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La Repubblica, 8 novembre 2014

Mentre leggete questo articolo sfrecciano sulla vostra testa aerei carichi di Caravaggio e Botticelli.
Mai la definizione di "patrimonio artistico mobile" è stata presa alla lettera come oggi: ogni anno e solo in Italia vengono movimentati circa 15mila pezzi archeologici e circa 10mila opere d'arte.

Ma dove va tutto questo ben di Dio? Alle mostre, naturalmente: nell'ultimo anno per il quale esistono dati attendibili (2009) in Italia se ne sonoinaugurate 225 di arte antica, alle quali bisogna aggiungerne 365 di arte dell'Ottocento e del primo Novecento, 73 di archeologia e 96 di architettura. E poi ci sono le mostre all'estero: in questi giorni una pubblicità dice che il Duomo di Milano si trova nel negozio Eataly di New York (l'annuncio parla di tre «boccioni»: non c'entra Umberto Boccioni, ma alcuni doccioni gotici, da tempo smontati).

Sono molti i motivi per i quali dovremmo avere seri dubbi su questa sarabanda: uno è che gli effetti di questo moto perpetuo sulla conservazione delle opere saranno misurabili quando forse sarà troppo tardi. Un altro è che si tratta di un'industria che genera profitto privato a spese di un patrimonio pubblico. Ma forse il più serio è che siamo di fronte alla più grande operazione di rimozione del contesto mai messa in atto. Tanto che nel senso comune è ormai ovvio che esistano due turismi di massa: quello delle persone e quello delle opere d'arte. E oltre ai problemi che ciò pone sul fronte della conoscenza, ce n'è uno anche più serio sul fronte della democrazia: anche nel patrimonio culturale siamo sempre più clienti, sempre meno cittadini.

Come si può provare ad invertire la rotta? Sarebbe urgente che il Ministero per i Beni Culturali si desse regole più serie, e che il vaglio della qualità delle mostre fosse più rigoroso. Ma la pressione degli interessi economici e la debolezza culturale del Mibact inducono a credere che questo non avverrà. E, d'altra parte, la vera battaglia contro un simile modello commerciale si deve combattere sul piano culturale, non su quello dei divieti. E non in nome di tabu cattedratici, ma mostrando l'attualità e la forza di un modello alternativo. Un modello come quello della filosofia Sloow Food, per esempio. Carlo Petrini ha raccontato più volte l'aspirazione «contestuale» di Sloow Food: non «la gastronomia nelle asettiche cucine di lusso delle città», ma la frequentazione dei contadini, degli osti e dei vignaioli «a casa loro». Bisognava attuare l'idea di Luigi Veronelli, che parlava di «camminare le osterie », «camminare le cantine»: e da lì «camminare la terra», «camminare le campagne».

Insomma: «Bisognava rompere la gabbia», e riconquistare il nesso essenziale con la salubrità di aria, terra, acqua, con la memoria e la storia, con la salvaguardia del paesaggio. Non sono parole e valori ignoti alla tradizione della storia dell'arte: anzi, le appartengono da sempre. Ma oggi dobbiamo avere l'umiltà di reimpararli da chi ha saputo, più degli storici dell'arte, parlare al nostro tempo. Perché c'è urgente bisogno di «rompere la gabbia» degli eventi, e di ricominciare a «camminare il patrimonio».
Come farlo, in concreto? Per esempio, adottando il paradigma del "chilometro zero". Nessuno di noi è stato educato a guardarsi intorno, a considerare il rapporto con l'arte del passato un fatto quotidiano. Per farlo bisogna costruire e condividere un modello sostenibile di rapporto con il contesto che abitiamo: con lo spazio pubblico monumentale, che è il vero capolavoro della storia dell'arte italiana.
Invece di andare a vedere una mostra che si intitola «Tuthankamon Caravaggio Van Gogh» (è il successo annunciato per il 2015), potremmo camminare per quindici minuti nella nostra città (per esempio andando al lavoro), accorgendoci finalmente di ciò che ci circonda: un palazzo, una cappella, anche solo un portale o un'epigrafe memoriale, un albero secolare, semplici frammenti del passato inglobati dal tessuto moderno.
E sculture e quadri, naturalmente: perché in Italia i quadri (anche quelli di Caravaggio) stanno ancora nelle chiese (quando non sono in mostra, beninteso). Potremmo iniziare a «camminare» il fitto tessuto artistico delle nostre città: ricominciare a leggere una bellezza le cui chiavi ci sono scivolate di mano. Questo consumo culturale consapevole, spontaneo e non organizzato potrebbe indurci a scegliere di non entrare, diciamo per un anno, in nessun evento per cui occorra pagare un biglietto. Una simile astensione dall'industria culturale — ormai insostenibile — ci farebbe immediatamente vedere l'enorme patrimonio cui possiamo accedere gratuitamente: il «patrimonio storico e artistico della nazione italiana» (art. 9 Cost.), che manteniamo con le nostre tasse. E non sarebbe certo un risultato irraggiungibile, se solo le amministrazioni locali, le soprintendenze, le società di servizi e gli editori si convincessero che un monumento può avere il successo di una mostra.
Allora si potrebbe mettere al servizio del patrimonio artistico monumentale e permanente una parte anche minima dell'onnipotente marketing che oggi vende con tanto successo l'effimero e l'inesistente. Naturalmente questa presa di coscienza dovrebbe cominciare a scuola: dove si studia, invece, sempre meno storia dell'arte. Se i ragazzi fossero messi in grado di prendere coscienza del luogo che dà forma alla loro vita, se avessero il desiderio e gli strumenti per farlo, per così dire, in automatico, e quotidianamente, sarebbe un successo strepitoso: anche se non sapessero nulla di Tuthankamon, Caravaggio o Van Gogh.

Ribaltiamo il modello mainstream: prendiamo tutto il tempo che avremmo speso in manifestazioni "culturali" a pagamento e dedichiamolo a visitare luoghi culturali gratuiti, e possibilmente a chilometro zero, cioè presenti sui nostri itinerari quotidiani. Una simile scelta equivale ad aprire gli occhi: ad accendere la luce nella casa in cui abitiamo al buio perché mai abbiamo avuto il desiderio di vederla. Ed equivale anche ad essere cittadini, e non clienti; visitatori e non consumatori; educatori di noi stessi e non contenitori da riempire. Oggi nel rapporto col patrimonio artistico: domani, chissà, perfino nella vita politica.

«L’arma di distrazione di massa ha fatto centro, e tutto il dibattito pubblico si è concentrato sul pavimento dell’Anfiteatro Flavio, disertando la vera urgenza di queste ore in materia di patrimonio artistico, paesaggio, ambiente: che è l’imminente trasformazione in legge dello Sblocca Italia, e la conseguente, ennesima cementificazione del Paese». La Repubblica, blog "Articolo 9", 4 novembre 2014

«Supercalifragilistichespiralidoso / anche se ti sembra che abbia un suono spaventoso / se lo dici forte avrai un successo strepitoso». Così cantava Mary Poppins nel 1964, e così ha fatto domenica scorsa il ministro per i Beni Culturali, Dario Franceschini: ha detto forte (via twitter) che bisogna rifare l’arena del Colosseo. Ed è stato un successo strepitoso.

L’arma di distrazione di massa ha fatto centro, e tutto il dibattito pubblico si è concentrato sul pavimento dell’Anfiteatro Flavio, disertando la vera urgenza di queste ore in materia di patrimonio artistico, paesaggio, ambiente: che è l’imminente trasformazione in legge dello Sblocca Italia, e la conseguente, ennesima cementificazione del Paese. D’altra parte, Franceschini ha un maestro eccellente: quando era sindaco di Firenze, Matteo Renzi annunciò che avrebbe costruito la facciata della Basilica di San Lorenzo, progettata da Michelangelo. Una balla spaziale, ovviamente, ma che oscurò totalmente la contemporanea firma dell’accordo con Ferrovie dello Stato sul tunnel dell’alta velocità che dovrà sventrare Firenze.

Ma proviamo a prendere sul serio l’idea di rimettere in funzione il Colosseo. E lasciamo perdere gli evidenti pericoli materiali e morali della trasformazione di uno dei massimi monumenti italiani in una superlocation commerciale (perché è così che, ovviamente, finirà: con cene, feste private ed eventi di ogni sorta).

Concentriamoci invece sulla premessa in queste ore più volte esplicitata: e cioè sull’idea che il Colosseo così com’è non ci dice più nulla, mentre per renderlo culturalmente eloquente andrebbe almeno in parte ricostruito e rimesso in funzione. Questa idea rappresenta la fine stessa dell’archeologia: che è la scienza che permette di aprire la conoscenza razionale del passato a tutti i cittadini, qualunque sia il grado della loro cultura. Perché l’archeologia serve proprio a far comprendere, a chi archeologo non è, cosa siano le rovine che ci stanno di fronte. E un archeologo bravo ha tutti gli strumenti per far appassionare i propri interlocutori: che si tratti di un accademico dei Lincei o di una guida turistica. La sapienza e l’eloquenza degli archeologi hanno il potere di rimettere il passato di fronte ai nostri occhi: ma non ci illudono di poterlo rivivere. Perché questo meraviglioso gioco sta proprio nell’attrito continuo tra la resurrezione del passato e la consapevolezza della distanza che ce ne separa. In un’epoca come la nostra, divorata dal narcisismo e inchiodata all’orizzonte cortissimo delle breaking news, l’esperienza razionale del passato può essere un antidoto vitale. Per questo è importante contrastare l’incessante processo che trasforma il passato in un intrattenimento fantasy antirazionalista: dal Codice da Vinci a trasmissioni come Voyager, all’idea di riportare i circenses nel Colosseo.

L’esperienza diretta di un brano qualunque del patrimonio storico e artistico va in una direzione diametralmente opposta alle ‘rievocazioni storiche’. Perché non ci offre una tesi, una visione stabilita, un facile formula di intrattenimento (immancabilmente zeppa di errori grossolani), ma ci porta dentro ad un palinsesto discontinuo, pieno di vuoti e di frammenti: il patrimonio è infatti anche un luogo di assenza, e la storia dell’arte ci mette di fronte un passato irrimediabilmente perduto, diverso, altro da noi. Il passato ‘televisivo’, che ci viene somministrato attraverso un imbuto, è invece rassicurante, divertente, finalistico. Ci sazia, e ci fa sentire l’ultimo e migliore anello di una evoluzione progressiva che tende alla felicità. Al contrario, il passato che possiamo conoscere attraverso l’esperienza diretta del tessuto monumentale italiano ci induce a cercare ancora, a non essere soddisfatti di noi stessi, a diventare meno ignoranti. E relativizza la nostra onnipotenza mettendoci di fronte al fatto che non siamo padroni, ma custodi, del passato.

Poco male se a dimenticarsi di tutto questo fosse stato il ministro Franceschini. Ma è veramente inquietante che gli autori e i supporters più entusiasti dela rifunzionalizzazione dell’anfiteatro siano stati proprio gli archeologi (con l’importante eccezione di Salvatore Settis). L’ex soprintendente di Roma Adriano La Regina se ne è detto entusiasta, e il decano degli archeologi italiani, il presidente del Fai Andrea Carandini, si è rammaricato di non essere «giovane, bello e forte, così da prestarsi sicuramente come gladiatore» (che viene da dirgli di non buttarsi tanto giù: un leone attempato si trova sempre). L’idea è venuta a Daniele Manacorda (ordinario di archeologia a Roma Tre, e già sostenitore del progetto di fare un campo da golf alle Terme di Caracalla), ed è poi stata accanitamente sostenuta da Giulio Volpe, altro archeologo, ex rettore dell’Università di Foggia e già presidente del Consiglio Superiore per i Beni Culturali (che presto tornerà a presiedere, vista la sintonia con i tweet di Franceschini). Tutti costoro hanno sostanzialmente detto che l’archeologia non basta: ci vuole un ‘aiutino’. L’archeologia al tempo del viagra, insomma: una scienza che per eccitare la folla ha bisogno della pillola blu dell’arena con i nuovi gladiatori, i suoni, le luci e i biglietti da staccare. Una dichiarazione di fallimento, una resa, una bancarotta morale. E anche un trasparente ammiccamento al mercato e alla politica: perché se li si prendesse in parola, questi professori di archeologia, e si accettase di rifare l’arena (per permettere ai visitatori di comprendere meglio com’era davvero il Colosseo), ma si decidesse di farla solo visibile (e cioè non calpestabile e non accessibile), tutti gli apostoli della divulgazione archeologica sparirebbero all’istante: a partire dal ministro Franceschini. Perché il punto non è la crescita della conoscenza, ma l’industria dell’intrattenimento: e la possibilità di disporre della più strepitosa delle location.

Uno dei più grandi scrittori del nostro Seicento, Emanuele Tesauro, ha scritto che nel Colosseo «invece di gladiatori, l’arte con la natura combatte»: se a noi questo non basta, è perché non sappiamo più vederlo. È il mainstream del nostro tempo, e tra un po’ non avremo più bisogno di archeologi: basteranno gli impresari, i registi, i figuranti vestiti da gladiatori.
«Supercalifragilistichespiralidoso / anche se ti sembra che abbia un suono spaventoso / se lo dici forte avrai un successo strepitoso».

patrimonioSos e La Repubblica, 2-3 novembre 2014


Patrimoniosos.it, 2 novembre 2014
SETTIS: SERVONO SOLDI
NON SOLUZIONI PLACEBO

Intervista Ansa

«Questo è un momento drammatico per la tutela del patrimonio culturale: lo "Sblocca-Italia" contiene
norme devastanti, e intanto la funzionalità del ministero cala di continuo per mancanza di fondi e di personale. In questa situazione, non credo proprio che l'eventuale restituzione dell'arena del Colosseo sia una priorità ragionevole, anche perché dettata da un'ipotesi di riuso per forme varie di intrattenimento».

Il duro giudizio sulla proposta del ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, che in un tweet ha oggi rilanciato l'idea dell'archeologo Daniele Manacorda di "restituire al Colosseo la sua Arena", è di Salvatore Settis, ex direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa nonché ex presidente del Consiglio superiore dei beni culturali. La proposta di Manacorda, avallata da Franceschini, è ricoprire i sotterranei, oggi quasi completamente scoperchiati, per mostrare "come i visitatori vedevano e vivevano il Colosseo sino a poco più di un secolo fa".

La copertura, secondo il progetto, permetterebbe anche di utilizzare il Colosseo per eventi e spettacoli di diverso genere. Un'ipotesi che trova però l'opposizione di Settis. «La vera, unica priorità del ministro - sottolinea l'archeologo e storico dell'arte italiano in una dichiarazione all'ANSA - dovrebbe essere a mio avviso il rilancio delle strutture di tutela procedendo finalmente a nuove assunzioni di personale altamente qualificato, senza il quale nulla (nemmeno l'arena nel Colosseo) può esser fatto decentemente». Per Settis «senza nuovi investimenti il destino dei nostri beni culturali è segnato: ogni placebo (come questo progetto) durerà lo spazio di un mattino”.

3 novembre 2014
NON TRASFORMATELO IN UNA SCENOGRAFIA

di Tomaso Montanari

Il Colosseo, monumento sicuramente unico, correrebbe il rischio di diventare la più imponente delle location commerciali

Il Ministro per i Beni culturali ha annunciato ieri, via Twitter, che gli «piace molto l’idea dell’archeologo Manacorda di restituire al Colosseo la sua arena». Bisogna riconoscere a Dario Franceschini la capacità di tener viva l’attenzione mediatica su alcune emergenze del nostro martoriato patrimonio culturale: questa estate con il tormentone dei Bronzi di Riace all’Expo, ora con l’idea di rifare il pavimento del Colosseo. Ma la domanda è: questa volta si tratta di una proposta più solida, e destinata a miglior fortuna?

