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Saggi ammonimenti, da un quotidiano che di solito ne è privo. Peccato che siano rivolti a una "sinistra" che non c'è, perché quella che usurpa questo nome è composta da tre destre.

la Repubblica, 9 agosto 2017

CHE cosa resterà dell’estate italiana che stiamo vivendo, e che ha trasformato la crisi dei migranti nel suo problema principale, ben prima del lavoro che non c’è, della crescita che arranca, del precariato permanente di un’intera generazione? Non certo un cambiamento nel flusso di disperazione che porta i senza terra a cercare libertà e futuro lungo il Mediterraneo, o nel riflusso di gelosia nazionale dei Paesi che ci circondano, dove si sta frantumando ogni giorno l’idea comune di Europa.

Ciò che resta — e che peserà in futuro — è una svolta nel senso comune dominante, dove per la prima volta il sentimento umanitario è finito in minoranza, affondato dal realismo politico, dal sovranismo militante, da una declinazione egoista dell’interesse nazionale. Naturalmente il senso comune è qualcosa di diverso dall’opinione pubblica, soggetto attivo di qualsiasi democrazia funzionante, autonomo e distinto dal potere, dunque capace di giudicarlo. Si tratta di una deformazione del buon senso, costruita su sentimenti e risentimenti, nutrita di pregiudizi più che di giudizi, che opera come ha scritto Roberto Saviano con la logica della folla indagata da Le Bon, pronta a gonfiarsi e sgonfiarsi come le foglie al vento, e spesso il vento è quello del potere: capace, soprattutto in un’età segnata dal cortocircuito emotivo del populismo, di interpretare il senso comune, ma anche e soprattutto di crearlo e nutrirlo traendone profitto politico ed elettorale.

ORA, il governo può certo esercitarsi a svuotare il mare col cucchiaino di un codice per le organizzazioni umanitarie che operano nel Mediterraneo, e le procure possono trarre teoremi giudiziari dagli errori o anche dalle complicità e dai reati di qualche singola ong. Ciò che interessa va ben al di là, perché la proiezione fantasmatica di tutto questo sta producendo sotto i nostri occhi un effetto spettacolare: l’inversione morale, per cui non potendo fermare le vittime prima che partano dai loro Paesi, e non riuscendo a colpire i carnefici, cioè gli scafisti, si criminalizzano i soccorritori, che salvano chi sta morendo in mare.

Per arrivare a questo bisogna necessariamente spogliare l’intervento umanitario, la neutralità del soccorso, l’azione dei volontari di ogni valenza etica e di qualsiasi spinta valoriale, riducendoli a pura “tecnica” strumentale, fuori dalla logica della responsabilità, dalla sfera della coscienza e dall’imperativo morale dei doveri. La destra e i grillini (basta leggere i loro giornali: identici) parlano delle ong come un attore tra i tanti nel Mediterraneo, liquidando il salvataggio dei naufraghi in una riga di circostanza, come se gli scopi per cui si va in mare non contassero nulla, come se non avessero rilevanza le bandiere morali che quelle navi battono. Diciamolo: come se il problema politico che i migranti creano fosse più importante delle loro vite salvate.
Delle ong in quanto tali, della loro azione di supplenza di cui hanno parlato qui Mario Calabresi e Massimo Giannini ovviamente alle diverse destre italiane non importa nulla. A loro interessa ciò che rappresentano, la loro ragione sociale, la persistenza di un dovere gratuito e universale che nel loro piccolo testimoniano. Quel sentimento umanitario che fa parte della civiltà italiana, anche per il peso che qui ha avuto la predicazione della Chiesa, e che fino a ieri consideravamo prevalente perché “naturale”, prodotto di una tradizione e di una cultura.
Laicamente, si potrebbe tradurre nella coscienza della responsabilità, quella stessa cui si richiamava Giuliano Ferrara parlando della spoliazione civile dei Paesi da cui si emigra in massa. Solo che la responsabilità, a mio parere, vale sotto qualsiasi latitudine, dunque anche a casa nostra, ma non soltanto nei confronti di noi stessi, i “cittadini”, garantiti dalla costituzione e dalle leggi. Qui si sta decidendo se i ricchi del mondo (ricchi di diritti, di benessere) possono ritenersi definitivamente sciolti dai poveri del pianeta, visto che non ne hanno più bisogno, oppure se in qualche misura anche dopo la crisi permane quel vincolo politico e non solo umano che nella differenza di destino tiene insieme i sommersi e i salvati della mondializzazione, cercando un futuro comune.
Se la sinistra non capisce che la posta in gioco è addirittura questa, oggi, subito, significa che è giunta al suo grado zero e qualcun altro riscriverà il contratto sociale. Si deve dare sicurezza alle nostre popolazioni impaurite, soprattutto alle fasce più deboli e più esposte. Ma si può farlo ricordando insieme i nostri doveri e la nostra responsabilità, che derivano proprio dalla cultura e dalla civiltà che diciamo di voler difendere. Questo è lo spazio politico della sinistra oggi, invece di inseguire posture mimetiche a destra. Uno spazio utile per tutto il Paese: perché l’interesse nazionale non si difende privatizzandolo, magari con decreto di Grillo e Salvini.

3 agosto 2017
CISGIORDANIA. COMPLETATI ALTRI 42 KM DI MURO
della Redazione di NENA News

Un altro tratto di muro è stato completato: 42 chilometri di barriera israeliana – la cui costruzione è iniziata nel 2002 tra Cisgiordania e Israele – sono stati aggiunti al lungo percorso. Ad essere terminato è stato il tratto nelle colline a sud di Hebron, sud della Cisgiordania, all’altezza del checkpoint di Tarquimiya.

Ad annunciarlo è stato il ministro della Difesa di Tel Aviv, Avigdor Lieberman: “Il completamento del muro nelle colline a sud di Hebron è un altro passo negli sforzi del ministero per incrementare significativamente la sicurezza per i residenti dell’area e per tutti i cittadini di Israele”. Un’affermazione che ricalca le dichiarazioni degli ultimi 15 anni: Israele ha sempre descritto il muro come necessario ad evitare attentati nel proprio territorio.

Dichiarazioni smentite sia dai dati sugli attacchi che dalla stessa durata della costruzione: il muro non è mai stato terminato e non sono pochi i palestinesi che attraversano il confine per andare a lavorare illegalmente in Israele, con il beneplacito di caporali, aziende israeliane e dello stesso esercito, che spesso chiude gli occhi per garantire alle compagnie manodopera a basso costo.

La Linea Verde e in rosso il muro-barriera
costruito da Israele a partire dal 2002

Inoltre la barriera non corre lungo il confine ufficiale tra Cisgiordania e Israele, la Linea Verde, ma entra prepotentemente all’interno del territorio palestinese mangiando ulteriori spazi poi annessi de facto a Israele: secondo i dati dell’agenzia Onu Ocha, il 9.4% del territorio della Cisgiordania è stato isolato dalla costruzione del muro. L’88% del percorso entra in territorio palestinese e la sua lunghezza è quasi tre volte la lunghezza del confine ufficiale, 712 km contro 250. In molti casi assorbe le colonie costruite lungo la linea verde e in Area C, area palestinese controllata da Israele e che rappresenta il 60% dell’intera Cisgiordania.

In cemento in alcuni tratti ma per lo più costruito sotto forma di rete elettrificata – molto invasiva perché larga oltre 150 metri che attraversano e rendono inutilizzabili le terre agricole – è stato dichiarato illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia nel 2004, ma mai smantellato.

Secondo i media israeliani i lavori al nuovo tratto sono cominciati all’inizio del 2017 come risposta punitiva ad un attacco a Tel Aviv, compiuto nel giugno dell’anno precedente da palestinesi provenienti dalla città di Yatta, a sud di Hebron. I 42 km in questione sono stati costruiti con blocchi di cemento di sei metri, intervallati da torrette e telecamere.

5 agosto 2017, Nena News
ANCORA IN ATTESA
DI UN GANDHI PALESTINESE?
LEI/LUI C’È GIÀ
di Zaha Hassan, trad. di Amedeo Rossi – Zeitun.info

«Ogni ragazzina della Cisgiordania che attraversa un checkpoint per andare a scuola è una Rosa Parks. Ogni prigioniero che fa lo sciopero della fame è un Mandela e ogni gazawi che sopravvive nonostante le condizioni disumane è un Gandhi palestinese».

La seconda domanda (dopo “Dov’è la Palestina?”) più frequentemente posta a un palestinese-americano è: “Dov’è il Gandhi palestinese?” Gli americani vogliono sapere perché i palestinesi non utilizzano tattiche non-violente per porre fine ai loro decenni di oppressione e di colonizzazione della loro terra.

Ovviamente in questa domanda è implicita la premessa, coltivata dalla rappresentazione mediatica dell’ “arabo infuriato” e del musulmano nichilista, così come da campagne lautamente finanziate di sensibilizzazione dell’opinione pubblica che coinvolgono gruppi di lobbysti ed i centri di studio ad essi associati che dipingono tutto il Medio oriente come un covo ribollente di odio contro l’Occidente cristiano, che i palestinesi siano geneticamente predisposti alla violenza.

La verità è che, se un premio Nobel fosse assegnato a un intero popolo per la moderazione che ha dimostrato e per l’ostinata caparbietà a sopravvivere, a perseverare e a costruire un domani migliore nonostante i sistematici tentativi di eliminarlo – persino tentativi di negare addirittura la sua esistenza, come fece Golda Meir [nel 1969 in un’intervista l’allora primo ministro di Israele affermò che i palestinesi non esistevano, ndt.] – esso dovrebbe andare al popolo palestinese.

Perché, dove esiste un precedente dell’imprigionamento di 2.2 milioni di persone che sono stati resi deliberatamente dipendenti per il cibo, l’acqua e l’energia durante un intero decennio, mentre la narrazione continua a dire che è tutto giustificato dalla “sicurezza” di Israele, come nel caso delle attuali sofferenze di Gaza?

Dove c’è un precedente di sette milioni di persone a cui viene negato il diritto di tornare alle proprie case e proprietà confiscate settant’anni fa, solo perché sono della religione sbagliata, mentre nuovi insediamenti illegali si espandono freneticamente nel pezzo di terra della Cisgiordania che dovrebbe essere parte del loro Stato ancora da creare?

Dove c’è un precedente di Stati e istituzioni incaricati di difendere le leggi e la legalità internazionali che chiedono a un popolo occupato sempre più concessioni e di negoziare per legittimare crimini di guerra e per normalizzare l’esistenza dell’occupante?

La verità è che ogni ragazzina della Cisgiordania che attraversa un checkpoint per andare a scuola è una Rosa Parks [la donna di colore che nel 1955 in Alabama si rifiutò di cedere il posto in autobus a un bianco e diede inizio alla lotta per i diritti civili dei neri negli USA, ndt.]. Ogni prigioniero che mette in pericolo la propria vita per settimane intere facendo lo sciopero della fame per lottare contro la propria incarcerazione e le condizioni di detenzione è un Mandela, e ogni persona che oggi vive a Gaza e che sopravvive nonostante le privazioni disumane, è un Gandhi palestinese.

Quante altre migliaia di tappetini da preghiera devono essere srotolati nelle strade di Gerusalemme prima che la resistenza non violenta palestinese sia non solamente riconosciuta ma anche appoggiata e incoraggiata? Quante altre proteste del venerdì devono aver luogo a Bi’lin e in altri villaggi in Cisgiordania? Quante tende della pace devono essere erette e demolite a Gerusalemme e nel Naqab [Negev in arabo, ndt.]?

La vera questione, tuttavia, non è quantificare le proteste, ma garantire che altri le conoscano.

Gandhi lo sapeva. Martin Luther King, Jr lo sapeva. E il governo israeliano, l’AIPAC [l’associazione ebraica filo-israeliana più potente negli USA, ndt.] e quanti sono interessati a mantenere il dominio di Israele sulla terra palestinese lo sanno. E questa è la ragione per cui vergognosi esempi di legislazione come la legge 720 del Senato contro il BDS [movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni contro Israele, ndt.] stanno circolando nelle aule del Congresso. La legge, stilata con la collaborazione dell’AIPAC, lo farebbe diventare un reato punibile fino ad un massimo di 20 anni di carcere e una multa fino a 1 milione di dollari per il fatto di sostenere l’uso di metodi economici non violenti contro Israele.

Potete immaginare Rosa Parks che sconta 20 anni di prigione per aver organizzato il boicottaggio degli autobus segregati? O Martin Luther King Jr. obbligato a pagare un milione di dollari per aver boicottato ristoranti razzisti con posti separati?

Dovrebbe essere chiaro a tutti noi che punire il diritto di espressione che ha lo scopo di porre fine a un’ingiustizia è sbagliato. Quando si vedono i fatti, gli americani lo capiscono. E lentamente ma inesorabilmente alcuni membri del Congresso che inizialmente erano stati co-promotori della legge con un tipico riflesso condizionato, una deferenza cieca verso l’AIPAC, stanno vedendo chiaro, come la senatrice Gillibrand, che, quando è stata messa in guardia dall’ACLU [American Civil Liberties Union, Unione Americana per le Libertà Civili, organizzazione non governativa che difende i diritti civili e le libertà individuali negli USA, ndt.] sulle preoccupazioni relative al diritto di parola e a problemi di incostituzionalità della legge e sfidata da elettori durante un’assemblea comunale, ha espresso la sua volontà di riconsiderare il suo appoggio [alla legge].

Così, mentre CNN e Fox News [due importanti reti televisive statunitensi, ndt.] possono non informare sulle centinaia di migliaia di palestinesi che hanno pregato nelle strade di Gerusalemme la scorsa settimana, protestando contro il tentativo mascherato di Israele di esercitare la propria sovranità sulla Spianata delle Moschee, questi accaniti tentativi legislativi da parte dei difensori di Israele per porre fine all’appoggio alla resistenza non violenta nei territori occupati o all’estero stanno accendendo riflettori da stadio di football sui problemi.

Attivisti del movimento progressista si rendono drammaticamente conto di come le loro libertà civili vengano minacciate in nome della protezione dell’occupazione di Israele sui palestinesi. Allo stesso modo, quando le linee aeree USA hanno messo in atto la legislazione israeliana che impedisce ai difensori dei diritti umani di viaggiare in Israele (compresi ebrei-americani, uno dei quali è un rabbino), gli americani hanno visto il rapporto tra questo fatto e gli abominevoli divieti di viaggio [si riferisce alla proibizione di ingresso negli USA dei passeggeri provenienti da alcuni Paesi musulmani, ndt.] perseguiti dall’amministrazione Trump.

I palestinesi ed i loro sostenitori dovrebbero sperare (e pregare nelle strade) che Israele continui a rivelare la natura della sua oppressione contro di loro, e al contempo continuare a perseguire metodi collaudati e non violenti per riportare la giustizia e lo stato di diritto, perché si giunga ad una vera comprensione delle cause e delle soluzioni del conflitto israelo-palestinese.

Non c’è un modo più efficace per mettere in luce un’ingiustizia e per modificare la percezione sbagliata ad essa associata che attraverso lo stesso oppressore. Rosa Parks, Dr. King e Gandhi lo sapevano e lo sanno anche i palestinesi e quelli che solidarizzano con loro.

Un ficcante articolo scritto per chi ritiene che «l’obiettivo fondamentale sia ricompattare il centrosinistra: discutere sui contenuti, ma per tornare uniti al governo del Paese» come ai bei tempi di Monti e Prodi.

La Repubblica, 24 luglio 2017
È DAVVERO una sinistra morente, quella che considera “mortale” l’abbraccio tra Giuliano Pisapia e Maria Elena Boschi. Come se quella foto scattata alla festa dell’Unità non fosse un semplice gesto di cortesia tra due personalità che pur sapendo di avere idee diverse su tante cose, sanno anche di appartenere a una stessa famiglia politica. Ma fosse invece la prova di un tradimento identitario da parte del leader destinato a guidare il Campo Progressista, che ha l’ardore e l’ardire di cingere la spalla della madrina della riforma costituzionale del governo Renzi. L’immagine di una contaminazione non solo culturale, ma addirittura antropologica, che la purezza della sinistra non può tollerare. Oggi nella lotta irriducibile contro il renzismo, come ieri nella battaglia irrinunciabile contro il berlusconismo.

