non serve. La responsabilità vera, in tutta questa amarissima vicenda, è della Soprintendenza, che in soli due giorni ha dato il via libera al progetto, quando, come tutti gli eugubini sanno bene, non esiste in città, e a ragione, la possibilità di aprire nemmeno un miserevole lucernaio o di spostare una singola pietra da parte dei privati. Inesplicabile anche il parere favorevole della commissaria prefettizia Maria Luisa D'Alessandro, intervenuta alla guida della città dopo il suicidio del Consiglio Comunale, che si è detta felice del raggiungimento dell'equilibrio di bilancio, grazie alle entrate che il Comune percepirà in seguito a un intervento di tale portata.

«Il progetto è ritenuto valorizzante e non impattante per la città» ha concluso la commissaria, alla quale più di un soggetto politico aveva rivolto la preghiera di demandare una decisione tanto importante agli organi amministrativi una volta eletti.

«È inaccettabile l'introduzione di elementi incompatibili con la struttura»
Il progetto di ristrutturazione delle Logge dei Tiratori di Gubbio, finanziato dalla Cassa di risparmio di Perugia in convenzione con il Comune, ha provocato una partecipata sollevazione di comitati cittadini insieme a Italia Nostra e Terra Mater: ricorsi, fiaccolate, tavole rotonde sono in programmazione nei prossimi giorni.
Il presidente della sezione di Gubbio di Italia Nostra Mario Franceschetti e il segretario generale di Terra Mater Franco Raffi, sostengono che quanto si vuol fare alle Logge è una vera e propria manomissione del patrimonio storico-artistico italiano.
«Con note trionfalistiche, del tutto fuori luogo, è stato presentato a Gubbio il progetto di ristrutturazione delle Logge dei Tiratori. Il piano attuativo - approvato dal commissario prefettizio e dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici dell'Umbria - prevede la realizzazione di una sala convegni, con vetrate e tendaggi, e di una passerella sul torrente Camignano per collegare piazza del mercato con piazza san Giovanni. È oggi necessario che lo Stato - nelle sue varie articolazioni - recuperi credibilità, sottraendo un patrimonio comune all'arbitrio di mecenati improvvisati e di burocrati compiacenti», si legge nel documento unitario inviato alle autorità competenti. «Ciò che rende inaccettabile il progetto - sottolineano le associazioni - è l'introduzione di elementi incompatibili con la struttura delle Logge, rarissimo esemplare di archeologia preindustriale. È certo auspicabile l'apertura al pubblico del grandioso monumento, ma solo per usi che non comportino manomissioni».

l Fatto Quotidiano, 12 Ottobre 2013 (m.p.g.)

Non potrebbe esserci situazione più simbolica: per non intaccare la ricchezza privata si aggredisce la ricchezza pubblica, per non far pagare l’Imu nemmeno ai milionari si svendono gli immobili che appartengono a tutti, e dunque anche a chi non ha nemmeno una casa propria. Come sempre quando si tratta di raschiare il fondo del barile, anche il governo Letta lancia la vendita del patrimonio immobiliare pubblico: case, palazzi, castelli e caserme del popolo italiano saranno offerti in vendita a privati e a imprese, italiani o stranieri poco importa. Ci si aspetta di tirar su 2 miliardi di euro da un lotto che comprende un’isola della Laguna di Venezia, un castello medioevale nel Viterbese, ville storiche a Monza come a Ercolano e molto altro. Ci sono molte ragioni per cui questa scelta appare profondamente sbagliata: alcune sono pratiche, altre di principio. Le prime riguardano la congiuntura economica. Perché lo Stato dovrebbe fare ciò che nessuno di noi farebbe volentieri: e cioè vendere in un momento in cui il mercato immobiliare è in ribasso? Non si rischia così di svendere i beni di tutti, magari avvantaggiando la speculazione dei soliti noti? E non sarebbe meglio – parlo degli immobili non storici e non di pregio – affittarli? Magari non a enti pubblici, secondo il percorso perverso per cui non di rado lo Stato vende i beni che ospitano alcune sue istituzioni (per esempio le università), le quali sono poi costrette a pagare l’affitto ai nuovi padroni privati.

