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. il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2017 (p.d.)

Col voto inconsapevole del Senato, ieri il Parlamento ha avallato una vera e propria presa in giro ai danni dei cittadini italiani e, in particolare, del milione e 100mila che hanno firmato ognuno dei tre quesiti referendari proposti dalla Cgil per abolire i voucher, garantire che la società appaltante fosse responsabile in solido anche per i subappalti e ripristinare l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (quest’ultimo quesito è stato bocciato dalla Corte costituzionale, che lo ha ritenuto in sostanza “propositivo” visto che non si limitava ad abolire un pezzo del Jobs act, ma estendeva il divieto di licenziamento senza giusta causa anche alle aziende tra 5 e 15 dipendenti).

Per apprezzare appieno quella che il costituzionalista Gaetano Azzariti ha chiamato sul Fatto “una frode ai danni dell’articolo 75 della Costituzione” (quello sui referendum), basta ricordare i fatti. L’11 gennaio scorso la Consulta ha ammesso due dei tre quesiti presentati dalla Cgil. Dopo oltre due mesi di melina, a metà marzo, il governo Gentiloni ha fissato la data per il referendum: il 28 maggio 2017. Solo tre giorni dopo, però, lo stesso governo varava un decreto che aboliva i voucher ed estendeva alla ditta appaltante la responsabilità anche per i subappalti: in sostanza, venivano accolte le richieste del comitato referendario. Il decreto è stato convertito dal Parlamento in un solo mese: il 17 aprile. A quel punto la Cassazione ha stabilito che non c’era più motivo di tenere i due referendum e il voto è stato annullato.
E siamo a maggio, quando l’esecutivo Gentiloni si permette quel che nessuno s’era mai permesso: con un emendamento - ancora prima che fosse passato il 28 maggio in cui si sarebbe dovuto tenere il referendum - reintroduce i voucher sotto altro nome e non solo per le famiglie (per pagare colf, badanti e piccoli lavori), come era possibile anche secondo la Cgil, ma pure per le imprese sotto i 5 dipendenti, che sono il 90% delle imprese italiane e quelle che ne fanno un uso più esteso. Ieri, questa norma è diventata legge certificando il fatto che governo e Parlamento hanno preso in giro gli italiani pur di evitare il voto referendario. Un sondaggio Tecnè per la Cgil diffuso mercoledì rivela che gli elettori si sono accorti dello sgarbo istituzionale: il 67% (percentuale che sale al 77 tra i giovani) ritiene che il sindacato guidato da Susanna Camusso faccia bene a protestare. E la segretario lo ha fatto anche ieri, dopo il voto del Senato: “Hanno sbagliato, hanno violato le regole della democrazia e non hanno rispettato il diritto di voto dei cittadini. Si è determinato un vero e proprio vulnus: governo e forze politiche non hanno avuto il coraggio di discutere apertamente dei temi del lavoro, di affrontarli e di vedere il giudizio che lavoratori e cittadini avrebbero dato”.
Ora la Cgil farà due cose: la prima, sabato, è una grande manifestazione sul tema a Roma, che sarà anche l’occasione per vedere sfilare insieme i vari soggetti alla sinistra del Pd (Articolo 1, Sinistra Italiana, Possibile, Campo progressista eccetera eccetera). La seconda strada è un ricorso alla Corte costituzionale contro “la frode”: più volte i giudici delle leggi, proprio di fronte a trucchetti dei governi per svuotare o aggirare i referendum, hanno adottato una speciale tutela rispetto al voto popolare. Accadde, ad esempio, quando Berlusconi tentò di ignorare il referendum sull’acqua. Una volta, addirittura, dopo una modifica legislativa, la Consulta consentì alla Cassazione di traslare i quesiti sulle nuove norme pur di tutelare il diritto di espressione del voto. Difficile che cambi opinione stavolta. Se succederà, però, si rischia di votare non prima di fine 2018 o persino del 2019: tra la decisione della Consulta e la nuova indizione dei referendum potrebbero arrivare le elezioni politiche, che possono far slittare la consultazione anche di un anno.
Le apparenti contraddizioni della "sicurezza". Un bourka può nascondere un pensiero diverso, e per i barbari un pensiero diverso è più pericoloso di un'arma. Del resto l'Italia è una repubblica fondata sulle armi.

la Nuova Venezia, 15 giugno 2017, con postilla

Mettiamola così: nel Veneto prossimo venturo chiunque indossi un burqa, un niqab (il velo integrale islamico) o più semplicemente un casco da motociclista o un passamontagna che ricopre il viso, non potrà entrare in luoghi pubblici regionali quali ospedali, scuole, uffici Ater, distretti sanitari, enti e palazzi della politica. L'ingresso, viceversa, sarà consentito a chi si presenta con una pistola sotto l'ascella, purché provvisto di regolare porto d'armi per la difesa personale. È quanto prevede il nuovo regolamento di accesso in discussione al Consiglio regionale, che ne ha approvato il primo articolo dopo ore di discussione e, manco a dirlo, l'emendamento "sputafuoco"che ha acceso la polemica reca la firma di Sergio Berlato, il capogruppo di Fratelli d'Italia patrono delle doppiette.

«È la legge Beretta, il volto coperto è pericoloso, la mano armata no», insorge il dem Andrea Zanoni «dovremo invitare i cittadini a recarsi in ospedale con in giubbotto antiproiettile per evitare guai? Mi chiedo cosa ne pensino i direttori delle Ulss, non è possibile che la maggioranza a trazione leghista sia sempre succube di Berlato che, da una posizione assolutamente minoritaria, continua a fare il bello e il cattivo tempo sui temi legati all'uso delle armi». «Un'ipotesi assurda, inaccettabile», rincara Piero Ruzzante (Mdp), che in aula ha votato contro «anziché ricorrere alla prevenzione attraverso i metal detector, si vuole consentire l'accesso a gente armata, interdetto a Palazzo Ferro-Fini, sede dell'assemblea regionale, ma permesso altrove, quasi che i consiglieri abbiano diritto a maggiore sicurezza rispetto agli altri cittadini. Siamo alla follia».
«Propaganda vergognosa, pura strumentalizzazione delle paura di marca leghista», fanno eco i 5 Stelle con la poliziotta (in aspettativa) Patrizia Bartelle lesta a ricordare di non aver mai preso in considerazione l'idea di entrare a Palazzo con la pistola d'ordinanza. E Berlato? «Mi sorprende tanto baccano», replica serafico «stiamo parlando del porto d'armi per la difesa personale che la prefettura rilascia con verifica psicofisica annuale. Il Testo unico di pubblica sicurezza prescrive che l'arma non possa rimanere incustodita e il mio emendamento cita questa norma. Se l'obiettivo è tutelare l'incolumità, questa può essere minacciata ovunque, anche in ospedale, perciò va difesa sempre e dovunque».

postilla

Il consigliere Berlato sembra perfettamente in linea con la strategia e la tattica del renzismo, e con i governi da Matteo Renzi a Paolo Gentiloni. Chi non lo ha compreso legga su eddyburg l'attenta analisi di Giorgio Beretta Renzi è nella storia.

«Il Rapporto annuale sulla situazione del paese, pubblicato recentemente dall’Istat, certifica la crescita delle disuguaglianze, con alcuni dati interessanti e qualche polemica sulla metodologia adottata».

Sbilanciamoci.info, 12 giugno 2017 (c.m.c.)

Da qualche edizione a questa parte l’Istituto nazionale di statistica ha deciso di scegliere, per (ri)dare vita al suo annuale Rapporto sulla situazione del Paese, un tema conduttore: due anni fa furono i territori, l’anno scorso le generazioni, quest’anno i gruppi sociali.

La scelta di quest’anno ha generato un discreto dibattito, non tanto su quello che il Rapporto 2017 ci racconta dei gruppi sociali, riportato senza nemmeno troppa contezza da un gran numero di testate nazionali, ma sul metodo attraverso il quale l’Istituto ha deciso di individuare questi gruppi. L’obiettivo è quello di raggruppare le famiglie in base non solo al reddito ma anche ad altre caratteristiche proprie della famiglia o della persona di riferimento.

Per fare questo l’Istat usa una tecnica inferenziale: ovvero una tecnica che fa emergere dai dati i gruppi in cui la società italiana si divide senza bisogno di attrezzarsi con una classificazione e quindi una teoria aprioristica. Long story short: dall’indagine Eu-Silc, l’Istat ha selezionato un certo numero, a dire il vero ridotto, di variabili in grado di dare conto delle differenze di reddito tra le famiglie.

Nello specifico le variabili scelte dall’Istat sono: il numero di componenti della famiglia, la professione svolta, il tipo di contratto di lavoro, la cittadinanza, il titolo di studio. Un albero di regressione di queste variabili sul reddito ha suddiviso le famiglie in gruppi il più possibile omogenei tra di loro.

Autorevoli voci della sociologia italiana non hanno apprezzato questo approccio, dispensando critiche soprattutto dal punto di vista epistemologico: “La debolezza concettuale dell’esercizio diventa metodologica con l’inversione del rapporto tra causa ed effetto. Laddove le classi sono state sempre intese come fattori generativi di disuguaglianza – e non come il suo risultato –, l’Istat procede in direzione contraria. Guarda alle diseguaglianze di reddito, di istruzione, di esposizione ai rischi di disoccupazione e di povertà non come effetti dell’appartenenza a un gruppo sociale, bensì come elementi costitutivi di quel gruppo” (Barbagli, Saraceno, Schizzerotto su lavoce.info del 23 maggio).

Un argomento che può sembrare a prima vista molto convincente, ma che si rileva altrettanto debole se osservato più da vicino. La debolezza nasce dal non riconoscere che l’esercizio condotto dall’Istat è un esercizio di inferenza: il fatto di farsi “suggerire” dai dati sulle differenze di reddito e di altre variabili l’appartenenza al gruppo non equivale affatto ad assumere che le diseguaglianze generino i gruppi.

In fondo, quello che i critici non sembrano accettare è il tentativo di provare, per una volta, a non partire da una teoria predefinita che, generalmente, stabilisce l’appartenenza a un gruppo/classe dal ruolo nel mercato del lavoro della persona e che, a quanto pare, richiede il bollino di una cattedra in sociologia (!).

Il Presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, ha ribadito il valore di questo tentativo in un articolo su neodemos.it «Applicare ai dati classificazioni esistenti è certamente utile e necessario […] Quest’anno si è applicato un approccio diverso, rinunciando ad assumere ex ante quelle classi come date, ed esplorando invece con uno strumento statistico e a partire dai microdati d’indagine se emergesse una classificazione diversa […] L’obiettivo è quindi differente; è perseguito con un approccio metodologico di carattere inferenziale, reso possibile dalla ricchezza del patrimonio informativo di cui l’Istat dispone.»

Quello che l’Istat sembra reticente ad ammettere è che scegliere le variabili in grado di spiegare il reddito significa indirettamente avere una teoria su come si forma il flusso di risorse economiche nella famiglia. E la teoria che l’Istat mette in campo non solo non viene esplicitata, ma sembrerebbe per lo più dettata dalla disponibilità di variabili dell’indagine Eu-Silc e dalla necessità di replicare la costruzione dei gruppi con i dati di altre indagini e quindi di scegliere variabili che siano disponibili in indagini diverse.

Di fatto il numero e il tipo di variabili che l’Istat mette sul piatto per individuare i gruppi non sembra del tutto soddisfacente e non sembra in nessun modo riflettere “la ricchezza del patrimonio informativo” richiamata dal Presidente Alleva. E forse il ridotto numero di informazioni che concorrono a definire i gruppi è anche la causa di alcuni risultati bizzarri come il gruppo delle anziane sole e giovani disoccupati… Non è chiaro poi se siano state fatte delle prove con altri metodi al fine di verificare la robustezza dei risultati ottenuti. Rimane certamente di valore il tentativo di innovare in un campo di indagine estremamente attuale. Un tentativo, evidentemente, giudicato troppo sovversivo da taluni.

Una volta individuati i gruppi, l’Istat propone una descrizione di diversi aspetti che li caratterizzano: le condizioni di salute, la partecipazione sociale e culturale, la partecipazione al mercato del lavoro. I risultati, tuttavia, appaiono per lo più trainati dalle variabili che incidono nella costruzione dei gruppi stessi.

Così emerge che i gruppi costituiti da famiglie con redditi più elevati e persone più istruite sono quelli con condizioni di salute migliore, con stili di vita più salutari, più elevati livelli di partecipazione sociale e culturale, una presenza più stabile e proficua sul mercato del lavoro… Niente di sorprendente, dunque.

Ma nelle pieghe del rapporto, lì dove si abbandona il tema dei gruppi, si scovano delle informazioni interessanti. Come la questione demografica con un numero di nascite sempre più basso sintesi di un tasso di fecondità bassissimo e di un progressivo ridursi del numero di donne in età fertile. Un declino demografico che non sembra più compensato, come un tempo, dai fenomeni migratori: il tasso di fecondità delle donne straniere sta rallentando e rallenta anche la crescita del numero di stranieri residenti.

Oppure il fatto che la partecipazione culturale sia in una fase di allarmante declino: partendo dal 34% del 2008, nel 2016 ha raggiunto il e superato il 37% la quota di persone con più di 6 anni che non partecipa in nessun modo alla vita culturale (questa quota è del 50% nelle famiglie a basso reddito con stranieri). Oltre il 25% del tempo libero è dedicato a guardare la TV (anche qui con delle differenze che rispecchiano la disponibilità di risorse e il titolo di studio: non si arriva al 25 per la classe dirigente mentre si supera il 30 per le famiglie a basso reddito), mentre meno del 5% è dedicato alla lettura o ad altre attività culturali.

Un altro passaggio interessante del Rapporto annuale dell’Istat è il tentativo di sottolineare come la crescita degli ultimi anni nei livelli di diseguaglianza sia rintracciabile nella forte crescita delle diseguaglianze che si generano sul mercato del lavoro e del capitale. Un passaggio, questo, che sembra suggerire, anche se non in maniera esplicitata nel rapporto (forza! un po’ di coraggio!), la necessità di impostare politiche pubbliche orientate, come auspicato da molti analisti, alla cosiddetta pre-distribution.

Così come sembra interessante l’accenno di analisi sull’influenza delle caratteristiche di impresa sui differenziali salariali che evidenzia il ruolo positivo del capitale umano e dell’innovazione sulla compressione salariale.

Insomma, un Rapporto annuale coraggioso, a tratti un po’ ingenuo ma al quale vale la pena dare un’occhiata.

L'incauta offerta di Pisapia a Renzi di aiutarlo a vinceree portandogli il gruppo dei fuggitive dal PD; ma s'affacciano anche altre idee anch'esse diversamente accomodanti con le vecchie politiche neoliberiste. Noi invece saremo a Roma il 18 giugno.

il manifesto, 11 giugno 2017



PRIMARIE AVVELENATE,
NON ESISTONO
MA GIÀ SPACCANO LA SINISTRA
di Daniela Preziosi

«Alleanze. Gazebo di coalizione, c’è il niet di Mdp. Che avverte l’ex sindaco: Renzi è un piazzista, no al dialogo. Malumori anche nel Pd»

Le primarie del centrosinistra con un Pd che fino a una settimana sfotteva la «sinistra rissosa» sono un’ipotesi irrealistica, il classico ballon d’essai delle fasi politiche di stallo. Ma tanto poco basta per rialzare il termometro nella sinistra che fino a tre giorni fa tendeva all’unità, complice un incombente sbarramento al 5 % nella legge elettorale ormai spazzato via dall’orizzonte.

Per il terzo giorno consecutivo ieri Renzi, stavolta dal Corriere della sera, ha lanciato un amo a Giuliano Pisapia, leader di "Campo progressista": «Noi ci siamo. Vediamo che farà lui». Il segretario Pd spiega meglio la sua idea di accordi a sinistra a legge vigente: un patto al senato, ma non alla camera, dove tanto è convinto di imbroccare l’onda del voto utile perché «il premio al 40% consente di tentare l’operazione maggioritaria». L’ex premier non risponde alle condizioni che Pisapia pone per riaprire il dialogo: primarie di coalizione, cancellazione dell’articolo 18, discontinuità. A questo dibattito manca il principio di realtà. Lo ricorda il presidente dem Matteo Orfini a Repubblica, che «c’è una legge proporzionale che non prevede coalizioni e quindi le primarie non avrebbero senso», dunque benvenga Pisapia in coalizione ma dopo il voto se avrà i numeri, «con questo sistema elettorale oguno tessa la sua tela e poi ci ritroveremo in parlamento in base al consenso che i cittadini ci daranno».

Ma questi giri di valzer comiminciano a suscitare malumori a sinistra, fra gli stessi alleati di Pisapia che il primo luglio hanno con lui un appuntamento a Roma per costruire «la casa comune» della sinistra. Bersani, D’Alema, Rossi, cioè tutta la «Ditta» ex Pd non hanno alcuna intenzione di allearsi con il proprio ex partito. Ampiamente ricambiati: Renzi spiega alcuni di loro farebbero fatica «anche a tornare alle feste dell’Unità».