Bisogna dirlo, con onestà. Renzi fa poco o nulla, per trovare un terreno comune con tutto quello che si muove a sinistra del Pd. Il manifesto macroniano del segretario appena uscito in libreria non ha certo alzato il livello del dibattito, ma semmai ha solo sparso nuovo sale sulle vecchie ferite, tra bordate contro Bersani e strali contro D’Alema, ironie contro Prodi e veleni contro Letta. La disfatta referendaria non ha prodotto nessun cambiamento di linea nel partito, che in un contesto neo-proporzionale si crogiola nel mito ostinato dell’autosufficienza. La conferenza programmatica a ottobre offerta a Orlando e un paio di poltrone in segreteria concesse a Emiliano sono solo un beffardo “brodino” propinato a una minoranza malaticcia e sempre più sofferente.
Ma la sinistra del Pd cosa sta facendo, per ricomporre questa frattura profonda e soprattutto giustificare la sua esistenza presente e futura? Poco o nulla, a sua volta. Gli scissionisti di Mdp, i reduci di Rifondazione, gli epigoni di Sinistra italiana, i civatiani, i montanariani e i falconiani: a guardare le schegge impazzite di questa infinita diaspora torna in mente la leggendaria parodia televisiva che Corrado Guzzanti fece di Bertinotti. Fausto il Rosso, che teorizzava le virtù della “sinistra pulviscolare”, capace di ridursi in polvere e così diventare inafferrabile per il nemico. La sinistra giocosa, innocente e irresponsabile, capace di cullarsi nell’eterna sindrome di Peter Pan, di trascorrere i decenni a suonare ai citofoni e poi di ricomparire dopo qualche era geologica per chiedere «mi ha cercato qualcuno?».
Pisapia, l’uomo che dovrebbe provare a federare le schegge, sarà anche un “leader riluttante”: troppo morbido, un po’ timido, quasi ambiguo. Ma sembra impresa sovrumana mettere ordine in questo caos entropico, in cui si sommano nobili ragioni ideali e indicibili ambizioni personali. Pare che nella galassia rossa si scontrino due o tre linee linee. C’è la linea di Bersani e Speranza, che criticano il Pd ma riconoscono i comuni avversari, Grillo e Berlusconi, e dunque cercano un terreno non conflittuale con la prospettiva che sia ancora possibile ricostruire una parvenza di centro-sinistra. C’è la linea di Pisapia, che teme la nascita di due liste, anche se ne vorrebbe tanto una sola, larga, estesa dai progressisti ai centristi, dai cattolici ai civici, da Zingaretti a Tabacci. Insomma, come cantava Jovanotti, “una grande chiesa / da Che Guevara a Madre Teresa”.
Poi c’è la linea di D’Alema, che è speculare a quella di Renzi: lista unica, “Izquierda unida”, da Articolo Uno a Nicola Fratoianni, magari guidata da Anna Falcone. Una lista radicalmente alternativa al Pd, che lo attacca a viso aperto in campagna elettorale, e dopo il voto si vede com’è finita. In questa lista ci sono quelli che si indignano per i “casti connubi” con Boschi. Quelli che considerano il Pd un partito di destra, da avversare come si avversava Forza Italia. Quelli che riconoscono la leadership di Pisapia solo se chiede scusa per aver votato sì al referendum. Quelli che pongono come conditio sine qua non di una ripresa del dialogo a sinistra l’eliminazione di Renzi dalla scena politica.
Nessuno sa immaginare quale linea prevarrà. Ma al di là di questa guerriglia tattica, e di fronte all’analoga impasse causata dal confuso e rissoso movimentismo di Renzi, è purtroppo evidente che sul piano della strategia questa “accozzaglia del forse” non ha ancora prodotto nulla di qualificante. Non una proposta organica, non una piattaforma programmatica, se si eccettuano le pur sacrosante ma al fondo generiche contestazioni alla buona scuola o al Jobs Act. E allora, tra il Pd che respinge con sdegno il Vinavil messo a disposizione da Prodi e i suoi carnefici che gli oppongono l’antica “diversità” da preservare, la sola colla che tiene insieme le polveri del Campo progressista rischia davvero di essere l’anti-renzismo.
Troppo, perché anche il segretario è palesemente a corto di idee e di orizzonti. Troppo poco, perché così si smarrisce l’obiettivo fondamentale che invece dovrebbe ricompattare il centrosinistra: discutere sui contenuti, ma per tornare uniti al governo del Paese. A prescindere dalle inutili nostalgie, questa è stata la virtù dell’Ulivo del ‘96 e persino dell’Unione del 2006. E questa è oggi la virtù che il Pd e i dieci piccoli indiani che si agitano alla sua sinistra stanno smarrendo. Per ragioni uguali e contrarie, e ripescando una formula coniata da Arturo Parisi dopo la caduta del primo governo Prodi, tutti gridano «meglio perdere che perdersi». Non hanno capito che stavolta, andando avanti così, riusciranno a fare tutte e due le cose.
«Le celebrazioni Rai dei 20 anni e quella per i 25 anni della strage di via D’Amelio raccontano storie diverse. Nell’ultima versione si sfuma il ruolo della trattativa tra Stato e Cosa Nostra, depistaggi ed errori non hanno responsabili chiari».

il Fatto Quotidiano, 24 luglio 2017 (p.d.)

Più ci si allontana nel tempo da un evento, più cresce la responsabilità di chi lo racconta a generazioni che non ne hanno diretta memoria. Per i 25 anni dalla strage di via d'Amelio la Rai ha creato e proposto in prima serata sulla rete ammiraglia una docufiction dal titolo Adesso tocca a me (regia di Francesco Miccichè), che combina filmati d’archivio, interviste ai protagonisti superstiti, e ricostruzioni cinematografiche di 57 giorni intercorsi fra la strage di Capaci e quella del 19 luglio 1992. Si tratta di un'iniziativa in sé degna di ogni lode; appare tuttavia istruttivo il confronto tra questa nuova produzione e l'analoga fiction Rai di cinque anni fa (I 57 giorni, regia di Alberto Negrin), che vedeva come protagonista Luca Zingaretti.
Non importa rilevare qui che la mancanza di un filo narrativo unitario rende la docufiction di oggi più desultoria e farraginosa, tanto più in quanto la commovente testimonianza dell’agente superstite Antonio Vullo, che parla in prima persona, si sovrappone a“tagli” e punti di vista diversi, nonché ai commenti fuori campo e alle interviste a posteriori dei fratelli e dei colleghi del giudice, tra cui l’attuale presidente del Senato Piero Grasso. Quel che importa è che le differenze tra le due produzioni tv sono una spia della poco confortante virata culturale intervenuta dal 2012 a oggi. In Adesso tocca a me la parola “trattativa” compare una volta sola, in bocca al procuratore Sergio Lari, senza che sia nemmeno ben chiaro a cosa si riferisca; ne I 57 giorni, invece, si tratta di una realtà evocata a più riprese, che è al centro delle preoccupazioni di Borsellino nelle ultime settimane di vita, in quanto sembra proprio l'opposizione del giudice ai contatti (non episodici) tra la mafia e pezzi dello Stato a risultargli fatale. Non a caso, nel 2012 a fianco di Borsellino si vede per lo più il giovane sostituto procuratore Antonio Ingroia (futuro artefice proprio del processo sulla trattativa insieme a Nino di Matteo e ad altri), mentre nel 2017 in quel ruolo incontriamo l’eroico poliziotto Rino Germanà (egli stesso oggetto di un attentato nel ‘92), che discute col giudice della strategia degli appalti di Cosa Nostra.
Nel 2012 i contrasti di Borsellino con il procuratore di Palermo Giammanco vengono drammatizzati in una serie di scontri violenti che rendono plasticamente gli ostacoli incontrati dal magistrato nel suo ambiente di lavoro; nel 2017 questi alterchi sono ridotti a un unico episodio, e si insiste sul peraltro indubbio favore popolare di cui il giudice godeva dopo la morte di Giovanni Falcone; la complessa partita della neonata Direzione Nazionale Antimafia, alla cui direzione, dopo Capaci, molti volevano fosse nominato proprio Borsellino, è liquidata in una sola battuta. Nel 2017 l’interrogatorio-clou condotto da Borsellino a Roma è quello del pentito Leonardo Messina, e verte sulla dinamica degli appalti mafiosi, mentre ai colloqui col pentito Gaspare Mutolo è riservato un breve per quanto intenso cameo. Nel 2012, invece, è proprio l’interrogatorio di Mutolo del 1 luglio 1992 a svelare a Borsellino dei retroscena insospettati sui legami tra mafia, politica e servizi segreti, e tramite un semplice espediente (la “mano offesa”) si fa capire che Mutolo indica a Borsellino come agente infedele dei servizi il medesimo personaggio che in quello stesso giorno egli incontra poi al ministero degli Interni è la scena madre in cui Borsellino intuisce che un pezzo dello Stato lo controlla e lavora contro di lui. Interessante caso di simmetria: nel 2012 si identificava l'agente, ma non se ne diceva il nome; nel 2017 si menziona bensì il nome dell’agente, ma non si precisa che è lo stesso che il pentito accusa così pesantemente: per le future generazioni bisognerà mettere insieme i pezzi e spiegare che si tratta di Bruno Contrada, poi condannato a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa (la recente revoca della condanna in Cassazione non interviene sul merito degli addebiti ma sulla codificazione giuridica del reato all'epoca dei fatti).
Infine, nel 2012 tutto si chiudeva con il furto misterioso dell’agenda rossa e i drammatici funerali; nel 2017 si ha il coraggio di parlare dell’infame depistaggio che per anni ha addossato la strage all'improbabile pentito Vincenzo Scarantino, finalmente assolto con tutti i co-imputati. Ma non viene chiarito il ruolo di chi a Scarantino per primo credette (o lo creò?), come il collerico questore Arnaldo La Barbera, o il procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra: quest'ultimo anzi nella fiction di oggi non compare affatto, mentre in quella del 2012 in pieno Palazzo di Giustizia veniva mandato a quel paese da Borsellino, il quale pochi giorni prima di morire reclamava invano di essere ascoltato come testimone nell’indagine su Capaci, condotta proprio da Tinebra. Né poi in Adesso tocca a me il loquace presidente del Senato Grasso, che dispensa perle di saggezza, giunge a spiegare come mai nulla accadde dopo il suo interrogatorio segreto al pentito Gaspare Spatuzza del lontano giugno 1998, nel quale - come ha mostrato Enrico Deaglio sulla base di un controverso verbale - Scarantino veniva già totalmente scagionato.
Una trattativa inesistente, un Contrada al più ambiguo, un depistaggio messo in atto da ignoti. Viene da chiedersi se la fiction del trentennale, nel 2022, partirà da queste premesse, o da altre.
«e». il manifesto

Mercoledì 25 luglio, il Senato ha intenzione di ratificare Il Ceta (Comprehensive Economic and Trade Agreement), trattato di libero commercio fra Unione Europea e Canada. Una scorciatoia estiva volta a silenziare la discussione e le proteste. Che tuttavia si sono alzate anche questa volta con forza, partendo dal basso per arrivare a coinvolgere centinaia di enti locali e diverse regioni (Lazio, Lombardia, Liguria, Veneto, Puglia, Calabria, Marche e Valle d’Aosta).

Il Ceta, come tutti i trattati di libero scambio, viene propagandato come decisivo per la nostra economia e portatore di tutti i benefici derivanti dalla liberalizzazione. In realtà, esattamente come tutti i trattati di libero scambio, l’obiettivo è quello di accelerare nel passaggio dallo stato di diritto allo stato di mercato, mercificando i beni comuni e relegando diritti e democrazia a variabili dipendenti dai profitti e dagli interessi delle grandi multinazionali e delle lobby finanziare.

Messo in stand-by il TTIP, grazie alle proteste dei movimenti sociali dilagate tra le due sponde dell’Oceano Atlantico e al conseguente esplodere delle contraddizioni interne tra gli interessi dei suoi sostenitori, l’attenzione è stata dirottata sul Ceta, che, fra l’altro, rappresenta un possibile “cavallo di Troia” per by-passare lo stallo del Ttip.

Una volta ratificato l’accordo, infatti, ad una qualsiasi multinazionale statunitense, basterebbe aprire una sede legale in Canada per poterne usufruire a tutti gli effetti, a partire dall’arbitrato internazionale d’affari che permette alle imprese di fare causa ai governi se le leggi da questi approvate comportino limiti ai profitti preventivati.

Come per ogni trattato, la litania dei suoi sostenitori è tanto ripetitiva quanto falsa. A partire da quel “ce lo chiede l’Europa”, smentito categoricamente dalla Corte di Giustizia Europea che, in una recente sentenza riguardante un analogo accordo tra Ue e Singapore, ha affermato come gli accordi di libero scambio, investendo materie di competenza degli Stati, possono essere approvato solo sotto la responsabilità degli stessi.

Naturalmente, vengono sbandierati dati inverosimili sui benefici per le nostre esportazioni, sottacendo come il nostro tessuto economico sia costituito da piccole, medie e micro imprese e che solo lo 0,3% del totale delle imprese italiane ne trarrebbe beneficio, mentre la liberalizzazione e l’apertura del mercato interno aprirebbe le porte all’agrobusiness d’oltre Oceano, minacciando la produzione di qualità dei nostri territori.

Si sprecano infine le rassicurazioni sugli ogm, sul principio di precauzione, sulla tutela dei servizi pubblici, quando basta leggere il testo del trattato per comprendere la fondatezza di tutte le preoccupazioni messe in campo nelle mobilitazioni di questi mesi.

D’altronde, se il Ceta (come tutti i trattati gemelli) fosse foriero di tutti i benefici raccontati, perché non aprire una discussione ampia, pubblica, reticolare e partecipativa dentro la società, invece di provare a ratificarlo di soppiatto in una riunione parlamentare pre-vacanziera?

Per questo la Campagna Stop Ttip/Stop Ceta invita tutte e tutti a proseguire la mobilitazione e a fare ancora una volta pressione su tutti i senatori (https://stop-ttip-italia.net/) perché questo ennesimo scempio di democrazia non venga perpetrato.

Forse se chi ogni giorno discute su come ricostruire una sinistra o un’alternativa per questo Paese parlasse di Ceta, Ttip e Tisa, invece che misurare col righello il perimetro politicista dentro il quale mandare segnali, l’inversione di rotta sulle politiche liberiste smetterebbe di sembrare un miraggio.

La politica in mano agli psicoanalisti : a Napoli si direbbe "'a pazziella 'n mano 'e criature" se fossero tutti come Recalcati.

il manifesto, 19 luglio 2017, con postilla

Lo psicoanalista Massimo Recalcati (la Repubblica, 17 luglio), si occupa delle ragioni che fanno covare un “odio” smisurato per il segretario Pd e dei perché della mancata elaborazione del “lutto” che porta la sinistra ad essere rancorosa.

Si direbbe una difesa di parte, troppo appassionata per essere oggettiva e poco credibile per le categorie analitiche utilizzate. Si sa che Matteo Renzi, come segretario del Pd, e Recalcati, come ideatore della Scuola quadri del partito, si sono scelti per vincere. Il segretario, sempre più solo al comando, aspira ad essere eletto Capo del governo nazionale. Lo psicoanalista, sempre più criticato dai suoi stessi colleghi, mira a divenire il Grande guru della psico-politica italiana. Messa così c’è poco da sperare per le sorti del Paese. Renzi e Recalcati come due maschere della scena politica e psicoanalitica italiana.

Vedono bruciare l’Italia e incuranti si lodano fino all’incanto. Forse, non percepiscono che con il loro fare e dire stanno accelerando la precipitazione nel baratro. Quello aperto dal rifiuto degli italiani della politica renziana e dall’assenteismo elettorale dei cittadini.

Questi fattori critici sono in continua crescita e già in maggioranza nel Paese. Si potrebbe dire che lo stato comatoso di Renzi non trova nei rimedi del suo psicoanalista una possibilità di rianimazione, con molte probabilità ci penserà Berlusconi.

Il povero Pd si trova sbattuto da ogni lato, ormai esangue si vede incitato dal suo segretario ad andare Avanti, titolo del libro di Renzi. Un documento pieno dei segni e sintomi dell’autore, pagine intrise dei propri fantasmi senza mai trovare una parola significante per la sinistra e i democratici che non vogliono rassegnarsi a consegnare il Paese alla destra.

Come, d’altra parte, lo stesso Recalcati non trova una categoria freudiana o lacaniana credibile che lo possa aiutare ad analizzare la tragicommedia del renzismo e più in generale del Pd e del radicalismo scissionista. Parla di odio e di lutto per descrivere lo stato d’irresponsabilità e di lacerazione in cui si sono ricacciati dirigenti storici e nuovi della sinistra. Parla del Male e del Bene come concetti per risolvere il conflitto del Novecento che attanaglia ancora il socialismo italiano.

Recalcati, sempre convinto che le teorie della psicoanalisi europea siano universali, non avverte la necessità di adottare un diverso paradigma proprio del campo che si vuole esplorare, in questo caso delle scienze della politica.

L’odio che sta investendo il segretario del Pd non risponde a logiche arcaiche o pulsionali dei suoi gufi. E’ semplicemente il risultato di una personalizzazione dello scontro politico voluta da Renzi prima con la scanzonata rottamazione e poi con la pretesa di fedeltà. Queste sì che sono categorie pre-politiche.

I nodi reali e insoluti nella sinistra non sono quelli dell’odio viscerale e del lutto mancato. Sono, invece, quei nodi fatti di fili storici che continuano a intricarsi nella contrapposizione irrisolta tra egemonia e pluralismo, tra centralismo e democrazia, tra governo e opposizione. Forse, su queste categorie proprie della politica si riesce a capire perché i movimenti del comunismo, del socialismo e del riformismo nella loro evoluzione non sono mai riusciti a darsi una identità unitaria e una pratica di unione.

Questa miopia di visione è quella che per esempio non ha permesso di fondere i Ds e la Margherita, la famosa fusione a freddo. In realtà Renzi e D’Alema, come i loro simili, sono vittime del culto personale e del potere egemonico. Idea sconfitta definitivamente dalla caduta del muro di Berlino e mai sostituita con quella più rivoluzionaria “uniti per unire”.

Un’altra parola vincente emersa dalla tragedia del Novecento è “democrazia” intesa come senso del limite, delle differenze, dell’inclusione, del pluralismo, della responsabilità. Solo con questi “nuovi” connotati la sinistra può raggiungere l’unità e costruire una democrazia governante, capace di realizzare il bene comune (la sinistra cattolica) e l’interesse collettivo (la sinistra riformista).

C’è ancora molta strada per una sintesi vincente, sicuramente non servono inesistenti scorciatoie, inappropriate letture e illusori rimedi.

A noi, che siamo ingenui, per essere contrari a Matteo Renzi è bastato comprendere, fin da quando organizzò le Leopolde che era, meglio di Berlusconi, l'uomo del neoliberismo e della Trilateral per l'Italia, e poi renderci via via che il suo sistema di potere era basato sul ricatto, la corruzione, l'impadronimento di fondi pubblici, la feudalizzazione delle istituzioni (e.s.).

il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2017 (p.d.)

In occasione del 25° anniversario della strage di via D’Amelio pubblichiamo l’ultimo discorso pubblico che Borsellino tenne il 25 giugno 1992 durante un dibattito organizzato dalla rivista Micromega nell’atrio della Biblioteca Comunale di Palermo.
Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione - in questo momento i miei ricordi non sono precisi - un'affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione. Con questo non intendo dire che so il perché dell'evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all'autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi ci accorgiamo come lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l'anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell'articolo di Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera che bollava me come un professionista dell'antimafia.
Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C'eravamo tutti resi conto che c'era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a Palermo. Ma (poi) si aprì la corsa alla successione all'ufficio istruzione. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli. Falcone, dimostrando l'altissimo senso delle istituzioni (...) cominciò a lavorare con Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Csm, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io (...) mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. (...)
Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d'Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Csm immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l'opinione pubblica lo deve sapere, il pool antimafia non deve morire in silenzio. (...) Giovanni Falcone, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne (…) di non poter più continuare ad operare al meglio. Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti e di Claudio Martelli, ma perché ritenne di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. (…) Una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l'ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa (...).
E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch'io ho espresso nell'immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, per ritornare a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e l'organizzazione mafiosa - non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque - quando ha preparato ed attuato l'attentato del 23 maggio, l'ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Csm, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia.
Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione anche con riferimento all'esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l'indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Falcone in questa sua brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura.