Più di un turista si sarà domandato come facessero i gladiatori e le belve a rincorrersi negli angusti corridoi che oggi emergono dalla pancia scoperchiata del colosso: e le foto ottocentesche ieri twittate da Franceschini valgono egregiamente a svelare l’errore. Cioè a spiegare che ciò che vediamo oggi sono i sotterranei funzionali dell’arena antica.
Ma è davvero il caso di riportare indietro le lancette dell’orologio storico, rimettendo il coperchio agli scavi? È una questione che ciclicamente si pone per molti monumenti: quand’era sindaco di Firenze Matteo Renzi lanciò, per esempio, l’idea di ripavimentare in cotto Piazza della Signoria, tornando alla situazione presettecentesca. Ma il rischio di queste iniziative è scivolare nel falso storico, in un kitsch di cui non sentiamo il bisogno: come decidere dove fermarsi, e quale aspetto dare al monumento, quando si decide di salire sulla macchina del tempo?
In questo caso a preoccupare è soprattutto ciò che verrebbe dopo il ripristino: qual è il fine ultimo dell’operazione? Il professor Daniele Manacorda, cui spetta l’idea, ha chiarito che un simile ritorno, un domani, permetterebbe al Colosseo «di tornare ad essere, carico di anni, un luogo che accoglie non il semplice rito banalizzante della visita del turismo massificato, ma un luogo che, nella sua cornice unica al mondo, ospita — nelle forme tecnicamente compatibili — ogni possibile evento della vita contemporanea ». Ecco, è questo il nocciolo del problema. Che cosa vuol dire «ogni possibile evento»? E dove metteremmo gli spettatori? Non è che, subito dopo, si parlerà di ricostruire le scalinate della cavea? Magari in cemento, come si è fatto nel Teatro Grande di Pompei, durante il commissariamento della Protezione Civile? E poi non succederà che qualcuno vorrà coprirlo, il Colosseo, per farci gli spettacoli anche quando piove, e in inverno? Non sembri bizzarro: è quel che il sindaco Flavio Tosi ha chiesto ufficialmente di poter fare per l’Arena di Verona.
E poi siamo sicuri che il limite debba essere solo tecnico? Potremmo trasformare il Colosseo, poniamo, in un campo da golf? L’esempio non sembri fantasioso: lo stesso Manacorda aveva sposato l’idea di realizzare un simile impianto sportivo alle Terme di Caracalla, a ridosso delle Mura Aureliane. Se Franceschini non ha rilanciato anche questa idea è forse perché nel frattempo una sentenza (15 settembre 2014) della sesta sezione del Consiglio di Stato ha fermato il progetto, perché «modificherebbe sensibilmente la percezione e la coerenza complessiva dello speciale contesto ambientale».
Per il Colosseo, invece, il rischio sarebbe un altro, più subdolo: e cioè che questo monumento unico si trasformi nella più imponente delle location commerciali, magari in un’ambitissima arena per spettacoli di suoni e luci, ad uso di un turismo di infima qualità. Oggi è di moda parlare di edutainment ( education + entertainment), un ibrido che — almeno in Italia — non riesce a coniugare conoscenza e piacere, ma annulla la prima e persegue un intrattenimento di bassa lega, che trasforma il passato in un gigantesco luna park commerciale. Ora, non vorremmo che invece di riuscire a liberare l’ingresso del Colosseo dai tristi figuranti travestiti da gladiatori, qualcuno sognasse di farli entrare su quella famosa arena: e magari di assumerli nelle fila del ministero per i Beni culturali, che non riesce più ad assumere i giovani archeologi di cui avremmo, invece, un disperato bisogno.
Quando papa Innocenzo XI chiese a Gian Lorenzo Bernini di costruire un’enorme chiesa dentro il Colosseo — era il 1675 — l’artista più rivoluzionario del suo tempo rispose che non voleva toccare il monumento: «per la conservazione d’una macchina che, non solo mostrava la grandezza di Roma, ma era l’idea stessa dell’architettura». Parole che sembrano tuttora assai sagge.

Il Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2014

Com'è possibile che la Fontana Maggiore di Perugia sia scomparsa? Eppure da questa fotografia sembra proprio che uno dei principali monumenti del nostro Medio Evo sia sparito nel nulla, cancellato, dimenticato: è stato forse smontato e spedito all'Expo al posto dei Bronzi di Riace? O forse è esposto in una mostra della Basilica Palladiana di Vicenza: ed ecco il titolo, Da Nicola Pisano a Caravaggio a Van Gogh? O se l'è rubato una qualche cricca annidata in qualche ministero?

No, non siamo (ancora) a questo punto: la Fontana c'è (ancora). È stata solo nascosta da un orrendo capannone provvisorio. Una roba da sagra della panzanella piccante o della ranocchia scorticata. Che va benissimo, naturalmente: nulla contro panzanella e ranocchie. Ma non lì, per favore.

Il vero capolavoro della storia dell'arte italiana (un capolavoro non assoluto, ma squisitamente relativo: cioè basato su una rete di relazioni spaziali, formali, metaforiche) è lo spazio pubblico urbano. I centri delle nostre città sono infinitamente più importanti di tutti i quadri che riusciate a ricordare. E questo è bellissimo: perché noi i nostri “capolavori” li possiamo attraversare, percorrere, 'camminare'. Lo spazio pubblico monumentale è la cosa più alta, più giusta, più originale che abbiamo saputo costruire lungo millenni. E allora: perché diavolo dovremmo rovinarlo, alterarlo, banalizzarlo, commercializzarlo per un “evento” qualsiasi? Nelle nostre città non mancano – purtroppo – luoghi dove capannoni come quello possono non disturbare: o addirittura portare un accenno di vita e allegria. Ma come si fa, invece, a piazzarlo in un posto che ha raggiunto il suo equilibrio grazie al pensiero, al lavoro, alla continenza di generazioni e generazioni di nostri padri? E l'argomento della breve durata non è un argomento convincente: nessuno si deturperebbe la faccia “solo per qualche giorno”. E quella piazza è la faccia di Perugia, la faccia dell'Italia. Vediamo di non perderla.

Left Avvenimenti, 4 ottobre 2014

Una delle “grandi opere” del Giubileo 2000 doveva essere il sottopasso di Castel Sant’Angelo, un tunnel che sarebbe partito da lontano e, che passando sotto le fondamenta della Mole Adriana, avrebbe fatto rispuntare il traffico dopo il Santo Spirito. Scendemmo nelle viscere dell’imponente castello poggiato dai Romani su uno zatterone di marmo. I tecnici ci indicavano le grandi fenditure nei muri: la Mole stava “aprendosi” verso il fiume. Il soprintendente ai Beni architettonici, Francesco Zurli, taceva. Parlò quello ai Beni archeologici, Adriano La Regina e pose il proprio veto decisivo. Lo chiamavano già il “signor NO” e da allora lo fu anche di più. Pochi però ricordano il restauro dei Fori curato da lui coi fondi (ben 120 miliardi in più annualità, anche quelli dimenticati) di una legge speciale voluta dal ministro Oddo Biasini. Pochi rammentano che il vero restauro strutturale del Colosseo lo curò sempre il “signor NO” coi 40 miliardi dati, quasi in silenzio, dalla Banca di Roma nei primi anni ‘90.

Il 47 % del Belpaese è protetto da vincoli paesaggistici posti dalle leggi Bottai (1939) e Galasso (1985). Ma gli architetti dello Stato vigilanti su di essi sono appena 487. In calo. Devono ovviamente occuparsi anche di 20mila centri storici (almeno mille mirabili), di migliaia di palazzi antichi, di 95mila fra chiese e cappelle, insieme agli storici dell’arte anche meno numerosi di loro (453). Molti sono anziani: da anni non si fanno concorsi.

Le “belle arti” - così le chiama la gente - hanno fama di bloccare questo e quello in un Paese peraltro insofferente di regole e vincoli. Tanto da essere devastato per oltre metà dagli abusi. Non sono quindi per niente popolari queste “sentinelle della tutela” destinate ad attuare, come possono, con fondi minimi, stipendi all’osso (i funzionari guadagnano 1700-1800 euro), rimborsi risibili per le missioni, l’art. 9 della Costituzione.

Non erano però mai state, neppure sotto Berlusconi, il bersaglio fisso di sindaci e assessori, anche del Pd, e dello stesso premier, Matteo Renzi, già da sindaco di Firenze. Ma sono così tanti i “no” delle Soprintendenze ai 100mila ricorsi edilizi e urbanistici annuali? Macché: appena il 2-3%. Tardano? Per forza, i tecnici che li esaminano sono appena 230 in tutta Italia. Esercitano “un potere monocratico”? Finora sì, come una équipe di scienziati, o di chirurghi. Mica chiedono un parere ai politici. Ma è proprio questo che risulta indigeribile. Difatti Decreto Franceschini e Sblocca Italia pongono ai pochi funzionari, stracarichi di pratiche complesse, termini perentori per rispondere. Addio controlli. E la Costituzione?.

Il Fatto Quotidiano, 30 settembre 2014

«La differenza tra idea e azione», cantava Fabrizio De André. Che è proprio la differenza che separa il titolo della Conferenza Internazionale sul «Patrimonio culturale come bene comune» (organizzata nel quadro del semestre di presidenza italiana dell’Unione europea) dallo svolgimento di quella stessa conferenza. Per cominciare, si è sbagliata la «location» (per usare la sconcertante definizione usata dal ministro Dario Franceschini): l’unico posto in Italia dove si sarebbe potuta organizzare una simile conferenza era il Teatro Valle Bene Comune, a Roma. Ma, accidenti, giusto un mese fa Franceschini e Ignazio Marino hanno ‘sgomberato’ il Valle dalla pericolosa filosofia dei Beni comuni.

E allora si è scelta Torino: ma, anche qua, sbagliando luogo. Perché quello giusto sarebbe stata la Cavallerizza Reale: un grande complesso, costruito tra Seicento e Ottocento come sede dell’Accademia militare, e protetto da un vincolo. Ceduta dal Demanio al Comune di Torino, la Cavallerizza è divenuta parte del Teatro Stabile, e nel 2001 si è aperta alla città come luogo di spettacolo, ottenendo un grande successo. Ma in seguito ai tagli selvaggi ai bilanci degli enti locali, l’amministrazione comunale ha rinunciato a raccogliere i frutti (sociali, ma anche economici) del suo investimento, e ha deciso di mettere in vendita il complesso: nel 2009 è stato affidato alla Cartolarizzazione Città di Torino srl, e nel 2013 sono state interrotte le rappresentazioni e sono iniziate le visite degli speculatori privati che vorrebbero acquistare il monumento (a prezzo di saldo: 12 milioni di euro). È per opporsi a tutto questo che la Cavallerizza è oggi occupata: e proprio da chi davvero crede al «Patrimonio culturale come bene comune».

Ma naturalmente la Conferenza non è stata fatta là, bensì nella Reggia di Venaria: «Tutti i ministri – ha dichiarato Franceschini – hanno apprezzato la straordinaria location». Nel 1998 Venaria fu strappata (per merito di Veltroni) ad un intollerabile degrado, venendo riaperta al pubblico nel 2007. La reggia e i suoi giardini furono conferiti ad un consorzio composto dal Ministero, dalla Regione Piemonte, dalla città di Venaria, dalla Compagnia di San Paolo e dalla Fondazione 1563. Ma a causa del dimezzamento del bilancio dei Beni culturali imposto da Tremonti nel 2008, Venaria iniziò a trovarsi in difficoltà. E così il presidente del Consorzio ipotizzò una soluzione a dir poco allucinante: «Se dallo Stato ci dessero temporaneamente opere significative, come i Bronzi di Riace o dipinti di grandi artisti, da Raffaello a Paolo Veronese, si potrebbe sopperire alla mancanza di fondi, creando forti attrattive per il pubblico».

La Venaria come un Luna Park dell’arte, insomma: e, d’altra parte, il presidente in questione è Fabrizio Del Noce, diventato direttore di Rai Uno dopo essere stato deputato di Forza Italia. Un curriculum che spiega molto, forse tutto. E, infatti, anche a questo giro Del Noce ha riproposto a Franceschini il baratto caldeggiato da Vittorio Sgarbi nello scorso agosto: gli Uffizi dovrebbero prestare per tre mesi la Venere di Botticelli a Venaria, in cambio di due milioni cash. Una transazione tipicamente da beni comuni, come ognun vede.

Dal canto suo, il direttore del Consorzio, Alberto Vanelli, ha proposto a Franceschini di realizzare a Venaria un Museo del Barocco «che occupi in maniera stabile alcune sale dell’immenso complesso»: «Una sorta di viaggio rappresentativo dello stile Barocco in Italia, alimentato da opere e contributi che potrebbero arrivare da tutto il Paese». Un’idea aberrante, che nasce per riempire un vuoto, e che vorrebbe trasformare in ‘museo’ permanente le antologiche di cassetta che tengono in piedi Venaria: un’idea che contraddice intimamente sia la natura storica e locale dei musei, sia l’essenza del nostro patrimonio, diffuso, radicato sul territorio e non antologizzabile. Il Barocco non è un’idea da illustrare attraverso un campione. Lo scrivo da studioso del Barocco: di tutto abbiamo bisogno tranne che dell’outlet nazionale del Barocco!

Un quotidiano torinese ha scritto che «vista la presenza dei 28 ministri, il centro e la zona della Reggia di Venaria, scelta da Franceschini come sede dell’incontro per la bellezza e per il modello di gestione, saranno blindati». Una blindatura forse capace di tener lontani i cittadini dalla riflessione sul bene comune: certo insufficiente a tener fuori l’ignoranza, l’improvvisazione, e la mercificazione. Gli unici ‘beni comuni’ su cui la politica culturale italiana non taglia mai.

Left, 27 settembre 2014

“Il provvedimento ministeriale Franceschini, pallidamente pubblicato soltanto ieri, 19 settembre, dopo un mese di latitanza inutile ed anticostituzionale, è indecente. Il testo demolisce, per esempio, l’Emilia, la Romagna e le Marche uccidendo le tradizioni storiche e artistiche di due regioni. Che spero protesteranno, se hanno dignità”. Questi giudizi pesanti come pietre sono stati calati nel dibattito promosso a Bologna per Artefiera del libro. E sono soltanto gli ultimi macigni di una fitta serie dedicati alle misure previste nel decreto del Presidente del Consiglio firmato da Dario Franceschini titolare del Collegio Romano. Parzialmente difeso da qualche docente universitario sentitosi gratificato dal fatto che il provvedimento governativo selezioni diciotto musei fra gli oltre 400 ed escluda (così il ministro in varie interviste) che tali “punti di eccellenza” possano essere diretti da storici dell’arte in carriera nelle Soprintendenze. Il provvedimento garantisce che saranno affidati /da chi?) a “persone che vengono da esperienze di gestione di altri musei all’estero o con una professionalità specifica”.

Si pensava che il governo Renzi aprisse decisamente ai privati nella gestione dei musei. Invece all’art. 35 essi rimangono “senza scopi di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo”. Ma senza “lucro”, addio privati che non siano mecenati puri. Di più: in una intervista a Francesco Erbani di “Repubblica” Franceschini ha escluso che i privati entrino nei grandi musei, semmai in quelli piccoli. Il livello della confusione sale.

La cosa più certa, in tanta nebbia istituzionale, è la netta scissione operata, sin dal vertice ministeriale, fra Belle Arti, centri storici, paesaggio, territorio da una parte e Musei dall’altra. Una scissione antistorica, disastrosa a partire dai Musei archeologici nati o cresciuti quali musei di scavo o comunque espressione di un’area storica, culturale prevalente. Che fine farà la Soprintendenza speciale per l’archeologia Roma e Ostia? Con o senza Colosseo-Palatino? Prevarrà la logica turistica? Rimarrà la gran pacchia delle società di servizi museali aggiuntivi? Questo macigno che da un quinquennio pesa sui maggiori musei non viene spostato di un millimetro.

