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Huffington posta Nuova Venezia, 19-20 novembre 2017. «Siamo alla vigilia delle celebrazioni della Giornata Mondiale dei Poveri. Non la giornata mondiale della povertà, non la giornata mondiale contro la povertà». Articoli dei sacerdoti Camillo Ripamonti e Marco Pozza.(m.p.r.)

Huffington post, 20 novembre 2017
ELIMINARE LA POVERTÀ

NON I POVERI
di Camillo Ripamonti

Secondo la filosofa spagnola Adela Cortina l'aporofobia (la paura dei poveri) esiste al pari della paura dello straniero. Addirittura arriva a sostenere che oggi non siamo tanto di fronte a un aumento della xenofobia, ma piuttosto al dilagare della paura nei confronti dei poveri. Aporofobia è certo anche la paura degli stranieri, ma non ha come target principale l'essere straniero, quanto la condizione di marginalità che lo straniero vive.

Uno studio recente dell'Università Bicocca di Milano sulle periferie di cinque grandi città sottolinea come la percezione di insicurezza che si ha oggi non è tanto data dall'aumento di delitti, ma dalla mancanza di riferimenti generata dalla velocità con cui cambiano questi spazi urbani sia strutturalmente che come persone che vi vivono transitandovi. Lo spazio esistenziale diventa distante e percepito come insicuro, e l'insicurezza la si combatte cercando di riappropriarsi del controllo, almeno apparente, degli spazi, allontanando o individuando come nemici chi transitandovi esistenzialmente sembra renderli insicuri: migranti, mendicanti etc.

Siamo alla vigilia delle celebrazioni della Giornata Mondiale dei Poveri. Non la giornata mondiale della povertà, non la giornata mondiale contro la povertà. Ma la giornata mondiale dei poveri. Sembra un aspetto meramente linguistico, ma credo non lo sia. Nel messaggio che papa Francesco invia per questa giornata si legge:

«Non pensiamo ai poveri solo come destinatari di una buona pratica di volontariato da fare una volta alla settimana, o tanto meno di gesti estemporanei di buona volontà per mettere in pace la coscienza. Queste esperienze, pur valide e utili a sensibilizzare alle necessità di tanti fratelli e alle ingiustizie che spesso ne sono causa, dovrebbero introdurre ad un vero incontro con i poveri e dare luogo ad una condivisione che diventi stile di vita. [...] Siamo chiamati, pertanto, a tendere la mano ai poveri, a incontrarli, guardarli negli occhi, abbracciarli, per far sentire loro il calore dell'amore che spezza il cerchio della solitudine. La loro mano tesa verso di noi è anche un invito ad uscire dalle nostre certezze e comodità, e a riconoscere il valore che la povertà in sé stessa costituisce».

In un tempo in cui si ha paura dei poveri, si cerca in tutti modi di allontanare i poveri dalla nostra vista. Non vederli ci rassicura perché avere un povero davanti agli occhi, nei luoghi in cui viviamo, ci ricorda che quella condizione domani potrebbe essere la nostra; si può cadere, e questo spaventa.

Papa Francesco lancia la Giornata Mondiale dei Poveri, non per attirare l'attenzione su di loro ma per farli protagonisti, attraverso un incontro che cambia e fa abbracciare la povertà come stile di vita: questo già credo sia un cambio radicale di prospettiva.

«... L'invito è rivolto a tutti, indipendentemente dall'appartenenza religiosa, perché si aprano alla condivisione con i poveri in ogni forma di solidarietà, come segno concreto di fratellanza. Dio ha creato il cielo e la terra per tutti; sono gli uomini, purtroppo, che hanno innalzato confini, mura e recinti, tradendo il dono originario destinato all'umanità senza alcuna esclusione".

19 novembre 2017
PREGHIAMO PER I POVERI
SENZA SCORDARE I RICCHI
di Marco Pozza

I poveri mi hanno sempre infastidito: pur avendo conosciuto da bambino la stagione della povertà - fui spettatore impotente delle lacrime di papà quando ci annunciò la perdita del lavoro - mi è sempre stata d'inciampo. L'ho patita troppo nell'anima, più che nel cibo che era misuratissimo, per amarla senza sotterfugi: quando l'ho potuto fare, l'ho sempre scansata. Il povero mi era ostacolo più che incrocio nella mia personale ricerca della felicità. Lo ammetto: anche del volto di Cristo. Ciò che gli infettati di lebbra procuravano al cuore-matto di Francesco di Assisi, gli accattoni lo ridestavano in me: «Quando ero nei peccati mi pareva cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse da loro e usai con essi misericordia».

A casa nostra, in quegli anni, Dio era un lusso che non ci si poteva permettere: meglio i santi, la Madonna, gente più concreta, alla quale chiedere il sole, la pioggia, il pane e la giusta razione di grano d'estate. Il povero, quand'è povero, conosce un solo dogma: la carne. La teologia viene dopo. Quasi sempre alla fine dei discorsi: se c'è posto. Il povero, quello che m'infastidiva, un giorno mi ha pure provocato: "Perché mi dai sempre soldi e poi scappi? - mi rinfacciò tre anni fa Alessandro, uno dei miei amici clochard. Aveva ragione: gli riempivo la mano tesa e poi fuggivo: non conoscevo, di lui, nient'altro che il nome. Una sera li rifiutò: "Non voglio più soldi da te - mi disse restituendomi gli euro - voglio dieci minuti di tempo".
Scoprii lì, seduto malvolentieri sui gradini di una chiesa di città, la storia lurida e infangata di Ale: la rabbia, l'angoscia, l'insicurezza che la povertà ti cuce addosso. Era la rievocazione, fatta con voce dell'Est, della storia di casa mia: lo ascoltavo e a me pareva fosse lui che mi ascoltasse, la sua storia era un racconto già sentito nella mia pelle. Quando mi alzai, compresi appieno perché ero così generoso di soldi con lui e qualche altro: volevo che, sazi di qualche euro, se ne andassero al più presto da me. La mia carità era il più egoista dei gesti: "Spostatevi, che io devo andare avanti" . Quel clochard ancora oggi è il mio lebbroso-di-Francesco: «Allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo».
Quell'altro Francesco, oggi Papa, perfezionò la mia caduta ricordandomi che Cristo lo trovi nella carne sofferente dei poveri. O non lo trovi. Oggi è la loro giornata, la Giornata Mondiale del Povero. Ecco perché oggi io pregherò per i ricchi: perché la povertà, quando ti tocca, non è affatto bella, è il più spietato degli incubi. È lei a posizionarti sotto le scale, negli scantinati, nei nascondigli: a fare di te un subalterno, un uomo poco libero, uno schiavo. Non è per nulla poetica come amano presentarcela taluni: anche la terra - quella che a casa mia vedo zappare, coltivare, seminare - non è sempre bella. Lo diventa quando è una scelta, un'opzione voluta, un sogno ripreso in mano. Quand'è una costrizione, è la più subdola delle disperazioni. Quella che fa nascere una sorta di eresia da destinare ai ricchi: che la fede del povero sia superiore a quella del ricco. Nient'affatto. Me l'ha spiegato san Francesco di Paola, tramite il racconto geniale di Andrea di Consoli ne Il miracolo mancato: a volte, per fare il bene, è necessario mostrarsi forti, per mettere i forti nella condizione di aiutare i deboli.
Sono i ricchi i veri protagonisti del riscatto dei poveri: una Chiesa che li esclude è una Chiesa che non riesce ad incidere nelle loro anime, ad aprire brecce nelle loro certezze. Nel Vangelo ci sono i lebbrosi, gli sbandati, gli epilettici e i morti di fame. C'è anche Veronica, Nicodemo: una usava fazzoletti di lino, l'altro aveva una tomba nella roccia. Ricchi, si fecero poveri per amore, non per costrizione. Prego per i ricchi, oggi, perché iniziano a starmi a cuore i poveri: il merito è di Alessandro. E prego per i poveri, perché diventino ricchi sfondati e scelgano di rimanere poveri, come il santo di Assisi e infiniti altri. Perché la povertà senza la possibilità della ricchezza è sempre una necessità, mai una virtù. Non è bella.

il Fatto Quotidiano,

Non c’è un check-point come a Gaza ma è l’apartheid, se così si può dire – ed è il caso di dirlo – in Canada. È così disinvoltamente gentile da far sì che ciò che è stato non sia mai stato. C’è un tabù nella patria dei totem. Salvatore Peralta arriva a Montreal dalla Sardegna. Studia, lavora – è iscritto alla McGill University – segue il suo amico Oliver alle feste dei coetanei e si presenta – “ingegnere minerario” – e i ragazzi e le ragazze gli concedono un sorriso e una canzonatura: “Finirai col sposarti una Nativa”. L’ing. Peralta si trova nella terra delle libertà. Il Canada – lo Stato federale – è il luogo più compiutamente libero, pacifista, ambientalista. È migliore e ancora più democratico degli Stati Uniti e comunque, Salvatore, se la fa spiegare la battuta. Oliver, con un certo imbarazzo, lo mette a parte del tabù massimo nella pur patria dei totem: “Gli indiani d’America qui sono come gli zingari da voi; sono ladri, ubriaconi e drogati”. Un amico, si sa, mette in guardia il proprio amico. “Meglio evitare discussioni”, aggiunge Oliver, e la domanda dell’ing. Peralta – “Ma come si fa a considerare i Nativi, zingari, quando erano presenti in queste terre prima dei colonizzatori, dei pionieri, dei bianchi…” – resta appesa.

C’era una volta Tatanka Yotanka – e cioè Toro Seduto – e però è come se tutta questa terra non sia mai stata sua. Ci sono solo 33 km dal centro di Montreal alla riserva di Kahnawake, presidio dei Mohawk, sulla riva sud del fiume San Lorenzo. Lungo il percorso si costeggiano le rapide. È il luogo dei mercanti e degli avventurieri. Ci si avvicina e muta il paesaggio. La segnaletica diminuisce. Echeggiano gli spari del poligono di tiro. La riserva non è un accampamento per come lo immagina Pecos Bill. Sono case in legno. Nessuna manutenzione. Di tanto in tanto lussi tipo castelli di Super Mario Bros. Nel centro del cupo presepe un monumento: un carrarmato con le bandiere Usa e Canada perché i Mohawk hanno la doppia cittadinanza. Un cartello illude i visitatori: il parco. Tutto quello che dice la “casetta in Canadà” non c’è. Niente fiori di lillà, magari i pesciolini, ma rifiuti e rimanenze di fuochi. “Di Toro Seduto – dice l’ing. Peralta – hanno solo lo stare seduti.”
Come il Tibet per Pechino – una non identità – così la Nazione Indiana è per Ottawa. Col multiculturalismo cool molto più efficace del totalitarismo cinese. La cancellazione della memoria della popolazione aborigena – sussidiata, relegata nelle riserve americane – sta giungendo a compimento, mentre i tibetani, al netto della realpolitik comunista, una vetrina di mobilitazione riescono ancora ad averla. Uno dei più grossi imbrogli della storia è l’Indian Act, ovvero il patto sottoscritto nel 1876 tra lo stato federale canadese e le nazioni indiane (quelle che impropriamente sono chiamate tribù). Molti rappresentanti dei Nativi, la maggior parte dei quali non alfabetizzati secondo il canone occidentale, ma legati alla tradizione orale sciamanica, segnano le carte bollate della cessione delle terre – i Treaties, i trattati – con i totem. Siglato senza la piena consapevolezza delle parti soccombenti, l’Indian Act, risultato a suo tempo perfetto – per la popolazione non aborigena – per cambiare le carte in tavola, si perpetua ancora oggi con la burocrazia.
Quelle stesse distese di boschi, le immensità di laghi e i potenti inverni del Nord che ancora oggi, attraverso lo sfruttamento, portano alle casse dello stato federale 270 miliardi di dollari vanno a contraccambiare, a favore dei Nativi, un bilancio di soli 70 miliardi. Privi d’identità, i Nativi, vivono confinati all’interno delle riserve. Registrati in un’anagrafe separata attraverso una Status card, non pagano le tasse e sono sussidiati con 800 dollari mensili (300 per mangiare, il resto per l’affitto). Fino al 1996 – solo 21 anni fa – i loro bambini dovevano frequentare le Residential schools col preciso proposito di far dimenticare il loro stesso sangue se sir John Alexander McDonald, padre della patria coloniale e primo ministro nel 1873 e nel 1878 ne segnalava l’urgenza: “Non vogliamo il selvaggio alfabetizzato, ma un nuovo essere pronto al nuovo mondo”.
Una cosa sono i diritti umani, dunque, un’altra i diritti coloniali. L’indifferenza si adopera per la più inesorabile delle pulizie etniche. È di fatto proibito professarsi “nativo”. I Nativi delle varie Nazioni, non hanno accesso alla “civiltà”. Possono andare a caccia – e a pesca – quando vogliono ma l’idea di commercializzare tutto quello che prendono e catturano va a cozzare con un embargo neppure tacito, ma esibito dai Treaties rispetto ai doveri dei selvaggi verso la cosa pubblica degli altri, i civilizzati. Dire indiano è come dire negro. Sono sempre guai per i vinti e il genocidio spirituale cui è sottoposta l’identità aborigena s’invera in quella mistificazione del politicamente corretto sulla soglia della reciproca ignoranza: i bianchi non sanno nulla dei selvaggi, e viceversa. Guai ai vinti. Ognuno chiama se stesso americano, o canadese, l’altro è definito nativo. Anche nativo è offensivo, come pure eskimese che – letteralmente – significa “mangiatore di pesce”, la formula incantata è First Nation People, un palliativo autoassolutorio con cui la società benestante si evita il fastidio di confrontarsi con la realtà di tutti quegli aborigeni: un 10% tra loro – con la gestione del gioco d’azzardo, alcool e tabacchi, e lo spaccio di droghe – si conquista un agio, il resto vive nell’indigenza e nell’accattonaggio.
A Montreal se ne incontrano tanti di questi ultimi, dei primi invece – ed è stato un quadretto di assoluta tenerezza – si nota subito lo sforzo di cautela. Non potendo farsi bianchi s’adeguano all’idea cinematografica. C’è un papà (col codino lungo fino al fondoschiena), e ci sono una mamma e una figlia adolescente. Identiche, entrambe, a Pocahontas. Fanno shopping. L’ideologia coloniale tende a farne uno stereotipo della stirpe “indiana”, tuttavia, prima delle invasioni coloniali queste etnie parlavano 12 lingue differenti, esprimevano svariati stili urbanistici e diverse culture e tradizioni. Nell’ultimo censimento del 2001 risultano 1,3 milioni di canadesi che dichiarano un retaggio nativo: First Nations, Inuit e Metis tra loro.
L’università McGill di Montreal sorge sulla città fortificata di Hochelaga, un complesso abitativo di aborigeni scoperto nel 1535 da Jaques Cartier. Abbandonata poco prima del 1600, Hochelaga contava 50 edifici ospitanti numerosi nuclei familiari dediti ad agricoltura e pesca. Il fondatore dell’università – sir James McGill – era un mercante di pellami, ogni pietra ha cancellato un’altra pietra e sotto i palazzi del centro città, già a uno scavo di soli 10 metri, giacciono strade e costruzioni dei vecchi insediamenti aborigeni.
C’era dunque una volta Tatanka Yotanka – e cioè Toro Seduto – ma è come se tutta questa terra non sia mai stata sua. Pietra sopra pietra. Alla McGill c’è un residence per i nativi – è la First People House – dove però capitano giovani stranieri, un sardo come l’ing. Peralta che la domanda se la tiene sempre appesa. Vi lavora come precettore e alla manager, un’aborigena, la domanda – “ma questo mondo è il vostro mondo?” – la rivolge con più insistenza. “Leggi un libro, prova a cercare una risposta”. Alla prima domanda, Salvatore ne aggiunge un’altra: “Tu quale libro hai letto?”. La risposta è una rasoiata: “Non leggo nulla riguardo alla mia origine, storia e cultura”. Il guaio è tutto dei vinti.

