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«Il mondo politico ed economico ragiona in termini di Prodotto interno lordo (Pil) e non di benessere del cittadino. Non interessa la trasparenza e la legalità applicata alla salute dei cittadini ed al concetto di sanità uguale per tutti». Il Fatto Quotidiano online, 7 luglio 2016 (c.m.c.)
Da molti anni cerco di spiegare quali metodi possano modificare il concetto di bene comune inteso come volontà di far applicare un sistema di controllo sull’operato dei medici più vicino al paziente in modo da avere maggior salute e minore spesa sanitaria, in parte dovuta alla medicina difensiva, che si combini con la gestione soggettiva dei dati sanitari, che diventa a sua volta un controllo indiretto.

La politica resta sorda e non ha accettato alcun mio suggerimento e, tanto meno, vuole coinvolgere una persona che possa chiarire o far risparmiare: se non interessa la salute alla politica non interessa la vita delle persone. Questo solo perché il mondo politico ed economico ragiona in termini di Prodotto interno lordo (Pil) e non di benessere del cittadino.

Robert Kennedy nel suo storico discorso all’Università del Kansas del 18 marzo 1968 diceva:

«Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del Paese sulla base del prodotto interno lordo.

«Il Pil comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.

«Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere. Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani».

A nessuno interessa produrre salute, a tutti interessa produrre tutto quello che gravita intorno alla malattia, consumandolo appena prodotto. In questa ottica entra la produzione di strumentario diagnostico e chirurgico che cambia come per i cellulari, piccole modifiche per far diventare immediatamente obsoleto il precedente.

In questa ottica gravita la produzione di farmaci spesso inutili o controversi come i vaccini antinfluenzali; superflui, come le lacrime artificiali che in Italia sono arrivate a circa duecento tipi differenti; costosi, come Lucentis inutilmente costoso rispetto al sovrapponibile Avastin.

A nessuno interessa la trasparenza e la legalità applicata alla salute dei cittadini ed al concetto di sanità uguale per tutti. A nessuno interessa andare a trovare nuovi sistemi di riduzione di spreco diagnostico, clinico, chirurgico o farmaceutico.

Forse è venuto il momento di cambiare l’indicatore che misura lo stato di salute di un Paese partendo proprio da una radicale riforma dei sistemi e del concetto di salute e di benessere.

«Gli organi di controllo devono verificare soprattutto che nessuno rubi o faccia rubare, mica la funzionalità a lungo termine di un argine o di una scogliera che dovranno salvaguardare gli abitati con un orizzonte centennale». Il Fatto Quotidiano online, 4 luglio 2016 (c.m.c.)

Le magagne progettuali vengono sempre più frequentemente alla luce, anche perché stiamo toccando il fondo. Ma i piani, le infrastrutture e le opere che interagiscono con rivi e versanti, fiumi e laghi, litorali e lagune hanno orizzonti assai lunghi. Così come gli asservimenti della natura, dai ponti alle strade, che formano il telaio su cui poggia lo sviluppo di un Paese. Essi traguardano tempi assai più estesi delle fluttuazioni di Borsa; e non sempre ci si accorge subito di errori e omissioni.

Le lacune di oggi si possono tramutare in gravi disastri nel futuro. La bassa qualità – culturale, scientifica e tecnica – è una mina a scoppio ritardato, un virus latente con cui il corpo del Paese si alimenta senza percepirne la pericolosità.

Ci sono ragioni interne, ben note, legate alla nostra attitudine collettiva a trascurare la competenza e il talento a favore di altre “virtù”. Questioni come la gestione dei fiumi Bisagno a Genova e Seveso a Milano, casi eclatanti come il lungolago di Como o il medio Tagliamento sono diventati archetipi a livello mondiale.

La consolidata sottomissione di consulenti e tecnici produce un’acritica dipendenza dal committente, spesso pubblico, del tutto incomprensibile agli stranieri e, sperabilmente, ai posteri. Ha scritto Andrea Rinaldo: «Grande è l’incredulità dei colleghi stranieri per l’assunto tutto italiano consulenza = dipendenza che anima il dibattito tecnico. Sembra loro incredibile, in particolare, l’irrilevanza delle qualificazioni scientifiche per la credibilità delle tesi tecniche».Ma ci sono anche cause esterne, come il predominate fattore finanziario che dirige qualunque progetto, soprattutto se di grandi dimensioni.