Si doveva ridurre il testone centrale del MiBACT e restituire forza e autonomia alle sue indebolite articolazioni territoriali. Il testone centrale sostanzialmente rimane con 12 direzioni generali più la segreteria centrale e le segreterie regionali. Che prendono il posto delle direzioni generali regionali cambiando di nome e però mantenendo molte delle pesanti e criticate competenze sopra la testa (o le spalle) delle Soprintendenze. Queste ultime vengono accorpate: quelle ai Beni storici e artistici (fra le più “antiche”), di nuovo chiamate “Belle Arti”, ai Beni architettonici e paesaggistici, creando infiniti problemi per archivi, uffici, gabinetti fotografici e altro ancora. Modello che contraddice in modo frontale quello saggiamente adottato da personaggi che si chiamavano, agli inizi del ‘900, Corrado Ricci e Adolfo Venturi (giganti rispetto ai troppi nani in circolazione) i quali avevano definito per aree storiche i confini delle varie Soprintendenze.

Non basta. Nascono infatti i Poli Museali Regionali “articolazioni periferiche della Direzione Generale Musei”. Quindi nelle regioni si avranno due linee di comando riferite a due distinte direzioni generali: una per i beni storici e artistici che non stanno nei Musei statali, ma nei musei locali, laici ed ecclesiastici, in chiese, conventi, palazzi nobiliari e vescovili e un’altra per i beni facenti parte del circuito museale statale. Alla faccia della semplificazione. Ma poi chi coordina segretari regionali e direttori dei Poli Museali essi pure regionali? E pensare che i Poli Museali esistenti in talune città erano stati criticati a fondo perché, a Roma per esempio, erano serviti soprattutto a sottrarre fondi ai singoli grandi musei, per organizzare mostre su mostre (spesso di livello mediocre).

E’ il “nuovismo” renziano che passa in un provinciale trionfo e che in realtà tende - oggi con lo Sblocca Italia e col DPCM Franceschini, domani con la legge urbanistica Lupi - a ridurre i poteri e quindi i controlli, la tutela prevista dall’articolo 9 della Costituzione e realizzati sin qui dal Ministero per i Beni e le Attività culturali attraverso le Soprintendenze territoriali. Le quali hanno due torti fondamentali: a) essere state istituite “nell’Ottocento” (errore storico marchiano, furono create nel 1907, in pieno riformismo giolittiano) ed è noto che per Renzi ogni cosa del passato è vecchiume da rottamare, la storia in primo luogo; b) rappresentare organismi tecnico-scientifici “monocratici”, i quali decidono cioè in base a metodi non politici e pertanto risultano politicamente incontrollabili. Il che andava male per Berlusconi, ma ancora peggio - sono parole sue (presto ne pubblicheremo un’antologia) va per Matteo Renzi.

Il Fatto Quotidiano. 9 settembre 2014

MA E' ROMA O E'DISNEYLAND?
di Carlo Antonio Biscotto,
Dal Colosseo alla Fontana di Trevi: grandi firme dell’alta moda sponsor dei restauri. è vero mecenatismo?

Non contenti di aver vestito e reso più affascinanti buona parte dei Paperoni, dei vip e delle star di Hollywood, gli stilisti italiani hanno deciso di fare più o meno la stessa operazione con i monumenti che rappresentano il marchio di fabbrica dell’Italia, ma che purtroppo sono spesso in condizioni deplorevoli per mancanza di manutenzione, di cure, di interventi di restauro, di risorse.

Lo Stato italiano ha deciso di rivolgersi a finanziatori privati per ristrutturare e restaurare i suoi più importanti tesori d’arte. Nulla di male, in teoria, ma si sono levate subito vivaci critiche da parte di chi teme che l’arte e la storia possano diventare prodotti commerciali e come tali essere pubblicizzati e venduti all’industria del turismo. Che ve ne pare di slogan del tipo “il Colosseo calza Tod’s” o “Oggi Anita Ekberg farebbe il bagno nella Fontana di Trevi con una borsa Fendi a tracolla”?

Che fosse necessario intervenire è una realtà che nessuno contesta. Molti monumenti italiani cadono letteralmente a pezzi e hanno da tempo perso il colore originale. Il Colosseo – un tempo avorio pallido – è diventato quasi nero anche perché al posto delle bighe oggi ci sono le automobili. Certo pensare a interventi di risanamento con denaro pubblico in tempi di crisi economica appare fuori del mondo così come è inutile sperare in donazioni di privati. E qui – come il 7° Cavalleggeri – sono arrivati al galoppo i guru della moda italiana. Le loro però non sono donazioni a fondo perduto. Di Bill Gates – come osserva in un suo pezzo il Washington Post – ne circolano pochini e non solo in Italia. Ai mecenati dell’alta moda andrebbero in cambio una serie di diritti sul cui contenuto e sul cui utilizzo regna un certo riserbo.

A farla breve, c’è – non solamente in Italia – chi teme una disneificazione del patrimonio artistico e culturale del Belpaese con conseguenze di lungo periodo che potrebbero far deperire il valore dell’asset più importante di cui l’Italia dispone.

Moltissimi italiani sono preoccupati e pensano che in tal modo si rischi di vendere l’anima per un pugno di dollari (o di euro) o, peggio ancora, per il classico piatto di lenticchie. Inoltre a restauro finito turisti e residenti sarebbero costretti a leggere cartelli di questo tenore: ”La Fontana di Trevi di Fendi”, “Il Colosseo di Tod’s” o “La scalinata di piazza di Spagna di Bulgari”.

Un tempo il patrimonio artistico era considerato una priorità dallo Stato italiano, ma con la crisi economica, le risorse a disposizione del ministero dei Beni culturali, dei musei, dei soprintendenti alle Belle arti e dei direttori dei principali siti archeologici italiani si sono andati paurosamente assottigliando. Sono ancora sotto gli occhi di tutti le immagini del muro del Tempio di Venere di Pompei crollato nel marzo scorso dopo alcuni giorni di abbondanti precipitazioni.

Dopo lo scandalo di Pompei, molti sindaci italiani hanno deciso di darsi da fare. Uno dei più attivi è stato finora il sindaco di Roma, il medico Ignazio Marino che, dopo aver concluso un accordo preliminare con l’Arabia Saudita per il finanziamento del restauro del Mausoleo di Augusto, si appresta a volare in California, per la precisione a Silicon Valley, in cerca di donazioni. Nel luogo più rappresentativo della rivoluzione tecnologica e nel santuario della scienza informatica, Marino sosterrà la tesi secondo cui l’Italia ha il dovere di fare del suo meglio, ma trattandosi di un patrimonio importante per l’intera umanità, tutti debbono contribuire alla conservazione di luoghi come il Colosseo, Pompei o Venezia nei quali è custodita la memoria storica della nostra civiltà. Farà breccia nei cuori e nei portafogli dei miliardari del dot.com  ?

Frattanto il governo non sta con le mani in mano e sta valutando una svolta che sarebbe storica: la possibilità di dare in appalto ai privati la gestione di piccoli musei e siti archeologici e di aprire al loro interno, negozi di libri e souvenir, ristoranti, bar. Sponsor di questa iniziativa il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini: “Abbiamo un patrimonio enorme, non vedo dove può essere lo scandalo se ne affidiamo una minuscola percentuale alla gestione dei privati”.

Il fatto è che i cittadini non hanno scordato i cartelloni della Coca Cola e di Bulgari intorno ai cantieri per il restauro del Ponte dei Sospiri e del Palazzo Ducale di Venezia. Oggi sembra che i mecenati siano diventati più discreti. In cambio dei quasi 3 milioni spesi da Fendi per il restauro della Fontana di Trevi, la griffe si accontenterà di una placca di metallo grande quanto una scatola di scarpe. Ma l’accordo più discusso e più osteggiato dalla cittadinanza è quello concluso con Diego Della Valle per il restauro del Colosseo. Il noto stilista della calzatura spenderà circa 38 milioni di euro, ma per anni i biglietti di ingresso al sito recheranno bene in vista la pubblicità delle Tod’s. Un ottimo affare per il miliardario toscano, dicono i romani.

NON TUTTO SI PUÒ VENDERE
UN MONUMENTO NON È UNO STADIO

di Tomaso Montanari

Ammettiamo che sia possibile mantenere tutto il patrimonio culturale pubblico con le sponsorizzazioni: dovremmo farlo? Quando avessimo coperto tutti i nostri monumenti in restauro con pubblicità commerciali, e quando avessimo associato tutti i siti monumentali bisognosi di fondi a marchi, imprese e prodotti, quale risultato avremmo ottenuto? La commercializzazione totale, la letterale mercificazione del patrimonio culturale inciderebbe, o no, sul messaggio di quei monumenti? Ne modificherebbe o no la funzione civile?

La sottosegretaria Ilaria Borletti Buitoni ha scritto che dovremmo iniziare a ribattezzare alcune parti dei nostri monumenti con i nomi dei grandi donatori, come avviene nei musei degli Stati Uniti. Potremmo avere il corridoio Eataly degli Uffizi, la navata Sony di San Giovanni in Laterano, la sala Della Valle della Pinacoteca di Brera.
Prima di farlo davvero, tuttavia, sarebbe bene conoscere le conseguenze che simili scelte hanno avuto in America. Qui la maggior parte delle squadre di baseball della Major League vende i diritti di denominazione dei propri stadi, così oggi abbiamo il FedEx Field e il Gilette Stadium. Dallo sport, la pratica è passata alle città: si sono cominciati a vendere i diritti di denominazione degli spazi pubblici (stazioni della metropolitana, stazioni ferroviarie, parchi pubblici e sentieri dei parchi nazionali), in quello che si chiama marketing municipale. Ma anche le macchine della polizia, le pompe antiincendio, le celle delle prigioni e si sono letteralmente coperte di pubblicità. Le pagelle delle scuole pubbliche hanno le inserzioni di Mc Donald's, e Microsoft ha pagato 100.000 dollari per dare il proprio nome a una presidenza di una scuola. Questa massiccia occupazione dello spazio e dei servizi pubblici ha provocato movimenti di lotta, campagne di denuncia, riflessioni critiche. Il filosofo della politica Michael Sandel ha scritto che “nell'appropriarsi del mondo comune, i diritti di denominazione e il marketing municipale ne sminuiscono il carattere pubblico. Oltre al danno che procura a certi beni, lo spirito commerciale erode la comunanza. Vogliamo una società in cui ogni cosa è in vendita? Oppure ci sono certi beni morali e civici che i mercati non onorano e che i soldi non possono comprare?”. Questa è la domanda, ora anche per noi.

Il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2014

“Contrarietà Mibact”: è la formula che punteggia sulle ultime bozze dello Sblocca Italia. In altre parole, il ministero per i Beni culturali è l'ultimo argine che tenta di impedire un azzeramento senza precedenti delle leggi che tutelano il territorio nazionale. Un argine debole, tuttavia: perché, negli stessi giorni, Dario Franceschini deve ottenere la sospirata firma del presidente del Consiglio in calce alla riforma del suo ministero. Una partita incrociata che rischia di vedere un unico sconfitto: il Paese.

Ma cosa stabilisce il decreto? L'articolo 1 prevede che l'amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, nominato commissario per la realizzazione degli assi ferroviari Napoli-Bari e Palermo-Messina-Catania, possa condividere con le altre amministrazioni coinvolte non una bozza, ma un progetto finale. Nel caso che esse non siano favorevoli, egli potrà decidere se i pareri avversi siano “regolari”, e quindi se tenerne conto o meno. Un potere privo di qualsiasi freno e controllo: se occorrerà bucare una montagna piena di amianto o spianare una città antica, ebbene si potrà fare. E il principio è letale: una soprintendenza non potrà più respingere un progetto perché incompatibile con la tutela del territorio, e dovrà invece comunque accettarlo. L'articolo 5 stabilisce che si possano posare pali per reti a banda ultra larga senza autorizzazione preventiva: anche in aree vincolate paesaggisticamente. L'articolo 10 dimezza i tempi con cui valutare la pericolosità degli inceneritori. L'articolo 12 sancisce la fine della cosiddetta archeologia preventiva: d'ora in poi in caso di ritrovamenti (anche importantissimi) le soprintendenze non potranno più indicare come tutelare e valorizzare le scoperte, ma saranno costrette ad accettare le soluzioni proposte dalle ditte. Che è come chiedere alla volpe come desideri proteggere il pollaio.

L'articolo 13 stabilisce che se in due mesi una soprintendenza non riesce a esaminare una autorizzazione paesaggistica, il silenzio viene interpretato come un assenso: e si procede d'ufficio. Un provvedimento criminale: perché pretende efficienza da un corpo dello Stato che si è dolosamente depotenziato inibendo il turn over e azzerando i fondi; e perché l'inefficienza dell'amministrazione viene fatta scontare ai cittadini, che si vedono distrutto l'ambiente in cui vivono.

L'articolo 14 liberalizza in modo selvaggio gli impianti fotovoltaici e a biomasse, e le torri eoliche: per i quali non sarà necessaria più nessuna autorizzazione paesaggistica. Il che ribalta la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, e una recente pronuncia del Consiglio di Stato per cui “il paesaggio rappresenta un interesse prevalente rispetto a qualunque altro interesse, pubblico o privato”. Insomma, un enorme regalo a imprese in alcuni casi perfino legate alla criminalità organizzata: nonché la fine di quel che resta del paesaggio italiano.

L'articolo 28 bis prevede che chi vuole costruire possa autocertificare che ha fatto tutto secondo le regole, pagare una tassa e aspettare il disco verde: quella che è un’attività di controllo a tutela del territorio, diviene così una compravendita. E, si sa, il cliente ha sempre ragione. Ci si chiede con quale faccia chi approverà una simile porcheria andrà poi ai funerali delle prossime vittime delle frane e delle alluvioni causate dallo stupro edilizio del territorio.

Ma non è finita. L'articolo 45 prevede di usare lo strumento del project financing per eliminare ciò che resta del demanio: i privati potranno presentare progetti di valorizzazione di un bene demaniale, che in parte sarà dato loro in concessione per attività for profit, in parte sarà ceduto agli enti locali. E, per finire in bellezza, si dà carta bianca alle costruzioni nei campeggi, dicendo che “non rappresentano nuovi volumi o nuove superfici”. Il che consente di realizzare, senza titolo edilizio, edifici per finalità residenziali, produttive e di deposito, ma destinati alla sosta e al soggiorno dei turisti. Ma che “turisti” sono quelli che abitano e lavorano, o hanno depositi, in aree qualificate come “campeggi”?

Se ci avesse provato Silvio Berlusconi, il Pd avrebbe portato in piazza mezza Italia: e invece ora lo fa un berlusconiano doc come Maurizio Lupi, dentro un governo guidato dal segretario del Pd. “Padroni in casa propria” è il motto delle Larghe Intese al tempo di Matteo Renzi: solo che la casa, e cioè il territorio del popolo italiano, questa volta rischia di uscirne distrutta. Per sempre.

La Repubblica, 31 agosto 2014. Postilla

«I privati nella gestione dei musei? Non certo in quelli grandi, ma laddove lo Stato non riesce a garantire l’apertura, la possibilità di visita e la custodia». Quindi nessuno dei venti siti d’arte, come gli Uffizi, Brera o Capodimonte, che avranno una spiccata autonomia e direttori scelti con concorso? «Nessuno di quelli. Fra i modelli possibili ci sono anche le fondazioni, come l’Egizio di Torino, dove pubblico e privato collaborano. Ma anche il Porto di Traiano, vicino a Fiumicino». Dario Franceschini prova ad attenuare la portata dell’ingresso di privati nella conduzione dei musei. E alla richiesta esplicita di fare un esempio di un luogo da affidare a un soggetto non pubblico si tira indietro.