Internazionale

La manifestazione nazionalista in occasione dell’anniversario dell’indipendenza polacca. Negli ultimi anni l’evento, che celebra la ricostituzione della repubblica di Polonia nel 1918, è diventato un punto di riferimento per i movimenti di estrema destra di tutta Europa. Quest’anno hanno partecipato almeno sessantamila persone, che hanno inneggiato all’Europa bianca e scandito slogan contro gli ebrei e i musulmani. “È stato un bellissimo spettacolo”, ha commentato il ministro dell’interno Mariusz Błaszczak, esponente del partito ultraconservatore Diritto e giustizia.

il Fatto Quotidiano,


ATENE, I "PRIGIONIERI"

DI PIAZZA SYNTAGMA
di Cosimo Caridi
Disegna perché non sa scrivere. Mohamed ha nove anni e non è mai stato scolarizzato. Nato a Homs, in Siria, ha imparato a camminare sotto le bombe. Subito dopo, con il fratello maggiore e i genitori, ha lasciato il paese. Dove è tua mamma? “In quella tenda. Dorme, è stanca”. E papà? “In Germania”. Fatima, la madre di Mohamed, sta facendo lo sciopero della fame. Sono 13 giorni oggi. Vuole raggiungere il marito a Stoccarda. Non si vedono da oltre due anni. “Eravamo in un campo in Turchia – racconta la donna, mentre rassetta due coperte, unico arredo della sua tenda – mio marito è andato avanti. Ha attraversato il mare e poi i Balcani. Quando è arrivato in Germania ci ha chiesto di raggiungerlo”. Il resto è cronaca. Nel marzo 2016 la cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha chiuso la rotta balcanica. Almeno 100 mila persone rimangono intrappolate tra i confini alle porte d’Europa. Di questi, oltre 62 mila sono tutt’ora in Grecia. Mohamed è uno di loro.
In piazza Syntagma, ad Atene, sul marmo antistante al parlamento ellenico, 15 famiglie siriane hanno piazzato le loro tende. Ci sono donne e bambini in quantità, ad accompagnarli uno sparuto gruppo di uomini. Il primo novembre hanno appeso uno striscione nero a caratteri bianchi: “Sciopero della fame. Ricongiungete le nostre famiglie ora!”. Su un cartellone, ogni mattina, annotano da quanti giorni va avanti la protesta. “I tedeschi ci hanno diviso dai nostri cari – spiega Ibrahim, trentenne designato portavoce della comunità – abbiamo aspettato e seguito le procedure, ma non abbiamo ottenuto nient’altro che un pasto e un materasso”. I richiedenti asilo sono stati sparpagliati in decine di centri in tutta la Grecia. I campi sono quanto di meglio lo Stato possa fornirgli.
Ma Atene non ha fondi per pagare le pensioni, quindi per chi fugge dalla guerra c’è poco, sovente nulla. Il programma dell’Unione Europa per ricollocare i profughi si è rivelato un buco nell’acqua. Gli stati membri, secondo quanto deciso da Bruxelles, avrebbero dovuto accogliere 160 mila profughi che si trovavano già in Grecia e in Italia. Prima il gruppo di Visegrad, e poi tanti altri, si sono sfilati e a oggi solo 13.622 sono le procedure registrate, di cui 9.960 sono andate a buon fine, meno del 7 per cento. Le isole vicine alla Turchia, trasformate in hotspot per volere dell’Europarlamento, sono diventate carceri per i profughi. La convivenza forzata tra locali e migranti risulta ogni giorno più difficile.
La disoccupazione ellenica rimane sopra il 22 per cento e quindici cittadini su 100 vivono sotto la soglia della povertà. Alba Dorata, il partito xenofobo greco, terza forza del parlamento, capitalizza il malcontento. Si moltiplicano le aggressioni degli attivisti di estrema destra a richiedenti asilo, e volontari che li supportano, l’ultima mercoledì scorso nella capitale. Le foto del viso insanguinato di Evgenia Kouniaki sono state diffuse su Facebook. Kouniaki è la legale di un pescatore egiziano testimone di un pestaggio, sempre a opera di Alba Dorata. Mentre andava dalla polizia è stata avvicinata da una decina di uomini che le hanno rotto naso e occhiali.
In piazza Vittoria, a pochi passi da dove è avvenuta l’aggressione, s’incrociano squallore ed eccellenza. Il piccolo parco è diventato negli anni della crisi il crocevia di spaccio e prostituzione, anche minorile. Qui i migranti che hanno perso la speranza toccano il punto più basso dell’Europa. C’è chi traffica l’eroina gialla e chi si vende per pochi euro. Soldi che, con ogni possibilità, pensa di reinvestire in un trafficante di uomini che lo aiuti ad attraversare i muri costruiti lungo la penisola balcanica.
Ed è proprio in piazza Vittoria che viene distribuito il miglior pasto gratuito per i rifugiati. I paesi baschi sono la regione del mondo con il maggior numero di ristoranti stellati. La cultura culinaria affonda nelle origini di Euskal Herria e ha creato eccellenze come le società gastronomiche. Club privati, a cui l’iscrizione passa di padre in figlio, dove gli uomini si tramandano le ricette della tradizione. “Zaporeak è l’associazione creata dai cuochi delle società gastronomiche – spiega Josi Etxeberria mentre controlla la cottura di quattro pentoloni – questa situazione è oramai incancrenita, non la possiamo risolvere noi, ma bisogna limitare il degrado”. Josi e i suoi hanno trasformato uno scantinato nella cucina di un ristorante. Una decina di volontari affettano, impiattano e imbustano. “Dobbiamo dare qualcosa di qualità a chi vive nella precarietà assoluta – continua Josi – c’è un legame tra cibo e dignità. Mangiare non è solo sfamarsi”.

SU LE MANICHE:
IL RISCATTO FAI-DA-TE
DEL POPOLO GRECO
di Michele Revelli
La Grecia ritorna sulla scena europea, questa volta non come vittima sacrificale ma come sopravvissuta. Già l’esito del negoziato coi creditori per la “seconda valutazione” aveva ispirato un certo ottimismo negli ambienti di governo. Poi a settembre la decisione di Macron di tenere il discorso “per svegliare l’Europa” proprio in Grecia, ad Atene, aveva lasciato intendere che si aprissero possibilità prima insperate e insperabili. Ora l’annuncio di Alexis Tsipras di aver raggiunto gli obiettivi di bilancio e di essere in grado di destinare il miliardo di euro di surplus ai “poveri che hanno sofferto questi sette anni di austerità” come “dividendo sociale” è un’ulteriore conferma. Questo momento parzialmente favorevole non è frutto del caso ma il risultato dello sforzo compiuto dalla comunità greca tutta intera, in primo luogo dai cittadini col loro impegno sociale, come ho potuto verificare per esperienza diretta sul territorio greco, parlando con rappresentanti politici e volontari delle organizzazioni di solidarietà.
La Grecia che ho visto si discosta molto dal tetro quadro di abbandono e degrado di qualche tempo fa, quando i negozi erano chiusi e i ristoranti vuoti, la gente asserragliata in casa mentre per le strade esplodeva la rivolta. Oggi i ristoranti sono frequentati e anche il turismo interno è ripreso (+0,7% i consumi, +9,5% l’export) mentre le proteste sono quasi cessate. Organizzazioni come La solidarietà del Pireo e i vari Ambulatori di quartiere hanno accompagnato la popolazione nel periodo più duro della crisi, innovando le tradizionali pratiche di volontariato e massimizzandone gli effetti che oggi sono ben visibili a voler guardare tra le pieghe della società greca.
Una delle componenti più innovative, per esempio, sono stati gli ambulatori sociali: strutture di volontariato dove vengono distribuiti medicinali e fornite cure a quanti non possano permettersi le spese mediche. La cosa che maggiormente mi ha colpito andando a visitarne uno, nel quartiere di Nea Smyrni, periferia sud di Atene, è stata la professionalità. Trattandosi di un’iniziativa partita dalla gente senza il supporto di grandi Ong o finanziatori esterni, mi aspettavo un ambiente meno rifornito di farmaci e specialisti. Invece ho scoperto che l’ambulatorio era frequentato con regolarità da 850 pazienti e contava più di 11 specialisti tra cui otorini ginecologi cardiologi pediatri e persino psicologi e dentisti con tanto di attrezzatura per ecografie ed elettrocardiogramma. Con altrettanto stupore mi è stato riferito che tra le cure più richieste vi sono quelle dentistiche e grazie alle donazioni di privati l’ambulatorio è riuscito anche a dotarsi di un’attrezzatura professionale adeguata. Sebbene l’iniziativa fosse nata nel 2013 da 8 membri di Syriza, oggi tra i 50 collaboratori volontari si trovano anche medici conservatori che sono stati attratti dalla purezza dei loro ideali e dal loro intento di tener fuori la politica di partito dall’impegno sociale che non si cura di differenze di bandiera ma mette al primo posto i problemi della gente (per quanto cercassi, non ho visto un solo volantino, o un’affiche o un simbolo di partito).

Ciò che è stato realizzato dagli ambulatori sociali per la sanità è stato fatto dalla Solidarietà del Pireo per il cibo e i beni primari. Dall’idea di 14 persone “di buona volontà” (di Syriza e non solo) nel 2012 si è avviato un progetto che unisse le tradizionali pratiche di aiuto come distribuzione di vestiti cibo assistenza scolastica e consulenze legali a un nuovo concetto di volontariato che è più descrivibile dalla coppia solidarietà-partecipazione. Infatti a chiunque voglia ricevere vestiti o alimentari si propone di prestare servizio come volontario (quasi come un atto di “buona volontà”), così che chiunque utilizzi il servizio non pensi di ricevere la carità ma si senta parte di qualcosa. I volontari di solito sostano nei pressi del grande supermercato di fronte alla sede con delle buste chiedendo ai clienti di riempirne una per la Solidarietà del Pireo. In questo modo l’organizzazione può ricevere i beni da distribuire mentre i volontari più bisognosi possono ottenerli tramite una valuta non ufficiale di loro invenzione chiamata “Pireo”. Lo scopo è quello di rimettere in piedi chi per colpa della crisi è stato affossato ma mostra una reale volontà di rialzarsi: per questo sono esclusi dal programma quanti dimostrano di volerne solo approfittare, mentre qualunque immigrato è ben accetto.

Tutto questo mi ha fatto capire che il motore della ripresa greca non sta tanto nelle decisioni politico-istituzionali, quanto nella mentalità politica del suo popolo, disposto a spendersi attivamente per risolvere i problemi delle persone più che per affermare individualismi di partito. Approccio incomprensibile se guardato dall’Italia, dove nulla di tutto ciò sembra far notizia.
il Fatto quotidiano

Il suicidio assistito del Pd ha fatto tappa in Sicilia. Ispirandosi al Dottor Morte (Jack Kevorkian), il primario Matteo Renzi ha sequestrato il corpo del malato e lo dissangua senza pietà. Lo circondano premurosi assistenti-complici pronti a tutto, ma anche parenti in gramaglie che oggi biasimano l’assassino e domani gli votano la fiducia. A star dietro a tali balletti si rischia di non cogliere la radicale metamorfosi del Pd: da gioiosa macchina da guerra del 40% dopo le elezioni europee del 2014 a ipotetico ago della bilancia nel 2018, vaso di coccio fra i vasi di ferro dei due partiti maggiori, M5S e le destre. E quanto al Dottor Morte nostrano: da premier a candidato premier, e infine a ipotetico ministro di Qualcosa in un governo con le destre.
Non si ripeterà mai abbastanza che l’errore di prospettiva di quel 40,81% alle Europee, che valeva la metà perché solo il 50,58 % dell’elettorato aveva votato, non fu solo di Renzi, ma di chiunque chiuse allora gli occhi per non vedere e la bocca per non parlare. Ma tutta la strategia del Pd da allora al referendum del 4 dicembre 2016 fu ispirata da quell’equivoco: il miraggio di un inesistente 40% e la verità taciuta di un elettorato ridotto alla metà, e dunque più facile da manipolare. Questa fu la ratio dei volgari trucchi della legge elettorale detta Italicum, bocciata dalla Consulta senza aver funzionato nemmeno un giorno; questa, con travestimenti furbeschi e traguardando su possibili coalizioni, la ratio della nuova legge elettorale, che puzza di incostituzionalità prima di esser messa alla prova delle urne. L’enorme massa degli italiani che non votano è di fatto il cuore nascosto della politica e di ogni scommessa sulla democrazia di questo Paese. In Sicilia non ha votato il 53% degli elettori: lo stesso astensionismo delle regionali in Basilicata nel 2013. Per non dire dell’Emilia-Romagna, dove alle regionali 2014 non andò alle urne il 63% degli elettori. Cifre come queste tolgono credibilità agli eletti e segnalano una radicale sfiducia nella politica, virus temibile che delegittima le istituzioni.
Eppure si parla poco di astensionismo, e intanto quasi tutti aspirano confusamente a farne un instrumentum regni. In due modi diversi, anzi opposti: secondo la ricetta Renzi (favorire l’astensionismo, concentrando gli sforzi propagandistici su chi si ostina a votare); o secondo la formula magica “del 4 dicembre” (recuperare al voto chi votò al referendum). Questo sortilegio, che accomuna il M5S e pezzi importanti di sinistra alternativa, in Sicilia è fallito: la percentuale degli astenuti è infatti identica a quella del 2012. Chiamare alle urne chi vi andò il 4 dicembre è un bello slogan, ma da solo non funziona. Non solo perché, come sanno tutti, vi fu sul referendum un’impropria alleanza tra forze politiche e idee assai disomogenee (da Brunetta a Zagrebelsky), ma per un motivo molto più importante.
Se il 4 dicembre l’astensionismo si fermò al 34%, è perché milioni di cittadini capirono che quella riscrittura della Costituzione metteva a rischio i loro diritti, limitava la democrazia, favoriva uno sgangherato autoritarismo. In vista delle Politiche che ci aspettano dietro l’angolo, se non vogliamo rassegnarci a un’Italia dove meno del 50% dei cittadini è disposto ad andare alle urne, la scelta è una sola. Approntare, dichiarare, sbandierare programmi di governo fondati sui diritti costituzionali dei cittadini: dimostrarne la fattibilità giuridica, politica, economica. Ricordare ai cittadini quali sono i diritti che rischiano di essere, anche se non cancellati da una riforma costituzionale, calpestati di fatto perché dimenticati o seppelliti sotto valanghe di leggi e leggine. Proporre un orizzonte, un traguardo: non un astratto storytelling dell’Italia-che-non c’è, ma il profilo dell’Italia che (secondo la Costituzione) deve esserci; e di come arrivarci.
Dalle profondità del coma indotto e governato dal Dottor Morte all’italiana, è improbabile che il Pd trovi il bandolo di questa matassa, anche perché intento ad auto-intrappolarsi nel gioco delle correnti interne. Ma le forze alla sua sinistra non saranno afflitte da una simile malattia senile, e non si condanneranno a un analogo, sterile correntismo? E saprà mai indicare credibili progetti di governo il M5S, se non ha saputo affrontare adeguatamente il tema della democrazia interna?
Pensiamo all’Italia che generò quella Costituzione che abbiamo saputo difendere col voto. Quella Carta non nacque da accordi di vertice fra i partiti ma da un vasto consenso nel Paese. Fuori dell’Assemblea Costituente vi furono, allora, i “Costituenti-ombra”: cittadini che contribuirono a delineare un orizzonte di diritti e un traguardo di assetti di governo, dettando di fatto gli indirizzi che oggi troviamo scolpiti nella Carta. Contro lo scandalo di un dibattito politico che si svolge sulle procedure, sulle modalità, sulle alleanze, sulle liste elettorali, sulla difesa dei privilegi, e non sulla sostanza dei problemi, non sulla vita degli italiani e sul futuro della Repubblica, chi saprà scagliare la prima pietra?

il Fatto Quotidiano,

“Le elezioni siciliane dimostrano che il centrosinistra è un luogo politico che non esiste più. E che ora serve coraggio”. Anna Falcone (con Tomaso Montanari) è l’anima della “sinistra civica” nata dall’assemblea del teatro Brancaccio di Roma, il 18 giugno. “Con il risultato di Fava – aggiunge – la sinistra torna nell’assemblea regionale siciliana dopo tanti anni di assenza. Ma abbiamo obiettivi più ambiziosi. Bisogna riportare la gente a votare. Dobbiamo lavorare sul coinvolgimento di una base larga e popolare”.
Hanno votato in pochissimi, ma la destra mobilita il suo elettorato (anche a Ostia), la sinistra no. Perché?
Veniamo da 25 anni di governo della destra. In prima persona o diversamente interpretata dalle politiche renziane, ispirate alla cosiddetta ‘Terza via’. La destra ha convinto i suoi elettori che esistono soluzioni semplici alla crisi, anche se le sue politiche non hanno fatto altro che aggravarla. L’elettore di destra si accontenta, quello di sinistra aspetta una proposta coraggiosa, e resta a casa.
La proposta più coraggiosa sarà la lista unica con Mdp e gli altri partiti di sinistra di cui si parla da mesi?
Il nostro appello, da giugno, è far nascere una lista unica a sinistra che tenga insieme le parti migliori della politica e della società civile. Non c’è alternativa al coraggio. Come quello che in Spagna ha portato alla partecipazione civica di Podemos o in Inghilterra, con Corbyn, ha permesso la rinascita di un partito che rappresenta il mondo del lavoro e un modello di sviluppo alternativo alle politiche mercantilistiche che hanno umiliato i diritti delle persone. Su questi temi – lavoro, scuola, sanità, ricerca, ambiente – le convergenze si trovano. Ma chiediamo l’applicazione di un metodo democratico, che vale anche per le candidature.
Vale anche per Pietro Grasso? Sul suo nome sembrano d’accordo tutti, da Bersani fino a Vendola.
È una figura che si è guadagnata, per la sua storia personale, assoluta stima e credibilità. Ha un sincero radicamento nei principi democratici e costituzionali di questo paese. Non conosco le sue determinazioni , ma sono convinta che anche lui chiederebbe a sua garanzia una legittimazione democratica di una sua eventuale leadership.
Ovvero le primarie?
Dobbiamo discutere anche del metodo. È evidente che le primarie aperte, o chiamare a votare chiunque passi per strada, non sarebbero il massimo della trasparenza. Ma chi partecipa a questo percorso deve poter esprimere il suo voto sul programma, le candidature e la leadership.
Si parla anche di un ticket Grasso-Falcone.
Non sono interessata. I leader vengono dopo e dovranno essere legittimati dal basso. Io e Montanari siamo garanti, non abbiamo intenzione di proporci. E poi mi creda: i tatticismi e le lotte per la leadership non appassionano nessuno. Alle persone interessa sapere dove si va e quanto si è credibili.
Ha ragione, ma il tempo stringe e dovrete pur scegliere una formula.
Stiamo lavorando a un testo condiviso, che uscirà a brevissimo, per iniziare un percorso comune e aperto a tutte le forze civiche e della sinistra. Qualsiasi documento, per quanto ci riguarda, sarà sottoposto alla nostra prossima assemblea, il 18 novembre.
Avete paura che la lista unitaria sia un’operazione di apparati politici, che finisca con un altro 5%.
Nessuna paura. La sinistra non deve avere paura dei cittadini, né di mettersi in gioco su un grande programma di superamento delle diseguaglianze e delle enormi ingiustizie di questo paese. Pensi alla forza politica che potrebbe avere, anche rispetto all’Europa, una sinistra che mette la Costituzione alla base del suo programma.