«La continua sollecitazione all’amore verso il capo non regge senza prove d’amore».

la Repubblica, 18 luglio 2017 (c.m.c)

Non so se giovi mettere la politica sul lettino dell’analista, specie se l’analista non è estraneo al gioco politico. In ogni caso, se si cerca la ragione della diffusa insofferenza verso Matteo Renzi, la risposta è: Matteo Renzi.

Lungo tutta la sua carriera politica, Renzi non ha lavorato a costruire una comunità, ma a drammatizzare il rapporto tra un capo e la folla. Non con la parola razionale, l’argomentazione, ma con la seduzione dello storytelling, cioè di un marketing capace di vendere al pubblico una scatola il cui unico contenuto era Renzi stesso. «Un rullo compressore lanciato su società e politica per spianare qualsiasi ostacolo», secondo un’efficace definizione di Stefano Rodotà.

Una ultrapersonalizzazione che sostituiva alle istituzioni e ai corpi intermedi la consorteria fiduciaria del capo, il famoso giglio magico. Un ritorno all’antico regime, al tanto vagheggiato Rinascimento: non al dittatore, e nemmeno all’amministratore delegato berlusconiano, ma al principe e alla corte.
Qualcuno ricorderà la massima impresa mediatica del Renzi sindaco: la risibile ricerca della inesistente Battaglia di Anghiari di Leonardo in Palazzo Vecchio. La narrazione opponeva un giovane sindaco che parlava di «sogni», ai «professoroni della storia dell’arte», con la loro incapacità di «essere stupiti dal mistero».

E quando Roberto Saviano puntò il dito contro il conflitto di interessi del ministro Boschi nell’affaire Banca Etruria, Renzi rispose teatralizzando l’amore e l’odio: «Siamo gli unici che vogliono bene all’Italia, contro il disfattismo e il nichilismo, contro chi sfoga la sua frustrazione nelle polemiche ». Era lo stesso schema poi adottato per il referendum, contro i costituzionalisti del No: il rapporto diretto con la gente e la demonizzazione dei portatori di senso critico. Ma la continua sollecitazione all’amore verso il capo non può reggere a lungo senza concrete prove d’amore.

Se il rullo compressore non funziona, la fascinazione si trasforma presto in diffidenza, poi in ostilità. Renzi è passato molto velocemente dalla Provincia, al Comune a Palazzo Chigi. E quando lì è stato evidente che le promesse mancate, le insufficienze di governo, la mancanza di visione, l’incapacità di creare una squadra e di tenere in piedi una comunità minavano la credibilità dello storytelling, il rimedio è stato la scommessa del referendum.

Lo schema più amato da Renzi: lui solo contro tutti, appellandosi alla folla. È finita come sappiamo: tutta la personalizzazione renziana ha cambiato segno in poche ore, dall’amore al suo contrario. L’apprendista stregone è stato travolto dalla forza evocata. E il mancato ritiro dalla politica, solennemente promesso, ha infine trasformato un dramma nell’eterna commedia italiana.

Ora l’errore più grave sarebbe seguire lo stesso schema. E cioè pensare che, finito Renzi, la Sinistra italiana possa ricominciare dal 2014. Quando è evidente che il futuro non può essere il ritorno alla classe dirigente che, con la sua catena di errori e debolezze, ha aperto la strada all’avventurismo personale renziano. Per questo la mia richiesta a Giuliano Pisapia di discutere senza remore la sua scelta di votare sì al referendum non mira (come suggerisce Recalcati) a una nuova personalizzazione, stavolta in negativo: ma, anzi, vuole aprire una seria riflessione di merito.
Quella riforma puntava sulla centralità dell’esecutivo a spese della rappresentanza, sulla figura del capo, su un restringimento degli spazi della critica: è ancora questa la direzione? È questa la via più adatta per combattere la diseguaglianza che sfigura il paese? Lasciamo i capi al loro destino, riprendiamo ad occuparci della comunità.

il Fatto Quotidiano, 16 luglio 2017 (p.d.)

Nel Veneto bianco il territorio è sacro. Non quello vero, violentato in ogni modo dai capannoni, dalle concerie e dal progresso scorsoio di cui parlava il poeta Andrea Zanzotto: è sacra la retorica del territorio. Le “realtà produttive del territorio”, garantite e supportate in primo luogo dagli istituti di credito locali, piccoli, belli e sicuri. Volano della “nostra” economia. È ormai acclarato che alcune di queste banche ammannivano al territorio (e ai loro strapagati CdA) denari e utili che non avevano; e da molti mesi ormai, accanto a chi ha perso tanto o tutto, si vedono legioni di piccoli risparmiatori non sinistrati che corrono ad aprire negli istituti superstiti - fiducia o non fiducia - conti correnti di piccolo taglio, sotto i 100mila euro, quelli che dovrebbero essere al riparo da ogni sorpresa. Ma il fallimento del modello veneto non è stato solo bancario (propiziato, quello, dai mancati o tardivi controllidi Consob e Bankitalia): è stato in primo luogo un fallimento politico e culturale di chi avrebbe dovuto accorgersi, o almeno obiettare, e non l’ha fatto.

Montebelluna è un borgo piccolo, a lungo governato da un politico di rilievo nazionale, Laura Puppato: nel 2008, come sindaco, la “pasionaria” antirenziana - persona di sicura integrità, sia ben chiaro - conferì la cittadinanza onoraria al "coraggioso ed esperto timoniere" Vincenzo Consoli, per 16 anni grande capo e stratega di Veneto Banca, dunque vero artefice del castello di carta sfaldatosi pochi anni dopo sotto i colpi delle ispezioni della Banca d’Italia e poi del decreto Renzi che obbligava alla trasformazione delle banche popolari in SpA. L’inchiesta romana che ha portato in cella lo stesso Consoli nell’agosto 2016 ipotizza vari reati, ma è un fatto indiscutibile che l’istituto è finito al disastro, ed è un fatto che a livello politico né il Pd né la Lega (ancora nel 2014, il governatore Luca Zaia difese platealmente Consoli e il vecchio management dal primo intervento di Bankitalia) hanno mai seriamente combattuto o messo in dubbio un sistema, un’idea di sviluppo bancario "territoriale" che ha portato alla catastrofe odierna. E gli intellettuali delle università hanno - nella migliore delle ipotesi - guardato altrove: Francesco Favotto, ordinario a Padova, sedeva direttamente nel CdA (e ha avuto per questo le sue grane); Loris Tosi, ordinario a Venezia, è uno dei Grandi soci della banca; nel 2011 Vincenzo Consoli fu l’ospite d’onore nella cerimonia di consegna dei diplomi ai neolaureati di Ca’Foscari, la cui Fondazione ha il suo conto proprio presso Veneto Banca, che nel 2015 finanziava con 1.250 euro una lezione veneziana di Vittorino Andreoli, dopo avere sponsorizzato nel 2013 un ominoso concorso “Ambizioni per un mondo migliore”. Il Veneto è piccolo, la rete è tutta una. Sarebbe facile seguire, tramite una fitta serie di holding e di partecipate, i fili che menano da Veneto Banca ad alcuni maggiorenti veneziani, anzitutto quelli implicati nello scandalo del Mose (nella banca avevano grandi interessi l’ex governatore Giancarlo Galan e il manager Roberto Meneguzzo, creatore della Palladio Finanziaria), ma anche i più modesti proprietari di una società come EstCapital, che propiziò tra l'altro la devastazione di una parte del Lido in nome del nuovo Palacinema.

Ma torniamo in terraferma, 50 chilometri più in là: a Vicenza, gli ultimi vent’anni della Banca Popolare hanno un nome solo, quello del presidente Gianni Zonin: riverito dalla politica e dalla città, senza eccezioni (nemmeno il Pd di Alessandra Moretti, già vicesindaco), trattato coi guanti bianchi financo dopo la caduta (a lui, benché accusato dei medesimi reati di Consoli aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza - è stato fin qui risparmiato ogni provvedimento cautelare), l’ex presidente avrebbe goduto, secondo il suo predecessore Giancarlo Ferretto, di appoggi importanti dal Quirinale al Vaticano. Per le università, anche qui, briciole: oltre a un’altra passerella per educare i neolaureati veneziani nel 2012 (stavolta del vicedirettore Emanuele Giustini, oggi indagato), spiccano il Master honoris causa in banche e finanza ammannito a Zonin nel 2005 dalla "Fondazione consorzio universitario di organizzazione aziendale" (con dentro tutti gli atenei del Nordest: ne parla Sergio Rizzo ne La repubblica dei brocchi), e un convegno organizzato da BpVI a Verona nel 2009 su “Evoluzione dei controlli di vigilanza e implicazioni gestionali per le banche”. Colpisce che rimanga beatamente impunito il responsabile primo (al di là dei risvolti penali) di una strategia imprenditoriale che, secondo ogni evidenza, ha puntato a gonfiare l’ego e le azioni dei vicentini tramite un vasto sistema clientelare, anziché ad avviare una più lungimirante fusione virtuosa con altre banche sane del territorio. Chi voglia seguire i dettagli dei molti procedimenti in cui Zonin è stato coinvolto e singolarmente prosciolto negli anni (sul Fatto si è parlato del tristo destino dell'inflessibile giudice Cecilia Carreri), o più in generale farsi un’idea delle reti di potere sviluppate negli anni dalle due banche venete, può leggere gli articoli impeccabili sul sito Lettera43.it.

Nel marzo scorso, l’azione di responsabilità finalmente intentata contro Zonin e la precedente gestione della Popolare di Vicenza ha molto irritato uno degli ex-componenti del CdA di tale banca (dal 2007 al 2012), Paolo Bedoni. Al netto del suo passato (è stato anche presidente nazionale di Coldiretti dal ‘97 al 2006), Bedoni è un uomo molto importante, dal 2006 presiede la veronese Cattolica Assicurazioni, uno dei più grandi gruppi italiani (lo Ior è tra i maggiori azionisti), che tra l’altro assicura buona parte delle parrocchie italiane. Assai restio a trasformare la Cattolica in una SpA (ma pronto a investire decine di milioni in un controverso progetto universitario con l’incubatore H-Farm e l’università Ca’Foscari), secondo alcuni Bedoni potrebbe risentire della recente caduta dell’ex sindaco Flavio Tosi, il quale nel 2011, all’apice del suo potere, aveva "scalato" il gruppo coi suoi uomini. La questione però non è tanto né solo veronese, ma nazionale, e tocca i più delicati equilibri della finanza cattolica, che ha in Veneto uno dei suoi fulcri. Il 16 giugno, nel silenzio della stampa nazionale, sono finiti in cella per ordine della procura di Venezia (tanto per cambiare, un filone del Mose) il direttore amministrativo di Cattolica Giuseppe Milone e l’ex dirigente Albino Zatachetto,insieme ad altre14 persone: tutti accusati di un episodio (che secondo gli inquirenti sarebbe solo "la punta di un iceberg") di corruzione alla Guardia di Finanza, volta ad ottenere, in cambio di rolex, assunzioni e favori, uno "sconto" di 6 milioni di euro su una multa fiscale, e - così si legge nelle intercettazioni pubblicate sul sito del Fatto - a “tener fuori il presidente dal penale”. Sebbene Bedoni non sia indagato, e sebbene il CdA di Cattolica abbia immediatamente sospeso gli amministratori coinvolti, c’è da chiedersi cosa possa pensare papa Francesco, che tanto tuona contro la corruzione, di sospetti così pesanti che gravano su un gruppo assicurativo centrale per le finanze della Chiesa.
Non si tutta solo di "una falla", ma di un regime che ha distrutto la Repubblica, da cima a fondo. E gli incendiari comandano ancora. Gi abitanti della penisola accetteranno ancora per molto?.

il manifesto, 15 luglio 2017

Le telecamere della Rai, ieri, hanno mostrato le immagini dell’aeroporto di Ciampino, dove è ospitata la flotta antincendio dello stato. La maggior parte degli elicotteri resta a terra: sono 16 ma solo 3 vengono utilizzati. La colpa, secondo il servizio, è la mancanza dei decreti attuativi per rendere operativo il personale che è passato dal Corpo forestale ai Vigili del fuoco. La riforma Madia ha infatti soppresso la forestale, dividendo il personale tra caschi rossi e Arma. Altri 16 velivoli sono andati ai Carabinieri che però non avrebbero ancora stanziato fondi sufficienti per la manutenzione di tutti gli elicotteri.

La polemica su una delle riforme simbolo dei mille giorni del governo Renzi è proseguita anche ieri. «Che lo squilibrio nella ripartizione numerica degli uomini del soppresso Corpo forestale avrebbe depotenziato la lotta agli incendi lo avevamo denunciato inascoltati da mesi – ha spiegato Antonio Brizzi, del sindacato Conapo dei Vigili del fuoco -. Sin da quando, a fine 2016, si era saputo che solo 360 ex forestali sarebbero stati assegnati ai pompieri, per svolgere mansioni che sino al 2016 svolgevano, seppur in modo non esclusivo, in quasi 8mila forestali e nonostante eravamo già carenti di 3.500 caschi rossi».

Sotto accusa anche la gestione dei mezzi: «Ai Carabinieri sono stati assegnati 8 elicotteri Breda idonei all’uso civile antincendio – spiega Brizzi -. Ci risulta che quest’anno non hanno versato nemmeno una goccia d’acqua sino a giovedì, quando li hanno visti in volo per la prima volta. A conferma che questa assurda riforma è squilibrata, avendo assegnato ai Carabinieri elicotteri che servirebbero ai Vigili del Fuoco».

Ieri l’Usb ha diffuso un documento, firmato il 7 luglio dal generale dell’Arma Antonio Ricciardi, comandante dell’Unità per la Tutela Forestale, Ambientale e Agroalimentare, nel quale si dice che gli ex forestali non hanno il compito di sedare gli incendi boschivi. Il documento, precisa l’Usb, impartisce ordini precisi: in caso di incendio chiamare i Vigili del Fuoco. L’intervento diretto è consentito solo in caso di «piccoli fuochi». Dei 32 elicotteri di cui il Corpo Forestale disponeva, prosegue l’Usb, 16 sono passati ai carabinieri e sono stati trasformati in velivoli militari con un cambio di matricola.

Mancanza di uomini, risorse e programmazione è quanto denuncia il coordinatore regionale Cgil dei pompieri toscani, Massimo Marconcini: «La situazione è disperata, gli elicotteri sono tutti fermi per problemi vari, le autopompe serbatoio e le auto hanno in media 15-20 anni. Le recenti scelte legislative hanno prodotto da un lato l’abbandono del corpo dei vigili, lasciato senza mezzi e con risorse inadeguate, dall’altro hanno creato confusioni normative e comportamentali con la soppressione del Corpo forestale».

Ai problemi legati alle decisioni del governo si sommano i ritardi a livello regionale: le due realtà più bersagliate dagli incendi, Sicilia e Campania, si sono fatte trovare impreparate. La Sicilia, che aveva 23mila lavoratori forestali, al momento non ha ancora stipulato la convenzione con il corpo dei Vigili del Fuoco per la prevenzione degli incendi. Il governatore Rosario Crocetta nega di esserne responsabile: «Abbiamo sempre avuto una convenzione con il Corpo forestale, dopo che l’hanno smantellato i mezzi dovevano essere trasferiti ai pompieri. Ho chiesto di rinnovare la convenzione e aspettiamo una risposta».

In Campania la firma in calce alla convenzione è stata messa dal governatore ieri e dovrebbe partire oggi. Il capogruppo di Fi in regione ipotizza un’illegittimità nella procedura.
A proposito di “radici cristiane”Ecco come la lettura del libello di Matteo Renzi può aiutare a rendere i chiacchiericci estivi un po più interessanti e chiarificatori che discutere delle differenze tra D’Alema e Pisapia.

Huffington Post online, 16 luglio 2017

Davvero non verrebbe voglia di parlare del libro di Renzi: anche perché viene da piangere pensando che un editore con la storia di Feltrinelli si sia prestato a questa grottesca operazione di marketing politico. Ma discutere di alcuni dei nodi toccati nelle innumerevoli anticipazioni del libro è almeno un modo per dirci con chiarezza cosa vuol dire oggi essere di sinistra. Parlando delle cose, e dei problemi: e non seguendo e alimentando, invece, il terrificante borsino quotidiano delle distanze di Pisapia da D'Alema, roba capace di far crollare ai minimi storici l'affluenza alle prossime elezioni.

Nella pagina ritagliata per il quotidiano dei vescovi, Avvenire, Renzi scrive che: «Avere rifiutato di menzionare le radici cristiane dell'Europa appare dunque un tragico errore che, in nome di un astratto principio di rispetto multiculturale, ha impedito una definizione più precisa della nostra identità. Quasi che avessimo paura a definirci per quello che siamo dal punto di vista oggettivo della cultura continentale, non certo dal punto di vista soggettivo del culto individuale».

Ecco, questa è una posizione inequivocabilmente di destra. Perché pensa di usare una costituzione europea per definire una identità escludente: ritenendo che l'Europa sia “casa nostra”, ben distante dalle case in cui dovremmo aiutare (cito sempre Renzi) i migranti musulmani. Devo dichiarare che sono cristiano, e cattolico praticante. Ma sono anche uno strenuo sostenitore della più rigorosa laicità dello Stato. Perché sono profondamente convinto – cito Oscar Luigi Scalfaro, il più cattolico e anche il più laico dei nostri presidenti – che «lo Stato deve essere la casa di tutti». Lo Stato italiano: e a maggior ragione l'Europa.

