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«La Repubblica, 25 febbraio 2016

La legge elettorale, l’Italicum, finirà all’esame della Corte costituzionale. Lo ha deciso il Tribunale di Messina che ha dichiarato non infondate 6 delle 13 questione di illegittimità che erano state depositate dal Comitato per la democrazia costituzionale. I giudici dello Stretto hanno così battuto sul tempo i colleghi degli altri 17 tribunali dove sono stati depositati dei ricorsi analoghi dal comitato coordinato da Felice Besostri. Si ripete così uno schema politico-procedurale che portò all’esame del Porcellum da parte della Corte e alla sua bocciatura.

Un iter veloce, quindi. E che non servirà aspettare molto per la decisione lo spiega subito il neo presidente della Consulta, il fiorentino Paolo Grossi: «Penso che si possa arrivare in un tempo ragionevolmente breve a qualche cosa di definito».

I giudici messinesi hanno deciso che la Consulta dovrà pronunciarsi sul alcuni nodi dell’Italicum. A partire dalla questione di una soglia minima per accedere al ballottaggio. I ricorrenti, infatti, fanno notare che si potrebbe verificare una situazione di frammentazione politica per cui andrebbero al ballottaggio due forze politiche premiate solo il 20 per cento dei voti.

Il meccanismo dell’Italicum a quel punto prevede il secondo turno e l’assegnazione di 345 seggi al vincitore. E questo viene ritenuto incostituzionale dai ricorrenti. Ma anche il premio di maggioranza viene considerato contrario ai principi costituzionali, perché lede il «principio di rappresentanza democratica». Nel mirino sono finite anche la norma che prevede 100 seggi bloccati per i capilista e la relativa «impossibilità di scegliere direttamente e liberamente i deputati».

«Spero che quello di Messina sia soltanto il primo - ha detto Besostri - e che magari alla fine la questione di costituzionalità giunga alla Consulta su tutte e 13 le obiezioni ». Soddisfatti anche i grillini che hanno firmato il ricorso. Il rinvio dell’Italicum alla Consulta, spiega il gruppo della Camera, «rafforza la nostra convinzione che la legge sia incostituzionale». Scettico e perplesso, invece il ministro dell’Interno Angelino Alfano: «Non mi stupisce. Siamo in Italia, dove una legge prima di diventare vigente è già mandata alla Consulta».

Brexit. Intervista di Massimo Sideri a Vittorio Colao. Europa politica:«Il sogno dei padri fondatori può rimanere ma bisogna modernizzarlo. Oggi è sul benessere, l’occupazione giovanile e il progresso scientifico e sociale che ci giochiamo il futuro dell’Europa».

Corriere della Sera, 21 febbraio 2016 (m.p.r.)

Come voterà al referendum sulla Brexit Vittorio Colao, a capo di una delle più importanti multinazionali inglesi, il gruppo Vodafone?
«Io sono italiano, non voto in Gran Bretagna»

Allora come voterebbe?
«Quello che posso dire è che sono gli elettori che devono decidere. Come azienda non esprimiamo un giudizio politico, ma certo per i nostri i clienti, i nostri azionisti e anche i nostri dipendenti è molto meglio che la Gran Bretagna faccia parte dell’Europa».
Considera quello di Cameron un buon accordo?
«Penso che abbia portato a casa cose importanti per la Gran Bretagna: il controllo dei costi dei benefit e la clausola di salvaguardia dell’euro. Poi ci sono delle cose un po’ minori come la questione dei matrimoni. Tutto sommato ha ottenuto quello che cercava, ora deve convincere i britannici che gli conviene».
Qual è il clima nella City? Ve lo aspettavate?
«La maggioranza del mondo del business preferisce una Gran Bretagna dentro l’Ue. Nel caso di Vodafone poi è ovvio che sia così: si parla del mercato unico digitale e una frattura sarebbe un controsenso».
E l’umore per le strade?
«Credo che in generale ci sia una certa preoccupazione per la complessità e anche a volte la farraginosità dei meccanismi europei. Questo crea onestamente una frustrazione superiore al danno effettivo che l’Ue può fare ai britannici. Ora è il momento della razionalità e non delle frustrazioni».
In Gran Bretagna si respira più preoccupazione per la crisi o più ottimismo per la ripresa?
«Si respira aria di ripresa. La Gran Bretagna ha fatto un lavoro migliore sulla riduzione dei costi della macchina amministrativa. È un modello molto liberale e molto aperto: guardiamo ai numeri, i giovani europei vengono in gran numero a Londra e in Gran Bretagna. Questo modello sta pagando ed è questo che gli inglesi hanno paura di perdere».
Ipotesi uno: vince il no alla Brexit. Cosa vorrà dire avere uno «status speciale»?
«Sono un ottimista pro Europa ma sono anche molto pragmatico: la condizione speciale è riconoscere nei fatti quello che c’è già oggi e cioè una Gran Bretagna senza euro e che non vuole andare verso l’unione politica. Riconoscerlo è stato un atto di grande pragmatismo anche da parte di Juncker. Non cambia un granché».
Il governo inglese non si riuniva di sabato dalla guerra delle Falkland/Malvinas. Ma gli inglesi lavorano più o meno degli italiani?
«Gli italiani lavorano molto ma i britannici sono molto ben organizzati, non solo nel mondo della politica ma anche nelle aziende. L’organizzazione e il metodo di lavoro che arriva dal Commonwealth sono la grande eredità. Ma l’italiano che non lavora è uno stereotipo ed è falso».

Veniamo all’ipotesi due: il Regno Unito se ne va. Vede dei rischi?
«Penso che sarebbe per tutti molto complicato perché nessuno saprebbe esattamente quali meccanismi di uscita verrebbero adottati. Il cosiddetto modello Norvegia non dà grandi benefici e ci sarebbe una grande incertezza».
Tutti i grandi Paesi europei - penso anche alla locomotiva tedesca - hanno l’euro. Cosa rappresenta la sterlina per gli inglesi?
«Credo che grazie alla sterlina la Gran Bretagna abbia mantenuto una grande flessibilità e grande capacità di reazione nella gestione della politica economica che per uno Stato liberale e molto orientato al mercato ha avuto efficacia. La nostra cultura continentale, siamo anche confinanti, si è ben sposata invece con il concetto di moneta unica, ma dobbiamo completare alcuni passaggi. Io non sono tanto critico: la Bce ha lavorato bene e la leadership di Draghi ha stabilizzato i mercati. Ma mancano dei meccanismi».
Ne dica uno, fondamentale.
«Il completamento del mercato unico e l’eliminazione delle barriere burocratiche e regolamentari. Nel nostro settore, le telecomunicazioni, abbiamo mille regolatori, ognuno con la propria opinione. Abbiamo politiche locali invece che continentali. Parliamo di reti 5G quando ancora non ci sono le regole sugli spettri europei».
Ha detto che gli inglesi non vogliono l’Europa politica che era il sogno dei padri fondatori. Ma lei cosa ne pensa? La vorrebbe?
«Il sogno dei padri fondatori può rimanere ma bisogna modernizzarlo. Loro avevano in mente la guerra, i rischi di frattura Est-Ovest. Volevano evitare che ci fossero nuove guerre e quindi, giustamente, avevano una visione orientata alla coesione. Ma credo che nessuno oggi possa avere il minimo dubbio che ci debba essere la pace tra Germania, Italia e Francia. Oggi è sul benessere, l’occupazione giovanile e il progresso scientifico e sociale che ci giochiamo il futuro dell’Europa. In questo senso le tensioni che ci sono in Europa e che portano molti voti a chi offre demagogia e derive nazionalistiche ne sono una conferma».
Massimo Sideri

Sul voto inglese l'opinione di Timothy Garton Ash e l'intervista di Enrico Franceschini allo scrittore Alan Bennet.

La Repubblica, 21 febbraio 2016 (m.p.r.)


È IN GIOCO IL FUTURO
ECCO PERCHE TUTTI DEVONO
COMBATTERE LA“BATTAGLIA D'INGHILTERRA”

di Timothy Garton Ash

È iniziata una nuova Battaglia d’Inghilterra. Dal suo esito dipenderà il destino di due unioni, il Regno Unito e l’Unione Europea. Se gli inglesi voteranno per uscire dalla Ue, la Scozia voterà l’uscita dal Regno Unito. La Gran Bretagna non esisterà più. E lo shock della Brexit su un continente già scosso da altre crisi potrebbe essere l’inizio della fine dell’Unione Europea.

Se teneta alla Gran Bretagna o all’Europa, e meglio se tenete ad entrambi, impegnatevi in questa battaglia. L’accordo di Bruxelles non è l’ideale, ma la partita è ancora tutta da giocare. Gli europei del continente spesso considerano gli inglesi incorreggibilmente ostili all’Europa. Non è vero. Da decenni i sondaggi rilevano che esiste un’ampia parte di indecisi che possono spostarsi in una direzione o nell’altra. Accadde al referendum del 1975 quando si registrò un forte spostamento dal no al sì all’Europa: è possibile che si ripeta oggi. Il 42% di chi nei sondaggi ha dato un’indicazione di voto potrebbe cambiare idea. Particolarità di questo referendum, poi, è che ad avere diritto di voto sono i cittadini dei paesi del Commonwealth, mentre francesi, italiani, tedeschi che vivono da tempo in Gran Bretagna e ne subiranno le conseguenze, sono esclusi. Che abbiate diritto di voto, o meno, una voce l’avete. Fatela sentire. Vi suggerisco un paio di argomenti.

Innanzitutto il problema vero non sono i dettagli dell’accordo. Quando Cameron mesi fa rese nota l’agenda negoziale, era già chiaro che non saremmo arrivati a una ridefinizione del nostro rapporto con la Ue, né che ci saremmo ritrovati in un’Europa “riformata”. Su questo hanno ragione gli euroscettici: le istanze di Cameron erano più modeste di quanto le abbia fatte apparire e il risultato ottenuto è piccolo. Ma sarebbe folle far dipendere il futuro economico e politico della Gran Bretagna nei prossimi decenni da un dettaglio come il freno alle prestazioni di sicurezza sociale ai lavoratori immigrati. La Brexit è rischiosa. È indiscutibile. Come si sta dentro la Ue lo sappiamo, come si starebbe fuori, no.

Negoziare la Brexit sarebbe d’altronde impresa lunga e faticosa. Nigel Lawson e altri fautori dell’uscita sostengono che basta abrogare l’Atto unico europeo del 1972 e saremmo liberi. A loro avviso i nostri partner continentali ci concederebbero generoso accesso al mercato unico grazie a un accordo li libero scambio «più utile a loro che a noi». Bel sogno. Vi consiglio di leggere l’attenta analisi di Jean-Claude Piris, ex direttore dei servizi giuridici della Ue, per capire che incubo sarebbe districare quella matassa giuridica. Parlatene ai politici continentali. Quello che abbiamo visto a Bruxelles è il massimo che sono disposti a fare. Non ci farebbero favori in caso d’uscita. L’accordo di Bruxelles dimostra che i partner europei hanno accettato la volontà della Gran Bretagna di fermarsi all’attuale livello di integrazione. La situazione ottimale, se esiste, è quella odierna, non la Brexit. Fa freddo fuori.