Pressenza, . «Siamo sempre in tempo a tornare al dialogo. Succeda quel che succeda, non smetteremo di chiederlo. Ma ora ci tocca difendere le istituzioni catalane, lottare per preservare la coesione sociale e il benessere di Barcellona e della Catalogna». (m.p.r.)

A furia di parlare di scontro tra treni al condizionale ci siamo arrivati, si fa fatica a pensare che sia successo oggi. Un decennio di negligenze del Partito Popolare nei confronti della Catalogna culmina oggi con l’approvazione in Senato dell’articolo 155. Rajoy lo ha presentato in mezzo agli applausi dei suoi, facendo vegognare tutti coloro, come noi, che rispettano la dignità e la democrazia. Applaudivano il loro fallimento? Coloro che sono stati incapaci di proporre qualunque soluzione, incapaci di ascoltare e di governare per tutti, consumano oggi il colpo di stato alla democrazia con l’annichilamento dell’autogoverno catalano.

Sulla stessa rotaia ma in direzione contraria c’è un treno più piccolo, quello dei partiti indipendentisti, a tutta velocità, con piglio kamikaze, dietro una lettura sbagliata delle elezioni del 27 Settembre. Una velocità imposta da interessi partitici, in una fuga in avanti che si consuma oggi con una Dichiarazione d’Indipendenza fatta in nome dell Catalogna, ma che non ha l’appoggio della maggioranza dei catalani.

Non ci stancheremo di ripeterlo: è un errore rinunciare all’80% a favore di un referendum concordato prendendosi un 48% a favore dell’indipendenza. Molti, moltissimi, sono anni che mettiamo in guardia sul pericolo e, nelle ultime settimane, che lavoriamo pubblicamente e privatamente per evitare questo scontro. Siamo la maggioranza, in Catalogna e in Spagna, noi che vogliamo che le macchine si fermino, che si imponga il dialogo, il buon senso e una soluzione concordata.

Siamo sempre in tempo a tornare al dialogo. Succeda quel che succeda, non smetteremo di chiederlo. Ma ora ci tocca difendere le istituzioni catalane, lottare per preservare la coesione sociale e il benessere di Barcellona e della Catalogna. Staremo con la gente, lottando affinché non si tocchino i loro diritti. Curando le ferite che tutto questo sta causando e chiedendo alla gente del resto dello stato di lottare uniti perché questa democrazia è anche la loro. Nemmeno smetteremo di chiedere al Partito Socialista che cessi di appoggiare coloro che oggi applaudono; se no sarà impossibile che siano parte di un’alternativa credibile e che dia speranza.

Ho chiaro dove starò: coinvolta nella costruzione di nuovi scenari di autogoverno che ci diano più democrazia, non certo meno. Questo comprende cacciare il Partito Popolare che oggi, con i suoi applausi crudeli, fa festa del dolore di tutto un popolo. Ma anche, e sopratutto, lavorare per rendere femminile la politica, per ottenere che l’empatia sia una pratica abituale che permetta di costruire grandi consensi in cui la nostra diversità sia il nostro maggior tesoro.

Non in mio nome: né 155 né dichiarazione d'Indipendenza.

il Fatto Quotidiano,

“Addio cara Fiorenza, cara amica ausiliaria della Rsi, sempre gentile, quando di passaggio a Verona ci si vedeva per un caffè alla Bauli, negli ultimi anni infaticabile guida a Villa Carpena dove mi aveva fatto incontrare Romano Mussolini… Abbruniamo i labari!”. E ancora: “Sono stato onorato di averti conosciuta. Adesso andrai la dove c’è il nostro Dux! A Noi sorella!”.
Repubblica sociale e nostalgia. Il Duce, il fascio, il ricordo della Fiorenza Ferrini, morta nella casa di Mussolini, solo pochi mesi fa. Via così, dunque. Si ricomincia. Altro tema: il nemico. I partigiani, la sinistra. Niente corone sulle tombe repubblichine. Una miccia per l’odio e per la revisione storica distorta: “Propongo di andare sulle tombe dei partigiani pluripregiudicati per omicidio dopo la guerra e affiggere un foglio con scritto i delitti commessi”. Rilancia tale Nino Cacciottoli: “Bastardi senza patria e onore che andavano ancora a uccidere anni dopo la guerra. Odiano con un odio che dura 70 anni”. La foto di una donna presa per i capelli biondi, stretto il volto tra le mani dei partigiani. Memoria parziale. Di nuovo fiato alla tromba dell’odio. Scrive Franco Dradi: “La faccia dei partigiani dice tutto di loro. La nostra cosiddetta Repubblica è fondata sul sangue di innocenti e ragazzi d’onore che questa immondizia ha vigliaccamente versato. Se esiste un inferno, è lì che finiranno assieme alla loro genia malata”.
Nostalgia e attualità. Anna Frank, la figurina all’Olimpico, la maglia giallorossa della Roma. Attacco antisemita. Indignazione ovunque. Giusta, condivisa. “Laziale e fascista” tira dritto e scrive: “Quasi quasi ci scappa la lacrimuccia? Che dite? Ma indignati di cosa? E di cosa ci si deve scusare. Ma la facessero finita. Rassegnatevi”.
Da sociale a social. È il fascismo che dilaga in Rete. Facebook è la chiave, la piattaforma ideale per fare proseliti, ricordare, proporre, tentare di agganciare. Pagine nere dentro una risacca che monta come uno tsunami. Che aumentano di mese in mese. Sessanta, settanta alla volta. Qualcuno si è messo a contarle, analizzarle, catalogarle. Ne è uscito un quadro inedito, mai visto. Merito di Giovanni Baldini e del suo staff. Del sito Patria Indipendente e dell’Anpi. “Abbiamo censito oltre 3.000 pagine – spiega Baldini –, contiamo, entro dicembre, quando chiuderemo la ricerca, di superare le 4.300”. Dati e informazioni finiscono in un maxi-grafico. In realtà una grande nebulosa navigabile, dove le pagine Facebook stanno collegate le une con le altre. Non tutte e così si formano altre piccole nebulose. Ogni cerchio un link. Ogni colore una categoria: dai nostalgici agli identitari, dai gruppi Rac (Rock Against Comunism) a Lealtà e Azione, dal Movimento Patria Nostra fino alla galassia dell’associazionismo dove i temi sociali sono solo il paravento per portare avanti la propaganda neo-fascista.
Più il cerchio è grande, più appare autorevole. Il metro di misura sono soprattutto i like in entrata alla pagina. Le pagine che “si piacciano” sono collegate da una linea. Va da sé che Casapound e Forza Nuova attraggano il maggior numero di consensi. “L’idea – prosegue Baldini – è stata quella di andare alla ricerca di coloro che dopo la svolta di Fiuggi del 1995 non hanno seguito Alleanza Nazionale”. L’Msi scompare. Chi resta? Dove va? Con chi? La galassia neofascista così si polverizza in tante piccole monadi. Spesso in lotta tra loro. Mai unite, il più delle volte divise. Perché, si sa, a tutti piace fare il Duce a nessuno il gregario. E così si scopre che tutto il Blocco studentesco (declinato per città) sta nella sfera di Casapound. E un dato emerge netto. Lo spiega sempre Baldini: “Casapound sta progressivamente cannibalizzando Forza Nuova e si prepara, a tutti gli effetti, a raccogliere il testimone lasciato dall’Msi nel 1995”.

E così l’appello parte dalla pagina “Boia chi molla”. “L’Italia – si legge – ha bisogno di noi. Uniamoci e risolviamo la situazione”. E dunque ecco l’attualità declinata alla maniera neo-fascista. Dallo Ius Soli all’immigrazione alla nuova legge di Emanuele Fiano (il ddl sulla propaganda fascista), lui figlio di Nedo che ad Auschwitz ci passò, perse la famiglia, e riuscì a sopravvivere. Tema questo dibattuto su molte pagine. Fiano “il talebano”. Giuseppe Noce dalla pagina “Benito Mussolini” avverte il politico del Pd: “La guerra è finita caro Fiano, non ricordare sempre le stesse cose anzi bisogna togliere i campi di concentramento che li avete lasciati per ricordare l’Olocausto basta. Le cose brutte vanno tolte sono baracche che fanno male invece ne avete fatto dei luoghi di pellegrinaggio”. Mario e Patrizia Curatolo rilanciano: “Figlio de na… anche se cerchi di cancellare qualsiasi scritta o scultura appartenenti al fascio ricordati che saranno indelebili nel cuore di ognuno di noi appartenente al fascio viva il Duce”.

La tematica gender è un altro filo comune. La famiglia è quella tradizionale. Una pagina dedicata a Evita Peron posta volantini “l’unica famiglia è quella naturale”. Associazionismo si diceva. Temi buoni come l’ecologia. Come “La foresta che avanza” che, però, spende tempo e risorse per chiedere di ripristinare la scritta Dux sul Monte Giano, cancellata da un incendio dell’agosto scorso. Mentre Den, ovvero “Destra estrema nazionale”, non spreca parola, ma posta immagini di pistole infilate nei pantaloni per sostenere la legittima difesa. Per Augusto Bunker il motto è: “Saluto romano orgoglio cristiano”.
Il gruppo rock Hobbit si occupa di Ius Soli e davanti alla presidente della Camera Laura Boldrini che sostiene lo sciopero della fame pur di far passare la legge, risponde con un appello: “Proponiamo ai nostri seguaci di inviarci la descrizione dei piatti tipici della vostra città in nome della nostra sacra identità”. Che poi il gruppo Hobbit, tra rock e politica, fa anche del gran merchandising. Magliette e scritte “Ardite schiere, bandiere nere”. Identitari si diceva, contro lo Ius Soli, andare a pensare il contrario sarebbe sciocco. Ecco allora “Niemals”, emporio legionario. Felpe in vendita e un messaggio chiaro. “Questo è uno strumento di autofinanziamento militante per testimoniare la nostra visione del mondo. Lealtà, coraggio, onore: questa la sfida”.
La pagina “Progetto enclave” vuole che l’Europa si svegli. “Europe awake: nella Vandea o nella trincea delle Ardenne, a Salò oppure a Berlino in fiamme. Da Derry a Belfast risorge l’aurora, dal piombo degli anni Settanta risorge l’Europa”. Identità e passato. Volti criminali abbigliati da eroi. Erich Priebke “e il suo abominio giudiziario”. La vera storia promette la pagina “Virtute e Canoscenza”, “non perdetevi l’occasione di conoscere il Capitano!”. Ettore Muti, morto nel 1943 (sepolto al Campo X del Cimitero Maggiore di Milano assieme ad altri 921 repubblichini) nel cui nome nacque la Legione Muti, che torturò tanti innocenti in via Rovello. “Onore a Ettore Muti – si legge su Rdvis – il suo coraggio e la sua vita ci siano quotidianamente di esempio”. E poi Achille Starace, segretario del Partito nazionale fascista “grande figura d’italiano, un vero eroe”.
Ma c’è altro, oltre al visibile. Un doppio livello, l’inganno, il paravento dell’anti-politica, del populismo declinato al degrado. Il bersaglio è l’immigrato. Di questo si occupa un ricerca parallela, sempre giocata su Facebook e portata avanti dall’Osservatorio democratico sulle nuove destre diretto da Saverio Ferrari. Tutto si alimenta di fake news e numeri sugli sbarchi fuori da ogni logica. Una delle pagine più seguite è “Dimissioni e tutti a casa”. L’immigrato viene chiamato, ironicamente, “risorsa”. Si legge: “Nuova risorsa tenta di rubare un bus e manda all’ospedale un carabiniere e quattro guardie giurate”. Stessa pagina, qui Iolanda Ciasca si rivolge direttamente all’assessore milanese Pierfrancesco Majorino: “Noi italiani vorremmo che vi accadesse qualche cosa di una di quelle che succede a noi comuni mortali senza scorta. Gli stranieri scopriranno il vero motivo per il quale li accogliete: per i soldi!”. E ancora: “Nessuno può fermare la migrazione della fauna. Ve lo volete mettere in testa voi cacciatori? Libertà per la beccaccia africana”. Stessi motivi di razzismo in altre pagine come “Piove governo ladro” o in “Militanza fascista 2” che se la prende con don Biancalani, il prete di Vicofaro (Pistoia) diventato famoso per aver portato un gruppo di migranti in piscina e attaccato da Forza Nuova. Scrive tal Bruna: “Stronzo aiuta gli italiani, anzi vai in Africa, lì ti mettono a 90 gradi”.

Territorio e identità deviata. “Difendi la tua città”, le cosiddette pagine del “gentismo”. “Sei di Pavia”, ad esempio. “L’odio non potrà mai scalfire la purezza del nostro amore”. Citando il testo del gruppo Rac Ddt: “Basta una canzone, basta un bottiglia. Quante braccia tese, è la tua famiglia”. Nelle ricerca di Giovanni Baldini le pagine dei gruppi musicali sono circa 122. Soli neri e simboli nazisti, white power, odio e aryan rock. Come quello dei veneti Katastrof che inneggiano a Priebke: “Tu sei rimasto fedele all’ideale supremo. Sarai sempre esempio per la bianca gioventù!”. Di tutto e di più nella nebulosa dei neo-fascisti italiani. Legati dalla nostalgia, nascosti dentro l’odio populista per il diverso.

Una marea nera che non arretra. Ma resta divisa al suo interno. Ultimo esempio, la marcetta ridicola del 28 ottobre. Annunciata da Forza Nuova e da Roberto Fiore poi ritirata. Cosa che non è piaciuta a Maurizio Boccacci, ex Fuan ed ex Avanguardia Nazionale che in una lettera scrive: “Caro Fiore chi vuol combattere veramente il sistema non mendica benevolenza ma scende in strada e lo combatte così è sempre stato! Le lotte fatte nelle borgate sono state fatte senza alcun permesso, certo pagando, ma infiammando quel popolo che ci vedeva marciare e lottare”. Insomma, se da un lato Facebook fotografa un preoccupante magma nero in aumento che si alimenta di fake news e antisemitismo a buon mercato, fissando anche nuove direzioni, dall’altro la realtà della politica riconduce il neo-fascismo italiano a semplici schiamazzi tra pochi.

il manifesto Corriere della Sera 28 ottobre 2017. Articoli di Giuseppe Grosso e Paolo Lepri. (m.p.r.)


il manifesto
L’AZZARDO DELL'INDIPENDENZA.
SCATTA IL COMMISSARIAMENTO

di Giuseppe Grosso

Catalogna. Il Parlament dichiara la República catalana: 70 Sì, 10 No, 2 voti in bianco e 53 deputati assenti su 135. E a Madrid il senato mette in moto l’articolo 155. Rajoy destituisce Puigdemont e il suo governo e convoca elezioni regionali il 21 dicembre.

Carme Forcadell, la presidente del Parlament catalano, conta i voti. Dietro di lei, la senyera quasi si intreccia con la bandiera spagnola, in un’immagine che è la definizione visiva del concetto di «paradosso». Sgrana i «sì», settanta, con la compunzione di una sacerdotessa. Ogni tanto, qualche «no»: uno, due, dieci in totale; e due schede bianche. Basta e avanza per dichiarare, alle 15,27, la Repubblica catalana. Con i parlamentari costituzionalisti usciti dall’aula per protesta, i repubblicani si alzano in piedi e intonano l’inno della nascente Catalogna indipendente.

Hanno vinto: dopo un tira e molla logorante, che ha monopolizzato il dibattito politico (non esiste più corruzione, della disoccupazione non si parla più, la crisi non si sa dov’è finita) e sfibrato la società catalana e del resto di Spagna, gli indipendentisti hanno presentato al mondo la loro creatura. O forse hanno perso, perché, dopotutto, lo scontro frontale consegna agli annali Puigdemont e compagni, ma condanna la causa nazionalista alla reazione repressiva di Madrid e quindi al fallimento. Rajoy, a pochi minuti dal voto del parlament, lo ha ribadito via Twitter: «Lo stato di diritto ripristinerà la legalità».