Le polemiche non sono dirette, almeno per ora. Massimo Paolucci, europarlamentare vicinissimo a D’Alema, spiega che la proposta di Renzi a Pisapia è «una polpetta avvelenata», «Non esistono le condizioni minime per svolgere insieme al Pdr le primarie di coalizione. Senza una chiara alleanza politica, un simbolo ed una piattaforma comune sarebbe una grave errore, una decisione incomprensibile per milioni di nostri elettori delusi dalle scelte fatte, in questi anni, su tasse, lavoro, scuola, politiche sociali, investimenti». Il presidente della Toscana Enrico Rossi: «Le primarie di coalizione hanno poco senso perché la storia del sindaco d’Italia è finita il 4 dicembre 2016. Noi dobbiamo costruire un’alleanza per il cambiamento a sinistra del Pd fatta da coloro che, di sinistra e di centrosinistra, non si riconoscono più nel Pd di Renzi».

Enrico Rossi si rivolge al lato politico dove si collocano Sinistra italiana e Rifondazione comunista, e offre una lista unitaria, anche con i civici ex no che si vedranno a Roma il 18 giugno. Sorvolando sul fatto che difficilmente queste aree apprezzerebbero – anzi digerirebbero – la benedizione degli ulivisti Prodi, Letta, Bindi, così tanto invocata da Mdp.

Anche Pisapia evita la polemica interna. Ma dai suoi arrivare segnali di insofferenza: «Dobbiamo investire sulla riapertura di una nuova stagione di centrosinistra in discontinuità con questi anni. Aggiungo che oggi, per ragioni tutte giuste, governiamo, da una posizione di leggera subalternità, con Renzi e persino con Alfano».

PRIMARIE,
UN FAVORE A RENZI
di Massimo Villone

Per un tabellone elettronico salta il patto di scambio tra voto subito – voluto da Renzi, Grillo e Salvini – e sistema similtedesco proporzionale – voluto da Berlusconi. Ora Renzi dice di puntare al voto nel 2018. Con il Consultellum nella doppia versione Camera-Senato, e aggiunge un’offerta di coalizione a Pisapia. Non sappiamo se sarà l’ultima mossa. Ma se lo fosse, a chi darebbe scacco?

Anzitutto, scacco a ciò che è a sinistra del Pd. A tal fine, il Consultellum è molto efficace. Alla Camera, il premio con soglia al 40% rafforza molto il richiamo del voto utile. Raggiungere la soglia sarà pure improbabile, ma l’argomento sposta comunque voti. Al Senato, il voto utile si aggancia agli sbarramenti, troppo alti per i partiti minori. E contro un’aggregazione che potrebbe ambire a superarli si offre la coalizione a uno dei player. Divide et impera. Ed è davvero sorprendente che Pisapia risponda chiedendo primarie. È solo un favore a Renzi, con il regalo di una probabilissima vittoria che ne rafforzerebbe legittimazione, leadership e disegno politico.

Dalla sinistra sparsa alla sinistra scomparsa: questo è il copione di Renzi. Una sparuta pattuglia di deputati farebbe sopravvivere qualche pezzo di ceto politico, ma rimarrebbe del tutto insignificante.

E la diversità dei sistemi elettorali? La governabilità? Mattarella? Questo è il secondo scacco. Il Capo dello Stato non può impedire lo scioglimento della Camere in due casi. Il primo è lo scioglimento anticipato voluto da una maggioranza parlamentare in grado di negare la fiducia a qualsiasi governo. Questa era l’ipotesi sottesa al patto tra i quattro leaders. Fatta la legge elettorale, Mattarella non avrebbe potuto opporsi al voto subito. Il secondo caso è la fine naturale della legislatura, perché la tempistica è dettata dalla Costituzione, e nessun rinvio è consentito. Dire che si vota nel 2018 equivale a dire che si vota con la legge che c’è. Quindi, basta non fare, e Consultellum sia: ecco lo scacco a Mattarella.

È chiaro che rimangono tutte le censure nel merito, in specie per la diversità tra Camera e Senato. Il pasticcio viene da Renzi, per l’arrogante pretesa di anticipare con una legge elettorale solo per la Camera la riforma costituzionale poi sepolta dai no. Come non bastasse, ora Renzi lucra sul malfatto, potendo con la sua proposta ottenere vantaggi anche limitandosi a un gioco di interdizione.

Che si può fare? In Parlamento, poco. Sono controinteressati alla proposta Renzi soprattutto i partiti minori, che certo non controllano i lavori parlamentari. Inoltre, sono spinti verso la subalternità per non morire. Qualcosa, invece, si può fare sul piano della politica. E qui una lezione viene dal voto in Gran Bretagna.

Per molti, Corbyn era un pezzo di modernariato politico, da non prendere sul serio. Ma in poche settimane di campagna ha recuperato quasi del tutto un distacco che sembrava incolmabile, con un programma elettorale vicino a una proposta socialdemocratica vintage. È chiaro che ha trovato una corrente profonda di cui non si sospettava l’esistenza. E colpisce che abbia così guadagnato tra i giovani e nell’area del non voto. Una vecchia sinistra in disarmo ha visto i propri figli innalzare le bandiere da tempo ammainate.

Forse nel voto GB la più importante indicazione è proprio questa: la sinistra può essere competitiva se dismette una lunga sostanziale subalternità ai mantra del privato, del mercato, della finanza. Perché non in Italia? Dunque, bene se qui la sinistra sparsa si compatta e trova qualche candidatura eccellente. Meglio se formula un progetto non di nicchia, volto a ritrovare in modo compiuto le antiche risposte socialdemocratiche sulla dignità della persona, la solidarietà, l’eguaglianza, la giustizia sociale, il ruolo del pubblico. Da un appeal verso i giovani e il non voto potrebbe venire la massa critica utile a superare qualsiasi scoglio di sistema elettorale.

In realtà lo stesso Renzi potrebbe fiutare il vento e volgersi a una proposta socialdemocratica vintage. Vogliamo anche augurarglielo. Certo, sarebbe difficile riconvertire l’ultimo Pd, tutto privato, competizione e libero mercato. Ma uno che nasce boy scout deve pure saper affrontare

Il verso di Renzi è quello di sempre: per lui Giuliano Pisapia e "Campo progressista" sono il retino col quale riportare a Casa Renzi i transfughi del PD. E Pisapia accetta. Ma c'è chi comprende che la sinistra è altrove.

il manifesto, 10 giugno 2017

«Il leader Pd ha tentato la stessa mossa dopo il flop referendario Cauto l’ex sindaco: "Faccia le primarie. E dica mai con la destra". Mdp resta gelido sul dialogo Rossi: "Serve una sinistra forte in parlamento"»

«Non è la mia sconfitta. È la sconfitta di Grillo. E degli altri». La botta è forte, la seconda botta forte dal 4 dicembre, ma l’ex premier Matteo Renzi ha tempi di reazione (anche troppo) rapidi e tenta subito una manovra diversiva. Ai suoi spiega che il pasticcio non l’ha fatto lui, che si è limitato a stringere accordi politici, semmai è stato il Pd alla camera ad aver sottovalutato quello che stava succedendo nel passaggio fra la commissione e l’aula: doveva prevedere e sventare «l’imboscata dei 5 stelle». L’allusione è al relatore della legge Emanuele Fiano e al capogruppo Ettore Rosato, non proprio due assi di diplomazia, che ora attaccano alzo zero il tradimento grillino.

Ma se il piano b di Renzi, e cioè andare al voto comunque prima della finanziaria con qualche correttivo al Legalicum fatto per decreto, viene subito frenato dal Colle, ieri dall’infaticabile ma non infallibile ex premier è arrivato subito un piano C.

Anzi, un piano «p», nel senso di Pisapia. Un cambio di strategia raffazzonato in fretta e furia sulla falsa riga di quello post referendum. Il piano prevede un repentino cambio di verso sul tema delle coalizioni: contrordine, dunque, il Pd non è più possibilista sulle larghe intese con Forza Italia, ora si orienta verso il centrosinistra. O, più precisamente, si offre di caricare sul suo carrozzone azzoppato il Campo progressista di Pisapia. È la stessa mossa fatta all’indomani della sconfitta del referendum costituzionale, finita poi su un binario morto.

«Ormai è chiaro che in questo parlamento non c’è spazio per una riforma e si voterà con le leggi attuali. Per questo, ho già detto a Giuliano di correre divisi alla Camera, ma in coalizione al Senato», fa dunque sapere Renzi a mezzo Repubblica, quotidiano che ha avuto sempre un debole per l’ex sindaco di Milano, e che lo preferisce coalizzato con il Pd.

La risposta di Pisapia in prima battuta è piccata: «Prima bisogna ragionare partendo da una constatazione oggettiva: quel tipo di alleanza con la destra o centrodestra è perdente per il Paese e per la buona politica». L’ex sindaco ha già esperienza di un Renzi mobile qual piuma al vento. E oggi ormai ha messo in piedi la rete Campo progressista che prepara per il primo luglio il lancio di un fronte comune con Mdp di Bersani e D’Alema. E cioè quelli che il leader Pd non vuole vedere neanche dipinti. Ricambiato.

L’imminente varo di una legge elettorale con lo sbarramento al 5 per cento e la precipitazione al voto avevano spinto la sinistra a (provare a) unirsi. Il crollo dell’ipotesi finto-tedesca e il ritorno del voto al 2018 però cambiano tutto. Dal lato del Pd, ma anche dal lato della sinistra variegata che affrontava la mission impossible dell’unità con una serie di incontri pubblici, ora presumibilmente tutti da ricalibrare.

Così nel pomeriggio si misura tutta la confusione che regna nel virtualissimo campo del centrosinistra.La scena va in onda in diretta su Radiopopolare che nel corso della sua festa costringe sullo stesso palco lo stesso Pisapia, Fiano, Enrico Rossi (Mdp) e Nicola Fratoianni (Si). E lì succede che Fiano attacca Rossi (finisce male, il dem che si deve scusare «per l’arroganza») e invece corteggia Pisapia. Il quale a sua volta fa la mossa di accettare il dialogo ma avanza condizioni irricevibili per Renzi: «Sono per il massimo dell’unità e rimango sempre favorevole al dialogo ma tenendo fermo il punto che qualsiasi alleanza con il centrodestra è contro i nostri valori oltre che un inganno agli elettori. Renzi accetti le primarie di coalizione, ci vuole discontinuità rispetto a ora.

E ripristini i diritti a chi li ha tolti con l’art.18». Rossi, sulla carta già alleato di Pisapia (Mdp e Campo progressista siedono nello stesso gruppo alla Camera), boccia invece la richiesta di primarie: «Non sono un punto fondamentale». Poi scarta decisamente l’idea di un accordo con il Pd e chiede invece a Pisapia e Fratoianni di fare «una larga sinistra che punti a mandare in parlamento più eletti possibile».

Grande è la confusione sotto il cielo, la sinistra stenta a capitalizzare la nuova sconfitta di Renzi. Pisapia prova a fare il pontiere ma sbaglia ponte: chiede che nel finale di legislatura il Pd abbandoni l’alleanza a destra e assicuri l’approvazione di ius soli, reato di tortura, codice antimafia e provvedimenti sull’uguaglianza sociale. Replica scontata di Fiano: «Certo, ma i voti nostri e vostri anche uniti non bastano».

I numerosi punti deboli della proposta di Pisapia per le elezioni. A noi per quardare altrove basterebbe ricordare che vuol fare un centro sinistra dove una sinistra non c'è, e che considera il renzismo un potenziale alleato.

il manifesto, 10 giugno 2017

E’ indubbio che l’idea di Giuliano Pisapia di federare i gruppi frantumati e dispersi della sinistra contiene elementi di dinamismo politico da apprezzare. Soprattutto alla luce dell’inerzia che oggi sembra paralizzare quel campo, incapace peraltro di far leva e valorizzare le forze che si sono aggregate intorno alla campagna referendaria coronata da successo il 4 dicembre. Ma l’apprezzamento si arresta qui. Per il resto la sua iniziativa appare il vecchio tentativo di ricucitura di un ceto politico diviso, in vista della competizione elettorale. Come ricordano Anna Falcone e Tomaso Montanari (il manifesto, 6 giugno).

In tutta la condotta che ha caratterizzato la sua manovra nelle ultime settimane – soprattutto l’ambizione di ricomporre un centro-sinistra con il Pd di Renzi – mostrano una superficialità di lettura della situazione italiana sconcertante e drammatica. Ma come legge Pisapia, se non le tendenze di fondo del capitalismo degli ultimi 30 anni, la storia italiana degli ultimi 3 anni? Davvero Renzi è personaggio da confederare in un nuovo (?) centro-sinistra? E qui non voglio riferirmi alla persona.

Negli ultimi giorni, peraltro, i suoi ex alleati, da Alfano a Cicchitto, hanno aggiunto pennellate shakespeariane al ritratto del leader, campione di tradimenti e menzogne. I cattolici, quando sono inclini al cinismo, per una misteriosa chimica teologica, diventano imbattibili in materia.

Ma è più importante osservare la politica che egli ha condotto con il suo governo negli ultimi 3 anni. I cui risultati fallimentari sono facilmente osservabili nel ristagno sostanziale dell’economia, nella persistenza inscalfita della disoccupazione, nella crescita della povertà assoluta e relativa, nella crescente marginalità del Sud, nella riduzione delle risorse alla ricerca e all’Università.

Quello che stupisce in coloro che si ostinano a voler trascinare Renzi nella famiglia della sinistra è il non riuscire a vedere che dietro la facciata pubblicitaria del giovane condottiero c’è una politica non solo moderata, ma vecchia, la stessa che da anni sta condannando il Paese a una lenta consunzione.

E’ sufficiente esaminare tre iniziative strategiche del suo governo per comprendere che l’allora presidente del consiglio ha condotto delle politiche esattamente inverse alle necessità della fase storica attuale.

L’abolizione dell’Imu sulla prima casa – strizzata d’occhio ai ceti abbienti – ha accentuato la tendenza storica alle disuguaglianze sociali, quella ricostruita su grandi serie da Thomas Piketty, quella denunciata oggi persino dall’Ocse, come una causa rilevante della stagnazione economica internazionale.

Da noi la disuguaglianza ha una connotazione ancora più grave: essa si presenta come emarginazione delle nuove generazioni: disoccupazione, precarietà, lavoro gratuito, alti costi delle rette universitarie, scarse risorse per la ricerca, per il welfare delle giovani coppie (case, asili, scuole materne).Le figure che portano creatività, energia e spirito innovativo in ogni ambito della vita sociale vengono messe ai margini.

Ebbene su questo punto occorre oggi a sinistra una intransigente chiarezza. L’idea di una politica che raccolga i consensi dei ceti moderati è una vecchia pratica che può portare a qualche successo elettorale, ma che non va alla radice dei problemi. Alle famiglie dei ceti moderati occorre dire con coraggio, che senza una importante redistribuzione della ricchezza, senza un loro apporto economico al rilancio del Paese i loro figli e nipoti andranno via, l’esclusione sociale si accrescerà, L’Italia avrà un incerto futuro. E nessuno deve dimenticare che da noi la marginalità sociale si trasforma in humus per la criminalità grande e piccola.

Il secondo punto strategico riguarda il lavoro. Con il Jobs act Renzi ha continuato la vecchia politica di flessibilità del lavoro. E’ la stessa all’origine della crisi mondiale iniziata nel 2008. I bassi salari e la precarietà del lavoro negli Usa, surrogati dall’indebitamento delle famiglie per il sostegno alla domanda, costituiscono il modello di sviluppo che è rovinosamente crollato. E occorrerebbe ricordare che sul piano storico esistono le prove del fatto che la disponibilità di manodopera a buon mercato ritarda gli investimenti in innovazione tecnologica.

Ai primi del ‘900 i trattori hanno rapidamente conquistato le spopolate campagne degli Usa. In Italia la vasta presenza del bracciantato povero ha ritardato a lungo l’ingresso delle macchine in agricoltura.

Infine la Buona scuola. Può sembrare il punto strategicamente meno rilevante. Al contrario, è quello che mostra il provincialismo e l’arretratezza culturale del progetto di Renzi. Mandare i nostri studenti in qualche fabbrica a “fare esperienza”, è una battaglia di retroguardia. Riporta le lancette della storia all’età delle manifatture. Oggi i profitti capitalistici non sono assicurati da una qualche manovalanza ben addestrata, ma dalla creatività, dalla invenzione, dalla capacità di immaginare nuovi prodotti e servizi.