Matteo Renzi, che pure si è laureato con una tesi su Giorgio La Pira, forse non ricorda il dibattito alla Costituente del 22 dicembre 1947. Con la Carta sul filo del traguardo (verrà approvata quello stesso giorno), il cattolicissimo deputato fiorentino propose di inserire un preambolo che contenesse il nome di Dio. A questo punto intervennero, mirabilmente, Palmiro Togliatti, Concetto Marchesi e Piero Calamandrei: tutti garbatamente, ma fermamente, contrari. Marchesi – comunista, partigiano e grande umanista – disse che «questo mistero, questo supremo mistero dell'universo non può essere risoluto in un articolo della Costituzione, in un articolo di Costituzione che riguarda tutti i cittadini, quelli che credono, quelli che non credono, quelli che crederanno».

La Pira, alla fine, ritirò saggiamente la sua proposta, per non spaccare la Costituente sul nome di Dio. Ma il punto qui più rilevante è quello in cui La Pira chiarisce il senso della sua proposta: che voleva essere un alto riferimento ad una dimensione spirituale, non una dichiarazione confessionale. Il Dio che La Pira voleva in Costituzione, insomma, non era il Dio cristiano: «L'importante è di non fare una specifica affermazione di fede, come è nella Costituzione irlandese:"In nome della Santissima Trinità"», disse.

Oggi, settant'anni dopo, Renzi vorrebbe invece per l'Europa proprio quella dichiarazione di una matrice confessionale che La Pira non voleva allora. Ed è fin troppo evidente che Renzi non è più cattolico di La Pira: ma oggi questioni altissime come questa vengono cucinate sul fuoco della più brutale ricerca del consenso. Perché è chiaro che un'affermazione identitaria come quella che vorrebbe Renzi va letta nel quadro della retorica securitaria: nella retorica che definisce una “casa nostra” in opposizione alla “casa loro”. L'idea tristissima di un'Europa così incapace di futuro, e riversa su stessa, da trasformare la propria storia in un muro.

Allora, no: il “tragico errore” di cui parla Renzi non è certo quello di aver saggiamente rinunciato alla menzione delle “radici cristiane”. Da fiorentino e, appunto, da cristiano vorrei ricordare al mio ex sindaco un suo personale “tragico errore”: quello di essersi opposto in tutti i modi alla costruzione di una moschea a Firenze.

«Non vedo spazi nel centro storico di Firenze per farla, in questo momento» diceva Renzi nel marzo 2011. Nacque allora un ampio dibattito, e quando gli scrissi una mail con la proposta di cercare quello spazio in una chiesa sconsacrata (è successo per esempio a Palermo), Renzi mi rispose: «È una bella sfida, Tomaso. Davvero una bella sfida...». Naturalmente una sfida mai raccolta: Firenze non ha una moschea.

E ancora recentissimamente Renzi ha rimbrottato il suo successore Dario Nardella, che finalmente dà qualche timido segnale di indipendenza e che aveva individuato un luogo dove fare la moschea, rimproverandogli di mettere a rischio un confinante affare immobiliare (dell'imprenditore che aveva comprato l'Unità).

Ecco: inscrivere nella costituzione europea le “radici cristiane” è un'idea di destra, che va d'accordo con la linea politica (di destra) di un'amministrazione che fa di tutto per non permettere la costruzione di una moschea.

È difficile esagerare la portata di una questione come questa. In un recente, magnifico libro (Ma quale paradiso? Tra i Jihadisti delle Maldive, Einaudi 2017) Francesca Borri racconta che quando un maldiviano apprende che lei è italiana, reagisce così: «Ho visto quelle foto di ... come si chiama, con tutti i musulmani che pregano nei parcheggi dei supermercati!». E l'autrice commenta: «Si chiama Nicolò De Giorgis, il fotografo. L'Italia ha 1,3 milioni di musulmani. E 8 moschee. I musulmani pregano in palestre dismesse, campi incolti. In periferie di cemento e ciminiere, tra vecchi copertoni. Al riparo di teli di plastica». Questa la percezione dell'Italia, alle Maldive: il paese del lusso per gli occidentali, e anche il paese con il più alto numero pro capite di foreign fighters, cioè di musulmani che vanno a combattere in Siria, con l'Isis.

Basta questo per capire che, se stiamo facendo un “tragico errore”, quell'errore non è certo evitare l'ennesimo arroccamento identitario dettato dalla paura, ma piuttosto quelli di non camminare a grandi passi sulla via non solo dell'integrazione, ma della giustizia.

Costruire giustizia, inclusione, eguaglianza: ecco cosa vuol dire essere di sinistra. E cioè provare a costruire un futuro migliore, e più giusto. E si potrebbe anche aggiungere: fare cose cristiane, invece che sbandierare radici cristiane. Può darsi che queste siano cose “estremistiche” o “radicali” rispetto al teatrino delle prossimità variabili tra i leader senza popolo di una sinistra che non c'è. Allora, spero che le sere di questa estate servano a discutere di queste cose: a costruire una sinistra un po' più radicale.

il manifesto, 11 luglio 2017, con postilla

Dopo il Forum C’è vita a sinistra (il manifesto, 8 luglio), ho letto, con attenzione, i commenti scambiati attraverso le reti dei social. Commenti disincantati, qualche volta delusi, del tipo: «Con questi personaggi e con questo dibattito, non andiamo da nessuna parte».

Ho da obiettare. Quando studiavo Storia dell’Architettura mi insegnarono che le cattedrali si costruiscono con le pietre che si trovano nei dintorni. Ma per non far torto ai partecipanti del Forum – nei riguardi dei quali questa affermazione potrebbe essere scambiata quasi per un insulto -, voglio dire che i D’Alema, gli Asor Rosa e gli altri partecipanti (forse non tutti) si sono dimostrati disponibili (e a titolo gratuito, politicamente parlando) a mettersi in gioco, a spendersi per la comune causa di un vero cambiamento a sinistra, come si conviene agli intellettuali e ai politici coraggiosi e degni di questo nome. In questo confronto i veri “vecchi” mi sono sembrati coloro che si ostinano a non scorgere i tanti segnali (contraddittori? Forse) di vita a sinistra, come fossero in attesa di un messia che sveglia d’incanto le masse addormentate.

In una intervista (Alias dell’8 luglio), a proposito del film di Rossellini Germania anno zero, Luc Dardenne afferma che: «Bisogna cominciare con il cominciamento. E il cominciamento di tutto è il coraggio». Coraggio che «è il momento della decisione radicale, un momento di rottura e non la risultante di un processo di continuità, il momento di una decisione che non è frutto di un sapere e che, al contrario, si produce grazie e malgrado la conoscenza del pericolo che si corre, della paura che si avverte».

Ora io credo che siamo in questa fase particolare che richiederebbe l’abbandono (non la rimozione, certo) delle incertezze, delle tante illusioni tradite, degli errori compiuti in questo tentativo, per scoprirci ottimisti e fiduciosi e coraggiosi “malgrado”, malgrado tutto. E questo anche perché ogni cinismo politico, sia pur improntato al realismo di ciò che è successo, in questa fase, è una manifestazione di rinuncia. Siamo ormai diventati troppo abili nel criticare Renzi e le sue derive di destra, così come siamo diventati professionisti della disfatta che quasi evochiamo, prima ancora di metterci in marcia, prima ancora che questa si realizzi (o si autorealizzi).

Quando ascolto D’Alema parlare della nuova sinistra, o Asor Rosa, o Montanari, non mi chiedo cosa abbiano fatto, o non fatto, costoro nel passato. Mi dico invece: ma non è quello che speravamo che costoro prima o poi facessero? Che gridassero ai quattro venti che “il sovrano è nudo”, come sapevamo da tempo, ma come non riuscivamo a dire? Non parlavamo noi del silenzio (colpevole) degli intellettuali?

So che non basta. Non saranno (solo) loro a cambiare le cose (ma neppure essi lo pensano); ma perché tanto cinismo e risentimento di compagni mascherato da realismo? Il realismo può diventare una malattia mortale quando ci impedisce di vedere i segnali del cambiamento; diventa un freno alle passioni, irretisce le menti anziché illuminarle. Abbiamo già un campione del realismo: è Renzi, che ad ogni girar di vento, cambia tattica e obiettivi (ora, ad esempio, è in sintonia con Salvini sulla questione della difesa delle frontiere). Realisti erano quegli intellettuali che, appena affermato il fascismo, si radunavano sotto il balcone di Piazza Venezia per sentire i discorsi del Duce. E poi, a sera, si rivedevano in un’osteria a ridacchiare delle cose ascoltate: «questo qui», dicevano con realismo, «non dura più di un mese». Mussolini dimostrò più fantasia di loro e sappiamo come è andata a finire quella storia.

Mi piacerebbe che su questo giornale e sui social arrivassero migliaia (milioni?) di lettere con la scritta «Io ci sto!» o, «Per favore, voi che avete l’ambizione di rappresentarci, mettete da parte i vostri problemi personali; vogliamo una sola lista di sinistra alle urne, altre soluzioni non le accetteremmo». Non sarebbe falso ottimismo ed è inutile invocare la memoria triste dell’Arcobaleno. La storia non si ripete mai nello stesso modo due volte, se non nelle menti malate dei realisti. Uno slogan del maggio francese del Sessantotto diceva: «Ancora uno sforzo compagni…», e questa volta la storia può cambiare.

postilla
Non sono affatto d'accordo con Enzo Scandurra. E' la prima volta e non sarà l'ultima. Esprimerò le mie ragioni domani, Per farlo devo scavare un po' nella parola "sinistra", in riferimento ai secoli scorsi (e.s.)

La solita ricetta sviluppista-neocolonialista pronta a fare affari unicamente attraverso opere faraoniche inutili per i "dannati dello sviluppo" e a relazionarsi con governi pronti a svendere risorse e diritti.

il manifesto, 6 luglio 2017 (p.d.)

L’hanno chiamato «Compact with Africa», ma il presidente della Costa d’Avorio, Alassane Ouattara, ha voluto ribattezzarlo come «Piano Merkel». Pilastro centrale della presidenza tedesca del G20, nonché tema centrale del summit di Amburgo del 7 e 8 luglio, «Compact with Africa», si presenta come una massiccia iniziativa per rafforzare gli investimenti privati in Africa, «precondizione essenziale per una crescita forte, bilanciata e sostenibile del continente».

«Non un banale aiuto economico a paesi in via di sviluppo», ha tuonato a più riprese Merkel, ma un programma che mira a una «globalizzazione più inclusiva». Parola del ministro dell’economia di Berlino Wolfgang Schäuble. È la vecchia storia della povertà che si combatte con grandi infrastrutture, trasporti, energia e settore idrico in primis, e con la privatizzazione serrata di quelle già esistenti. In sintesi, il solito mantra del G20 che aspira a mobilitare capitali privati attraverso apparenti nuove forme di partenariato pubblico-privato e di meccanismi finanziarizzati. Quegli stessi che sono la causa principale delle crisi ripetute e quindi dell’intensificarsi della povertà. Eppure, nell’apparente miopia che sottende questo circolo vizioso, si attivano i «soliti noti».

Banca mondiale, Fondo monetario internazionale e Banca africana di sviluppo in testa, al fine di negoziare con i paesi africani piani d’azione specifici per ogni Stato, a patto che si rendano disponibili ad attuare riforme adeguate «per migliorare il clima degli investimenti». A suggellare questo vincolo di amorosi sensi si candida il G20, garante d’eccellenza per potenziali investitori incerti.

Ricetta vecchia, ingredienti ammuffiti, verrebbe da dire. Il sempre meno credibile Club dei 20, che ben poco ha fatto per prevenire crisi come quella che gli ha dato i natali nel lontano 2008, si propone come l’architrave politico per eccellenza per creare l’infrastruttura finanziaria necessaria a migliorare le condizioni di vita in Africa. O, ancor meglio, a rilanciare il Continente Nero come laboratorio della narrativa sviluppista, in salsa privata. Tralasciamo il fatto che il Compact for Africa non fa assolutamente tesoro delle tante esperienze negative del passato, cioè i costi pagati dalle popolazioni in nome dello sviluppo, il peggioramento dei servizi, la mancanza di trasparenza nelle operazioni e nei contratti, la cessione di ampi spazi di democrazia e l’aumento dei rischi finanziari per il pubblico.

Accantoniamo anche il «piccolo dettaglio» che «migliorare il clima per gli investitori» significa ridimensionare la sovranità degli Stati nella loro funzione di regolamentazione degli investimenti e che il Compact for Africa trascura i già deboli vincoli finanziari fissati, ad esempio, a garanzia della sostenibilità nell’ambito dell’Accordo per il Clima di Parigi. Proviamo pure a dimenticarci che nessuno sembra preoccuparsi di come tutto ciò potrebbe costituire il punto di inizio di una nuova crisi del debito africano. Fino a qui, infatti, niente di nuovo.

«Aiutiamoli a casa loro», è l’unica apparente novità in un racconto che altrimenti sembrerebbe scritto nella vulgata di moda all’epoca degli aggiustamenti strutturali, condito di sostenibilità come panacea di tutti i mali. Il mondo è cambiato, tocca adeguarsi. Negli anni ’80 e ’90 in Occidente non si moriva ancora per colpa delle bombe, il Mediterraneo non era ancora un cimitero, il vincolo tra sfruttamento di risorse in Africa e sicurezza in Europa non era ancora un tema, e l’ipocrisia cinica, violenta e razzista di chi ci governa non era ancora chiara come oggi.

Il nostro sistema si sente sotto attacco. Davanti alla minaccia di soccombere, anche la retorica buonista dell’aiuto in nome della solidarietà non basta più. Quindi, per dirla con le parole della cancelliera Merkel, «migliorare le condizioni in Africa equivale a creare più sicurezza per noi». Ben consapevole che di fronte al si salvi chi può in cui versa l’Occidente la solidarietà non porta benefici elettorali, con un’ abile mossa la cancelliera trasforma la crisi in opportunità, assicurando ai capitali privati, alle multinazionali straniere, alle banche e fondi d’investimento la possibilità di continuare a depredare l’Africa per molti anni a venire, con la rassicurazione che adesso, oltre che per aiutare loro, tuteliamo anche la nostra sicurezza.

In questo quadro però, fa pensare il fatto che il Compact for Africa irrompe sull’agenda globale proprio mentre gli Stati membri della insicurissima Europa si accapigliano sulla questione migranti e si affannano a blindare le frontiere, allorquando l’Italia fa la voce grossa minacciando di chiudere i porti di approdo, la Germania indaga le Ong per immigrazione clandestina e pressoché ovunque si tenti di trasformare la solidarietà in reato. Il Re è già nudo, ma forse va spogliato ancora un po’. Il mondo è un campo di battaglia, il doppio standard nelle relazioni internazionali da malevola eccezione è diventata la regola, la criminalizzazione dello «straniero» ha raggiunto un punto tale per cui perfino il mantra dell’«aiutiamoli a casa loro» è cosa già vecchia ed è oramai soppiantato da una deriva esplicitamente xenofoba e islamofobica. Tuttavia a casa loro si continua ad andare.

A firmare i contratti multimilionari per grandi infrastrutture, preferibilmente senza gare d’appalto, con interventi militari mascherati da missioni di pace, pompando petrolio e gas fino ad afflosciare il pianeta come un pallone sgonfiato, e a vendere armi a regimi repressivi, tappandosi gli occhi su dove e come quelle stesse armi verranno usate. Tanto poi ci pensa la cooperazione allo sviluppo alla ricostruzione. Ma una buona notizia, per chi dice di governarci c’è, eccome. Possono smetterla di affaticarsi a trovare modi sempre più innovativi per mascherare scelte politiche privatistiche con il bene collettivo. Non c’è più bisogno di inventarsi pericolosi equilibrismi per salvare la forma, o la faccia. È tutto chiaro, sotto gli occhi di tutti. Anche dei milioni di sconfitti dalla globalizzazione, nel Sud come nel Nord del mondo, che la storia che proprio la globalizzazione genererà inclusione non se la sono mai bevuta. E che, sospettiamo, continueranno a non farlo.

il manifesto, 2 luglio 2017 (c.m.c.)

Le tante bandiere di Articolo 1 e quelle dei Verdi sventolano, i palloncini arancioni volano in aria. Giuliano Pisapia ha appena terminato il suo intervento dal palco romano di piazza Santi Apostoli sotto la sede che fu dell’Ulivo, e Iseiottavi, la Rino Gaetano Tribute band alla quale viene affidata la colonna sonora del pomeriggio, attacca Il cielo è sempre più blu. È solo l’ultimo rewind, quello che chiude poco prima delle otto di sera «Insieme», il lancio di una «casa comune inclusiva e innovativa», promette l’ex sindaco di Milano.

«Nascerà una casa più grande e più bella… Dipende da voi, da tutti noi, la costruzione di una casa in cui non saremo più da soli». Lo aveva detto Piero Fassino, su quelle stesse note di Rino Gaetano, dieci anni fa, chiudendo a Firenze il congresso che congedava i Ds per dare l’avvio al Pd. «Da oggi parte la casa comune per una nuova sinistra, un nuovo centrosinistra. Una casa comune che guarda al futuro e guarda al passato. Non una fusione a freddo, ma una fusione a caldo», insiste ora Pisapia congedando la piazza del 1 luglio per dare un nuovo appuntamento a «Insieme» a settembre, quando «sceglieremo il nuovo nome, insieme» anche per i nuovi gruppi parlamentari.

Il futuro e il passato da non buttare tutti alle ortiche, come chiede Pier Luigi Bersani che, intervenendo prima di Pisapia, rivendica gli anni ’90 perché allora «abbiamo vinto ovunque, dall’Europa agli Stati uniti, proponendo una globalizzazione dal volto umano. Economia di mercato sì, società di mercato no, come diceva Jospin». Ma «discontinuità radicale» con le politiche degli ultimissimi anni, chiede l’ex segretario del Pd e ripete l’ex sindaco, il primo con un duro attacco a Matteo Renzi e al renzismo (applauditissimo, del resto la piazza è appunto dominata dalle bandiere di Mdp che Gad Lerner invita a sventolare con moderazione), il secondo senza citare mai Renzi (forse anche per questo applaudito con meno fragore) ma elencando i temi sui quali marcare la discontinuità.

