Oh quanto piace agli arroganti sindaci dell'era trumpista indossare la stella da sceriffo e brandire, se non la colt, il virile manganello. Per fortuna che c'è chi non si fa convincere« Intervista di Alberto Vitucci a Donatella Ferranti. La Nuova Venezia, 5 febbraio 2017 (m.p.r.)
«Più poteri ai sindaci e processi per direttissima affidati ai giudici di pace. Assurdo e anche inutile. Nel disegno di legge in discussione al Senato l’inasprimento delle pene c’è già. E per i reati minori la strada da seguire non può essere solo quella dell’inasprimento delle pene, ma la socializzazione di chi compie questi reati». Donatella Ferranti, ex magistrato a presidente della Commissione giustizia della Camera, boccia senza appello la proposta di legge del centrodestra sollecitata dal sindaco Luigi Brugnaro.
Il FattoQuotidiano online, 1 febbraio 2017 (p.s.)
A firmarla il senatore Renato Guerino Turano, eletto nella circoscrizione estera dell’America Settentrionale e Centrale, con un emendamento che interviene su una vecchia legge del 2002 in materia di “disposizioni per l’attività dilettantistica”. E la dicitura che reintroduce la copertura è la stessa stralciata a novembre dalla legge di Bilancio
L’anno è nuovo, il premier pure, ma lo straordinario interesse del governo per il golf non è cambiato di una virgola. E così la garanzia statale da 97 milioni di euro per la Ryder Cup 2022 è ritornata ad essere una priorità per il Pd, che l’ha inserita in una norma che con il golf e con lo sport non ha nulla a che vedere. L’occasione giusta, infatti, non è stata il Milleproroghe, ovvero il provvedimento più naturale per reinserire la norma: troppo sotto le luci dei riflettori.
L’esecutivo oggi guidato da Paolo Gentiloni (ma con la costante presenza di Luca Lotti, divenuto nel frattempo ministro dello Sport) ha preferito il decreto Salva Banche, che dovrebbe parlare di tutto tranne che di manifestazioni sportive. E invece un emendamento Pd alla legge che approderà a Palazzo Madama la settimana prossima potrebbe diventare la volta buona per i quasi 100 milioni di garanzia pubblica sulla buona riuscita del torneo di golf.
Partendo dal Senato, il testo probabilmente arriverà blindato a Montecitorio, dove verrà votato con la fiducia. Schivando il controllo di Francesco Boccia (presidente della commissione bilancio alla Camera, che già due volte aveva fatto stralciare la norma a fine 2016) e di chi non vede di buon occhio la concessione di altri soldi al faraonico progetto della FederGolf di Franco Chimenti. Con i 60 milioni di contributi pubblici già nascosti e approvati nella Legge di Bilancio, lo Stato si esporrà per una cifra complessiva superiore ai 150 milioni di euro.
Il ruolo del credito sportivo
Risultato: la garanzia uscita dalla porta della manovra (e del decreto fiscale) rientra quindi dalla finestra del dl Salva banche. Un provvedimento pensato per tutelare i risparmi dei cittadini, che però accoglierà anche la norma tanto preziosa per la Federazione Golf. Grazie ad una proposta presentata dal Partito Democratico, che interviene su una vecchia legge del 2002 in materia di “disposizioni per l’attività dilettantistica” (ma del resto anche i 60 milioni cash erano inseriti nel capitolo “Giovani e sport”). A firmarlo il senatore Renato Guerino Turano, residente a Chicago ed eletto con il Pd nella circoscrizione estera dell’America Settentrionale e Centrale. Turano, 74 anni, origini calabresi, è un imprenditore di successo che ha realizzato il suo sogno americano creando la più grande azienda di produzione di pane artigianale del Nord America. E forse proprio negli Usa, dove il golf è molto seguito, sarà cresciuta la sua passione per questo sport. Ilfattoquotidiano.it lo ha cercato nel pomeriggio e a sera per chiedergli spiegazioni e approfondimenti.
Tutto inutile: Turano è irraggiungibile. Ciò che è certo è che stavolta la garanzia passerà attraverso l’Istituto del Credito Sportivo (commissariato dal 2011 per una vicenda di “finanza creativa”): l’emendamento (all’articolo 26-bis) prevede infatti che in futuro l’ente possa emettere garanzie non soltanto per la costruzione e la ristrutturazione degli impianti, ma anche “a favore di organizzatori di manifestazioni sportive nell’interesse del Coni e delle Federazioni sportive per lo svolgimento di competizioni internazionali di rilevante interesse pubblico”. E per l’occasione il fondo viene anche integrato con una “garanzia da parte dello Stato a favore di Ryder Cup Europe LLP, nel periodo 2017-2027, per un ammontare fino a 97 milioni di euro”. La stessa identica dicitura stralciata a novembre dalla legge di Bilancio.
E intanto l'open d'Italia passaallla famiglia Agnelli.
Due mesi dopo il cerchio si chiude. A Palazzo Chigi non c’è più Matteo Renzi, ma evidentemente la presenza nell’esecutivo Gentiloni di Luca Lotti come ministro dello Sport era l’assicurazione migliore che il progetto Ryder Cup non venisse lasciato a metà: la garanzia, infatti, è importante per il Comitato organizzatore almeno quanto i 60 milioni di contributi che serviranno per far schizzare alle stelle il montepremi dell’Open d’Italia nei prossimi dieci anni.
Una delle tante clausole della sfarzosa offerta che Chimenti ha presentato per aggiudicarsi la rassegna del 2022, i cui primi effetti cominciano già a vedersi: l’edizione 2017 del torneo nazionale, la prima col nuovo montepremi da 7 milioni di euro, inizialmente in programma ad ottobre all’Olgiata Golf Club di Roma si disputerà invece al Royal Park I Roveri di Torino (di proprietà della famiglia Agnelli); secondo quanto risulta a ilfattoquotidiano.it, è stato proprio lo spropositato valore della rassegna (e dei relativi oneri) a far tirare indietro il circolo romano.
La storica edizione del 2022 e il compito di Infront.
La Federgolf, però, non bada a spese e ha voluto fare le cose in grande: la storica edizione 2022 (la prima ospitata dal nostro Paese) costerà più di 100 milioni di euro. Oltre al montepremi dell’Open, bisognerà ad esempio ristrutturare il Marco Simone Golf Club, su cui ci sarebbe già qualche frizione con la famiglia Biagiotti proprietaria della struttura.
Il Comitato si è attivato per rastrellare la restante parte delle risorse non statali necessarie: è già stato pubblicato un bando pubblico per trovare un concessionario che metta sul piatto almeno 40 milioni (si dice che la Federazione punti tutto su Infront, il colosso dei diritti tv). Ma gli organizzatori della Ryder Cup non vogliono correre rischi: a parere della stessa FIG, del resto, “l’escussione della garanzia è da ritenersi a basso rischio”, ma non nullo. Per questo a scanso di equivoci qualcuno dovrà farsi garante delle spese: lo Stato italiano, appunto. Se per qualche ragione la Federazione non dovesse riuscire a trovare i soldi, toccherà al governo aprire il portafoglio.
il manifesto, 29 gennaio 2017 (c.m.c.)
I decreti esecutivi con i quali Donald Trump ha stabilito di procedere al completamento della barriera divisoria lungo il confine tra gli Stati Uniti e il lucoMessico, ha dimezzato da 110.000 a 50.000 il numero annuale dei visti di immigrazione a disposizione dei rifugiati, privilegiando nell’assegnazione gli esuli cristiani, nonché ha sospeso a tempo indeterminato l’ingresso dei profughi siriani e per tre mesi l’arrivo dei cittadini di nazioni islamiche a rischio di terrorismo non rappresentano solo l’attuazione di alcune promesse che aveva formulato durante la campagna elettorale.
Le decisioni del presidente riflettono anche e soprattutto una particolare concezione degli Stati Uniti, cara a Trump e al suo elettorato, secondo la quale la società nordamericana dovrebbe essere composta preferibilmente da individui bianchi di ascendenza europea e di religione cristiana. Da questo punto di vista, chi non presenti tali caratteristiche, perché ispanico o mussulmano, costituirebbe una minaccia per la sicurezza nazionale e, come tale, non dovrebbe avere accesso al territorio del paese.