Serve cultura, sapere complesso, non abilità manuale ed esperienza aziendale. Anche sotto il profilo strettamente capitalistico è utile studiare Platone, piuttosto che assistere alla confezione degli hamburger da McDonald.

il manifesto, 6 giugno 2017

Siamo di fronte ad una decisione urgente. Che non è decidere quale combinazione di sigle potrà sostenere il prossimo governo fotocopia, ma come far sì che nel prossimo Parlamento sia rappresentata la parte più fragile di questo Paese e quanti, giovani e meno giovani, in seguito alla crisi, sono scivolati nella fascia del bisogno, della precarietà, della mancanza di futuro e di prospettive. La parte di tutti coloro che da anni non votano perché non credono che la politica possa avere risposte per la loro vita quotidiana: coloro che non sono garantiti perché senza lavoro, o con lavoro precario; coloro che non arrivano alla fine del mese, per stipendi insufficienti o pensioni da fame.

La grande questione del nostro tempo è questa: la diseguaglianza. L’infelicità collettiva generata dal fatto che pochi lucrano su risorse e beni comuni in modo da rendere infelici tutti gli altri.

La scandalosa realtà di questo mondo è un’economia che uccide: queste parole radicali – queste parole di verità – non sono parole pronunciate da un leader politico della sinistra, ma da Papa Francesco. La domanda è: «E’ pensabile trasporre questa verità in un programma politico coraggioso e innovativo»? Noi pensiamo che non ci sia altra scelta. E pensiamo che il primo passo di una vera lotta alla diseguaglianza sia portare al voto tutti coloro che vogliono rovesciare questa condizione e riconquistare diritti e dignità.

Per far questo è necessario aprire uno spazio politico nuovo, in cui il voto delle persone torni a contare. Soprattutto ora che sta per essere approvata l’ennesima legge elettorale che riporterà in Parlamento una pletora di “nominati”. Soprattutto in un quadro politico in cui i tre poli attuali: la Destra e il Partito Democratico – purtroppo indistinguibili nelle politiche e nell’ispirazione neoliberista – e il Movimento 5 Stelle o demoliscono o almeno non mostrano alcun interesse per l’uguaglianza e la giustizia sociale.

Ci vuole, dunque, una Sinistra unita, in un progetto condiviso e in una sola lista. Una grande lista di cittadinanza e di sinistra, aperta a tutti: partiti, movimenti, associazioni, comitati, società civile. Un progetto capace di dare una risposta al popolo che il 4 dicembre scorso è andato in massa a votare “No” al referendum costituzionale, perché in quella Costituzione si riconosce e da lì vorrebbe ripartire per attuarla e non limitarsi più a difenderla.

Per troppi anni ci siamo sentiti dire che la partita si vinceva al centro, che era indispensabile una vocazione maggioritaria e che il punto era andare al governo. Da anni contempliamo i risultati: una classe politica che si diceva di sinistra è andata al governo per realizzare politiche di destra. Ne portiamo sulla pelle le conseguenze, e non vogliamo che torni al potere per completare il lavoro. Serve dunque una rottura e, con essa, un nuovo inizio: un progetto politico che aspiri a dare rappresentanza agli italiani e soluzioni innovative alla crisi in atto, un percorso unitario aperto a tutti e non controllato da nessuno, che non tradisca lo spirito del 4 dicembre, ma ne sia, anzi, la continuazione.

«Il 18 giugno a Roma. È necessario uno spazio politico nuovo, ci vuole una sinistra unita e una sola, grande lista di cittadinanza aperta a tutti: partiti, movimenti, associazioni, comitati»

Un progetto che parta dai programmi, non dalle leadership e metta al centro il diritto al lavoro, il diritto a una remunerazione equa o a un reddito di dignità, il diritto alla salute, alla casa, all’istruzione. Un progetto che costruisca il futuro sull’economia della conoscenza e su un modello di economia sostenibile, non sul profitto, non sull’egemonia dei mercati sui diritti e sulla vita delle persone.

Un progetto che dia priorità all’ambiente, al patrimonio culturale, a scuola, università e ricerca: non alla finanza; che affronti i problemi di bilancio contrastando evasione ed elusione fiscale, e promuovendo equità e progressività fiscale: non austerità e politiche recessive. Un simile progetto, e una lista unitaria, non si costruiscono dall’alto, ma dal basso. Con un processo di partecipazione aperto, che parta dalle liste civiche già presenti su tutto il territorio nazionale, e che si apra ai cittadini, per decidere insieme, con metodo democratico, programmi e candidati.

Crediamo, del resto, che il cuore di questo programma sia già scritto nei principi fondamentali della Costituzione, e specialmente nel più importante: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3).

È su questa piattaforma politica, civica e di sinistra, che vogliamo costruire una nuova rappresentanza. È con questo programma che vogliamo chiamare le italiane e gli italiani a votare.

Vogliamo che sia chiaro fin da ora: noi non ci stiamo candidando a guidarla. Anzi, non ci stiamo candidando a nulla: anche perché le candidature devono essere scelte dagli elettori. Ma in un momento in cui gli schemi della politica italiana sembrano sul punto di ripetersi immutabili, e immutabilmente incapaci di generare giustizia ed eguaglianza, sentiamo – a titolo personale, e senza coinvolgere nessuna delle associazioni o dei comitati di cui facciamo parte – la responsabilità di fare questa proposta. L’unica adeguata a questo momento cruciale.

Perché una sinistra di popolo non può che rinascere dal popolo.

Invitiamo a riunirsi a Roma il prossimo 18 giugno tutti coloro che si riconoscono in questi valori, e vogliono avviare insieme questo processo.

il Fatto Quotidiano, 2 giugno 2017 (p.d.)

Porcellum, Italicum, Rosatellum (mai nato) e ora Tedeschellum. Professor Andrea Pertici, da costituzionalista ci spiega cosa ha in comune questa proposta di legge col sistema tedesco?

Nulla, tranne la soglia di sbarramento del 5%, se rimane. Mentre in Germania chi vince nel collegio uninominale viene eletto in Parlamento, nel caso italiano i candidati dell’uninominale non fanno altro che mettersi in fila per essere tra gli eletti del loro partito. E non sono neppure tra i primi. La priorità spetta al capolista del listino bloccato poi, eventualmente, il candidato arrivato primo nel collegio uninominale, seguono gli altri della lista bloccata, infine, se il partito ha ancora diritto a ulteriori seggi, passano i candidati dei collegi uninominali che non sono arrivati primi.

Quindi, come con il Porcellum e con l’Italicum, abbiamo sempre dei nominati in Parlamento?Esattamente. Sono tutti nominati e le liste bloccate sono addirittura due. Una evidente, che compare sulla scheda, cioè il listino, e l’altra formata dai candidati della lista per i collegi uninominali, all’interno di una circoscrizione.
Dunque, per il meccanismo che ci ha spiegato, le segreterie scelgono anche i numeri uno dei collegi uninominali, per controllare chi sarà eletto?
I primi di cui hanno cura sono i capilista del listino bloccato: anche se vanno in vacanza senza fare campagna elettorale, saranno eletti. Seguiranno i numeri 1 della parte uninominale, anche questi indicati dalle segreterie di partito.
Ma gli elettori cosa scelgono?
Scelgono il partito. Accanto al suo simbolo c’è il candidato uninominale, che cambia di collegio in collegio, dall’altra parte del simbolo c’è il listino bloccato uguale per tutta la circoscrizione.
Il Porcellum è stato bocciato dalla Consulta, l’Italicum idem. E il Tedeschellum ha recepito o ignorato quanto indicato dalla Corte costituzionale?
La cosa positiva è l’eliminazione dei premi di maggioranza, che la Consulta non reputa di per sé incostituzionale, ma sono a forte rischio quando assicurano sempre e comunque una maggioranza. Viceversa, è stata aggirata la necessità di non avere lunghe liste bloccate e di consentire agli elettori di scegliere gli eletti. Tanto è vero che perfino il candidato nel collegio uninominale anche se vince non ha certezza di entrare in Parlamento.
Dunque, ci risiamo? Si va di nuovo davanti ai giudici costituzionali?
Sulla incostituzionalità avrei qualche dubbio in più, il sistema valorizza molto poco il voto dell’elettore ma certamente dal punto di vista formale non c’è un’unica lunga lista bloccata ma una evidente e un’altra occulta, più corta.
Lei è stato chiamato alle audizioni parlamentari. Cosa aveva suggerito?
Un compromesso per valorizzare la rappresentanza e tenere ferma l’esigenza di stabilità di governo. In sostanza un sistema misto, in parte maggioritario e in parte proporzionale, che sembrava il preferito. Era venuto fuori il cosiddetto Rosatellum, non congegnato benissimo ma si poteva lavorare per perfezionarlo. Invece, si è abbandonato e si è intrapresa questa strada, sicuramente peggiore.
Qual è secondo lei la ratio di questa scelta?
La volontà di trovare una legge che passi rapidamente per assecondare una spinta al voto anticipato di cui non si comprende l’esigenza a questo punto, quasi finale, della legislatura.
E la fretta non porta a nulla di buono...
Mai. È una legge non in linea con il risultato del referendum costituzionale del 4 dicembre, quando gli italiani hanno ribadito che vogliono scegliere direttamente i propri rappresentanti.
La puntuale sacrosanta risposta del presidente del Consiglio di Stato alle arroganti critiche dei governanti incapaci e dei loro portavoce mediatici.

la Repubblica, 31 maggio 2017

«La politica deve occuparsi degli indirizzi generali del Paese e i giudici, quando sono chiamati in causa, devono vegliare che le politiche pubbliche siano attuate nel rispetto di tutti i cittadini ». Tono e linguaggio soft, ma il presidente del Consiglio di Stato Alessandro Pajno, a una settimana dall’affaire dei direttori dei musei, pianta molti paletti.

Renzi ha detto di aver sbagliato a non riformare i Tar. Era una pressione?
«La questione di fondo non riguarda solo i tribunali amministrativi, ma la tutela giurisdizionale nei confronti dell’esercizio del potere pubblico. Ammettiamo per un momento che i Tar potessero essere aboliti con un tratto di penna, e non consideriamo che dovremmo cambiare la Costituzione, e forse anche le norme della Carta dei diritti dell’uomo e della Convenzione europea. Se i Tar fossero aboliti dovrebbe necessariamente esserci un altro giudice che esercita il controllo esercitato prima dai tribunali amministrativi».
E quindi?
«Questo giudice potrebbe essere quello civile, il quale provvederebbe con i suoi modi e i suoi tempi di intervento. Giusto per citare un episodio di questi giorni il giudice del lavoro di Firenze ha sospeso il concorso per l’assunzione di 800 assistenti giudiziari, un concorso con 300mila domande, perché ha ritenuto discriminatoria la clausola di cittadinanza contenuta nel bando».
Repubblica, in un inchiesta su Affari e finanza, parla di «gigantesco labirinto di sospensioni e annullamenti».
«Credo che la giustizia amministrativa non si riconosca in queste parole. Non siamo “i giudici del no”. Sono tanti i casi di rigetto delle domande di sospensione di opere o investimenti pubblici. Vogliamo che le riforme trovino piena attuazione nel rispetto dei diritti dei cittadini. Questo vale anche per l’attività consultiva: i pareri del Consiglio di stato mirano ad attuare le riforme eliminando i possibili contrasti con le leggi e con i principi costituzionali. Possono esserci sentenze discutibili, come talvolta accade. Ed è per questo che esiste l’appello».
Vede un’insofferenza della politica verso i controlli?
«Osservo che talvolta si confonde il medico con la malattia. Si pensa che sia meglio intervenire sulla giustizia amministrativa, mentre la malattia sta soprattutto nella complicazione delle leggi, nella loro farraginosità, nella mancanza di qualità dell’amministrazione e talvolta nella difficoltà delle imprese ad accettare le regole di concorrenza negli appalti. Queste sono le vere patologie che andrebbero curate a monte».
Le leggi sono fatte male e la politica se la prenda coi giudici quando passano i ricorsi?
«Certamente non tutte le leggi sono ben fatte e lo ricorda anche Repubblica quando richiama i cambiamenti continui di quelle sugli appalti. C’è un problema di chiarezza, ma anche delle scelte di indirizzo generale che deve fare la politica. Il giudice amministrativo si occupa solo di atti e di provvedimenti. Che talvolta riguardano l’attuazione di scelte politiche. Il rischio è che il dibattito sulla giurisdizione sia la prosecuzione del dibattito politico, per cui ognuno richiama la propria posizione e non si esamina più la sentenza, bensì la scelta politica a monte. È successo per i musei, ma anche per gli appalti. Ci possono essere illegittimità, il che non significa che si neghi la necessità delle infrastrutture, ma solo che i diritti devono andare d’accordo con le procedure».
Sì, ma attenzione al “formalismo giuridico”e al “bizantinismo”. Per citare la battuta di Cottarelli “non si può morire di diritto amministrativo”.
«Non si muore di diritto amministrativo, si muore di bizantinismo. Bisanzio può riguardare sia la legge che le sentenze di qualsiasi giudice ordinario, amministrativo, contabile, il rischio c’è sempre. Il diritto amministrativo assicura di poter realizzare grandi servizi pubblici, interventi per sanità, istruzione e accoglienza, senza che i diritti dei cittadini restino sulla carta».
Le inchieste giudiziarie non rivelano una colpevole disinvoltura nei comportamenti di alcuni giudici?
«Il dovere di tutti è difendere le istituzioni, che si difendono anche facendo in modo che le inchieste abbiano il loro corso, vadano in fondo e lo facciano velocemente. Però bisogna evitare di mettere sotto processo le intere istituzioni accanto ai singoli casi. C’è bisogno di una riforma disciplinare, e lo dico da molto tempo. Ne vorremmo una più semplice, più efficace e norme che tipizzino gli illeciti. Comunque, non appena gli uffici inquirenti ci trasmetteranno le informazioni non coperte da segreto istruttorio eserciteremo l’azione disciplinare».

Gliultimi venticinque anni dovrebbero aver insegnato che la trasformazioneartificiale di minoranze in maggioranze finisce solo col costruire giganti coni piedi d’argilla – forti in Parlamento, deboli nella società». il manifesto,31 maggio 2017


Gliopposti veti incrociati stanno facendo convergere i partiti verso una leggeelettorale ispirata al modello tedesco, sia pure con negative modificazioni:sicuramente l’esclusione del voto disgiunto, che mira a concentrare i voti suipartiti maggiori; più difficilmente l’introduzione di un premio di maggioranzaalla lista che supera una certa soglia (il 40%).
Perdare un giudizio ponderato occorrerà, dunque, aspettare la definizione delladisciplina nei dettagli, ma a sinistra le prime reazioni sono già di segnodiverso. A quanto si legge sui giornali, mentre Sinistra italiana e Articolo 1guardano con interesse a quel che sta accadendo, Campo progressista manifestauna posizione nettamente critica. Coerentemente con la posizione favorevolealla revisione costituzionale renziana, Pisapia è ostile all’evoluzione inatto, perché – dice – la legge alla tedesca «condurrà molto probabilmente a ungoverno di larghe intese». Il governo di coalizione – l’inciucio! – eraesattamente lo spauracchio agitato da Renzi a sostegno della revisionecostituzionale che, unitamente all’Italicum, avrebbe finalmente dovuto dare alPaese un governo «la sera stessa delle elezioni».
Losforzo maggiore compiuto da chi, nei lunghi mesi della campagna referendaria,si è impegnato ad argomentare un voto consapevole in favore del No è statoproprio combattere la fallacia di questo argomento. Partendo dallaconstatazione oggettiva di una società divisa in tre grandi orientamentipolitici (Pd, M5S, destra), tutti oscillanti intorno al 30% delle preferenze,in ogni occasione si è ripetuto quanto risulti sterile «gonfiare», attraversomeccanismi maggioritari, un consenso elettorale minoritario facendolo diventaremaggioranza in Parlamento. L’antica ascendenza magica del diritto continua evidentementea farsi sentire, se in tanti, anche a sinistra, continuano a credere che unaformuletta (la formula elettorale) possa realmente trasformare una minoranza inmaggioranza: vale a dire, una cosa nel suo opposto.
Gliultimi venticinque anni dovrebbero aver insegnato che la trasformazioneartificiale di minoranze in maggioranze finisce solo col costruire giganti coni piedi d’argilla – forti in Parlamento, deboli nella società – privi dellacapacità di creare consenso popolare intorno alle decisioni imposte dentro ilPalazzo. Se guardiamo alla storia repubblicana, emerge con evidenza che ilmomento di massima governabilità – cioè il momento in cui la politica ha saputotrasformare la società più in profondità – si è avuto quando massima è stata lacapacità di rappresentare le articolazioni dell’elettorato. Dalla riforma dellascuola media (1962), alla istituzione del Servizio sanitario nazionale (1978) –passando per la nazionalizzazione dell’energia elettrica (1962), la previdenzasociale (1969), l’abolizione delle gabbie salariali (1969), i diritti deilavoratori (1970), il divorzio (1970), la legislazione sul referendum (1970),le Regioni (1970), la progressività fiscale (1974), il diritto di famiglia(1975), la legge urbanistica (1977), l’aborto (1978), la chiusura dei manicomi(1978) – si è assistito a provvedimenti assunti sempre allargando l’area dellamaggioranza, dapprima nella prospettiva dei governi di centro-sinistra, poi inquella del compromesso storico. Per individuare il momento in cui la storiarepubblicana imbocca la parabola discendente, occorre guardare al Congresso Dcdel 1980, con il noto preambolo che, riesumando la logica dell’esclusionepolitica, chiudeva l’esperienza voluta da Moro e Berlinguer e trasformava ilcentro-sinistra nel pentapartito.
Oggila società è divisa come, se non più, che nel dopoguerra. Le diseguaglianzesono profondissime: nonostante l’Italia sia ancora una delle dieci maggioripotenze economiche del mondo, è oramai al terzo posto in Europa per numero dipoveri. In questa situazione occorre riscoprire la valenza profonda dellafunzione parlamentare, che è far dialogare i diversi, non metterne uno incondizione di prevalere sugli altri. La legge deve tornare a essere il fruttodi una discussione volta a costruire il massimo consenso possibile intorno allesoluzioni prospettate, non l’imposizione – magari a colpi di decreti-legge – diuna parte sulle altre. Solo così si può sperare di riuscire a incidere davverosull’esistente.
Oggi,questa consapevolezza per molti è andata perduta. Una legge elettorale checostringa i diversi a dialogare può contribuire a farla riemergere. Per questoci siamo battuti, perché il 4 dicembre non si affermasse un sistemaistituzionale definitivamente basato sulla contrapposizione e sull’esclusione.