Insomma, se fino all’altro ieri esisteva uno spiraglio per il dialogo – tanto invocato da ogni parte e così poco praticato – il salto mortale di Puigdemont, lo chiude irrimediabilmente. E allora forse non ha vinto nessuno, tranne l’egoismo e l’infantilismo politico che hanno dimostrato sia Barcellona che Madrid, entrambi, fin dall’inizio della crisi, ottusamente determinati ad arrivare alla resa dei conti. I generali indipendentisti tutto questo lo sanno bene. Sanno che ieri hanno portato a casa la più classica delle vittorie di Pirro e perciò, subito dopo il voto (segreto, su richiesta di Junts pel Sì), hanno mostrato alle telecamere dei volti tiratissimi. Come, del resto, quelli del gruppo di Catalunya si que es pot (la costola catalana di Podemos), spaccati al loro interno tra favorevoli e contrari (questi ultimi allineati alla posizione ufficiale del partito). «Il risultato elettorale dà Puigdemont e al suo esecutivo il diritto di governare, non quello di dichiarare l’indipendenza», ha commentato Pablo Iglesias, che però ha manifestato il suo dissenso nei confronti della reazione di Rajoy.

Musi lunghi anche per i socialisti, che hanno pronunciato un discorso durissimo nel parlamento catalano, e ovviamente per Pp e Ciudadanos, la sigla più visibile del fronte unionista in Catalogna. Sorridevano solo quelli di Erc e della Cup, che è riuscita a imporre a tutto il blocco repubblicano la sua linea dura e a mantenere tutte le promesse fatte al suo elettorato; e, insieme a loro, tutto il popolo secessionista, sceso in piazza in massa fin dalle prime ore del pomeriggio per celebrare l’ebbrezza effimera di sentirsi liberi da una Madrid, ieri più che mai, lontana e straniera. Al punto che a Girona, roccaforte indipendentista, la bandiera spagnola è stata rimossa dal palazzo municipale, rimasto vestito solo della senyera, ondeggiante contro il cielo della neonata Repubblica catalana.

Al rumore festoso della piazza, faceva però da contrappunto la solennità dell’emiciclo del Senato, dove si preparava il castigo alla hybris catalana. Con 214 voti a favore e 47 contrari, veniva approvata l’applicazione, per la prima volta dal varo della Carta costituzionale, del famigerato articolo 155, appoggiato anche dal Psoe, che ha votato per la linea dura insieme a Pp, Ciudadanos e Coalición Canarias. I «no» sono arrivati dalle bancate di Unidos Podemos, Erc, Partido Nacionalista Vasco e PDeCAT.

Affilati i coltelli in Senato, Rajoy ha convocato per le 7 un consiglio dei ministri straordinario con l’obiettivo di rendere immediatamente operative le misure previste dal 155. Nel mirino, ovviamente, Puigdemont e il suo governo; il paese resta con il fiato sospeso in attesa di sapere l’intensità della risposta di Madrid. Rajoy ricompare verso le 20,20, e spara dritto alla testa dell’indipendentismo, mentre in Catalogna, impazzano i balli e i canti: Puigdemont esautorato, il suo governo rimosso, e il capo della polizia catalana destituito. E – a sorpresa – annuncia già la data delle prossime elezioni regionali: il 21 di dicembre. Ma è solo l’inizio: il 155, verrà applicato «progressivamente e proporzionalmente alle circostanze», come accordato con il Psoe. Ed è molto probabile che a questi primi provvedimenti segua il commissariamento totale dei Mossos d’Esquadra (fondamentale nella strategia del governo di restaurazione dello status quo) e la limitazione dell’autonomia dei mezzi di comunicazione pubblici catalani. «La normalità si costruisce sulla legge; dobbiamo restituire la voce a tutti i catalani». E ricomporre una frattura sociale che impiegherà anni a saldarsi.


LA VIA DEL DIALOGO
MA SI PUÒ ANCORA RICOSTRUIRE
di Paolo Lepri

Non basterà un tweet per riportare serenità in un Paese lacerato, non basteranno quei novantasei caratteri che il presidente del governo Mariano Rajoy ha scritto circa tre minuti dopo la dichiarazione d’indipendenza approvata dal Parlament di Barcelona mentre la folla riunita nel Parc de la Ciutadella continuava ancora a lanciare boati di gioia. «Chiedo tranquillità a tutti gli spagnoli. Lo Stato di Diritto ripristinerà la legalità in Catalogna». In questo momento difficile, purtroppo, la tranquillità promessa dal primo ministro sembra essere infatti soltanto una improbabile utopia.

Ma questa utopia «minore», questo desiderio di ritorno alla normalità, è forse quello che chiede la maggioranza dei cittadini. Non solo quelli che hanno in queste ultime settimane esposto le bandiere della loro «casa comune» — una casa in cui le autonomie sono sempre state una realtà indiscussa — alle finestre di Madrid e di altre città lontane dalla ribellione. Anche quelli che non hanno parlato, i tanti che non hanno votato nel referendum per l’indipendenza di questa comunità autonoma riconosciuta già come «nazione».

Si poteva evitare tutto quello che sta accadendo? La politica non si può leggere con il filtro delle emozioni. Ma l’essenza stessa delle autonomie spagnole e la trama dello Stato democratico costruito dopo gli anni oscuri del franchismo sono molto lontane, concettualmente, dall’avventurismo della rottura.

La leadership catalana ha invece voluto ignorare, in questi mesi di crisi, che non esiste nell’Europa di oggi un nazionalismo «positivo» e che la rivendicazione delle diversità può passare soltanto attraverso la difesa dei principi costituzionali, del rispetto degli assetti pacifici, dell’unità contro la disgregazione. È un errore imperdonabile. Non è un caso che la dichiarazione di indipendenza unilaterale sia stata giudicata «illegale» perfino dal leader di Podemos Pablo Iglesias, nonostante la posizione ambigua che il suo movimento-partito ha avuto durante tutto questo snervante braccio di ferro.

La storia di questi ultimi decenni - una storia che tanto Rajoy quanto Carles Puigdemont hanno deciso di dimenticare - insegna che si può negoziare su tutto e che si deve negoziare anche con quelli che possono essere ritenuti i nemici. Chi non lo ha fatto ha sbagliato. È forse inutile dire che il governo di Madrid, nato debole, anzi debolissimo, dopo il risultato interlocutorio di due appuntamenti elettorali, ha maggiori responsabilità iniziali dei suoi avversari. Le passeggiate del presidente del governo nel giardino della Moncloa con il suo cane Rico avrebbero potuto produrre qualche riflessione in più. E l’inspiegabile repressione nelle strade di una Barcellona pacifica ha confuso, come spesso accade, la bilancia dei torti e della ragioni.

È stato detto che le istituzioni europee hanno assistito alla crisi dal palco bruxellese degli spettatori, preoccupandosi solo di solidarizzare con il governo di Madrid per evitare guai maggiori. Certo, è vero che l’Unione non avrebbe potuto fare molto di più, anche se avesse voluto, senza creare precedenti pericolosi, senza allontanarsi dal proprio mandato. Ma situazioni eccezionali richiedono sforzi di intelligenza eccezionali. Se la rivoluzione del 1989, per esempio, fosse stata affrontata con meno coraggio e fantasia, una svolta epocale come l’unificazione tedesca non si sarebbe concretizzata così rapidamente. Dispiace vedere il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk dichiarare ieri sera che «non è cambiato niente». No, è cambiato tutto. Si tratta ora di ricostruire, non più di tenere insieme. A Madrid e Barcellona si deve fare un passo indietro, l’Ue deve farne molti altri in avanti. Anche fuori dai sentieri tracciati.

il Fatto quotidiano

“Io non mi riconosco più nel Pd”. Nel partito che accoglie in maggioranza il plurinquisito Denis Verdini e disegna alleanze coi centristi Giuseppe Castiglione e Angelino Alfano, Pietro Grasso non ci vuole stare. È il pomeriggio di ieri quando il presidente del Senato, appena finita la sua gestione dell’iter del Rosatellum, comunica l’uscita dal gruppo dei democratici e il suo passaggio al Misto. Restano orfani della seconda carica dello Stato, insomma, i senatori guidati da Luigi Zanda, pidino di rito democristiano che, in questi ultimi giorni, ha evitato accuratamente di citare nei suoi discorsi l’ex magistrato Grasso. A conferma che la separazione era in gestazione ormai da tempo: “La misura è colma, politicamente e umanamente. Non mi riconosco più nel merito e nel metodo di questo Pd, in comportamenti che imbarazzano le istituzioni e ne minano la credibilità e l’indipendenza. Non mi riconosco nemmeno nelle sue prospettive future”. Ci ha riflettuto una notte, dopo la baraonda in aula. Al 5Stelle Vito Crimi, che invocava le sue dimissioni, aveva replicato rassegnato: “A volte è più difficile restare che andare”. Poi ha capito che col Rosatellum si è valicato un limite di decenza politica e fingere ancora sarebbe stato ipocrita: “È una scelta sofferta, ma è l’unica che certifichi la distanza, umana e politica, da una deriva che non condivido”.

Quando Grasso, ricevendo le firme contro il Rosatellum dai professori che guidarono il Comitato del No al referendum, auspicò la riapertura della discussione sulla legge senza la forzatura del voto di fiducia e senza umiliare Palazzo Madama, dal Nazareno hanno reagito con gli insulti. Secondo il presidente del Senato, peraltro, il nuovo sistema elettorale allontana ancora di più gli eletti dagli elettori, riproponendo lo strumento dei nominati che fa tanto comodo ai segretari di partito. Si poteva almeno, ad esempio, dare l’opportunità ai cittadini di esprimere due voti disgiunti per lasciare libertà di scelta sul candidato del collegio e sulle liste in corsa. Il solo auspicio ha irritato Zanda&C. E le ragioni sono antiche. Il rapporto tra il Pd di Matteo Renzi – per l’ex magistrato ben diverso da quello che in epoca Pier Luigi Bersani lo trascinò in politica – e il numero 1 di Palazzo Madama si è frantumato durante la lunga fase che va dalla riforma costituzionale al referendum di dicembre. Ogni obiezione di Grasso – come quella sulla ricerca del “plebiscito” – è stata trattata come un oltraggio e dunque meritevole di una reazione velenosa.

Non proprio accorata, a dire la distanza tra i due mondi, la reazione di Zanda: “Mi ha comunicato per telefono la decisione di dimettersi dal gruppo poco prima di renderla nota. Per quanto mi ha detto si è dimesso principalmente perché non condivide la linea politica del partito e, in particolare, le decisioni sulla legge elettorale. Mi ha detto che, non fosse stato presidente del Senato e avesse dovuto votare, non avrebbe votato né la legge, né la fiducia sugli articoli”. La signorilità e il senso delle istituzioni dei vertici dem sono stati poi esemplificati da un tweet di Salvatore Margiotta, della Direzione Pd: “Fosse vero, Grasso dovrebbe dimettersi anche da presidente del Senato”. Per una volta sono i renziani i più tranquilli: il vicesegretario Maurizio Martina è “addolorato”; Matteo Orfini addirittura rispetta la scelta (“ovviamente non trascineremo la seconda carica dello Stato nello scontro politico”).

L’ex magistrato nelle prossime settimane dovrà far sapere se continuerà a fare politica, in che modo, dove, se da candidato in prima fila o da riserva della Repubblica. Per adesso, Grasso scarta un’ipotesi: presentarsi di nuovo agli elettori col Pd, il partito di Renzi che già mostra le intenzioni di una campagna populista. “Quando mi sono candidato nel Pd – dice – riconoscevo principi, valori e metodi condivisi, che si sono andati disperdendo nel corso degli anni”.

Anche il blocco rosso del Nazareno si è disperso. Pier Luigi Bersani ha fondato Articolo1-Mdp. Alla festa di Napoli degli “scissionisti”, Grasso aveva ricevuto ovazioni e aveva ricambiato: “Mi sento un ragazzo di sinistra”. A un mese dal quel giorno, il presidente del Senato deve capire la sinistra che Mdp può e vuole rappresentare: “Per il futuro vedremo, non è oggi la giornata giusta per pensarci”. Ovviamente, dal lato bersaniano, le pressioni per farne il frontman (con connesso saluto a Giuliano Pisapia) della prossima corsa elettorale aumenteranno. Forse un primo segno Grasso potrebbe scorgerlo nella giornata del 6 novembre, quando pian piano le schede cominceranno a uscire dalle urne siciliane: il panorama potrebbe cambiare parecchio, per ora si aspetta e ci si gode la fine degli equivoci.

la Repubblica, 27 ottobre 2017. A partire dai fatti Banca d'Itale e legge elettorale, un'efficace panoramica della squallida situazione nella quale la "politica politicante" ha gettato le isituzioni democratiche.

A METÀ strada tra il Vietnam e i Balcani, la politica lancia nel peggiore dei modi i suoi saldi di fine stagione. La nuova legge elettorale e il caso Banca d’Italia sono due mesti paradigmi di un caos repubblicano che non conosce vincitori ma solo vinti. Due amare allegorie di un processo di “rottamazione istituzionale” destinato a durare, purtroppo, fino alle elezioni del marzo 2018 e oltre.

Il rinnovo del governatore alla Banca d’Italia è frutto di una battaglia dissennata, che lascia sul campo morti e feriti. Mattarella e Gentiloni, titolari per legge del diritto di nomina, resistono all’assedio di Renzi, che ha chiesto in Parlamento la testa di Ignazio Visco. Ma a quale prezzo?