E chiarendo anche che «in tempi non sospetti avevo detto di considerare un errore l’abolizione dell’articolo 18», scandisce Pisapia «l’anti-leader» (lo definisce il «presentatore» Lerner), a segnare in questo modo una distanza netta dall’attuale segretario del Partito democratico che da Milano aveva attaccato a testa bassa una piazza messa insieme dalla «nostalgia di un passato che non è mai esistito». Non a caso è attento, Pisapia, a cercare di allontanare quella sensazione di «nostalgia» parlando ripetutamente di futuro, della necessità di unire «indipendentemente dalle bandiere e dalle storie». Del resto all’inizio della manifestazione il colpo d’occhio della piazza parla molto del centrosinistra che fu, passeggiano – più o meno coinvolti nella «nuova casa» – diversi ex ministri dei governi di Romano Prodi e di Massimo D’Alema, da Livia Turco a Barbara Pollastrini a Giovanni Maria Flick a Antonio Bassolino con seguito di fan… E applausi anche per Massimo D’Alema, al suo arrivo nella folla. Passeggia poi Gavino Angius, che fu capogruppo dei Ds. Ma ci sono anche Bobo Craxi che ascolta seduto sulla sua bicicletta e si rivedono pure ex dc non esattamente «ulivisti» o «unionisti» come Angelo Sanza, arrivato nel Centro democratico di Bruno Tabacci dopo essere passato per Forza Italia e per l’Udc.

Il rischio revival è nell’aria. Anche se l’atteso messaggio-benedizione di Prodi non arriva. E pure quello fusione a freddo, come appunto evidenzia Pisapia seppure dicendo che «Insieme» non ripeterà l’errore che riporta a quel congresso di Firenze e al Rino Gaetano di dieci anni fa. La scommessa è questa, la piazza è piena solo perché il palco è stato montato in posizione strategica per evitare vuoti, e dal palco e ai camion delle tv resta una fetta piuttosto limitata. Certo è il primo luglio, è un sabato e venerdì a Roma era anche festa e Pisapia dice «ci davano dei matti, ma ce l’abbiamo fatta», salutando «la bellissima piazza». Non c’è il messaggio di Prodi ma ci sono i pontieri del Pd. Gianni Cuperlo, Cesare Damiano e il ministro della giustizia Andrea Orlando ascoltano attentamente da dietro il palco dove si è sistemato un gruppetto di bersaniani. Il ministro in realtà cerca di spostarsi altrove, «siamo la delegazione straniera», scherza, ma sotto il palco è difficile arrivare. C’è il presidente della regione lazio Nicola Zingaretti e ascolta in posizione un po’ arretrata il franceschiniano David Sassoli. Selva di telecamere per la presidente della camera Laura Boldrini

Sul palco si susseguono le «storie» vere – come le chiama Pisapia, raccontate da Stefania Cavallo del centro antiviolenza di Tor Bella Monaca, Elvira Ricotta della rete italiani senza cittadinanza, Alessio Gallotta che parla della vertenza Amazon… Poco prima della fine della manifestazione è l’attore Claudio Amendola (tocco di romanità da coniugare con la milanesità dell’anti-leader) a parlare esplicitamente del rapporto con i dem, di una «forza che dovrà essere la sentinella del Pd». Dal PD renziano la piazza è molto lontana. Ci sono anche i giornalisti dell’Unità «rottamata dal Pd». «Ci rivolgiamo al popolo del centrosinistra, disilluso, deluso, che sta a casa e ha ascolta il comizio di Renzi e sente che le parole gli scivolando addosso, come l’acqua sul marmo», dice ancora Bersani tra gli applausi. Perché «noi abbiamo un pensiero, se ne prenda atto. Ma voi del Pd che pensiero avete? Ora si sono liberati di D’Alema e il pensiero ce lo darà Bonifazi… Basta voucher, basta licenziamenti collettivi e disciplinari, basta stage che diventano lavori in nero, basta bonus, basta meno tasse per tutti come dice Berlusconi. E basta arroganza, il mondo non gira attorno alla Leopolda».

«Senza i più poveri, gli esclusi, questo Paese non cresce. Lo sciopero del voto ci spinge a ridare dignità al lavoro, solo così ripartirà lo sviluppo. Non si crea sviluppo pensionando i diritti», dice ancora Pisapia citando Rodotà e chiedendo la legge per lo ius soli. «Siamo partiti col piede giusto per costruire un nuovo progetto politico, ora si tratta di allargarlo. Stiamo andando verso le elezioni. Se questa forza avrà forza allora dopo il voto riapriremo il confronto» con il Pd. In piazza c’è la delegazione di Sinistra Italiana (De Petris, Marcon, Fassina…), c’è Pippo Civati. I «civici» del Brancaccio non ci sono. Quanto la casa sarà grande e comune è tutto ancora da vedere .

«Nasce "Democratica", dopo la rottamazione dell'"Unità". Il primo numero riporta una citazione di Schröder al congresso della Spd: "Venceremos!": una sintesi tra Inti-Illimani e social-liberismo».

il manifesto, 30 giugno 2017 (p.d.)

L’ non c’è più, al suo posto arriva «Democratica». Questo è il nome della pubblicazione multimediale di otto pagine, in formato pdf, lanciata ieri dal palco del teatro Linear-Ciak di Milano. Sarà scaricabile dalla piattaforma «Bob» – quella che nelle intenzioni del Pd dovrebbe far concorrenza al «Rousseau» del Movimento 5 Stelle – e consultabile sui siti unità.tv e su quello del partito democratico. Ci lavoreranno sette giornalisti dell’Unità.tv. «» è concepito come un «quotidiano politico» e sarà pubblicata ogni giorno alle 13,30. Lo dirigerà il deputato Pd Andrea Romano, già con-direttore con Sergio Staino dello storico quotidiano «fondato da Antonio Gramsci», già quotidiano di riferimento del Nazareno, ormai chiuso da settimane.
Sfogliando il pdf di «Democratica» diffuso il giorno prima dell’assemblea dei circoli Pd a Milano – la contro-piazza renziana di oggi contrapposta a piazza San Silvestro a Roma di Pisapia e scissionisti di Mdp (D’Alema, Bersani & Co.) – colpisce il sottotitolo: «». La citazione degli Inti-Illimani, in spagnolo, è di Gerhard Schröder al congresso della Spd a Dortmund. Il bannerino cambierà, forse, ogni giorno, ma colpisce l’incongruità della frase: allude a Podemos o ai socialisti spagnoli ora guidati dal rieletto Sanchez su un programma diverso dal social-liberismo per cui è ricordato ancora oggi Schröder?
L’ex cancelliere tedesco è ricordato per l’«agenda 2010» e le leggi Hartz (I-IV) che hanno creato i «mini-jobs». Quelle leggi che l’attuale candidato Spd alla cancelleria Martin Schulz intende cambiare per eccesso di precarietà e impoverimento. Schröder è noto per avere accettato, pochi mesi dopo la fine del mandato, la nomina di Gazprom a capo del consorzio Nord Stream AG, il gasdotto russo-tedesco sotto il Mar Baltico e per essere stato consulente per lo sviluppo dell’attività di Rothschild nell’Europa centrorientale. Non diversamente dall’ex presidente della Commissione Ue Barroso, già presidente non esecutivo e advisor di Goldman Sachs, Schröder è considerato un esempio di commistione tra affari pubblici e interessi privati. Ora è diventato anche il riferimento politico-ideale del primo numero del nuovo quotidiano del Pd.
Un contributo alla confusione politico-ideologica (attardato neoliberismo da Terza Via o allusiva socialdemocrazia laburista? Blair o Corbyn?) che sta attraversando il Pd dopo la batosta delle amministrative, ad appena due mesi dal congresso che ha reincoronato Renzi ma non ha fatto passare i maldipancia ai «tenori» del partito scottati dalla sconfitta al referendum del 4 dicembre. «Non mi hanno detto nulla, hanno fatto tutto di nascosto – ha reagito l’ex direttore de L’Unità Sergio Staino – mentre chiedevo incontri ai rappresentanti Pd, stavano preparando questa nuova iniziativa, proprio con colui che era il mio condirettore e che avevo allontanato perché rappresentava l’antigiornalismo in persona. Mi ha fatto difficoltà ogni volta che pubblicavo pezzi critici con Renzi». «Mi sarebbe piaciuto che Staino avesse detto “mi dispiace, ho fallito come direttore di un quotidiano di cui non sono riuscito ad aumentare le copie vendute”, invece di prendersela con gli altri, ma ognuno ha il suo stile» ha replicato Romano.
Schermaglie che trovano nel comunicato del comitato di redazione dell’ un chiaro riferimento polemico: il Pd e il suo segretario Renzi. «Il 30 luglio 2014 la prima pagina del nostro giornale recitava “Hanno ucciso l’Unità” – sostengono i giornalisti – Due anni dopo si svelano gli autori del delitto perfetto, quello di allora e quello di oggi». «Il giornale non è più nelle edicole perché gli azionisti di maggioranza Guido Stefanelli e Massimo Pessina fra i tanti non hanno saldato i debiti con lo stampatore, il Pd (che della società editrice del giornale è socio al 20%) lancia il suo nuovo quotidiano on line senza ancora aver fatto nulla di concreto per garantire ai dipendenti almeno il diritto agli ammortizzatori sociali».

Lla Repubblica, 27 giugno 2017, con postilla

C’è qualcosa di radicale nel voto di domenica e va persino oltre il crollo del Pd e dell’intera sinistra, battuta sia quando si è presentata unita sia quando si è divisa. Va oltre la sua sconfitta in roccaforti storiche, oltre la sua scomparsa ormai quasi generale al Nord, oltre la sua incapacità di attrarre al secondo turno elettori di altri schieramenti. Eccezioni certo vi sono state ma non autorizzano nessuna minimizzazione, e il carattere “locale” del voto rende semmai ancor più grave la sconfitta. Radica nelle diverse zone del Paese il “responso generale” del referendum costituzionale del 4 dicembre, ed è stato irresponsabile non aver avviato una riflessione seria su di esso: sulla sconfitta del Sì e sulle differenti e talora disomogenee ragioni confluite nel trionfo del No.

Eppure - è difficile negarlo - la bocciatura della proposta di riforma non ha riguardato solo il merito di essa: ha reso evidente anche una drastica presa di distanza dalla ottimistica e astratta “narrazione” renziana, incapace di misurarsi con gli scenari reali che gli italiani hanno vissuto e vivono. Con gli effetti strutturali e i lunghi strascichi di una crisi economica internazionale che ha mutato l’idea di “sviluppo possibile”: la sua qualità, il suo profilo, il suo spessore. Ha influito, in altri termini, sull’idea stessa di futuro.

È confluita inoltre in quel voto anche la dilagante sfiducia nel ceto politico attuale, con una diffidenza verso le sue proposte di cambiamento che diventa naturalmente massima quando esse riguardano l’ordinamento istituzionale. E che non è sempre intrisa di limpidi valori costituzionali e di sinistra ma può tingersi anche di umori molto differenti, come lo stesso voto di domenica indirettamente conferma. Viene anche da qui la realtà di oggi: con un centrodestra vero vincitore - dopo molti anni -, un Movimento 5 Stelle sconfitto sì ma non defunto e un centrosinistra da rifondare radicalmente, in uno scenario reso ancor più grave dall’ulteriore calo della partecipazione al voto. Questo è il secondo nodo su cui riflettere, in un Paese che ancora negli anni di Tangentopoli, pur nel crollo della Prima Repubblica, registrava più dell’85% dei votanti (con percentuali di poco inferiori nelle elezioni amministrative). L’illusionismo e il populismo berlusconiano e leghista sembrarono colmare il vuoto lasciato da quel crollo: o meglio, inserirono in esso una “antipolitica della politica” che minava progressivamente le basi stesse della democrazia.
E poterono profittare dell’incapacità della sinistra di rifondare realmente l’agire pubblico: si persero infatti per via le potenzialità pur emerse grazie all’elezione diretta dei sindaci, all’ispirazione stessa dell’Ulivo e all’esperienza delle primarie, capaci inizialmente di imporre una idea vincente di sinistra anche a leader refrattari. Nel 2005 fu una lezione per tutti (ancorché poco ascoltata) il plebiscito che incoronò Prodi come leader della coalizione: un leader che sapeva unire, scelto per questo. Non è casuale che umori più espliciti di antipolitica inizino a diffondersi proprio nel logorarsi di quella speranza, quotidianamente umiliata dalle divisioni e dalle lacerazioni del centrosinistra al governo: è infatti del 2007 il primo irrompere di Beppe Grillo con il V-day (ed è dello stesso anno lo straordinario successo di un libro-denuncia, inascoltato anch’esso dalla politica, come La casta di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella).
Un secondo segnale venne dalle elezioni regionali del 2010, con il crollo della partecipazione al voto al 60% o poco più: ed era appunto di quell’anno il primo appannarsi della egemonia berlusconiana, solo in parte occultato dal contemporaneo riemergere della Lega. Sono venuti poi un più generale tracollo del centrodestra e il definitivo dilagare dell’antipolitica, cui fece per un attimo da contrappeso l’iniziale fiducia nel “governo dei tecnici” di Mario Monti. Nel precoce affondare di quell’esperienza - oltre che nell’emergere di nuovi e devastanti scandali - l’ondata grillina e l’astensione esplosero insieme, a partire dalla Sicilia. E nelle elezioni del 2013 il Movimento 5 Stelle affiancò sul proscenio il centrodestra berlusconiano (da cui fuggirono oltre sei milioni di elettori) e il Pd di Bersani (capace di perderne a sua volta oltre tre milioni).
Si affermò in quello scenario una leadership di Matteo Renzi che è giunta ormai al termine: e la sua principale responsabilità sta proprio nel non aver saputo invertire la rotta, come pure le elezioni europee del 2014 avevano fatto sperare. Nel non aver mantenuto quell’impegno a rinnovare la politica e il Pd che era stato alla base del suo affermarsi. Nell’aver lasciato ulteriormente degradare la realtà di un partito sempre più asfittico e rinchiuso nelle proprie divisioni e lacerazioni, deflagrate dopo il 4 dicembre. Un partito che in realtà ha perso queste elezioni amministrative e quelle immediatamente precedenti prima ancora del loro svolgersi, per l’incapacità di candidare alla guida di città e Regioni una classe dirigente capace e credibile.
È radicale ed inequivocabile dunque il messaggio del voto di domenica, ed è radicale il ripensamento che impone. Riguarda tutto il centrosinistra, sconfitto nel suo insieme: ed è difficile immaginare che esso possa avere ancora un futuro se i protagonisti della stagione più recente non sono capaci di fare un passo indietro, o almeno di lato.


Sostiene Crainz: "Dopo Berlusconi e Monti, Renzi avrebbe dovuto cambiare la rotta". Ma il ragazzo di Rignano non poteva non seguire la rotta che altri, lassù al piano più alto, avevano già tracciato per Berlusconi, Monti e Renzi.

«doppiozero, 27 giugno 2017 (c.m.c.)

Uno sciopero generale del voto. Non trovo altra espressione per descrivere queste amministrative d'inizio estate. Sciopero generale dell'elettorato nel suo complesso, col livello record dell'astensione schizzata quasi ovunque sotto la dead line del 50%. E sciopero generale dell'elettorato PD in particolare, con una vera e propria fuga di massa dal partito di Matteo Renzi pressoché ovunque, a cominciare dalle sue tradizionali roccaforti.

Il PD – e con lui il centro-sinistra – perde male Genova (più di dieci punti di distacco). Perde male – malissimo – La Spezia (venti punti di distacco). Cade Sesto San Giovanni, la “Stalingrado d'Italia”, con 15 punti di distacco. E, analogamente, il “feudo” di Pistoia ritenuto sicuro (ancora 10 punti). Nemmeno L'Aquila, dove pure al primo turno si era sfiorato il successo, resiste (e il volto sconcertato di Cialente testimonia di uno shock difficile da elaborare). E poi Alessandria, Asti, Piacenza, Carrara (quest'ultima passata agli odiati 5Stelle)... Su 25 capoluoghi di provincia in cui si rinnovava il sindaco, il centro-sinistra resiste solo in cinque!

È però Genova la città simbolo di questa débacle. Genova la “Superba”. La città di Mazzini e di De André, dei Mille e di don Gallo, dei camalli e delle magliette a strisce. Genova che resistette ai Savoia e ai Tedeschi, che diede vita nel 1904 al primo sciopero generale del lavoro, quella del luglio '60 contro i fascisti e del luglio 2001 contro gli oligarchi della cattiva globalizzazione. Genova repubblicana e democratica, anticonformista libertaria e “di sinistra”. Genova se l'è presa Marco Bucci, manager in quota Salvini, ex guida boy scout e poi CEO in società internazionali, protagonista di una campagna elettorale all'insegna di Paolo Del Debbio e della “città che conta” (si ricorda la cena nella lussuosa villa Lo Zerbino – nomen omen – con un paio di centinaia di armatori, industriali, maggiorenti)... Bucci si porta in Consiglio 9 leghisti, 5 forzisti, 3 post-fascisti di Fratelli d'Italia, una composizione che mai si era data a Genova da quando si vota.

Il passaggio di mano è avvenuto in una sorta di deserto elettorale, con la maggioranza della città rimasta a bordo campo, delusa, distratta, scettica: ha votato appena il 42% degli aventi diritto, poco più di 200.000 elettori su oltre 500.000 iscritti alle liste elettorali, con punte particolarmente basse nella città di Ponente (Municipi V VI e VII), quella “rossa”, dei portuali e dei siderurgici, dove l'exit è particolarmente evidente e brucia di più a confronto con la Genova di Levante, i quartieri del Centro e del Bisagno, tradizionalmente “blu”, dove la partecipazione sta qualche punto percentuale più sopra...

Non è un fatto locale. È il dato generale nazionale, dove anche il voto di protesta sembra essersi arreso, persino quello “di vendetta”, che nell'intero Occidente ha sostenuto il vento impetuoso dei cosiddetti “populismi” (da Trump alla Brexit), sostituiti tutti, ora, da un atteggiamento di delusione e abbandono del campo, ben visibile nei numeri: in quel 54% di astenuti che una classe politica minimamente responsabile e consapevole dovrebbe guardare con terrore (è la misura di una de-legittimazione gigantesca).