Ora,è il momento di iniziare a ragionare nella logica del dialogo edell’inclusione. Il cambio di paradigma culturale è sempre difficile, ancheperché difficilmente i risultati arriveranno a stretto giro. Ma chi fa politicadovrebbe sapere che seminare oggi è condizione per poter raccogliere domani.
«Se è vero che l'Italia è un laboratorio politico, è arrivato il momento per la sinistra di presentarne uno serio e credibile all'opinione pubblica, non da ultimo dandogli un nome e un volto».

il manifesto, 30 maggio 2017 (p.d.)

Nella settimana che dovrebbe mettere il sale sulla coda della legge elettorale, un patto siglato da Renzi, Berlusconi e Grillo, la sinistra procede a piccoli passi nella costruzione di una piattaforma, di un programma, di quei famosi dieci punti che in Francia come in Inghilterra e in Germania, le sinistra europee mettono in campo nella girandola elettorale in corso nel Vecchio Continente.

Lavoro, welfare, immigrazione sono all’ordine del giorno sul fronte di un’altra Europa contro l’asse Macron-Merkel-Renzi che alza la bandiera di aver fatto argine al pericolo populista. La domanda di una sinistra che possa riprendere voce, ruolo e rappresentanza nel panorama politico italiano abbonda, anche sulla base e sulla scia dei consensi che leader con o senza codino, giovani o anziani, ricevono nel panorama europeo. Una domanda per una prospettiva di alternativa, capace di innovare nella costruzione di una forza aperta ai cittadini chiamati a partecipare in modo diretto alla sua formazione. Né con un mi piace, né con il rito della cooptazione.

In Italia la famiglia della sinistra, laburista, libertaria e ecologista, si presenta come un arcipelago sopravvissuto alle eruzioni vulcaniche del suo elettorato, con il vasto consenso dei 5Stelle, con il renzismo, con la scissione di un pezzo del Pd, con la diaspora di Sel-Sinistra italiana. Se lo sbarramento della futura legge elettorale sarà il 5%, la sinistra ha di fronte un grande ostacolo che deve trasformare in un obbiettivo. Per uscire dall’angolo, e navigare in mare aperto rispetto a quel vasto elettorato, piuttosto esigente, che non ne può più di assistere disarmato al perenne duello tra Renzi e Grillo.

Questo governo che prima cancella un referendum con un decreto-truffa e poi resuscita i voucher per le aziende, dimostra una volta di più la sua natura neocentrista. E il Pd che ne è il perno va cercare accordi e consensi altrove, lontano da un mondo del lavoro che ha abbandonato al precariato, facendosi alfiere e baluardo di una politica fiscale che si fa scavalcare a sinistra da Bruxelles sulla tassa per la prima casa. Mille vertenze assediano ogni giorno il ministero dello Sviluppo economico di Calenda; i licenziamenti sono tornati in grande stile senza giusta causa; le università pubbliche stringono il rubinetto del numero chiuso perché mancano docenti e aule in un paese con il 40% dei giovani disoccupati.

Economicamente, socialmente e culturalmente il deserto italiano è profondo e certo non lo bonificherà da sola una forza di sinistra che sente la fatica di affrontare anche uno sbarramento del 5%. Certamente la natura intrinsecamente maggioritaria dell’intesa che si va profilando per le forze minori prefigura una strada tutta in salita (pur superando la soglia di sbarramento la sinistra rischia una rappresentanza parlamentare di tribuna e comunque forte sarà il richiamo al voto utile nei collegi). Grillo, Renzi e Berlusconi sembrano correre verso elezioni anticipate, i tre poli lavorano per mettere le basi di future maggioranze. Chi in stile Nazareno, chi in modalità pentastellata con maggioranze variabili. Mentre balla nei cieli del purgatorio una legge finanziaria che non si capisce quale governo sarà destinato a firmare.

Una lista di coalizione, a sinistra, si misura oggi con la capacità, la volontà interpretare le lotte sociali insieme a una parte forte del sindacato, la Cgil, in sintonia con un papa che su economia e lavoro parla chiaro e parla a tutti. Non mancano certo le carte per dare finalmente rappresentanza, identità e futuro a quei milioni di persone, italiane e straniere, che si sentono sole di fronte all’impoverimento, che soffrono l’esclusione sociale, che subiscono il bombardamento di una sottocultura dell’odio e del rancore, oltre che di un trasformismo perenne. Buone carte per un gioco difficile, truccato e diverse trappole da evitare. Il prevalere di vecchi riflessi condizionati nella corsa ai posizionamenti ideologici, la perniciosità di una certa pigrizia intellettuale, la tentazione di sommare spezzoni di gruppi parlamentari, l’afasia nella scelta della leadership.

Se è vero che l’Italia è un laboratorio politico, è arrivato il momento per la sinistra di presentarne uno serio e credibile all’opinione pubblica, non da ultimo dandogli un nome e un volto.

«Maurizio Landini (Fiom) - Il leader dei metalmeccanici Cgil contesta il ritorno dei voucher: ieri era il giorno del referendum poi saltato».

Il Fatto Quotidiano, 29 maggio 2017 (m.p.r.)

«Il 17 giugno intendiamo riempire piazza San Giovanni a Roma di lavoratori e di cittadini che manifestano per difendere la Costituzione, lo facciamo non per dividere ma per unire questo Paese partendo dalla convinzione, sancita nella nostra Carta, che attraverso il lavoro si afferma il diritto e la possibilità di vivere con dignità: la democrazia è sotto attacco». Il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, ritrova i toni delle grandi occasioni e chiama i lavoratori, i pensionati e tutti i cittadini a mobilitarsi. Il casus belli che riporta la Cgil in piazza dopo aver sperimentato la via legislativa con la raccolta delle firme ai banchetti per promuovere i referendum, è l’emendamento che il governo ha presentato sabato scorso nella manovra di aggiustamento dei conti pubblici all’esame del Parlamento. Una norma che reintroduce di fatto i voucher nei sistemi di retribuzione delle prestazioni lavorative anche nelle imprese. «Siamo davanti a un attacco alla democrazia - tuona Landini - perché con un imbroglio si è impedito alle persone di esprimersi e di decidere, come dice la Costituzione».

Oggi (ieri, ndr) si sarebbero dovuti celebrare i referendum chiesti dalla Cgil dopo aver raccolto 3 milioni di firme, vi sentite presi in giro?
«Non siamo noi ma il Paese intero a essere stato preso in giro, siamo di fronte a una logica da imbroglioni: il 21 aprile hanno emanato un decreto di abolizione dei voucher per superare il voto dei referendum, il presidente del Consiglio disse che lo avevano fatto per non dividere il Paese; il ministro del Lavoro promise poi che avrebbe aperto un confronto con le parti sociali, ma nessuna convocazione è arrivata e a metà maggio si inventano un emendamento di reintroduzione dei voucher infilandolo in una manovra sui conti pubblici».

La ministra Finocchiaro dice che non sono voucher e chi li chiama ancora così è un bugiardo.

«In realtà sono ancora peggio di quelli vecchi, quando li estendi alle imprese con meno di cinque dipendenti, che sono la stragrande maggioranza nel nostro Paese, si sta introducendo un’altra forma di lavoro che non è un contratto; non esistono le imprese occasionali, si tenta di tornare a una logica commerciale del lavoro, senza più diritti né tutele e senza possibilità di impugnare gli atti se serve. Un altro imbroglio come le famose “tutele crescenti” con cui dicevano di aver sostituito l’articolo 18».

Il segretario del Pd, Mattero Renzi, però se ne chiama fuori, dice che è una partita totalmente giocata dal governo.
«Stiamo assistendo a un balletto: in Commissione l’emendamento è stato presentato da parlamentari del Pd e si conferma che anche il governo Gentiloni e quello Renzi - che poi sono la stessa cosa - tutte le volte che fanno norme sul lavoro non ne discutono con nessuno e producono provvedimenti dannosi che aumentano la precarietà. Il Pd dice che va votato, addirittura con Forza Italia e con la Lega. La verità è che questi sono quelli dell’Ape e del Jobs act e che avevano detto che sarebbero andati via dalla politica e sono ancora lì a distribuire a pioggia un sacco di soldi pubblici».

Anche papa Francesco fa riferimento alla Costituzione per richiamare gli imprenditori a non soggiacere solo alla logica del profitto: è il sindacato che si fa ecumenico o viceversa?

«Certo è molto significativo che il Papa mandi da Genova un messaggio forte a favore della dignità e del valore sociale del lavoro proprio mentre in Parlamento una parte del Pd, all’opposto, fa questo provvedimento. Cgil e Fiom devono mettere al centro del loro impegno la democrazia e il lavoro come ci ha ricordato papa Francesco».

Cosa proponete a quei settori dell’economia che chiedono comunque una regolamentazione?

«Abbiamo depositato da tempo in parlamento la proposta di una Carta dei diritti, per ottenere uno statuto di tutte le forme di lavoro dignitoso e tutelato: pensione, salute, equa retribuzione, partecipazione alle scelte sono diritti non contrattabili».

Pare che il provvedimento avrà la strada spianata anche al Senato.
«La partita non è chiusa, ci appelliamo al presidente della Repubblica, alla Corte di Cassazione e alla Consulta perché intervengano e chiederemo, con una raccolta di firme che partirà nei prossimi giorni nelle piazze e in tutti i posti di lavoro, il rispetto dell’articolo 75 della Costituzione. Dobbiamo denunciare l’imbroglio e difendere la democrazia».

Se ci fossero solo onesti e capaci non servirebbero né leggi né tribunali Ma questo è il paese dei franceschini.

la Repubblica, Affari e Finanza, 29 maggio 2017

L'ultimo stop in ordine di tempo è arrivato giovedì scorso: due sentenze del Tar del Lazio hanno fatto saltare cinque delle venti nomine di direttori di grandi musei statali, mettendo a repentaglio una riforma che stava funzionando bene. Non c'è giorno o settimana in cui l'elenco degli altolà disposti in Italia dai giudici amministrativi di primo e di secondo grado non si arricchisca di un nuovo caso. Sotto la loro scure cadono uno dopo l'altro lotti stradali e concorsi pubblici, riforme bancarie e lavori di messa in sicurezza di scuole e ospedali, bonifiche di terreni e assunzioni di infermieri.

Rafforzare il personale che lotta ogni giorno contro l'evasione fiscale è cosa buona e giusta: peccato che negli ultimi tredici anni il Tar del Lazio e il Consiglio di Stato abbiano bloccato o sospeso tutti e tre i concorsi che l'Agenzia delle Entrate aveva disposto per assumere centinaia di dirigenti. Basta avere un po' di buon senso per capire che le mastodontiche navi da crociera non devono passare a pochi metri da Venezia, ma basta una pronuncia del Tar del Veneto all'inizio del 2015 per annullare l'ordinanza con cui la Capitaneria di Porto aveva limitato il loro passaggio nel canale della Giudecca e nel bacino di San Marco. Valorizzare o quanto meno evitare che cada a pezzi il nostro patrimonio storico-artistico è un impegno difficilmente contestabile. Eppure capita che all'inizio del 2016 il Tar della Campania sospenda i lavori nella "Regio I" di Pompei in seguito al ricorso di un'azienda esclusa dalla gara, e che li sblocchi solo quest'anno, guarda caso pochi giorni dopo il crollo del muro di una delle Domus romane.

L'Osservatorio Nimby Forum (dove Nimby è l'acronimo inglese per lo slogan "non nel mio cortile") ha calcolato che più di un terzo delle 342 opere bloccate in Italia ha ricevuto almeno uno stop da Tar e Consiglio di Stato: si tratta di 122 impianti finiti nelle sabbie mobili dei ricorsi. Al primo posto, nell'elenco dell'Osservatorio, gli impianti energetici, seguiti da termovalorizzatori e biodigestori per i rifiuti, da strade e ferrovie per le infrastrutture. Il 37% di queste opere sono ferme da più di quattro anni.

Morire di diritto
L'immagine di un'Italia bloccata dalla giustizia amministrativa, dove non solo le opere pubbliche ma quasi ogni decisione politica è condannata a restare sospesa per anni o decenni, non è certamente nuova. Già qualche anno fa era una visione così nitida da indurre un politico misurato come Romano Prodi ad affermare, neppure troppo provocatoriamente, che l'abolizione dei Tar e del Consiglio di Stato avrebbe favorito la crescita del Pil. "Non possiamo morire di diritto amministrativo", scrive nel suo libro La lista della spesa l'ex commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, sfiancato dalla gragnuola di veti e ricorsi piovuti su ogni atto politico. In realtà, non è un problema che si possa risolvere con una semplice sforbiciata. Non è possibile privare i cittadini del diritto di difendersi dai possibili abusi della pubblica amministrazione: missione affidata appunto ai giudici amministrativi. L'obiettivo è salvaguardare questo diritto senza tuttavia bloccare l'economia di una intera nazione, senza creare quello stato di incertezza che paralizza imprese e famiglie e allontana gli investimenti esteri.

Finora però non è andata così: assistiamo tutti i giorni a occasioni di sviluppo sacrificate sull'altare del più astratto formalismo giuridico, del bizantinismo più esasperato. Malgrado i progressi realizzati negli ultimi anni, i ricorsi pendenti presso Tar e Consiglio di Stato sono ancora una massa enorme, quasi 240 mila nel 2016, con forte concentrazione al Sud, e quelli nuovi si mantengono ben sopra la soglia dei 60 mila annui raggiunta nel 2012 e poi addirittura superata. Sui tempi della giustizia amministrativa, il presidente del Consiglio di Stato, Alessandro Pajno, ricorda che molto è stato fatto per ridurli: "Tra il deposito del ricorso e la prima decisione collegiale passano oggi 200 giorni, contro i 700 del 2010". Ed è di comune dominio la convinzione che la giustizia amministrativa sia comunque più veloce di quella civile. Più veloce eppure in assoluto ancora lentissima: secondo il Justice Scoreboard della Commissione europea, edizione 2017, se si tiene conto delle liti pendenti, ci vogliono mille giorni in Italia, ossia quasi tre anni, per arrivare alla fine del primo grado di giudizio amministrativo, un record in Europa. In Svezia, Ungheria, Bulgaria, Slovenia e Polonia bastano cento giorni. In Francia e Germania meno di 500.

A colpi di sospensive
Insomma, il fenomeno da noi presenta ancora tutti i crismi della emergenza. Ormai non c'è concorso pubblico, non c'è gara di appalto senza almeno un ricorso da parte di chi è stato escluso. E dal ricorso non di rado si passa alla sospensione temporanea da parte del Tar (che può durare anche mesi), cosicché quando arriva il giudizio (anche se è positivo) spesso è troppo tardi. Senza contare che poi si dovrà aspettare il verdetto del Consiglio di Stato che potrà sempre ribaltare la decisione del Tar. "La giustizia amministrativa è al timone della politica industriale del nostro paese - commenta Alessandro Beulcke, presidente dell'Osservatorio Nimby Forum - E' questo il dato che emerge dalle nostre rilevazioni. Riportare in seno al governo le decisioni sui progetti di interesse nazionale è la soluzione che da tempo invochiamo, come viatico per la semplificazione degli iter autorizzativi e per la riduzione dei contenziosi tra Stato e Regioni. La riforma del Titolo V della Costituzione - continua Beulcke - avrebbe rappresentato, da questo punto di vista, uno strumento potente in grado di realizzare una maggiore certezza del diritto, a beneficio di imprese, istituzioni e territori".

Ultimamente, soprattutto con il governo Renzi, si è cercato di porre un freno alla possibilità di aziende e privati di appellarsi ai Tar, e anche al potere dei tribunali stessi di sospendere i lavori più urgenti. Eppure, non si riesce ancora a porre fine ai casi di paradossale formalismo giuridico. Come quello raccontato da Giavazzi e Barbieri nel loro libro I signori del tempo perso.