I due presidenti tengono fermo il presidio delle istituzioni, evitando a Via Nazionale un ribaltone che avrebbe potuto avere effetti destabilizzanti. Ma si assumono una grande responsabilità: si fanno “garanti”, di fronte all’opinione pubblica, di un governatore che nei prossimi tre mesi dovrà comunque rispondere dei suoi atti in una commissione parlamentare d’inchiesta già in parte deformata a nido di serpenti. C’è da sperare che i veleni non spurghino, e non finiscano per intossicare anche gli organi di garanzia.
Renzi deve fare un passo indietro: ribadisce che “non condivide”, anche se la rispetta, la scelta del suo “amico Paolo”. Anche qui: a quale prezzo? Per rifarsi la verginità perduta di fronte al Paese, su Banca Etruria e sul “bail in”, il segretario non esita a compiere un “atto sedizioso” alla Camera, avallando una mozione di sfiducia nei confronti di Visco. Per lucrare un pugno di voti ai Cinque Stelle, trasforma la natura del Pd: da “unico argine ai populismi” a “partito che tra il popolo e i Poteri Forti sta dalla parte del popolo”. Troppo comodo, per una “forza di sistema”, andare all’attacco del sistema. Troppo tardi, per un ex premier che ha governato tre anni, si è caricato sulle spalle il peso del conflitto di interessi di Maria Elena Boschi e di papà Pierluigi, ha cambiato i vertici di Mps e ne ha addirittura rinviato il salvataggio per non impattare con il referendum costituzionale. Cos’è ormai questo partito democratico, di piazza e di palazzo, nessuno più sa dirlo.
Visco respinge l’offensiva renziana, difende l’autonomia di Palazzo Koch e ottiene un secondo mandato. Ma di nuovo: a quale prezzo? Non è lesa maestà affermare che qualcosa non ha funzionato, nei controlli sulle crisi bancarie di questi ultimi dieci anni costate quasi 60 miliardi di denaro pubblico. Per quanti chiarimenti Visco potrà ancora dare, il rischio è che un’ombra di sospetto continui a gravare anche in futuro su Via Nazionale, e che al suo vertice si ritrovi per altri sei anni un “governatore mascariato”. O comunque sotto accusa dal partito di maggioranza relativa.
È l’esito più perverso della scomposta campagna renziana, che propone un tema sensato nel modo più sbagliato.
Se si passa alla legge elettorale la conta delle “vittime” è ancora più pesante. Il famigerato “Rosatellum” passa con una raffica di otto fiducie. Già questo, prima ancora di ogni valutazione sul merito della sedicente “riforma”, basterebbe a svilire ulteriormente un Parlamento ridotto a quel che sembra ormai da troppo tempo. Lasciamo perdere la metafora delle “aule sorde e grigie” che approvano a forza il “Fascistellum”, perché con tutta evidenza (e per nostra fortuna) il Ventennio è stato tutt’altra storia. Ma è vero che le Camere sono state ancora una volta trasformate in un banale votificio, e piegate dall’ultimo atto di forza di una partitocrazia debole, a novanta giorni dalla fine della legislatura.
Ancora una volta (com’era già successo per il Titolo V e per il “Porcellum”) prevale l’uso congiunturale delle regole. E ancora una volta perdono tutti, in questo blitzkriegordito in due settimane da quattro partiti in cerca d’autore. Pd, Forza Italia, Lega e Ap si blindano tra loro, con un patto scellerato. Per tagliare fuori i Cinque Stelle, senza rendersi conto dell’eterogenesi dei fini, cioè di avergli regalato un formidabile argomento di propaganda per la campagna elettorale. Per tenersi mani libere, fabbricando coalizioni finte prima del voto e nascondendo “grandi coalizioni” subito dopo. Per assicurarsi un manipolo di fedelissimi, da piazzare nel Parlamento che verrà, all’insegna del motto di Arbore: meno siamo, meglio stiamo.
Dentro al Palazzo perde Gentiloni, costretto suo malgrado a subire una fiducia di cui avrebbe fatto volentieri a meno, come ha denunciato in aula l’emerito Napolitano. Perde Renzi, che per sconfiggere i demoni di Grillo e D’Alema rinnega tutti gli “idoli” che ha venerato (il popolo che sceglie, il vincitore “la sera delle elezioni”, la vocazione maggioritaria del centrosinistra). Perdono Berlusconi e Salvini, ingabbiati in una camicia di forza e accomunati forse da un elettorato, ma non certo da una politica. Perde Alfano, sospeso tra due forni in un limbo in cui finirà per cuocere comunque.
Fuori dal Palazzo perdono i grillini, che inscenano i soliti vaffa e i loro macabri rituali di piazza.
Ma soprattutto perdono gli italiani, che si ritroveranno un Parlamento fatto per due terzi da “nominati” e le pluri-candidature che consentiranno ai “trombati” nei collegi uninominali di riciclarsi nel proporzionale. Ma alla fine, dopo cotanta ricerca, i quattro partiti lo trovano, finalmente, il loro vero “autore”. È Denis Verdini, il padre-padrino di Ala. Con i suoi voti rende possibile questa “guerra lampo” fuori tempo massimo. Con una realpolitik terribile ma incontestabile il senatore condannato e pluri-inquisito celebra in aula il suo “Verdini Pride”, ricordando a tutti quello che non si può più nascondere: “Questa legge non è mia figlia, semmai è mia nipote… Noi nella maggioranza c’eravamo, ci siamo e ci saremo”. Appunto: se la legislatura non fosse agli sgoccioli, Gentiloni dovrebbe salire al Colle, e Mattarella dovrebbe prenderne atto.
Valeva la pena di sacrificare appartenenze e coerenze, per farsi salvare da Verdini? Una domanda che ancora una volta vale soprattutto per il Pd, che mentre beve l’amaro calice del Rosatellum patisce anche l’addio doloroso di Pietro Grasso. Il presidente del Senato che dopo il “colpo di mano” lascia il partito democratico è il segnale inequivoco di una “rottura sentimentale”, prima ancora che politico- istituzionale. Il segretario sacrifica un pezzo di storia e di cultura politica, sull’altare di una brutta legge elettorale che oltre tutto non dà alcuna garanzia di governabilità. Come ha scritto Roberto D’Alimonte, a un partito o a una coalizione, per governare, non basterebbe neanche il 40% nel proporzionale: dovrebbe vincere anche il 70% nel maggioritario, per avere una maggioranza risicata di almeno 317 seggi alla Camera.
Con questi numeri, la prossima legislatura sarà una penosa e pericolosa lotteria. La affrontiamo senza rete, tra opposti populismi e nefasti velleitarismi. Dopo lo strappo sul Rosatellum, non c’è in Parlamento una maggioranza “ufficiale” per approvare la legge di stabilità. Ieri Mario Draghi ha annunciato che da gennaio 2018 la quota di acquisti di titoli del debito sovrano da parte della Bce si ridurrà da 60 a 30 miliardi al mese. Tre giorni fa, mentre Renzi spacciava altri bonus milionari ai 18enni e Berlusconi prometteva pensioni a mille euro per tutti e dentiere gratis per gli anziani, nella serena Germania ancora senza governo un mese dopo le elezioni i dipendenti del ministero delle Finanze salutavano il falco Schaeuble che trasloca al Bundestag con una foto ricordo che dice tutto: Schwarze Null, un gigantesco “zero deficit”. Per i tedeschi, oggi, è una medaglia. Per noi italiani, tra pochi mesi, diventerà una minaccia.

Avvenire,

L’Italia è un caso esemplare delle grandi malattie economiche delle nazioni cosiddette “avanzate” in questi anni. L’Ocse ha dedicato un lungo rapporto a due dei malanni che affliggono, in misura diversa, tutte le economie sviluppate: l’invecchiamento della popolazione e l’aumento delle diseguaglianze economiche. Dato che le differenze nel successo delle persone sono anche il risultato cumulato di diseguaglianze che emergono fin dai primissimi anni di vita, è la tesi dell’Ocse, ogni governo può organizzare un’agenda di politiche che – agendo su istruzione, sanità, mondo del lavoro e redditi – possono prevenire la formazione delle diseguaglianze per i bambini, mitigare gli squilibri economici che si sono già sviluppati negli adulti, gestirli per i più anziani.

È un tipo di lavoro politico che l’Italia dovrebbe affrontare sul serio e molto presto, dato che è già il terzo paese con l’età media più alta del mondo e con un rapporto tra anziani e persone in età lavorativa destinato a salire dall’attuale 38% al 74% nel 2050 si troverà ad avere una situazione demografica da brividi nel giro di trent’anni. Partiamo già da una situazione molto problematica, fa capire l’Ocse nel “focus” dedicato al nostro paese. Negli ultimi tre decenni la situazione economica e lavorativa dei giovani è drasticamente peggiorata: dalla metà degli anni Ottanta, calcola l’Ocse, i redditi dei lavoratori con più di 60 anni sono saliti del 25% di più rispetto a quelli di chi ha meno di 35 anni. Un squilibrio aumentato quindi con un ritmo quasi doppio rispetto a quello già ampio (13%) della media dell’Ocse.

Questi giovani che si sono fatti più poveri vivono anche una maggiore diseguaglianza dei loro redditi rispetto alla generazione dei loro genitori e dei loro nonni. L’Ocse calcola e compara il livello di diseguaglianza nei redditi per persone della stessa età per i nati negli anni Venti, Cinquanta e Ottanta, e per l’Italia vede una variazione quasi nulla per la classe degli attuali 60enni (+0,6%) e molto più decisa (+4,7%) per gli attuali trentenni. «Dal momento che l’ineguaglianza tende a salire durante la vita lavorativa, una più alta diseguaglianza tra i giovani di oggi porterà probabilmente a una più alta diseguaglianza nei pensionati del futuro, soprattutto dato il forte collegamento tra redditi lavorativi e pensioni» avverte l’Ocse, che sottolinea come in Italia a causa della «mancanza di una forte rete di sicurezza sociale» il livello di ineguaglianza della vita lavorativa si confermi integralmente nella vita da pensionati. In media nelle nazioni dell’Ocse, la diseguaglianza si riduce di un terzo con la pensione. Gli studiosi lanciano un avvertimento esplicito: «Assicurare una pensione decente sarà particolarmente difficile per le persone con bassi livelli di educazione, che hanno meno probabilità di lavorare in età avanzata, e per le donne, perché molte di loro lasciano il mercato del lavoro per prendersi cura dei parenti».

La ricetta per superare questi problemi, concludono i ricercatori dell’Ocse, si basa sul miglioramento dell’offerta educativa in età scolare e pre-scolare. Questo tipo di investimento darebbe più chance ai figli delle famiglie più povere e nello stesso tempo aiuterebbe le donne a partecipare alla forza lavorativa del paese. Dopodiché occorrono migliori interventi per gestire il passaggio dalla scuola al lavoro, contrastare la disoccupazione di lungo periodo e offrire possibilità di formazione per gli adulti.

il Fatto Quotidiano,

A cent’anni di distanza, non c’è nulla di più attuale del primo libro dedicato da un grande intellettuale italiano alla disfatta per antonomasia della Grande Guerra: Viva Caporetto, opera prima di Curzio Malaparte, fu scritto tra il 1918 e il ‘19, uscì nel ‘21, e per la sua violenza verbale fu sequestrato e ristampato subito in forma riveduta e con un altro titolo, La rivolta dei Santi maledetti (da cui cito), anch’esso peraltro sequestrato prima nell’Italia liberale del tardo 1921 e poi in quella fascista del ‘23. La tesi di fondo è semplice, anche se discutibile: Caporetto non è stata una vergognosa ritirata, ma anzi il momento culminante di una rivoluzione sociale mossa dal popolo delle trincee, quel popolo misto che un’élite politica e militare cialtrona e corrotta aveva mandato allo sbaraglio, e che con il disobbedire, col sabotare, col denunciare le inutili stragi, l’assurdità degli ordini e l’assenza di strategia, già prima della ribellione operata “gettando lo scudo” nell’ottobre del ‘17, si era esposto a ritorsioni, fucilazioni sommarie, o come minimo alla pesante accusa di disfattismo.
“Dire la verità è fare del disfattismo” pare abbia detto un giorno del ‘17 il generale Di Robilant, comandante della IV armata. La verità era che il sentimento patriottico nel Paese non lievitava, e che col passare dei mesi si approfondiva il solco di incomunicabilità e diffidenza tra le classi dirigenti (molti gli interventisti da salotto, non di rado imboscati; i pacifisti, loro, mantenevano agli occhi di Malaparte almeno una dignitosa coerenza) e le masse dei combattenti, sempre più insofferenti dei “lustri e sdegnosi ufficiali di cavalleria, dei panciuti e pettoruti ufficiali superiori”, di Cadorna “chiuso nella sua lucente armatura di princìpi e di tradizioni, alto nella sua aristocratica fierezza”. “Non amo un generale alto, che sta a gambe larghe, / fiero dei suoi riccioli e ben rasato. / Uno basso ne voglio, con le gambe storte, / ma ben saldo sui piedi, e pieno di coraggio”: forse memore della nota satira del greco Archiloco, il colto Malaparte constata la sostanziale sfiducia di Cadorna nei confronti delle sue truppe (un errore di valutazione e di ethos su cui torna oggi lo storico Marco Mondini nel fresco saggio Il capo, che tiene dietro all’imprescindibile La guerra italiana del 2014, sempre per i tipi del Mulino), e salva solo gli ufficiali di trincea, i “pastori di genti” (omericamente, i “poimènes laòn”) i quali compartivano con le reclute l’insensatezza degli ordini e l’orrore della carneficina. Quegli stessi che, passata la catastrofe, il generale Diaz mise al centro del suo piano di rivitalizzazione di un’armata destinata alla riscossa.
Interventista della prim’ora e precoce volontario in Francia, dove poi nel ‘18 fu gravemente ferito ed ebbe i polmoni corrosi dall’iprite, Malaparte non accusa però solo la “confraternita di unti dal Signore” abituati a lambiccare strategie in una concezione astratta “che risentiva molto delle ville venete, non del fango e del sangue delle trincee”. Il suo disgusto – che è quello degli antichi combattenti per nulla convertiti all’antimilitarismo – si estende al “bosco elegante ed umanitario” delle crocerossine, ai giornalisti superficiali o prezzolati, alla retorica vuota e gratuita in cui si bagna un Paese di ciurmadori e politicanti, il Paese dell’ “armiamoci e partite”. Un Paese che (come aveva ricordato, in altro senso, l’interventista Apollinaire – amico di Malaparte al “Lapin agile” di Montmartre – nell’ode All’Italia del 1915) più degli altri dovrebbe sentire responsabilità dinanzi agli uomini quando il dilemma si pone fra civiltà e barbarie: “L’Italia, dove il diritto è nato, è fra i paesi più incivili del mondo: vi manca assolutamente, cioè, il senso del diritto. Chi si sente cittadino, fra noi? Chi rispetta lo Stato?”.
La realtà della barbarie della Grande Guerra è oggi nota da molti studi; e si guarda ormai più sobriamente alla reale portata della “dissidenza” dei soldati rispetto a tale barbarie e a chi la ordinava. Tuttavia, a cent’anni di distanza, Viva Caporetto è un libro notevole per almeno due ragioni: da un lato esso aiuta a cogliere i primi germi di un sentimento di odio sociale tra il “popolo” e la “casta”, a conoscere dunque quella humus di risentimento e di insoddisfazione che portò molti reduci di ogni colore ad aderire al fascismo – un approdo cui giunse lo stesso “socialista rivoluzionario” Malaparte, per la sorpresa di Gobetti e degli ordinovisti con cui collaborava; e fu un’adesione ricca di ombre e di incomprensioni. D’altra parte, l’opera prima del giovane scrittore toscano colpisce per il coraggio di un’analisi che non aspetta le “bocce ferme” (come farà Emilio Lussu con Un anno sull’altipiano, uscito nel 1938, e a Parigi: ne fu tratto, con palese forzatura antimilitarista, Uomini contro di Francesco Rosi), ma si sobbarca a un’operazione di verità “in presa diretta”, esponendo l’autore ad attacchi e persecuzioni nei primi tempi del Ventennio. Al netto delle sue derive nazionalistiche e irrazionalistiche, e al netto di una diagnosi a tratti volutamente provocatoria, un Malaparte polemico e non ancora surrealista (né passibile della taccia di opportunismo, che spesso l’accompagnerà), pianta il cuneo in quello scollamento fra propaganda e realtà, fra narrazione delle classi dirigenti e vita dei “soldati semplici”, fra retorica e concretezza, che anche in tempo di pace resterà uno dei principali problemi del nostro Paese.

il Fatto Quotidiano,

Nel 2014, per la prima volta, la Consulta ha dichiarato incostituzionale la legge elettorale. In nome del principio della continuità dello Stato la sentenza non ha travolto deputati e senatori eletti l’anno precedente, ma ha comunque sancito espressamente la rottura del rapporto di rappresentanza tra i parlamentari e il corpo elettorale. In poche parole, ha sancito la non rappresentatività del Parlamento attualmente in carica.

Ciononostante, la maggioranza parlamentare non si è fatta scrupolo di abusare dei numeri che l’avevano incostituzionalmente resa tale, riscrivendo a proprio vantaggio le regole del sistema istituzionale. Un tentativo vanificato da un doppio fallimento: la bocciatura referendaria della riforma costituzionale e l’incostituzionalità anche della nuova legge elettorale.

Oggi, incredibilmente, ci risiamo. Ancora una volta una maggioranza parlamentare non rappresentativa degli italiani prova a imporre una legge elettorale segnata da astuzie e forzature: mancanza di un chiaro principio ispiratore, divieto del voto disgiunto, ripartizione pro-quota del voto maggioritario tra i partiti della coalizione nel proporzionale, ritorno delle liste-civetta, candidature plurime, liste bloccate… Alla base, un patto apertamente rivolto a danneggiare le forze politiche lasciate escluse e a privare i cittadini del potere di determinare la composizione del futuro Parlamento. Il risultato che si va costruendo sotto i nostri occhi è talmente artificioso e incomprensibile che gli stessi fautori della legge non hanno potuto evitare il ridicolo di prevedere l’inserimento nella scheda elettorale di istruzioni per l’uso agli elettori!

Da più di dieci anni i partiti elaborano leggi elettorali rivolte non ai cittadini, ma esclusivamente a se stessi. Non mirano a valorizzare la volontà popolare, ma a distorcerla a loro favore. Non si interrogano su quale strumento sia più adeguato alle esigenze sociali, ma su quello più utile ai loro regolamenti di conti. È ora di dire basta.

I vertici istituzionali hanno il dovere di garantire il corretto rispetto delle regole della competizione politica. Vogliamo credere che questa volta le presidenze delle Camere sapranno difendere il dettato costituzionale respingendo l’inammissibile pretesa del governo di apporre la fiducia sulla legge elettorale. E vogliamo credere che questa volta il Presidente della Repubblica non accetterà di farsi coinvolgere in un’operazione finalizzata, a pochi mesi dal voto, a predefinire incostituzionalmente il risultato delle elezioni a discapito della volontà degli elettori.

il manifesto,

La storia è nota: l’Africa è povera e ha bisogno dell’aiuto dei paesi ricchi. E se le potenze occidentali hanno sfruttato il continente con la schiavitù, il colonialismo e il saccheggio delle risorse naturali, è stato in passato. Oggi sono generose, determinate a eliminare la povertà e a promuovere lo sviluppo sostenibile. Ma questa favoletta, che i paesi ricchi ripetono fino alla nausea, è piuttosto ingenua. Sappiamo da un pezzo che l’Africa è «creditrice netta» rispetto al resto del mondo. L’ammontare di risorse finanziarie accumulate all’estero grazie alla fuga di capitali negli ultimi decenni supera di molto le risorse che vanno nell’altra direzione, compresi gli aiuti e il debito. Ogni anno si prelevano dal continente fra i 30 e i 60 miliardi di dollari, secondo un rapporto diffuso nel 2015 dal Gruppo di alto livello sui flussi finanziari illeciti (High Level Panel on Illicit Financial Flows) creato dalla Commissione economica dell’Onu per l’Africa (Uneca), presieduto da Thabo Mbeki, ex presidente del Sudafrica. E si tratta di stime al ribasso.
In cosa consiste questa emorragia che gli specialisti chiamano «flussi finanziari illeciti»? Intanto, ovviamente, si compone di attività criminali di ogni tipo (droghe, traffico di armi, ecc.), alle quali si aggiunge il riciclaggio di denaro legato alla corruzione. Inoltre le compagnie multinazionali facilitano flussi finanziari illeciti in uscita manipolando transazioni commerciali. Fatture false, transfer pricing, pagamenti fra case madri e loro sussidiarie, meccanismi di elusione fiscale allo scopo di nascondere redditi sono pratiche comuni da parte delle compagnie, nel loro sforzo di massimizzare i profitti. È comune il ricorso sia all’evasione fiscale (che è illegale) che all’elusione fiscale, grazie alle scappatoie legali offerte dal sistema di tassazione internazionale.