La riforma del ministero per i Beni culturali, sebbene approvata venerdì dal governo, ancora non c’è nella versione definitiva. Ma, specifica il ministro, «nessun contrasto con Palazzo Chigi». Da dove sono partite le sollecitazioni affinché l’ipotesi di interventi privati fosse in bella evidenza. «Questa riforma, insieme alla legge sull’Art bonus, è una base di partenza per tornare a investire su cultura e turismo», assicura Franceschini, che sei mesi fa ha ereditato un ministero ridotto allo stremo, sia per i tagli che dal 2001 hanno ridotto i finanziamenti di oltre il 40 per cento, sia per l’emorragia di personale, che nei prossimi anni continuerà a causa di pensionamenti cui non corrispondono adeguatamente i nuovi ingressi. Ma cultura e turismo, insiste il ministro, sono settori vitali.«Puntiamo alla qualità, non alla massa di turisti che in mezza giornata pretende di vedere Venezia, scendendo da una nave, arrivando a piazza san Marco e tornando indietro».

Gestione di musei non più affidata alle soprintendenze. Abolizione delle soprintendenze storico-artistiche. Porte aperte ai privati (ma tutto da vedere dove e come). Sono i punti cardine della riforma. E anche quelli sui quali si concentrano le critiche. Le sintetizza Vezio De Lucia, presidente dell’associazione Bianchi Bandinelli: «Il ministro doveva potenziare le strutture periferiche che fanno la tutela sul campo e alleggerire la burocrazia centrale. È successo l’opposto: nascono nuove direzioni generali. Siamo poi contrari a sopprimere le soprintendenze storico-artistiche: è un appiattimento di competenze grave. Come grave è la rottura del legame fra soprintendenze e musei, un punto di forza del nostro patrimonio, che rimanda al rapporto fra storia e paesaggio. In fondo si rende la struttura del ministero sempre meno rispondente alle sue finalità scientifiche e più influenzabile dal potere politico».

Alla riforma del ministero De Lucia affianca alcuni aspetti del decreto Sblocca Italia. Anche in questo caso non c’è un testo definitivo, ma alcuni passaggi preoccupano: «Per le Grandi Opere sono nettamente abbassati i poteri di controllo e di tutela paesaggistica: si stabilisce che un soprintendente ha tempo 30 giorni, in un caso addirittura 15, per dare il suo parere. Se non ce la fa, vale l’assenso. Con le soprintendenze ridotte come sono ridotte, questo è mostruoso: il ministro Lupi realizza la filosofia berlusconiana».

postilla

Peggio di Berlusconi. Con Silvio almeno c’era una opposizione vasta; Matteo, con l’aiuto di Giorgio, si è mangiato tutti.

La Repubblica, 18 agosto 2014

Scambiati per costosi soprammobili, i Bronzi di Riace sono periodicamente invitati al trasloco in occasione di incontri internazionali, esposizioni commerciali e altri “grandi eventi”, dove — vuole la leggenda — innalzerebbero di botto il prestigio nazionale. facendo così dimenticare a politici e banchieri assai sospettosi dell’Italia il debito pubblico, la recessione, la disoccupazione, la devastazione dei paesaggi, l’evasione fiscale, il declino della scuola, dell’università, della ricerca.
L’idea di un’opera iconica che riassuma le meraviglie d’Italia scatenando vuote vanterie si estende ad altre celebrità, per esempio il Davide di Donatello, trascinato qualche anno fa alla Fiera di Milano. E non è poi tanto lontana l’insistenza di Berlusconi che, deportando i Bronzi alla Maddalena per il G8, sperava di recuperare qualche grammo di credibilità. Queste ostensioni fuori contesto hanno un vantaggio: evitano sia a chi le fa sia ai visitatori la tentazione di pensare. Davanti alle icone, infatti, non si pensa, si venera, esaltando la bellezza, magari come l’equivalente di un giacimento di petrolio, con conseguenti introiti.

In restauro per anni, i Bronzi di Riace sono stati visibili poco o niente, e solo da qualche mese sono di nuovo in vista: ragione sufficiente per non smuoverli dai loro piedistalli antisismici, nonché per rinnovare strategie espositive e attrattive. Di fronte alle proposte di spedirli a Milano per l’Expo, Franceschini parla di una commissione ad hoc: ma il suo ministero ha un organo tecnico, l’Istituto superiore per la conservazione e il restauro, che è in grado di fornirgli domattina tutta la documentazione necessaria (e che già si oppose ad altre peregrinazioni dei Bronzi). Ma quel che l’Istituto (o qualsivoglia commissione di esperti) dirà è scontato: sono tanto preziosi e vulnerabili che meno si muovono meglio è.

Eppure non è tutto qui. Davanti a una sgangherata industria delle mostre, chiediamoci: dato che ogni movimento comporta rischi, quando vale la pena di muovere un’opera d’arte per una mostra? Farsi questa domanda ha uno svantaggio: obbliga a pensare. Anche se ci hanno già pensato in molti, per esempio Quatremère de Quincy, con la sua folgorante osservazione (1796) che perfino un quadro di Raffaello, se fuori contesto, non dice nulla, perché non è una reliquia, come un frammento della Croce, che possa «comunicare le virtù legate all’insieme ». Le mostre servono solo se creano trame di relazioni accostando opere normalmente lontane. Servono se nascono da un progetto, da una ricerca; se comportano acquisti di conoscenza sia per gli esperti che per il pubblico.

Questa regola non vale solo per i capolavori supremi (come i Bronzi), ma per qualsiasi opera d’arte. Perché il nostro patrimonio culturale non è una collezione di icone ma un deposito di memoria culturale. È ingranaggio essenziale di un diritto alla cultura oggi mortificato in ogni suo aspetto, dalla scuola al teatro. Inutile, anzi controproducente usare i Bronzi come paravento per nascondere l’indifferenza dei governi ai temi della cultura. Se davvero vogliamo avere qualcosa di cui vantarci all’Expo, meno icone e più fatti. A Franceschini auguriamo che riesca davvero, come ha dichiarato a Repubblica , a raddoppiare i finanziamenti al suo ministero nella prossima legge di stabilità. Non si farebbe che tornare ai livelli del 2008, quando Tremonti li dimezzò, fra grandi proteste della sinistra, che però finora non vi ha posto alcun rimedio. Proprio perché vetrina d’Italia, l’Expo può essere l’occasione di investire sul nostro patrimonio, e non di sbandierare icone.

Il fatto quotidiano, dai blog, 16 agosto 2014

“Il colmo è che si bloccano i lavori perché si trovano dei reperti archeologici. Questo è un paradosso. In tutto il mondo le risultanze degli scavi archeologici permettono ai passeggeri delle metropolitane di godere di cose delle quale altrimenti non avrebbero potuto vedere. Torino, Roma con l’operazione della linea C, e Palermo sono realtà che accederanno al finanziamento delle linee metropolitane”. Renzi lo ha dichiarato a Napoli nel bel mezzo del suo tour al Sud. L’ormai famoso Decreto sblocca-Italia passa anche da questo. E’ ormai chiaro. Le Soprintendenze dovranno dare l’autorizzazione paesaggistica in tempi certi o scatteranno procedure sostitutive. Non solo. Per la conferenza di servizi si sta mettendo a punto una norma che superi il dissenso e la definizione in termini di validità per la raccolta degli atti. Con questo capitolo l’Italia delle opere ferme al palo scatterà in avanti. Si sistemerà quanto già iniziato. Soprattutto, si creeranno le condizioni perché i tempi previsti per i cantieri non siano solo un auspicio destinato ad essere deluso.

Il programma di Renzi non ammette intoppi. Le lungaggini vanno superate con un decisionismo improntato al “tutto e subito”. Vanno spezzate catene che hanno impedito per troppo tempo di avanzare nel cambiamento. Di produrre futuro. Troppi cantieri dal Veneto alla Sicilia hanno subito le politiche imposte dalle Soprintendenze. Con il risultato che indagini archeologiche, nelle intenzioni preliminari, hanno finito per diventare scavi interminabili. Che hanno comportato non solo la sospensione dell’opera di turno da realizzare, ma anche una lievitazione senza misura dei costi. Renzi ritiene che queste siano le procedure che in tanti casi hanno decretato il “non finito” che si vede in ogni angolo d’Italia. Questo il dato certo. A differenza di quel che riguarda gli elementi che debbono avergli suggerito questa posizione, per così dire, critica.

Perché è vero che si possono richiamare esempi di situazioni nelle quali le Soprintendenze, a partire da quelle archeologiche, hanno assunto un atteggiamento oltremodo intransigente. Verrebbe da dire, zelante oltre misura. Ma è pur vero che quei casi estremi costituiscono un numero ben esiguo rispetto a quelli nei quali si è solamente tentato di non far cancellare, impunemente, testimonianze di estremo rilievo. Senza contare le circostanze, tutt’altro che episodiche, nelle quali l’archeologia, a dispetto di quanto identificato, è stata trattata senza alcun riguardo. Necropoli e singole tombe, strade basolate e semplici tracciati “battuti”, edifici termali e impianti produttivi, villae e luoghi di culto, vaste opere di bonifica idraulica e più modesti sistemi di smaltimento e/o irregimentazione delle acque. Non esiste città italiana o parte di territorio che non abbia sacrificato frammenti della sua Storia alla costruzione di nuovi quartieri e infrastrutture viarie.

A Roma, la realizzazione di Tor Bella Monaca ha cancellato quasi completamente il popolamento antico del centro di Collatia, noto attraverso le ricerche di Lorenzo Quilici e più recentemente la stessa sorte è toccata a la Bufalotta, costruita su una parte di territorio dell’antica Fidenae. Che dire poi dei Colli Albani, zona residenziale a breve distanza da Roma, nella quale il fenomeno soprattutto delle seconde case, ha fatto quasi tabula rasa del sistema di insediamenti sviluppatosi in età romana? Per decenni i ritrovamenti occasionali, hanno costituito un trascurabile “spauracchio”.

Poi con l’archeologia preventiva le cose sono un po’ cambiate. Ma il suo potere, generalmente, ha continuato ad essere oltremodo marginale. Come detto, a parte pochi, circoscritti, casi. Semmai è vero che in non poche occasioni l’archeologia è diventata una sorta di pretesto. Il parafulmine sul quale scaricare ogni colpa. Il sistema italiano ha prodotto l’infinità di cantieri avviati e mai terminati. Non certo il potere dell’archeologia. Se non fosse così la lista di strade e ponti, palazzetti dello sport, teatri, parcheggi e ospedali e molto altro sarebbe risultata meno lunga. Se non fosse così nel capitolo “Territorio e reti” del Rapporto 2013 del Censis, una parte importante non sarebbe stata dedicata “ai ritardi ed alle incompiutezze ed al lungo travaglio dei grandi progetti urbani all’epoca della crisi”.

Il rapporto descrive ventidue casi esemplari, dimenticandone altri importanti come quello romano di Acilia, in cui i lavori non sono mai partiti o si sono interrotti o i progetti sono rimasti sulla carta. In quei casi nessun ritrovamento archeologico è intervenuto a sovvertire cronoprogrammi o a mandare fuori controllo le risorse stanziate. Così appare fuorviante ritenere che la linea C della metro romana viaggi tra ritardi ed incertezze a causa delle indagini archeologiche. Che, a parte il caso di piazza Venezia dove si sono scoperti i resti del cosiddetto auditorium di Adriano, non risulta abbiano costretto a sostanziali modifiche del progetto iniziale. Nonostante in alcune circostanze i rinvenimenti siano stati tutt’altro che trascurabili. Come accaduto per esempio nel cantiere di via La Spezia.

Renzi ha ragione a sostenere che solo grazie agli scavi per la Metro quei documenti del passato sono riapparsi. Ma non si può negare che ogni scavo è a tutti gli effetti un’operazione distruttiva. Proprio per questo motivo sembra improprio voler intervenire sulle modalità e i tempi delle indagini. Senza contare che tutto questo sembra essere in contraddizione con una delle norme che dovrebbero entrare nello sblocca-Italia. La disciplina per agevolare la valorizzazione dei beni archeologici che vengono ritrovati durante gli scavi o i lavori di opere pubbliche. Il timore che la valorizzazione non preveda che una tutela parziale di quanto ritrovato, è forte. Una tutela peraltro nella quale il discrimine tra bene da conservare e quello da consegnare alle ruspe appare indefinito. La sensazione è che, aldilà delle nuove regole, a difettare sia la cultura del Paese. La capacità di decidere con uniforme serietà.

Alcuni giorni fa, in un’intervista al Financial Times, l’ex sindaco di Firenze, ha dichiarato, “Il Paese non l’ho distrutto io, non faccio parte del sistema”. In questi decenni nei quali il Paese si è arricchito di ponti sospesi nel nulla, di ospedali completati ma mai entrati in funzione, di dighe interrotte a metà, della Salerno-Reggio Calabria un cantiere mai finito, il “sistema”, secondo la definizione del segretario del Pd, si è quasi uniformemente schierato contro l’archeologia. Additando nelle ricerche scaturite dai rinvenimenti, il motivo di ritardi e interruzioni. Per essere davvero “un uomo solo”, come si definisce Renzi, il suo un atteggiamento, almeno in questo settore, appare abbastanza allineato.

La Repubblica, 15 agosto 2014 (m.p.r.)

Roma.
Gli storici dell’arte che liquidano la sua riforma della cultura come “macelleria culturale”? «Dimostrano che è una vera riforma».

L’accusa di voler trasformare musei e siti in macchine per far soldi? «La valorizzazione del nostro patrimonio artistico è la condizione per tutelarlo meglio».

I contrasti con Renzi sulla riforma? «Leggende metropolitane».

Dario Franceschini da 5 mesi guida il ministero dei Beni culturali e del Turismo tra successi e polemiche. Ha cacciato le bancarelle dai monumenti, ha incentivato il privato, ha aumentato le domeniche gratuite nei musei, ma ha tolto i biglietti gratis agli over 65. E ora affronta la madre di tutte le battaglie, quella con le sovrintendenze, che lo accusano di consegnare i musei a manager interessati solo al marketing. Lui tira dritto, anzi rilancia. E, alla vigilia di una manovra fatta tutta di tagli, apre una nuova sfida sul tavolo del governo: raddoppiare la spesa per la cultura nella prossima legge di stabilità. Una richiesta che motiva, con una punta di malizia, appellandosi alla filosofia renziana.
Franceschini, vuole aprire una guerra anche con il ministro dell’Economia?
«Quando ho giurato al Quirinale dissi che mi sentivo chiamato a guidare il ministero economico più importante. Sembrava una provocazione, ma è proprio così. Ogni Paese deve trovare la sua vocazione: l’Italia è quello con più siti dell’Unesco e il maggior patrimonio artistico del mondo. Forse è arrivato il momento di investire sulla sua bellezza. Può essere un fattore decisivo per uscire dalla crisi ».
E come si propone di invertire la tendenza?