Nel contesto nazionale, la corruzione ha fatto nascere istituzioni specifiche di controllo. E questa verifica di onestà, in apparenza semplice ma ostica in pratica, è già compito da far rabbrividire, viste le clientele che dominano il Paese. Insomma, gli organi di controllo devono verificare soprattutto che nessuno rubi o faccia rubare, mica la funzionalità a lungo termine di un argine o di una scogliera che dovranno salvaguardare gli abitati con un orizzonte centennale.

A livello internazionale, anche organismi con una buona tradizione scientifica e tecnica come la Banca Mondiale o la Banca Interamericana di Sviluppo hanno difficoltà a valutare interventi complessi in realtà sfaccettate e contesti soggetti a rapida evoluzione. Anche se le multinazionali della consulenza si stanno attrezzando da tempo per fornire servizi adeguati, compare talvolta il convitato di pietra del conflitto di interesse. Altre volte rimane nell’ombra, perché invisibile o implicito; o magari declinato al motto di ‘cane non mangia cane’ (Canis canem non est).

Il consolidamento del sistema Europa in senso neo-liberista e l’adorazione militante per la ‘concorrenza’, che fu santificata dall’allora commissario Monti, avrebbero potuto comunque scalfire la consuetudine italica a considerare la qualità come un fattore accessorio. Invece non è accaduto. La furia competitiva ha infatti classificato consulenti e i tecnici tra i ‘fornitori di servizi’, il cui contributo va perciò valutato alla stregua dell’affidamento delle pulizie o del servizio postale.

E nel caso dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria è disciplinato dall’art. 91 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE). Non sono esattamente i criteri con cui Ludovico il Moro chiamò a Milano Leonardo da Vinci, presentatosi con un’accattivante lettera di auto-raccomandazione a base di drenaggi, ponti e bombarde, ma che si chiudeva con un frase rassicurante: «Se le cose che ho promesso di fare sembrino a qualcuno impossibili e irrealizzabili, mi offro di farne una sperimentazione in qualunque luogo vorrà Vostra Eccellenza, a cui mi raccomando con la massima umiltà».

Non ultima, la crisi economica porta anche i più attenti e onesti gestori della cosa pubblica a ‘ottimizzare’ le modeste risorse disponibili mettendo in secondo piano la qualità. Accade così che spesso si esageri in quantità nei propri racconti del ‘fare’. E che la ‘bulimia del fare’ porti a dimenticare la qualità di ogni singolo racconto.

"Beni comuni 2.0" a cura di Michele Spanò e Alessandra Quarta per Mimesis. Il libro è una rassegna delle analisi dei beni comuni in Europa, America Latina, Africa e sui temi come il costituzionalismo, la sharing economy o il reddito di base. Il manifesto, 5 maggio 2016 (c.m.c.)

Non è sbagliato presentare Beni comuni 2.0 come un «libro generazionale» come fa Ugo Mattei nella postfazione a un denso volume collettaneo, curato da Michele Spanò e Alessandra Quarta per Mimesis (pp.220, euro 20). Il libro contiene quindici saggi della generazione «under 35» di giuristi e costituzionalisti che conosce la precarietà lavorativa, non solo quella accademica. Cosmopoliti e nomadi, giovani donne e uomini hanno coniugato un attivismo politico-culturale con la pratica di un diritto non statuale all’insegna della teoria dei beni comuni.

Una teoria che, dalla omonima commissione parlamentare diretta da Stefano Rodotà nel 2007 a oggi, ha esteso un dibattito giuridico internazionale già fiorente sui commons alle esperienze politiche significative come il referendum sull’acqua pubblica del 13 giugno 2011 o l’occupazione del teatro Valle a Roma, avvenuta il giorno dopo. La splendida fotografia di Valeria Tomasulo messa in copertina del volume rappresenta uno dei momenti più intensi sia per la generazione degli autori che per i movimenti italiani, degli ultimi anni.