Manifestazioni di xenofobia e insensibilità nei confronti dei profughi, spesso in coincidenza con fasi di recessione economica, non sono nuove nella storia degli Stati Uniti e risalgono addirittura al periodo immediatamente successivo alla guerra d’Indipendenza. Nel 1798, infatti, venne allungato da cinque a quattordici anni il periodo minimo di residenza per ottenere la cittadinanza americana e fu attribuito al presidente il potere insindacabile di deportare gli stranieri sospettati di essere coinvolti in attività sovversive, per il timore che i giacobini francesi rifugiatisi negli Stati Uniti dopo la caduta di Robespierre potessero influenzare la politica della terra d’adozione.
Quasi un secolo più tardi, nel 1882, l’immigrazione dalla Cina fu congelata, in quanto gli asiatici erano considerati una razza inferiore, e venne riaperta soltanto nel 1943, ancorché in misura poco più che simbolica, come gesto di riconoscenza per l’adesione del governo nazionalista di Pechino alla coalizione anti-fascista durante la seconda guerra mondiale.
I cittadini italiani (ritenuti mafiosi come oggi Trump considera i messicani stupratori e narcotrafficanti) e di altre nazioni dell’Europa meridionale e orientale si videro decurtati i visti di immigrazione nel corso della prima metà degli anni Venti del Novecento perché giudicati inassimilabili dal momento che non erano di ceppo anglo-sassone né di confessione protestante. Nel decennio successivo, gli ebrei in fuga dai provvedimenti antisemiti del nazifascismo in Germania, Austria e Italia non poterono usufruire di deroghe alla stretta sui visti attuata in precedenza da Washington.
La ragione ufficiale di tale ostracismo fu la paura che tra i profughi si annidasse qualche agente nazista, ma il motivo reale era il timore che gli immigrati ebrei facessero salire il tasso di disoccupazione in un paese ancora in preda alla depressione economica.
Soltanto nel 1980, durante l’amministrazione del presidente democratico Jimmy Carter, gli Stati Uniti introdussero nella loro legislazione la categoria giuridica del rifugiato, definendolo come la persona alla quale era precluso il rimpatrio a causa di persecuzioni, o rischio fondato di persecuzioni, per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare ceto sociale o opinioni politiche. Così, in quell’anno, Washington accolse circa 125.000 esuli cubani che scappavano dal governo di Fidel Castro. Nello stesso periodo, però, la guardia costiera statunitense respinse centinaia di profughi haitiani che cercavano di sottrarsi alla dittatura di Jean-Claude Duvalier perché la natura non comunista del regime di Port-au-prince indusse Washington a considerare questi individui come semplici emigranti per ragioni economiche.
In passato, però, gli Stati Uniti hanno cercato, almeno a parole e attraverso atti simbolici, di mantenersi all’altezza della propria reputazione di terra delle opportunità, disposta ad aprire le sue porte alle “masse dei poveri che anelano a respirare l’aria della libertà”, per citare i celeberrimi versi di Emma Lazarus scolpiti sul piedistallo della Statua della Libertà.
Lo stesso Barack Obama, malgrado l’iniziale titubanza e nonostante la maggiore liberalità di Stati come la Germania e il Canada, aveva acconsentito ad accogliere 10.000 profughi siriani nel 2016 e ad accrescere il loro numero nel 2017. Con i decreti di Trump è, invece, scomparsa perfino la retorica del “sogno americano” e il nazionalismo dell’“America First” ha trovato una sua concretizzazione anche nelle politiche immigratorie, lanciando un pericoloso segnale di legittimazione per analoghe iniziative proposte da movimenti e partiti populisti sull’altra sponda dell’Atlantico.
La Repubblica, 28 gennaio 2016
A PALAZZO Chigi c’è una grande anticamera a pianta quadrata: dà accesso alla Sala Verde, quella in cui il governo ospita riunioni medio-grandi come quelle coi sindacati che fanno parte della archeologia politica; e anche agli appartamenti del presidente del Consiglio. Il bianco panna che la connota, illuminato dal riflesso dei lucidi marmi del pavimento recentemente restaurato, gli dà l’aura algida e solenne che deve avere un luogo di Stato. Sui lati corre una lunga galleria fotografica: cornicine anch’esse chiare, con sobrio filetto ad anticarle e uniformarle. E dentro i primi piani dei presidenti del Consiglio dell’Italia unita. Una lunga sequenza che finisce sempre con il presidente del Consiglio in carica, collocato sempre nella stessa posizione, appena di lato alla porta del suo ingresso. La nomina di un nuovo premier, fa infatti scivolare indietro tutti gli altri: sicché ad ogni cambio di governo Cavour arretra sul muro e con lui tutti gli altri, in un moto retrogrado che ha qualcosa di simbolico.
È in questa anticamera qui che bisognerebbe fare il giorno della memoria. Perché fra le sobrie immagini, spicca la foto di Benito Mussolini. La sua foto apre una diluvio di domande: e alle domande più serie e difficili questa giornata non deve dare risposte, appaganti e sedative; ma deve dare ragioni per tenerle aperte, come gli occhi con cui lo spirito critico guarda il mondo.
Com’è possibile che quella foto sia lì? Qualcuno può immaginare cosa accadrebbe se ci fosse una foto di Hitler nell’anticamera di Merkel? E qualcuno si chiede cosa può pensare di questo Paese chi, in visita alla sede del governo, vede un’Italia che ingloba e riassorbe anche il proprio passato più nero, e si autoassolve accontentandosi di far identificare in un cortocircuito emozionale i discendenti dei carnefici col dolore dei discendenti delle vittime?
Eppure Mussolini è lì. Come tante vestigia del regime che ci diede l’infamia delle leggi razziali, che predispose il laccio in cui fu preso l’ebraismo italiano, che consegnò il paese alla guerra e vide 600mila internati militari italiani preferire il lager al ritorno nell’Italia repubblichina. In uno scambio storicamente datato nel quale la chiusura della guerra civile e l’impegno dei partiti di massa per un patriottismo costituzionale valeva la scelta di non rimuovere i simboli netti e allusivi che disegnarono l’Italia fascista. È lì che si colloca (da quando?) questa foto, che non può stare lì “così”.
Per toglierla ci vorrebbe niente. E allora si dovrebbe discutere come l’Italia rappresenterebbe in quel vuoto il crimine politico e morale di quel regime: che non è stato un “male assoluto” (come dicevano i missini pentiti), ma un male umanissimo, costruito dalla cecità e dalla pulsione politicamente suicidaria di una generazione che non capì che l’emergenza storica richiede unità e non cipiglio divisivo che allora dilaniò il Paese.
Oppure la si potrebbe lasciar lì: per non occultare una verità storica. Come dice Giuseppe Galasso, uno di quegli uomini che dà lustro ad una categoria spesso meritevole della irrilevanza in cui sguazza, quella foto dice chi ha fatto e chi ha ereditato quel male. Può stare lì se ricorda i gesuiti mandati dal capo del governo dopo la liberazione a chiedere di salvare la “parte buona” delle leggi razziali; le università che non restituirono le cattedre agli espulsi del 1938; il risarcimento morale negato ai 600mila Imi che preferirono rimanere schiavi nei lager piuttosto che tornare in Italia al soldo dei repubblichini; coloro che a 5mila lire denunciarono gli ebrei; i cappotti di chi a Fiume andò ad arrestare la famiglia di Andra e Tatiana Bucci; e quel male che non ammette sottrazioni e accomodamenti.
Per darle questo significato non possiamo contare sul “patriottismo costituzionale” da noi esile e raro (da noi si arriva al massimo alla faziosità costituzionale che ispirava l’accozzaglia del No): ci vorrebbe una scelta, un gesto. Quello di un passante che rompa almeno il vetro e supplichi il governo di non ripararlo mai. Quello di un artista che la macchi di sangue. Oppure bisogna che stia lì, senza null’altro che la coscienza di tutti nel saperla lì: così che il rischio di doverci vergognare se un ospite dovesse notarla incomba sulle nostre istituzioni, sulla nostra storia e sul nostro Paese: e consegni al sapere il compito di fare di una generica memoria la sostanza di una vita civile, ancora oggi fragile.
il manifesto, 27 gennaio 2017
Anche quest’anno si rinnova quello che non deve diventare un rito ma deve rimanere l’occasione per tornare a sottolineare la necessità di non dimenticare. Contro i dubbi sollevati da più parti sull’opportunità di mantenere il Giorno della Memoria.
Va infatti ripetuto con forza che questa scadenza, il Giorno della Memoria, oggi è più necessaria che mai. Se da una parte la crescente distanza che ci separa dai fatti in cui si concretizzò lo sterminio degli ebrei contribuisce ad affievolirne la memoria, dall’altra la realtà nella quale viviamo sollecita la riflessione su una serie di circostanze che ricordano da vicino aspetti della cultura della quale si nutrì l’indifferenza dei tanti e che consentì la realizzazione quasi indolore dello sterminio.