Dal Palladio a Pompei
Bassano del Grappa, agosto 2015: il ponte degli Alpini, progettato alla fine del Cinquecento da Andrea Palladio, rischia di sgretolarsi. Governo e Regione Veneto stanziano 3,7 milioni per i lavori. Un'azienda di Treviso vince l'appalto, ma siccome una ditta della stessa cordata non riesce a farsi dare in tempo tutti i documenti dalla prefettura, l'incarico viene affidato alla seconda arrivata. L'impresa trevigiana fa ricorso ma il Tar del Veneto non dà la sospensiva. Inizio lavori previsto per il 2 maggio 2016. Nuovo ricorso al Consiglio di Stato che a sorpresa blocca i lavori almeno fino al giudizio di merito del Tar. Il quale alla fine dà ragione alla prima azienda. E' passato più di un anno, il ponte per fortuna non è crollato ma avrebbe avuto tutto il tempo per farlo. Così come invece è accaduto, dopo un anno di veti e contro-veti, al muro della Domus del Pressorio di Pompei.

Il nuovo codice appalti dovrebbe d'ora in poi impedire casi come questi, ma tra il dire e il fare c'è di mezzo come sempre l'interpretazione giuridica. E così, come spiega il presidente dell'Anac Raffaele Cantone, ci sono imprese che ricorrono al Tar solo perché puntano ad avere con il risarcimento danni per l'esclusione da un lavoro, più di quanto avrebbero ottenuto realizzandolo. E cita una grande impresa del Nord che, seguendo questa strategia, è stata risarcita con 21 milioni.

Le proposte di Bankitalia


Con il proliferare dei ricorsi, ogni atto politico o amministrativo viene congelato nel freezer dell'indecisione. La stessa Banca d'Italia, in una recente audizione, si domanda se la giustizia amministrativa sia un fattore di blocco dello sviluppo economico del nostro paese. "La risposta - spiega il direttore generale Salvatore Rossi - non può essere netta né generale, ma l'impressione che a volte ciò accada è fondata". E tra i rimedi, suggerisce un uso più rigoroso delle condanne alle spese di giudizio e a quelle per liti temerarie. Nel frattempo, però, la lista degli "stop and go" (in realtà più stop che go) si infittisce di mese in mese.

Infermieri e 007 del fisco


Nel regno immobile dell'Altolà entra di tutto, grandi e piccole opere: dalle fogne di Marsala ai lavori sul torrente Bisagno (quello dell'inondazione di Genova), dalla costruzione del polo oncologico San Matteo di Pavia all'espianto degli ulivi per il via libera al gasdotto in Puglia. Fino al lotto della strada Olbia-Sassari, la cui aggiudicazione è stata annullata appena un mese fa. Quando non sono le opere pubbliche ad essere sospese o cancellate, lo sono le assunzioni, come quella di 40 infermieri per il Policlinico Umberto I di Roma nel luglio 2016, o quella di 34 impiegati alla Regione Umbria nel marzo scorso. E in tema di personale non si può non ricordare la beffa subita dall'Agenzia delle Entrate, che, come si diceva all'inizio, ha visto andare in fumo tutti e tre i concorsi disposti negli ultimi 13 anni, uno addirittura il giorno prima degli orali. Nello stesso periodo l'Agenzia delle Dogane ha dovuto ingoiare l'annullamento di quattro dei cinque concorsi decisi. In tutto, sono rimasti così scoperti 1.257 posti di dirigenti di seconda fascia. Con buona pace della lotta all'evasione, dei controlli sulle accise alle dogane, di quelli sui giochi e sui tabacchi.

Alle decisioni sulle materie più o meno strategiche, si accompagnano poi migliaia di micro-verdetti talvolta bizzarri, come la sospensione del divieto di attività dei centurioni nel centro di Roma, o come lo stop all'ordinanza con cui il Comune di Cervo Ligure aveva disposto l'abbattimento dei cinghiali. E così questo gigantesco labirinto nonsense fatto di ricorsi, sospensioni e annullamenti acquista anche un carattere grottesco.

La riforma che non arriva


Difficile pensare che in tutte le loro sentenze, i 490 giudici di Tar e Consiglio di Stato abbiano sempre le mani legate dall'obbligo di un rigido rispetto delle leggi, che non dispongano di un certo grado di discrezionalità che consenta loro di evitare effetti paralizzanti sull'economia di un intero paese. Al di là delle responsabilità personali nel sospendere un'opera salva-vita o un'assunzione urgente di infermieri, il vero buco nero sembra risiedere in un sistema giuridico che ha ormai spezzato ogni legame con la realtà, con i bisogni di famiglie e imprese, con le aspirazioni di crescita del nostro paese. Da anni si annuncia una riforma della giustizia amministrativa che non riesce mai a vedere la luce, a uscire dai cassetti degli uffici legislativi dei ministeri. Uffici guidati spesso in tutti questi anni dagli stessi giudici amministrativi del Consiglio di Stato, distaccati al governo. E alla fine tutto resta fermo.
Insomma, parafrasando lo sfogo di Carlo Cottarelli, qui rischiamo di morire tutti di diritto amministrativo.
Silvia Truzzi intervista Paul Ginsborg, il professore che animò i Girotondi: «Solo le posizioni neoliberiste hanno cittadinanza». La nuova legge elettorale è la premessa di un governo renzusconiano: due facce della stessa medaglia.

il Fatto quotidiano, 29 maggio 2017

Se gli domandi di quest’ennesima ritrovata giovinezza di Berlusconi, ti risponde: “Questo ritorno al passato mi fa impressione. Anche molta rabbia. La stampa italiana non ha imparato la lezione, purtroppo. E nemmeno la borghesia, che si è omologata. L’unica posizione che ha cittadinanza ormai è quella neoliberista”. Paul Ginsborg, storico inglese ormai naturalizzato italiano (vive a Firenze da oltre 25 anni), è un uomo mite ma appassionato. Non per nulla il suo ultimo libro, scritto a quattro mani con il filosofo Sergio Labate, s’intitola Le passioni e la politica (Einaudi).

Professore, ci sarà di nuovo un governo di larghe intese con Pd e Forza Italia con i Cinque stelle all’opposizione?

«Sì, credo sia più che possibile. Non dimentichiamoci che Berlusconi non ha mai fatto mistero di considerare Renzi il suo figlio politico. E ricordiamo anche la visita pastorale di Renzi ad Arcore: allora tutti lo criticarono, ma lui come sempre tirò dritto per la sua strada. Mi colpisce molto che non esistano in circolazione foto dei due insieme. E dire che il segretario del Pd è sempre pronto ad abbracciare tutti. Questa “clandestinità” mi fa pensare che stiano già trattando alleanze di governo. Il leader della sinistra non mette insieme il ceto medio, cerca di separarlo. Ed è molto grave».

Perché?
«Il ceto medio in Italia è stato trattato come carne da macello dalla politica, usato e abbandonato. Oggi rappresenta una parte di società arrabbiata, per via della disoccupazione e dell’impoverimento. A queste persone nessuno sa dare risposte, nemmeno i Cinque Stelle. Non credo che potranno farlo neanche D’Alema e Pisapia. Il ceto medio è stato indebolito, e non solo economicamente. Intendo anche da un punto di vista culturale, sociale e politico. I partiti hanno usato alcune rivendicazioni e alcuni movimenti finché ha fatto loro comodo. Ricordo che Fassino si presentò alla manifestazione dei girotondi, dove i partiti non erano invitati, e si mise a firmare autografi. Oggi quando D’Alema cita “i comitati del No al referendum di Zagrebelsky” fa la stessa cosa: un’operazione opportunista e senza contenuti. Invece di riconoscere che esiste una società civile che va incoraggiata a crescere, cerca di risucchiarla. È un grande segno di miopia».

Come potrà un elettore del Pd che per lustri ha fatto la guerra a Berlusconi votare il suo partito sapendo che probabilmente si alleerà proprio con Berlusconi?
«Io vivo in Toscana e vedo quotidianamente quanta accondiscendenza c’è verso il leader, verso tutto ciò che viene dall’alto. Lo spirito critico difetta. Ma non stupiamoci, è un atteggiamento che viene da lontano: “Compagni, è cambiata la linea!”, il caro vecchio centralismo democratico. Penso che ci siano elementi di ubbidienza cieca, passati dai padri ai figli».

Perché gli intellettuali tacciono?
«Dirò una cosa antipatica: in tanti settori – della cultura, alla giustizia e alle professioni – tutto passa attraverso il potere. Se il Pd esercita un dominio vasto, si aspetta e ottiene fedeltà. In Inghilterra le risorse che la politica può distribuire sono molto meno».

Tutti tengono famiglia?
«L’altra sera ho detto a mio figlio maggiore: “Ben, ho sbagliato tutto. Avrei dovuto essere un padre ‘clientelare’, utilizzare i miei contatti per sistemare i miei figli”. E lui mi ha detto: “E’ vero, babbo. Così se Bossi aveva il Trota, io potevo essere il tuo Merluzzo”. Scherzi a parte, credo che la situazione sia tristemente e banalmente questa: la maggioranza teme di inimicarsi chi ha – o anche potrebbe avere – il potere».

In Europa il premier che attirava sorrisini, ora diventa un fattore di stabilizzazione, benvenuto agli appuntamenti del Ppe. Come è possibile?
«In Europa la situazione è disperata: non possono rischiare altre “exit”. Anche se Renzi porta il partito di Berlusconi al governo, proveranno a digerirlo. Siamo in buona compagnia, del resto: basta pensare al premier ungherese, ben peggio di Berlusconi. Credo però che Berlusconi continuerà ad avere un peso, ma resterà defilato».

Non può neanche candidarsi!
«Dopo il fallimento del rinnovamento a sinistra negli anni Novanta, bisogna essere onesti e dire che non c’è molta differenza tra le politiche neoliberiste di Berlusconi e quelle di Renzi.

Come vede le elezioni in ottobre?
«Non c’è un altro Paese come l’Italia fissato su quando e come si vota. La discussione sulla legge elettorale è stupefacente per uno straniero. Credo che Renzi voglia tornare al potere il prima possibile. Credo che non dorma la notte nel timore che il potere gli scivoli dalle mani. In politica le cose cambiano con eccezionale rapidità: Harold Wilson, un premier inglese degli Anni 60, diceva che “una settimana in politica è un tempo lunghissimo”».

« I leader del G7 non sono riusciti a impegnarsi su una visione comune sul tema della migrazione. ancora una volta l’attenzione si è spostata sui temi della sicurezza e del controllo delle frontiere».

il manifesto, 28 maggio 2017 (m.p.r.)

Tanta paura per niente. La marcia dei No G7 contro i potenti della terra, protetti da misure straordinarie di sicurezza in una Taormina blindata e inaccessibile, s’è svolta in modo colorato e pacifico. Un fiume di magliette rosse, 7mila persone secondo gli organizzatori, ha sfilato per le strade dei Giardini Naxos in modo composto. Chi ha creato ad arte la psicosi dei black bloc, inducendo i commercianti a fortificare le saracinesche dei negozi con lastre di legno e in alcuni casi di ferro, è stato sbugiardato da un movimento che ha manifestato il proprio dissenso verso le politiche anti-migranti e anti-ambientali con toni duri, ma senza degenerare in violenza.

Solo verso la fine del corteo, un gruppetto di una trentina di manifestanti, tra l’altro a volto scoperto e senza brandire armi bianche, s’è avvicinato alla zona rossa. A quel punto, la polizia in tenuta antisommossa ha caricato, lanciando fumogeni per disperderli. Il contatto è durato qualche minuto, poi è tornata la calma. Soprattutto per merito degli stessi manifestanti che sono intervenuti per bloccare chi aveva dato modo alle forze dell’ordine di reagire.

Per i manifestanti i dispositivi di garanzia dell’ordine pubblico messi a punto dal Ministero degli Interni in realtà hanno svelato «la volontà politica di instaurare un clima di terrore e criminalizzare chi si fa portatore di istanze di giustizia sociale e rivendica i diritti fondamentali costantemente lesi in una società strutturalmente corrotta e iniqua».

Prima di muoversi il corteo, al quale ha preso parte anche il sindaco della città metropolitana di Messina Renato Accorinti, ha solidarizzato con i manifestanti provenienti da Cosenza che sono stati bloccati a Villa San Giovanni dalle forze dell’ordine.

Per il movimento No G7 «sono stati tanti i tentativi di ridurre la presenza in piazza e di smorzare l’entusiasmo», a cominciare dalle perquisizioni, dai fogli di via, dagli avvisi orali nei confronti dei decine di giovani dei centri sociali di varie città.

Alcune attiviste sono state fermate e condotte in questura a Messina per essere identificate mentre partecipavano a un’assemblea pubblica. E a poche ore dall’inizio del corteo pullman di manifestanti provenienti da Napoli e dalla Calabria sono stati fermati a Villa San Giovanni per l’identificazione. Bloccati anche pullman partiti da Palermo e Catania.

Per il G7 sono stati schierati a Taormina oltre 7mila uomini delle forze dell’ordine, oltre a 3mila militari a supporto dei dispositivi di sicurezza per il vertice, trasformando la città in una zona blindata, limitando anche la libertà di movimento della popolazione. Persino per poter fare la spesa è stato necessario sottoporsi a controlli e a passaggi nei metal detector piazzati ovunque.

Per Save the Children i leader del G7, pur riunendosi in un luogo simbolico come la Sicilia, cuore del flusso migratorio del Mar Mediterraneo, non sono riusciti a impegnarsi su una visione comune sul tema della migrazione. Perché ancora una volta l’attenzione si è spostata sui temi della sicurezza e del controllo delle frontiere, «pregiudicando fortemente il primo dovere che è quello di proteggere i bambini dalla violenza, dagli abusi e dallo sfruttamento, incluso il traffico dei minori». L’opportunità persa del G7 significa che a pagarne il prezzo saranno 28 milioni di bambini che sono stati costretti a lasciare la propria casa, fuggendo dalla guerra e dalle violenze.

«I leader del G7 non sono stati all’altezza delle aspettative sia sulla migrazione che sull’educazione, la sicurezza alimentare e la nutrizione. Questo vertice finisce oggi lasciandosi alle spalle milioni di bambini vulnerabili. Siamo delusi perché i leader hanno semplicemente riaffermato principi esistenti senza assumere nuovi impegni», ha denunciato Egizia Petroccione, portavoce di Save the Children.

Perchè in Italia la piazza non ha protestato contro la visita di Trump, e anzi la polizia ha fermato tre pacifisti che tentavano di aprire uno striscione di protesta? Molte risposte ragionevoli, più convincente quella di Gad Lerner.

il manifesto, 26 maggio 2017

«Movimenti. In Italia niente piazze contro la visita del presidente del riarmo, a sinistra cade un altro tabù. Movimenti deboli o infine maturi? L’autocoscienza di quelli che manifestazioni stavolta no. "Siamo deboli e divisi, siamo ripartiti dai nostri territori, che però ora sono la nostra gabbia". Gad Lerner: "Il vero corteo antiDonald? Quello di Milano, era il futuro"»

Il raggio laser verde proiettato da Greenpeace sul Cupolone: «Planet earth first». Tre pacifisti della Rete No War fermati per aver tentato di aprire uno striscione davanti al corteo delle auto blindate (uno di loro è una collaboratrice del manifesto, Marinella Correggia, le è stato consegnato il foglio di via, Sinistra italiana ha presentato un’interrogazione parlamentare sul caso). Qualche decina di statunitensi residenti in Italia riuniti in una piazza a cantare «Imagine». Il bilancio delle manifestazioni della Capitale nel giorno della visita di Trump è tutto qua.

Ieri a Bruxelles, dove il presidente Usa è volato subito dopo la tappa romana, erano in 10mila contro di lui. A casa sua, negli Usa, i democratici continuano a contestarlo per le strade. Ma allora che succede ai pacifisti, ai democratici italiani? Succede una cosa impensabile finora, che la sinistra italiana non ha più voglia di contestare un presidente che ha sganciato «la madre di tutte le bombe»?

La domanda non nasce dalla nostalgia del vecchio «yankee go home». Nessuno – tanto più dopo gli anni di Obama – è orfano dell’«antiamerikanismo». Ma orfano della sinistra, forse? No, spiega Lidia Menapace, partigiana poi storica antimilitarista, «il fatto è che Trump non è credibile. Siamo tutti preoccupati per quello che sta facendo, ma il personaggio è al di sotto di qualsiasi interlocuzione. Sarebbe inutile mettersi lungo la strada a gridargli contro». Dunque non averlo fatto non è la dimostrazione che la sinistra italiana è irrimediabilmente a terra? La risposta è lapidaria: «Questo è il solito riflesso condizionato autolesionista. Della sinistra».