«Com’è triste la prudenza» recitava lo striscione simbolo di un’occupazione oggi rimossa. Dannazione della memoria e atto di vendetta contro un esperimento politico e giuridico che ha provato a coniugare l’auto-governo della Comune di Parigi con il comunismo dei consigli operai e l’idea di nuove istituzioni aperte alla partecipazione dei cittadini e al «costituzionalismo civico» o «dal basso».

Il libro è una rassegna delle analisi dei beni comuni in Europa, America Latina, Africa e sui temi come il costituzionalismo, la sharing economy o il reddito di base. La centralità dei «beni comuni» è abbastanza nota nel dibattito giornalistico e accademico, meno nota in quello politico che sconta un impressionante concentrato di arretratezza culturale e di vera e propria malafede ai danni degli esclusi e dei lavoratori poveri, giovani e anziani. Il progetto di revisione costituzionale voluto da Renzi e dal Pd, così come le loro politiche sulla povertà, escludono programmaticamente ciò che invece costituisce la tensione comune degli autori del volume.

Ciò dimostra che, sia pure da una prospettiva oggi minoritaria, queste analisi sono politicamente situate e prodotto di un conflitto. In questa chiave va valutato il concetto proposto dai curatori del volume di «contro-egemonia». Citazione gramsciana, la «contro-egemonia è l’operazione attraverso la quale una forma di vita usa, piegandola, la forma per fare diversa la vita – nel mezzo delle cose, col mezzo giuridico. Il medio di questa impresa mondanissima è il diritto e con esso i suoi istituti: piegati, sabotati, rifunzionalizzati».

La sfida è quella dell’immanenza: a destra e a sinistra considerata come l’effetto del postmoderno. Per gli autori, che conoscono bene la filosofia, è invece una chance materialistica, un conflitto dentro il diritto e per il suo uso «contro-egemonico». I beni comuni ne hanno offerto più di un esempio. Il libro non va dunque letto solo come «generazionale», ma come un esempio di cosa può fare, oggi, un’intelligenza segnata da una stagione di cui oggi conosciamo i limiti.

Da un’analisi più ravvicinata emerge che la politica non può essere limitata al diritto, né il diritto riassume la pluralità irrappresentabile dell’azione sociale. Il diritto è conservatore, mette in ordine la vita, raramente la potenzia. Un suo uso contro-egemonico può avere valore esemplare, ma non cancella questa differenza, anzi la complica ancora di più. Se la prudenza nella politica è triste, come suggerisce la copertina del libro, non è prudente ignorarne le sconfitte. Anche queste sono utili per la prossima occasione.

Edward Loure, pastore della Tanzania, ha vinto il premio ambientalista Goldman. Ha difeso trenuamente ed efficacemente il dritto degli abitanti dei pascoli del Rift a difendere i loro paesaggi tutelandone l'ambiente in modo migliore dei parchi dei colonialisti. La Repubblica, 21 aprile 2016

È UN CAPO tribù masai della Tanzania e grande difensore delle terre del suo popolo, il vincitore dell’ultima edizione del Premio Goldman, sorta di Nobel americano dell’ambientalismo. Si chiama Edward Loure, ha una quarantina d’anni circa ed è un pastore prestato alla giurisprudenza, perché dopo aver conseguito una laurea in management ha trovato il modo di salvare i pascoli della sua gente operando una piccola modifica a una legge già esistente ma inefficace. Grazie all’introduzione di questo cavillo giuridico, che assieme alla ricca fauna che vive nelle praterie della Valle del Rift salvaguarda anche la più ancestrale cultura masai, Loure è stato premiato il 18 aprile scorso a San Francisco. Non solo: il suo lavoro di attivista è anche servito a far riconoscere per la prima volta l’importanza della pastorizia nella conservazione della natura in Tanzania.