E che invece occhieggia appena nei sottotitoli dei giornali, quasi una curiosità (una nuova lineetta nel Guinness dei primati) ma sta fuori dai pensieri dei politici e degli opinionisti che fanno coro, occupati solo a misurare il risultato in termini di seggi, posti, percentuali (i valori assoluti sempre più striminziti che stanno dietro quelle ripartizioni relative non interessano). Quello che interessa è solo la resa dei conti nel campo stretto dei pochi sopravvissuti in un'arena elettorale rarefatta: quanti sindaci a me a quanti a te. Quanti consiglieri, assessori, presidenti di partecipate, fedeli da accontentare, amici politici da sistemare...

È così che si isteriliscono le democrazie contemporanee, transitando senza quasi soluzione di continuità nella categoria-limbo della “post-democrazia” (messa a fuoco già una quindicina di anni or sono da Colin Crouch) e poi, a poco a poco, nella democrazia del leader (Ilvo Diamanti) e nell'oligarchia esecutoria, che sono, tutte, varianti di quella “democrazia senza popolo” di cui ha parlato, di recente, Carlo Galli: una forma ossimorica, auto-contraddittoria, che sintetizza bene la crisi di senso, oltre che di legittimazione e di autorevolezza, della funzione di governo in società che hanno fatto della “governabilità” il proprio mito e dogma.

Per questo appaiono in buona misura fuori luogo i toni di trionfo del centro-destra, sicuramente vincitore formale di questo round (se si considera appunto il numero di sindaci, maggioranze comunali, duelli vinti), ma galleggiante, anch'esso, su un vuoto di reale consenso, appeso a segmenti di società volatili e volubili, soprattutto privo di una qualche prospettiva credibile in rapporto alle incombenti elezioni politiche nazionali, dove le maggioranze che hanno conquistato i comuni non sono riproducibili, e le fratture interne alla coalizione sono sicuramente più profonde e tendenzialmente più forti dei comuni interessi.

E a maggior ragione sembrano fuori luogo – anzi fuori senno – le reazioni a caldo del Segretario del PD: di Matteo Renzi che appare a qualunque sguardo non appannato il vero perdente della partita. Quello che, celiando e twittando, ha portato il proprio esercito a una disfatta storica e che invece, a notte inoltrata, parla di risultati “a macchia di leopardo”, s'interroga garrulo sui “campanelli d'allarme” (“non si capisce per cosa e perché”: testuale), chiama i pochi sindaci “suoi” eletti per nome come fossero boy scout della propria sestiglia, e invita a “lasciar stare le chiacchiere”...

È sua, senza alcun dubbio, la firma sul disastro che ha travolto il centro-sinistra. Perché è vero che lo tsunami è passato su tutte le sue possibili varianti e combinazioni: quelle in cui il Pd si presentava solo, con candidati di stretta osservanza, e quelle dove era stata assemblata una coalizione da “campo largo”, le liste “renziane” e quelle mediate con Bersani, o anche con Pisapia, o con tutte le sinistre ulteriori (come a Genova, appunto). Ma è altrettanto vero che il denominatore comune in tutto questo variegato arcipelago è stata l'antipatia per il leader del partito maggiore.

La fuga da Renzi, appunto, sia nelle casematte del partito che nelle sue appendici periferiche, tra i “militanti provati” e i simpatizzanti occasionali, i voti d'opinione e quelli di tradizione. Matteo Renzi ha funzionato, per tutti, come un potente repellente, per la sua vocazione divisiva, il compulsivo bisogno di offendere e umiliare, i vorticosi voltafaccia e giri di valzer con troppi partner, le insistite menzogne o le verità negate, tra babbi, banche, appalti, commissioni d'inchiesta (promesse e affossate) e commissari europei (blanditi o sbertucciati), e l'insopportabile ostentazione di ottimismo in un Paese che diffusamente soffre.

Certo, sarebbe impietoso ridurre il problema alla sua persona. Si sono concentrate nella sconfitta del Pd tutte le sue “tare storiche”: gli equivoci della nascita, con Veltroni, in quella fusione fredda che mai ha funzionato, l'impotenza e la resa bersaniana agli idola fori del neo-liberismo e delle privatizzazioni, l'impotenza della parentesi montiana dei “tecnici”, sostenuti nella loro politica lacrime e sangue con un'ossequenza neppur richiesta (si ricordi l'equilibrio di bilancio scolpito in Costituzione) fino agli orrori del 2013, la frantumazione del partito divenuta evidente con i 101 fucilatori di Prodi all'elezione presidenziale, i trasformismi, le congiure di palazzo... E su tutto, la tendenza terribilmente distruttiva – “tossica” potremmo dire – a ignorare ogni segnale provenga “dal basso” e “da fuori”, ogni espressione di volontà popolare, sia l'esito referendario sull'acqua e i beni comuni (umiliato da una serie di provvedimenti legislativi in clamorosa opposta direzione) sia il risultato perentorio del referendum costituzionale: il segnala assordante del 4 dicembre a cui il Palazzo – sia Chigi che Nazareno – è rimasto ostinatamente sordo e cieco, facendo come se nulla fosse successo, e provocando appunto l'exit tumultuoso e massiccio a cui oggi assistiamo.

Come in un gioco di matriosche tutti questi strati sovrapposti si sono accumulati. E tutte queste contraddizioni si sono sintetizzate in una figura sola, che le ha assorbite, senza neutralizzarle, tutte, e che ora finisce per pagare, per tutti, lasciandoci di fronte un quadro senza soluzioni possibili. Nel quale ogni possibile alternativa appare bruciata in partenza, sia essa quella – sciagurata – dell'autosufficienza o quella, simmetrica e opposta, della coalizione larga, la costruzione forzosa di un PD sempre più strettamente renziano o quella di un “campo democratico” allargato ai figlioli prodighi da riportare al tavolo paterno, la costruzione di un centro non più di sinistra da coniugare con una scheggia di berlusconismo rimodernata e ri-moderata, o la riedizione di una sinistra pre-Lingotto (pre-Veltroni del 2007) rilanciata ma non ringiovanita.

Comunque si rimescolino i fattori il risultato non cambia: nessuna delle diverse combinazioni può sperare di aver credibili possibilità di successo alle politiche prossime, sia che per un picco di masochismo Renzi forzi per il voto anticipato, sia che si aspetti la fine naturale della legislatura. In ogni caso sembra non esserci più tempo per nulla.

Ora assisteremo – non è necessario essere profeti per saperlo – al gioco stantio e ripetitivo della ricerca del Sacro Graal: la legge elettorale che assicurerà il Paradiso a tutti. Il tormentone che ci ha accompagnato in tutti questi anni, secondo il pessimo costume di disegnare e ridisegnare ogni volta il sistema elettorale a seconda dell'ultimo sondaggio, o del più recente responso delle urne, ognuno attento al proprio possibile vantaggio effimero, all'unico lancio di dadi a cui, nella miopia generale, riesce a malapena a guardare.

Qualcuno riproporrà il maggioritario a doppio turno, altri il proporzionale alla tedesca, o il premio di lista, oppure di coalizione, la soglia al tre, al cinque, all'otto per cento... E a un certo punto la pallina si fermerà su una casella della roulette, rossa o nera chissà. E l'emorragia di elettori, di fiducia, di legittimazione e di autorevolezza delle nostre istituzioni continuerà, se un soprassalto di orgoglio, o di razionalità, non interverrà a interromperne il processo, dall'interno (per un ritorno di auto-riflessione) o dall'esterno (per la perentorietà di una qualche costrizione).

Certo che finché li lasceremo a governare continueranno così. Ma per cambiarli devono votare tutti. non solo i loro aficionados, come alle comunali. Articoli di Riccardo Chiari, Massimo Franchi e Marco Bersani.

il manifesto, 27 giugno 2017

BANCHE VENETE:
PERDITE PUBBLICHE,
PROFITTI PRIVATI
di Riccardo Chiari

«Credit crack. Da Bloomberg a Nomura, unanimi i commenti del mondo finanziario: lo Stato paga i crediti inesigibili e anche Intesa, che guadagnerà tanto senza spendere un centesimo. Il Wall Street Journal: "Un passo indietro per la finanza europea". Sinistra italiana e Rifondazione accusano: "L'alternativa c'era, il governo poteva gestire la parte buona delle banche".

Ora che il decreto legge c’è, i 17 miliardi di soldi della collettività messi dal governo Gentiloni, a sostegno di almeno 10 miliardi di crediti inesigibili, e per altri 5 miliardi a sostegno di un’azienda privata come Banca Intesa, non sembrano scuotere troppo gli italiani. Ma provocano alcune elementari domande all’estero. Da antologia la comparsata di Pier Carlo Padoan a Bloomberg Tv, che doverosamente chiede “se l’operazione sulle banche venete pubblicizzi le perdite per privatizzare i profitti”. “Sono in totale disaccordo – replica il ministro italiano – non è un salvataggio, tutto è stato fatto secondo le regole”, sottolineando l’ok della Bce e di Bruxelles.

Dal canto suo il Wall Street Journal annota: “La soluzione europea pone due domande: perché le due banche non sono state trattate con il nuovo regime di risoluzione, e perché Intesa San Paolo si è aggiudicata un accordo così buono sugli asset delle due banche. La risposta alla prima domanda è pragmatica e gli investitori possono imparare da questa. La risposta alla seconda è più preoccupante, e sembra un passo indietro per la finanza europea”. A corredo, il Wall Street Journal precisa che secondo gli analisti l’accordo rafforzerà gli utili di Intesa del 5-7% entro il 2020, senza costare alla banca un centesimo in termini di sforzo finanziario.

I giapponesi di Nomura parlano apertamente di bail out, cioè di un salvataggio a totale carico dello Stato. E in effetti all’ok di Francoforte alla liquidazione delle due banche con lo smaltimento delle sofferenze grazie all’intervento statale, si è aggiunto anche il finanziamento con soldi pubblici per l’acquisizione di Intesa della parte sana delle banche, “per riorganizzarle”. Leggi costo degli esuberi. Gian Maria Gros Pietro ai comprensivi microfoni del Gr1 nega: “Chi dice che Intesa è stata avvantaggiata non ha compreso il meccanismo”. Nel decreto del governo si legge però che Intesa riceverà dallo stato un “supporto finanziario” per “un importo massimo di 3.500 milioni”, “risorse a sostegno delle misure di ristrutturazione aziendale per un importo massimo di 1.285 milioni” con cui accompagnerà all’uscita circa 4mila bancari, e altri 400 milioni come garanzia sui crediti in bonis che Intesa si porta a casa. Poi vanno aggiunte garanzie a copertura del rischio dei crediti che non risultino in bonis, fino a 6,3 miliardi, e fino ad altri 4 per i crediti “in bonis ma ad alto rischio”. Per giunta Intesa entra nel mercato del credito veneto con il 30% degli sportelli. Dominante.

Risultato: a Piazza Affari salgono i bancari, spinti proprio da Intesa (+3,5%), il che equivale ad un aumento di circa 1,5 miliardi della sua capitalizzazione. Mentre fa capire un po’ più dell’Italia odierna il fatto che le osservazioni di Bloomberg siano identiche a quelle di Sinistra italiana e Rifondazione: “Si procede con un salvataggio in cui la logica della privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite è spinta a livelli parossistici”, segnalano Maurizio Acerbo e Roberta Fantozzi del Prc. Con Stefano Fassina e Pippo Civati di Si che aggiungono: “Si poteva e doveva percorrere un’altra strada, anche a costo di un contenzioso con la Commissione Ue: l’ingresso pubblico nel capitale delle banche per gestire, insieme ai crediti in sofferenza, anche gli asset”. Che genereranno utili. Ma Paolo Gentiloni avverte: “Chi parla di regalo ai banchieri fa solo cattiva propaganda”. E Intesa fa sapere a sua volta che, se il decreto cambia anche solo di una virgola, (“viene convertito con modifiche o integrazioni tali da rendere più onerosa per Intesa San Paolo l’operazione”), non se ne farà di nulla. Capito come si fanno gli affari?

TANTA POLVERE MESSA
SOTTO AL TAPPETO,
MODIFICHEREMO IL DECRETO
di Massimo Franchi

«Intervista a Francesco Boccia. Il salvataggio delle banche Venete è l'ultima tappa di una strategia fallimentare. Il sistema andava messo in sicurezza nel 2014 come in Spagna e Germania. Invece si è sottovalutata colpevolmente la situazione e ora i miliardi pubblici usati sono molti di più»

Francesco Boccia, presidente della Commissione bilancio della Camera. Da economista prima che da politico: il salvataggio delle banche venete è la soluzione migliore come dicono Bankitalia e Padoan o uno scempio di soldi pubblici e un regalo ad Intesa come dice l’opposizone?

Una delle cose che detesto dei politici è sentir dire: «Io l’avevo detto». Ma visto che sono agli atti i miei interventi parlamentari in cui già nel 2014 chiedevo che venisse istituito un Fondo pubblico-privato da 20 miliardi per ricapitalizzare le banche in difficoltà chiedendo un chip ai tanti intermediari finanziari che hanno fatto soldi con il nostro debito pubblico (Morgan Stanley, Black Rock e gli altri fondi) e mi diedero del folle, ora posso dire che avremmo risparmiato molti miliardi di soldi pubblici.

Quindi la colpa è della politica? E i mancati controlli di Bankitalia?Che le banche Venete andassero salvate è indubbio perché diversamente sarebbe andato in crisi un pezzo fondamentale di Paese. La colpa di questa situazione non è dei correntisti o dei risparmiatori, ma di quei disgraziati che le dirigevano. Tanta polvere è stata messa sotto il tappeto e se siamo in questa situazione è anche perché il sistema di controllo di Bankitalia non ha funzionato, come Visco ha riconosciuto iniziando a fare autocritica. Io sono indignato per lo “stop and go” sugli interventi per mettere in sicurezza tutti gli istituti in difficoltà, dalle popolari a Mps, salvate con tre modelli differenti di interventi. La nazionalizzazione sarebbe stato il quarto e avrebbe aumentato la confusione.

Padoan confida di recuperare i 5 miliardi già usati rivendendo i crediti deteriorati della bad bank. Le sembra realistico?Non conosco l’ammontare effettivo dell’esborso pubblico e dei crediti deteriorati. Di sicuro di tutti i soldi messi dallo Stato direttamente e indirettamente (con le partecipazioni di Cassa depositi e prestiti) in questi anni non si recupererà tutto e il saldo sarà maggiore dei 10 miliardi da me proposti.

Intesa San Paolo ha già avvertito: se il decreto cambia, l’operazione salta. Voi lo cambierete? Non vi sentite sotto ricatto come parlamentari? Le banche sono al di sopra dei poteri costituzionali?
Messina fa bene il suo mestiere a dire quelle cose. Non conosco, come nessuno ancora, il testo del decreto ma dico che se ci sono le condizioni per migliorare la proposta del governo, il Parlamento ha il dovere di farlo e Intesa di rispettare la politica, che – senza ipocrisia – è la stessa che l’ha invitata a fare questa operazione e a mettere i soldi nel fondo Atlante già prosciugato. La priorità deve essere quella di ripristinare la fiducia dei risparmiatori senza la quale tutte queste banche sarebbero già morte. Intesa da questo punto di vista è una garanzia: è una delle più solide in Europa anche se non potrà risolvere sempre lei i problemi o rischierà di entrare in difficoltà anch’essa.

Il ministro spagnolo dell’Economia sostiene che quello che è successo la Spagna lo ha fatto nel 2012: mettere in sicurezza il sistema usando miliardi pubblici, mentre ora per il Banco Popular non ne sono stati usati. Siamo in ritardo di 5 anni?
Certo che ha ragione. E l’errore più grosso fatto dai nostri governi dell’epoca – Berlusconi con Tremonti e Monti con Grilli – è stato quello di non copiare la Spagna che come la Germania hanno anticipato l’applicazione del bail in mettendo in sicurezza le banche con soldi pubblici. Sarà interessante ascoltare i protagonisti di questa lunga storia nella commissione parlamentare che andrà imbastita in questa legislatura e darà risultati nella prossima.

PRIMA LE BANCHE,
POI I BAMBINI
di Marco Bersani


«Governo. L'operazione banche venete sarà finanziata con il decreto approvato fulmineamente dai due rami del Parlamento lo scorso Natale: 20 miliardi di garanzie sul salvataggio degli istituti bancari da mettere a carico del debito pubblico»

Dopo aver sostenuto per mesi che Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca necessitavano di una «ricapitalizzazione precauzionale», ovvero che erano banche fondamentalmente «sane», ma bisognose di un ulteriore supporto, il governo Gentiloni-Padoan ha improvvisamente cambiato idea, dichiarandole fallite e ponendole in liquidazione.

Il Consiglio dei Ministri ha così approvato un decreto legge che prevede l’acquisizione – costo 1 euro – da parte di Intesa Sanpaolo delle due banche venete e il premier Gentiloni ha subito lanciato un accorato appello perché «questa decisione molto importante trovi in Parlamento il sostegno che merita, cioè il più ampio possibile».

Intanto, Carlo Messina, Amministratore delegato di Intesa Sanpaolo davanti allo specchio loda se stesso per aver «messo in sicurezza oltre 50 miliardi di risparmi affidati alle due banche e tutelato 2 milioni di clienti, di cui 200.000 aziende operanti in aree tra le più dinamiche del Paese». Senza dimenticare giuramenti a ripetizione sulla tutela dei posti di lavoro.

Poteva mancare il sostegno della generosa Unione Europea? Certo che no: l’improvvisamente federalista Margarethe Vestager, Commissaria Ue alla Concorrenza, considera l’aiuto di Stato «necessario per evitare tensioni economiche nella regione del Veneto». Due banche in gravissime difficoltà finanziarie, un colosso bancario le annette, istituzioni italiane ed europee d’accordo: qual è il problema?

Uno solo: il tutto è a carico della collettività, ovvero lo paghiamo tutte e tutti noi.

Il decreto prevede infatti, una spesa immediata da parte dello Stato di 5,2 miliardi per garantire a Intesa Sanpaolo rischio zero su tutta l’operazione e 12 miliardi di garanzie pubbliche sui futuri rischi.