Nella crisi attuale dell’Europa il dilagare del populismo maschera a fatica il volto del razzismo che non è né vecchio né nuovo, è il razzismo di sempre, contro ogni minoranza e contro ogni eguaglianza tra i popoli.
È chiaro che il passare delle generazioni produce cambiamenti nella memoria e nei modi di esprimerla e di rappresentarla, tanto più oggi che la testimonianza dei sopravvissuti incomincia a farsi sempre più rara per ovvie ragioni fisiologiche. Troppo spesso la tragedia delle migrazioni viene dissociata nell’attenzione e nella memoria dei più dalle derive degli anni ’30 e ’40 del secolo scorso. Dappertutto in Europa l’irresponsabile diffusione della minaccia di una invasione da parte di chi fugge da guerra e miseria genera confusione e oblio.
Situazioni paradossali e insieme esemplari come quella dell’Ungheria di Viktor Orbán, che dimentica la catastrofe degli ebrei ungheresi e rifiuta l’accoglienza ai migranti con cinismo e crudeltà. Un comportamento che apparentemente dovrebbe isolare l’Ungheria dal resto d’Europa ma che in realtà rischia ormai di diffondersi al di là delle sue frontiere, in assenza tra l’altro di fratture interne che costringano Viktor Orbán a modificare o almeno a mitigare il rigore dei suoi rifiuti.
Questo significa anche una frattura nella memoria collettiva dell’Europa che indebolisce la possibilità di una presa di coscienza non parcellizzata, solidale senza riserve.
Il Giorno della Memoria dovrebbe servire a tenere viva la sensibilità di popoli e società verso problemi che ne hanno plasmato negativamente la storia ma che sono anche terribilmente attuali.
Oggi la minaccia più insidiosa non è rappresentata dal negazionismo né dal neofascismo o dal neonazismo, ma piuttosto dall’acquiescenza diffusa a comportamenti di insofferenza se non di ostilità nei confronti dell’altro.
Nessuno ha il coraggio di dirsi anti-semita o anti-musulmano, ma nei fatti il prevalere di una sorta di agnosticismo etico ci riporta al punto in cui tutto è incominciato, alla deresponsabilizzazione e all’indifferenza.
È un problema politico e culturale di enorme portata che si inserisce nella crisi dell’Europa non meno che in quella della nostra democrazia.
».il manifesto, 25 gennaio 2017 (c.m.c.)
A briglia sciolta. Con la benedizione di Donald Trump, la colonizzazione israeliana dei territori palestinesi occupati ormai è una galoppata. Due giorni fa il comune di Gerusalemme aveva autorizzato la costruzione di 566 abitazioni nelle colonie ebraiche della zona orientale della città, occupata nel 1967.
Ieri, non a caso ad un mese dall’approvazione della risoluzione 2334 contro le colonie da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il governo Netanyahu ha dato luce verde a progetti che faranno sorgere altre 2.500 case in vari insediamenti della Cisgiordania. «Ho concordato con il ministro della difesa Avigdor Lieberman la costruzione di 2.500 nuovi alloggi in Cisgiordania» ha annunciato lo stesso premier israeliano, che poi ha aggiunto perentorio: «Continuiamo e continueremo a costruire». Soddisfatto Lieberman. «Si sta tornando alla normalità in Giudea e Samaria (la Cisgiordania, ndr)», ha commentato riferendosi al limitato freno alla colonizzazione che aveva posto la passata Amministrazione Obama.
Secondo il ministro della difesa le nuove case sorgeranno nei principali blocchi di insediamenti ebraici già esistenti. Ma è vero solo in parte se si guarda sulla cartina le posizioni delle colonie dove saranno costruiti gli alloggi. Poco più 900 appartamenti, quasi pronti, saranno messi in vendita al più presto negli insediamenti di Alfei Menashe, Beitar Illit, Maale Adumim, Ariel, Efrat ed Elkana e soprattutto a Givat Zeev (552), tra Ramallah e Gerusalemme Est. Il Comitato per la Pianificazione Nazionale quindi avvierà la fase di progettazione e realizzazione di altri 1.642 alloggi a Ets Efraim, Givat Ze’ev, Kokhav Yaakov, Har Gillo, Zufim, Oranit, Shaarei Tikva, Beit El e ad Ariel, la seconda colonia per grandezza dove sorgeranno 899 nuove case.
È paradossale eppure ai coloni non basta. Si aspettano molto di più. Yesha, che riunisce le amministrazioni delle colonie in Cisgiordania, ha espresso profonda «delusione» perché le autorizzazioni decise da Netanyahu «non coprono la domanda». I coloni fanno un ragionamento semplice. «Il governo americano è cambiato e anche le politiche di Israele devono cambiare», scrivono nel loro comunicato. «Il governo israeliano – esortano – deve approvare tutti i progetti sul tavolo e autorizzare nuove costruzioni ovunque, in Giudea, Samaria e Valle del Giordano».
La reazione dell’Anp è stata immediata. «Israele si fa beffe della comunità internazionale e fomenta l’estremismo», ha protestato Nabil Abu Rudeinah, il portavoce di Abu Mazen. «Le dichiarazioni di protesta non servono a molto – spiega l’analista Ghassan Khatib – l’Anp piuttosto dovrebbe lanciare iniziative diplomatiche vere sulla base della risoluzione 2334 approvata il mese scorso dal Consiglio di Sicurezza, rivolgersi alla Corte Penale Internazionale e chiedere la sospensione di Israele all’Onu se Netanyahu non cesserà gli attacchi alla legalità internazionale».
. Il Fatto Quotidiano, 22 gennaio 2017 (p.s.)
Approvati i permessi per la costruzione di 566 nuove a Gerusalemme est, oltre la Linea Verde in vigore del 1967, la parte abitata principalmente dalla popolazione araba-palestinese. Lo ha detto alla Radio Militare Meir Turgeman, capo del Comitato di programmazione edilizia della città, spiegando che i permessi erano stati bloccati fino alla fine dell’amministrazione Obama contraria all’attività di insediamento.
Ma ora, con l’elezione di Donald Trump, definito da Benyamin Netanyahu “un vero amico di Israele“, le costruzioni degli insediamenti nei territori arabi potrebbero avere un accelerata che procederà di pari passo all’esproprio e alla demolizione delle case dei palestinesi ritenute “abusive“.
Ieri, ad Arara, nel nord di Israele, migliaia di arabi israeliani hanno manifestato contro le recenti demolizioni in località arabe di case definite “abusive” dalle autorità. E Hanno anche invocato le dimissioni del ministro per la sicurezza interna Ghilad Erdan (Likud) in seguito alla morte di un beduino in scontri avvenuti mercoledì con la polizia nel Neghev. Secondo le autorità durante i preparativi per le demolizioni di case nel villaggio beduino di Um el-Hiran (Neghev) l’uomo – Yaakub Abu Al-Kyan, 45 anni, vice preside di una scuola locale – ha travolto ed ucciso intenzionalmente un agente di polizia, prima di essere colpito a sua volta dal fuoco di altri agenti.
I dimostranti hanno invece accusato il ministro Erdan di aver fornito una versione menzognera dei fatti ed hanno invocato che sull’ incidente sia condotta una inchiesta indipendente. Nel frattempo la famiglia di al-Kyan esige di poter procedere alla sua sepoltura ma le autorità sono disposte ad autorizzare solo funerali di carattere privato, per prevenire altri disordini.
Presto però, potrebbe cominciare ufficialmente una nuova fase delle relazioni Usa-Israele, dopo il gelo con l’amministrazione Obama. Secondo alcune indiscrezioni giornalistiche che citano fonti non specificate di Gerusalemme, i due presidenti si potrebbero incontrare nella prima settimana di febbraio a Washington.
Ben prima quindi del congresso dell’Aipac, la principale lobby filo israeliana negli Usa, prevista per fine marzo e dove è tradizionale che partecipi il premier israeliano. In questo primo, cruciale, incontro, sono molti i temi: dalla situazione della regione alla costruzione delle colonie ebraiche, dall’accordo sul nucleare dell’Iran alla ripresa delle sanzioni contro Teheran, al trasferimento del’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme.
la Repubblica, 21 gennaio 2017
Partiamo dal secondo. Tutto ciò che si identifica con protagonisti, sigle e parole chiave della politica degli ultimi vent’anni viene rigettato in blocco, d’istinto. C’è una insofferenza di pelle alla politica del passato. I sostenitori del M5S non fanno molta differenza tra i protagonisti di quella stagione - anche se non dimentichiamo che tra i dieci candidati alla presidenza della Repubblica gli iscritti grillini avevano inserito Romano Prodi - perché rappresentano tutti un “regime”. Non usano questa parola ma è insita nel modo con cui vivono una stagione di regole e prassi del passato che, a loro avviso, devono essere archiviate perché rappresentano una gabbia di ferro - un regime appunto. Le litanie che i leader pentastellati snocciolano quando vanno in televisione sono irritanti per la loro banalità e ripetitività ma se le decodifica appare evidente che dietro c’è un chiaro messaggio di alterità a tutto.