Più guardiamo a Norvegia e Svizzera, meno la loro posizione appare attraente e molti imprenditoria e sindacati britannici non vogliono prendersi quel rischio. La Ue ha usato il potere d’attrazione del suo mercato unico di 500 milioni di consumatori per garantirsi vantaggiosi accordi di libero scambio con gran parte del mondo. È contro ogni logica pensare che la Gran Bretagna farebbe affari migliori da sola. Michael Froman, responsabile del Commercio Usa, lo scorso anno ha affermato che se la Gran Bretagna uscisse dalla Ue non sussisterebbe alcun accordo di libero scambio e gli Usa non avrebbero nessun interesse a negoziarlo. Non solo. L’adesione alla Ue ci pone al riparo da terrorismo e criminalità internazionale. Non sono io a dirlo, ma Theresa May, ministro degli interni conservatore. Per questo ha mantenuto la Gran Bretagna nella più importante rete europea di cooperazione giudiziaria e di polizia e si è schierata contro la Brexit.

Restare nella Ue è vitale per la sicurezza interna. Il feldmaresciallo Lord Bramall, non è certo un paladino entusiasta dell’Unione, fa notare che se ne uscissimo la nostra sicurezza sarebbe messa in pericolo da «un’Europa oltremanica piegata e demoralizzata». Se restiamo possiamo essere fautori di una politica estera europea che affronti la cause di problemi profondi come quello dei profughi. Vladimir Putin e Marine le Pen ci vogliono fuori. Barack Obama, Angela Merkel e tutti i nostri tradizionali amici, in Europa, Nord America e Commonwealth, ci vogliono dentro. Serve dire altro?

La Brexit sarebbe diastrosa per l’Irlanda. L’ex premier John Bruton sostiene che «annullerebbe l’opera di pacificazione, sollevando pesanti questioni sui confini e sull’accesso al mercato del lavoro». Da noi risiedono più di 380 mila irlandesi che hanno diritto di voto in questo referendum. Milioni di britannici (come me) hanno origini irlandesi. Se avete a cuore l’Irlanda, votate per restare nella Ue. La Scozia lascerebbe il Regno Unito. Se non volete, votate per l’Ue. La Ue si può cambiare. Le riforme ottenute da Cameron sono modeste, ma in paesi come la Germania molti credono che le riforme siano imprescindibili e non una scelta da fare obtorto collo per mantenere la Gran Bretagna nell’Unione. Se restiamo quella lobby di fautori di riforme si rafforza. Questi argomenti sono improntati alla cautela, non a un visionario ottimismo. Gli euroscettici li definiranno allarmistiche. Se si può definire allarmismo invitare qualcuno a non buttarsi da un transatlantico senza salvagente col mare forza nove. In realtà è solo semplice buon senso.

Traduzione di Emilia Benghi
“NON CHIUDIAMOCI NELLA NOSTRA ISOLA GRIGIA”

intervista di Enrico Franceschini
«Abbiamo radici comuni con Spagna, Francia e Italia: io voterò per restare»

Londra. «Noi inglesi abbiamo già fatto abbastanza stupidaggini a riportare al potere i conservatori, speriamo di non farne un’altra ancora più grossa portando questo paese fuori dall’Europa». Alan Bennett non ha dubbi su come votare nel referendum sull’Unione Europea che si terrà in giugno in Gran Bretagna: «Risolutamente sì alla Ue», dice l’81enne scrittore. E poi l’autore di
La sovrana lettrice e tanti altri romanzi e saggi (tutti tradotti in Italia da Adelphi) spiega perché.


Come le pare l’atmosfera politica, dopo l’annuncio dell’accordo fra Gran Bretagna e Ue?
«Indire il referendum è stata una pessima idea da parte di David Cameron, che avrebbe avuto problemi più importanti di cui occuparsi. Noi inglesi abbiamo sbagliato a riportare al potere il partito conservatore, speriamo di non sbagliare ancora portando il nostro paese fuori dall’Europa».

Il rischio esiste?
«Esiste di sicuro, perché in Inghilterra abbiamo tanti populisti ignoranti. Ma mi auguro che alla fine verrà scongiurato e che prevalga il buon senso. Io di sicuro voterò sì alla Ue».

Si sente più europeo o più inglese?
«Sono troppo vecchio per sentirmi qualcosa di diverso da un vecchio abitante di quest’isola, ma non ho dubbi che le generazioni più giovani si sentano europee. E anch’io, quando mi trovo al di là della Manica, in Francia, Italia, Spagna, gioisco all’idea di non avere più frontiere, di sentire che le nostre comuni radici culturali ci hanno portati a stare insieme in amicizia anziché dividerci o farci la guerra come in passato».
Non condivide la linea degli euroscettici, secondo cui ci sono troppi immigrati comunitari a Londra?
«Gli immigrati europei fanno un sacco di mestieri, dall’idraulico al medico, per i quali evidentemente non ci sono abbastanza inglesi. E poi ci portano soldi in tasse e dinamismo. Il problema del nostro paese non sono gli immigrati comunitari bensì le grandi corporation americane, che non pagano le tasse grazie a scandalose scappatoie legali e trasmettono una cultura estranea alla nostra. L’Inghilterra è il paese che ha inventato il welfare, l’idea che una società civile debba fornire a tutti un minimo di assistenza sociale, concetto che all’America, com’è noto, non piace affatto».

Allora è d’accordo con l’attrice Emma Thompson quando ha affermato che è meglio restare ancorati all’Europa che rinchiudersi in questa grigia, piovigginosa isoletta?
«Come darle torto? È difficile negare che la Gran Bretagna sia un’isola. E per accorgersi che è grigia e piovigginosa basta guardare fuori dalla finestra, in una giornata come quella di oggi».

«L’istituto nazionale di statistica ha presentato un dossier con gli “indicatori demografici” relativi all’Italia per l’anno 2015». Articoli di Mariolina Iossa e Roberto Ciccarelli,

Corriere della Sera il manifesto, 20 Febbraio, 2016 (m.p.r.)

Corriere della Sera

MAI COSÌ POCHE NASCITE DAL 1861
IN ITALIA È RECORD DI DECESSI
di Mariolina Iossa
Roma. Mai in Italia, dallo storico anno dell’Unità nazionale (1861) ad oggi, sono nati così pochi bambini. Mai, come nel 2015, le «culle sono state così vuote». È questo il dato più scoraggiante che spicca su tutti gli altri indicatori demografici diffusi ieri dall’Istat. Il crollo delle nascite - 488 mila lo scorso anno, 8 per mille, 15 mila neonati in meno rispetto al 2014 - significa che si è raggiunto un nuovo minimo storico di figli medi per donna: siamo a 1,35, ancora in discesa, per il 5° anno consecutivo. L’età media delle donne al primo parto è salita a 31,6 anni.

L’allarme è grande. Il ministro della Salute Beatrice Lorenzin parla di «emergenza demografica» e dell’arrivo di «misure per il sostegno alle donne che lavorano». Conferma «misure fiscali» il ministro Enrico Costa con delega alla Famiglia: «La prossima settimana alla Camera si discuteranno le mozioni a sostegno della famiglia; al Senato le unioni civili. Io sarò alla Camera». In concreto quest’anno il ministero della Salute si avvarrà dei 500 milioni del bonus bebè (fondi che nel 2015 non sono stati utilizzati del tutto) che potranno aiutare le famiglie con più figli ma anche a dotare Comuni e imprese di adeguate strutture ricettive.
Scorrendo i dati Istat c’è un altro numero che colpisce: nel 2015 si è registrato un picco di mortalità mai visto dal secondo dopoguerra, quindi da 70 anni: i morti sono stati 653 mila, 54 mila in più rispetto all’anno prima, letti in percentuale siamo al più 9,1 decessi. L’aumento della mortalità si è concentrato nelle classi di età molto anziane, dai 75 ai 95 anni, ma questo non ha frenato la crescita dell’invecchiamento della popolazione. Anche nel 2015 il Paese era ancora un po’ più vecchio dell’anno precedente. Sono 13 milioni e 400 mila gli ultrasessantacinquenni, il 22%. Diminuisce sia la popolazione in età attiva, quella che va dai 15 ai 64 anni (39 milioni, 64,3%), sia quella fino a 14 (8 milioni e 300 mila, il 13,7%). Si abbassa anche l’aspettativa di vita: scende a 80,1 per gli uomini (era 80,3 nel 2014), e a 84,7 per le donne (da 85).
Più morti, meno nascite, aumento della migrazione verso l’estero (100 mila italiani nel 2015 si sono cancellati dall’anagrafe per andare in un altro Paese), crescita, ma moderata, del numero degli stranieri residenti (5 milioni e 54 mila, 40 mila in più rispetto al 2014 ma molti di meno rispetto al balzo del 2007). Ed ecco il risultato: la popolazione residente diminuisce, siamo 60 milioni e 656 mila, gli italiani 55 milioni e 602 mila, 179 mila in meno in un anno. Insomma, un quadro poco esaltante. Diminuisce, invece, dopo 12 anni, la migrazione interna, siamo sotto il milione e 300 mila, 3% in meno sul 2014. Il saldo migratorio è positivo per il Nord (0,9 per mille abitanti) e Centro (più 0,6), negativo per le regioni del Sud: meno 2,5.
«Il crollo delle nascite è dovuto alla crisi economica, e al generale impoverimento delle famiglie italiane», ha commentato il presidente del Codacons Carlo Rienzi. «Gli italiani che emigrano all’estero, cresciuti del 12%, sono un grave segnale di disagio. Si rinuncia a costruire una famiglia e si va fuori, sono scelte dolorose e sofferte», sottolineano Rosario Trefiletti ed Elio Lannutti, presidenti di Federconsumatori e Adusbef. Quanto al picco di mortalità, sia per la Coldiretti, sia per il presidente dell’Istituto superiore di Sanità Walter Ricciardi, il caldo è tra i principali imputati. «Il 2015 è stato l’anno più caldo dal 1880», hanno ricordato alla Coldiretti. Ricciardi ha anche evidenziato il notevole «calo dei vaccini».

Il manifesto
NASCITE AL MINIMO STORICO, CRESCONO I RESIDENTI STRANIERI

di Roberto Ciccarelli

Un processo di inversione demografica descritto dal report dell’Istat sugli indicatori demografici del 2015: gli ultra 65enni sono il 22% della popolazione, mentre le nascite sono state 15 mila in meno rispetto al 2014: 488 mila, il minimo storico dall’unità del paese. La tendenza era già emersa nel 2014, quando il livello delle nascite si era fermato a una cifra superiore: 503 mila. Il processo ha un impatto sulla popolazione attiva tra i 15 e i 64 anni. La riduzione riguarda entrambi i poli: diminuiscono le persone attive sul mercato del lavoro adulte e quelle in attesa di entrarci (i quattordicenni). Le prime scendono a 39 milioni (64,3%), la seconda rappresenta il 13,7% (8,3 milioni).