La fuga di capitali è un fenomeno globale. Per anni, i paesi sviluppati hanno ritenuto che il problema dei flussi finanziari illegali fosse prima di tutto una faccenda di lotta contro il terrorismo, il riciclaggio di denaro e altri crimini finanziari. Ma di recente, in un periodo di grande pressione sui bilanci nazionali, i governi delle economie avanzate hanno moltiplicato gli sforzi per combattere anche l’evasione da parte delle aziende. Questo in parte spiega per esempio la battaglia in corso in Europa: paesi come la Francia e la Germania sono stanchi di vedere i colossi del digitale come Google, Apple, Facebook e Amazon aggirare gli obblighi fiscali spostando i profitti in Irlanda o Lussemburgo.

Ma l’impatto della fuga di capitali sui paesi in via di sviluppo, in particolare sull’Africa, è di gran lunga più devastante. Nel continente africano le entrate fiscali sono già molto basse: in media il 17% del Prodotto interno lordo (Pil), rispetto al 35% dei paesi ricchi. E le autorità fiscali non hanno risorse sufficienti per contrastare le strategie sempre più sofisticate, sempre più aggressive messe in atto dalle multinazionali per evadere le tasse; per non parlare dei meccanismi di corruzione che coinvolgono i politici locali. Il costo umano e sociale degli abusi relativi alle imposte societarie è gigantesco. Significa infatti meno risorse per infrastrutture, istruzione, salute, alimentazione, protezione dei diritti delle donne, programmi ambientali. Non per nulla le Nazioni unite hanno dichiarato che i flussi finanziari illeciti sono un grave ostacolo al finanziamento dello sviluppo e dunque al raggiungimento degli Obiettivi dello sviluppo sostenibile.

In questo contesto, la Commissione indipendente per la riforma della tassazione delle imprese multinazionali (Icrict) ha chiesto alle Nazioni unite uno sforzo per combattere l’evasione fiscale da parte delle transnazionali come parte di una più ampia strategia di lotta contro i flussi finanziari illeciti. È una lotta che richiede l’impegno da parte degli Stati e della comunità globale per migliorare la trasparenza dei sistemi finanziari e del commercio internazionale, e per consolidare le capacità delle amministrazioni fiscali nazionali. Questo significa, fra l’altro, obbligare le imprese a rendere pubblici i dettagli delle loro attività in ognuno dei paesi dove operano, per far sì che tutti i profitti siano debitamente tassati nel paese dove si svolgono effettivamente le attività produttive e commerciali. E significa anche monitorare tutti i fattori e gli attori che rendono possibile la fuga dei capitali, in particolare le banche che aiutano a nascondere le risorse finanziarie illegalmente succhiate via, a danno dell’Africa.

Léonce Ndikumana è docente di economia e direttore del Programma per la politica di sviluppo dell’Africa presso l’Istituto di ricerca di economia politica all’università del Massachusetts. È commissario della Commissione indipendente per la riforma della tassazione delle imprese multinazionali (Icrict).

Questo articolo esce oggi in una dozzina di paesi diversi in occasione dell’inizio a Nairobi della conferenza sui flussi finanziari illeciti e il loro impatto sullo sviluppo dell’Africa.

il Fatto Quotidiano,

Sette miliardi e mezzo in sedici anni, cioè quasi mezzo miliardo l’anno, un milione e trecentomila euro al giorno. Questo – a fronte di 260 milioni per la cooperazione civile – è il costo della partecipazione dell’Italia alla campagna militare afgana, la più lunga della nostra storia, secondo il rapporto “Afghanistan, sedici anni dopo” pubblicato dall’Osservatorio Milex sulle spese militari italiane, che traccia un bilancio di questa guerra, iniziata il 7 ottobre 2001. In realtà l’onere finanziario complessivo della missione italiana è assi più pesante considerando i suoi costi indiretti, difficilmente quantificabili: l’acquisto ad hoc di armi, munizioni, mezzi da combattimento ed equipaggiamenti, il loro continuo aggiornamento a seconda delle esigenze operative e il ripristino delle scorte, l’addestramento specifico del personale e, non da ultimo, i costi sanitari delle cure per le centinaia di reduci feriti e mutilati.
In sedici anni la guerra in Afghanistan è costata complessivamente 900 miliardi di dollari: 28mila dollari per ogni cittadino afgano (che mediamente ha un reddito di 600 dollari l’anno). In termini umani è costata la vita di 3.500 soldati occidentali (53 italiani) e di 140mila afgani tra combattenti (oltre 100mila, un terzo governativi e due terzi talebani) e civili (35mila, in aumento negli ultimi anni, quelle registrate dall’Onu: dato molto sottostimato che non tiene conto delle tante vittime civili non riportate). Senza considerare i civili afgani morti a causa dell’emergenza umanitaria provocata dal conflitto: 360mila secondo i ricercatori americani della Brown University.
Chi sostiene la necessità di portare avanti questa guerra si appella alla difesa dei progressi ottenuti. Quali? A parte un lieve calo del tasso di analfabetismo (dal 68% del 2001 al 62% di oggi) e un modestissimo miglioramento della condizione femminile (limitato alle aree urbane e imputabile al lavoro di organizzazioni internazionali e Ong, non certo alla Nato), l’Afganistan ha ancora oggi il tasso più elevato al mondo di mortalità infantile (113 decessi su mille nati), tra le più basse aspettative di vita del pianeta (51 anni, terzultimo prima di Ciad e Guinea Bissau) ed è ancora uno dei Paesi più poveri del mondo (207° su 230 per ricchezza procapite). Politicamente, il regime integralista islamico afgano (fondato sulla sharìa e guidato da ex signori della guerra della minoranza tagica) è tra i più inefficienti e corrotti al mondo e ben lontano dall’essere uno Stato di diritto democratico: censura, repressione del dissenso e tortura sono la norma. Per non parlare del problema del narcotraffico (si veda articolo accanto). La cartina al tornasole dei progressi portati dalla presenza occidentale è il crescente numero di afgani che cerca rifugio all’estero: tra i richiedenti asilo in Europa negli ultimi anni, gli afgani sono i più numerosi dopo i siriani.
Anche dal punto di vista militare i risultati sono deludenti. Dopo sedici anni di guerra, i talebani controllano o contendono il controllo di quasi metà Paese. Una situazione imbarazzante che ha spinto il presidente americano Donald Trump a riprendere i raid aerei e rispedire truppe combattenti al fronte, e la Nato a spostare i consiglieri militari dalle retrovie alla prima linea per gestire meglio le operazioni e intervenire in caso di bisogno. Sul fronte occidentale sotto comando italiano dove, per fronteggiare l’avanzata talebana, dall’inizio dell’anno i nostri soldati (un migliaio di uomini, il secondo contingente dopo quello Usa: alpini della brigata Taurinense e forze speciali del 4° reggimento alpini paracadutisti) sono tornati in prima linea a pianificare e coordinare le offensive dei soldati afgani.

Gli esperti militari dubitano del successo di questa strategia: perché mai poche migliaia di truppe che combattono a fianco dell’inaffidabile esercito locale dovrebbero riuscire laddove gli anni passati hanno fallito 150mila soldati occidentali armati fino ai denti? Secondo esperti e diplomatici, l’unica via d’uscita è il dialogo con i talebani e la loro inclusione in un governo federale e multietnico, il ritiro delle truppe Usa e Nato e la riconversione della cessata spesa militare in ricostruzione e cooperazione.

È opportuno ricordare che i talebani, fortemente sostenuti dalla maggioranza pashtun degli afgani, non rappresentano una minaccia per l’Occidente poiché la loro agenda è la liberazione nazionale, non la jihad internazionale: combattono i jihadisti stranieri dell’Isis-Khorasan infiltratisi in Afghanistan e non hanno mai organizzato attentati in Occidente (né hanno avuto alcun ruolo negli attacchi dell’11 settembre, che avevano apertamente condannato). L’alternativa è il prolungamento indefinito di una guerra sanguinosa che nessuno ha la forza di vincere e che sprofonderà l’Afghanistan in una situazione di caos e instabilità crescenti, facendone un rifugio ideale per formazioni terroristiche transnazionali come ISis-Khorasan.

Una prospettiva pericolosa ma utile da un punto di vista geostrategico, poiché uno stato di guerra permanente giustificherebbe un’altrettanto permanente presenza militare occidentale che, seppur minima, basterebbe a scoraggiare interferenze da parte di potenze regionali avverse (Russia, Cina, Iran, Pakistan) desiderose di estendere la loro influenza strategica, stroncare il narcotraffico afgano che le colpisce e, non ultimo, mettere le mani sulle ricchezze minerarie afgane (in particolare le ‘terre rare’ indispensabili per l’industria hi-tech) valutate tra i mille e i tremila miliardi di dollari.

il manifesto

Stavolta non si trattava di fanatici delle armi, come Adam Lanza, il responsabile del massacro nella scuola elementare di Sandy Hook, in Connecticut, nel 2012 e Dylann Roof, l’autore della strage in una chiesa di Charleston nel 2015. Non c’entra la paranoia di due studenti mentalmente disturbati, come accadde a Columbine, nel 1999. E, nonostante la rivendicazione, neppure si può dare la colpa allo Stato Islamico e alle guerre in medio oriente, come nel caso degli attacchi di San Bernardino, in California nel 2015, e di Orlando, in Florida, nel 2016. No, domenica a Las Vegas l’autore della strage è un pensionato, per di più milionario, due categorie finora mai incontrate nel quadro degli atti di terrorismo.
Stephen Paddock, 64 anni, era un giocatore, apparentemente fortunato, che passava gran parte del suo tempo a Las Vegas al casinò, oppure partecipava ai tornei di poker on line da casa sua, in un quartiere residenziale di Mesquite, sempre in Nevada. Della sua vita lavorativa si sa solo che era finita molti anni fa, da decenni si occupava solo delle sue proprietà immobiliari, anche in questo caso con successo. Al contrario di altri terroristi americani non era un cacciatore, non aveva una passione per le armi da fuoco, non era un reduce dal servizio militare, com’era stato, per esempio, Timothy McVeigh, l’autore dell’attentato di Oklahoma City nel 1995.
Paddock non era un emarginato o un lupo solitario: aveva due fratelli, una madre ancora viva con la quale era in contatto, una compagna che al momento della sparatoria era all’estero. Non aveva mai dato segni di squilibrio mentale o manifestato desideri di vendetta, non era in contatto con organizzazioni criminali o gruppi neonazisti anche se, per la gioia dei giornali, suo padre era stato un rapinatore di banche tra i dieci più ricercati dall’Fbi negli anni Settanta.

No, Stephen Paddock era un normale americano agiato, di quelli che fanno le crociere nei Caraibi o nel Mediterraneo, vengono in Italia per vedere Firenze e Venezia, affollano i parchi di Yellowstone e Yosemite e, naturalmente, vanno a Las Vegas per provare il brivido della roulette, dei dadi, delle slot-machine. Paddock, dopo aver fatto tutte queste cose, ha deciso di farne un’altra più emozionante e spettacolare: sparare sulla folla di un concerto. Ha affittato una suite al 32° piano in un albergo che dominava l’area del festival, l’ha riempita di armi semiautomatiche, ha sfondato i vetri delle finestre e ha iniziato la strage, che avrebbe potuto essere anche peggiore di quello che è stata, come testimonia l’incredibile numero di feriti, 527, che si aggiungono ai 59 morti confermati.

Com’era prevedibile, il presidente Donald Trump e i repubblicani in Congresso si sono limitati a delle frasi di circostanza, deputati e senatori rimangono ostaggi della potente National Rifle Association, che con i suoi cinque milioni di iscritti costituisce uno dei pilastri del blocco di potere oggi dominante. La Nra, nata come club di appassionati di tiro a segno a fine Ottocento, ha cambiato pelle nella seconda metà degli anni Settanta, riuscendo a imporre un allargamento progressivo del diritto di portare armi, fino ad ottenere una storica vittoria nel 2008 con la sentenza della Corte suprema District of Columbia versus Heller, che sostanzialmente apriva la via a una deregolamentazione totale basata su una lettura fino ad allora ultraminoritaria del II Emendamento della costituzione.

Nell’interpretazione di Antonin Scalia a nome della maggioranza dei giudici, quello di armarsi è un diritto individuale di ogni cittadino americano, legato all’autodifesa, non connesso al servizio militare in una milizia o una riserva dell’esercito. Naturalmente, i cinque giudici repubblicani non affrontarono il problema della difesa dei normali cittadini da chi volesse acquistare armi da guerra (Paddock aveva 23 armi da fuoco nella sua stanza, tra i quali vari AR-15, i fucili d’assalto in dotazione alle forze armate americane).

Il fatto che le stragi sostanzialmente immotivate siano diventate, insieme agli omicidi, il problema di salute pubblica n. 1 negli Stati Uniti è evidente a tutti ma il sistema politico sembra totalmente paralizzato e incapace di affrontarlo. Neppure proposte parziali e modeste, come vietare l’acquisto di armi ai potenziali terroristi o alle persone mentalmente instabili, sono state approvate negli ultimi anni, nonostante un’escalation di violenza impensabile in qualsiasi altro paese.

Nel 2014 c’erano stati 12.571 omicidi con armi da fuoco, nel 2015 ce n’erano stati 13.500, nel 2016 il totale è balzato a oltre 15.000. A questi, occorre aggiungere i circa 22.000 suicidi l’anno, sempre con armi da fuoco. Per avere un’idea migliore di cosa significhino queste cifre basterà ricordare che gli Stati Uniti hanno un tasso di omicidi per 100.000 abitanti che è circa 4 mentre in tutti i paesi europei tranne l’Ungheria questo tasso è inferiore a 2, e nei paesi industrializzati come Germania, Francia, e Gran Bretagna è inferiore a 1. L’Italia, nonostante mafia e camorra, ha circa 450 omicidi l’anno, cioè un tasso di 0,81 ogni 100.000 abitanti. In Giappone, il tasso è 0,3, cioè ci sono meno di 400 omicidi l’anno nonostante sia un paese di 120 milioni di abitanti.

Ci sono speranze per gli Stati Uniti? Nonostante il dibattito sulle armi da fuoco venga puntualmente riaperto ad ogni nuova strage, l’emozione sembra durare pochi giorni o settimane e, soprattutto, sembra incapace di scalfire l’indifferenza del sistema politico. In otto anni di presidenza, neppure Barack Obama, un coraggioso e carismatico sostenitore di maggiori restrizioni e controlli, riuscì a far approvare a Congresso un qualsiasi modesto provvedimento utile a limitare i danni. Dopo Las Vegas non c’è che da aspettare il prossimo massacro.

il Fatto Quotidiano

Anche la Germania, l’ultimo bastione di quella stabilità così cara alle élite di governo, si ritrova nel grande tumulto che sta condizionando la vita politica di tutto l’Occidente. Si può rispondere in tre modi. Il primo è minimizzare, vivacchiare, fare finta di nulla. Tanto alla fine la Cancelliera la spunterà. Avanti così, a insistere su quello status quo iniquo e ingiusto che per primo sta lastricando la strada a nazionalismi e razzismi. È la strategia dello struzzo. E quella di buona parte del Pd.

Oppure possiamo provare a fare nostre alcune delle parole d’ordine del nuovo fascismo. Sperando che qualche fesso preferisca la copia all’originale. È questo il disegno del ministro Minniti; questo a volte il calcolo degli algoritmi a 5 stelle quando ordinano di scaraventarsi contro chi salva vite in mare. È la strategia del camaleonte.

Oppure, nel fitto della giungla, possiamo provare a restare umani. Possiamo alzarci su due gambe e creare le condizioni per una rivoluzione politica necessaria quanto ineluttabile. La prima gamba si chiama ambizione. Perché non si tratta più di litigare su qualche decimale di spesa pubblica o qualche auto blu. Non si tratta di creare spazi di testimonianza. Ma di definire un nuovo modello di società a fronte di un sistema in bancarotta morale a materiale. Anche in Germania, Paese ricco ma con il maggior numero di lavoratori poveri d’Europa. Il centrismo, la Terza Via, la vecchia socialdemocrazia: tutto ciò è morto e deve essere abbandonato.

Una società che ponga al centro la ridistribuzione di una ricchezza selvaggiamente concentrata, la garanzia di un reddito, la centralità di istruzione e ricerca, la liberazione dal giogo mortale della grande speculazione, tutto ciò e molto altro ancora, deve divenire oggi puro e semplice buonsenso. “La grande ricchezza può essere più pericolosa della criminalità organizzata”. Fu il presidente americano Roosevelt, ideatore del New Deal, a pronunciare queste parole. Le dobbiamo sentire nuovamente.