Ma, ammesso e non concesso che si riesca a vendere questo patrimonio a prezzi non iugulatori, siamo proprio sicuri che sia meglio monetizzarlo, e cioè esporne i proventi alle altalene di un mercato finanziario che potrebbe farli evaporare in un batter d'occhio, vanificando così il sacrificio di tutti noi? Già, perché l’endemica assenza di consapevolezza circa il fatto che “lo Stato siamo noi”rischia di farci dimenticare che vendendo questa riserva pubblica impoveriamo non solo noi stessi, ma le generazioni future, che ovviamente non hanno alcuna voce in capitolo nelle nostre scelte. Come ha efficacemente scritto Ugo Mattei (in Contro riforme): “In Italia il maggiordomo assunto a termine (la maggioranza del momento) ha il potere di vendere il patrimonio di famiglia (appartenente alla collettività dei cittadini) trasferendolo sottocosto ad attori privati amici e compensando profumatamente le banche d’affari che gestiscono tali ‘cartolarizzazioni’.

Questo vero e proprio saccheggio è stato esercitato in modo rigorosamente bipartisan da governi tecnici e riformisti, tutti preda senza alcuna distinzione degli stessi poteri forti di cui gran parte dei ministri è consulente, o comunque a libro paga”. E il fatto che questa operazione di ulteriore smantellamento della ricchezza pubblica venga affidata alla Cassa Depositi e Prestiti diretta da Franco Bassanini, tra i principali artefici del massacro della Pubblica amministrazione, non fa che confermare l’analisi di Mattei. Oltre al danno patrimoniale, le svendite decise dal governo Letta rischiano di provocarne altri sul piano culturale e sociale. Nelle ultime settimane il comitato di redazione del Corriere della Sera ha pubblicato una serie di comunicati sindacali dedicati alla possibile vendita della storica sede di via Solferino. In uno di essi (25 settembre) si legge che la Rizzoli non è nelle condizioni di Antonio, il Mercante di Venezia di Shakespeare che è costretto a dare in pegno all'usuraio Shylock una libbra della propria carne. Ed è per questo che i giornalisti del Corriere credono che non sia giusto “fare cassa svendendo il patrimonio storico e un pezzo dell’identità del gruppo (libbra di carne)”.

Se questa sacrosanta considerazione vale per il Corriere , essa deve valere a maggior ragione per la Repubblica italiana, che ha messo il patrimonio storico e artistico tra i propri principi fondamentali. Gli immobili pubblici, infine, sono una straordinaria riserva di democrazia,partecipazione e coesione sociali. Nelle nostre città c’è un enorme bisogno di restituire alla gestione diretta dei cittadini gli spazi improduttivi, e dunque sottratti a ogni forma di utilità sociale. Se questo vale, a rigor di Costituzione, addirittura per gli spazi privati, cosa dovremmo dire di quelli che appartengono a tutti noi? L’occupazione del Teatro Valle a Roma, del Teatro Rossi e del Colorificio a Pisa, dell'Asilo Filangieri a Napoli e moltissime altre sono lì a testimoniare la fame di spazi pubblici da rimettere al servizio della comunità. Moltissimi dei nostri archivi e delle nostre biblioteche non hanno spazio, e molti dei nostri musei dovrebbero potersi espandere. E molti degli immobili pubblici comunque a ciò non adatti potrebbero essere piuttosto affittati, a prezzi sociali, a cooperative di giovani pronti a impiantarvi delle attività imprenditoriali. Insomma, solo un cieco o un affarista non vede il potenziale democratico e sociale di un patrimonio che a tutto dovrebbe servire tranne che ad arricchire la speculazione.