Questa tendenza va considerata perché influisce sulla determinazione del tasso di occupazione e disoccupazione, oltre che su quella degli inattivi. La flessione registra l’incapacità di includere in un’attività retribuita regolarmente e riconosciuta ai fini previdenziali una crescente fetta della popolazione, espulsa verso la povertà assoluta e il lavoro nero. Le regioni più anziane sono Liguria (28,2% di ultra65enni), Friuli Venezia Giulia (25,4%) e Toscana (24,9%). Quella più giovane è la Sicilia (20,2%).
L’Istat registra un dato già registrato: i decessi sono maggiori delle nascite. Inevitabile che accada, considerata la composizione demografica di un paese - come molti altri europei, a cominciare dalla Germania - con un’età media alta. Nel 2015 i decessi sono stati superiori alle nascite: 54 mila in più rispetto al 2014 (+9,1%), in totale 653 mila. Le morti si sono concentrate nelle fasce di età più avanzata: 75-95 anni. Il saldo è di meno 165 mila. Il 2015 è stato il quinto anno consecutivo di riduzione della fecondità. La media italiana è di 1,35 figli per donna.
L’Istat registra anche la diminuzione di centomila cittadini italiani che nel 2015 si sono cancellati dall’anagrafe per trasferirsi all’estero: +12,4% rispetto a dodici mesi prima. I rientri in Italia dei residenti all’estero sono stati 28 mila. Aumentano le iscrizioni anagrafiche dei cittadini stranieri dall’estero: 245 mila. Un dato che va confrontato con quelli dell’immigrazione. Nel 2015 sono stati registrati 200 mila cittadini stranieri in più, a cui vanno aggiunti 63 mila nati in Italia. In questo bilancio in crescita vanno aggiunte 136 mila persone straniere, nate in Italia, a cui è stata riconosciuta la cittadinanza. Il numero sta crescendo anno dopo anno: erano 29 mila nel 2005, 66 mila nel 2010. Sono raddoppiate cinque anni dopo.
I «nuovi italiani» e la popolazione straniera residente stanno crescendo e si radicano in una società dove hanno pochi diritti e quelli ottenuti dalla legge sullo «ius soli temperato» sono ancora condizionati ad uno status economico della famiglia di provenienza. Il 59% della popolazione straniera risiede al Nord, oltre un quinto in Lombardia. Il 25% risiede nel Centro: 640 mila nel Lazio. Solo il 16% vive a Sud: 233 mila in Campania. Le motivazioni di questa riduzione demografica sono attribuite a fattori principalmente economici dalla politica e dai sindacati: la crisi economica, la mancanza di una politica industriale, il precariato, una scarsa ma tutta da dimostrare attenzione verso le politiche della famiglia. Il ministro della Salute Beatrice Lorenzin ha annunciato nuove misure a sostegno delle donne che lavorano e un rilancio del «bonus bebé». A suo avviso «le culle vuote sono il principale problema economico del paese».
I dati Istat hanno creato una nuova emergenza - non si può dire certo sconosciuta - che porterà il governo a presentare «mozioni a sostegno della famiglia», così ha promesso il ministro per gli affari regionali Enrico Costa, alfaniano dell’Ncd. Tra le sue deleghe c’è anche quella alla famiglia», com’è noto materia delle regioni. Considerate le misure analoghe già adottate dal governo, si preannunciano formule parziali estranee ad una chiara visione universalistica della mancanza di tutele - come il reddito minimo - ma organica a una visione frammentata della società. Il calo delle nascite e della riduzione della popolazione attiva può essere dovuta alla mancanza di un lavoro dignitoso. E anche alla pervicace mancanza di un welfare universale. ro. ci.
«L’Ue non esiste più se non come entità burocratica. Lo spettacolo di questi due giorni di Consiglio europeo - il vertice dei capi di Stato e di governo - lo ha sancito con plastica evidenza: non è stata altro che un’assemblea di Stati nazione e pure litigiosi».

Il Fatto Quotidiano, 20 febbraio 2016 (m.p.r.)

Che alla fine l’accordotra i leader dell’Ue eDavid Cameron - altermine di una trattativainfinita di cui non si conosconoi dettagli - serva davveroa trattenere Londra; che sifaccia finta o meno di avere unastrategia comune su migrantie profughi; che mentresi introducono discriminazionitra i cittadini europei si ostentinoo meno sorrisi a favoredi telecamera. Che questoavvenga o no una cosa è certa:l’Ue non esiste più se non comeentità burocratica. Lospettacolo di questi due giornidi Consiglio europeo - il verticedei capi di Stato e di governo- lo ha sancito con plasticaevidenza: non è stata altroche un’assemblea di Statinazione e pure litigiosi. Eccoun breve racconto per punti.

Brexit
Trattative infinite aBruxelles per dare qualchecartuccia a Cameron da giocarsisul fronte del Sì al referendumsulla permanenza diLondra nell’Ue (gli euroscetticisono avanti di 2 puntinell’ultimo sondaggio e tra lorosi schiera anche il ministrodella Giustizia di Cameron).L’accordo doveva essere sancitoieri mattina, ma l’annuncio è arrivato solo alle 10 di sera:«Il teatro è finito», ha twittatola presidente lituana DaliaGrybauskaite. Almeno alla fine- dopo il rinvio di colazione,pranzo e merenda - i leader europeisi sono sfamati nella cenacomune. Mentre andiamo instampa, non si conoscono iparticolari dell’accordo. I retroscenadell’ultim’ora sostengonoche Londra non avràun potere di veto sulle sceltedell’Eurozona (di cui non faparte), ma ha ottenuto il “frenodi emergenza”: una discriminazioneper i lavoratori europeiche si trasferiscono in GranBretagna, i quali - in sostanza -avranno assegni familiari piùleggeri rispetto ai colleghi enon avranno diritto alle casepopolari. E questo, pare, per 7anni: Bruxelles aveva proposto4 anni, Londra ha replicatochiedendone 13, l’accordo - dicono- è arrivato nel mezzo.

Austria
Come promesso, sen’è fregata del divieto di Bruxelles(“misure illegali”) e delleposizioni degli altri leadereuropei e ieri ha chiuso le frontiere(autorizzate 80 richiestedi asilo al giorno e 3.200 transitiverso altri Paesi): «L’annoscorso abbiamo preso 90 milapersone, quest’anno abbiamodeciso di accogliere 37.500 richiedentiasilo. Se in proporzionealla popolazione ognipaese facesse come noi - hadetto il cancelliere Werner Faymann- potremmo distribuire2 milioni di rifugiati». L’Italia,ovviamente, non gradisce:«Creare barriere al Brennero- dice il ministro Alfano -è una pura illusione: non si puòrisolvere il problema dei migrantiin un solo Paese».

L’Ungheria e gli altri
Il governodi Orban si è schieratocon Vienna e ha annunciatoche domani chiuderà i varchiferroviari con la Croazia. IPaesi della rotta dei Balcani(Slovenia, Croazia, Serbia eMacedonia) faranno altrettanto:hanno, peraltro, già firmatoun accordo con l’Austria.Esiste pure un piano B promossoda Polonia, RepubblicaCeca, Slovacchia e Ungheria:una barriera in Macedonia senon si riuscirà a sigillare lafrontiera turca (la CommissioneUe chiede a Erdogan di faredi più, ma Ankara non vuole rinunciarea un lucrativo poteredi ricatto sull’Europa).

Germania
Il ministrodell’Interno tedesco Thomasde Maizière, ieri al Bundestag,ha minacciato Austria, Ungheria,etc: «È inaccettabileche alcuni Paesi tentino di trasferirei problemi comuni unilateralmentesulle spalle deitedeschi. Questo, alla lunga,non sarebbe senza conseguenze».Affronteremo la questionedei migranti, ha spiegatopoi, negli accordi di Schengen«finché sarà possibile».

Grecia
Alexis Tsipras, a cui èstato ordinato di sigillare le suefrontiere entro marzo, ieri hatentato di uscire dall’angolo:ha minacciato di non votarel’accordo sulla Brexit se non sirisolve la questione migranti.Hollande e Merkel lo hannotranquillizzato: c’è tempo finoa marzo e Bruxelles “farà la suaparte” (cioè, darà dei soldi).

Italia
Matteo Renzi chiedein sostanza che venga rispettatol’accordo sui “ricollocamenti” di una parte dei profughiche arrivano in Italia(40mila in due anni) e Grecia(66mila) sottoscritto mesi fa.Ad oggi, dicono i numeri dellaCommissione, sono state ricollocate288 persone dall’Italia e 295 dalla Grecia. Il principaleostacolo sono i Paesidell’Est, che rifiutano i ricollocamenti:Renzi ha propostodi penalizzarli economicamentesui trasferimenti comunitari;Ungheria e Polonial’hanno definito “un ricatto”.

I migranti
Il conflitto siriano- dice l’Onu - ha creato 13milioni di profughi, la maggiorparte dei quali è nei paesi confinanti:nel 2015 un milione dipersone ha tentato, comunque,di raggiungere l’Europa,venti volte più che nel 2014.Anche quest’anno gli arrividovrebbero essere un milione.Tra le poche decisioni delConsiglio: i flussi vanno contenutianche coi respingimentialle frontiere esterne.

«Dall’affare tabacchi a Mani Pulite, Storie (e guai) di chi si oppose a scandali e ruberie».

Corriere della sera, 19 febbraio 2016 (m.p.r.)

Giù le mani da Giovanna Ceribelli. Troppe volte, nel passato più recente e più remoto, chi ha denunciato uno scandalo come la commercialista di Caprino Bergamasco che ha fatto scoppiare l’ultimo bubbone della Sanità lombarda è stato abbandonato a se stesso, isolato, punito. Come fosse colpevole di non essersi fatto gli affari suoi.