La seconda gamba si chiama Europa. Due sono stati i temi che hanno affossato Angela Merkel: la crisi dell’Eurozona e la crisi dei rifugiati. Sono temi che condizionano fortemente le nostre vite e che sono al centro della campagna elettorale italiana.

Ma sono temi su cui la politica nazionale – anche quella del Paese più forte – può sempre meno. Se ne possono aggiungerne di altri. Come lo scandalo dell’evasione fiscale delle grandi multinazionali o i cambiamenti climatici oggi sotto gli occhi di tutti. Temi che definiscono alla radice le nostre vite. Temi su cui nessun governo nazionale può esercitare reale sovranità. E quindi? Per citare lo slogan della campagna per la Brexit, bisogna “riprendere il controllo”. E questo significa non ripiegare sulla nazione ma su alcune questioni superarla. Per noi europei, significa costruire una forza pubblica continentale in grado di restituire reale controllo democratico sulle grandi scelte del futuro. E questo dipende in buona parte da noi, non dai burocrati di Bruxelles.

Dobbiamo riuscire a forgiare nuove forze politiche europee capaci di agire direttamente sui grandi temi che la politica nazionale non riesce più a governare. Non è un auspicio vuoto. Ci sono attori, come il movimento europeo DiEM25, che lo stanno facendo, con un occhio alle prossime elezioni europee del 2019. Ci vorrà tempo, certo. Ma non si esce dalla giungla senza recuperare l’orizzonte. Alziamo lo sguardo e alziamoci su due gambe. Perché non siamo struzzi ne camaleonti. Ma uomini e donne che vogliono tornare a dominare il proprio futuro.

C'è più d'uno, nell'area che va da Salvini a Minniti, che ci inciterà ad obbedire proclamando: ce lo chiede l'Ungheria.

il Fatto quotidiano, 2 settembre 2017
«Il primo ministro ungherese "imita" il capo della Casa Bianca, che continua a chiedere al Messico di finanziare la costruzione di un muro di separazione tra i due paesi. Attesa per mercoledì la sentenza sul ricorso di Budapest e Bratislava contro il ricollocamento dei richiedenti asilo»

.Make Europe great again. Che Viktor Orbán fosse un fan di Donald Trump si era capito. La novità è il primo ministro ungherese sta prendendo spunto dalle mosse del capo della Casa Bianca. Come Trump annunciò di voler fare con il Messico, ora Orbán vuole mettere in conto all’Unione europea la spesa per il muro anti-migranti costruito al confine con Serbia e Croazia. Tutto ciò alla vigilia della sentenza della Corte di giustizia Ue, che il prossimo 6 settembre si pronuncerà sul ricorso presentato da Ungheria e Slovacchia contro il piano di ricollocamento dei richiedenti asilo da Italia e Grecia.

In una conferenza stampa tenutasi 31 agosto, il capo dello staff del governo di Budapest, János Lázár, ha annunciato che l’Ungheria chiederà alla Commissione europea di pagare almeno metà della cifra sostenuta dal paese per la costruzione della barriera, cominciata nel 2015 e costata 800 milioni di euro. La richiesta di Orbán sarà formalizzata in una lettera destinata a Bruxelles al presidente della Commissione Jean-Claude Juncker.

Il rimborso richiesto, dunque, sarà di 400 milioni per 170 km di filo spinato. “L’Ungheria, con i suoi confini fortificati attraverso il muro, la polizia e l’esercito, sta proteggendo tutti i cittadini europei dal flusso di migranti irregolari – ha detto Lázár – il momento che l’Ue aiuti l’Ungheria così come ha fatto con l’Italia, la Grecia e la Bulgaria. Non si possono usare due pesi e due misure”.

Solo il 27 agosto, Donald Trump rilanciava il suo muro anti-migranti, al confine con il Messico. “Essendo il Messico una delle maggiori nazioni criminali al mondo, dobbiamo avere il muro. Il Messico lo pagherà attraverso un rimborso o altro”, ha scritto il presidente Usa su Twitter.

«Il Paese, che negli ultimi anni ha sempre esercitato potere e influenza oltre i confini, continua a essere oscurantista ed epurare chiunque dissenta».

il Fatto Quotidiano, 28 agosto 2017 (p.d.)

Ciò che più colpisce nell’immenso palazzo di re Dario a Persepoli (V sec. a.C.) è la scalinata d’accesso: i gradini bassissimi, del tutto incongrui in rapporto a tanta magnificenza, furono voluti dal re – pare – affinché i dignitari e i sovrani in visita, impacciati da vesti e paramenti, non avessero a fare capitomboli.

Evidentemente immemore di tale insegnamento, così come dell’attenta politica di apertura varata da Barack Obama, la diplomazia americana fa oggi il passo più lungo della gamba, e minaccia l’Iran di nuove sanzioni in virtù di presunte violazioni dell’accordo sul nucleare raggiunto a Ginevra nel 2015: un accordo, comunque la si pensi, vitale per la stabilità della regione. Tassello essenziale della retorica incendiaria di Donald Trump, rinterzata per l’occasione dai timori dell’anziano Henry Kissinger circa il sorgere di un “nuovo impero persiano” dopo la sconfitta dell’Isis, l’attacco a Teheran appare quanto meno temerario, e non meno scomposto della recente messa al bando del Qatar (accusato di collusione proprio con l’Iran) da parte di vari Paesi del Golfo all’indomani della visita dello stesso Trump in Arabia Saudita.

L’attacco sul nucleare – preludio per molti a escalation di tipo coreano, specie dopo il Muslim ban – segue infatti l’insediamento del nuovo governo del rieletto presidente Rohani, un esecutivo moderato e di sostanziale continuità, tristemente privo di donne (salvo le tre vicepresidenti), e determinato a proseguire l’alleanza strategica con Russia e Turchia, che in questi giorni d’agosto ha già sfornato accordi miliardari per trivellazioni nel Caspio, colloqui bilaterali (e riservati) tra capi di Stato maggiore, e forti iniziative diplomatiche per risolvere la crisi yemenita e quella siriana (i proficui colloqui di Astana).

Se l’Europa, anche per i propri interessi energetici, appare più prudente (la recente, fortunata visita di Federica Mogherini al Parlamento di Teheran è culminata in un’imbarazzante gara dei deputati a farsi un selfie con la bionda lady Pesc (gli ayatollah non hanno gradito), gli Stati Uniti sembrano non aver inteso che la faccia feroce contro il regime iraniano può rivelarsi in realtà la strada migliore per rafforzarlo, indebolendo la crescente insofferenza interna in virtù dell’unità nazionale e dell’antiamericanismo diffuso. Nessuno qui ha dimenticato che fu la Cia – di concerto con gli ayatollah più retrivi – a rovesciare nel 1953 il governo più progressista e modernizzatore del secolo, quello di Mohammad Mossadegh, reo di voler nazionalizzare le risorse energetiche iraniane sottraendole al latrocinio delle compagnie occidentali.

Ed è opinione diffusa che la stessa rivoluzione khomeinista del 1979 – i cui esiti finali spiazzarono, o talora condannarono a morte, tanti suoi iniziali fautori – sia stata inizialmente avallata, se non orchestrata, anche nell’ambasciata di via Talaqani, il “covo di spie” già teatro di un celebre, lunghissimo sequestro che costò la rielezione al presidente Jimmy Carter. In quell’edificio oggi regnano i pasdaran del regime, che hanno dipinto sui muri una Statua della Libertà col volto della Morte; e proprio dirimpetto, la caserma delle Guardie della Rivoluzione esibisce le gigantografie dei caduti dal 1979 in poi accanto a quelle, recentissime, dei martiri della guerra contro l’Isis (che a Teheran ha messo a segno due sanguinosi attentati il 7 giugno scorso): una guerra che senza l’Iran e le milizie sciite di Hezbollah difficilmente si può vincere.

Lungo le strade delle città iraniane, così come nella valle della Bekaa (la parte del Libano in mano a Hezbollah, ai piedi delle rovine romane di Baalbek), le lunghe teorie di foto di giovani caduti – soprattutto nel conflitto con l’Iraq (1980-88) – rammentano quale ruolo giochi nella cultura sciita il mito del martirio. “Morire da martire vuol dire iniettare sangue nelle vene della società”, recitavano gli slogan degli anni ‘80. Proprio un’eroica sconfitta, quella patita dal nipote di Maometto, Hussein ibn Ali, nel 680 d.C. a Kerbala in Iraq, è del resto l’atto fondativo della fede sciita, al punto che quadratini di terra di Kerbala (la stessa terra che dal 2003 ha assorbito il sangue copioso delle sfortunate truppe d’occupazione americane) sono a disposizione dei fedeli in preghiera all’ingresso delle moschee.
Chi voglia sfidare in blocco gli iraniani, questo popolo fiero e antichissimo, non solo corre il rischio di perdere (per analogia, le recentissime dichiarazioni del segretario alla Difesa James Mattis sulla “non vittoria” americana in Afghanistan sono oggetto sui media iraniani di analisi e dileggi che rincuorerebbero Massimo Fini), ma soprattutto dimentica e condanna alla marginalità quella vasta fetta della società iraniana che ha sete di libertà, e da cui il regime oscurantista e criminale degli ayatollah riceverà – presto o tardi – il colpo di grazia. “Una finestra per vedere / una finestra per sentire / una finestra che come bocca di un pozzo / giunga fino al cuore della terra”, cantava la grande poetessa Farrough Farrokhzad.
Non solo dunque i leggendari festini notturni delle élite di Teheran, ma anche il bambino che guarda gli sconcertanti affreschi del Chehel Sotun a Isfahan (donne nude, per la sorpresa dei soprintendenti capitolini) con indosso una maglietta Nba; o lo studente di legge che a Shiraz ti intrattiene in piazza sulle liriche salaci di Hafez (XIV secolo) come sui film di Kiarostami e Farhadi; o le adolescenti di Yazd che da sotto il chador sbirciano ridacchiando gli allenamenti di giovani aitanti in una palestra sotterranea; o ancora la folla che ogni sera trasforma l’enorme piazza Naqsh-e-Jahan di Isfahan (l’Isfahan delle Lettere persiane di Montesquieu) in una sorprendente declinazione di quell’espace public di cui parlano gli intellettuali nostrani; o i fedeli che a Qom, nel centro religioso che governa la Repubblica islamica, prendono alla lettera il cartello di benvenuto, dove Mosè, Gesù e Maometto figurano sullo stesso piano; o il ristoratore del deserto che insiste a tenere la Coca Cola vera invece del surrogato locale Zam Zam (ma quanto più buoni i suoi succhi di melograno o di cantalupo!); o il ragazzo che dinanzi alla chiesa armena di Nuova Jolfa deplora che dei calciatori iraniani vengano sanzionati dalla Federazione per aver osato giocare con il loro club greco contro una squadra israeliana; o ancora, le migliaia di persone che, stanche dei mullah, il 21 marzo vanno a festeggiare il capodanno persiano (il Nowruz, tuttora la maggiore festività del Paese, legata al rito zoroastriano ad onta dei vani tentativi di Khomeini di islamizzarla) a Pasargade sulla solinga tomba di Ciro il Grande (VI sec. a.C.), il re achemenide che tanti persiani ammirano meno per le sue ragguardevoli conquiste territoriali che non per l’idea di “diritti dell’uomo” contenuta in nuce nell’iscrizione del suo famoso cilindro, oggi al British Museum. È lo stesso, sapientissimo Ciro ammirato dal greco Senofonte, che nel IV sec. a.C. gli dedicò la prima biografia della letteratura occidentale, la Ciropedia nota ai nostri liceali da temibili versioni.
Alle élite politiche dell’Occidente fa spesso comodo richiamare l’attenzione sulle impiccagioni pubbliche, sulla legge del taglione, sulle fatwa, su riti e modi ripugnanti di un regime che nel 1979 partì da Parigi sulle ali dell’entusiasmo di tanti maîtres à penser. Fa comodo anche confondere l’Iran con i Paesi arabi del Medio Oriente, dimenticando che il ceppo etnico è completamente diverso, che la storia è molto più profonda, e che qui le donne – pur obbligate al velo – guidano, lavorano, ereditano, vanno in tribunale (si ricordi l’avvocato Nasrin Sotoudeh, eroina del film Taxi Teheran di Jafar Panahi), e non usano né il burqa né il niqab. Fa comodo condannare l’aiuto di oggi al regime di Assad in Siria, obliterando lo sporco gioco condotto dalle grandi potenze nella guerra Iran-Iraq, con l’unanime appoggio occidentale al proditorio attaco di Saddam Hussein (la Siria di Assad padre fu tra i pochissimi a schierarsi apertamente con Teheran), e per contro la vendita sottobanco di armi al regime degli ayatollah pubblicamente tanto deplorati (l’ormai dimenticato, ma gravissimo, scandalo “Iran-contras”). Solo a posteriori, all’epoca delle Guerre del Golfo degli anni ‘90, gli occidentali si rammentarono all’improvviso dei massacri e delle armi chimiche usate da Saddam contro iraniani e curdi, peraltro fabbricate – secondo le denunce di Falco Accame – con materiali e tecnologia italiani.
È questa l’imbarazzante e perdurante incoerenza che inficia la credibilità di ogni proclama occidentale sui diritti umani, specie agli occhi di un popolo smaliziato e colto, al punto da non voler più traviare i propri sogni verso una nuova, traumatica rivoluzione (non era nemmeno ciò che chiedevano gli studenti scesi in piazza all’indomani della rielezione di Ahmadinejad nel 2009, repressi con rara brutalità): molti preferirebbero oggi riforme atte a uscire dalle secche di una società ingessata. Dopo la recente morte dell’ex presidente Rafsanjani, è ora giunto a capo del potente Consiglio per il Discernimento – che ha funzione consultiva e censoria – l’ayatollah Shahroudi, un iracheno di Kerbala (questo è un segnale dell’attenzione dell’Iran per il nuovo Iraq ormai guidato dagli sciiti), allievo di Khomeini e maestro di Nasrallah: un uomo contrario alla lapidazione delle adultere ma favorevole al controllo dei media e della rete. Così, gli iraniani faticano sempre più a illudersi che a cambiare le cose possano essere i medesimi rappresentanti superstiti di un regime che negli anni ha progressivamente e violentemente epurato chiunque sembrasse dissentire dal leader: dai rivoluzionari di orientamento comunista del Toudeh ai presidenti riformatori Moussavi e Khatami, fino all’ayatollah Montazeri, erede designato di Khomeini fino al momento in cui nel 1989 decise di dissociarsi da alcune delle brutalità del regime.
Nei primi anni ‘80, prima che cadesse in disgrazia, la foto di Montazeri iniziò a comparire ovunque accanto a quella, già ubiqua, di Khomeini. Oggi in quella stessa posizione, nelle botteghe dei barbieri come sui frontoni delle moschee, c’è l’icona dell’opaco ayatollah Khamenei, il vero successore del defunto leader: viene da pensare che forse solo con la morte di Khamenei, e con la fine di quella disgraziata generazione, si apriranno spazi per ripensare uno Stato che ha raggiunto un tasso d’ipocrisia incompatibile coi valori dei suoi veri progenitori (per Zoroastro, la Verità è il principio positivo fondamentale). Nell’attesa che qualcosa cambi (“in Iran sembra sempre debba cambiare tutto, ma non cambia mai niente”, disse una volta Romano Prodi, che il Paese lo conosce a fondo), il lettore italiano che voglia farsi strada fra tante contraddizioni ha a tiro un libretto eccellente e troppo poco noto, scritto dal più esperto dei nostri corrispondenti in loco: L’Iran oltre l’Iran di Alberto Zanconato (Castelvecchi 2016).

L’architetto che sognò la «forma della rivoluzione». Articoli di Maurizio Giufrè e Alessandra Anselmi da

il manifesto, 23 agosto 2017 (c.m.c)


ROBERTO GOTTARDI
CHIAROSCURI CUBANI.

di Maurizio Giufrè

«All’età di 90 anni muore l’architetto che sognò la «forma della rivoluzione». Con Vittorio Garatti e Ricardo Porro, nel 1961 progettò la Escuela Nacionales»

Fino a quando non venne pubblicato nel 1998 Revolution of Forms di John Loomis nessuno poteva mai immaginare che la storia dell’architettura cubana della rivoluzione si sarebbe incontrata con quella di due architetti italiani, Vittorio Garatti e Roberto Gottardi, i quali, chiamati dal loro collega cubano Ricardo Porro, insieme svolsero l’incarico di trasformare l’esclusivo Country Club di l’Avana in uno dei centri culturali più importanti del Latinoamerica: la Escuela Nacionales de Arte (ENA), un insieme di cinque scuole per il teatro, il balletto, la musica, l’arte plastica e la danza moderna. Dopo la scomparsa di Porro a Parigi nel 2004, ieri ci ha lasciato Gottardi.