». Altreconomia.info, 28 settembre 2013

"Se picchi emotivi di rabbia indignata non lasciano spazio alla rassegnazione, c'è ancora spazio per resistere alla devastazione del territorio". In occasione del “digiunoperlambiente promosso il 28 e 29 settembre da numerosi comitati veneti contro Grandi opere e Project Financing, Ae intervista Francesco Vallerani, geografo dell'Università Ca' Foscari e autore di Italia desnuda. Percorsi di resistenza nel Paese del cemento






«L'Italia sarà sempre più desnuda se, dopo i picchi emotivi di rabbia indignata, il disagio di vivere tra i cannibali del paesaggio si tramuterà in rassegnazione» scrive Francesco Vallerani presentando il suo libro, Italia desnuda. Percorsi di resistenza nel Paese del cemento (Edizioni Unicopli, 2013).
Vallerani, che insegna Geografia all'Università Ca' Foscari-Venezia, è veneto, ed il Veneto - un paesaggio che ha subito negli ultimi decenni eccessive trasformazioni- è l'ambito privilegiato dei suoi studi.

E poiché i processi di cementificazione non paiono destinati a fermarsi, il 28 e 29 settembre numerosi comitati veneti (cittadini che non si rassegnano, e coltivano la propria indignazione) hanno scelto di lanciare un messaggio contro le grandi opere, digiunando contro “la devastazione del territorio”. È un "digiunoperlambiente che - secondo Vallerani- rappresenta “una strategia valida per tenere alta l’attenzione sulla necessità assoluta di salvare il salvabile, e bloccare una volta per tutte la corsa folle verso l’accaparramento di ciò che ancora resta di preziose risorse territoriali”. 



Nel tuo libro, evidenzi il rischio di "noncuranza", "assuefazione", di una "indifferenza che placa i disagi" di questa invasione del cemento. In che modo il "digiuno a staffetta" -promosso al termine dell'iniziativa "solitaria" di Don Albino Bizzotto - rompe questo stato di cose? Che effetto può avere?


«Noncuranza è figlia dell’indifferenza, che va di pari passo con la superficialità con cui si affronta ogni aspetto della vita quotidiana, accontentandosi di spiegazioni semplificate e senza alcun interesse per un percorso esistenziale consapevole. Questo è uno dei frutti velenosi diffusi ampiamente nei decenni di videocrazia in cui siamo immersi, regime che senza manganelli e olio di ricino ha distratto e addormentato le coscienze, lasciando ampio spazio a una progressiva erosione e impoverimento delle regole necessarie alla convivenza civile. L’invasione del cemento, con tutte le sue devastanti tipologie, è uno degli esiti più appariscenti di questo elogio delle strategie per l’arricchimento individuale.

«Le conseguenze del disastro sono di fronte agli occhi di tutti e la politica, tenuta in scacco dagli immensi interessi immobiliari e delle grandi opere, si è rivelata incapace di governare l’evolversi della territorialità.
Se le leggi non servono, poiché trionfa il meccanismo delle deroghe e degli abusi, non restano che le azioni di elevato valore evocativo e simbolico, come la straordinaria scelta del digiuno di Don Albino, quanto mai opportuno e benefico sasso lanciato nel maleodorante e torbido stagno dell’indifferenza pubblica e privata. Dopo la risonanza mediatica del singolo fatto, fa piacere notare la reazione dei cittadini di buona volontà che nonostante tutto riescono a sopravvivere in una regione come il Veneto. L’indignazione e il disagio che ho potuto rilevare è causato non solo dalla colpevole latitanza delle istituzioni - che non hanno vigilato sul pregio di importanza globale dell’ex paesaggio palladiano, consegnandolo ai posteri sotto forma di una sgangherata accozzaglia di obbrobri edilizi, con inoltre aria e acque seriamente contaminate -, ma anche dai nuovi scenari previsti in un immediato futuro, fatto di nuove infrastrutture viarie, nuove e pervasive edificabilità, contaminazione definitiva dei paesaggi più attrattivi».



Per quale motivo, a tuo avviso, il Veneto -che è stato un esempio di urbanesimo per il nostro Paese- è diventato oggi un paradiso per capannoni? Perché sta accadendo questo, intorno ai centri storici e alle Ville palladiane, che sono un Patrimonio dell'umanità Unesco?