Successe un secolo e mezzo fa a Cristiano Lobbia, il patriota garibaldino e deputato che per primo denunciò al Parlamento di Firenze la vergognosa cessione per quindici anni a faccendieri raccolti intorno al Credito Mobiliare, in cambio di un’anticipazione di cassa di 180 milioni (meno della metà di quelli offerti senza accordi-capestro da finanzieri parigini e londinesi) della Regia Tabacchi, il monopolio che rappresentava allora secondo il banchiere Rothschild «l’unica entrata sicura dello Stato». Fu fatto a pezzi, il Lobbia. Tentarono di ammazzarlo, gli scatenarono addosso un processo infame per procurato allarme dal quale troppo tardi sarebbe uscito vittorioso, allestirono una macchina del fango per demolire la sua immensa popolarità, tennero per mesi chiuso il Parlamento teorizzando che a camere chiuse non c’era l’immunità... Quando gli restituirono l’onore, dopo anni di strani suicidi e morti improvvise, era ormai un uomo finito. Destinato a morire, a 50 anni, di crepacuore.
E da allora purtroppo non è cambiato molto. Lasciando pure perdere Giacomo Matteotti, che secondo diversi storici potrebbe essere stato ucciso anche per avere scritto un articolo pubblicato dopo la sua morte da English Life sulla «condotta della Banca Commerciale» e sui rapporti del governo fascista con la Sinclair Oil Company, molti degli scandali più recenti hanno avuto epiloghi sconfortanti.
Ricordate come deflagrò Tangentopoli nel 1992? Un giovane imprenditore lombardo, Luca Magni, alla guida di un’impresa di pulizie, si ribellò alle pretese di Mario Chiesa, il presidente del Pio Albergo Trivulzio che per una commessa voleva una tangente, e aiutò i carabinieri a incastrare l’estorsore. Da lì, venne giù tutto: l’arresto dell’esponente socialista, l’inchiesta sul sistema di finanziamenti ai partiti, il crollo di Bettino Craxi e gran parte dei partiti della Prima Repubblica…
Fu additato come un eroe, Luca Magni. Vent’anni dopo avrebbe confidato a ilgiorno.it : «Rifarei tutto. Ma cercherei di tutelarmi di più. Ho denunciato il sistema delle tangenti che strozzava la mia azienda ma non potevo prevedere che in poco tempo avrei perso tutti gli appalti. Dopo la denuncia, gli enti pubblici non mi hanno più invitato alle gare. Nel ‘92 l’azienda fatturava un miliardo di lire, nel ‘94 solo 200 milioni». Un quinto. «Non ho messo in conto le ritorsioni economiche e lavorative che avrei incontrato. L’azienda, così, è fallita». Ha ricominciato da zero con un’altra impresina e un dogma: mai più enti pubblici.
E ricordate lo scandalo della Sanità lombarda del ‘99? Citiamo la cronaca di Paolo Biondani sul Corriere di allora: «Più di 300 medici milanesi imputati di corruzione. E un big della sanità privata, Giuseppe Poggi Longostrevi, accusato di aver gestito, con una “banda” di familiari e dipendenti, una truffa da 60 miliardi ai danni delle casse pubbliche, ossia di tutti i contribuenti». L’inchiesta era partita da un vigile urbano, Massimo Mola, che aveva rifiutato una tangente di 300 milioni «offertagli da Poggi nel tentativo di insabbiare un abuso edilizio». Quando andò a cercare quel piccolo grande uomo Francesco Battistini lo trovò relegato nel suo ufficetto, dove mai aveva ricevuto un encomio che non fosse una pacca sulle spalle dagli amici. Quanto all’altro protagonista della denuncia che aveva fatto crollare il sistema marcio, il manager sanitario Giuseppe Santagati, avrebbe raccontato una decina di anni dopo al Venerdì: «Fui cacciato. Sostituito al vertice della mia ex azienda (ironia della sorte o scelta calcolata?) da un mio omonimo: Santagati Giuseppe, stesso nome e stesso cognome». Lui tornò a fare l’avvocato.
Maria Grazia Blefari, messa a dirigere la Stazione unica appaltante della Provincia di Reggio Calabria, area ad altissimo rischio, appena scoprì nel 2012 che la busta di uno dei concorrenti a un appalto era stata trovata sul divano e non nella cassaforte dove doveva stare, raccolse tutto il coraggio che aveva e si fiondò alla Finanza. Venne fuori che buona parte degli appalti era pilotata da dipendenti infedeli che aprivano le buste, controllavano le offerte e informavano la tal ditta che vinceva sempre. Finirono in manette una ventina di addetti, imprenditori, intermediari. I magistrati stessi, in un’ordinanza, resero omaggio alla signora: «L’inchiesta trae origine dall’ammirevole tenacia con la quale un funzionario fedele, la dr.ssa Blefari…». Applausi e complimenti. Pochi mesi dopo la dirigente veniva rimossa. Grazie, vada pure.
Torniamo in Padania? Ecco il caso di Andrea Franzoso, il funzionario delle Ferrovie Nord Milano che denunciò l’allora presidente Norberto Achille, spinto a dimettersi per la scoperta delle incredibili spese pazze fatte con la carta di credito aziendale. Che fine ha fatto? Risponde un’interrogazione parlamentare del M5S e un ricorso al Tribunale del lavoro. Dove si legge che l’uomo, reo di aver fatto il proprio dovere, è «costretto a trascorrere la giornata lavorativa nella più completa inattività e con progressivo isolamento: i colleghi di lavoro erano restii a recarsi nel suo ufficio per timore di essergli associati e subire ritorsioni».
E potremmo andare avanti per ore. Raccontando storie su storie. Una più amara dell’altra, come quella del sindacalista salernitano Giuseppe Cicalese, che per difendere i colleghi perbene denunciò l’anno scorso alcuni assenteisti dell’ospedale assolutamente indifendibili. Lo Stato di lui si è dimenticato, ma non i prepotenti del cartellino. Che sono arrivati addirittura a minacciarlo di morte. Prova provata, se mai ce ne fosse ancora bisogno, della necessità urgentissima di una legge che tuteli fino in fondo chi fa il proprio dovere denunciando andazzi intollerabili. Le chiacchiere e i battimani di un giorno hanno proprio stufato .

Chissà quando si aprirà l'armadio nel quale (supponiamo a Bruxelles) sono conservati gli atti della vergogna di questo secolo, la strage dei migranti?

Ilsole24ore.com, 15 febbraio 2015

L’Armadio della vergogna sarà desecretato da domani. Si tratta dei documenti rivenuti nel 1994 fra cui si trovano 695 fascicoli d'inchiesta e un registro generale con 2.274 notizie di reato relative a crimini di guerra commessi sul territorio italiano durante l'occupazione nazifascista. I documenti saranno desecretati secondo la “direttiva Renzi” e sono destinati ad apparire sul canale dell'archivio storico della Camera.

Da domani consultabile l’elenco
Da domani, dunque, sul sito internet dell'Archivio storico della Camera dei deputati, all'indirizzo http://archivio.camera.it/, sarà possibile consultare l'elenco e richiedere copia dei documenti declassificati della Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti che nella XIV legislatura si è occupata della vicenda del cosiddetto «armadio della vergogna». Istituita con la legge 107/2003, la Commissione aveva il compito di indagare sulle anomale archiviazioni provvisorie e sull'occultamento dei 695 fascicoli ritrovati nel 1994 a Palazzo Cesi, sede della Procura generale militare, contenenti denunce di crimini nazifascisti, commessi nel corso della seconda guerra mondiale e riguardanti circa 15mila vittime.

Boldrini: un nuovo capitolo del percorso di trasparenza di Montecitorio

«Sono contenta che il percorso di trasparenza di Montecitorio si arricchisca di un nuovo e importante capitolo - ha commentato la presidente Laura Boldrini - perché un Paese veramente democratico non può avere paura del proprio passato». A seguito di specifiche sollecitazioni della presidenza della Camera alle varie autorità che le avevano redatte originariamente, sono state declassificate e rese ora consultabili. Si tratta di documenti che la Commissione d'inchiesta ha acquisito dagli archivi del ministero degli Affari esteri, del ministero della Difesa, dell'allora Servizio informazioni e sicurezza militare (Sismi), del Consiglio della magistratura militare e del Tribunale di Roma. La disponibilità di questi documenti completa e integra i testi dei resoconti delle sedute della Commissione che erano già stati pubblicati in rete in corso di svolgimento, fra l'8 ottobre 2003 e il 16 febbraio 2006, e che sono tuttora consultabili nel testo integrale all'indirizzo http://legxiv.camera.it/_bicamerali/nochiosco.asp?pagina=/_bicamer ali/leg14/crimini/home.htm

. Il manifesto la Repubblica, 13 febbraio 2016 (m.p.r.)

Il manifesto

UN ABBRACCIO NELLA STORIA PER DUE MILIARDI DI CRISTIANI
In America latina lo avevano annunciato come «il vertice del millennio». Iperbole a parte, l’abbraccio di ieri, all’aeroporto internazionale dell’Avana, del papa Francesco e del patriarca di tutta la Russia Kirill ha un valore storico per i due miliardi di cristiani che popolano la terra. Dopo un millennio di separazione, dopo ben venti anni di trattative, i due massimi rappresentanti della Chiesa cattolica e di quella ortodossa si sono incontrati per segnare «un nuovo inizio» della civilizzazione cristiana.

L’incontro è avvenuto in un clima di grande emozione. Il patriarca Kirill, in visita ufficiale a Cuba, aveva passato la mattinata in cerimonie ufficiali e in un «incontro di cortesia» col presidente Raúl Castro.

Ma l’attenzione generale era polarizzata lontano dal centro dell’Avana, verso l’aeroporto José Martí, dove duecento giornalisti erano in attesa dell’aereo papale. Che è giunto alle due del pomeriggio locali. Ad attenderlo,per il saluto ufficiale, il presidente Raúl e il vertice ecclesiale cubano guidato dal cadinale Jaime Ortega. Caloroso il saluto tra il papa e il più giovane dei Castro, finalmente sotto un solo caraibico dopo settimane di tempo plumbeo. La cerimonia di benvenuto per il suo secondo viaggio a Cuba è stata però semplice, ridotta al minimo.

Poi il presidente cubano ha accompagnato il pontefice verso la sala dell’aeroporto dove lo attendeva il patriarca di tutta la Russia. I due massimi esponenti della cristianità hanno avuto un colloquio di un paio di ore. Seduti uno di fronte all’altro, prima sotto i riflettori delle tv di tutto il mondo e i flash dei reporter per le immagini destinate a rimanere nei libri di storia; poi isolati e protesi ad affrontare i temi che possano permettere alle due chiese, la cattolica occidentale e l’ortodossa orientale, di stabilire «un ponte» verso un futuro.

Nella notte di giovedì era stata messa a punto una dichiarazione congiunta che esprime punti di vista comuni sui problemi della lotta al terrorismo, sulla necessità di bloccare la persecuzione nei confronti dei cristiani che, in Medio oriente e in Africa del Nord, sono bersaglio di attacchi da parte di estremisti musulmani, militanti dello Stato islamico in primis.

La dichiarazione affronta anche temi etici e sociali, come la difesa della vita del matrimonio e un appello alla pace. Non veniva escluso che i due leader religiosi potessero modificare in qualche punto la dichiarazione, spingendo in avanti il terreno di discussione, in modo da dimostrare che l’incontro è stato veramente un «nuovo inizio»

In ogni modo, da entrambe le parti si è è sottolineato che sia l’incontro, sia la dichiarazione rappresentano «uno storico apporto alla causa ecumenica, al dialogo interreligioso in generale e alla pace nel mondo» e una grande e storica opportunità «perché centinaia di milioni di fedeli nel mondo lavorino assieme in favore di una convivenza civile e per la pace».

In seguito, il papa proseguirà per la sua importante visita in Messico, mentre Kirill resterà fino a domenica a Cuba e poi proseguirà nella sua prima missione in America latina, in Brasile, Cile e Paraguay.

Cuba ha espresso chiaramente l’orgoglio per essere stata scelta come sede dello storico evento. Si tratta per il vertice politico cubano di qualcosa di ben più importante che rappresentare «un terreno neutro», in ballo è il riconoscimento della «vocazione di pace e di dialogo» dell’isola, che già da anni ospita le trattative di pace tra governo colombiano e la guerriglia delle Farc e da più di un anno è protagonista di trattative per normalizzare i rapporti con gli Stati uniti. Il presidente Raùl Castro, è previsto partecipare nella foto che vedrà riuniti i due massimi leader della cristianità.

Immagine che gli conferisce lo status di politico internazionale, credibile e capace di mediazioni efficaci in difficili situazione di crisi.