«La cultura viene da 15 anni di tagli. I governi Letta e Renzi li hanno fermati. Ma è arrivato il momento di investire. Al punto 63 della prima Leopolda c'era l'obiettivo di portare la spesa per la cultura all’uno per cento del Pil. Ci vorrà qualche anno per farlo. Nel 2015 mi basterebbe raddoppiare lo 0,10% attuale, avvicinarci almeno allo 0,24 della Francia. Voglio applicare le idee di Matteo».
La sua riforma della cultura viene contestata per l’accorpamento delle sovrintendenze e soprattutto per il fatto che la gestione dei musei sarà affidata a dei manager. Vuole fare business con l'arte?
«Le proteste dimostrano che questa riforma è una vera svolta. Perché separa tutela e valorizzazione. Le sovrintendenze continueranno ad occuparsi della prima, allargandosi alla ricerca in connessione con le università, mentre creiamo dei poli museali per la valorizzazione. Non ci sono solo i 20 più grandi, gli Uffizi, Brera o Pompei, ne esistono altri 400 con potenzialità enormi ma allestimenti di 60 anni fa e magari neanche un bookshop. E a guidarli non arriveranno i manager della Coca Cola, ma storici dell’arte, architetti, specializzati in gestione museale. Del resto i primi passi fatti in questa direzione hanno avuto successo. Con le domeniche gratuite e orari allungati, incassi e visitatori sono aumentati
in un mese di
oltre il 10%».
Ma non è più di sinistra dare priorità alla tutela piuttosto che al commercio?
«Questa è una grande sciocchezza. Il Louvre fa tutela, ricerca, formazione ma anche marketing. E lo fa quando la Francia è governata dalla sinistra e quando è governata dalla destra. La tutela è un dovere, la valorizzazione è la condizione per tutelare meglio».
Lei ha detto che questa è la riforma più renziana. Eppure è ferma nell’anticamera di palazzo Chigi. Si dice perché il premier vorrebbe un ridimensionamento ancora più radicale delle sovrintendenze. E così?
«In questa stagione politica le polemiche, gli scontri interni, non hanno più molto spazio. E quindi si inventano leggende metropolitane per abitudine. Ma non c’è nessun contrasto con Matteo. La riforma sarà approvata in uno dei prossimi Consigli dei ministri».
È stato criticato per il tentativo di coinvolgere i privati nella valorizzazione del patrimonio artistico. Finiremo con una Pompei che pubblicizza un paio di scarpe?
«Pubblico e privato non sono in contrapposizione. Il patrimonio è pubblico ma i privati possono contribuire integrando, e non sostituendo, le risorse statali. Ora in Italia c’è un incentivo fiscale tra i più forti d’Europa, una detrazione del 65%. Ma viene concessa ad atti liberali non a sponsorizzazioni o a gestioni, che sono altra cosa».
Si è ipotizzato anche per Pompei l’intervento di un privato, come per Ercolano. C’è già qualche contatto?
«A Pompei non abbiamo un problema di risorse, la sfida è utilizzare quelle della Ue nei tempi fissati, altrimenti si rischia il commissariamento. Tuttavia a me piacerebbe che una grande impresa italiana si facesse carico di un progetto di illuminazione per consentire l’apertura anche notturna del sito. Penso per esempio all’Enel. Ma lancio una proposta anche per la Domus Aurea: con 30 milioni in quattro anni si può riaprire tutta l’area sovrastante, oggi chiusa, e far tornare il sito interamente fruibile».
A parte Pompei le bellezze artistiche del sud sono quasi ignorate dai grandi tour. Non sarebbero le prime da valorizzare?
«L’85% dei visitatori stranieri non va più giù di Roma. L’Italia è il quinto paese al mondo per numero di visitatori, ma è il primo che tutti vorrebbero visitare. Abbiamo potenzialità enormi. Ovunque, anche fuori dai grandi itinerari, si trovano bellezza e creatività. Ma torniamo al punto di partenza: è ora di investire più risorse».

Riferimenti: si veda su eddyburg di Tomaso Montanari Franceschini alla Cultura sulle orme di De Michelis e Dario Franceschini. La cultura non cambia verso, Riforma dei Beni culturali: Renzi contro Franceschini. La posta in gioco e la rassegna Rendere ogni luogo uguale a ogni altro: così qualcuno diventa più ricco con gli articoli di Davide Vecchi e Montanari. Col cerca numerosi altri scritti nella cartella Beni culturali

Il manifesto, 14 agosto 2014 (m.p.g.)

«La Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze presenta Giardini del Granduca. Una nuova eau de toilette». Con un po' di autoironia, il profumo avrebbero potuto chiamarlo Pecunia olet: il Polo museale fiorentino è da tempo l'avamposto della mercificazione del patrimonio culturale. Cristina Acidini, la soprintendente che lo guida, ha dichiarato che «attraverso questo profumo, composto sapientemente con note ispirate alla coltivata natura dei giardini storici di Firenze e Toscana, si entra in contatto diretto con la memoria della dinastia dei Medici».

Il marketing è la specialità della casa: il Polo Museale Fiorentino è noto per il tariffario con cui noleggia ai ricchi il proprio inestimabile patrimonio, dalla sfilata di moda agli Uffizi (per celebrare il neocolonialismo!) alle cene sotto il David di Michelangelo, a infiniti altri eventi letteralmente esclusivi. E gli Uffizi sono perennemente invasi da una folla due o tre volte superiore ai limiti di sicurezza: un irresponsabile azzardo che dipende anche dal fatto che la bigliettazione del museo è stata data in appalto al gruppo Civita Cultura, il cui presidente è Luigi Abete (quello della sovraordinata Associazione Civita è Gianni Letta). E anche il portavoce della Acidini è un dipendente di Civita: un giornalista già del «Giornale» nell'edizione della Toscana (proprietà di Denis Verdini).Il creatore di questo opaco ipermercato del patrimonio culturale è Antonio Paolucci, predecessore e mentore di Cristina Acidini. Il quale, dopo aver rivendicato la creazione del sistema delle mostre blockbuster (autodefinendosi il «movimentatore massimo» di opere d'arte), dirige oggi – commercialissimamente – i Musei Vaticani. Da ministro per i Beni culturali del governo Dini, fu proprio Paolucci (col decreto legge 41/1995) ad allargare a dismisura i servizi aggiuntivi che la Legge Ronchey aveva da poco permesso di dare in concessione ai privati, includendovi l'editoria e l'organizzazione di mostre. Iniziò così la vera privatizzazione della storia dell'arte: e oggi Paolucci presiede il comitato scientifico del primo concessionario italiano (sempre Civita), nella migliore tradizione lobbista dello scambio di ruoli.

A molti piace così: pochi giorni fa perfino il presidente di Italia Nostra ha invitato Dario Franceschini a tener giù le mani dall'«attuale assetto del Polo Museale Fiorentino ... esempio mirabile di tutela, valorizzazione e di gestione alla luce degli importanti risultati - 20 milioni di euro di incassi all'anno». La riorganizzazione del Mibact si propone, infatti, di smontare i lucrosi luna park dei poli museali, e di restituire ai musei la capacità di fare da soli tutto ciò che Paolucci affidò ai privati. Non a caso il primo nome sotto l'appello che cerca di fermare il ministro è proprio quello di Paolucci.Ma la difesa dello stato delle cose ha preso una via anche più cinica. I giornali fiorentini hanno scritto che Acidini avrebbe fatto notare a Matteo Renzi che la riforma non taglia affatto le unghie alle soprintendenze territoriali (e dunque non sblocca affatto l'Italia, nel senso cementizio e maniliberista caro al premier), ma rischia invece di uccidere la gallina fiorentina dalle uova d'oro. E se Renzi dice che «gli Uffizi sono un macchina da soldi», è perché è questo che egli ha imparato dal modello fiorentino: i conflitti che da sindaco l'hanno opposto ai vertici del Polo furono dovuti ad una competizione per la gestione della slot machine, non certo ad una divergenza ideologica.

E infatti il premier ha appena rinviato, per l'ennesima volta, l'arrivo della riforma in consiglio dei ministri, di fatto rimandando a settembre un umiliatissimo Franceschini: colpito dal fuoco opposto e incrociato del suo presidente del Consiglio e degli storici dell'arte, archeologi e architetti che (in circa trecento) hanno seguito Paolucci.Contro la riorganizzazone si sono pronunciati anche l'Associazione Bianchi Bandinelli, Vittorio Emiliani, Pier Giovanni Guzzo e, su queste pagine, Alberto Asor Rosa: l'accusa principale è quella di «smantellare le soprintendenze». Ma, a leggere il testo, di un simile smantellamento non si trova alcuna traccia: ed è proprio per questo che Renzi (che ha scritto: «soprintendente è la parola più brutta del vocabolario italiano») non si decide ad approvarla.
Carlo Ginzburg (che ha firmato l'appello subito dopo Paolucci) ha scritto su «Repubblica» che «il presidente del consiglio, insiste — così ci viene detto — perché nel decreto legge venga inclusa una clausola che gli sta particolarmente a cuore. Essa dovrebbe consentire ai Comuni di aggirare l’eventuale divieto di costruzione formulato dalle soprintendenze appellandosi a una commissione generale che dovrà decidere in termini brevissimi. Il silenzio di queste commissioni, che è facile immaginare sommerse da una marea di richieste e di ricorsi, verrà interpretato come assenso». Ora, tutte le bozze circolate dicono esattamente il contrario. Le varie amministrazioni locali potranno, sì, chiedere la revisione dei provvedimenti delle singole soprintendenze: ma acommissioni regionali formate dagli stessi soprintendenti della regione, compreso colui che ha emanato l'atto contestato. E se non lo chiedono entro dieci giorni, il provvedimento è confermato. Si tratta, cioè, di una collegializzazione del potere monocratico dei soprintendenti: si potrà non essere d'accordo, ma non c'è nulla di ciò che scrive Ginzburg.

Un altro punto contestatissimo è l'unificazione delle soprintendenze architettoniche con quelle storico-artistiche. È un passo impegnativo, ma la direzione è giusta, perché mira ad evitare quello scollamento amministrativo che fa sì che – per dire – si restaurino gli affreschi di una cupola prima di rifarne la copertura esterna (è accaduto, per esempio, a Sant'Andrea della Valle a Roma). I miei colleghi storici dell'arte si oppongono per ragioni corporative: temono che le soprintendenze uniche saranno guidate solo da architetti. Ciò non deve succedere, ma non ci si può opporre ad un provvedimento giusto perché si teme che venga gestito male.

Personalmente ho, dunque, un giudizio moderatamente positivo della riorganizzazione: ma non sono un giudice neutrale, perché ho fatto parte della commissione che preparò la riforma voluta da Massimo Bray, la quale è stata in buona misura ripresa e sviluppata da quella di Franceschini. Quest'ultima ha il grandissimo limite di essere a costo zero, e non mancano punti discutibili (per esempio l'ipertrofia del quartiere generale romano): ma ha anche aspetti felicemente innovativi (lo svuotamento delle direzioni regionali, l'autonomia di alcuni grandi musei, l'unificazione delle soprintendenze architettoniche e storico-artistiche), e perfino tratti sorprendentemente di sinistra (la creazione di una direzione per l'educazione al patrimonio, e di una per le periferie urbane).
Comunque la si pensi, infine, trovo singolare che chi dovrebbe aver interiorizzato gli strumenti della filologia scriva di un testo senza averlo letto, o senza comprenderlo. Il risultato è questa imbarazzante alleanza tra gli amici delle soprintendenze e il loro massimo nemico, Matteo Renzi. Un'alleanza che ha un sapore strano: anzi, che ha il profumo dei Giardini del Granduca.

WWF-Italia notizie, 5 agosto 2014, con postilla

Quella ‘Grande Bellezza’ che confina col mare in 25 anni cancellata in più parti dal cemento: pur mantenendo angoli suggestivi e intatti, la visione di insieme fornita dall’ultimo Dossier del WWF “Cemento coast-to coast: 25 anni di natura cancellata dalle più pregiate coste italiane” restituisce, con schede sintetiche e foto da satellitari a confronto, l’immagine di un profilo fragile e bellissimo martoriato da tante ferite. Il dossier analizza con schede sintetiche l’evoluzione della situazione delle regioni costiere, mettendo a confronto i dati di oggi con quelli di 25 anni fa, con il supporto di immagini tratte da Google Earth e il quadro d’insieme è una vera e propria trasformazione metropolitana delle coste italiane.

Il WWF segnala 312 macro attività umane che hanno sottratto suolo naturale lungo le nostre ‘amate sponde’ per far spuntare dal 1988 a oggi villaggi, residence, centri commerciali, porti, autostrade, dighe e barriere che hanno alterato il profilo e il paesaggio del nostro paese facendo perdere biodiversità e patrimonio naturale. Un pezzo strutturale della nostra economia è stato così mangiato dal cemento, a scapito di un’offerta turistica balneare (soprattutto in aree di qualità) che coinvolge migliaia di aziende. Dalla cava del 2003 della Baia di Sistiana in Friuli occupata poi da un mega villaggio turistico alla Darsena di Castellamare di Stabia in Campania, dall’urbanizzazione della foce del Simeto in Abruzzo al porto turistico ampliato e villaggio turistico sulla foce del Basento in Basilicata sono alcune delle ‘case history’ illustrate in una simbolica foto gallery regione per regione. Le più ‘colpite’ Sicilia, Sardegna e soprattutto la costa adriatica che rappresenta il 17% delle coste italiane ma dove meno del 30% del waterfront è libero da urbanizzazioni. Persino le aree costiere cosiddette protette non sono state risparmiate: su 78 SIC o ZPS difesi dalla Rete Natura 2000 europea il WWF ha censito 120 interventi “antropici” tra cui darsene, villaggi, etc. Dei circa 8.000 chilometri di coste italiane quasi il 10 % sono artificiali e alterate dalla presenza di infrastrutture pesanti come porti, strutture edilizie, commerciali ed industriali che rispecchiano l’intensa urbanizzazione di questi territori in continuo aumento e dove si concentra il 30% della popolazione. Finora le aree protette costiere si sono rivelate ottimi strumenti per contenere questa pressione e per valorizzare correttamente i territori, ma si tratta di ambiti limitati in un sistema disordinato e non gestito.

E a peggiorare le cose, il fatto che di tanta meraviglia non esista un ‘custode’ unico visto che ad oggi nessuno sa chi realmente governi le nostre coste: la gestione è ‘condivisa’ a livelli molto diversi (Stato, Regioni, Enti locali) con una frammentazione di competenze che ha portato spesso a sovrapposizioni, inefficienze, illegalità, e complicazioni gestionali e di controllo. Dalla legge sulla "Protezione delle bellezze naturali’ del 1939, all’articolo 9 della Costituzione che tutela il paesaggio, passando per la Convenzione Ramsar sulle zone umide del 1971, senza dimenticare la Convenzione di Barcellona per la protezione del Mediterraneo e la Convenzione sulla diversità biologica di Rio del 1992, non mancano certo le leggi a tutela delle coste ma nonostante questo non si sa chi le governi.

“In un quarto di secolo abbiamo cancellato e imprigionato, coprendole di cemento, l’incomparabile bellezza delle nostre dune sabbiose, compromesso irrimediabilmente la macchia mediterranea, i boschi costieri e le aree di riposo e ristoro, come stagni costieri e foci di fiumi, per migratori – ha dichiarato Donatella Bianchi, Presidente del WWF Italia - Non solo bellezza che scompare o natura cancellata, ma una ricchezza economica che sperperiamo e che solo una visione miope e scellerata può consentire. L’attenzione e la cura sono ancora più urgenti, sono scelte obbligate, se pensiamo a quanto impatto avrà il turismo nei prossimi anni sulle nostre coste: 312 milioni di presenze stimate dall’Agenzia Europea per l’Ambiente nelle sole zone costiere del Mediterraneo. Gestione integrata, uso sostenibile e attento, rinaturalizzazione dovranno essere le parole chiave del futuro, magari investendo in un lavoro di recupero e riqualificazione delle nostre coste, speculare a quello invocato da Renzo Piano per le aree periferiche delle grandi città. Se si riuscirà a fare tutto questo tra 10 anni la fotografia dallo spazio sarà meno inclemente e potremo dire di essere riusciti a salvare la nostra ‘Grande Bellezza’ che confina col mare”.

“Si pensa che lo scempio delle coste sia legato al passato, agli anni del boom delle seconde case e della grande speculazione edilizia o del raddoppio delle concessioni demaniali del 2000: purtroppo non è così perché l’invasione del cemento non si è mai fermata - ha dichiarato Gaetano Benedetto, direttore politiche ambientali del WWF Italia - Il WWF chiede di invertire la tendenza alla cementificazione attraverso due semplici cose: estendere i vincoli paesaggistici di tutela dai 300 metri ai 1000 metri di battigia e applicare una moratoria di tutte le edificazioni lungo la fascia costiera fino all’applicazione dei nuovi piani paesaggistici, che tra l’altro, dovrebbero essere già vigenti. Non si tratta di un problema solo ambientale: salvare le coste dal cemento vuol dire salvare un pezzo strutturale della nostra economia”.