Il Movimento 5 Stelle si trova quindi a cavalcare da solo l’immenso territorio dell’insoddisfazione. Coglie il vento di quella sfiducia e persino rabbia, che da tempo cova nell’opinione pubblica da almeno un decennio. La contrapposizione tra centro-destra e centro-sinistra ingabbiava quei sentimenti perché convogliava, contenendole, le pulsioni “rabbiose” verso l’uno o l’altro schieramento. Lo sfarinamento di quella contrapposizione ha lasciato libero un elettorato pieno di frustrazioni che ha trovato in Beppe Grillo la sua icona. Nel settembre del 2007 il “vaffa day” raccolse centinaia di migliaia di persone in piazza, e altrettante firme per una serie di petizioni. La miccia era già accesa allora. Nessuno se n’è curato.
Comunque la vera sfida al M5S viene dal futuro. Che è il suo secondo pilastro. La voglia di novità, speculare al rigetto del passato, è una pulsione fortissima nell’elettorato pentastellato che, non a caso, è molto giovane. Il M5S viene visto come una forza proiettata nel futuro, anche per l’enfasi data alla rete. Ma fin qui è un futuro senza grandi contenuti. Al di là del reddito di cittadinanza, il M5S non veicola proposte mobilitanti. Buon segno, comunque, l’elaborazione di un poderoso documento sul futuro del lavoro affidato a un intellettuale indipendente come Domenico De Masi. La voglia di guardare avanti è insita nel Movimento e ne sostiene le fortuna; ma è una strada molto più impervia della protesta.
il manifesto, 19 gennaio 2017 (c.m.c.)
Un’addizione di problemi: il terremoto che si aggiunge alla neve, la terra che trema e le strade impraticabili. E l’abbandono, che nelle zone terremotate è qualcosa più di un sospetto. La maggior parte delle richieste che dai Comuni partono all’indirizzo del governo e del commissario alla ricostruzione Vasco Errani rimangono lettera morta, oppure le risposte sono vaghe, impercettibili. Quando i riflettori si accendono, il coro dei sindaci è pressoché unanime, variano solo i toni: c’è chi chiede aiuto e chi mostra rabbia. Sono decine i paesi che stanno pagando il conto salato del post sisma: per lo più si tratta di centri abitati da poche migliaia di persone, posti da cui far sentire la propria voce è complicato.
Il sindaco di Camerino Gianluca Pasqui non le manda a dire: «Ho chiesto e sollecitato l’intervento dell’esercito, ma non ho ottenuto risposta. Ho chiesto al comando provinciale dei vigili del fuoco di informarmi sulle loro operazioni, ma ho dovuto chiamare i carabinieri perché la mia lettera venisse presa in consegna».
L’altro grande nemico è la burocrazia pachidermica, continua Pasqui: «Una firma, un nullaosta del Dicomac (la Direzione comando e controllo della Protezione civile, ndr) che manca sta tenendo sotto scacco un’intera popolazione che si trova a fare i conti con delle difficoltà enormi».
Anche il sindaco di Ascoli Guido Castelli invoca l’esercito: «Non abbiamo segnalazioni di danni, ma già nella notte tra martedì e mercoledì avevamo assistito a una serie di crolli per la neve. Il mio è un grido di allarme, l’emergenza è mostruosa». In città una strada è letteralmente franata a causa del maltempo: perché la terra che trema, nella giornata di ieri, è stata soltanto il contorno drammatico, e a fare i danni è stata quasi solo la neve.
Marco Rinaldi, sindaco di Ussita in provincia di Macerata, denuncia la situazione sulle strade: «Io viaggio perché ho il suv, ma non tutti ce l’hanno. Le ambulanze e i mezzi d’emergenza devono poter passare. L’Anas affronti questa emergenza immediatamente, ma è già troppo tardi». Il timore è che la bufera chiuda il valico sull’Appennino, a quel punto Ussita sarebbe di fatto isolata dal resto del mondo.
Da Acquasanta Terme (Ascoli), il sindaco Sante Stangoni è sull’orlo della disperazione: le tante frazioni del suo Comune sono state irraggiungibili per la gran parte della giornata di ieri e il mancato funzionamento delle linee telefoniche hanno reso impossibili anche i contatti. «Parliamo di una cinquantina di paesini e di quasi duecento chilometri di strade interne – racconta -. Stiamo rischiando tantissimo».
A Folignano, paese a est di Ascoli, è venuto giù il tetto della palestra comunale, non per il terremoto, ma per la neve. La struttura era stata inaugurata nel 2004. «Chiaramente non doveva crollare – dice il vicesindaco Matteo Terrani -, terminata questa emergenza spingeremo perché si faccia chiarezza sulle eventuali responsabilità».
Il Fatto quotidiano, 15 gennaio 2017 (p.s.)
I dirigenti dell’Eni hanno preso tangenti? E quel miliardo di dollari che l’azienda petrolifera controllata dallo Stato ha pagato per i diritti di sfruttamento del colossale giacimento petrolifero Opl245 è finito tutto in mazzette al presidente nigeriano e altri politici e burocrati locali? Per i pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, che a fine dicembre hanno chiuso le indagini sulla vicenda, la risposta è “Sì” a entrambe le domande, tanto che sono indagati per corruzione internazionale l’ex amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni e il suo successore Caludio Descalzi, all’epoca a capo della divisione petrolifera del gruppo. Vista la rilevanza dell’affare e la gravità delle accuse, note dal 2014, anche l’Eni ha avviato una sua indagine interna per capire se c’è stata corruzione.
Il collegio sindacale, l’organismo di controllo, si è rivolto allo studio legale americano Pepper Hamilton, che a sua volta ha coinvolto gli investigatori della Fg International Solutions. Il risultato è un report presentato sia all’Eni che alla Sec, l’autorità di Borsa americana, e trasmesso anche al dipartimento di Giustizia americano.
Ai soci e alle Ong che ne chiedevano conto, nell’assemblea degli azionisti 2016, i vertici dell’Eni si sono limitati a comunicare che “non sono emerse evidenze di condotte illecite in relazione alla transazione di Eni e Shell con il governo nigeriano del 2011 per l’acquisizione della licenza”. Ma Fatto ha potuto leggere il rapporto integrale di Pepper Hamilton e di zone d’ombra nel comportamento dell’Eni ne emergono parecchie.
Il 28 maggio 2014 l’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia trasmette alla Procura di Milano una serie di informazioni ricevute dalle autorità inglesi e americane: ne emerge il grafico che vedete qui accanto. Il 29 aprile 2011 l’Eni bonifica 1,092 miliardi di dollari a un conto vincolato del governo nigeriano presso la banca Jp Morgan Chase a Londra (non il conto abituale dello Stato, ma uno parallelo). Quei soldi poi vengono girati a una società aperta nel 2010 alle isole Marshall, Petrol Service, ma la banca che doveva riceverli – la Bsi di Lugano – li rimanda indietro.
La somma allora inizia a disperdersi per mille rivoli: non un solo euro andrà al popolo nigeriano. Secondo quanto hanno ricostruito le autorità finanziarie di Usa, Gran Bretagna e Italia ben 523 milioni finiscono in società riconducibili a Abubakar Alyu, un presunto prestanome del presidente nigeriano Goodluck Jonathan che era la controparte istituzionale dell’Eni nell’affare. Alyu è indicato negli schemi con il soprannome di “mister Corruzione”.
Un’altra considerevole fetta della somma, 336 milioni di euro, finisce negli Stati Uniti su un conto della Rocky Top Resources, una società dietro la quale ci potrebbe essere Dan Etete, ex ministro del petrolio nigeriano che era anche dietro la Malabu, società titolare della concessione petrolifera per l’Opl245. Quei soldi servono a comprare, tra le altre cose, un jet Bombardier Vision 6000 da 56 milioni intestato a una fiduciaria dell’isola di Man (e diversi forum nigeriani danno conto di polemiche su un nuovo Bombardier del presidente Jonathan nel 2012), poi tre Cadillac Escalade 2011 da 195.000 dollari l’una.