Loure è nato nelle vaste pianure di Simanjiro, che spaziano su 3 milioni di ettari nel nord del Paese, dove da millenni vivono sia pastori sia cacciatori-raccoglitori in armonia con numerose specie di ungulati, dagli impala agli gnù e a ogni tipo di gazzelle. Da tempo, però, buona parte di quelle regioni sono state trasformate in parchi nazionali, e le popolazioni semi-nomadi che da generazioni vi allevavano bestiame sono state deportate altrove dal governo tanzaniano dopo espropri abusivi. «Noi dipendiamo dalle nostre terre, che hanno modellato la nostra cultura e il nostro modo di vita. Per noi rappresentano tutto. Se ci tolgono i nostri pascoli non avremo più vacche, e senza vacche moriremo tutti», spiega Loure.

È dal 1950 che si è cominciato a compromettere questo fragile equilibrio, sbocconcellando progressivamente le terre masai per farvi parchi per i turisti. Recentemente, la situazione s’è di molto aggravata, perché lo Stato ha iniziato a vendere quelle aree sia agli organizzatori di caccia grossa e altri safari, sia ai cosiddetti “ladri di terre”, e cioè a quegli speculatori che usano gli antichi pascoli tribali per crearvi allevamenti intensivi illegali. Tutto ciò ovviamente a scapito dei popoli autoctoni.

La stessa tribù del vincitore del premio Goldman fu deportata nel 1970, quando il governo creò il Ujamaa Community Resource Team (Ucrt), una delle prime ong locali tanzaniane in lotta per lo sviluppo sostenibile e per i diritti della terra. Lo strumento che per anni ha adoperato l’Ucrt è il Village Land Act, una legge fondiaria destinata a garantire ai villaggi locali la proprietà delle loro terre. Questo strumento giuridico ha tuttavia l’inconveniente di essere lento e costoso, e di facilitare se non di promuovere la corruzione e gli abusi politici. Col risultato che numerose zone protette dalla legge sono state vendute a grossi imprenditori agricoli, e che perciò sia i pascoli masai sia le zone di natura selvaggia si sono ridotte in maniera considerevole. Fino al giorno in cui Loure ha finalmente identificato un meccanismo giuridico chiamato il Certificates of Customary Rights Occupancy, che conferisce inalienabili diritti fondiari a un’intera comunità. Questi “certificati” differiscono dalla legge precedente in quanto riconoscono il possesso non più a singoli individui, bensì a tutto un popolo. E grazie a questo sistema, il Village Land Act può finalmente proteggere i pascoli masai dalle interessatissime mire degli tour-operator e degli speculatori agricoli.

Una notizia che non dovrebbe muovere solo le donne. Colpito non solo un pricipio costituzionale, ma anche un diritto conquistato con una lotta che è durata un secolo. Da Nathan a Tronca: un abisso. La Repubblica, 6 gennaio 2016, con postilla

Nella Roma pubblica in dissesto anche gli asili nido (0-2 anni) vengono alienati ai privati e le scuole materne (3-6 anni) riconsegnate allo Stato. Ci voleva un commissario, il prefetto Francesco Paolo Tronca, per avviare l’operazione più impopolare, impostata dalla giunta Marino peraltro: diciassette strutture per post-infanti in cinque municipi diversi sono pronte per il passaggio al privato. Tra queste, nomi storici dell’educazione infantile. È scritto nel Documento unico di programmazione comunale (2016-2018). Le liste d’attesa restano inevase, i costi generali necessari per allargare le sezioni degli asili nido — 6,5 milioni — non sono più sostenibili da un’amministrazione che viaggia con 12 miliardi di debito sulla schiena. Già. Il Campidoglio oggi gestisce 209 asili nido in città: ospitano 13mila bambini. Le strutture private e convenzionate (con il Comune) sono 221, maggioritarie quindi, ma con un numero di piccoli inferiore: settemila. Si parte con l’alienazione nell’arco del 2016 dei primi diciassette asili e si proseguirà negli anni successivi con nuove tranche. Il piano Tronca prevede, quindi, una “riconsegna totale” delle materne allo Stato.