«In Veneto le popolazioni hanno trovato, fin dai tempi della colonizzazione romana (basti pensare alla intensa distribuzione di agri centuriati, ancora oggi facilmente visibili tra Padova, Treviso e Mestre) ottime condizioni ambientali per un vantaggioso insediamento, per lo più collegate alla fertilità dei suoli, all’abbondanza di acque, sia per l’irrigazione che per i trasporti verso il litorale, e di boschi.
Inoltre, la distribuzione sparsa delle abitazioni, raramente aggregatesi in villaggi compatti, si consolida in età medievale con una fitta distribuzione di pievi rurali, attorno a cui si aggregano le prime unità di villaggio. Queste costituiscono una fitta rete di relazioni legate al mondo rurale, da cui emergono numerose polarità di importanza strategica -soprattutto nel periodo di frequenti conflitti tra i liberi comuni di Verona, Vicenza, Padova e Treviso-.
 Centri che sono ancora oggi delimitati da importanti cinta murarie (Cittadella, Montagnana, Soave, Este etc.). 
L’eredità storica di case sparse e città murate sono simboli tuttora indelebili di spiccato individualismo e di chiusura contro l’altro, per cui fin dalle origini prevale il proprio tornaconto o quello di una comunità ristretta rispetto al bene comune. Il mancato rispetto dei contesti attorno ai centri storici e alla maggior parte delle ville di età veneta ha inoltre a che fare con le condizioni di profonda miseria e ignoranza, e soprattutto con le politiche nazionali che non sono riuscite a capire che l’emergenza del primo dopoguerra si era esaurita alla fine degli anni ’50, anche tra gli ex poveri emigranti veneti.
È mancata una guida urbanistica, ma soprattutto etica, con gravi responsabilità anche da parte della Chiesa, che non ha per nulla rallentato la china rovinosa verso l’insaziabile rincorsa al benavere, travolgendo ogni valore e sacralità del creato, deviando invece verso la nuova religione del denaro e del successo economico. Ecco perché è perfetta la definizione di “paradiso per capannoni”».



In "Italia desnuda" evidenzi come, da Calvino a Settis, il mondo della cultura abbia avuto un ruolo fondamentale nel descrivere il paesaggio e le sue trasformazioni a partire dagli anni Cinquanta. Se è vero che Antonio Cederna riuscì a far istituire il Parco dell'Appia antica, per quale motivo credi che oggi l'effetto congiunto di indignazione intellettuale ed "azione popolare" non producano gli stessi effetti?

«Il caso di Cederna e del parco dell’Appia Antica è più unico che raro: tutte le altre voci che si sono levate in difesa del paesaggio italiano tra gli anni ’50 e ‘60 hanno avuto poco esito, salvo il caso della legge di tutela dei Colli Euganei, nel 1971, che ha bloccato il prelievo di trachite dagli splendidi poggi amati e descritti da Petrarca, Foscolo, Byron e Shelley.
Oggi l’indignazione intellettuale è senza dubbio molto più diffusa, ma per incidere sull’opinione pubblica e smuovere i responsabili politici per un tempo poco più lungo di uno spot pubblicitario (è questa ormai l’unità di misura per valutare il livello di attenzione, in quest’epoca di superficialità liquida), è necessario l’intervento del personaggio molto esposto nelle reti televisive, di abilità oratoria, dotato di qualità telegenica, dunque un tipico esemplare da talk show.
Il contributo delle centinaia di altri prestigiosi intellettuali che per fortuna ancora operano in questo sciagurato Paese rimane relegato in qualche aula universitaria, nelle riunioni di comitati, in qualche libro o articolo di modesta tiratura, quasi mai recensiti dagli organi di stampa (anche i cosiddetti progressisti e democratici).

«Non resta che l’azione popolare, ma anche qui bisogna essere rumorosi (non violenti), elaborare strategie insolite, come nel caso (di enorme efficacia mediatica a livello globale) dei coraggiosi che a nuoto si sono messi di traverso alle grandi navi nel canale della Giudecca a Venezia.
Ricordo con nostalgia il generoso contributo dato da Andrea Zanzotto alla battaglia per la difesa del paesaggio veneto, producendo larga condivisione. Tale successo è stato addirittura avvallato dai vertici della regione, garantendo con retorica solennità la tanto auspicata inversione di tendenza. Le solite parole senza seguito, effimera condivisione che però mai hanno avuto seguito concreto: anche oggi il viaggio nell’entroterra di Venezia consente di riempire un ancora troppo spesso quaderno di doglianze».