Auto che non arriveranno mai in Nigeria, però: il dipartimento di Stato Usa impedisce l’esportazione di veicoli blindati. Su altri 200 milioni di euro si apre una lite legale a Londra, li reclama Emeka Obi, un mediatore nigeriano coinvolto in una lunga fase di trattative e poi escluso quando l’Eni decide di trattare direttamente con il governo di Jonathan (ci sono quindi 10 milioni anche per l’ex ministro della Giustizia Bayo Ojo San che aveva riassegnato la concessione alla Malabu dopo una serie di contenziosi). Parte dei soldi di Obi, quelli rimasti a Londra, vengono sequestrati proprio su richiesta dei pm di Milano.
Quanto sapeva l’Eni? La versione ufficiale dell’azienda in questi anni è che ha trattato solo e soltanto con il governo nigeriano senza avvalersi di intermediari. Incalzata dall’Ong Global Witness, Eni ha ribadito: “Riteniamo che il governo di una nazione sovrana non debba essere messo in discussione e che l’aver siglato un accordo direttamente con esso garantisca la completa trasparenza della transazione”. Una versione che, a leggere il rapporto di Pepper Hamilton, è almeno incompleta. Fin dal 2007, ricostruiscono gli avvocati americani assoldati dal collegio sindacale dell’azienda, Eni sapeva che dietro la Malabu c’era Dan Etete che, da ministro del petrolio tra il 1995 e il 1998, aveva assegnato il giacimento Opl 245 alla Malabu, la cui proprietà era schermata. Il 23 febbraio del 2007 alcuni dirigenti Eni (Claudio
, Fabrizio Bolondi e Lionello Colombi) incontrano all’hotel Four Seasons di Londra emissari della Malabu, e c’è anche Etete. Nel memo di quell’incontro, infatti, Etete viene indicato come “il titolare della Mamabu”, con un refuso.
Nel 2009 Eni inizia a trattare con un intermediario, Emeka Obi, sedicente banchiere d’affari titolare della Energy Value Partners e che parla a nome della Malabu (e di Etete). Obi esordisce facendosi pagare un “gettone di partecipazione” (Participation Fee) da 661.857 dollari soltanto per consentire all’Eni di accedere a una “data room virtuale” relativa all’Opl 245. Una specie di banca dati. Si tratta di una mazzetta di benvenuto? I sospetti di Pepper Hamilton e del collegio sindacale di Eni sono così concreti da richiedere un supplemento di indagine agli investigatori di Fg International Solutions: il responso è che la certezza non si può avere, ma i dipendenti Eni interpellati dicono che era la prima volta che assistevano a un pagamento simile per accedere ai dati, peraltro poco rilevanti. Fg non riesce a stabilire se poi dai conti di Obi quei soldi siano finiti a membri del governo nigeriano.
Il report di Pepper Hamilton chiarisce invece che nel 2011, al momento dell’accordo finale sul giacimento, “durante i negoziati e l’esecuzione dell’accordo il personale dell’Eni era consapevole del vincolo contrattuale in base a cui il 100 per cento di 1,092 miliardi da pagare al governo nigeriano doveva poi essere pagato a Malabu”. Addirittura c’erano rappresentanti di Malabu alle riunioni con Eni e il governo. E il ministro della Giustizia Adoke ha riferito in Parlamento che Eni e Shell erano consapevoli di dove finiva la somma.
Tutti i soldi sarebbero andati quindi a quella società che dal 2007 l’Eni sapeva essere riconducibile a Etete. Non solo: dal 2010 il Risk Advisory Group, cioè l’intelligence interna all’Eni, aveva ricostruito i legami fortissimi tra Etete e il presidente Jonathan, “ci sono voci secondo cui Etete avrebbe pagato per l’istruzione dei figli del presidente”.
Perché si mobilita mezzo governo nigeriano – eliminando anche il mediatore Obi che, secondo i pm, avrebbe dovuto far arrivare i soldi anche a manager e mediatori italiani come Luigi Bisignani– a fare da intermediario per un ex ministro del petrolio? La risposta sembra essere in quel flusso di denaro finito in jet, Caddilac, contanti e bonifici che secondo i magistrati di Milano legittima l’accusa di corruzione internazionale.
Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2017
Il rimpatrio dei sequestrati è sempre un momento magico. Anche se nessuno di noi può immaginare l’agonia da loro sofferta, vederli scendere dalla scaletta dell’aereo e riabbracciare i propri cari ci fa partecipare alla loro gioia. E’ come guardare un film a lieto fine: sorridiamo e siamo contenti perché il bene ha trionfato sul male. Ma questo momento di gioia nazionale ha un prezzo molto alto.
L’Italia è il Paese che paga i riscatti più ricchi ed allo stesso tempo quello che ha sofferto il numero maggiore di sequestri. Una verità che le imprese di sicurezza e quelle di assicurazioni conoscono bene, ma di cui anche gli italiani sono a conoscenza. Naturalmente, come tutti i governi europei, il nostro nega qualsiasi coinvolgimento finanziario con i sequestratori. Ma le prove che ciò avviene le abbiamo viste tutti, ad esempio nel documentario sul business dei riscatti di al Jazeera (dal titolo ‘The hostage business’) dove la telecamera ha ripreso una piramide di contante destinata ai sequestratori di Domenico Quirico e del suo compagno di prigionia, il belga Piccinin da Prata. Tuttavia, la maggior parte dei riscatti non pagati per liberare giornalisti conosciuti ma operai e tecnici che lavorano in zone ad alto rischio. E le cifre sono da capogiro. Secondo l’Europol il business dei riscatti nel 2015 ha superato i due miliardi di dollari e una delle zone più battute dai sequestratori è stata ed è tutt’ora la Libia dove l’Italia ha grossi interessi economici.
Gli ultimi ostaggi italiani sequestrati in Libia erano due operai piemontesi e un italo-canadese che lavoravano alle riparazioni dell’aeroporto di Ghat per conto di una società di Mondovì, in provincia di Cuneo, la Con.I.Cos. Sono stati liberati nel novembre del 2016. Ghat si trova nel Sud-Ovest della Libia, proprio sul confine con l’Algeria, un crocevia importantissimo del Sahel. Qui si intersecano le piste del contrabbando che partono dal Sud dell’Algeria e dal Niger, tratturi di sabbia lungo i quali viaggiano i migranti dell’Africa occidentale e orientale, tutti diretti in Europa.
Ghat è territorio tuareg, l’etnia berbera che neppure Gheddafi è mai riuscito a piegare. Da più di un decennio i tuareg cooperano con al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), il gruppo jihadista che nel 2003 si autofinanziò con i primi rapimenti di stranieri nel Sahel e che per primo ha investito parte dei proventi dei riscatti nel contrabbando dei clandestini africani. E già da sequestratori i jihadisti di Aqimi sono diventati contrabbandieri di clandestini e come loro altri lo hanno fatto perché questo è un business ancora più remunerativo dei sequestri. Secondo l’Europol, tale traffico nel 2015 ha fruttato tra i tre e i sei miliardi di dollari e l’80 per cento dei clandestini era diretto in Europa e transitava per il nord Africa o il Medio Oriente.
Il sud della Libia è un crocevia importantissimo. Dopo la caduta di Gheddafi, i tuareg hanno collaborato con altri gruppi armati libici, alcuni vicini ai Fratelli Musulmani, che hanno partecipato alle trattative per il rilascio degli ostaggi italiani. I jihadisti siano di casa a Ghat, diventata una sorta di Tortuga del deserto, rifugio sicuro per i mercanti di uomini – bande criminali e jihadiste – che si arricchiscono trafficando in vite umane.
A Ghat i sequestratori si scambiano merce preziosa: gli ostaggi. Da Ghat si negoziano i riscatti. A Ghat i contrabbandieri di migranti imprigionano coloro che a parere loro val la pena sequestrare lungo il cammino verso l’Italia, e aspettano che le famiglie paghino i riscatti per portarli sulle coste libiche e da lì in Italia. A Ghat è difficile distinguere i contrabbandieri dai trafficanti, i sequestratori dai membri dei gruppi armati. Sono vestiti uguali, portano le stesse armi, guidano gli stessi Suv e si finanziano nello stesso modo. Le fonti principali di reddito sono i riscatti e i guadagni generati dal contrabbando di prodotti e di migranti. Un’industria altamente integrata, questa, dove il denaro, indipendentemente da come viene guadagnato, circola di continuo.