E però la sinistra radicale ha vissuto male l’assenza dalla piazza. «Certo, sabato scorso abbiamo fatto la splendida manifestazione contro i muri a Milano, ora siamo concentrati in quelle contro il G7 di Taormina. Ma è inutile nascondersi dietro un alibi organizzativo: lasciare liberamente scorrazzare Trump per Roma è stato un segno di debolezza politica», riflette Giovanni Russo Spena, decenni di battaglie garantiste e pacifiste, oggi grande saggio della Rifondazione comunista. «Ne abbiamo parlato fra noi, ci siamo sforzati di capire. È successo che siamo ripartiti ’dal basso’, dai territori, e abbiamo fatto bene. Ma il rischio è che ora i territori diventino gabbie; domenica scorsa abbiamo fatto un corteo bello e difficile per il rogo delle tre ragazzine rom di Centocelle. E però contro Trump non siamo riusciti a costruire mobilitazione». Più sconfortata Luisa Morgantini, altra ’storica’ del movimento nonviolento, fondatrice delle ’Donne in nero’, negli anni 80 srotolò dal Colosseo un lunghissimo striscione contro Reagan. Mercoledì, sfortuna voleva, era immobilizzata a casa per un problema di salute. Ma non è questo il punto. «Siamo divisi, immersi nelle nostre battaglie come in scatole chiuse. Noi per i 1600 palestinesi in sciopero della fame, altri per la causa curda, altri per altre buone cause. Siamo inaciditi, spezzettati, incapaci anche solo di confrontarci con le nostre differenze. Ci vorrebbe una rivoluzione profonda, dentro di noi».

«Ma che volete dai pacifisti?» Giulio Marcon un po’ contesta la domanda. Oggi è capogruppo alla Camera di Sinistra italiana alla quale è arrivato dai movimenti disarmisti. «Ogni volta che si manca un appuntamento arriva la stessa domanda. Non è da una piazza mancata che si misura l’opposizione alla follia del riarmo. Siamo pochi e mobilitati su mille fronti. Il 2 giugno saremo a Roma, a Castel Sant’Angelo, contro la parata militare. E ogni giorno facciamo mille iniziative, più o meno grandi ma preziose. Il pacifismo è diventato un movimento più maturo, non siamo né impotenti né timidi».

E invece «è un fatto grave» per Massimiliano Smeriglio, oggi nella sinistra ’di governo’ ma un passato sulle barricate romane, manganellate prese per Bush senior. «Avere in Italia il campione del populismo reazionario e razzista e non avere avuto forme diverse di contestazione deve aprire una riflessione senza sconti per tutte le sinistre, rancorose e impegnate tutti i giorni a stigmatizzare il nemico su social di cartone dove l’autoreferenzialità la fa da padrona». L’assenza di mercoledì scorso «testimonia la fragilità dei nostri contenuti, degli insediamenti sociali. E anche della voglia di battersi e confliggere quando serve. Dobbiamo guardare in faccia questa situazione drammatica. Prima lo faremo, con più umiltà e meno slogan, e prima saremo in grado di rimetterci in marcia. Alla svelta, prima di perdere il rapporto con il paese reale. Sia chiaro: in questa situazione non si salva nessuno, né radicali né riformisti».

Perchè in effetto va detto, i primi a mancare dalla piazza sono stati i cosiddetti «riformisti» e cioè i democratici italiani, ’fratelli’ di quelli americani che negli Usa si battono contro Trump. Ma il gesto di fratellanza non è venuto in mente a nessuno: il Pd, anche la sua ’base’, è affaccendato in tutt’altro. E comunque, spiegano «avremmo dovuto mettere in difficoltà il presidente del consiglio Gentiloni che lo incontrava a Villa Taverna?». E chi avrebbe dovuto farlo, forse i grillini che di Trump pensano che tutto sommato sia un modello di populismo autarchico tutt’altro che detestabile, e contestabile?

Gad Lerner invece rovescia tutto il ragionamento. Il giornalista e conduttore televisivo ( domenica sera alle 22,50 su Raitre va in onda Operai, sua inchiesta in sei puntate) un passo alla volta smonta il discorso degli altri: «La sinistra non è andata in piazza perché è dominata dal provincialismo, dalla perdita della sua dimensione internazionalista, è immersa negli psicodrammi delle sue divisioni e non riesce a sollevare lo sguardo più in alto». «Ed è anche vero che il riferimento internazionale delle destre ormai è Putin, non il presidente americano. Il suo ruolo si è ridimensionato, nonostante tutto. Nonostante lo abbiamo visto a Riad affidarsi ai dittatori per battere il terrorismo, abbiamo pensato che non è affar nostro. La sinistra ormai fa la stessa cosa anche nel mondo degli operai: difende il proprio territorio, la propria fabbrica, oltre non sa vedere».

Eppure «non ho nostalgia del vecchio antimperialismo, anzi», continua, «la vera manifestazione antiTrump è stata quella di sabato scorso a Milano: una Milano metropoli cosmopolita. Il corteo, enorme, era composto per la metà di immigrati, con o senza permesso. Le vere protagoniste erano le comunità, filippini, cinesi, equadoregne, africane. Raccontavano una metropoli, anzi una sinistra già innervata della sua anima futura». E forse allora davvero è meglio così, meglio aver evitato il rito della piazza “antiamerikana”, con il rischio delle solite sfide muscolari fra polizia e militanti. Perché «Trump non è più il gendarme del mondo. Abbiamo molti Trump europei da combattere. E a Milano a questo abbiamo dato una prima risposta positiva».

«C’era anche la “criminalità del potere”. Quei segmenti della classe dirigente (politica e imprenditoriale) della massoneria che con la mafia intrattengono rapporti occulti di reciproco interesse». il Fatto Quotidiano, 24 maggio 2017 (p.d.)

La storia di Giovanni Falcone è nota. Si può sintetizzare contrapponendo una giusta gloria post mortem, agli ostacoli – seminati con iniqua strategia – che lo intralciarono in vita. Vediamone alcuni.

Si sostiene che il Csm avrebbe violato le regole se avesse nominato a capo dell’ufficio istruzione (dopo Caponnetto) Falcone invece di Meli. Falso. Oltre alla regola gerontocratica dell’anzianità – che premiò Meli ancorché fosse digiuno di processi di mafia – ne vigeva un’altra. Quella della professionalità (o delle attitudini specifiche), stabilita dal Csm con circolare del 15 maggio 1986 espressamente riferita agli uffici di “frontiera antimafia”. La regola difatti fu applicata per la nomina del Procuratore di Marsala, preferendo Borsellino a un magistrato più anziano ma inesperto di mafia. Poi fu inaspettatamente calpestata per Falcone. Con un corredo indecoroso di giravolte e tradimenti.
Tra le accuse più insinuanti scagliate contro Falcone, per infangarlo e delegittimarlo, c’era quella di “protagonismo”. Nominare lui sarebbe stato un affronto a tutti i magistrati che ogni giorno sfangavano in silenzio. Un falso (strumentale), che ricorda la storia di quando le donne portavano il velo. Allora erano tutte belle, ma quando il velo cadde si cominciarono a constatare delle differenze. Un po’ quel che è successo per la magistratura. Quando i giudici non davano “fastidio”, erano tutti bravi e buoni. Ma quando hanno preso a dare segni di vitalità e indipendenza, “pretendendo”di esercitare il controllo di legalità anche verso obiettivi prima impensabili, ecco scatenarsi le accuse di protagonismo.
Una variante è l’accusa di gigantismo: aver costruito un “maxi-processo”per la smodata ambizione di attirare la massima attenzione e finire sempre più spesso sotto i riflettori. Falso. Il processo era “maxi” in quanto vergognosamente “maxi” era l’impunità di cui Cosa Nostra aveva goduto per decine e decine di anni, qualche migliaio di delitti, centinaia e centinaia di capi e “picciotti”. L’emergere, una buona volta, di questa “montagna di merda” (copyright Peppino Impastato), ebbe come logica e obiettiva conseguenza un processo grande come una montagna. Maxi, appunto.
Falcone era nel mirino di Cosa Nostra da sempre. Sapeva che sarebbe stato ucciso, ma non ha mai smesso di fare il suo dovere. La situazione precipita per il combinato effetto di due fattori, ciascuno esiziale per Cosa Nostra: la conferma definitiva delle condanne del maxi in Cassazione (prima specializzata nel praticare “l’ammazza-sentenze” di mafia); le iniziative che Falcone aveva avviato sfruttando le opportunità del lavoro ministeriale, con l’obiettivo di estendere a tutto il territorio nazionale i parametri – specializzazione e centralizzazione – sperimentati a Palermo. Creando un’antimafia moderna (Procura nazionale e relativa banca dati; Procure distrettuali; Dia; legge sui pentiti; 41 bis) che funziona ancora oggi.
Alla “novità” della Cassazione e alla “ostinazione” di Falcone (cacciato da Palermo perché si occupasse d’altro, ma per nulla disposto a mollare) la mafia reagisce con rabbiosa ferocia. Prima l’omicidio Lima, accusato di non aver saputo impedire la pessima conclusione del processo. Poi le stragi. Una rappresaglia contro Falcone (e Borsellino) per i risultati devastanti del maxi. Nello stesso tempo, un monito sanguinario contro chi volesse riprendere il loro metodo di lavoro.
Ma Falcone e il pool non erano odiati solo dai mafiosi. C’era anche la “criminalità del potere”. Quei segmenti della classe dirigente (politica e imprenditoriale) della massoneria che con la mafia intrattengono rapporti occulti di reciproco interesse. Anche questa “criminalità del potere” considerava il pool un pericoloso nemico. Perché si era vista fotografata in un passo dell’ordinanza-sentenza del 1985 (conclusiva del primo maxi-processo), che denunciava “una singolare convergenza fra interessi mafiosi e interessi attinenti alla gestione della cosa pubblica, fatti che non possono non presupporre tutto un retroterra di segreti e inquietanti collegamenti che vanno ben al di là della mera contiguità e che devono essere individuati e colpiti se si vuole davvero voltare pagina”. E che non fossero solo proclami lo dimostravano le iniziative concrete contro Ciancimino padre, i cugini Salvo e i Cavalieri del lavoro di Catania. Di qui dunque un torbido coacervo di interessi criminali convergenti, che alla fine riuscì a isolare e “incastrare” Falcone. Fino a morire.
«Roberto Settembre, il giudice d’appello sulle sevizie nella caserma del G8 di Genova boccia le nuove norme: “Il Parlamento le cambi”».

il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2017 (p.d.)

“Fumo negli occhi. La nuova legge sulla tortura è un’ipocrisia, non deve essere approvata così com’è passata al Senato. Le torture della caserma di Bolzaneto del G8 di Genova con queste norme non sarebbero punite. Ricordo un uomo al quale divaricarono le dita di una mano, gliele strapparono fino all’osso. Niente, non sarebbe punito come tortura. Ricordo le donne cui urlarono puttane ebree qui siete ad Auschwitz vi violenteremo. Nemmeno questo sarebbe punito come tortura. È una legge inutile. Falsa”.
Roberto Settembre, lei è stato giudice di appello per le violenze inaudite di Bolzaneto. Della lotta alla tortura ha fatto un impegno di vita (ha scritto il libro Gridavano e piangevano, Einaudi). Adesso, dopo 16 anni, anche in Italia è arrivata una legge contro la tortura. Ma a lei, come alle vittime del G8 di Genova 2001, proprio non va bene...
Non va approvata. I cittadini devono mobilitarsi perché sia cambiata. Così non serve a niente. Sembra scritta per non punire.

Ma allora perché si è arrivati a questa legge?
Perché l’Italia da decenni è stata messa in mora da tutti gli organismi internazionali. Ma la tortura è il delitto più grave che lo Stato possa compiere. Il più odioso. È un reato che può essere commesso soltanto dallo Stato che esercita il suo potere gigantesco su cittadini inermi.
Perché questa legge, secondo lei, proprio non va bene?
Primo, perché è previsto che possa esserci la prescrizione. Invece dovrebbe essere un reato imprescrittibile, come l’omicidio premeditato. Sennò, per fatti come quelli di Bolzaneto, non si arriverebbe mai alle condanne perché le indagini sono molto complesse e lo Stato, contando sulla prescrizione, potrebbe, come a Genova per i fatti del 2001, cercare di prolungare indefinitamente l’inchiesta. Non solo: la nuova legge prevede che i comportamenti debbano essere reiterati. Prendiamo l’uomo cui hanno divaricato le dita fino a strappargli i legamenti... è un gesto unico, senza reiterazione. Non sarebbe tortura.
E poi c’è la questione della tortura morale...
Già, la tortura non è soltanto fisica. Pensate se vi puntassero una pistola alla tempia, se vi minacciassero di morte, se vi dicessero ‘puttana ebrea ora ti violentiamo’. Queste cose al G8 di Genova sono successe. Perché sia tortura, dice la nuova legge, deve esserci un referto che prova il danno psicologico. Non basta che sia provato il comportamento. Così non si punirà mai nessuno.
Abbiamo atteso decenni. Sono passati 16 anni dai fatti terribili del G8 di Genova. Perché una legge che non punisce?
C’è forse paura che il reato di tortura sia strumentalizzato contro le forze dell’ordine da persone in malafede. Ma all’estero, dove esistono leggi anti-tortura efficaci, non accade, non vedo perché dovrebbe succedere da noi. E poi ci sono comunque i giudici che devono stabilire ciò che è successo. In Italia, però, si vuole evitare di sottoporre le forze dell’ordine a un processo.
I torturatori resteranno ancora impuniti?
Sì. Quando c’è una vittima di tortura l’evento è chiaro, c’è un corpo martoriato che era nelle mani del potere. E bisogna soltanto stabilire chi sono i colpevoli. Ma con questa legge invece di individuare le responsabilità bisognerà di volta in volta andare a capire se era tortura o meno. Spaccare il capello in quattro. Un lavoro impossibile che finirà in prescrizione.

Lei ha ancora davanti agli occhi le vittime di Bolzaneto?
C’era gente che è stata denudata, costretta a posizioni dolorosissime. Ragazzi ustionati con accendini, chiusi in celle dove venivano spruzzati gas asfissianti, costretti a urinarsi addosso; giovani che non potevano dormire o vestirsi. Ragazze insultate e minacciate di violenze di ogni genere. Con questa legge le vittime non avrebbero giustizia.

«Se mi convocheranno parlerò alla commissione d’inchiesta: in Parlamento, non sui giornali, risponderò ovviamente a tutte le domande che mi faranno». Il muro del no comment regge, ma un forellino per guardarci attraverso si nota. Federico Ghizzoni, il banchiere più inseguito d’Italia, dribbla i tanti giornalisti venuti ad aspettarlo sotto la casa di campagna. Ma a chi insiste di più fa capire meglio il suo stato d’animo, la sua voglia di togliersi quello che è diventato un peso. Quando il campo sarà sgombro dalle strumentalizzazioni mediatiche, che a ore alterne lo vogliono ariete dell’opposizione o parafulmine del governo, darà il suo contributo di cittadino perchè si chiariscano i rapporti tra la maggioranza, la sua icona Maria Elena Boschi e la Banca dell’Etruria, saltata nel 2015 mentre il padre e il fratello dell’allora ministra operavano ai piani alti. «Adesso non parlo, perché non si può mettere in mano a un privato cittadino la responsabilità della tenuta di un governo – si è sfogato Ghizzoni dopo il pranzo domenicale, consumato prudenzialmente in casa -. E’ un caso della politica, sarebbe dovere e responsabilità della politica risolverlo ».
Il manager ha cercato di santificare le feste. È andato a messa come ogni domenica nella frazione dove abitavano i genitori sui colli del fiume Trebbia. Poi ha avuto l’idea “normale” di andare far la spesa per il pranzo: e s’è accorto, dalla schiera di cronisti che l’aspettava in paese per interrogarlo, di dover reggere suo malgrado le sorti del renzismo redivivo, ruolo cui l’ha chiamato Ferruccio de Bortoli nel libro Poteri forti ( o quasi). Sono bastate 13 righe, dove si legge che a inizio 2015, quand’era amministratore delegato di Unicredit, avrebbe valutato su diretta richiesta di Maria Elena Boschi l’acquisizione di Banca Etruria, in dissesto e prossima al commissariamento.
La linea di Ghizzoni non è cambiata: volare basso, lontano da riflettori e polemiche. «Qualsiasi cosa dicessi ora, sarebbe strumentalizzata da una parte politica contro l’altra, e contro di me - si limita a dire ai giornalisti che saliti in collina -. Oltre poi al fatto che quando studiavo da banchiere mi hanno insegnato che la riservatezza è una virtù». L’orientamento di fondo emerso da giorni non va tuttavia scambiato per reticenza, o disinteresse verso i temi di primo piano: Ghizzoni lo ha chiaro in testa, e non lo nasconde agli intimi. «Anche se sono una persona emotiva, e in questi giorni la pressione mediatica su me e la mia famiglia è notevole, mi sento assolutamente sereno – ha confidato il banchiere che guidò Unicredit dal 2010 al 2016 -.
Se mi convocheranno sono disposto a rispondere a tutte le domande della commissione d’inchiesta parlamentare: ho letto che partirà presto, mi auguro sia vero». Non ha nessuna voglia, il figlio del grande latinista emiliano Flaminio, di strumentalizzazioni usate per secondi fini. Vorrebbe tanto, Ghizzoni, che il pallino tornasse nelle mani delle istituzioni, mentre lui aspetta defilato che la polvere si posi, studia agende e carte passate con il legale di fiducia (anche se finora delle querele annunciate da Boschi ci sono solo gli annunci), e soprattutto si tuffa con entusiasmo nei nuovi incarichi, molto operativi e pieni di viaggi e rapporti con i clienti, nel fondo Clessidra e nella banca d’affari Rothschild.
Tuttavia nella prima settimana del caso “la politica” è sembrata curarsi più degli effetti mediatici che di ricostruire ruoli e responsabilità degli attori nel crac di Banca Etruria. Finora non sembra che i politici abbiano imitato i giornalisti, nel chiamare Ghizzoni per chiedergli se abbia ricevuto richieste dirette da Maria Elena Boschi in quei giorni, quando la ministra stava in pena per il padre vicepresidente della “banca dell’oro”; o per sapere se è vero che affidò il dossier Etruria alla dirigente di Unicredit Marina Natale, e come l’ipotesi di rilevarla venne rapidamente accantonata a inizio 2015. Ai giornali Ghizzoni ribatte con una fila di “no comment”, senz’altri dettagli: anche se le mezze parole e le mancate smentite di questi giorni fanno supporre che qualche scambio di idee con la ministra Boschi sul dossier ci sia stato davvero. «E’ normale che politici e banchieri si parlino, specie nelle situazioni di crisi» è un’altra frase che Ghizzoni ripete questi giorni.
La Commissione d’inchiesta sul credito può rivelarsi dunque una macchina della verità preziosa. Anche se la cornice - tra Renzi che invoca chiarezza, Boschi che smentisce e annuncia querele, de Bortoli che conferma la versione e non le teme, Ghizzoni prudente in attesa di testimoniare in Parlamento - fa somigliare sempre più il caso Etruria a un poker dove qualcuno sta bluffando.
È grazie ai giornalisti che sanno fare il loro mestiere che gli italiani hanno la confrma di ciò che moltissimi sapevano da sempre: il valore morale della cricca Renzi. Ora il Re è nudo.