La merce va al nord: centomila euro per ricostruire un’intera zona
di Giuliano Foschini

Un pezzo di paesaggio pugliese in una villa in Brianza: l’ulivo secolare, il muretto a secco, il trullo. La scogliera sarda in una piscina sul litorale romano. Un casale umbro in Veneto, la terra rossa della Valle d’Itria all’Argentario. In Italia esiste un mercato assai particolare in grado di annullare la geografia, alterare l’ambiente e molto spesso consegnarsi al kitsch: è il mercato dei ladri di paesaggio. Sono contadini, vivaisti, architetti di esterni che si offrono di prendere un pezzo di un territorio e di riproporlo uguale e identico in qualsiasi parte d’Italia, anche a migliaia di chilometri di distanza.

Non lo fanno per bellezza, ma per denaro. Tanto: un albero secolare può costare anche diecimila euro, compreso di espianto e reimpianto. Mentre per ricostruire una zona si arriva a centomila euro. La regione che più delle altre viene saccheggiata è la Puglia, che ha nel suo territorio agricolo specificità chiare, a tratti uniche: gli ulivi secolari, per l’appunto. Ma anche la terra rossa nella quale crescono, i muretti a secco e addirittura i trulli. Ci sono vivai che vendono pacchetti interi mentre basta fare un giro su Internet per comprare un ulivo secolare. I prezzi variano dai mille ai cinquemila euro (compresi di trasporto e impianto), per realizzare un trullo non si va sotto i ventimila a cono mentre i muretti a secco, con pietre originali, non costano meno di 300 euro a metro quadrato. « mercato è florido, da quanto ci risulta le richieste sono molto alte» spiegano le forze di polizia che da anni hanno dichiarato guerra a questi predoni. Soltanto quest’anno ci sono stati un centinaio di sequestri: l’ultimo, effettuato dalla Finanza, è di sabato scorso quando su un camion sono stati trovati tre ulivi appena spiantati pronti a partire per un vivaio del Nord.


« vero problema - spiega il vice presidente nazionale di Legambiente, Edoardo Zanchini - è che non esistono leggi che tutelano un bene importante come il paesaggio. Proprio la Puglia ha, col governo Vendola, varato una legge importante per tutelare gli ulivi secolari. Ma evidentemente c’è qualcosa che non funziona, visto che il mercato non si è mai fermato: proprio l’altro giorno, con Goletta Verde, eravamo all’Argentario e ci siamo accorti che improvvisamente era spuntato un enorme ulivo secolare». Legambiente ha avviato una ricognizione per verificare i danni dei predoni del paesaggio. «È incredibile quello che è successo sulla costa dove è cambiata la morfologia: per creare spiagge laddove non ce n’erano, e creare accessi al mare dove esistono scogliere, sono state sbancate dune, rubata spiaggia qui e là che ha cambiato proprio la linea della costa».

«Effettivamente questo è un fenomeno nuovo però dal nostro punto di vista molto affascinante» commenta Mauro Agnoletti, professore della facoltà di Agraria dell’Università di Firenze e coordinatore della commissione di paesaggio agrario al ministero dell’Agricoltura. «Si sta riscoprendo l’importanza del paesaggio e non della singola pianta, ma dell’intero ambiente. Però il paesaggio va curato, restaurato ma non stravolto come sta accadendo anche perché non esistono catalogazioni e normative specifiche». Il professore cita per esempio il caso di querce secolari «prenotate l’anno precedente e poi spiantate con i bulldozer e le gru per essere trasportate in ville private. Ma anche alberi di agrumi, magari caratteristici della Sicilia, che finiscono al Nord. Il problema è che deve esistere una differenza tra una pianta e un soprammobile