Tutto questo avviene in un paese poco distante da casa nostra, un’ex colonia, una nazione semi-fallita con la quale non abbiamo mai smesso di fare affari.
Sbilanciamoci info, 13 gennaio 2017 (c.m.c.)
L’anno da poco finito lascia, per unanime considerazione, diverse pesanti eredità a quello nuovo. Tra di esse, vogliamo ricordare i problemi economici, sociali, politici, del nostro continente, che, tra l’altro, sembrano per alcuni aspetti aggravarsi con il tempo. Va in particolare sottolineato che chi, nel corso degli ultimi anni, ha almeno un po’ sperato che la Germania, i suoi politici, la sua opinione pubblica, alla fine arrivassero non solo a capire sino in fondo il quadro della situazione, ma anche a cercare di contribuire ad alleviare i rilevanti punti di crisi che la loro rigida politica di austerità ha portato all’Europa, ormai dovrebbe essersi ampiamente ricreduto; questo, a meno di rifiutarsi ancora, cosa che di frequente capita e a molte persone, di guardare in faccia la realtà e di arrendersi all’evidenza dei fatti, che, come è noto, sono testardi.
In effetti, l’analisi degli avvenimenti degli ultimi mesi sembra suggerire chiaramente che la costruzione europea si sta a poco a poco ormai letteralmente disfacendo. Non si tratta soltanto del fatto che l’economia di molti paesi non riesce più a riprendere veramente slancio, ma anche dello sviluppo di forti sintomi di rigetto della costruzione europea da parte di strati crescenti della popolazione del continente, dell’affermarsi sempre più importante di sentimenti nazionalisti e xenofobi, della mancanza di qualsiasi seria reazione al riguardo nell’UE e nell’eurozona. Tutte cose, peraltro, ampiamente note.
Certo, non sono soltanto i tedeschi ad avere delle colpe evidenti in quello che sta succedendo; così accuse molto rilevanti si possono giustificatamente addossare alla Francia e, per altro verso, i guai dell’Italia sono per una parte consistente colpa nostra.
Per quanto riguarda il paese transalpino, poi, si può aggiungere en passant che il candidato che più probabilmente dovrebbe conquistare la presidenza della repubblica alle prossime elezioni, Francois Fillon, promette, tanto per cambiare, di applicare un programma di austerità interna piuttosto duro. Egli minaccia, tra l’altro, di mandare a casa 500.000 funzionari pubblici e di intervenire pesantemente sulla sanità, oltre, ovviamente, a prendersela in ogni modo con gli immigrati.
Ma comunque i tedeschi, dall’alto della loro forza economica e politica e per il fatto che sono loro a guidare sostanzialmente e per una parte molto rilevante il gioco a Bruxelles, rappresentano la forza con le responsabilità maggiori della presente situazione del continente e in ogni caso gli ideologi dell’austerità a tutti i costi.
I tedeschi all’offensiva
Che la Merkel, Schauble e compagnia non abbiano alcuna voglia di cambiare idea, almeno sul terreno economico e finanziario, è dimostrato negli ultimi tempi da una serie di fatti sempre più numerosi che si vanno allineando implacabilmente uno dopo l’altro.
Va considerato che l’avvicinarsi delle elezioni, visto anche l’irrigidimento almeno di una parte consistente dell’opinione pubblica, non permetterebbe loro probabilmente, in ogni caso, di mostrare una qualche nuova visione delle cose, ammesso che ne avessero voglia, ciò di cui si può comunque ampiamente dubitare, di fronte ad esempio alle ormai quasi quotidiane dichiarazioni oltranziste di Schauble e di chi lo circonda.
Cerchiamo a questo punto di allineare alcune delle vicende che documentano lo stato delle cose nel paese teutonico.
Valutando che la sola politica realista per l’Europa sia oggi quella dell’applicazione stretta del trattato di Maastricht, il governo tedesco e i dirigenti della Bundesbank non cessano di scagliare i loro strali contro chiunque tenti anche alla lontana di deviare dall’obiettivo indicato.
Così è toccato soprattutto al presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, di prendersela a più riprese con Mario Draghi, accusato, con la sua politica di quantitative easing e di bassi tassi di interesse, di aver permesso ai cattivi allievi del Sud Europa di non portare avanti le riforme necessarie (Leparmentier, 2016).
Sotto la mannaia tedesca sono anche finiti e a più riprese anche il presidente della Commissione, Claude Junker e il commissario Pierre Moscovici, rei, secondo loro, di portare avanti una gestione “politica” e non tecnica dell’euro, rifiutato le giuste sanzioni contro Madrid e Lisbona per le loro derive budgetarie, mostrandosi anche troppo tolleranti con l’Italia e di aver persino chiesto –cosa inaudita- un piano di rilancio budgetario europeo (Leparmentier, 2016).
Non sono mancati poi gli attacchi diretti ai paesi del Sud.
Così, poche settimane fa, la Germania è quasi riuscita a bloccare gli ulteriori flussi di denaro promessi alla Grecia solo perché il governo ellenico aveva distribuito modeste somme ai pensionati più poveri. In questo caso è stata, tra l’altro e per fortuna, l’opposizione decisa della Francia, nella persona in particolare di Pierre Moscovici, che ha forse fermato la mano del boia.
Infine, per quanto riguarda il nostro paese, la cartina di tornasole dell’atteggiamento tedesco è stata la decisione ormai obbligata del nostro governo di intervenire direttamente per salvare il sistema bancario, in particolare con l’operazione sul Monte dei Paschi. In Germania, approfittando anche naturalmente del modo maldestro con cui è stata messa a punto l’operazione, c’è stata quasi una unanime sollevazione contro tale decisione, da parte di CDU e socialdemocratici, della solita Bundesbank, dal consiglio dei cinque saggi, degli istituti di ricerca, di molti giornali.
Da qualche tempo aleggia poi su Bruxelles una proposta di Schauble che vorrebbe legare le risorse che oggi l’Europa spende per la politica di coesione e per quella agricola a finanziare le cosiddette “riforme strutturali” dei paesi membri. Bisognerebbe in ogni caso, per il ministro, collegare le risorse di bilancio dell’Unione alle raccomandazioni di politica economica proposte ogni anno da Bruxelles. E’ facile dedurre che la principale destinataria della proposta è proprio l’Italia (Chiellino, 2016).
Sullo sfondo stanno le riflessioni crescenti di una parte almeno dei circoli dirigenti del paese sempre più orientati a vedere l’Italia come un peso per l’Europa e a preferirla fuori dall’euro (Business insider, 2016).
Conclusioni
La Germania, con il passare del tempo, continua a non mostrare grandi segni di consapevolezza della potenzialità della crisi che l’Europa attraversa ed anzi sembra irrigidirsi nelle sue idee. Del resto le attuali politiche europee e il livello di cambio dell’euro vanno molto bene al paese teutonico, anche se certamente non a molti altri. Né le prossime elezioni francesi possono apparentemente portare a delle novità positive.
Una flebile speranza di cambiamento viene ora comunque da Sigmar Gabriel, il candidato socialdemocratico alle prossime elezioni parlamentari del nostro ingombrante vicino. Di recente egli sembra aver cambiato tono rispetto agli orientamenti precedenti del partito e predica ormai la necessità di una revisione della politica di austerità, che riconosce essere dannosa per l’Europa. Ma il possibile peso di tali dichiarazioni sul futuro delle politiche tedesche appare quanto mai aleatorio.
Testi citati nell’articolo
-Chiellino G., Il “ricatto” tedesco sui fondi, Il Sole 24 Ore, 21 dicembre 2016
-Lepartmentier A., Maastricht ou Thatcher?, Le Monde, 1 dicembre 2016
-Business Insider Italia, La Germania spinge l’Italia fuori dall’euro, Draghi fa muro, www.repubblica.it, 26 dicembre 2016
Don Virginio Colmegna riflette sull' "emergenza freddo" di queste settimane. Ne approfittiamo per chiedere ai lettori di eddyburg di area milanese di mobilitarsi: per favore, portate alla Casa della Carità coperte, giacconi, indumenti invernali maschili e scarpe. Il servizio docce è in grande difficoltà!
la Repubblica Milano, 13 gennaio 2017 (m.c.g.)
Perché non vanno nei dormitori? Perché rifiutano l’accoglienza? Perché preferiscono la strada anche con queste temperature? In questi giorni di gelo, sono domande che mi capita spesso di sentire quando si parla di senza dimora. Ne ho conosciuti parecchi e altrettanti ne incontro ogni giorno. Eppure una risposta non ce l’ho. O meglio, non ne ho una sola, univoca, ma tante e diverse. Come tante e diverse sono le persone che in questo inverno continuano a dormire all’addiaccio.