In pratica, Intesa Sanpaolo annette, oltre a sportelli e personale (in attesa di, passata la festa, gabbare lo santo) tutti i crediti solvibili, mentre la collettività si accolla i crediti ad alto rischio e quelli inesigibili.

Il tutto finanziato con il decreto approvato fulmineamente dai due rami del Parlamento tra i brindisi delle feste dello scorso Natale: 20 miliardi di garanzie sul salvataggio delle banche da mettere a carico del debito pubblico. Garanzie peraltro già insufficienti, visto che, se a quest’ultima operazione, aggiungiamo quelle relative a Mps da una parte e alla «banda delle quattro» (Etruria, Marche, Cariferrara e Carichieti) dall’altra, siamo già ben sopra i 30 miliardi.

Eppure «il nostro sistema bancario è solido, privo di rischi e i risparmi della famiglia sono in sicurezza» twittava il 31 ottobre 2014 il ministro Padoan. «C’è una manovra su alcune banche, punto», ma il sistema «è molto più solido di quello che legittimamente alcuni investitori temono», rassicurava Renzi in un intervista del 13 dicembre 2015, dopo le prime crepe. «Affronteremo i problemi legati a casi specifici del nostro sistema bancario, che è solido, e sta contribuendo alla ripresa finanziando l’economia», si arrampicava sugli specchi Gentiloni non più tardi di 6 mesi fa.

Così evidentemente non era, ma le banche, allevate da decenni col principio del too big to fail (troppo grosse per fallire) o, come nel caso in oggetto, del too interconnected to fail (troppo interconnesse per fallire) sanno di poter superare ogni limite di rischio e ogni disinvoltura, con la certezza che alla fine il pubblico interverrà. Lo Stato al servizio delle banche è infatti l’unica certezza che consente ai sacerdoti del fondamentalismo di mercato di poter proseguire i loro sermoni sui media mainstream. Strano il mondo ai tempi del capitalismo finanziarizzato: il debito pubblico, propagandato da governi e tecnocrati come colpa collettiva da espiare e usato come clava per espropriare diritti del lavoro, beni comuni e servizi pubblici, diviene subito una rosa gentile in soccorso di due banche condotte al fallimento da anni di scelte manageriali fondate su clientelismi e corruzioni e da controlli compiacenti. Demistificare la narrazione ideologica sul debito e rivendicare una nuova finanza pubblica e sociale, a partire dalla socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti, è forse ciò che manca nell’analisi di chi anche in questo periodo propone giustamente di mettersi in marcia, dal basso e in forma inclusiva, per costruire un’alternativa nel Paese.

«Il Paese devastato dagli incendi e reduce da una pesantissima crisi economica è da un anno e mezzo un laboratorio di ricette opposte al neoliberismo».

il Fatto Quotidiano, 26 giugno 2017 (p.d.)

Ci sono voluti cinque giorni per spegnere il fuoco in Portogallo, l’incendio più vasto e letale sopportato mai dal paese lusitano. Le fiamme, originate a Pedrógão Grande, si sono propagate su oltre 40.000 ettari di bosco, ghermendo lungo il percorso la vita di 64 persone e ferendone altre 254, per poi riproporsi a Góis su una superficie di ulteriori 20.000 ettari. Incerta ancora la dinamica dell’accaduto, inizialmente attribuita a una tempesta elettrica, su cui si è poi inserita l’insinuazione di una possibile ragione dolosa. Sarà probabilmente una commissione tecnica indipendente a far luce sull’origine del fuoco e su cosa non abbia funzionato nella gestione dell’emergenza per determinare una simile catastrofe umana e la distruzione di una così estesa area boschiva. E le critiche sull’operato, com’era prevedibile, non hanno risparmiato il governo del socialista Costa.
Il primo ministro portoghese è d’altra parte molto apprezzato fuori e dentro i confini nazionali, tanto che i sondaggi gli attribuiscono un gradimento prossimo alla maggioranza assoluta. António Luís Santos da Costa (1961), politico di lungo corso, segretario del Partito Socialista, più volte ministro in precedenti governi, già eurodeputato e sindaco di Lisbona, da poco più di un anno e mezzo conduce un’esperienza di governo inedita sul piano dei contenuti e delle alleanze. Che viene guardata con interesse dagli altri partner europei, per essere riuscita – unica in Europa – a reimpostare un circolo virtuoso economico, applicando ricette opposte al neoliberismo, salvaguardando perciò coesione e giustizia sociale. Un successo che si avvale del sostegno di tutte le forze della sinistra sulla cui alleanza la destra infierì in termini dispregiativi, tacciandola di gerigonça, cosa mal fatta, e che oggi è invece motivo d’invidia e riferimento per le sinistre italiana e spagnola, mentre riceve il plauso di Bruxelles. Tutto era cominciato con le elezioni generali del 4 ottobre 2015.
La crisi economica in Portogallo, come negli altri paesi del Sud Europa, era stata brutale, con tagli nei salari e nelle prestazioni per disoccupazione, il congelamento delle retribuzioni pubbliche tra il 2012 e il 2014, il blocco dei pensionamenti anticipati, l’aumento dei contributi sociali, la disoccupazione arrivata al 15% nel 2012, il deficit al 6,8% nello stesso anno e continue cadute del Pil fino alla recessione.
Nel 2011, Lisbona aveva chiesto all’Unione Europea l’accesso alla procedura di riscatto, un prestito di 78 miliardi di euro da rimborsarsi in tre anni. Nelle elezioni del 2015 avvenne un po’ quello che era avvenuto in altri paesi europei con la crisi: la perdita della maggioranza assoluta per i partiti storicamente di governo. In questo caso, il conservatore Pedro Passos Coelho era tornato a vincere le elezioni con il 39% dei suffragi, distanziando di 6 punti il socialista Costa.
Coelho era stato costretto però a formare un governo di minoranza, quello che sarebbe diventato il governo più breve della storia della democrazia portoghese, durato in carica per una decina di giorni appena. Infatti, Costa era riuscito a promuovere una mozione di sfiducia assieme a comunisti, verdi, e Bloco de Esquerda, approvata con 123 voti contro 107 contrari. E il 24 novembre 2015, il presidente portoghese Cavaco da Silva aveva nominato António Costa primo ministro, confidando nell’alleanza tessuta da questi in parlamento. Nasceva così il nuovo governo socialista guidato da Costa, sostenuto da una maggioranza parlamentare di sinistra ritrovatasi attorno ad un programma dai contenuti di matrice schiettamente antiliberista.
Il governo Costa ha dimostrato in questi mesi che è possibile cambiare la politica economica, mettere fine all’austerità facendo leva sulla domanda interna, aumentare l’occupazione senza perciò rinunciare a un deficit basso. Ossia, senza mancare il rispetto degli obiettivi comunitari, perché, come dice il primo ministro, avere regole comuni tra 28 paesi è necessario. E i dati di bilancio del 2016 ne sono una prova. Il Pil portoghese è cresciuto lo scorso anno dell’1,4% e le previsioni per l’anno in corso sono di un incremento dell’1,8%. L’obiettivo di deficit pubblico nel 2016 è stato del 2% e si prevede che nel 2017 scenda all’1,5%, per arrivare, nel 2021, all’1,3%.
Elevato invece è ancora il debito pubblico, superiore lo scorso anno al 130%, mentre persistono gravi i problemi del settore finanziario. Le politiche del governo portoghese hanno cercato di ridare fiato alla domanda interna, correggendo alcuni dei punti più vistosi delle precedenti ricette neo-liberiste, che avevano fatto precipitare il 20% della popolazione nel rischio di povertà. Perciò l’aumento del salario minimo, le misure contro la povertà energetica, la riduzione parziale dell’IVA, la fine dei tagli salariali ai funzionari pubblici, la riduzione della giornata lavorativa, il freno alle privatizzazioni. E per la prima volta in otto anni, la disoccupazione si colloca ora sotto il 10%.
finirà nella

bad bank di cui si dovrà occupare l’Erario. Come nella migliore tradizione italiana, ripetiamo uno schema che somiglia alla solita privatizzazione dei profitti e pubblicizzazione delle perdite». la Repubblica, 23 giugno 2017

È inutile sdottoreggiare di bail in e di burden sharing.
Il grande Sacco Bancario di questi anni, alla fine, lo stiamo pagando noi. Montepaschi, Etruria e le altre tre “banchette”, fino ad arrivare alle due popolari venete: cosa resta del mesto Carnevale inscenato dai Signori del Credito, se non la maschera di Pantalone che apre il portafoglio e copre i buchi con il denaro pubblico? In queste ore politica e mercati brindano al presunto “salvataggio” della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca. Nel deserto della finanza tricolore incede fiero il tanto agognato Cavaliere Bianco. Banca Intesa, si prende le due venete ed evita la temuta procedura di “risoluzione” che avrebbe scaricato i costi del default non solo sugli azionisti, ma anche sugli obbligazionisti senior e (pro quota) i depositanti oltre i 100 mila euro.

Ma è qui la festa? Banca Intesa compra al prezzo simbolico di un euro la good bank, cioè il “tesoretto” residuo che rimane nei caveau di Vicenza e Montebelluna (i crediti “buoni”, gli sportelli, la struttura commerciale e persino le spettanze fiscali). Tutto il “marcio” (gli Npl, gli altri crediti deteriorati, persino i prestiti in bonis ma a rating più scadente) finirà nella bad bank di cui si dovrà occupare l’Erario. Come nella migliore tradizione italiana, ripetiamo uno schema che somiglia alla solita privatizzazione dei profitti e pubblicizzazione delle perdite. Non solo. Banca Intesa “compra” solo a condizione che l’acquisto sia “neutrale” sotto il profilo del patrimonio. Cioè che l’innesto dei cespiti delle due venete non obblighino Ca de Sass a modificare le proprie strategie di copertura dei “ratios” e di distribuzione dei dividendi.
Come hanno detto il ceo Carlo Messina e il patron della Fondazione Cariplo Giuseppe Guzzetti: l’affare si fa solo se ci garantisce l’intangibilità del capitale e delle cedole. In caso contrario, tanti saluti. Chiaro, lineare, legittimo: gli chiedono un intervento di emergenza, e l’emergenza si gestisce a certe condizioni. Io privato mi siedo al tavolo, ma solo se il mio cip è un euro. Tutto il resto, cioè la bellezza di 10 miliardi, ce lo metti tu, caro Stato.
Parafrasando il famoso spot pubblicitario: ti piace salvare facile, eh? Ma va tutto bene, per carità. Escluse le rovinose “missioni patriottiche” in stile Alitalia, non c’erano più alternative. Banca Intesa tutela i suoi interessi. È lo Stato che cura male i nostri. Si dica la verità ai cittadini. Si ammetta che tra le “quattro banchette”, il Montepaschi e adesso le due venete, il costo dei salvataggi a carico del bilancio pubblico (cioè a carico nostro) supera abbondantemente i 20 miliardi stanziati dal governo con il decreto di fine 2016. Si riconosca che, attraverso questi complicati arabeschi finanziari, è come se tutti noi contribuenti fossimo diventati azionisti e correntisti “virtuali” delle banche salvate, chiamati a coprire pro-quota il costo dei dissesti che altrimenti sarebbero stati interamente a carico dei soci e dei clienti “reali” di quelle stesse banche.
Senza dirlo all’Europa, abbiamo subdolamente disinnescato il bail in, e surrettiziamente replicato il bail out. La politica è arte del possibile. Tanto più in un Paese in campagna elettorale permanente, dove i crac creditizi diventano armi di distrazione di massa. Si evocano paragoni bugiardi, tipo il “Tarp” americano di otto anni fa, o il salvataggio spagnolo del Banco Popular di una settimana fa. Nel primo caso l’Amministazione Usa (al contrario del governo italiano) sborsò preventivamente 750 miliardi di dollari, mettendo in sicurezza l’intero sistema bancario e cacciando tutti i manager incapaci. Nel secondo caso il Banco Santander (al contrario di Banca Intesa) ha scucito 7 miliardi di aumento di capitale.
E qualcuno, prima o poi, ci dovrà anche spiegare perché, com’era già successo ad Arezzo o Macerata prima e a Siena poi, anche sulle due banche venete si è sprecato tanto tempo, prima di turare la falla gigantesca aperta nel fianco del mitico Nord-Est. Tra il 2012 e il 2015 la banca del cavalier Zonin ha bruciato 6,2 miliardi di valore, lasciando sul lastrico 118 mila azionisti e cumulando 1,6 miliardi di perdite. Nello stesso periodo la banca del ragionier Consoli ha distrutto 5 miliardi di valore, rovinato 90mila risparmiatori e totalizzato 1,8 miliardi di passivo. Il bagno di sangue è stato sotto gli occhi di tutti per anni, come già era successo per Mps. Nessuno ha mosso un dito. Lunghi conclavi, e rituali fumate nere. Nel frattempo, l’emorragia è dilagata. Altri 3,5 miliardi sprecati con il Fondo Atlante, e la bellezza di 65 miliardi di depositi totali fuggiti solo dai forzieri di Siena, Vicenza e Montebelluna. Cosa ci sia da celebrare, in tanta macelleria bancaria, non lo capiremo mai.

la Nuova Venezia Corriere del Veneto, 17-18 Giugno 2017 (m.p.r.)

la Nuova Venezia, 17 giugno 2017

TANGENTI PER EVADERE LE TASSE
BLITZ CON 16 ARRESTI A VENEZIA
di Carlo Mion

Venezia. Soldi, regali, cene e assunzioni di parenti per ammorbidire le verifiche fiscali e ridurre il debito erariale una volta contestata l'evasione. Sedici le persone arrestate tra imprenditori, commercialisti, ufficiali della Guardia di Finanza e dirigenti dell'Agenzia delle Entrate. Questa nuova operazione, durata due anni, è stata portata a termine dagli investigatori del Nucleo di polizia tributaria di Venezia, coordinati dal sostituto procuratore Stefano Ancilotto.

L'indagine è nata durante l'inchiesta sul Mose. Alcune intercettazioni facevano capire agli inquirenti dell'esistenza di un sistema illegale che consentiva agli imprenditori di ridurre i "danni" da verifica fiscale. Oltre ai sedici ordine di custodia cautelare il Gip Alberto Scaramuzza ha concesso anche il sequestro di beni per 440 mila euro. Gli arrestati. Quattordici le ordinanze di custodia cautelare in carcere e due agli arresti domiciliari nei confronti di sei imprenditori (due domiciliari), tre funzionari dell'Agenzia delle Entrate, due commercialisti, due ufficiali della Guardia di Finanza, un appartenente alla Commissione tributaria regionale del Veneto e due dirigenti di un'azienda assicuratrice.

Tra gli arrestati ci sono Elio Borrelli, ai vertici dell'Agenzia delle Entrate prima a Venezia ora in Abruzzo, Christian David e Massimo Esposito, rispettivamente responsabile delle verifiche il primo e ex direttore dell'Agenzia di Venezia il secondo. I due tenenti colonnelli della Guardia di Finanza Vincenzo Corrado (residente a Treviso) e Massimo Nicchinello, il giudice della Commissione tributaria regionale Cesare Rindone, i commercialisti di Treviso Tiziana Mesirca e Augusto Sartore di Chioggia, gli imprenditori appartenenti al gruppo edile Bison di Jesolo, alla Cattolica Assicurazioni di Verona, alla società Baggio di Marghera, attiva nella logistica, oltre all'industriale dell'acciaio Pietro Schneider di Udine. Gli episodi contestati. Nel primo di questi, sono coinvolti l'intera famiglia Bison (padre, madre e due figli), imprenditori jesolani, Elio Borrelli, direttore dell'Agenzia delle Entrate di Venezia fino al 31 dicembre 2015 e il suo successore Massimo Esposito. Inizialmente è Borelli ad essere pagato da Bison, poi Esposito.

Secondo il gip ci sono le prove relative al pagamento di tangenti per 140. 000 euro, in varie tranches tra il settembre 2016 e il maggio 2017. In cambio, i due funzionari si sono adoperati per ridurre dell'80% le imposte dovute da tre società del gruppo Bison, con sede nel Veneziano, sottoposte a verifica fiscale da altri funzionari della stessa Agenzia, passando così da 41 milioni di euro dell'originario debito erariale a poco più di 8 milioni effettivamente pagati. Inoltre, l'imprenditore ha ottenuto che venisse ritardata la notifica di avvisi di accertamento per debiti tributari, in modo da chiedere rimborsi Iva per 600mila euro che non poteva ottenere. Sempre i due funzionari dell'Agenzia, si sono accordati con il commercialista di Chioggia Augusto Sartore, per ricevere 50.000 euro in cambio della promessa di "accomodare" un accertamento tributario alla Somit Srl. Si ritorna al concreto con passaggio di tangenti nell'episodio che coinvolge il colonnello della Guardia di finanza Vincenzo Corrado, residente a Treviso, il funzionario dell'Agenzia delle Entrate Christian David, la commercialista di Treviso Tiziana Mesirca e gli imprenditori veneziani Paolo Maria Baggio e Paolo Tagnin.

Naturalmente vengono pagate tangenti per ridimensionare l'esito di verifiche eseguite a una società immobiliare e a un'azienda di trasporti. I due imprenditori hanno pagato Corrado e David, con l'intermediazione della commercialista. L'ufficiale, in cambio di denaro e benui di lusso per un valore di 40.000 euro, ha fatto da "ponte" con il funzionario dell'Agenzia delle Entrate e con il proprio interessamento ha reso possibile la riduzione del 70% debito complessivo delle aziende verificate, passato da 13 a 3, 7 milioni di euro. Sempre Corrado coinvolge il collega Massimo Nicchiniello, in servizio a Udine, per "addolcire" l'esito delle verifiche alla Burimec di Butrio (Udine) dell'imprenditore Pietro Schneider, in cambio i due ufficiali hanno avuto soldi e cene in ristoranti di lusso, oltre all'assunzione alla Burimec del figlio di Corrado.