HuffingtonPost online, 14 maggio 2017

Dobbiamo essere davvero grati a Ferruccio De Bortoli, che ci ricorda qual è il compito principale della stampa, in una democrazia: esercitare il senso critico, controllare il potere. Per parafrasare il Foscolo dei Sepolcri: temprare lo scettro a' regnatori, sfrondarne gli allori, svelare alle genti di che lagrime grondi quel potere, e di che sangue.

In questo caso è il sangue della democrazia, quello che gronda. Perché se ciò che scrive De Bortoli è vero – ed ha tutta l'aria di esserlo – un ministro della Repubblica ha solennemente mentito al Parlamento. E ha preso in giro l'intero Paese, negando un conflitto di interessi grande come una casa. Tradendo clamorosamente il giuramento pronunciato diventando membro del governo: "Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell'interesse esclusivo della Nazione". L'interesse di chi? Della famiglia, della banca? Certo non quello della Nazione.

Il 12 novembre 2015 Roberto Saviano scrisse che "il conflitto di interessi del Ministro Boschi è un problema politico enorme, dal quale un esponente di primissimo piano del governo del cambiamento non può sfuggire. In epoca passata abbiamo assistito a crociate sui media per molto meno, contro esponenti di terza fila del sottobosco politico di centrodestra: oggi invece pare che di certe cose non si debba o addirittura non si possa parlare. È probabile che il Ministro Boschi non risponda come se il silenzio fosse la soluzione del problema. Ma questo è un comportamento autoritario di chi si sente sicuro nel proprio ruolo poiché (per ora) le alternative non lo impensieriscono. E se il Ministro resterà al suo posto, senza chiarire, la colpa sarà principalmente nostra e di chi, temendo di dare munizioni a Grillo o a Salvini, sta tacendo o avallando scelte politiche inaccettabili».

Saviano fu insultato, e lasciato solo. Ma aveva sacrosanta ragione. Ed è bene ricordare che Matteo Renzi gli rispose, sprezzante: «Siamo gli unici che vogliono bene all'Italia, contro il disfattismo e il nichilismo, contro chi sfoga la sua frustrazione nelle polemiche".

Oggi, quasi due anni dopo, il copione è lo stesso: Renzi accusa De Bortoli di attaccarlo a causa di frustrazioni personali. Solo che oggi gli italiani sanno chi è Renzi. Sanno che non possono credergli: quanto valore può avere la parola di chi ha detto «se perdo mi ritiro dalla vita politica», e oggi, dopo aver perso tutto il perdibile e aver devastato il proprio partito, è ancora inchiavardato alla poltrona?

Oggi è drammaticamente evidente chi è che «vuole bene all'Italia». Chi dice la verità. E non chi trama all'ombra di logge massoniche e cerchi magici, abusando del proprio ruolo di servitore dello Stato per fare i propri interessi.

E soprattutto è ben chiaro che a 'volere bene all'Italia' sono stati i 19.420.271 cittadini italiani che hanno detto NO ad una riforma firmata da quello stesso ministro.

Già: chi comprerebbe oggi una Costituzione usata da Maria Elena Boschi?

La consueta, periodica indagine sui prevedibili futuri politici del Palazzo. Ma è difficile prevedere il futuro che si è espresso nei numerosi eventi della politica del popolo, dalla battaglia per l'acqua pubblica a quella per la difesa della Costituzione. Eppure la speranza è lì.

la Repubblica, 13 maggio 2017

ALCUNI importanti eventi hanno segnato la politica in Italia, negli ultimi mesi. In particolare, le primarie del Pd, (stra)vinte da Matteo Renzi. Il quale, dopo la bocciatura del referendum costituzionale, si è ripreso il partito. Quanto al governo, si vedrà. Il sondaggio di Demos per l’Atlante Politico pubblicato da Repubblica segnala, comunque, alcuni mutamenti significativi nel clima d’opinione.

Anzitutto, negli orientamenti di voto. Secondo le stime di Demos, infatti, il Pd ha nuovamente superato il M5S. Di poco. Un punto solamente. Sufficiente, però, a cambiare le gerarchie elettorali fra i due soggetti politici principali, dopo il declino di Silvio Berlusconi e del suo partito. I quali, tuttavia, resistono. Forza Italia, infatti, è stimata oltre il 13% e la Lega di Salvini le è vicina. Così si ripropone una triangolazione, per alcuni versi, simile a quella emersa dalle elezioni politiche del 2013. Quando Pd, M5S e Forza Italia - insieme alla Lega - avevano conquistato una quota di elettori molto simile. Intorno al 25%.

Naturalmente, molto è cambiato da allora. Anzitutto, gli equilibri tra Fi e Lega. Nel 2013 la Lega, guidata da Roberto Maroni, superava di poco il 4%, mentre il Pdl intercettava quasi il 22%. Poi, ovviamente, è cambiato il volto del Pd. Proposto, allora, da Bersani, oggi da Renzi. Mentre il M5S ha ancora il profilo di Grillo. Ma ha consolidato la sua presenza nel Paese. Visto che, nel frattempo, ha conquistato, fra l’altro, il governo di Roma e Torino. Due Capitali (anche se in senso diverso).
Questo scenario è confermato dalle stime di voto degli altri partiti. A destra di Fi, come a sinistra del Pd, si osserva un complessivo arretramento. I soggetti politici di Centro, infine, occupano uno spazio quasi residuale. Schiacciati dai tre “poli” maggiori. Che, nel sondaggio, intercettano oltre l’80% dei voti. Questo assetto, però, appare tutt’altro che strutturato. Soprattutto a Centro-destra, dove l’asse tra Fi e Lega è messo in discussione. Dalla Lega di Salvini.
È, tuttavia, chiaro che, se queste stime venissero, almeno, “approssimate”, in caso di elezioni, nessuna maggioranza sarebbe possibile. Perché nessun Polo o Partito riuscirebbe a superare la soglia del 40%, necessaria a conquistare la maggioranza dei seggi. Occorrerebbe, dunque, formare coalizioni più “larghe”. Fra soggetti di famiglie politiche diverse e perfino contrastanti. Ma l’operazione appare difficile. Gli elettori del Pd, infatti, non sembrano gradire un’alleanza con Fi, ancor meno con il M5S. Mentre appare maggiore (ma complicata) l’attrazione reciproca tra M5S, Lega e Fdi.
Per ora, comunque, la prospettiva del voto anticipato interessa una minoranza di elettori (43%). Più ampia nella Lega, nei Fdi e, soprattutto, nel M5S. Ma la maggioranza assoluta degli intervistati auspica che l’attuale governo duri fino a fine legislatura. Prevista l’anno prossimo. Il governo Gentiloni, d’altronde, mantiene un buon livello di gradimento. Intorno al 40%. Come due mesi fa. Insomma, non entusiasma, ma, in tempi come questi, è difficile sollevare passioni, in politica.
La fiducia verso il premier, Paolo Gentiloni, per quanto in calo di qualche punto, resta elevata: 44%. La più elevata fra i leader testati. Matteo Renzi, dopo le Primarie, ha ripreso quota: 39%, 6 punti in più rispetto a due mesi fa. È affiancato da Giorgia Meloni. Molto più apprezzata del proprio partito. Salvini, Di Maio e Pisapia si attestanofra il 32 e il 35%. Gli altri, più sotto. In fondo, con meno del 20%, troviamo Roberto Speranza e Massimo D’Alema. La scissione dal Pd non pare aver giovato loro, sul piano del consenso personale.
Attraversiamo, dunque, una fase instabile. Mentre diverse questioni agitano il dibattito pubblico. Ne segnaliamo alcune.
Anzitutto, l’uso delle armi per legittima difesa, definito dalla legge appena approvata alla Camera. In particolare, a proposito della possibilità di usare un’arma di notte “nel proprio domicilio”. Tuttavia, la maggioranza delle persone ritiene che, in casa nostra, “sparare” all’aggressore sia sempre legittimo. Lo pensano, soprattutto, gli elettori di Centro-destra, ma anche del M5S. Mentre la base del Pd si divide in modo quasi eguale. E solo più a “Sinistra” si vorrebbe limitare al massimo la possibilità di “sparare” in casa propria.
C’è poi la questione dei vaccini, intorno alla quale non c’è proprio discussione, visto che oltre 9 persone su 10 li ritengono indispensabili a garantire la salute dei bambini. Senza se e senza ma.
Infine: le Ong. Le Organizzazioni di Volontariato Internazionale Non Governative. Al centro di numerose polemiche, in seguito alle recenti affermazioni del procuratore di Catania, secondo il quale «alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti ». Al fine di «destabilizzare l’economia italiana per trarne dei vantaggi». Senza entrare nel merito, queste parole sembrano aver indebolito la credibilità delle Ong, che ottengono un grado di fiducia (42%) molto inferiore rispetto alle ”Associazioni di volontariato”, tout-court (63%). Quasi a sottolineare come, per la maggioranza degli italiani, le Ong non siano “associazioni di volontari”. Ma, appunto, qualcosa di diverso. E oscuro.
Il dibattito politico, quindi, incrocia e confonde questioni tanto più critiche quanto più riguardano la nostra vita quotidiana. Anche perché non sono chiari i riferimenti politici generali. Intanto, la scadenza del voto si avvicina. Non è chiaro, però, quando sarà. Fra un anno? Prima? È la cronaca di un Paese incerto. Dove l’incertezza politica logora la fiducia della società, nelle istituzioni. E, ovviamente, nell’economia. Ma al ceto politico non sembra interessare troppo.

«Alla paura delle rapine si risponde con una legge spot sulla legittima difesa. Sull’immigrazione si assecondano i peggiori umori della piazza. Caro Minniti, non c’è più un barlume di progressismo nel governo». "Progressismo"? ma il modello è Salvini.

la Repubblica, 12 maggio 2017

Il Forum con il ministro dell’Interno Minniti nella redazione di Repubblica è un documento che offre spunti preziosi di riflessione oltre a sancire l’esaurirsi di ogni barlume progressista nella compagine di governo. “Il lavoro che ho cominciato quattro mesi fa al Viminale – dice Minniti – può piacere o meno. Ma è figlio di un metodo, di un disegno, e di una certezza. Che sulle questioni della nostra sicurezza, si chiamino emergenza migranti, terrorismo, reati predatori, incolumità e decoro urbano, legittima difesa, non si giocano le prossime elezioni politiche. Ma il futuro e la qualità della nostra democrazia”.

Vero, è in gioco proprio questo: il futuro e la qualità della nostra democrazia, e l’impressione è che il metodo sia ormai non dire ciò che si vuol fare, per poi farlo davvero. Il linguaggio è la chiave di tutto e chi vuole oggi ridisegnare il mondo, deve iniziare a farlo modificando il significato delle parole.
E così le imbarcazioni delle ong che nel Mediterraneo portano in salvo vite (uomini, donne e bambini, perché “vite” è parola troppo generica) diventano “taxi” nelle parole del vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, e così l’inchiesta della Procura di Trapani secondo cui “in qualche caso navi delle ong hanno effettuato operazioni di soccorso senza informare la centrale della Guardia costiera” e quindi “per la legislazione italiana si potrebbe dire che viene commesso il reato di favoreggiamento di immigrazione clandestina ma non è punibile perché commesso per salvare una vita umana”, diventa: le ong hanno rapporti con gli scafisti.
I virgolettati appartengono al Procuratore della Repubblica di Trapani Ambrogio Cartosio, che quelle parole le ha pronunciate dinanzi alla commissione Difesa del Senato. Dunque personale delle ong è sotto inchiesta per un reato che non può essere punito e a dirlo è lo stesso titolare dell’indagine: non si capisce allora perché il suo Ufficio non abbia ancora chiesto l’archiviazione degli atti. Ma mettere in fila i fatti è inutile perché l’espressione “taxi del Mediterraneo” vi è rimasta dentro anche se è stata smentita in ogni luogo. Rimbomba nello stomaco e vi ricorda ogni volta che con la pensione che prendete non ce la fate a mantenere i due figli che ancora non hanno un lavoro dignitoso. E vi ricorda che è assurdo a 35 anni lavorare 12 ore al giorno, senza contratto, per portare a casa 700 euro al mese. E vi ricorda che avete dovuto lasciare l’Italia per andare a Londra, a Lipsia o in Australia, che soffrite come cani, perché avete un lavoro ma vi manca tutto il resto.
E allora i numeri, le statistiche, diventano offensive perché non tengono conto dei sacrifici, delle sofferenze, della lontananza, delle rinunce, dei sogni infranti. E allora se siamo 60 milioni e ogni anno arrivano in Italia 180mila migranti, che senso ha fare un calcolo, che senso ha dirci che la proporzione di 1 (migrante) a 333 (italiani) è gestibile e non rappresenterebbe un’emergenza? Nessun senso, perché io continuo a mantenere con una pensione di 1.800 euro al mese due figli che non trovano lavoro. E allora al diavolo i migranti e al diavolo anche le ong che ce li portano in Italia. E ancora, che senso ha citare le fonti del Viminale per dire che i reati predatori sono in diminuzione? Nessun senso se lo stesso ministro degli Interni racconta che nel 1999, parlando a Bologna con “un vecchio compagno”, capì che “la sicurezza è un sentire”, che “dove si ragiona con le statistiche non c’è sentimento”. E fu a Bologna, nel 1999, che Minniti capì ciò che Steve Bannon, il consulente strategico di Trump, e Beppe Grillo, garante del M5S, avrebbero capito solo più tardi (molto più tardi) usando la massa di informazioni provenienti dai social e dal web: la statistica vera, quella dei tempi moderni, quella che serve alla politica, è la “scienza” che contempla solo lo stato d’animo delle persone, è quella che traccia gli umori dell’opinione pubblica, che come in un circolo vizioso può essere agevolmente creata diffondendo dati e notizie falsi o verosimili.
Quindi se l’opinione pubblica ti dice che si sente invasa, non puoi rispondere come sarebbe giusto, ovvio, razionale e persino conveniente: la soluzione è dare permessi di soggiorno e consentire che in Italia si arrivi legalmente, perché ampliare le fasce di illegalità è sempre una scelta criminogena. Non puoi farlo. La soluzione è dire -come fanno i 5 Stelle - che le ong vanno fermate, fa nulla che nel frattempo muoiano uomini, donne e bambini perché si è troppo distanti per prestare soccorso. La soluzione è promettere di intensificare e migliorare gli accordi con Turchia e Libia, perché pagare per risolvere problemi lontano dall’Italia è di gran lunga più conveniente (in termini elettorali, sia chiaro, non di salvaguardia della tenuta democratica dell’Italia) che gestire problemi “in casa”. Che in Libia e Turchia i migranti siano stipati in lager, detenuti, torturati, violentati, sfruttati è abominevole, ma è un prezzo che siamo disposti a pagare, perché impedire i soccorsi in mare e bloccare i migranti a un passo dall’Europa è la risposta della politica agli umori della piazza. Su questo punto la posizione del centrosinistra non è per nulla cambiata rispetto ai tempi in cui – tolte poche eccezioni – assentì al trattato siglato da Berlusconi con Gheddafi.
Lo stesso vale per la legittima difesa: se l’opinione pubblica non si sente sicura, la soluzione è una legge ad hoc, che importa che sia chiaramente “inutile e confusa”, che importa che “già esisteva un canone normativo e veniva interpretato in modo favorevole a chi vantava la difesa”, serviva uno spot per questo governo che si è tradotto in un invito a prendere il porto d’armi e ad avere in casa una pistola. Ed è inutile che il segretario del Pd lamenti fantomatici errori: in questo agire c’è del metodo, poiché la matrice è lo stesso populismo penale che ha condotto all’introduzione dell’inutile reato di omicidio stradale. Si trova il tempo per discutere e votare leggi inutili (quando non dannose) e quelle di pubblica utilità, come l’introduzione del reato di tortura, restano ferme.
Sta accadendo questo: se ci si basa sui numeri per raccontare il mondo in cui viviamo si è accusati di fare propaganda e di farlo senza avere cuore, senza pensare che dietro i numeri ci siano persone. I numeri servono solo per avere misura delle dinamiche e non lasciarle all’istinto manipolatorio delle fazioni. Se ci si sforza di argomentare e utilizzare un metodo che abbia un minimo di attendibilità scientifica si rischia di fare la fine degli eretici bruciati sul fuoco dall’Inquisizione: sapere è una colpa e anche questo è un segno dei tempi. Dall’altra parte alla politica si chiede di limitarsi a raccontare ciò che sembra plausibile, anche se vero non è. Minniti potrà continuare a dire di non essere un esponente del populismo di destra, ma solo un vecchio compagno folgorato sulla via della voglia di sicurezza.
Oppure se ci piace possiamo chiamare le aspirazioni della piazza “oclocrazia”, prendendo il termine in prestito da Polibio , ossia governo della plebe, una degenerazione della democrazia. Un termine che non sarà difficile far passare come una forma di governo tradizionale ma moderna: il governo delle masse. Ma “masse” suona parola antica, vecchia, consumata e allora meglio il governo dei cittadini, ecco, così suona meglio.
Eppure l’oclocrazia è una degenerazione e non perché da pochi si passi a molti, a tutti, ma perché – come riflette Marco Revelli - quando le persone sentono che si è smarrito il valore dell’uguaglianza, c’è solo una cosa a cui ambiscono più di ogni altra, e non è la trasformazione sociale, ma la vendetta. Il governo della vendetta: contro i politici, contro i ricchi, contro i famosi, contro i migranti, contro le ong, contro i ladri.
Dire che i dati non servono, dire che l’analisi non serve, dire “dove si ragiona con le statistiche non c’è sentimento” significa solo nutrire questa vendetta e rendere i cittadini consumatori di rabbia. Alla sfiducia dei cittadini, alla loro volontà di far saltare il banco, la politica in questo momento non sta dando alcuno strumento di trasformazione, ma il più atroce dei diritti (che si traduca in diritto a sparare o a sentirsi padrone della propria terra), un diritto che consuma chi ne fa uso, illudendolo di far qualcosa per lenire il malessere e lo smarrimento che prova: il diritto alla vendetta.