Con i suoi amici Vittorio e Ricardo, ancora nel 1999 volle scommettere di completare le parti mancanti della Escuela, per una seconda volta chiamato con gli altri, come nel lontano 1961, da Fidel Castro per un’opera che solo grazie a un architetto e docente statunitense è stata possibile restituire, dopo una lunga disattenzione, alla storia dell’architettura. Purtroppo come allora la mancanza di risorse economiche non ha permesso a Gottardi di vedere completata in tutte le sue parti la Escuela nonostante l’impegno del World Monument Found che l’aveva peraltro inserita nei cento monumenti del mondo da salvare, e le promesse di contribuire al finanziamento dell’intervento dell’amministrazione Bush e poi di alcuni governi europei, tra i quali il nostro all’epoca di Berlusconi. In questo momento di triste perdita per uno degli architetti più singolari per il suo impegno politico e sociale occorre citare innanzitutto questa che per Gottardi è stata la sua più «grande impresa».

In particolare collegarci agli anni del suo arrivo a Cuba poco più che trentenne dopo essersi laureato nel 1952 all’Istituto Superiore di Architettura di Venezia con Carlo Scarpa, un periodo di tirocinio presso lo studio di Ernesto Nathan Rogers e la sua prima occupazione nel Banco Obrero di Caracas dove si trasferisce nel 1957 e dove incontra i suoi due amici, tutti collaboratori di Carlos Raúl Villanueva: il pioniere dell’architettura moderna venezuelana. Tuttavia è con l’avvento della rivoluzione castrista che Gottardi raggiunge nel 1960 Cuba per partecipare, come egli stesso dichiarerà anni dopo, a «fondare un nuovo paese, con una nuova gente», ricordando con nostalgia lo spirito libero, senza alcuna imposizione, con il quale si lavorava e ci si confrontava nell’isola caraibica per la costruzione di una nuova società.

L’atmosfera di quegli anni è ritratta nella celebre foto di Alberto Korda con Castro e Che Guevara mentre giocano a golf sul campo di quello che i giovani barbudos decideranno dovrà diventare la più importante scuola d’arte dell’America Latina. Gottardi scelse di progettare lo spazio della Scuola di Arti drammatiche impiegando materiali poveri e tecniche semplici come la volta a cupola in mattoni di terracotta che nell’architettura dell’Escuela è l’unità minima, seriale e modulare di segno più elementare ma altrettanto organico, ad esempio, di quelle di Eladio Dieste. Il risultato è un’architettura che scaturisce dalla consapevolezza «che tutto fosse possibile per la mancanza completa di idee preconcette», quelle che vennero meno con l’arrivo dei militari sovietici in seguito all’accordo tra Castro e Krusciov nel 1962.

Gottardi non lasciò però mai Cuba a differenza di Porro e Garatti, coniugando dal 1965 l’attività di docente alla Facoltà di Architettura di L’Avana, di scenografo – sue le scene per Girón (1981) e Dédalo (1991) del coreografo Rosario Cárdenas – e di architetto (Ristorante Maravilla, 1968). La «rivoluzione delle forme» di Gottardi rimarrà tra le testimonianze più autentiche nei confronti dell’omologazione globale che interessa l’architettura contemporanea e come un «sogno utopico» può sopravvivere ad ogni forma di dispotismo, oggi come allora.

L’OTTIMISMO
DI UN INTELLETTUALE ECLETTICO

di Alessandra Anselmi
«Frank Lloyd Wright, Luis Kahn tra i riferimenti che ne segnarono la formazione»

Ho conosciuto Roberto Gottardi a L’Avana nel febbraio del 2008, ma il suo nome e le Scuole d’Arte mi erano già da tempo familiari. Me ne aveva, infatti, molto parlato mio padre, Alessandro Anselmi, che nel 1963, insieme a Renato Nicolini e altri architetti, provenienti da diverse parti del mondo, avevano partecipato al VII Congresso della U.I.A. (Unione Internazionale degli Architetti), fortemente voluto da Che Guevara.

All'epoca Roberto, nato a Venezia nel 1927, già si trovava a Cuba, dove era arrivato nel dicembre del 1960. Come lo stesso Roberto amava ricordare, pochi mesi dopo il suo arrivo aveva ricevuto, insieme al cubano Ricardo Porro e all’italiano Vittorio Garatti, l’incarico per partecipare alla costruzione di cinque scuole d’arte (musica, danza moderna, teatro, arti plastiche, balletto), là dove sorgeva l’esclusivo Country Club Park. Nell’ambito del progetto, fortemente voluto da Fidel e da Che Guevara, il giovane architetto veneto ebbe l’incarico per la Scuola di Teatro.

Tutti, soleva ripetere Roberto, eravamo molto ottimisti rispetto al futuro, la rivoluzione si caratterizzava per una grande coralità, e ognuno di noi con le sue diverse competenze sentiva di contribuire al salto qualitativo per una società diversa e migliore. Roberto, tra i suoi maestri metteva Carlo Scarpa, Franco Albini, Giuseppe Samonà e Ernesto N. Rogers, ma, diceva anche che per la sua formazione e per il progetto della Scuola di Teatro erano stati determinanti anche le esperienze «de vida real», vissute a Cuba, che avevano contribuito a fargli porre problemi che oltrepassavano quelli della forma e dello spazio. Oltre ad altri suoi riferimenti, come Frank Lloyd Wright, Luis Kahn e altri, il processo rivoluzionario lo aveva arricchito modificando il suo modo di concepire il progetto architettonico.

La scuola di teatro, che purtroppo come le scuole progettate da Vittorio Garatti, non è mai stata terminata, è caratterizzata da stretti passaggi scoperti, con i quali Roberto voleva ricordare le strade di una città, e da forti contrasti di luce ed ombra. Questi spazi sono inoltre modulati da scale che danno luogo a sorprese visive.

Nello spazio così articolato si aprono gli ambienti per la recitazione e le lezioni, queste le intenzioni, solo in parte realizzate, ma di cui restano numerosi disegni e un plastico. Alla riscoperta delle cinque scuole, i cui lavori si interruppero nella seconda metà degli anni Sessanta, hanno contribuito nell’ultima decade diverse iniziative, tra cui il libro di J. A. Loomis, Cuba’s forgotten Art schools revolution of forms. Importante, anche perché dedicato al solo Roberto, il catalogo della mostra Roberto Gottardi arquitecto. Sin dogma y con muchas dudas, tenutasi a L’Avana lo scorso ottobre 2016, pubblicato da Manfredi Edizioni.

Ho avuto in regalo questo catalogo da Roberto in occasione della mia ultima visita a L’Avana, lo scorso maggio; era fisicamente indebolito ma conservava l’indomito entusiasmo e desiderio di lavorare al suo progetto per la Scuola di Teatro, non certo l’unico da lui elaborato, ma sicuramente il più importante della sua vita, anche perché legato a quella che lui amava definire «l’adolescencia de una década», piena di quella ricca effervescenza, ricerca e creatività che ha caratterizzato la Cuba degli anni Sessanta. Roberto ha lasciato una traccia indelebile in tutto quelli che lo hanno conosciuto: Aldo Garzia, che avendo vissuto a L’Avana come giornalista ha avuto molte occasioni di incontro con lui, lo ricorda come un intellettuale appassionato e sempre ottimista.

La pratica migliore per combattere l'atroce impasto tra sessismo e razzismo violenza ed esclusione, che imperversa nel linguaggio monco dei "social" è l'esercizio paziente della democrazia: ascolto, rispetto, comprensione, risposta argomentata.

il manifesto, 22 agosto 2017
«Il sesso come violenza esplicitata nella classica giustificazione dello stupro. E il profugo, ovvero il "clandestino", identificato con lo stupratore. Viaggia in rete il feroce sessismo razzista. Non serve ribattere punto per punto, vanno riattivate pratiche di accoglienza e confronto dirette, fuori dalla giungla dei social»

Non c’ è niente che mostri con maggior chiarezza il nesso strettissimo tra machismo e razzismo dei tweet sessisti che Laura Boldrini si è decisa a denunciare. Da Beppe Grillo e Matteo Salvini, via via fino ai loro sconosciuti ma non anonimi seguaci. L’elemento centrale che balza agli occhi è l’identificazione tra sesso e violenza. I persecutori di Laura Boldrini, che la vorrebbero morta, per augurarle tutto il male del mondo invitano a sottoporla o sottoporsi a uno stupro: quanto più feroce, tanto più soddisfacente per loro. E non si mettono solo nei panni dello spettatore che assiste eccitato e divertito alla violenza, possibilmente di gruppo, e nelle forme più umilianti, che le augurano.

Traspare evidente anche il loro desiderio di parteciparvi, la loro identificazione con lo/gli stupratori; una visione della violenza come sesso, ma anche, e soprattutto, del sesso come violenza, esplicitata dalla classica giustificazione dello stupro: «ti piacerà anche chissà quanti ne hai ogni sera a farti sfondare», ecc. Ma non è tutto. Laura Boldrini è una donna, che si batte contro il razzismo e per l’accoglienza dei profughi. Il profugo, ovvero il “clandestino”, identificato con lo stupratore. Ovviamente nero: «Le sue merde nere tanto amate». E perché mai? Perché «è arrivata l’ora che ti togli dal cazzo italiano e sali sopra il cazzo nero che tanto hai voluto».

Fa qui la sua comparsa uno dei temi di fondo del machismo, ma anche del razzismo, di tutti i tempi: l’invidia del pene, a lungo, e a torto, identificato con la condizione naturale della donna; forse per nascondere un problema che tormenta da sempre gli uomini: il confronto tra i rispettivi attributi maschili, unito al timore di uscirne perdenti; soprattutto rispetto ai “neri”, identificati tout court con tutti i profughi e tutti i clandestini. Qui il razzismo non è che un tentativo di eludere il fantasma di un confronto da sempre centrale nell’educazione dell’uomo occidentale.

Ma a quest’assalto a Laura Boldrini a suon di tweet hanno partecipato anche diverse donne, che non possono essere state mosse dalle stesse pulsioni. Da una sicuramente sì: il voyerismo, il piacere e il gusto di assistere a una violenza sessuale come fonte di soddisfazione di un desiderio di sopraffazione altrimenti inesprimibile. Ma anche, ovviamente, la soggezione a una cultura maschilista introiettata. Il fatto è che sia dagli uomini che dalle donne che la oltraggiano, Laura Boldrini non è odiata solo e principalmente perché donna, ma soprattutto perché identificata con una rigida difesa dell’accoglienza. Altre donne prima di lei hanno ricoperto la stessa carica senza essere offese in questo modo.

All’epoca di Nilde Jotti la politica non aveva ancora abbandonato le parvenze di quel bon ton messo oggi sotto accusa insieme al cosiddetto political correct. E’ vero. E in fin dei conti, Irene Pivetti era lì come rappresentante di quella parte politica da cui proviene la maggior parte delle offese contro Laura Boldrini, ma che non era certo scontenta di avere una presidente donna. Anche questo è vero. Ma allora profughi e migranti non erano ancora il problema, mentre oggi la contrapposizione tra accogliere e respingere è il cuore della lotta politica; proprio ciò che ha fatto emergere come sua componente primaria il razzismo, ben assistito dalle pulsioni custodite negli strati profondi della psiche. E soprattutto, allora non c’erano ancora i social forum, che sono la palestra di queste esibizioni di feroce sessismo razzista: la trasposizione in una rete di dimensioni planetarie di discorsi e battute che forse ci sono sempre state, ma tra pochi amici, al bar. E che oggi, invece, non si accontentano più dell’anonimato e sono fiere di presentarsi con nome e cognome. Ciò che abbina sessismo, razzismo e degrado della politica non sta, ovviamente, solo nell’avvento dei social forum.

Sta soprattutto nel fatto che i social sono al tempo stesso il vettore e lo specchio di una disgregazione sociale che, mentre responsabilizza ciascuno per le vicende biografiche personali a cui lo ha destinato la società in cui vive, offre all’individuo isolato una compensazione alle proprie frustrazioni nella libertà di procurarsi un pubblico insultando e offendendo nel modo più crudo avversari politici, tifosi di altre squadre, nemici personali, esponenti di etnie, religioni e culture diverse.

Contro questa invadenza dei social non serve ribattere punto per punto. A parte il dispendio di tempo e di energia che ciò richiederebbe, il fatto è che contro la disgregazione sociale promossa dalla cultura della meritocrazia e della competitività universale e alimentata dai social funzionano solo politiche e pratiche di riaggregazione fondate sui rapporti diretti, sull’incontro e il confronto personale, sulla cooperazione in attività, progetti e lotte comuni, sulla solidarietà che non può prescindere dall’incrocio degli sguardi, dalla conoscenza personale e dal riconoscimento reciproco attraverso condivisione di gesti, gusti, parole, serate. E usando la rete solo a supporto, e non come fondamento, di forme più complesse e generali di organizzazione. Proprio quello che si cerca di fare nei centri di aggregazione.

«Tar Pescara. Ribadita l’illegittimità della legge: “Non si può imporre a un civile di acquisire lo status militare”. Adesso tocca alla Corte costituzionale».

Il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2017 (c.m.c.)

Vice sovrintendente Vincenzo Cesetti 1 – ministro Marianna Madia 0. L’assorbimento dei forestali nei carabinieri o in altre forze a ordinamento militare è incostituzionale, almeno per la sezione di Pescara del Tar dell’Abruzzo che passa la palla alla Corte costituzionale. La riforma, sciogliendo il Corpo forestale e smembrandolo soprattutto fra carabinieri e vigili del fuoco, impone – nel caso dell’Arma – l’assunzione dello status di militare in modo non volontario: “illegittimità costituzionale” su cui ora dovrà pronunciarsi la Consulta.

Con l’ordinanza del 9 giugno – anticipata ieri mattina da ilfattoquotidiano.it – i giudici amministrativi, infatti, hanno risposto al ricorso dell’ex forestale Cesetti, trasferito all’Arma dei carabinieri: è uno dei tremila ricorrenti sugli ottomila componenti del Corpo; chiedeva, Cesetti, in sostanza, di «continuare a operare all’interno del disciolto Corpo forestale, e in subordine di non confluire nell’Arma dei carabinieri o comunque in altra forza di polizia a ordinamento militare, ma solo nella polizia di Stato».

Il Tribunale amministrativo abruzzese rileva come fondati i motivi di incostituzionalità addotti dal ricorrente e trasmette gli atti alla Corte costituzionale per il giudizio di merito, informando contestualmente, come da prassi, Palazzo Chigi.

L’ordinanza dei giudici di Pescara accoglie le ragioni del vice sovrintendente Cesetti ed è molto chiara nel determinare gli effetti contrari ai principi della Carta rilevati nella riforma Madia: «Violazione degli articoli 2 e 4 della Costituzione, e in particolare dell’articolo 2, laddove non è stato rispettato il principio di autodeterminazione del personale del Corpo forestale nel consentire le limitazioni, all’esercizio di alcuni diritti costituzionali, derivanti dall’assunzione non pienamente volontaria dello status di militare; e dell’articolo 4, laddove il rapporto di impiego e di servizio appare radicalmente mutato con l’assunzione dello status di militare, pur in mancanza di una scelta pienamente libera e volontaria da parte del medesimo personale del Corpo forestale».

E ancora: «Violazione degli articoli 76 e 77 comma 1 della Costituzione, laddove, in contrasto con la precedente tradizione normativa e quindi con i principi e criteri direttivi di delegazione, non è stato consentito al personale del disciolto Corpo forestale di scegliere di transitare in altra forza di polizia a ordinamento civile». Inoltre, «la militarizzazione di un corpo di polizia (o l’assorbimento del personale di un corpo di polizia civile in uno militare che è cosa analoga) si pone in netta controtendenza rispetto ai principi generali del nostro ordinamento e alle linee evolutive di questo nel tempo». E non basta, perché, per il Tar abruzzese, è stata «sottratta in concreto all’Assemblea parlamentare la possibilità di affrontare e analizzare tutte le questioni riguardanti tale accorpamento; con la conseguenza che la medesima Assemblea si è limitata così a consegnare al governo una delega in bianco dai contorni del tutto incerti, persino su un’opzione dalle implicazioni tutt’altro che marginali come la militarizzazione».

La ratio della riforma è la razionalizzazione e l’efficientamento della Pubblica amministrazione? «Il diritto alla tutela e salvaguardia dell’ambiente – scrive la sezione del Tar presieduta da Alberto Tremaglini – rientra nell’ambito di tutela del diritto alla salute, deve ritenersi che anch’esso sia un diritto incomprimibile, e perciò non sacrificabile per mere esigenze di bilancio e risparmio di spesa». Eppure «non si evincono ragioni di tale accorpamento salvo quella relativa alla razionalizzazione dei costi».

«A meno che – si legge ancora nell’ordinanza – non si voglia ritenere che la semplice riduzione numerica delle forze di polizia possa condurre a un risparmio di spesa, a parità di mezzi e personale impiegato, e ciò pur senza eliminare significative sovrapposizioni di funzioni (che non rinvenivano tra il Corpo forestale e l’Arma dei carabinieri), ma viceversa disperdendo un patrimonio culturale specialistico in complesse operazioni di riorganizzazione, quindi non semplificando un collaudato sistema di protezione ambientale ma disciogliendolo in vari rivoli, così ponendo semmai nuovi problemi di riorganizzazione e riconsolidamento di meccanismi e dinamiche operative maturate negli anni, che richiederanno evidentemente del tempo per ricomporsi nell’esercizio quotidiano delle funzioni».

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