SINTESI DEL DOSSIER

Il WWF per le coste

Nel corso degli anni il WWF ha testimoniato l’aggressione progressiva alle coste italiane con vari Dossier: dal censimento puntuale degli anni ’90 con il progetto ‘Oloferne’ sulle coste ancora ‘libere’ dal cemento all’attenzione ai piani paesaggistici come quello della Sardegna, fin alla riconversione e a bonifica delle aree industriali, da Taranto a Porto Torres, da Marghera a Milazzo, da Bagnoli a Falconara, fino all’istituzione e gestione delle aree protette. Il WWF ha poi segnalato e denunciato i problemi della portualità e dei transiti navali fino a tutti quelli interventi che accentuano e favoriscono l’erosione o la trasformazione costiera. Il dossier “Cemento-coast to coast” fa’ il punto generale richiamando con forza tutti i soggetti coinvolti ad una responsabilità di tutela, mettendo a confronto dati e immagini che analizzano un’evoluzione in 25 anni.

Un quarto di secolo di cemento costiero: il primato a Adriatico, Sicilia e Sardegna

Secondo il Dossier dal nord al sud nessuna regione costiera è esclusa, ma le ferite peggiori riguardano Sardegna e Sicilia, con 95 e 91 casi rispettivamente di nuove aree costiere invaso da cemento. In Sardegna , dopo un Piano paesistico che prometteva di correre ai ripari dalla cementificazione selvaggia delle coste, nel 2009 sono stati annullati i vincoli aprendo a nuove edificazioni all’interno dei 300 metri dal mare e ampliamenti di cubatura, per la maggiorparte documentati dal WWF. Il ‘caso studio’ quello di Cardedu, con due villaggi turistici e un’urbanizzazione a schiera costruiti in barba al vincolo paesaggistico. In Sicilia le poche aree che si salvano sono quelle ‘protette’, il resto è stato messo a dura prova: l’elenco degli insediamenti spuntati in questi 25 anni e segnalati nel Dossier è lungo, con il ‘caso studio’ di Campofelice di Roccella dove sorge una vasta area edificata in area vincolata.

La costa adriatica è la più urbanizzata dell’intero bacino del Mediterraneo. Dal Friuli Venezia Giulia alla Puglia i quasi 1.500 km di costa adriatici rappresentano il 17% delle coste italiane ma meno del 30% del waterfront è libero da urbanizzazioni. Negli anni ’50 quasi 1000 km sui totali 1472 (64%) del fronte adriatico erano privi di costruzioni ed altre strutture accessorie, configurando un paesaggio costiero oggi inimmaginabile. Se si escludono le Marche (con solamente il 21% di costa libera), il Friuli era quasi alla metà, mentre Veneto, Emilia e Abruzzo sfioravano il 70%. Per Molise e Puglia la costa era per oltre l’80% totalmente libera da urbanizzazione.

Tra gli anni ’50 e il 2001 la popolazione dei comuni costieri (CM) è aumentata di quasi 770.000 abitanti (poco meno del 28%), mentre, nello stesso periodo, l’aumento di popolazione in Italia è stato del 20%. In particolare in Abruzzo, Molise e Puglia le coperture urbanizzate aumentano da 8 a 10 volte, contro le 5 volte dell’Emilia o le tre volte del Veneto (sempre tenendo conto della presenza di lagune costiere in quest’ultimo caso). Gli interventi di urbanizzazione effettuati sulla costa adriatica italiana negli ultimi 50 anni denunciano una evidente carenza di programmazione e delineano un quadro piuttosto pessimistico in termini di inversione o controllo del fenomeno. I dati più rilevanti che emergono dalla ricerca sono quelli relativi alle dinamiche di crescita di circa il 400% della densità di urbanizzazione nei comuni costieri, ma in particolare del 300% nella fascia costiera dove negli anni ’50 circa i due terzi dei 1472 km della linea di costa fossero liberi da costruzioni e altre strutture, mentre questo valore si riduce drasticamente a meno di un terzo dopo il 2000 (466 km), con una velocità media di avanzamento delle urbanizzazioni stupefacente, pari a circa 10 chilometri l’anno (poco meno di 30 m al giorno).

Ieri paradisi naturali, oggi darsene e villaggi turistici


La mappatura satellitare utilizzata in questo lavoro non perdona nemmeno le aree naturali costiere, habitat fragili come dune, scogliere, paludi e steppe: le foto utilizzate e messe a confronto con lo status degli anni passati delle cosiddette Aree Natura 2000 che la stessa Unione Europea ci chiede di proteggere (SIC e ZPS) sono scomparse pezzo dopo pezzo. In 25 anni, in ben 78 piccoli paradisi naturali, al posto di ginepri, gigli di mare, stagni pullulanti di fenicotteri e aironi, foreste il WWF ha censito 120 interventi diversi di cui il 40% sono strutture ricettive, il 29% dighe e darsene e il 23% nuove urbanizzazioni. Anche in questo caso le regioni più colpite si confermano la Sardegna e la Sicilia con 35 e 25 casi che riguardano in gran parte nuove strutture ricettive. Un quadro che conferma quanto denunciato quest’anno dallo stesso ISPRA che ha definito lo stato di conservazione complessivo degli habitat costieri di interesse comunitario “non soddisfacente” (cattivo o inadeguato) per l’86,7% a fronte di un dato medio di tutti gli habitat presenti in Italia del 67,6%.

La ricetta “salvacoste” del WWF

La ‘ricetta’ per sfruttare in maniera intelligente e non devastante il potenziale patrimonio naturale costiero deve essere una sua gestione integrata e sostenibile. La vera sfida è invertire la tendenza alla ulteriore cementificazione della nostra fascia costiera anche attraverso una moratoria che l’Associazione chiede a Governo, Regioni e Comuni; inoltre garantire il rispetto delle normative e adottare politiche fiscali incentivanti sui comuni per la conservazione di ciò che resta ancora ‘libero’ da cemento lungo le coste, come già accade in qualche Paese europeo.

Un potenziale per le economie locali e il lavoro è anche quello che potrebbe derivare dal ripristino di vecchie cave (spesso occupate da costruzioni) o delle foci di fiumi distrutti e dune cancellate, un lavoro di ‘rammendo’ delle nostre coste, speculare quello invocato dall’architetto Piano per le aree periferiche delle grandi città. (vedi Scheda allegata – “La Ricetta Salvacoste” del WWF)

postilla

A volte la ricetta più semplice sarebbe il rispetto rioroso delle leggi vigenti. Perchè il Mibac non ha mai svolto i compiti che il Codice dei beni culturali gli affidava? E perchè, ad esempio, in Sardegna si è lasciato che Cappellacci smantellasse, con provvedimenti palesemente illeggittimi, il piano di Renato Soru, che non "prometteva" di tutelare le coste della Sardegna, ma le tutelava effettivamente con i vincoli di un piano ancor oggi vigente (dal 2006)

Appia, regina di storia e di abusi le repliche della Prefettura di Roma e dell'autore. Il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2014

DIRITTO DI REPLICA

della Prefettura di Roma

In relazione a notizie apparse sul Fatto Quotidiano del 27 luglio u.s. a pag.   12   nel passaggio concernente le misure a protezione dell’ex Ministro della Giustizia, Prof. Avv. Paola Severino, si precisa che la vigilanza fissa espletata da militari dell’Esercito Italiano nei pressi dell’abitazione dell’ex Ministro è stata attivata a tutela di obiettivi diplomatici contigui precedentemente alla nomina a Ministro dell’Avv. Severino. Con l’occasione si precisa altresì che il dispositivo di protezione a suo tempo posto a garanzia dell’incolumità personale del Ministro anche presso la residenza privata è stato adottato sulla base delle procedure previste dalla normativa vigente per le Personalità che ricoprono incarichi istituzionali con particolare esposizione a rischio.

di Tomaso Montanari

Prendo atto che sull’Appia si protegge tutto tranne l’Appia stessa. Non è una novità: mentre la Reggia di Carditello era abbandonata ai vandali e ai ladri, un presidio dell’esercito vegliava sulla contigua discarica. Tornando all’Appia, mi piacerebbe sapere se questi sensibilissimi obiettivi diplomatici si trovino in ville abusive, magari fornite di diplomatiche piscine. E se la normativa vigente impedisce che funzionari della soprintendenza e cittadini possano visitare beni archeologici di proprietà pubblica inglobati nel fortilizio privato difeso a spese pubbliche. Chissà.

La Repubblica, 30 luglio 2014
Sterminate folle premono sui musei, sulle città d’arte. Miliardi di cinesi, indiani, giapponesi, russi che paiono dietro l’angolo disegnano nuove frontiere non della cultura ma della cupidigia di nuovi introiti. Il turismo mordi-e-fuggi genera l’arte usa-e-getta (il 75% dei turisti che vanno a Venezia si fermano meno di un giorno lasciandovi chili di detriti). La neomania dei selfie, sdoganati come performance individualista, inonda il web di fotoricordo che certificano non la curiosità culturale ma la presenza rituale del turista. Non archiviano il ricordo, sostituiscono lo sguardo: perciò la loro quantità è più importante della qualità. La visita a un museo somiglia più a una simulazione che all’esperienza di un tempo, l’incontro di una persona (il visitatore di oggi) con un’altra (Giotto, Caravaggio, Rembrandt). Perciò in un libro recente (2010) Steven Conn si domanda sin dal titolo se i musei hanno ancora bisogno di oggetti ( Do Museums still need Objects?). Secondo lui, via via che diminuisce la fiducia nel potere degli oggetti di trasmettere conoscenza diminuiscono di numero gli oggetti esposti nei musei, crescono gli apparati tecnologici e le appropriazioni fotografiche. Il nuovo rituale turistico sostituisce la tecnologia alla storia, la rappresentazione virtuale alla realtà.

Le immagini su un cellulare acquistano un grado di verità e un’intensità di esperienza che non si accontentano di essere equivalenti al contatto con «la cosa vera», vogliono essere superiori ad esso. Consentono manipolazioni (ingrandire un dettaglio), archiviazione di impressioni momentanee, scambi di opinioni via Facebook. L’oggetto d’arte diventa il mero innesco di un processo sensoriale che si svolge prevalentemente altrove. Davanti alla Gioconda, il 20% dell’esperienza (diciamo) è quella del quadro nell’affollatissima sala del Louvre; ma l’80% ha luogo nello smartphone, nell’i-Pad, in un labirinto di modalità interattive che consentono inedite forme di appropriazione. Secondo Conn, la storia (la “cosa vera”) sta diventando noiosa, la tecnologia la rivitalizza; la realtà virtuale è superiore alla realtà tangibile, l’illusione prende il posto del- la riflessione, la duplicazione spodesta l’unicità dell’originale. L’irriducibile diversità del passato si diluisce e si annienta in un gratuito bricolage. Viene in mente Baudrillard: «Il simulacro non è mai ciò che nasconde la verità; la verità èil simulacro, e nasconde che non c’è alcuna verità. Solo il simulacro è vero».

Le folle che si accalcano davanti alla Gioconda e ignorano i Leonardo della sala lì accanto e l’accanimento fotografico che sostituisce lo sguardo sono fratelli: due declinazioni della fretta, di una concezione del museo come esperienza di consumo, di una stessa rinuncia alla riflessione. Vi sono rimedi? Il Louvre ci sta provando a Lens, città mineraria in gran decadenza, dove un “secondo Louvre” è stato aperto con gran successo un anno fa, e ha già avuto più di un milione di visitatori, rianimando un’area di scarsa attrattività. Scegliendo oggetti della collezione e disponendoli in ordine cronologico (ma mescolando le opere d’arte dei vari dipartimenti), sia lo staff del museo che i visitatori sono invitati a riflettere sulla consistenza e sulla storia delle colle- zioni; collocando a Lens una bellissima mostra sui Disastri della guerra che ricorda l’anniversario 1914-2014, una parte cospicua di visitatori è attratta altrove, e moltiplica le potenzialità di quel grande museo. Se arrestare la valanga di selfie pare difficile, sarà possibile diffondere una cultura della lentezza che nell’osservazione dell’opera d’arte veda un’occasione di riflessione e di crescita civile? È immaginabile mettere in rete i tour operator e indirizzare i flussi turistici non solo su poche destinazioni iconiche, ma sulla trama minuta dei monumenti, delle città, dei musei?

A queste domande nessuno si aspetta più risposte dirimenti dall’Italia, che pure è il Paese con la più nobile tradizione museografica, con le più antiche norme di tutela, prescritta dalla Costituzione nell’art. 9, sempre celebrato e mai pienamente attuato. Volgari approssimazioni vedono nell’arte delle nostre città e dei nostri musei un’occasione di business e non un’esperienza di vita; circola nei palazzi del potere la stolta ipotesi che un manager vale per principio più di uno storico dell’arte; si ipotizza di chiudere musei e siti archeologici con pochi visitatori, si ironizza sul fatto che gli Uffizi abbiano meno visitatori del Louvre (che è 30 volte più grande). E intanto è in fase di cottura una riforma del ministero dei Beni culturali innescata non (come sarebbe giusto) dalla voglia di investire sulla cultura, di assumere nuovo personale, di mettere l’Italia in prima fila in un discorso, quello sul rapporto fra arte e cittadinanza, che sarà fra i più importanti del nostro secolo; ma da una pretestuosa spending review , e cioè da ulteriori tagli che vanno ad aggiungersi a quelli perpetrati dal 2008 in poi da governi d’ogni colore. Ma la colpevole insistenza sul turismo come ragione ultima delle cure dovute al nostro patrimonio culturale trascura il solo punto essenziale: quel patrimonio non è dei turisti, ma dei cittadini; è “nostro” a titolo di sovranità (questo dice la Costituzione), è consustanziale al diritto di cittadinanza, serbatoio di energie morali per costruire il futuro. L’Italia ha su questo fronte un diritto di primogenitura, ma pare decisa a rinunciarvi.

Per ora è forse utile chiedersi perché Renzi ha deciso di fermare le macchine, pur sapendo che avrebbe pagato un (per lui intollerabile) pegno mediatico. La risposta è che la riforma di Franceschini non è contro le soprintendenze(nonostante qualche grave errore): cioè non mira a limitarne il potere, ma a organizzarle in modo diverso». Il fatto quotidiano, 28 luglio 2014

Nel mio ultimo post ho provato a spiegare perché la riforma dei Beni culturali presentata da Dario Franceschini non sia (o non fosse, se è già morta) una riforma renziana. Alcuni osservatori hanno provato a dimostrare il contrario, ma è stato lo stesso Matteo Renzi a chiarire come stessero le cose, stoppando clamorosamente la riforma e umiliando pubblicamente Franceschini. Qualche spirito bizzarro ha sussurrato che sia stata proprio quella mia analisi a catalizzare i sospetti del califfo (lo ha riferito Gian Antonio Stella, nell’editoriale di sabato de il Corriere della Sera). In ogni caso, l’incidente è stato serio: proprio sul patrimonio culturale si è registrato il primo turbamento della vita di corte del governo, nonché il primo arresto non dico delle cosiddette ‘riforme’ (che si arrestano benissimo da sole), ma della magica catena di annunci in cui si è finora risolta l’azione di governo del sedicente Harry Potter di Rignano sull’Arno.

Come andrà a finire, ora? Renzi costringerà Franceschini a rimangiarsi la riforma? La congelerà in attesa di cucinarla in salsa diversa? La istraderà su un binario morto? Lo vedremo presto.

Per ora è forse utile chiedersi perché Renzi ha deciso di fermare le macchine, pur sapendo che avrebbe pagato un (per lui intollerabile) pegno mediatico. La risposta è che la riforma di Franceschini non è contro le soprintendenze(nonostante qualche grave errore): cioè non mira a limitarne il potere, ma a organizzarle in modo diverso. In altre parole: non sradica il presidio della tutela territoriale, non dà carta bianca ai sindaci, non libera le mani dei cementificatori. Ed è questo che non piace al premier: che, se potesse, farebbe carne di porco dell’articolo 9 come la sta facendo della seconda parte della Costituzione. E quando ha capito che la riforma Franceschini non era un tritacarne, Renzi ha staccato la spina. Si è scritto che glielo avrebbe fatto notare una potente soprintendente a lui ben nota: una signora ormai così remota da ogni idea di tutela del patrimonio diffuso e del paesaggio, e così determinata a mantenere il controllo delle sue slot-machine museali, da buttare disinvoltamente a mare la missione più preziosa dei suoi colleghi.