Brecht diceva:«il ventre che generò il nazismo è sempre fecondo». Si riferiva al capitalismo dei suoi tempi; quello rappresentato da Macron non è certo migliore. Micromega online, 7 maggio 2017


L’orrore è stato evitato, il candidato fascista non salirà i gradini dell’Eliseo. Un grande sospiro di sollievo dunque, ma da entusiasmarsi c’è poco. Se nel cuore storico della democrazia europea, la Francia di “liberté, égalité, fraternité” che deve la legittimità delle sue istituzioni ai sanculotti del 1789 e ai resistenti del maquis e del governo in esilio contro il tradimento di Vichy, il candidato di un partito intasato di negazionisti in nostalgia di Petain e di cattolici vandeani, prende un terzo dei consensi, sarebbe più serio mantenere un certo timore, oltre che qualche oncia di vergogna. E capire come sia stato possibile arrivare a tanto, andando alle radici per poter reagire. Prima che sia troppo tardi.

Perché è già molto tardi. Lo dice la noncuranza di massa (e anche di élite) che ha minimizzato o negato, in realtà rimosso, il carattere fascista del partito Fn, nella continuità tra Le Pen padre, figlia e nipotina Marion. E che ancor più lo farà, ora che “Marine la Patriota” cercherà di accreditarsi tale addirittura “rifondando” con nuovo nome e nuovi apporti il Fn.

Noncuranza che si lascia imbambolare da qualche frase ad effetto, belletto e botulino ideologici, e sarebbe il meno, ma che si radica soprattutto per affatturazione della sirena sociale e collasso dello spessore storico, massime nella generazioni più giovani. Circolano massicciamente posizioni del tipo “il nazi-fascismo - salvo frange minoritarie di nostalgiche macchiette - è un fenomeno del secolo scorso”, oggi esistono solo “destre sociali”, “il revisionismo storico è una posizione culturale, all’operaio che vede ridursi i suoi diritti non importa niente di cosa Le Pen pensi di Giulio Cesare”.

Destra sociale? I fascismi si sono sempre dichiarati sociali, dalla parte dei lavoratori e dei disoccupati. Hitler aveva chiamato il suo partito “nazional-socialista” (nazismo è la contrazione). Abbindolate le masse, hanno sistematicamente e regolarmente distrutto ogni organizzazione di lavoratori, intrecciato valzer e amorosi sensi con i più biechi poteri finanziari e industriali, distrutto ogni possibilità legale di lotta per i non privilegiati.

È evidente e sacrosanto che prima viene la pancia piena e poi la morale (citazioni di Brecht a bizzeffe, volendo), e che anzi il grande capitale e la grande finanza, quando messi alle strette, tra un’avanzata democratica di oppressi ed emarginati e la soluzione fascista hanno troppo spesso preferito quest’ultima. E allora? E’ un buon motivo per fare harakiri e immaginare che il DNA della Resistenza antifascista non sia più necessario? La pancia vuota che si lascia affatturare da un fascista resterà vuota, e non potrà neppure lottare, se non a rischio di carcere tortura e vita.

Ma ogni generazione sente il prepotente bisogno di ripetere gli errori delle generazioni precedenti. Anche Mussolini, e Hitler, e i loro scherani, a molte personalità e persone comuni dell’epoca apparivano delle “macchiette”: in pochi anni hanno ridotto l’Europa in macerie e fame.

Oggi queste consapevolezza storica minima si è perduta, e il sonno della memoria, come quello della ragione, produce mostri. Purtroppo, in Francia, come in Italia, come in Europa tutta, si sconta un peccato originale, non aver dato vita nel dopoguerra alla necessaria epurazione antifascista in tutti gli apparati dello Stato (ma anche nel giornalismo e nella cultura). Non aver realizzato quella damnatio memoriae tassativamente ineludibile, che non garantisce contro ritorni di fascismo (la pulsione di servitù volontaria possiede circuiti neuronal-ormonali più antichi e radicati di quelli illuministico-democratici, ahimè), ma ne riduce le probabilità per il possibile.

Invece, nei decenni, con lenta ma infine inesorabile crescita, si è tollerato che partiti e movimenti fascisti si ricostruissero, si legittimassero per partecipazione elettorale, divenissero per mitridatizzazione parte del panorama ordinario del nostro habitat politico e sociale.

È stata questa l’altra faccia di una politica di establishment che per guerra fredda prima e liberismo selvaggio poi ha impedito che venissero realizzate nelle leggi e nella pratica di governo le solenni promesse contenute nelle Costituzioni nate dalla vittoria contro i fascismi.

In Italia fu chiaro da quasi subito, purtroppo. Il 2 giugno 1951 Piero Calamandrei, che della Costituente era stato uno dei massimi protagonisti, già doveva stigmatizzare che mentre nella Costituzione “è scritta a chiare lettere la condanna dell’ordinamento sociale in cui viviamo”, la politica del governo andava in direzione opposta, e il vero nome della festa della Repubblica era perciò “La festa dell’Incompiuta”.

E rivolgendosi ai giovani nel 1955, a Milano, ribadiva: “La nostra Costituzione è in parte una realtà, ma solo in parte. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere”. In Italia, come in Francia, come in Europa, siamo più che mai a questo, e la convinzione ormai dilagante che i fascismi siano lontani dal nostro orizzonte possibile quanto Giulio Cesare, fornisce ai reazionari e conservatori un’ulteriore arma di narcolessia di massa.

Macron non è la soluzione, a meno che da Presidente non diventi un Macron inedito, perché la finanza (e più in generale la politica economica) liberista è il motore della crisi sociale e della deriva politica che, per hybris di diseguaglianze, infesta e mina le democrazie. Rispetto ai lepenismi (in Europa si sono ormai moltiplicati sotto le più diverse e accattivanti fogge, ma sempre humus fascista veicolano), la vittoria di Macron potrebbe confermarsi solo il laccio emostatico che tampona l’emorragia in attesa dell’intervento chirurgico. Ora si tratta di realizzarne gli strumenti, quella sinistra illuminista egualitaria e libertaria oggi purtroppo introvabile in forma politica organizzata, ma diffusa in forma sommersa o carsica nelle società civili di molti paesi d’Europa.

«L’elezione, per quello che fa temere, per quello che può suscitare, non è che un momento, ma inevitabile. Tocca a noi attraversarla, utilmente, con gli occhi aperti. Non basta che Le Pen perda le elezioni; la sua sconfitta deve essere pesante».

il manifesto, 7 maggio 2017, con postilla

Di che cosa sarà fatto il domani? Ricorro a questo titolo di Derrida, preso in prestito da Victor Hugo: è adeguato a rappresentare il tormento di tanti elettori, nella sinistra più o meno radicale, di fronte al «dovere elettorale» del secondo turno. Non penso di poter spazzare via le incertezze che gravano sull’orizzonte. Ma, a uso di tutti noi, vorrei tentare di circoscriverle e dar loro un nome.

Sappiamo contro che cosa andiamo a votare, perché lo facciamo e come farlo. Non ci sono scappatoie rispetto alla scelta dell’avversario di Marine Le Pen, il cui nome sulla scheda elettorale è Emmanuel Macron. La questione non riguarda solo il detestabile programma del Front National.

Riguarda gli effetti che provocherebbe l’arrivo al potere, o anche vicino al potere, di un partito neofascista, nato dall’Algeria francese e dall’Oas (Organisation de l’armée secrète, l’organizzazione paramilitare clandestina francese creata nel 1961 con l’appoggio del regime franchista spagnolo, NdT); un partito fondato sulla denuncia dell’immigrazione e sull’individuazione di un nemico interno. Sarebbe fatto certo lo scatenarsi, come nel Regno unito dopo la Brexit, ma decuplicata, di un’ondata di aggressioni razziste, islamofobe e xenofobe. Insieme al crollo dei valori repubblicani e delle sicurezze personali.

Non basta dunque che Le Pen perda le elezioni; la sua sconfitta deve essere pesante. E non è garantito.

E’ importante anche sapere per chi voteremo: un tecnocrate ambizioso, intelligente ma minoritario, sostenitore del neoliberismo e della «modernizzazione» della società francese in un quadro europeo, spinto in orbita da una rete di finanzieri e alti funzionari, sostenuto da una generazione di giovani adepti della «terza via»; Macron si è espresso chiaramente sui crimini della colonizzazione.

Ma soprattutto quali gli effetti del nostro voto? Come inciderà sulla situazione che il primo turno ha rivelato? Non parlo qui di «terzo turno» o di maggioranza potenziale, ma della situazione della politica in Francia.

Mi limiterò ad affrontare due questioni.

Il nostro sistema politico attraversa una crisi istituzionale, senza possibilità di recupero. Come altrove, anche se con tratti peculiari, è diventato ingovernabile con le vie «normali», alle quali apparteneva l’alternanza dei partiti di centrodestra e centrosinistra. Il fatto che entrambi abbiano praticato politiche reali sempre più indecifrabili è un sintomo di questa crisi, ampiamente responsabile della delegittimazione che colpisce la «forma partito»; ma ne è anche uno degli effetti.

Emmanuel Macron, avendo a suo tempo studiato la dialettica hegeliana, tenta di trasformare la negazione in affermazione, con la sintesi dei contrari. Di fronte al «né di destra né di sinistra» della tradizione fascista, propone un «sia di destra che di sinistra».

Potrebbe funzionare solo se egli riuscisse ad apparire come l’uomo della provvidenza, al di sopra delle forze sociali. Ma siccome non è così e non lo sarà, la crisi è destinata ad acuirsi, mettendo in pericolo la solidità degli ideali democratici.

Spetta dunque a noi inventare istituzioni, formazioni non meno ma piùrappresentative, e più sincere nell’esprimere conflitti reali, così da restituire ai cittadini il potere di influire sulle scelte del governo.

Questo cantiere di matrice popolare e non populista, che alcuni movimenti recenti hanno abbozzato, anche durante la campagna elettorale, deve rimanere aperto stabilmente, nel pericoloso periodo che attraverseremo.

Questo cantiere non è separabile da quello della «frattura sociale». Si propongono gli argomenti più svariati, per sostenere che nuove divisioni sociali, culturali, territoriali, professionali, generazionali hanno sostituito l’antagonismo fra «destra» e «sinistra». Questo non è falso, almeno se ci si riferisce a una definizione convenzionale. Ma la traduzione di queste divisioni in alternative ideologiche come «nazionalismo contro mondialità» o «chiusura contro apertura», è davvero mistificatoria!

La verità è che da una parte le disuguaglianze si aggravano in modo drammatico, dall’altra la globalizzazione fa crescere nuovi antagonismi fra i poveri, o i non-ricchi, e più generalmente fra i lavoratori, gli utenti, i funzionari, gli studenti, tutto assoggettati alle logiche della redditività finanziaria.

Questo non fa scomparire la lotta di classe, ma ne oscura singolarmente le caratteristiche, e soprattutto ne impedisce la cristallizzazione in movimenti politici, già non scontata in altri tempi.

Per esorcizzare la violenza di cui queste «contraddizioni all’interno del popolo» sono portatrici, per liberare prospettive di futuro, occorreranno molta riflessione e molti confronti, ma soprattutto bisogna spingere con tutta la forza possibile verso altre politiche economiche: non sotto forma di selvaggia deregolamentazione e restrizione dei diritti del lavoro, o al contrario di protezionismo e rafforzamento delle frontiere, ma – come suggerisce l’economista Pierre-Noël Giraud– politiche neo-mercantiliste di redistribuzione degli investimenti fra le occupazioni nomadi e quelle sedentarie (il che non è affatto lo stesso che scegliere fra il «lavoro nazionale» e l’immigrazione) e di transizione energetica.

Ora, per ragioni di efficacia e di solidarietà, esse hanno senso solo su scala europea – a condizione, ovviamente, che l’Europa inverta il corso che ha preso quando ha adottato il dogma della «concorrenza libera e non falsata» e dei suoi corollari, l’austerità di bilancio e l’immunità delle banche.

Per questo è deplorevole che, nella campagna attuale, il dibattito sulle implicazioni europee della politica francese si limiti ad antitesi grossolane o a considerazioni formali sulle istituzioni della zona euro, anziché affrontare la questione dei rapporti di potere nello spazio europeo, anch’esso in piena crisi sistemica, e del suo futuro.

Non ci può essere un’altra Francia senza un’altra Europa. L’elezione di Macron non è una condizione sufficiente perché questi problemi diventino il terreno di un impegno collettivo. Ma l’elezione di Le Pen è una ricetta sicura perché il loro significato sia definitivamente deviato.

Anziché fare tabula rasa del passato, dobbiamo trarne le lezioni. L’elezione, per quello che fa temere, per quello che può suscitare, non è che un momento, ma inevitabile. Tocca a noi attraversarla, utilmente, con gli occhi aperti.
* da Libération, inserto settimanale del 2 maggio, per gentile concessione dell’autore al manifesto

postilla

Come abbiamo scritto è del tutto comprensibile che ci sia chi non vuol scegliere tra la peste e il colera, considerando sia Macron che Le Pen diversamente avversari di chi è convinto che, insieme al fascismo, si deve combattere anche l'humus da cui il fascismo puntualmente rinasce: e il neoliberosmo, che Macron esprime, è proprio l'espressione di quell'humus. Ma il 20 % non è sufficiente per rappresentare un'alternativa vincente, occorre che cresca, e che quindi si valutino le due ipotesi, Macron e Le Pen, a seconda dei maggiori o minori spazi di probabilità che diano alla conservazione di quel tanto di democrazia che consente alla sinistra radicale di crescere e di migliorare la sua forza di convinzione. È la strada che scelse la sinistra comunista italiana dopo l'8 settembre 1943 (e.s.)
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