Nella vicenda che riguarda la Cattolica Assicurazione di Verona compare il nome di Cesare Rindone, giudice della commissione tributaria del Veneto che diventa mediatore tra Albino Zatachetto, (oggi segretario del presidente di Cattolica), e Giuseppe Milone, responsabile amministrativo, i quali intrattenevano rapporti con Borrelli, David e Corrado in cambio di orologi Rolex, l'assunzione di amici e compagne: i funzionari hanno fatto sì che il debito erariale scendesse da 8, 8 a 2, 6 milioni di euro. Promozione chiesta mai ottenuta. Elio Borrelli nel 2015 punta a diventare direttore dell'Agenzia delle Entrate di Verona. Una promozione che cerca coinvolgendo Arcangelo Boldrini, commercialista di Mestre, amico di Enrico Letta e in quota Pd in vari enti. Boldrini ha il compito di interessare il sottosegretario Pierpaolo Baretta. Se la promozione arriva "per te la vita cambia", dice Borrelli all'amico commercialista. Promozione mai arrivata.

Corriere del Veneto, 18 giugno 2017
MAZZETTE, LA CRICCA A CACCIA DI CLIENTI

«HA LA FACCIA DA PRIMA REPUBBLICA»
di Alberto Zorzi

Per il gip il «gruppo decisionale» faceva proposte seriali e non aspettava richieste dagli imprenditoriVenezia «Mi sembra di aver capito che Canevel è un tipo da Prima Repubblica e quindi si può...». Vincenzo Corrado, il finanziere del comando provinciale di Venezia che è stato uno dei 16 arrestati venerdì mattina nell’inchiesta sulle tangenti all’Agenzia delle Entrate, dice e non dice, ma il senso è chiaro. La «cricca», che secondo l’accusa del Nucleo di polizia tributaria di Venezia e del pm Stefano Ancilotto aveva al centro Corrado e soprattutto un gruppetto di funzionari dell’Agenzia – dall’ex dirigente del Centro operativo di Venezia Elio Borrelli all’ex direttore della sede lagunare Massimo Esposito, al capo settore Controlli e riscossione Christian David –, cercava sempre nuovi clienti per il suo schema ormai rodato: soldi o regali in cambio di uno sconto sostanziale sulle sanzioni fiscali, tanto che proprio a casa di Corrado i suoi colleghi delle fiamme gialle hanno trovato i due Rolex che gli sarebbero stati regalati dagli imprenditori. E dall’ordinanza di custodia del gip Alberto Scaramuzza spuntano altre aziende finite nella rete o su cui i funzionari infedeli avrebbero messo gli occhi, anche se poi - come ammette lo stesso giudice - non si è arrivati a contestazioni penali, come nei 5 casi delle imputazioni.

Corrado, parlando con la commercialista trevigiana Tiziana Mesirca, anche lei arrestata, cerca di capire se si può agganciare la Canevel Spumanti di Valdobbiadene, con quella battuta sul suo ad Carlo Caramel e gli anni d’oro delle tangenti. «Però Titty, dimmelo in tempo se è il caso che io posso eheh...», dice. «I pubblici ufficiali non aspettano che sia il privato a sollecitare il loro intervento, ma spesso si propongono per accomodare le verifiche o gli accertamenti», annota il gip. Una mediazione fondamentale è quella dei professionisti: non solo la Mesirca, ma anche il commercialista chioggiotto Augusto Sartore. Questi è stato a sua volta arrestato per corruzione per aver promesso a Borrelli ed Esposito 50 mila euro per la società Somit.

Ma dalle indagini emerge che Sartore avrebbe sondato i funzionari anche per altre società da lui seguite: una è la Nuova Coedmar, impresa coinvolta nell’inchiesta del Mose (il suo legale rappresentante Gianfranco Boscolo Contadin ha patteggiato 2 anni per corruzione e false fatture), che aveva avuto un verbale di accertamento da 5-6 milioni; poi ci sono la polesana Cultiva società agricola e la chioggiotta Acquachiara. «Sebbene non abbiano portato per il momento all’elevazione di ulteriori contestazioni di fatti di corruzione, dimostrano in modo chiaro l’esistenza di un sistema di trattazione certamente illecito delle società assistite da Sartore». C’è anche un risvolto quasi ridicolo, laddove Borrelli si informa con Esposito su una certa Comet Corsetterie, sempre di Chioggia, ritenendola azienda legata a Sartore: i due fanno i conti, ipotizzano una tangente di 80 mila euro, ma quando vanno dal commercialista lui replica che si sono sbagliati. «No Comet, Somit - dice Sartore al telefono - io ho la Somit».

«Questi soggetti hanno creato un vero e proprio sistema criminoso - commenta il gip, spiegando perché ha deciso di applicare il carcere per 14 di loro - Trattasi di soggetti organizzati in un vero e proprio gruppo decisionale». Quasi un’associazione per delinquere, anche se per ora non è stata contestata. Secondo il giudice c’è però una «pericolosità sociale eccezionalmente elevata e un intenso pericolo di reiterazione», perché funzionari dell’Agenzia, professionisti, finanzieri e imprenditori si sono resi protagonisti di uno «svilimento della pubblica funzione che era non casuale ed estemporaneo, ma sistematico e ramificato». Al punto che chi invece era onesto, come la funzionaria Anna Boneschi, venne spostata a Treviso, con l’esultanza della «cricca». Oltre al pericolo di reiterazione, il giudice cita anche l’inquinamento probatorio e alcune conversazioni in cui alcuni di loro si raccomandavano di «pulire» la contabilità o di stare attenti alla posta elettronica e alle telefonate. Esposito, poi, chiamava Borrelli con una Sim intestata alla suocera defunta.

Domani ci saranno i primi interrogatori, tutti per rogatoria, visto che gli arrestati sono stati sparpagliati in vari carceri. Per ora i difensori sono molto abbottonati, in attesa di leggere tutte le carte dell’inchiesta coordinata dal pm Ancilotto. A parlare è invece Claudia Nicchiniello, parente di quel Massimo arrestato per aver partecipato a un episodio di un’impresa friulana, quando era alla Finanza di Udine (ora è comandante a Siracusa). «La sua unica colpa è aver partecipato a una cena e non aver allontanato in modo netto alcuni colleghi - afferma - A casa sua non sono stati trovati soldi o regalie, ma solo due bambine, certo non assunte da nessun imprenditore. Il suo arresto ha avuto lo sciagurato effetto di sminuire la figura di un ufficiale che ha concluso importanti arresti in Sicilia».

Una giornata di lotta per una democrazia che stanno cancellando. «Che razza di democrazia è quella italiana dove si cancellano i referendum, dove 12 milioni di concittadini non ricevono le cure del servizio sanitario, dove il lavoro ha perso diritti, dignità e speranza».

il manifesto, 18 giugno 2017

Il governo da una parte, la Cgil dall’altra. Su sponde opposte rispetto alla polemica di questo momento sullo sciopero nei trasporti, ma a ben vedere su distanze siderali in merito all’idea stessa di contratto sociale tra rappresentanti e rappresentati.

Al presidente del consiglio convinto che «l’intero paesaggio sociale italiano non è sulle posizioni della Cgil», e pronto a decidere nuove regole sullo sciopero, è arrivata a stretto giro, la replica secca di Camusso nel discorso di chiusura di una bella manifestazione accolta dall’afa bollente: «Non è accettabile che si usi uno sciopero discutibile per attaccare il diritto di sciopero, e al governo dico fate la legge sulla rappresentanza».

Del resto il conflitto tra il sindacato di Camusso e il governo Renzi-Gentiloni si è materializzato con la piazza rossa di San Giovanni a Roma. Contro i voucher, la Cgil ha risposto al governo con una grande mobilitazione, decine di migliaia di lavoratori chiamati a proseguire la battaglia iniziata con le oltre tre milioni di firme raccolte per un referendum che Renzi ha avuto paura di affrontare temendo una seconda sonora batosta dopo quella del 4 dicembre. Ma non tutto è permesso per evitare il diritto al voto dei cittadini, il governo Renzi-Gentiloni invece ha annullato il referendum e resuscitato i voucher. La Cgil non si dà per vinta e né la Corte costituzionale, né il capo dello stato possono eludere il dovere di esprimersi e di vigilare sul grande scippo.

A vederli sfilare con i loro berretti rossi tutto sembravano ieri i lavoratori venuti a Roma da tutta Italia, tranne che pensionati in gita. Per le strade della Capitale c’erano tutte le generazioni, comprese quelle che dopo 41 anni di lavoro, grazie alla legge Fornero, non possono andare in pensione. Compresi i pensionati che oggi rappresentano il sostegno, l’unico, dei giovani disoccupati, comprese le centinaia di aziende in crisi perché governate da una classe imprenditoriale capace solo di tagliare il salario.

Nei paesi autoritari non c’è libertà del lavoro e non c’è nemmeno democrazia, ha detto dal palco la segretaria della Cgil. E, con lei, ci chiediamo che razza di democrazia è quella italiana dove si cancellano i referendum, dove 12 milioni di concittadini non ricevono le cure del servizio sanitario, dove il lavoro ha perso diritti, dignità e speranza.
Il paese nel quale vive papa Francesco è certamente un osservatorio privilegiato per chi vuolcolpire un vizio, morale e sociale, che avvelena gran parte de mondo, soprattutto nel suo strato più alto: quello dei potenti

. il Fatto Quotidiano, 18 giugno 2017

Oggi le mafie – e le chiamo al plurale – sono ovunque e ovunque la Chiesa deve cacciare i mafiosi”, sostiene monsignor Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale, diocesi di Palermo che comprende Corleone. Anche Pennisi, prete siciliano e antimafia, era al seminario del Vaticano, organizzato giovedì dal dicastero per lo Sviluppo umano integrale con il compito di reperire uno strumento per scomunicare corrotti e mafiosi. Ovunque, come ripete Pennisi. E non soltanto in Sicilia o in Calabria o in Campania.
All’incontro c’erano magistrati, poliziotti, i vertici delle Conferenze episcopali italiane, messicane, sudamericane, dell’est Europa, il presidente dell’Anticorruzione, Raffaele Cantone e il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. “Papa Francesco è sempre vigile su questi temi”, ricorda Pennisi. Jorge Mario Bergoglio, due anni fa in visita in Calabria, riprese l’appello di Giovanni Paolo II: “A quanti hanno scelto la via del male e sono affiliati a organizzazioni malavitose rinnovo il pressante invito alla conversione”. Non solo: “Coloro che nella loro vita hanno questa strada di male, i mafiosi, non sono in comunione con dio: sono scomunicati”. E ai parlamentari, accorsi in udienza in Vaticano, dopo il primo anno di pontificato, disse severo: “I peccatori saranno perdonati, i corrotti no”.
Non sarà automatico tradurre l’intenzione di scomunicare i mafiosi e i corrotti in un decreto “universale”, che possa valere in Italia e in Messico e nel mondo. Il Vaticano dovrà determinare dei criteri, le conferenze episcopali intervenire. Il cardinale Peter Turkson, prefetto del dicastero per lo Sviluppo umano integrale, ha istituto un gruppo di lavoro: “Abbiamo pensato l’evento per far fronte a un fenomeno che conduce a calpestare la dignità della persona. Noi vogliamo affermare che non si può mai calpestare, negare, ostacolare la dignità delle persone. Quindi spetta a noi saper proteggere e promuovere il rispetto per la dignità della persona. E per questo cerchiamo di attirare l’attenzione su questo argomento”. Con la scomunica il fedele viene allontanato dalla comunità religiosa e viene escluso dai sacramenti. Per i mafiosi è un’onta: “Professare la religione, esibirla, ha un’importanza sociale per loro. Serve al consenso. E i familiari, per esempio, non accettano che gli sia negato un funerale solenne in Chiesa”, afferma Pennisi. E poi c’è la corruzione: “Ha ragione Cantone: va trovata una definizione comune di questo tipo gravissimo di reato. Perché il corrotto è un peccatore che trae un’utilità da un gesto volontario. E spesso se ne vanta”.
Per monsignor Silvano Tomasi, per un decennio alle Nazioni Unite per il Vaticano, già parlare di lotta alla corruzione è un risultato: “Il nostro obiettivo è sensibilizzare l’opinione pubblica, identificare passi concreti che possano aiutare ad arrivare a delle politiche e leggi eventualmente che prevengano la corruzione, perché la corruzione è come un tarlo che si infiltra nei processi di sviluppo per i Paesi poveri o nei Paesi ricchi, che rovina le relazioni tra istituzioni e tra persone”.
Vergognoso mettere in relazione la mancanza di lavoro qualificato in Italia che costringe tanti nostri giovani talenti ad emigrare con l'opposizione alle grandi opere, che hanno prodotto, questo si, un sistema diffuso di illegalità, corruzione, tangenti, con benefici immensi per pochi.

Corriere della Sera, 17 Giugno 2017 (m.p.r.)

Non occorreva la sua immagine, sarebbe bastata la drammatica conversazione tra Gloria e la madre. Ma è inevitabile osservare che i nostri nonni emigrati all’estero erano piccoli, scuri, malnutriti, spaventati; al punto che i funzionari razzisti del Bureau of Immigration si interrogarono se gli italiani andassero considerati «di razza bianca».

Seconda osservazione: sono laureati. Spinti dalla giusta ambizione più che dal bisogno. Avanguardia dei disoccupati intellettuali, che sono la grande piaga dell’Italia di oggi: un Paese che di laureati ne ha meno degli altri in Europa, ma non riesce a trovargli un lavoro; anche perché investe troppo poco in cultura, istruzione, ricerca.

Terza cosa: sono veneti. Vengono dalla regione che in questi anni è cresciuta di più. Da cui un tempo si partiva per sfuggire alla fame, in particolare verso il Sud America: odissee raccontate molte volte da Gian Antonio Stella su questo giornale. Una regione divenuta ora la più ricca d’Italia, ma che non riesce sempre a valorizzare le eccellenze che crea. Veniva dal Veneto anche Valeria Solesin, l’unica vittima italiana della strage del Bataclan a Parigi (13 novembre 2015). Valeria e Gloria erano più o meno coetanee. Avevano frequentato gli stessi luoghi, fatto le stesse vacanze, visto gli stessi film, letto gli stessi libri, ascoltato le stesse canzoni. Come ha detto la signora Luciana, madre di Valeria: «Nostra figlia è stata uccisa dai terroristi; ma i genitori che perdono i figli in un incidente non soffrono meno».

Gloria e Valeria sono le rappresentanti di una generazione con cui l’Italia è stata avara di opportunità. Ma loro non hanno piagnucolato. Si sono messe in gioco. Sono andate all’estero, hanno imparato una lingua straniera. Avevano trovato un lavoro. Valeria abitava con il fidanzato Andrea in un monolocale di 14 metri quadrati in rue César Franck, vicino alla Tour Eiffel: se lei studiava, lui doveva andare a letto o sotto la doccia. Gloria e il suo fidanzato Marco avevano trovato un piccolo appartamento al ventitreesimo piano di una torre a North Kensington, affacciata su Notting Hill, costruita per i poveri e ristrutturata per farla sembrare un posto da ricchi. Era molto bella la foto su Facebook , con le due sedie da regista vuote e la finestra spalancata sullo skyline della Londra notturna: il sogno di tanti nostri ragazzi. Non è forse lo stesso quartiere dove abita l’ex premier laureato a Eton? Dove c’era la libreria del film con Hugh Grant, il commesso che si innamora ricambiato della grande attrice, Julia Roberts? Del sistema antincendio, però, nessuno si era occupato.

La morte di un figlio è sempre un evento ingiusto. Nessuno può sindacare il modo in cui reagisce un genitore. Quasi sempre i genitori italiani se la prendono con lo Stato. Così ha fatto il padre di Gloria. E in effetti è difficile riconciliarsi con uno Stato che al primo articolo della Costituzione riconosce il diritto al lavoro, e non lo rende effettivo neanche per chi si è laureato a pieni voti; a meno che non si accontenti di 300 euro al mese. Uno Stato che spreca risorse nel modo scandaloso che tutti sanno. È più difficile e impopolare, ma è intellettualmente onesto e quindi necessario, aggiungere che a forza di no — no all’alta velocità, no alla Pedemontana, no alle Olimpiadi, no alle grandi opere; c’è chi diceva no pure all’Expo, e meno male che si è fatto lo stesso — è arduo che ci possa essere lavoro in Italia per gli architetti, vista la crisi in cui langue da anni l’edilizia. Londra invece è una città in cui si costruisce moltissimo: solo allo Shard di Renzo Piano hanno lavorato 1.500 tra operai e tecnici, venuti da quaranta Paesi diversi, tutti con gli elmetti gialli, che in Italia evocano minatori in sciopero o cassintegrati che si scontrano con la polizia. Però nello Shard vivono i miliardari. Nella Torre di Notting Hill vivevano gli ultimi arrivati.

La maledizione di Londra è il fuoco. La nostra è sentirci una grande nazione, ma non un grande Paese. Un luogo dove nascono cose destinate a dare frutto altrove, dalle scoperte geografiche a quelle scientifiche, dalla medicina alla tecnologia. Quante volte ci è accaduto all’estero di trovare in ospedale o in cantiere un primario o un ingegnere italiano, e sentire un misto di orgoglio e di scoramento: perché formiamo con il denaro pubblico eccellenze o anche solo bravi professionisti, che vanno a dare il meglio di sé da altre parti. E il mondo globale è propizio alla terra delle cose buone e delle cose belle, ma le impone di saper fare sistema: uno Stato che funziona, le infrastrutture, i servizi, la capacità di fare rete, il talento di mettere l’interesse generale davanti a quello particolare. Proprio l’unico talento che a noi manca.

Per il resto, rimaniamo italiani sino in fondo, sino all’ultimo, anche in terra straniera. Così Gloria non ha chiamato i pompieri o gli amici a Londra. Non ha telefonato al consolato o all’ambasciata. Nel momento estremo, ha chiamato la mamma. Per tranquillizzarla, all’inizio. Per cercare conforto, verso la fine. Per confortarla, nel momento estremo. Perché qualcosa della nostra cultura cristiana e umanista ce lo portiamo dentro tutti, visto che con le sue ultime, meravigliose parole Gloria ha promesso alla madre che l’avrebbe aiutata dal cielo. Se davvero esistono le forze dello spirito, Gloria ci avrà già perdonati. Ma questo non ci assolve dalla responsabilità collettiva che una morte come la sua getta addosso a ognuno di noi.

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