La confusione, dunque, è grande. E so che il mio giudizio non drasticamente negativo sulla riforma Franceschini ha creato sconcerto. Ma il dovere di chi fa ricerca e scrive sui giornali è quello di rimanere lontano da ogni ortodossia: senza paura di apparire eretici. Anzi, in fondo, sperandolo.

E se sono rimasti spiazzati i sicofanti renziani, che avevano previsto tuoni e fulmini da parte di quelli che chiamano le vestali del patrimonio o i talebani della tutela, è stato sconcerto anche dal mio lato del campo di battaglia: tra coloro che servono eroicamente lo Stato nelle trincee delle soprintendenze. Non parlo dei direttori generali romani (la cui espulsione di massa sarebbe il viatico di ogni seria riforma), né per delle direttrici regionali che, pur entrando ed uscendo da processi contabili e penali trovano il tempo di propalare che Montanari sdogana la riforma Franceschini perché il ministro gli avrebbe promesso la Direzione per l’educazione, la direzione degli Uffizi, il titolo di Pappataci o un Caravaggio da appendersi sul letto. Voci che non varrebbe nemmeno la pena di commentare, se non avessero addirittura lambito le pagine de il Corriere della Sera.

La miglior risposta è che io non ho mai cambiato linea: ho apprezzato nella riforma Franceschini il molto che è in continuità con ciò che io ed altri abbiamo provato a proporre nella commissione voluta da Massimo Bray. Già in A cosa serve Michelangelo? (Einaudi 2011), scrivevo: Gli storici dell’arte dipendenti dal Ministero dei Beni culturali sono oggi divisi in due tipologie, tra loro assai diverse. La grande maggioranza, una sorta di ‘chiesa bassa’, opera in modo fedele al dettato costituzionale, cercando (in generale con preparazione e abnegazione) di tener testa ai poteri locali in nome della conservazione e della dignità culturale delle opere e del territorio che sono loro affidati.

La ‘chiesa alta’ dei pochi super-soprintendenti è invece totalmente succube, e in ultima analisi complice, del potere politico – centrale, locale e di ogni colore –, e finisce per tradire sistematicamente la propria missione avallando e cavalcando le più inverosimili iniziative di ‘valorizzazione’ delle opere che essa avrebbe invece il dovere di salvaguardare. E se la soprintendenza di Firenze è l’epicentro del sistema, il suo storico e carismatico capo Antonio Paolucci ne è il potente nume tutelare». Ebbene, oggi chi è il più duro oppositore della riforma Franceschini? Ma Antonio Paolucci, naturalmente! Perché la riforma Franceschini smonta ilmonopolio (fallimentare e corrotto) dei Poli museali, e minaccia di mettere le basi per rivedere anche il sistema delle concessioni. E perfino Italia Nostra (a causa di un miserabile conflitto di interessi fiorentino) si è piegata a difendere il Polo Museale Fiorentino, in un grottesco comunicato che cita sologli incassi di quello che Renzi ha definito una macchina da soldi».

La riforma Franceschini è piena di difetti: oltre a quelli che ho elencato nell’ultimo post e all’irredimibile peccato originale di essere ‘a costo zero‘, il più grave è forse la mancanza di risposte all’orrenda piaga del precariato del patrimonio. Ma dobbiamo rammentare che il mondo che quella riforma provava a cambiare non è il migliore dei mondi possibili. Le direzioni regionali sono state un fallimento, i musei italiani non riescono a diventare centri di ricerca, l’educazione al patrimonio non è mai esistita, il territorio è non di rado abbandonato, la sinergia tra architetti e storici dell’arte è una chimera, il nesso tra musei e territorio (salvo qualche eccezione virtuosa) è purtroppo morto e sepolto.

D’altra parte, l’unione tra le soprintendenze architettoniche e quelle storico-artistiche è piena di rischi (come ho scritto), ma è un’alternativa migliore alla altrimenti necessaria soppressione di alcune sedi: e la chiusura a riccio dei miei colleghi storici dell’arte è un errore in sé (perché è motivata dal timore che a guidarle siano solo architetti: ma non possiamo rinunciare a fare una cosa giusta per paura che ci venga male, bisogna invece essere determinati a farla venir bene), ed è un errore che antepone l’interesse della corporazione all’interesse del patrimonio. Proprio come noi professori siamo i principali colpevoli dell’estremo degrado dell’università italiana, anche i funzionari delle soprintendenze hanno qualche responsabilità nella crisi della tutela: troppo silenzio, troppo conformismo e troppo conservatorismo hanno coperto i tradimenti della chiesa alta dei Beni culturali.

Chissà se ora (e ancor di più quando arriverà la vera riforma-fine-del-patrimonio) qualcuno capisce o capirà perché ho scritto che la riforma Franceschini, pur gremita di errori e gravida di rischi, non era pessima. Per esser chiari: se potessi decidere io, questa non sarebbe la mia riforma. Ma dati i tempi e la situazione, a me pareva francamente un miracolo che da quella macelleria che è il governo Renzi non fosse uscito un macello. E infatti…

Se per caso Franceschini dovesse comunque spuntarla non saranno certo rose e fiori. Ogni passaggio andrà seguito con estrema attenzione, dalla scrittura dei regolamenti, a quella dei bandi per le posizioni apicali dei musei, dal funzionamento dei segretariati regionali a quello del coordinamento regionale dei musei. Sarà, come sempre, una battaglia di trincea, da combattere con ogni mezzo. Anche distinguendo Franceschini da Renzi, se serve.

“Bisogna “commercializzare” l’Italia e in primo luogo quindi la Sardegna”. La frase lapidaria, detta ad una tv sarda, appartiene al sottosegretario ai Beni Culturali, Francesca Barracciu. Dichiarazione di primaria importanza perché chiarisce bene le intenzioni del governo Renzi in materia di cultura e di beni archeologici, storico-artistici e paesaggistici. “Gli Uffizi”, sentenziò tempo fa l’allora sindaco Renzi, “sono potenzialmente una gran macchina da soldi”. “I Musei sono miniere d’oro non sfruttate”, gli ha fatto eco il ministro Franceschini presentando a larghe linee il nuovo assetto del suo derelitto Ministero oggetto della settima-ottava “riforma” in pochi anni.

Che, stavolta, avendo accorpato di recente il Turismo, vede ormai anteporre al Patrimonio e alla sua tutela la Valorizzazione di tipo turistico-promozionale. Per cui la sigla potrebbe ben cambiare da MiBACT in MiTURBEN o MiSTURBEN visto lo “sturbo” che provocherà nelle Soprintendenze e negli uffici tecnico-scientifici della tutela. Guai però a criticare, perché, come per la riforma del Senato o per l’Italicum, si passa, tout court, per “gufi” e per “nemici delle riforme”, additati come tali da Serracchiani e Bonafè. Vecchi bacucchi insomma, mentre i Soprintendenti in carica sono, al più, studiosi squisiti incapaci di organizzare qualcosa di utile per incrementare gli ingressi o burocrati ottusi, se non babbei. Non so se per provincialismo, difetto di informazione, scarsa frequentazione di musei stranieri, costoro ignorano che il Louvre coi suoi 9 milioni di ingressi è passivo per il 50% del suo bilancio (ci pensa lo Stato) e che altrettanto accade al Metropolitan Museum, che i grandi musei inglesi e molti musei di fondazioni - come la Smithsonian di Washington - sono gratuiti e semmai con ciò danno un servizio culturale gratis e incrementano notevolmente i flussi turistici (secondo gli inglesi, del 50%). Ma ovunque la distinzione fra il Patrimonio/Materia Prima e il Turismo/Indotto è chiarissima. Da noi non più.

Il progetto Franceschini, per quello che se ne è appreso, da lui e dagli uffici, parte dall’idea centrale di rendere autonomi dalle Soprintendenze i 20 maggiori musei italiani affidandoli a manager anche stranieri. Con quale fine? Di ricavarci dei bei profitti, si suppone. La cosa è gravissima e del tutto nuova nella storia della tutela in Italia. Tagliare il rapporto fra i Musei (statali, per ora) e le loro peculiari origini, col loro territorio è antistorico e astratto. Per i Musei archeologici poi è una solenne fesseria alimentandosi questi ultimi delle continue campagne di scavo (tant’è che esistono ormai numerosi musei “di scavo”): lo splendido Museo di Policoro, osco-lucano, magno greco, ellenistico, ecc. l’hanno dovuto raddoppiare anni fa per la massa di nuovi formidabili ritrovamenti nella Siritide.

Se prevale - e in quest’ottica prevale di certo (Barracciu dixit) - la logica oggettivamente, necessariamente economica del turismo su quella culturale, non necessariamente economica, della ricerca e della conservazione artistica, si aprono le porte ad una sorta di enorme Ipermercato Italia, all’aperto e al chiuso, per masse incontrollabili di turisti di ogni Paese. E’ il risultato di aver mescolato - anziché tenerli ben distinti - Cultura e Turismo, facendo prevalere il secondo. Paradossalmente, il guaio vero è che, mentre i nostri musei, le nostre aree archeologiche (non tutto è Pompei in Italia e anche Pompei non è poi tutta quanta il disastro che si dipinge), risultano concorrenziali, non lo è affatto l’apparato turistico dell’ospitalità, della mobilità, ecc. Secondo la Coldiretti il turismo italiano è più caro del 10% rispetto agli altri Paesi più visitati. Altri rilevano che i prezzi in Italia cambiano a seconda che un semplice cappuccino venga servito agli italiani o agli stranieri. Questo scredita e respinge molto. Altro che musei.

Certo i nostri, ospitati in ville, dimore o palazzi storici, sono più piccoli e non gonfiabili: gli Uffizi attuali, se non erro, dispongono, per ora, di una superficie espositiva sui 12.000 mq contro i 180.000 mq del Louvre, ma con 1,8 milioni di visitatori ne stipano 150 per mq, mentre a Parigi con 9 milioni circa di visitatori (e con seri problemi di controllo e scioperi contro bullismi, violenze, ecc.) ne registrano soltanto 50 per mq. Per cui in tutti i nostri musei, gallerie, ecc, persino al Colosseo, non si possono non contingentare gli ingressi. Cosa che infastidisce molto i nostri “riformatori”. Ma 1 milione di visitatori all’anno sono 1 milione di persone che alitano, respirano e traspirano (e naturalmente 2 milioni di ascelle, 2 milioni di piedi), che creano umidità, con seri danni a tavole e tele se la climatizzazione non è perfetta. In ogni caso se la folla si accalca nelle sale. Come sta avvenendo.

Un’ultima osservazione sul paesaggio italiano che è sempre più aggredito e stravolto dal binomio cemento-asfalto con consumi di suolo pazzeschi, a Napoli il 62 % è impermeabilizzato, a Milano il 60, in Lombardia, montagne incluse, oltre il 10%. Che è il doppio della Germania. Se una parte dei paesaggi si è salvata dall’assalto di padroni, padroncini, abusivi, Comuni senza testa, ecc. lo si deve anzitutto alle pur depauperate e intimidite Soprintendenze che oggi risultano quotidianamente sotto accusa e che dispongono in tutto di 480 architetti per sorvegliare e tutelare un territorio vincolato pari al 47% del Belpaese, 141.358 Kmq, per cui c’è un solo architetto ogni 290-300 Kmq. Oppure, se preferite, 1 architetto ogni 42 centri storici… Una sola regione, la Toscana per fortuna, fino a qualche anno fa intaccata o minacciata da lottizzazioni pericolose (nonché dalle cave delle Apuane), ha adottato il piano paesaggistico concordato col Ministero. E il resto? Si vedrà. Le regioni più devastate, guarda caso, quelle dell’abusivismo foraggiato dalle varie mafie, e magari quelle dove - vedi Sicilia - la tutela è da sempre “regionalizzata”. Un disastro. Niente piani, niente tutele.

Purtroppo la prima apprezzabile versione governativa del “nuovo” Titolo V della Costituzione - quella che riportava al centro taluni poteri generali in materia di ambiente, di parchi, di paesaggio - è stata già snaturata dalla bozza Calderoli-Finocchiaro come ha notato (fra i pochi) Fulco Pratesi sul “Corriere della Sera”. Anche qui si retrocede dunque - per avere i voti della Lega per Senato e Italicum? - verso il brutto pasticcio istituzionale 2001. L’anno in cui, fra l’altro, si cancellò l’art. 12 della legge n. 10 sui suoli del ’77 che imponeva ai Comuni di riservare gli oneri di urbanizzazione alle sole spese di investimento e non alla spesa corrente. E i Comuni, alla canna del gas, schiacciarono il pedale dell’edilizia, per lo più “di mercato”, cioè speculativa. Con centinaia di migliaia oggi di case vuote, sfitte, ecc. E poca, o punta, direbbero Renzi o Boschi, edilizia pubblica e sociale.

L'Unità, 18 luglio 2014
La sua idea di ridurre il potere delle ex Soprintendenze regionali divenute direzioni generali regionali va certo nella giusta direzione: semplificare la catena di comando e il rapporto centro-soprintendenze. Mi lasciano invece perplesso altre idee, soprattutto una: quella di una più stretta integrazione fra turismo e beni culturali e paesaggistici. Il primo sembra, da quanto si è letto, prevalere sui secondi assoggettandoli a logiche economico-promozionali. Ciò discende dalla convinzione - da lei ribadita nei giorni scorsi - che i nostri grandi musei siano “miniere d’oro” non sfruttate a dovere, cioè potenziali “macchine da soldi”.

Non dalle maggiori esperienze straniere: il Louvre infatti, coi suoi 180.000 mq di superfici espositive e coi suoi quasi 9 milioni di ingressi è passivo al 50% (ci pensa lo Stato) e analoga è la situazione del Metropolitan di New York. I grandi musei inglesi, come lei ben sa, sono gratuiti (tranne le mostre) e contano proprio così di attrarre più turisti. Il che è vero secondo le loro statistiche ufficiali: + 50% di turisti a Londra.

Ecco uno dei punti nodali: i beni culturali e paesaggistici sono, a mio avviso, la “materia prima”, il patrimonio da tutelare, da conservare, in sé e per sé, maggiore o minore che sia, mentre il turismo è un suo “indotto economico” che può ben essere potenziato se ben organizzato. E purtroppo in Italia esso è disorganizzato e più caro (del 10 %, sostiene Coldiretti) delle medie europee. Nonché spesso di qualità scadente.

Nel suo progetto (per quel che se ne sa) si prevede, in una visione che privilegia l’economia, il profitto, rispetto alla tutela complessiva del patrimonio, di separare i grandi musei dal territorio, dalle città, dal contesto storico in cui sono nati - da donazioni multiple di grandi famiglie, da chiusure di chiese e conventi, da collezioni o gallerie patrizie, nei modi più diversi - cioè dalle Soprintendenze. Popolate secondo la vulgata corrente o di studiosi troppo raffinati o di ottusi burocrati. Essi verrebbero affidati in completa autonomia a direttori anche stranieri, comunque non provenienti dai Beni Culturali. Un bello schiaffo alle nuove leve degli storici dell’arte italiani, dopo quello dell’accorpamento (deciso sulla carta) delle Soprintendenze ai Beni Artistici e storici a quella per i Beni architettonici. Con in più qualche pericolo “politico”. Chi nominerà quei venti mega-direttori e con quali criteri, il ministro? Prevarranno criteri “politici” o meritocratici? Essi potranno essere anche stranieri. Lei osserva che se vi sono italiani (per lo più, mi lasci dire, storici dell’arte) chiamati a dirigere musei vecchi e nuovi all’estero, vi potranno ben essere stranieri validi…

Per l’arte contemporanea è molto probabile. Per quella antica e per l’archeologia i dubbi non sono pochi. Nei maggiori teatri lirici nazionali non è che i Sovrintendenti stranieri abbiano dato prova strepitosa di sé. In ogni caso si è già visto con Mario Resca come inserire manager nel corpo di un Ministero “di patrimonio” abbia creato solo una gran confusione, per esempio per il “vitello d’oro” tutto o quasi privato delle società di servizi museali aggiuntivi. Ancora da sbrogliare, se non erro. Queste mega-direzioni esternalizzate sono un primo passo per privatizzare (vecchio progetto-Urbani) i maggiori musei? Retrospettivamente, anche ridurre in passato il MiBAC alla canna del gas aveva probabilmente questo fine ultimo. La polpa ai privati, l’osso allo Stato. E come la mette coi musei civici che spesso, nel Centro-Nord, sono i più grandi e prestigiosi di quelli statali? A Brescia o a Pavia, per esempio, è tutto civico.