Salviamo quei tesori dagli sfregi estetici
di Carlo Petrini

Mentre attraversavo il Salento non riuscivo a credere che per anni gli ulivi secolari e i muretti a secco che stavano rendendo il mio viaggio più piacevole fossero stati regolarmente estirpati dal territorio per finire in qualche spazio privato. Dopo anni di sciacallaggio del paesaggio (scusate la rima, ma questo è) ora in Salento ci sono controlli ferrei e i recenti arresti lo provano. Godevo di quegli scorci, di alberi che sono meglio di un’opera d’arte, di muretti che esprimono la cultura contadina meglio di qualsiasi parola, al pari di tanti buoni prodotti. Provavo a immedesimarmi nel ladro di paesaggio, o nel “mandante”: complici in un’azione criminale e responsabili di un’aberrazione estetica doppia. Data dal depauperamento del paesaggio, ma anche dall’idea triste, da parvenu ignorante, di poter mettere quei tesori altrove, fuori dal proprio contesto territoriale come in un giardino di una villetta. Mi dicevano che durante il boom di questo nefasto commercio gli ulivi venivano venduti per un paio di centinaia di euro. Ora divieti e controlli avranno fatto lievitare i prezzi sui mercati clandestini, ma quelle cifre comunicano perfettamente la bassezza di ladri e acquirenti: vengono i brividi solo al pensiero di dover quantificare in denaro il valore inestimabile di un ulivo cresciuto poderoso e produttivo, avvoltosi su se stesso in infinite forme per cento anni, sotto il sole cocente, battuto dal vento. Quell’ulivo è del proprietario della terra, certo, ma la combinazione esatta di quell’ulivo su quella terra sono un bene comune per chi ci si può perdere con gli occhi e con l’immaginazione. Sradicarlo e venderlo significa privatizzare un bene di tutti. Ed è una zappa sui piedi clamorosa per chi abita questa terra magica, oggi meta turistica molto popolare, ma che senza ulivi secolari e muretti a secco perderebbe identità riempiendo così di deserto gli spazi tra spiagge iperaffollate e svuotando di contenuti quella cosa che ci pregiamo di chiamare territorio. Vale per il Salento ma vale per ogni angolo di questa Nazione ancora bellissima: una “grande bellezza” (per dirla come il regista) più di tutto e nonostante tutto, che non merita ulteriori scempi.

Greenreport, 6 settembre 2013

Nel maggio 2012 abbiamo celebrato in un convegno internazionale - e con giusta enfasi - novanta anni di storia esaltante e per lunghi periodi drammatica del Parco Nazionale d’Abruzzo, oggi anche del Lazio e del Molise. Il convegno, i cui atti sono già stati editi in Italia e stanno per uscire in Gran Bretagna in edizione inglese, ha testimoniato la ricchezza di questa storia, la sua profonda e duratura risonanza nazionale e internazionale, il suo carattere pionieristico, le molteplici e straordinarie influenze che ha esercitato in più fasi sulla vita del territorio ma anche sulla politica e sulla cultura nazionale.

Uno straordinario patrimonio di esperienze e di conoscenze, insomma, un punto fermo nella coscienza ambientale locale, nazionale e internazionale e un’esperienza gestionale che ha pochi paragoni in Europa, come dimostra anche una messe di studi che si stanno ampliando di anno in anno. Arrivare – pur tra contraddizioni e contrasti a volte, ripetiamo, drammatici – ad accumulare questo eccezionale patrimonio che dal 1967 è riconosciuto da un importante diploma europeo ha implicato un formidabile contributo sia delle migliori energie locali, a partire dal fondatore Erminio Sipari, sia di una messe di tecnici, studiosi, politici di livello nazionale e internazionale. Per Pescasseroli e per il Parco sono passate in novanta anni figure che hanno fatto la storia della protezione della natura in Italia e nel mondo e vi hanno lasciato tracce spesso durature: da Riccardo Almagià a Pietro Romualdo Pirotta, da Ansel Hall a Filippo di Edimburgo, da Franco Pedrotti a Carmelo Bordone e tanti altri. Se si guarda agli organigrammi dei parchi nazionali e regionali italiani, all’informazione naturalistica, all’associazionismo ambientalista difficilmente si trova qualcuno che non abbia compiuto una parte della propria formazione o della propria esperienza professionale al Parco. Ciò è potuto avvenire, salvo brevi periodi, soprattutto grazie a un alto livello dei vertici gestionali, cioè dei presidenti e dei direttori dell’Ente.