La Repubblica
STORICO ABBRACCIO ALL'AVANA TRA FRANCESCO E IL PATRIARCA

di Marco Ansaldo

L’Avana. Finalmente. «Somos hermanos ». L’avvio è in italiano, poi in spagnolo. L’interprete russo, paziente e divertito, traduce tutto. Siamo fratelli, dice Francesco a Kyril. E un triplice bacio sulle guance, alla russa, completato da un abbraccio, suggella a Cuba, trasformata in isola del negoziato, il primo incontro nella Storia fra un Pontefice di Roma e il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie.

Dopo mille anni, cattolici e ortodossi, parti separate della grande famiglia cristiana, si riconoscono e si parlano direttamente attraverso i loro leader. È la prima volta dopo lo scisma del 1054, e la nascita nel 1589 del Patriarcato di Mosca in rotta con Costantinopoli. Oggi, dal suo ridotto nella sede di Istanbul, al Fanar, il Patriarca Bartolomeo benedice l’incontro via Twitter.

All’appuntamento, appena sbarcato all’aeroporto “José Martì” dell’Avana, Jorge Bergoglio appare molto felice. Ripete la parola “fratello” tre o quattro volte. «Siamo fratelli, è molto chiaro che questa è la volontà di Dio». Più contenuto l’entusiasmo di Kyril, ma ugualmente contento, però, di un incontro che anch’egli ha cercato e voluto. Il Papa e il Patriarca si sono accomodati su due poltrone di legno, con cuscini bianchi. E il bianco è il colore dominante nella sala. La veste del Papa. Kyril con indosso un copricapo candido. I due leader affiancati da due uomini in nero, il metropolita Hilarion, “ministro degli esteri” del Patriarcato di Mosca, e il cardinale svizzero Kurt Koch, presidente del dicastero vaticano per l’Unità dei cristiani.
L’incontro dura due ore. «Anche se le nostre difficoltà non si sono ancora appianate c’è la possibilità di incontrarci e questo è bello», risponde Kyrill alle osservazioni di Francesco. E subito dopo ammette: «Adesso le cose sono più facili.Le due Chiese possono ora collaborare pienamente, con ampia reposnsabilità». Ha detto ancora il Papa: «Abbiamo parlato con chiarezza. Ho sentito la fiducia di questo dialogo. Abbiamo parlato come fratelli - ha aggiunto Bergoglio - abbiamo lo stesso battesimo e ci siamo trovati d’accordo nel fatto che l’unità si costruisce camminando. Siamo usciti con una serie di iniziative e spero che si possano realizzare. Un grande ringraziamento al popolo cubano e al suo presidente. Cuba sarà la capitale dell’unità».
Tre ore in tutto, prima che il Papa parta per il Messico. È il momento della firma di una dichiarazione congiunta: «Chiediamo alla comunità internazionale - è scritto - di agire urgentemente per prevenire l’ulteriore espulsione dai cristiani dal Medio Oriente». Due brevi discorsi, infine, del Patriarca e del Papa, concludono una giornata che la Storia ricorderà. Con lo scambio dei doni: al Patriarca una reliquia di San Cirillo e un calice; al Papa una copia della Madonna di Kazan, che ha avuto una parte importante nei rapporti tra Roma e Mosca: una icona di Maria particolarmente cara agli ortodossi.
«Abbiamo la sensazione di essere arrivati a un traguardo, ma anche a un punto di partenza - spiega il portavoce papale, padre Federico Lombardi - La chiesa ortodossa russa è un tassello fondamentale del quadro ecumenico». In prospettiva futura, oltre all’impegno immediato per la difesa dei cristiani nei teatri di guerra e soprattutto in Medio Oriente, argomento toccato fra i due, anche la possibilità di un viaggio del Pontefice a Mosca. A questo punto un passo non più impossibile dopo l’incontro di Cuba.
Al suo arrivo all’aeroporto, Francesco è stato accolto da Raul Castro, accompagnato dal ministro degli Esteri Bruno Rodríguez, e dal cardinale dell’Avana, Jaime Ortega. È la seconda volta in pochi mesi che il presidente cubano accoglie il Pontefice, che aveva già fatto tappa a Cuba lo scorso settembre, prima della visita negli Stati Uniti. Per l’isola, essere promossa a “territorio neutro” del negoziato tra Vaticano e Patriarcato ortodosso di Mosca, secondo la definizione del cardinale Parolin, è un passo avanti notevole, sia sul fronte dei rapporti interni, sia sotto il profilo internazionale. Una mossa che rimette fortemente i Castro al centro dell’attenzione mondiale.
Il Papa era arrivato all’Avana con grandi speranze. «Oggi è un giorno di grazia. L’incontro con il Patriarca Kyrill è un dono di Dio. Pregate per noi», aveva scritto nel suo ultimo tweet. La notizia era stato data a sorpresa la settimana scorsa, dopo decenni di attese e tentativi. A Jorge Bergoglio è così riuscito ciò che Benedetto XVI e Giovanni Paolo II non erano stati in grado di portare a termine. «Ho la Cina e la Russia nel mio cuore», ha confidato Francesco sul volo che lo stava portando a Cuba, riflettendo su una geopolitica vaticana che si sta plasmando sotto le sue mani. Oggi intanto il Pontefice comincerà la sua tappa in Messico. Sei giorni ricchi di visite e di incontri: dalla frontiera con gli Stati Uniti all’area del Chiapas.
«“Il governo è libero di avvalersi di consulenze”, ha detto il ministro Maria Elena Boschi in Parlamento due settimane fa». Il Fatto Quotidiano, 12 febbraio 2016 (m.p.r.)

Una decisione formale non è mai arrivata, ma il premier Matteo Renzi non si rassegna facilmente all’idea di abbandonare il suo progetto di coinvolgere l’amico Marco Carrai a Palazzo Chigi per la sicurezza cibernetica. “Il governo è libero di avvalersi di consulenze”, ha detto il ministro Maria Elena Boschi in Parlamento due settimane fa.

In queste settimane sono state quindi vagliate le possibilità di coinvolgimento di Carrai. L’ipotesi più estrema era quello di “zar” della cyber sicurezza, direttamente sotto il premier. L’idea di una figura simile era circolata anche nel 2012 quando il presidente americano Barack Obama aveva sollecitato il governo Monti ad ammodernare il proprio apparto di intelligence informatica. Mario Monti, che pure ha riformato il settore, ha scartato l’idea: troppo invasiva, rischiava di rompere il delicato equilibrio nel nostro intelligence (Aise per l’estero, Aisi per l’interno, il Dis a coordinare). Anche oggi non sembra percorribile. Restano allora gli altri due livelli, quello operativo e quello burocratico.
Come effetto della riforma Monti che dal 2012 ha attribuito la responsabilità della cyber security direttamente al premier, i servizi hanno stipulato delle convenzioni con le grandi aziende che gestiscono dati sensibili per la sicurezza o con reti che potrebbero essere bersagli sensibili. Infrastrutture, telecomunicazioni, energia. Nei mesi scorsi Carrai ha contattato alcuni grandi gruppi italiani (Telecom, Eni, Generali, Intesa) proprio per offrire servizi di cyber sicurezza per la protezione dei dati, tramite la sua azienda costituita da poco, la Cys4.
Nessun blind trust (Carrai potrebbe passare le quote della Cys4 al fratello) potrebbe mai mettere al riparo da accuse di conflitto di interessi, se Carrai si trovasse al contempo a poter accedere dal lato dell’intelligence agli stessi dati che si offre di proteggere e gestire con la sua impresa privata. Anche questa soluzione, quindi, sembra scartata visto che perfino il Quirinale si è dimostrato sensibile alle questioni di opportunità. I servizi di sicurezza sono cosa troppo delicata per trascinarli nella polemica politica sul Giglio Magico renziano.
Resta l'opzione minore, l’unica che sembra rimasta percorribile, ma anche la meno attraente per Carrai. Cioè ereditare parte delle competenze che oggi sono del consigliere militare della presidenza del Consiglio, il colonnello Paolo Puri. La riforma Monti dell’intelligence ha istituito il “nucleo per la sicurezza cibernetica” che si riunisce una volta al mese e ha “funzioni di raccordo tra le diverse componenti dell'architettura istituzionale che intervengono a vario titolo nella materia della sicurezza cibernetica, nel rispetto delle competenze attribuite dalla legge a ciascuna di esse”. Nel concreto deve valutare se l’Italia è in condizioni di affrontare minacce cibernetiche, attacchi hacker e così via, se rispetta gli standard internazionali e gli accordi di collaborazione. Ma senza nessuna influenza diretta sulle operazioni o su come l’intelligencesi muove davvero, sul campo di battaglia della rete.
L’articolo 8 del dpcm del 24 gennaio 2013 prevede che alle riunioni del nucleo possono partecipare anche “operatori privati interessati alla materia della sicurezza cibernetica”. Carrai può partecipare, almeno a quel tavolo. Non avrà molto potere, ma i suoi affari con la Cys4 ne possono trarre qualche beneficio.
L'intervento del presidente dei vescovi italiani conduce a distorcere l'uso di una forma di votazione (il voto segreto) che era finalizzato a garantire la libertà delle coscienze, oggi è lo strumento della loro coartazione.

Il Fatto quotidiano, 12 febbraio 2016

Il presidente della Cei, cardinale Bagnasco, ha superato la linea sottile che separa il diritto della Chiesa di esprimere valutazioni, esortazioni e moniti in assoluta libertà, specie su questioni etiche, dalla vera e propria ingerenza in questioni che riguardano solo il Parlamento. Un conto è dare voce al sentimento morale cattolico contro le unioni omosessuali, in particolare contro le adozioni; e persino sollecitare le resistenze di una parte consistente dell’opinione pubblica avversa alla nuova legislazione. In una società liberale questo è concesso, anzi è dovuto agli esponenti delle confessioni religiose. Ed è bene che sia così.

Ma tutt’altro conto è intervenire nei meccanismi che regolano il processo di formazione delle leggi, addirittura stabilendo che il voto parlamentare deve essere segreto anziché palese. Una scelta spettante, come è noto, al presidente dell’assemblea, eventualmente d’intesa con i capigruppo. Senza dubbio non spetta a un’entità esterna, tantomeno a un’autorità religiosa da cui ci si attende semmai il massimo rispetto verso un delicato e per certi versi drammatico passaggio parlamentare. Bagnasco è noto come uomo di equilibrio, ma questa uscita non proprio felice tradisce il momento difficile della Chiesa, lacerata al suo interno più di quanto non si voglia ammettere per le conseguenze del pontificato “rivoluzionario” di Bergoglio. È tormentata la Chiesa, diviso il Parlamento, incerti o diffidenti molti cittadini. Non tanto nel merito delle unioni civili, ormai accettate dal sentire comune — e qui si potrebbe dire che il paese è più avanti di chi siede in Parlamento — , quanto sul controverso nodo delle adozioni.