Non voglio dilungarmi. Accenno al paesaggio italiano. Un giorno stavo assistendo alla telecronaca del Giro d’Italia e mi stupii nel vedere ripresi dall’elicottero paesaggi intatti, verdi, coltivi ordinati, nessuna periferia cenciosa. Corsi a vedere dove stessero correndo: purtroppo il Giro era sconfinato in Austria… Tutto questo avviene da noi per colpa delle Soprintendenze? Al contrario, per colpa di una sottocultura molto italiana - alla quale il berlusconismo ha dato un propellente formidabile - che intende il paesaggio come qualcosa di privato, in cui “ciascuno è padrone a casa sua”.

Lei ha costituito un precedente pericoloso con la creazione di una commissione per il ricorso contro i pareri emessi dalla Soprintendenze ai beni architettonici. Lei sa meglio di me che gli organici di quelle Soprintendenze sono ancor più carenti degli altri a fronte di una marea di richieste di concessioni edilizie, di autorizzazioni a costruire ovunque, a ristrutturare in fretta e furia. Per cui ogni architetto dovrebbe affrontare in ogni giorno lavorativo almeno 4-5 pratiche edilizie e urbanistiche ognuna delle quali richiede spesso anche una quarantina di giorni di istruttoria.
Come si rimedia? Col potenziamento degli organici, ovvio. No, col richiedere, di fatto, un silenzio/assenso, sapendo che silenzio sarà, vista la incredibile mole di lavoro e la non meno incredibile pochezza di mezzi e di uomini. Le Soprintendenze vengono accusate di essere “organi monocratici”. E’ difficile pensare che non lo sia un organo tecnico-scientifico: non si decide a maggioranza come fare un restauro o, in campo medico, un’operazione a cuore aperto. Prima dello sciagurato Titolo V (la cui effettiva riforma sembra allontanarsi) esisteva un ufficio centrale ben dotato che, per esempio nel 1998, compì oltre 135.000 istruttorie progettuali annullando 3.092 progetti, neanche tanti, però maxi-progetti, “mostri”, in tempi rapidi, mediamente 42 giorni. Ma quell’utilissimo Ufficio centrale era stato dotato di mezzi e di personale tecnico adeguato. Noi ci auguravamo che accadesse per la co-pianificazione Regioni-Ministero prevista dal Codice per il Paesaggio. Dov’è finita invece, Toscana a parte?

In conclusione mi sembra, signor ministro, che mescolare la materia prima “patrimonio” e l’indotto “turismo” anteponendo per giunta il primo al secondo, oltre a smontare, di fatto, una tradizione, centenaria ormai di buona tutela (nonostante gli italiani), rischi di non giovare per primo al turismo che avrebbe bisogno, quello sì, di manager, di specialisti, di promoter e di obiettivi adeguati ai 48.738.575 stranieri che sono arrivati da noi nel 2012. Oggi la politica turistica la fanno i tour operator, come più conviene loro. E sul paesaggio comandano speculatori, abusivi, padroni e padroncini.

Il manifesto, 18 luglio 2014

Il mini­stro Fran­ce­schini è vis­suto a Fer­rara e cono­sce ciò che quella mera­vi­gliosa città ha saputo costruire: un mira­bile equi­li­brio tra la bel­lezza urbana e il pae­sag­gio. Lo affermo per­ché rimasi col­pito di una sua dichia­ra­zione nel novem­bre 2012 in occa­sione della morte del grande Paolo Ravenna. Soste­neva Fran­ce­schini che a lui si doveva molto del rispetto della cul­tura dei luo­ghi, dalle mura al parco agri­colo che le cinge. A leg­gere le parti salienti del pro­getto di riforma del Mibac viene da pen­sare che siano state quelle parole vane, come sem­pre più spesso ci abi­tua una poli­tica che vive di slo­gan. Ma forse, nes­suno poteva aspet­tarsi – e dun­que nep­pure il mini­stro - che il Pre­si­dente del con­si­glio avrebbe ini­ziato a costruire il suo pro­filo isti­tu­zio­nale pro­prio riem­piendo di con­tu­me­lie i «pro­fes­so­roni» e attac­cando buro­crati e Soprin­ten­denze di Stato. Solo dei grigi buro­crati come i soprin­ten­denti, appunto, non capi­scono che il futuro dell’Italia è nella messa a red­dito del nostro petro­lio, e cioè lo straor­di­na­rio patri­mo­nio cul­tu­rale che ci fa un caso unico nella sto­ria della cul­tura mon­diale. Un atteg­gia­mento cul­tu­rale che è l’esatto con­tra­rio dell’impegno di una vita di uomini come Paolo Ravenna o, sem­pre per restare a Fer­rara, di Gior­gio Bas­sani.

Sarà un caso, ma pro­prio due giorni prima la pre­sen­ta­zione del pro­getto di riforma tutto cen­trato sulla valo­riz­za­zione, è stato reso pub­blico uno stu­dio della Società Auto­strade per l’Italia che si occupa niente meno dello svi­luppo turi­stico e cul­tu­rale del parco dell’Appia antica di Roma. Tra le tante perle con­te­nute in quel docu­mento — tutte elen­cate in un ottimo documento-appello dell’associazione Bian­chi Ban­di­nelli- c’è anche scritto che in alcuni luo­ghi si sareb­bero creati dei punti di ven­dita ristoro con pro­dotti tipici in modo da risco­prire l’importanza del gran tour nella Roma del set­te­cento. È scritto pro­prio così e nes­sun soprin­ten­dente di Stato avrebbe mai imma­gi­nato una simile genia­lità. Chissà cosa avrebbe scritto Anto­nio Cederna, una vita spesa per sal­va­guar­dare l’Appia antica. Que­sta fol­lia c’entra molto con il pro­getto di riforma di Fran­ce­schini. Il ruolo dei soprin­ten­denti diviene infatti mar­gi­nale e uno dei pila­stri che regge la riforma sta nel fatto che i più impor­tanti luo­ghi della cul­tura ita­liana potranno dive­nire spe­ciali e per ciò stesso affi­dati a mana­ger esterni all’amministrazione dello Stato. Tutti meno i soprin­ten­denti. Una vera osses­sione.
E veniamo al nodo che riguarda il pae­sag­gio. Il mini­stro sa che nella discus­sione par­la­men­tare è stato inse­rito un comma all’articolo 12 in cui ven­gono isti­tuiti i «comi­tati di garan­zia per la revi­sione dei pareri pae­sag­gi­stici», una mostruo­sità giu­ri­dica –la messa sotto tutela mini­ste­riale del capil­lare lavoro degli organi decen­trati dello Stato- che signi­fica una sola cosa: la fine della tutela pae­sag­gi­stica del ter­ri­to­rio, que­stione con­te­nuta nei prin­cipi fon­da­men­tali della nostra Costi­tu­zione. E anche qui c’è una coin­ci­denza impor­tante. Il 4 luglio scorso la regione Toscana ha adot­tato il Piano pae­sag­gi­stico regio­nale, un ottimo stru­mento di tutela voluto dall’assessore Anna Mar­son e a cui ha par­te­ci­pato attra­verso intesa isti­tu­zio­nale il Mini­stero dei Beni cul­tu­rali. Forse chi ha pre­sen­tato l’emendamento voleva azze­rare per sem­pre l’azione regio­nale di tutela del ter­ri­tori ed è grave che Fran­ce­schini abbia accet­tato l’emendamento e non rista­bi­lito il cor­retto fun­zio­na­mento dello Stato. Molti par­la­men­tari e qual­che mini­stro hanno a cuore le beto­niere che hanno deva­stato l’Italia.
Alcuni anni fa la Soprin­ten­denza del Lazio per tute­lare l’agro romano meri­dio­nale impose un vin­colo gene­rico. Ini­zia­rono lo stesso i lamenti che denun­zia­vano il «blocco» delle costru­zioni. Pos­siamo pro­porci di accom­pa­gnare que­sti par­la­men­tari e il mini­stro verso le cam­pa­gne del Divino Amore a Roma – luogo interno al vin­colo — e con­tare insieme il numero dei grandi quar­tieri che sta sor­gendo in aperta cam­pa­gna in una città che ha due­cen­to­mila abi­ta­zioni vuote Il pro­blema non sono i vin­coli o i soprin­ten­denti: sono il rispetto della sto­ria e della cul­tura che fanno grandi le nazioni e le città. Come la splen­dida Ferrara.

«Un'evoluzione della secolare perdita di funzione dell'arte e dell'architettura: dalle opere nate per il museo arriviamo al museo nato senza avere le opere. E la direzione è di arrivare ad avere città senza cittadini (Venezia è a un passo, in tutti i sensi)». Il Fatto Quotidiano, 16 luglio 2014

Certo, la posa della prima pietra non poteva avvenire in un momento più simbolico. Siamo a Mestre e il cantiere è quello dell'M9, che non è un servizio segreto evoluto, ma un enorme Museo del Novecento (9.200 mq, 100 milioni di euro di costo). La ditta vincitrice dell'appalto –forse nessuno si sorprenderà– è la Maltauro, a tutti gli italiani nota grazie allo scandalo dell'Expo.

Ma cosa sarà, esattamente, l'M9? «M9 risponde il sito del progetto – sarà un polo culturale di nuova concezione, con un museo, spazi espositivi, una mediateca-archivio, aree per le attività didattiche e servizi al pubblico. M9 nasce per far conoscere il passato, comprendere il presente e avere fiducia nel futuro: sarà un luogo in cui rappresentare, studiare e interrogarsi sulla modernità e la contemporaneità. M9 rappresenta un passo importante per l'affermazione dell'identità culturale della terraferma veneziana e allo stesso tempo si propone come un esperimento ambizioso di elaborazione di un nuovo standard museale, applicato a un tema difficile e importante qual è quello del raccontare la storia del Novecento».

La cosa singolare è che non si sa bene cosa sarà esposto in questo museo. Né quale e quanto personale scientifico potrà essere assunto. Insomma, più che di un museo si tratta di un grande contenitore. Si tratta di un'evoluzione della secolare perdita di funzione dell'arte e poi anche dell'architettura: dalle opere nate direttamente per il museo siamo arrivati al museo nato senza avere le opere. E la direzione è quella di arrivare ad avere città senza cittadini (Venezia è a un passo, in tutti i sensi).

È chiaro che il progetto di Mestre vuol essere specie di remake italiano del Guggenheim di Bilbao: una storia di successo che in molti hanno cercato di replicare. Quasi sempre, però, con scarsissimo successo. La fondazione di un museo dovrebbe inserirsi nel progetto che una comunità urbana ha sul proprio futuro: è solo un simile progetto che permette di rileggere il passato. Da noi quasi sempre è il contrario: si fa il mega-museo per coprire il vuoto progettuale e politico. Ma invertendo l'ordine dei fattori il prodotto non resta lo stesso.

i terreni sono privati. Inviato l'11 luglio 2014.

Un villaggio neolitico. Una fattoria romana. Un quartiere medievale. Il casino di caccia di Federico II. Accanto, una masseria settecentesca e forse più antica. Periferia di Foggia, tra la superstrada per Candela e via di san Lorenzo. Dalla sterpaglia ecco i ruderi della Masseria Pantano, poco lontano il tratturo Foggia-Ordona-Lavello, così trascurato che il cartello che racconta uno dei percorsi della transumanza è stato cancellato dal sole.

E' il minore degli scandali. Lo scandalo vero è l'avanzata a tenaglia dell'edificazione di questa grande fetta di territorio, così importante per la città di Foggia, così abbandonata. Com'è possibile?

Federico II, convogliando le acque di un torrente vicino, aveva costruito qui un invaso – ancora visibile – a servizio del suo casino di caccia insieme al vivarium e ai padiglioni mobili. Qui ospitava amici e legazioni straniere, qui andava a caccia: al posto dei prati c'erano boschi ricchi di acqua e animali, altri ne aveva naturalizzati il re. Studi e scavi sono ancora da completare.

Poco più in là la Masseria reale, o Masseria Pantano, dal nome del luogo, san Lorenzo in Pantano. Un grande edificio rurale a volte, di cui restano vasti ambienti e si intravedono i piani sottostanti. Volte e archi abbracciati da fichi e rampicanti, semi sepolti da enormi cumuli di macerie, quasi fosse una discarica per calcinacci e scarti di mattonelle. Quasi come tutti i costruttori di Foggia si fossero dati di gomito: andate lì, per scaricare materiali inerti non si paga, in discarica sì. A difendere le mura, una rete da polli abbattuta in più parti, forse dai camion dei cantieri. Poco segnalata persino la “fossa granaria”, un pericolo per chi ci cadesse dentro.

Perché? Il luogo non è ignoto. L'università di Foggia lo ha studiato, il Fai ha fatto più di un'iniziativa per riportarlo in uno stato decente, convegni, manifestazioni, istanze al sindaco. Invano. Hanno ottenuto dal Comune un'ordinanza di messa in sicurezza che vale meno della carta su cui è stata scritta, e infatti.

La questione è che quei terreni sono privati – possibile che nessuno, in Soprintendenza o in Comune o in Regione, abbia pensato all'esproprio: è un bene culturale una zona così ricca, o no? – e che probabilmente i proprietari abbiano presentato proposte di edificazione. Già preesistenze neolitiche sono state conglobate negli scantinati di alcuni dei palazzi in costruzioni, le cui gru stringono d'assedio la Masseria Pantano.

Impossibile verificare le voci: sta di fatto che quando si chiede di chi sono quelle aree, molti cambiano discorso e distolgono lo sguardo. Persone potenti, certo. Tanto da cancellare un gran pezzo di storia di Foggia? Pensate: Federico II trasferì a Foggia la capitale del Regno delle Sicilie, prima a Palermo. Innamorato di questa città e conscio della sua posizione strategica, vi costruì un palazzo imperiale di cui poco resta, se non il portale accanto al Museo Civico. Ancor più importante, dunque, la testimonianza di pietra di Masseria Pantano.

Invece no. Invece la valanga di calcinacci fin dentro la Masseria. Invece una rovina forse accelerata dalla mano umana, vandalizzata, così che quel “dente cariato” sia cancellato più presto dall'orizzonte. C'è chi, invitato a un laboratorio urbanistico, assicura che in comune si prevede sia cementificata tutta l'area e che i cittadini sarebbero stati convocati per chieder loro qualche compensazione vogliano, una pista ciclabile o l'area giochi per bambini.

Intanto le gru avanzano, a tenaglia. Da un lato la superstrada, dagli altri i cantieri dei palazzi di speculazione. Non c'è una piazza, non c'è un ritrovo, l'unico luogo “sociale” è il centro commerciale. Negli edifici già costruiti, poche le case occupate davvero, ma si va avanti, le betoniere macinano cemento, i camion marciano, le gru s'affannano. La Masseria Pantano, la sua storia, la sua ricchezza di testimonianze non è che un trascurabile inciampo nella gloriosa edificazione di una brutta periferia in una città che sceglie di essere sempre più brutta. E perde se stessa.

Questo articolo è inviato contemporaneamente a l'Unità, blog"Città e Città"

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