A Roma la privatizzazione corre a fianco dell’aumento delle rette comunali, anche questo già previsto dalla giunta Marino: per l’anno scolastico 2016-2017 i canoni saliranno tra il 6 e il 12 per cento, con un aumento medio di 200 euro per famiglia. A ottobre 2014 le mamme di Roma inscenarono la plateale protesta dei passeggini sul piazzale del Campidoglio contro il “caro terzo figlio”, ma non servì a calmierare le rette. Il commissario Tronca non sta cedendo alle critiche dei partiti e dice: «Il progetto va avanti, il Comune risparmia e si creeranno posti di lavoro».

La statalizzazione delle materne comunali e la cessione della gestione dei nidi è storia delle ultime quattro stagioni italiane, riguarda le grandi città del Centro-Nord e gli indebitamenti progressivi dei Comuni gestori. Nella primavera del 2012 Piero Fassino scelse di passare al privato sociale dieci dei 54 asili di proprietà del Comune di Torino e rivendette la decisione come un’illuminata fusione dei servizi pubblico-privati: «Il sistema misto di gestione del welfare a Torino è un gioiello», disse. La verità è che nel 2012 l’amministrazione sforò il patto di stabilità e perse la possibilità di stabilizzare 340 educatrici. Le dirottò sul privato, tutelandole sul piano contrattuale e controllando l’applicazione delle tariffe. E così, nel 2012, quando a Torino si contavano 83 scuole dell’infanzia comunali e 50 statali, iniziò una seconda conversione: quest’anno ne saranno statalizzate altre cinque.

A Bologna gli asili gestiti dal Comune sono il 66 per cento. Palazzo d’Accursio spende ogni anno 38 milioni di euro, le rette coprono solo il 13% dei costi e a settembre 926 bambini (su 2.441) resteranno fuori. A Firenze, la scorsa primavera, altri due asili comunali sono passati alle coop. «Ci mancano 65 insegnanti sulla materna e 31 educatori», si giustificò il sindaco Dario Nardella. Ribellioni di sindacati e genitori per la privatizzazione italiana dei nido si sono registrate a Biella, Teramo, l’altroieri a Perugia. Questa richiesta impellente di posti ed educatori si scontra con la lacuna della Buona scuola che — per mancanza di fondi — ha chiuso le porte all’assunzione dei docenti d’infanzia. Francesca Puglisi, responsabile scuola del Pd e autrice della legge 0-6 anni per la continuità didattica, dice: «Valutiamo la possibilità di finanziare i Comuni e non più le Regioni, consentendo ai nidi pubblici di allargarsi». A giorni sarà pronto il bando del concorso per l’assunzione docenti, che comprende le scuole dell’infanzia. Se non ci sarà preselezione anche a questo livello — come ha chiesto il Pd — i vincitori del nuovo bando entreranno in cattedra nel 2017, mentre il prossimo settembre il ruolo potrebbe andare alle Gae più alte in graduatoria e ai duemila idonei del concorso 2012.

postilla

Segno dei tempi la privatizzazione degli asilie delle scuole per la prima infanzia. Segno della miseria intellettuale e umanache ottenebra le menti dei nostri governanti Ma segno anche dell’incredibile“ritorno al passato” che ne nasconde la maschera rinnovatrice, buona solo pergli stolti.


Incredibile, poi, che il segnale forte vengada Roma, la città che fu governata dal sindaco Ernesto Nathan negli anni tra il1907 e il 1912. Fu allora che a Roma s’istituirono i primi 150 asili comunali.Nathan era un sindaco che si poneva l’obiettivo di migliorare le condizioni divita delle masse che la veloce urbanizzazione aveva condotto nella città e altempo stesso di tagliare le unghie alla speculazione edilizia. Nell’Italia diRenzi e delle teste di paglia che lo sopportano si fa esattamente il contrario,senza mediazioni.

Se le istituzioni del regno renziano eliminano gli essenziali elementi del welfareconquistato nel corso di un secolo sarebbe bello se altre realtà sociali siimpadronissero delle conquiste del passato per difenderne la sopravvivenza. Nonè forse cosí che Syriza e Podemos acquistarono il consenso popolare che liportò alla vittoria elettorale?
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