Passano i giorni, si rinvia l’inizio delle votazioni, ma non si vede un possibile punto d’incontro. Anzi, la tensione tende a crescere in Senato e certi fragili accordi dei giorni scorsi sono già saltati oppure non trovano concreta applicazione. Come lo scambio fra Pd e Lega: da un lato, la rinuncia di quest’ultima a mettere in votazione una massa esorbitante di emendamenti; dall’altro, una linea più aperta e meno intransigente del Pd su altri emendamenti sostanziali che non potranno essere cassati con espedienti di tecnica parlamentare.

In altri termini, la matassa non si sbroglia e la prospettiva di una legge Cirinnà amputata di alcuni aspetti non secondari — le adozioni, appunto — oggi sembra plausibile, anche se non ancora probabile. È chiaro che le parole del presidente della Cei hanno l’effetto di esasperare gli animi. Il ricorso al voto segreto è una prassi legittima in Parlamento, sebbene limitata a circostanze ben definite. Un tempo serviva a proteggere il deputato o il senatore da rivalse e vendette del potere costituito, oggi che rischi non ce ne sono diventa spesso solo un alibi e una scomoda scappatoia. Lanciare il sasso e ritirare la mano, secondo un’immagine ben nota.

La storia repubblicana insegna che l’evoluzione del costume e il rapporto fra cattolico e laici trae vantaggio da un confronto ragionevole, privo di estremismi di qualsiasi tipo. Non è detto quindi che l’iniziativa della Cei, quella sottile linea rossa che è stata scavalcata dal presidente dei vescovi, sia destinata a produrre risultati utili per il punto di vista della Chiesa. Il senso religioso e morale di un paese non si esalta e non si cancella a seconda di come il Parlamento vota una legge della Repubblica.

Ancor meno se questo o quell’emendamento viene approvato grazie allo scrutinio segreto che scava nelle inquietudini dei parlamentari. Se il voto deve essere di coscienza, esso merita di manifestarsi senza infingimenti. Altrimenti si tratterebbe di una coscienza molto debole.E quando la posta in gioco è etica, il primo a rifiutare una coscienza debole e irresoluta dovrebbe essere il cardinale Bagnasco.

Insomma, Obama promette di compiere un atto dovuto (aiutare sul caso Regeni) se l'Italia aiutagli USA in due azioni nefaste: gettare più benzina sul fuoco della guerra e decretare, con il TTIP, la prevalenza degli interessi economici sui diritti personali, sociali, ambientali.

Ilsole24ore.com9 Febbraio 2016

Nel primo vertice tra Obama e Mattarella, l’Italia segna un punto a favore sui dossier più scottanti: migranti, Libia, economia ed Europa. Il presidente Usa vuole impegnare la Nato nella crisi umanitaria nel Mediterraneo. E ha offerto collaborazione sull’uccisione di Regeni.

Il tono affabile con cui Barack Obama prende la parola e si rivolge al suo «collega professore di diritto costituzionale» Sergio Mattarella racconta molto del clima di questo primo faccia a faccia. Sul tavolo c’erano questioni piuttosto cruciali e dirimenti per l’Italia ma quella cordialità con cui il presidente americano parla del capo dello Stato - «il primo siciliano» - dà una sfumatura in più su come siano andati i colloqui. Che certamente segnano un punto a favore dell’Italia su almeno tre dossier: crisi dei migranti, Libia, economia ed Europa.

Nello studio ovale, illuminato da una giornata di sole, i due presidenti arrivano con almeno mezz’ora di ritardo rispetto alla rigida programmazione della Casa Bianca. E già il fatto che il vertice sia andato oltre i tempi previsti – in tutto è durato un’ora e trenta - diventa il primo indizio del buon esito dell’incontro a cui ha partecipato anche il ministro Paolo Gentiloni. Che ha una novità, soprattutto: l’impegno di Obama di coinvolgere la Nato nella crisi dei migranti non solo per ragioni di sicurezza ma anche per gli aiuti umanitari e il salvataggio di vite. Un cambio di scenario strategico per l’Italia, che è in prima linea nella gestione dell’emergenza, e anche un punto a favore di questa visita di Mattarella alla Casa Bianca. A quanto pare, si tratta un’ipotesi avanzata visto che Obama ha riferito al capo dello Stato di averne già parlato con la Merkel e di volerne informare e discutere al più presto con Renzi e con Hollande.

«Una collaborazione tra l’Ue, gli Usa e la Nato, per far fronte alla crisi umanitaria e smantellare il traffico di esseri umani», ha detto Obama riconoscendo «l’impatto terribile sull’Europa e sull’Italia in particolare». Seduti l’uno accanto all’altro nelle poltrone dello studio ovale, il caminetto che fa da sfondo, dopo Obama prende la parola Mattarella che conferma quella solida alleanza con gli Stati Uniti che «ci consente oggi e ci consentirà in futuro di fronteggiare sfide nuove e di sconfiggere i nemici della pace, della libertà e dei diritti umani».

E in effetti l’altro dossier scottante è quello dell’Isis che per oggi vuol dire anche Libia. Su questo fronte, la posizione portata da Mattarella ha avuto il placet della Casa Bianca e non era scontato visto che la linea americana è divisa: il Pentagono preme per un’azione militare a breve per impedire la diffusione dell’Isis mentre la Casa Bianca è più cauta. Ecco, ieri, Obama ha confermato a Sergio Mattarella che la volontà americana coincide con le posizioni italiane e dunque ci si muoverà entro il perimetro Onu aspettando la formazione di un governo unitario e intervenendo - eventualmente - solo su richiesta di quest’ultimo. È noto che ci sono ancora dei problemi sulla nascita di un governo libico ma ieri il capo dello Stato e Obama sono stati concordi nel dare più tempo ed evitare che un’azione militare intempestiva porti i circa mille miliziani libici - che oggi contrastano l’Isis - su posizioni anti-occidentali. «Abbiamo discusso degli sforzi congiunti per aiutare la Libia a formare un governo che permetta alle loro forze di sicurezza di stabilizzare il loro territorio e neutralizzare l’Is», ha confermato Obama.

Anche questo passaggio non era scontato. L’interesse americano è oggi prevalentemente spostato su Siria e Iraq e solo per una parte marginale sulla Libia, argomento fino a un po’ di tempo fa considerato tabù per l’uccisione dell’ambasciatore Stevens negli anni in cui Hillary Clinton era segretario di Stato. Oggi il tabù è caduto dopo che la Clinton ha reso una lunghissima audizione alla commissione del Congresso che indaga su quella vicenda e da cui è uscita senza danni. E dunque sulla Libia l’Italia incassa un appoggio anche perché gli Usa apprezzano l’intervento italiano in Iraq. «Grazie per il lavoro di protezione alla diga di Mosul» ha detto Obama nelle dichiarazioni finali.

Infine, un altro successo di questa visita è l’assist di Obama a politiche espansive in Europa mentre l’Italia si sta facendo parte attiva della firma entro l’anno del Ttip, il trattato di liberalizzazione commerciale con gli Usa. E se ne capisce il motivo leggendo i numeri: 1 miliardo di investimenti americani in Italia durante il 2014, sono invece 3,7 miliardi quelli italiani in Usa.

«Servono impegni affinché non si ripresentino le gravi crisi del passato che destabilizzano i Paesi sviluppati e precludono una vita migliore nei Paesi in via di sviluppo», ha detto Mattarella mostrando di aver trovato ascolto e appoggio presso Obama in questo momento di divisioni in Europa anche sulle ricette economiche. E soprattutto c’è una forte intesa a evitare Brexit. «Vogliamo la Gran Bretagna a bordo», ha detto il presidente Usa.

Ma al termine della visita, quando la stampa aveva lasciato lo studio ovale, Obama ha offerto a Mattarella la collaborazione Usa alle indagini sull’uccisione di Giulio Regeni in Egitto. Di questo avevano già parlato il ministro Gentiloni e Kerry, presenti all’incontro tra Mattarella e Obama insieme al vice presidente Biden e la consigliera della sicurezza Susan Rice.

Il Fatto Quotidiano, 5 febbraio 2016 (m.p.r.)

Qual è la differenza tra Augusto Pinochet, golpista cileno, e Abdal-Sisi, golpista egiziano? Nessuna differenza, risponderà chi non conosce Il Principe di Machiavelli nella versione in uso a Palazzo Chigi. L’ignaro si lascerà impressionare dalle similitudini tra i percorsi compiuti dai due generali. Tanto Pinochet quanto al-Sisi sono nel vertice militare quando il governo che li ha nominati sprofonda in una grave crisi di consenso. Entrambi pugnalano quel governo con un colpo di stato. Entrambi s’intestano il potere e massacrano oppositori. Entrambi massacrerebbero di più se non fossero frenati, il cileno dalla Chiesa, l’egiziano da Obama. Così Pinochet si ferma a quota 3 mila uccisi; al-Sisi probabilmente l’ha raggiunto. Parte alto, almeno 1.150 morti in un giorno, 14 agosto 2013. «Il più grave massacro di dimostranti nella storia dei crimini contro l’umanità», dice Sarah Leah Whitson, di Human Right Watch, ascoltata lo scorso novembre dal Congresso Usa.

Dai giorni della strage il regime ha continuato a reprimere nel sangue le manifestazioni e ha arrestato 41 mila egiziani, tra Fratelli musulmani e militanti di partiti laici. Uno studio legale cairota ha documentato, finché ha potuto occuparsene, 465 casi di tortura, 129 dei quali hanno condotto alla morte del torturato. Lo stupro delle donne arrestate, o di mogli o figlie di arrestati, è diventato un metodo per intimidire ed estorcere confessioni. La stampa non può scriverlo, una nuova legge stabilisce che è grave reato smentire la versione prodotta dalle centrali della repressione.
Ma allora perché - si domanderà a questo punto l’ignaro - Matteo Renzi si vanta (con la platea di Cl) di essere stato il primo capo di governo occidentale ad aver incontrato il Pinochet egiziano? Perché lo definisce “un grande statista” e invita a riconoscergli «il merito di aver ricostruito il Mediterraneo», frase priva di senso ma ammirativa nella sua sonorità? «La tua guerra à la nostra guerra, e la tua stabilità è la nostra stabilità», gli disse l’anno scorso, come ricorda impietosamente un saggio recentissimo, The Egyptians. Non sarà stato quel saltellare festoso intorno allo sterminatore lo spettacolo più basso mai offerto all’estero da un nostro premier, perfino più triste del Berlusconi acciambellato come un cagnolino nel salotto di casa Bush?
Quando poi constata che i salamelecchi di Renzi non hanno provocato il minimo sussulto nei partiti e nei media maggiori, l’ignaro comincia a sospettare che quelle smancerie corrispondano ai costumi di una classe dirigente cui l’odore del petrolio abbatte il senso del pudore. L’Eni ha interessi enormi in Egitto e la benevolenza del Cairo è necessaria per qualsiasi iniziativa militare in Libia, altra cruciale piazza petrolifera. Eppure neanche questo è sufficiente a spiegare gli slanci di Renzi, così intensi e reiterati da risultare sinceri. Quando il premier dice ad alla tv al-Jazeera che «in questo momento l’Egitto può essere salvato solo dalla leadership di al-Sisi (…), sono orgoglioso della nostra amicizia e lo aiuterò a proseguire nella direzione della pace», non recita. È davvero convinto che l’amico del Cairo applichi, con metodi inevitabilmente duri, quella famosa teoria di Nicolò Machiavelli oggi conosciuta come la dottrina del male minore.
Qui è cruciale sapere che Renzi si ispira al Machiavelli, come ci ricordano i giornali. Dunque diamo per scontato che il premier abbia letto Il Principe e ricordi il capitolo 17, dove sono i paragrafi che fondano la dottrina del male minore, spesso spiegata nei termini del fine che giustifica i mezzi. E così paiono interpretarla tanto Renzi quanto il nostro giornalismo. Ma per Machiavelli un governo incalzato da una suprema emergenza può ricorrere alla ‘crudeltà’, solo a patto che quel male porti a un bene maggiore; e comunque rappresenti la deroga, non il sistema. Il male praticato da al-Sisi non soddisfa né l’una né l’altra condizione. È il sistema, non la deroga. E non funziona. Non riesce a fermare gli attentati nel Sinai. Smantella legalità, accresce corruzione. E potenzia il terrorismo.
Nelle carceri e nei centri di tortura gli jihadisti incalzano i detenuti politici: ora sapete dove conducono non-violenza e democrazia in questa regione; e sapete anche quanto gliene importi alle democrazie europee dei diritti umani, li hanno scordati appena al-Sisi ha aperto i forzieri; convincetevi, l’unica soluzione è la guerra santa. Nessuno dei leader europei tranne Renzi si è spinto fino a dire ad al-Sisi quel che mai fu detto a Pinochet, neppure dall’amica Thatcher: «La tua guerra è la nostra guerra». Nel caso non improbabile che la casta militare liquidi al-Sisi e s’accordi con i protagonisti della tenace ‘primavera araba’, il machiavellismo alla Checco Zalone ci costerà molto più del disonore che oggi ci attira quella terribile ammissione di complicità.
«Invece di introdurre regole più severe e restrittive la maggioranza degli europarlamentari ha fatto il gioco dell’industria dell’automobile».