Luigi lo fa perché in dormitorio ha avuto brutte esperienze, Maria perché ha problemi di salute mentale, Abdel perché è senza documenti, Aleksander perché, da poco in Italia, ancora non sa dove chiedere aiuto ed Emanuele perché non vuole separarsi dal cane. Sono motivazioni che possono essere considerate sensate o folli, ma che ci ricordano quanto gli homeless non siano una massa indistinta e omogenea. Sono persone senza dimora, certo, ma pur sempre persone che, in quanto tali, hanno un’individualità, una storia, relazioni, necessità e idee, giuste o sbagliate che siano. Il dovere di aiutarle però rimane. E non solo quando le temperature scendono sotto zero.
Le assi lungo cui muoversi sono due. La prima è strutturale e di lungo periodo, ed è la lotta alla povertà, intesa in una doppia accezione: prevenzione, da un lato, e percorsi di uscita, dall’altro. Mi sono già augurato che Milano diventi in questo ambito un esempio nazionale e, quindi, spero proprio che nel 2017 si affronti seriamente il tema del reddito di base. Nel frattempo però - e questa è la seconda direzione - serve aiuto per chi in strada già c’è. In Italia i senza dimora sono 50.724. Come ha dichiarato la presidente fio.PSD Cristina Avonto, «se si lavorasse in una logica di programmazione, durante tutto l’anno, quando arriva l’inverno non saremmo in questa situazione». Ha ragione: per proteggere davvero i senza dimora dal freddo, servono percorsi continuativi di conoscenza e fiducia.
Anche Milano deve operare in quest’ottica, pur tenendo conto delle sue peculiarità. La nostra è la città che in tutto il Paese ospita il maggior numero di homeless: 12.004. Ed è anche uno dei centri che oggi mette a disposizione più posti durante la cosiddetta “emergenza freddo”: 2.780, il doppio rispetto al 2010. Eppure, in questi giorni, alcuni di questi letti, tra i 200 e i 300, sono rimasti vuoti. Sembra un paradosso. Io credo debba debba diventare uno stimolo.
Dopo l’aspetto quantitativo, bisogna migliorare anche l’aspetto qualitativo dell’accoglienza. Più che dormitori, servono alberghi e non sto parlando di stanze singole, bagni lussuosi e stelle di qualità. Gli alberghi vanno incontro alle esigenze dei loro clienti. Così dovrebbero fare anche i servizi per la grave emarginazione, offrendo risposte non massificate, il più diversificate possibili, adatte alle diverse esigenze, segnate da una continuità della relazione e da una pluralità di servizi.
Non solo. Esiste una porzione di popolazione senza dimora che faticherebbe comunque a entrare nel circuito dell’ospitalità. È il caso di quel cittadino polacco mancato per il freddo in via Antegnati alcuni giorni fa. Milano deve occuparsi anche delle persone come lui, mettendosi proattivamente alla loro ricerca, andando loro incontro non solo durante l’inverno.
Credo sia necessario allora creare un osservatorio che monitori tutte quelle aree dove il disagio è forte e nascosto. Penso a una struttura snella che raccolga informazioni, segnali criticità e interagisca coi servizi. Ma soprattutto immagino uno strumento utile alle istituzioni, per far sì che il freddo, anche il più improvviso e rigido, non sia più un’emergenza per Milano e i suoi cittadini senza dimora.
«Domani i giudici costituzionali decidono sull'ammissibilità del referendum sull'articolo 18. La scelta incrocia quella del 24 gennaio sulla legge elettorale e può favorire la fine anticipata della legislatura». il manifesto, 10 gennaio 2017
la Repubblica, 7 gennaio 2017 (c.m.c.)
La Festa del Tricolore o Giornata nazionale della Bandiera del 7 gennaio, messa lì dopo la befana, come una scomoda pasquetta laica, è stata istituita per legge nel 1996. Essa recuperava, alla vigilia del secondo centenario del tricolore della Repubblica cispadana, un’intuizione di Carducci, che il 7 gennaio 1897, aveva festeggiato il natale del “santo tricolore”, con la sua inconfondibile retorica («Noi che l’adorammo ascendente in Campidoglio, noi negli anni della fanciullezza » ecc. ecc.).
La legge arrivava dopo i decenni nei quali la bandiera era rimasta a disposizione di nostalgie di destra ed entusiasmi calcistici (“forza Italia”). E non prendeva certo in considerazione la storia del termine, dell’oggetto e delle sue valenze. Il termine, infatti, nasce dalle “bande” longobarde e indica per metonimia gruppi di soldati o cavalieri identificati dal loro drappo.
Ma l’origine militare dell’oggetto è più antica ed è araba. Inizia con al-Uqab — la bandiera tutta nera come la pupilla dell’aquila — usato del Profeta. Il califfato immenso degli Omayyadi adotterà la bandiera bianca, a cui si opporrà negli scismi dell’islam quella di nuovo nera degli Abbasidi e quella verde di Alì.
Durante le crociate questi vessilli monocromatici si pubblicizzano come supporti per i grafemi del Corano o i segni della croce e s’alzano per chiedere al vento — il vento è di Dio — un segno di benevolenza per la propria guerra santa.
Da qui la bandiera entra nella storia occidentale: oggetto di culti patronali, segno delle signorie, pegno di onore e disonore militare, diventa una tavolozza di costruzioni grafiche complesse come quelle della Union Jack, e della bandiera della Continental Army della rivoluzione americana. Ma sale lo scalone dell’imagerie dello Stato nazionale moderno con una decisione cromatica del il 17 luglio 1789. A Parigi, per annunciare il ritorno del re in città, la guardia civica aggiunge infatti al rosso-blu della sua coccarda il bianco, colore della monarchia.
Quel distintivo, appuntato da Jean-Sylvain de Bailly al cappello di Luigi XIV, alza il sipario sull’ideologia “tricolore”: analogo cromatico della triade liberté- egalité- fraternité, segno di cittadinanza, bandiera dei reggimenti. Nella scia rivoluzionaria napoleonica nasce a Reggio Emilia il tricolore del 1797 oggi celebrato come progenitore della bandiera nazionale a bande orizzontali, o quello a quadrati della Repubblica d’Italia del 1802, evocato oggi dallo stendardo quirinalizio.
La modernità iscrive la bandiera in una civil religion dalle molte varianti. In America il giuramento alla “mia bandiera” composto nel 1882 dal pastore Francis Bellamy, fa delle stelle e strisce un pegno di cittadinanza da onorare o da bruciare, come faranno i renitenti alla leva del Vietnam.
In Europa l’ideologia dei colori “nazionali” unifica le transizioni istituzionali e permette, come fa Carducci, di inventare “il natale della Patria” smussando gli spigoli della storia (di tricolori ce n’erano prima del 1797, come quello indossato da Zamboni e De Rolandis, giustiziati dal boia del papa nel 1794, o di più esatti come quello della Giovine Italia del 1831, o di più epocali come quello di Carlo Alberto del 23 marzo del 1848). Ma, come ha spiegato lo storico Roberto Balzani, il problema non era filologico: serviva un tricolore “pre-esistente”, per saldare l’antica unità culturale delle inconciliabili varietà italiane alla recente unità politica. Un’operazione non indolore: la Chiesa odiava il “cencio tricolore”; i socialisti avevano la bandiera rossa che, come diceva un canto mazziniano, “la triunferà”; e chi patì l’orrore della guerra e il latrocinio fascista dello Stato non ne aveva un bel ricordo.
E se un simbolo non è un oggetto ma un rapporto, come insegna Raymond Firth, il tricolore esprime il vincolo di cittadinanza con uno Stato che delude figure molto diverse fra loro. Delude gli intellettuali che Croce irride scrivendo nel 1912 dei «moralisti da caffè o da farmacia annunziare che l’Italia sta per disgregarsi economicamente o politicamente o dissolversi nella corruttela e essere trascinata in una guerra, che sarà la sua fine come Stato e come Nazione». Delude coscienze vigili come quella di Arturo Carlo Jemolo che alla fine della guerra capisce come il fascismo abbia lasciato nell’aria una «miseria morale» che «residua nell’acidità meschina» di quelli che «dovunque vogliono vedere la tara, il sudicio, che avranno rancore ed avversione per le più alte figure ». E delude Ciampi che da vecchio dice «non è il paese che sognavo», dopo aver speso la vita per renderlo meno peggio.