Lungo novant’anni si può dire che soltanto per una ventina d’anni (dal 1933 al 1951 e dal 1963 al 1969) il Parco non ha avuto dei vertici di livello nazionale e internazionale, cioè grandi direttori come invece sono senz’altro stati Nicola Tarolla, Francesco Saltarelli, Franco Tassi e grandi presidenti come Erminio Sipari, Giulio Sacchi, Angelo Rambelli, Michele Cifarelli, Fulco Pratesi, Giuseppe Rossi. Persino la discussa esperienza di Aldo Di Benedetto, che noi stessi abbiamo avuto modo di criticare aspramente, rappresentava l’ambientalismo nazionale ad alti livelli e aveva una notevole esperienza di tutela alle spalle. Queste nomine, insomma, hanno sempre significato che la politica è stata in grado oppure è stata efficacemente indotta a riconoscere l’altissimo valore del Parco e a dotare il suo Ente di vertici adeguati, tecnicamente e culturalmente.

Questa lunga - ed estremamente feconda, come abbiamo visto - tradizione sembra ora interrompersi drammaticamente con la designazione da parte del ministro dell'Ambiente Andrea Orlando alla presidenza dell’Ente di un politico locale, sicuramente un galantuomo e un buon amministratore che però non possiede alcuna esperienza gestionale e soprattutto non possiede un profilo adeguato rispetto allo straordinario bagaglio che sarebbe chiamato a gestire. Questa scelta, perfettamente legittima sotto il profilo istituzionale, rappresenta però un cedimento inedito e assai grave a interessi di basso profilo: alla necessità di dotare un Ente, che peraltro viene da una storia recente difficile e paga il prezzo del progressivo decadimento della politica delle aree protette italiane, di un amministratore esperto, capace e inventivo viene infatti preferito il bilancino degli equilibri di potere provinciali.

La presidenza di una figura dalla storia straordinaria come Giuseppe Rossi meritava e merita senz’altro, coi suoi innegabili successi gestionali e d’immagine, un consolidamento e non si comprende come si sia potuto pensare di mettere da parte il suo prezioso contributo; il fatto – ancor peggiore – che a un costruttore del sistema delle aree protette nazionali come Rossi possa succedere un amministratore locale del tutto privo di esperienza non getta soltanto una luce sinistra sulle derive della politica delle aree protette italiane ma anche sul futuro del Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise. La sua capacità di rappresentare un faro nell’universo delle aree protette europee, capacità che sembrava essere stata faticosamente ripristinata, è infatti destinata in questo modo a indebolirsi irrimediabilmente mentre non è difficile immaginare rischi ancor maggiori sul piano gestionale.È essenziale insomma che la scelta di un nuovo presidente per una riserva di eccezionale importanza nazionale e internazionale come il Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise cada su una figura di alto profilo gestionale e/o scientifico, ripetiamo: un profilo nazionale e anche internazionale, come è stato negli anni migliori della sua lunga esistenza. La conferma di Giuseppe Rossi, a nostro avviso, sarebbe la strada più semplice e ovvia; un’eventuale alternativa a questa scelta non potrebbe in ogni caso che contemplare una figura di profilo non inferiore.

Due note per concludere questa riflessione. Per chi ha memoria sufficientemente lunga si può anzitutto osservare che paradossalmente proprio dalle file del partito che dovrebbe essere l’erede storico delle politiche più avanzate sulle aree protette, cioè il Pd, viene la vendetta postuma di Domenico Susi, cioè di colui che negli anni Settanta tentò tenacemente – e per fortuna vanamente – di aggiogare direttamente ed esclusivamente il Parco d’Abruzzo al notabilato locale di partito.

Infine, sorprende e amareggia come su questa vicenda si siano espressi soltanto gli amministratori locali mentre una spessa coltre di silenzio è stata stesa dall’associazionismo ambientalista.Un ulteriore segnale, se ce ne fosse bisogno, dei pericoli che ogni giorno di più incombono sulle aree protette italiane.

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