Repubblica.itGreenitalia.org, 3 febbraio 2016 (m.p.r.)


Repubblica.it
SMOG, L'EUROPARLAMENTO RADDOPPIA
I LIMITI DI EMISSIONI PER LE AUTO

di Antonio Cianciullo

Con pochi voti di scarto, approvata la modifica del regolamento sugli ossidi di azoto, i precursori delle polveri sottili. Socialisti e verdi si sono opposti ma hanno persodi

ROMA – Largo alle polveri sottili, quelle che corrodono i nostri polmoni, quelle che fanno scattare la febbre da smog contro la quale ci limitiamo a prendere l’aspirina dei blocchi del traffico. Misure vere no. O, almeno, no se entrano in conflitto con le industrie che contano. Oggi l’europarlamento ha votato a strettissima maggioranza l’approvazione di una modifica del regolamento che stabilisce il tetto delle emissioni di NOx, gli ossidi di azoto che sono precursori delle polveri sottili. La dose ammessa per legge è stata generosamente raddoppiata. Le auto potranno inquinare, per gli NOx, il 110% in più di quello che era stato stabilito prima del dieselgate.

Una volta scoppiato lo scandalo sono emersi infatti i trucchi di serie, il fatto che i laboratori di omologazione dei nuovi modelli, finanziati dalle case automobilistiche, ricorrevano a ogni sorta di stratagemmi (gomme super gonfie, lubrificanti speciali, aerodinamica modificata) per far sì che dalle prove in questi ambienti ovattati, dalle caratteristiche lunari, emergessero dati ben lontani da quelli misurabili sulle strade terrestri. E naturalmente molto più confortanti.

Ora che bisogna fare sul serio, con test veri che mostrano quanto inquina realmente ogni auto, cambiano le norme. Il tetto si alza. Il regolamento europeo 715 del 2007 aveva stabilito che per i veicoli euro 6 il limite di emissione per gli ossidi di azoto (NOx) fosse di 80 milligrammi a chilometro. Il voto del Parlamento ha fatto passare la norma proposta dalla Commissione che alza i limiti per gli NOx del 110% nel periodo che va dal settembre 2017 al 31 dicembre 2018 e del 50% nel periodo successivo. Invece di respirare 80 milligrammi di NOX per ogni chilometro per ogni macchina in circolazione, l’anno prossimo ne respireremo 168.

“La maggioranza degli europarlamentari ha fatto il gioco della parte più retriva dell’industria automobilistica, senza curarsi della salute dei cittadini che dovranno subire livelli di inquinamento sempre più alti e pericolosi”, accusa Monica Frassoni, copresidente dei Verdi europei. “È sorprendente che nella lista dei votanti a favore ci sia anche il presidente della commissione Ambiente del Parlamento europeo, la cui maggioranza si era schierata contro l’indebolimento dei limiti stabiliti”.

In aula ha prevalso il voto suggerito dai gruppi, con i popolari che hanno guidato la battaglia per alzare i limiti, mentre verdi e socialisti, con qualche eccezione, si sono opposti. «È certamente uno schiaffo all’ambiente e alla salute dei cittadini, ma è anche uno schiaffo all’idea di un’Europa vicina alle persone, capace di difendere interessi concreti e non solo percentuali sul debito», commenta Francesco Ferrante, vicepresidente del Kyoto Club. «Per restituire dignità alla politica e speranza a tutti bisogna cambiare rotta».

Una «scelta assurda e insensata che va contro la salute dei cittadini e l'ambiente. Un vero e proprio condono che premia i furbi e non l'innovazione e la qualità». Così ha commentato il direttore generale di Legambiente, Stefano Ciafani. «In piena emergenza smog e con i livelli di inquinamento alle stelle», continua, «quello che è avvenuto è veramente assurdo, ed è solo a favore delle lobby automobilistiche».

Greenitalia.org
SCANDALOSA DECISIONE DELL'EUROPARLAMENTO: LE AUTOMOBILI POTRANNO INQUINARE DI PIÙ

Scandalosa decisione all’Europarlamento: aumentato il livello delle emissioni degli ossidi di azoto del 110% rispetto alle attuali soglie. Si tratta di una decisione gravissima e assurda, anche rispetto a quanto accaduto nei mesi scorsi con la vicenda Dieselgate-Volkswagen. Invece di introdurre regole più severe e restrittive la maggioranza degli europarlamentari ha fatto il gioco dell’industria dell’automobile, con buona pace della salute dei cittadini che dovranno subire livelli di inquinamento dei centri urbani sempre più alti e pericolosi. Anche molti europarlamentari italiani hanno deciso di innalzare le quantità di PM10 e NOx da far inalare ai cittadini.

Ecco i loro nomi:

ENF
Mara Bizzotto
Mario Borghezio
Gianluca Buonanno
Lorenzo Fontana
Matteo Salvini

ECR
Raffaele Fitto
Remo Sernagiotto

PPE
Lorenzo Cesa;
Salvatore Cicu;
Alberto Cirio;
Lara Comi;
Herbert Dorfmann;
Elisabetta Gardini;
Giovanni La Via;
Fulvio Martusciello;
Barbara Matera;
Alessandra Mussolini;
Aldo Patriciello;
Salvatore Domenico Pogliese;
Massimiliano Salini
Antonio Tajani.

Si sono astenuti:

S&D
Simona Bonafè;
Caterina Chinnici;
Silvia Costa;
Luigi Morgano:
Michela Giuffrida.

Lo dichiarano i portavoce di Green Italia Annalisa Corrado e Oliviero Alotto.

Anche nella patria della rivoluzione liberale governi di pseudo sinistra provano a modificare la Costituzione calpestando i diritti comuni. Articoli di Anais Ginori e Anna Maria Merlo,

La Repubblicail manifesto, 3 febbraio 2016

La Repubblica
LOTTA AL TERRORISMO
GLI INTELLETTUALI CONTRO HOLLANDE
di Anais Ginori

Da Piketty a Cohn-Bendit appello su Le Monde«Parlamentari, non cambiate la Costituzione»
«Parlamentari, in nome delle libertà, rifiutate questo testo! ». La mobilitazione contro la revisione costituzionale voluta da Hollande cresce di giorno in giorno. L’ultimo attacco viene da un gruppo di intellettuali di sinistra che ha pubblicato un appello su Le Monde. «Pensate all’interesse supremo dei francesi prima di votare » chiedono, tra gli altri, l’economista Piketty, lo scrittore Attali, l’ex europarlamentare Cohn-Bendit e il sociologo Rosanvallon.

La riforma, in discussione all’Assemblée Nationale da qualche giorno, sta spaccando la Francia. Annunciata subito dopo gli attentati del 13 novembre, la legge costituzionale propone di inserire lo stato di emergenza nella Carta e di revocare la nazionalità ai cittadini colpevoli di reati di terrorismo. È su questa cittadinanza “usa-e-getta” che si concentrano le critiche. Il governo aveva deciso di applicare la norma solo alle persone con doppio passaporto, salvo poi fare retromarcia per non essere accusato di discriminazione tra francesi.Il riferimento alla binazionalità è scomparso ma rimane il problema di come fare per non creare apolidi. Se l’attuazione pratica di questa misura rimane vaga, è il simbolo che fa discutere. «Cosa sarebbe il mondo se ogni paese decidesse di espellere i suoi connazionali giudicati indesiderabili? », si domanda l’ex ministro della Giustizia, Christiane Taubira, nel pamphlet che ha appena pubblicato dopo le sue dimissioni causate proprio dalla riforma costituzionale. Sono tante le voci che si stanno levando contro il testo che dovrebbe essere votato in prima battuta la settimana prossima, per poi passare al Senato.

«Il progetto del governo tratta in modo impari i francesi, apre la strada alla creazione di apolidi e soprattutto inserisce nella Costituzione una minaccia per le nostre libertà politiche, fondamento stesso della democrazia», scrivono i promotori dell’appello. A preoccupare sono anche le condizioni per cui si potrebbe togliere la cittadinanza: non solo reati contro la sicurezza dello Stato ma anche «l’attacco grave alla vita della Nazione». Una definizione ambigua, secondo i firmatari dell’appello: «Significa aprire la porta alla revoca di nazionalità anche per reati di opinione, attività sindacale o per l’opposizione a un potere autoritario».

La legge costituzionale dovrà essere approvata da deputati e senatori, per poi essere presentata davanti al Congresso, ovvero le Camere riunite. Hollande dovrà ottenere due terzi dei voti per far passare la riforma. Ma la fronda a sinistra aumenta.

Anche a destra, dove alcuni esponenti avevano invocato le misure proposte dal leader socialista, si cominciano a levare voci di dissenso. François Fillon ha annunciato che non sosterrà il progetto di revisione costituzionale perché «le leggi ci sono già». E il favorito alla primarie a destra, Alain Juppé, si è schierato contro: «La lotta al terrorismo — ha detto — si fa aumentando le forze dell’ordine e dando più potere all’intelligence».

il manifesto
RISCHI DELLE LEGGI REPRESSIVE
DI HOLLANDE
di Anna Maria Merlo

Riforma costituzionale . Oggi in Consiglio dei ministri il prolungamento di altri tre mesi dello stato d'emergenza. La riforma costituzionale sulla privazione della nazionalità a rischio, contestazioni a sinistra (ma anche a destra). Taubira attacca con un libro

Oggi in Consiglio dei ministri sarà presentata la proposta, poi sottoposta al voto del parlamento, di prolungare di altri tre mesi lo stato d’emergenza, che, già confermato dopo i primi 12 giorni seguenti gli attentati del 13 novembre, scade ora il 26 febbraio. Poi, venerdì, inizia all’Assemblea il dibattito sulla riforma della Costituzione, per introdurre non solo lo stato d’emergenza nella Carta (una proposta che alcuni, come lo storico Pierre Rosanvallon, giudicano positivamente, perché chiarirebbe la legge del ’55, votata durante la guerra d’Algeria), ma soprattutto la molto più controversa privazione della nazionalità.