La differenza fra ciarlatani e vigilanti non sta nella delusione, ma nella scelta di rispondere con le chiacchiere o col pensiero. E c’era pensiero alla Costituente nell’adozione del tricolore: il pensiero delle molte formazioni partigiane che avevano recuperato, levando lo stemma sabaudo con le forbici e sostituendolo con i propri simboli in una guerra civile; il pensiero degli internati che avevano patito nei campi di concentramento; degli uccisi dalla guerra e dalla Shoah; della divisione istillata goccia a goccia dal fascismo.
Quel tricolore non serviva a coprire una continuità che evadesse la colpa, non a mimare con la stoffa una univoca “identità”, che è il surrogato ideologico di chi non sa comprendersi nella irriducibile complessità dell’essere: ma a pensare un patriottismo costituzionale — ben prima che Habermas lo teorizzasse — fatto di diritti, di doveri e di libertà. Che sono la cosa che, senza assentarsi dal lavoro (dice la legge), vale la pena di festeggiare.
articolo21 online 5 gennaio 2017 (c.m.c.)
Risuonano ancora oggi come un mantra le parole di Giuseppe (detto Pippo) Fava, ucciso il 5 gennaio del 1984, mentre andava a prendere la nipote che recitava in Pensaci, Giacomino! al teatro Verga di Catania. Non fece neanche in tempo a scendere dalla sua Renault 5 che fu attinto da cinque proiettili della famigerata calibro 7,65, arma tristemente nota per molti omicidi di mafia.
Eppure Fava, già delegittimato da tanti “benpensanti” colleghi in vita, fu drammaticamente screditato nel momento della morte. L’omicidio, infatti, fu etichettato come delitto passionale, con titoloni a più colonne che ne annunciavano la morte per “movente passionale”. D’altronde si sa, per chi non vuol vedere ed investigare in Sicilia, il problema immediato sono le “fimmine” (le donne). E per chi proprio non credeva alle donne, ecco la seconda ed ultima pista accreditata: il movente economico, per le difficoltà in cui versava la rivista “I Siciliani”.
Persino i funerali diventarono terreno di scontro, in quanto l’allora primo cittadino di Catania, Angelo Munzone, affermò che la mafia a Catania non esistesse. Solo successivamente, l’evidenza delle accuse lanciate da Pippo Fava sulle collusioni tra Cosa nostra ed i cavalieri del lavoro catanesi, verrà rivalutata dalla magistratura, che avviò vari procedimenti giudiziari.
Nel 1998 si è concluso a Catania il processo denominato “Orsa Maggiore 3” dove per l’omicidio di Giuseppe Fava sono stati condannati all’ergastolo il boss mafioso Nitto Santapaola, ritenuto il mandante, Marcello D’Agata e Francesco Giammuso come organizzatori (poi assolti), ed Aldo Ercolano come esecutore assieme al reo confesso Maurizio Avola.
Giuseppe Fava era un giornalista che cercava di scavare nei meandri meno investigati della “verità” che ai più sfuggeva, iniziando dai rapporti fra mafia e politica.
«Mi rendo conto che c’è un’enorme confusione sul problema della mafia. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione». Affermò Fava il 28 dicembre 1983, nel corso della sua ultima intervista rilasciata ad Enzo Biagi.
E quelle frasi per l’epoca rivoluzionarie, ancora oggi hanno un fortissimo valore civile. A 33 anni dalla sua scomparsa, gli allora giovani con i quali il “direttore” fondò i Siciliani, continuano con impegno la ricerca della verità. Fra questi, il suo storico amico e collaboratore, Riccardo Orioles che, proprio per non aver rinunciato alle idee di Pippo Fava, vive oggi in condizioni di grande disagio sociale e per il quale è stata richiesta l’applicazione della Legge Bacchelli.
Come ogni 5 gennaio il ricordo di Fava riscalda il cuore di tanti giovani, nella speranza che le sue idee camminino sulle nostre gambe non soltanto il giorno della sua uccisione.
«». The NewWorkTimes online, 3 gennaio 2017 (m.c.g.)
SINTESI
Con l’eccezione di Finlandia, Pesi Bassi e Danimarca, in tutte le grandi città europee il numero dei senzatetto è in continuo aumento. E non si tratta solo di migranti, spesso giovani e istruiti, ma anche di cittadini che ‘non ce l’hanno fatta’: per lo più maschi e adulti. Ovviamente, le misure emergenziali, che sono comunque costose, non incidono sulle cause strutturali. E infatti, il problema dei senzatetto si ripresenta ogni anno ai primi freddi, e sempre più acuto.
A Milano, “campionessa” italiana di solidarietà grazie ai suoi 2.700 posti letto attualmente disponibili per i mesi più freddi nei dormitori e alla partecipazione generosa dei cittadini (quest’anno in pochi giorni sono stati raccolti 28.000 sacchi a pelo, coperte e giacconi), sono morti di freddo in rapida sequenza due emigrati che passavano le notti all’aperto sulle panchine.
Che occorrano misure strutturali e, in particolare, che occorra dare alloggio non solo temporaneo ai sentatetto lo pensa anche un amministratore di una grande città americana. E’ la proposta avanzata dal neo-sindaco di Sacramento, la capitale della California: una proposta ‘rivoluzionaria’ che già evidenzia lo iato incolmabile che si aprirà fra le iniziative degli Stati e delle amministrazioni locali democratiche, e le minacce di deportazione annunciate dal nuovo Presidente degli USA.
Darrel Steinberg, da sempre impegnato come Senatore dello Stato della California sui temi del disagio psichico e della ‘homelessness’, intende mettere a disposizione dei senzatetto (attualmente 2.600) 1.500 unità abitative entro la primavera. Un progetto che dovrebbe accompagnarsi a un attento monitoraggio e aiuto, medico, psicologico ed economico; ma soprattutto, a una pedagogia argomentativa capace di contrastare le prevedibili reazioni NIMBY della popolazione locale. (m.c.g.)
CALIFORNIA TODAY. A NEW MAYOR TAKES ON HOMELESSNESS
Homelessness has seemed to defy solution in many California cities.
Ambitious plans are crafted, giant sums are spent and still, years later, the problem is entrenched, or even worsened. But in Sacramento, a new mayor is asserting that he could alter the script — and many people are taking him seriously.
The Sacramento Bee has expressed optimism that the city could be better poised than ever to break the cycle of homelessness. Some homeless leaders have too. “We’re extremely hopeful,” said Bob Erlenbusch, executive director of the Sacramento Regional Coalition to End Homelessness.
The reason is the swearing in last month of Mayor Darrell Steinberg, a veteran state lawmaker who has made mental illness and homelessness signature issues of his political career. One of Mr. Steinberg’s first mayoral acts was to expand access to warming centers in Sacramento. On any given night in the county, roughly 2,600 people are homeless.
The move was welcomed by homeless leaders who had lobbied for it for years.
On Monday, Mr. Steinberg said his administration planned to free up at least 1,500 housing units for the homeless by the spring. The City Council and Sacramento County supervisors are scheduled to meet in a joint session this month to discuss the proposal.
Some critics are skeptical, questioning how the costs will be met.
Others have challenged the mayor over his reluctance to embrace a so-called tent city for the homeless — like those created in Seattle — which supporters say would offer a temporary safer alternative to life on the streets and river banks.
«That’s the essential first step» said Mark Merin, a civil rights lawyer who has advocated for the homeless in Sacramento. Without that there’s no foundation on which to build a program.»
We caught up with Mr. Steinberg by phone. These are edited excerpts from the conversation:
Do you think Sacramento could solve the problem of homelessness?
Well I think we need to aim very high. But I also have no illusions. And we talk about a concept called ‘functional zero,’ which means that we ought to have more permanent housing and supportive services than the number of homeless people. And then the goal is to match them up. But no, I’m not talking about trying to absolutely fix it. I think that’s the aspiration. But I think it’s our obligation and our opportunity to make it much better.
How does your approach differ from what’s been tried before?
We have a lot of tools in place and we also know what works. What works — and I’ve seen it — is assertive outreach by clinically trained outreach workers, case management, single points of entry, supportive services, especially mental health and substance abuse services, and an absolute commitment to increasing the inventory of permanent housing.
How do you overcome local resistance to adding housing for the homeless?
When the inevitable question of ‘not in my backyard’ arises, I think it’s a different discussion when you say to people: «The status quo is having an impact on your neighborhood and on your neighborhood and city park. It’s having an impact on your business corridors. And it’s better to house people with services than to allow people to live on the street.’
We are so far removed from pinching ourselves and remembering what this is really about, that we tolerate this social condition in 2017 California in America. I mean, it is cold in Sacramento».