La confusione regna sovrana sui due fronti e il governo è in difficoltà, preso in trappola da se stesso. Contro il prolungamento dello stato d’emergenza hanno manifestato migliaia di persone in tutta la Francia sabato scorso. Una richiesta di sospensione della Lega dei Diritti dell’uomo è stata però respinta dal Consiglio di stato la scorsa settimana, perché “il rischio di attentati resta”. Nei fatti, l’efficacia dello stato d’emergenza nella lotta al terrorismo resta da dimostrare: ci sono state 3200 perquisizioni (senza l’intervento del giudice, come permette lo stato d’eccezione), ma sono state aperte solo 4 inchieste che hanno a che vedere sul terrorismo e una sola persona è stata incriminata, mentre 400 persone sono ai domiciliari. Hanno subito questa privazione di libertà anche persone che nulla hanno a che vedere con il terrorismo, come dei militanti ecologisti legati alla contestazione dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes, a riprova dell’arma a doppio taglio dello stato d’emergenza.

L’inserimento nella Costituzione della privazione della nazionalità ha già causato un terremoto politico, con le dimissioni della ministra della Giustizia, Christiane Taubira, la scorsa settimana, l’ultima garante a “sinistra” del governo Valls. Taubira, lunedi’, ha pubblicato un libro di meno di 100 pagine, Murmures à la jeunesse, che è un j’accuse contro la proposta della privazione di nazionalità, “inefficace”, “con effetti nulli sulla dissuasione”.

L’ex ministra, che è nata a Cayenne, si chiede: “cosa sarebbe il mondo se ogni paese espellesse i propri cittadini considerati indesiderabili?”. Per modificare la Costituzione, ci vuole un voto ai tre quinti del Congresso (Assemblea e Senato riuniti), su un testo che deve essere passato negli stessi termini nelle due camere. Ma si arriverà al Congresso? E con quale testo di legge?

Per rispondere alla contestazione di una riforma che avrebbe introdotto nella Costituzione una differenza tra cittadini, riservando la privazione della nazionalità ai soli bi-nazionali (con due passaporti), Valls ha ora proposto un testo senza riferimenti alla bi-nazionalità, ma che non limita più la pena ai soli condannati per terrorismo ma la estende anche ai reati contro la nazione con condanne fino a 10 anni di carcere. Un vero pasticcio, intanto perché sarebbe comunque riservato ai bi-nazionali (Valls ha promesso che la Francia ratificherà le norme internazionali che proibiscono di creare apolidi). Ma in più con il rischio di aprire la possibilità di privare della nazionalità per diversi motivi, quando ci sarà un’altra maggioranza (per esempio per ragioni politiche).

Il testo è confuso e non ancora definito, mentre Hollande non è più certo di avere la maggioranza. C’è una fronda consistente a sinistra, dove un centinaio di parlamentari potrebbero votare contro o astenersi. Circolano petizioni e prese di posizione, firmate da vare personalità (dall’economista Piketty a Cohn-Bendit e Jacques Attali) per chiedere al governo di rinunciare. Anche l’obiettivo di unità nazionale sembra fallito. A destra crescono i dubbi. Per ragioni di fondo, in qualche caso, ma anche per opportunismo (non dare una vittoria a Hollande). Tra i candidati alle primarie per l’Eliseo, Alain Juppé è contro, e anche François Fillon ha dei dubbi, mentre Sarkozy è d’accordo, visto che era una sua idea. Florian Philippot del Fronte nazionale afferma: “deciderà Marine Le Pen” su come voteranno i due deputati e i due senatori di estrema destra, “ma se il principio di privazione della nazionalità sarà ben presente nel testo allora potremmo votarlo, visto che sarà una vittoria ideologica del campo dei patrioti, che noi incarniamo”.

L'adunata di coloro che pensano che la loro verità, essendo l'unica legittima, debba conformare la vita di tutti gli altri. Chiamalo, se vuoi, fanatismo. Articoli di N. Rangeri, Kocci e A Santagata.

Il manifesto, 31 gennaio 2031


L’ITALIA DELPASSATO

di Norma Rangeri

L’altra faccia delle cento piazze arcobaleno di una settimana fa, piene di «si» e di speranza per i diritti delle nuove famiglie. Perché i nuovi/vecchi crociati che hanno riempito il Circo Massimo di Roma rappresentano il «no» alla libertà degli altri. E in nome di una — presunta — «verità che non ci lascia mai!» come ha gridato dal palco uno degli organizzatori del raduno. Del resto le bandiere dell’Aquila nera con un cuore rosso crociato di «Alleanza cattolica», o il grande striscione «Padre, madre, figlio, popolo, nazione» sono il simbolo di un’area culturale integralista, dei «principi non negoziabili», pronta allo scontro frontale contro le legge sulle unioni civili. E contro i diritti altrui.

Nel family day organizzato dalle associazioni più conservatrici si è ritrovata l’Italia che appartiene al passato, mobilitata dalle diocesi, dai vescovi, dal centrodestra di Giovanardi e di Alfano, venuta nella Capitale per ascoltare la nutrita carrellata di oratori prodighi di parole funeree («i figli della provetta non sapranno su quale tomba piangere i loro genitori»), di scenari apocalittici («non vogliamo la strage degli innocenti»), vestiti da scudieri in difesa della famiglia «naturale», come se fossero gli unici guardiani del bene dei bambini. Perché, come scrive anche Stefano Rodotà nel suo ultimo libro, questa piazza negava a tante donne e uomini il diritto di amare liberamente.

Nonostante i colori, i palloncini, le canzoncine, il Circo Massimo ha trasmesso al Paese un messaggio cupo, perché con lo sguardo rivolto al mondo di ieri, chiuso e timoroso del confronto, come dettava il vademecum distribuito ai presenti che consigliava di non parlare con i giornalisti (succedeva così anche nei movimenti di sinistra, ma non a caso oltre quaranta anni fa).

Perché a parlare doveva essere solo il palco di Massimo Gandolfini, il medico bresciano, presidente del Comitato organizzatore «Difendiamo i nostri figli».

Abbiamo sentito più volte ripetere «questa piazza non è contro nessuno». Ma era pura retorica. Perché erano più significativi il video con i neonati strappati alle madri e le frasi come «le femministe dovrebbero vomitare per l’utero in affitto». E poi bastava ascoltare il tenore che apriva il comizio con «Mamma» di Beniamino Gigli, per fare quel salto agli anni Cinquanta del secolo scorso, un tempo lontano nel quale i cattolici del «no» vorrebbero riportare l’Italia, bloccando la legge — la moderata legge — sulle unioni civili.

Perché lo scontro che, purtroppo, ancora distingue il nostro dagli altri più avanzati paesi europei è sempre lo stesso: tra chi pensa che un credo religioso obblighi tutti a sottomettersi ai suoi precetti, e chi invece vuole un laica difesa dei diritti di tutti, senza discriminare le minoranze, per una libertà che conosce un solo confine: la libertà dell’altro. Perché chi divorzia non obbliga nessuno a divorziare, chi sceglie l’aborto non tocca la scelta di maternità, chi ricorre alla fecondazione assistita non ostacola la coppia fertile, chi vuole creare una famiglia gay non si impone né, soprattutto, vuole distruggere la famiglia eterosessuale.

La bandiera dei diritti civili non è mai stata innalzata dalla destra e non a caso i sondaggi, per quello che valgono, dicono che l’adesione al Family day è crescente mano mano che ci si sposta a destra nello schieramento politico. E alle forze conservatrici e reazionarie apparteneva la maggioranza dei politici presenti al Circo Massimo, nutrita pattuglia che domani rientrerà in Parlamento per tentare di affossare la legge, avendo già ottenuto di rinviare il voto a martedì prossimo, proprio con l’obiettivo di far pesare la piazza e di dare un avvertimento al presidente del consiglio («Renzi ci ricorderemo»).

Ma se il Family day del 2007 (quello con Renzi) giubilò i Dico, oggi i nuovi/vecchi crociati hanno uno schieramento parlamentare più difficile da condizionare ed egemonizzare. Anche perché in piazza c’era un grande assente: papa Francesco. L’unico papa nominato, Giovanni Paolo II, potrà aiutarli solo dall’aldilà.

LA CHIESA DEI SENZA BERGOGLIO

di Luca Kocci
L'anima della piazza. Dai neocatecumenali a Militia Christi, ma mancavano le grandi associazioni. Grande presenza del «Cammino» di Kiko Arguelo. Che però non è stato invitato, per evitare incidenti. Striscione di Cl, vessilli di Alleanza cattolica e Manif pour tous. Acli, Agesci e Azione cattolica si sono smarcate
Gli organizzatori del Family day avevano promesso che quella del Circo Massimo non sarebbe stata una piazza «contro», ma una piazza «per», per gridare «la bellezza della famiglia». Eppure la parola che più forte e chiara è risuonata — scandita dalla folla con coretti da stadio — è stata «No!». No al disegno di legge Cirinnà. No alle unioni civili. No alla stepchild adoption. No all’utero in affitto, che nemmeno è previsto dalla legge in discussione.
Del resto il portavoce del Comitato «Difendiamo i nostri figli» — promotore del Family day -, Massimo Gandolfini, in mattinata ricevuto al Viminale da Alfano, lo ha detto chiaramente durante il suo intervento: «Il ddl Cirinnà è inaccettabile dalla prima all’ultima parola, non è possibile modificarlo, va totalmente respinto». Un esempio di «maquillage» che, secondo Gandolfini, va smascherato? «L’“affido rafforzato” non è altro che un tentativo di far passare in maniera surrettizia una vera e propria adozione, mascherandola da affido».

Quello rivolto ai parlamentari, in particolare i parlamentari cattolici, più che un appello pare un avvertimento: «Ci ricorderemo di voi — ammonisce Galdolfini -. Controlleremo l’iter del ddl e vedremo chi avrà raccolto il messaggio di questa piazza è chi invece lo avrà messo sotto le scarpe. Al momento delle elezioni ci ricorderemo di chi è schierato dalla parte della famiglia e chi no». Il Circo Massimo è pieno, ma molto meno di quanto ci si sarebbe aspettato. Gandolfini spara due milioni di persone, in realtà sono 200mila o poco più. Non poche, ma nemmeno così tante da far dire a Sacconi, via twitter, «la più grande manifestazione del dopoguerra per difendere costituzione formale e materiale».

A riempirlo sono soprattutto i neocatecumenali — chiamati direttamente dal cardinale Bagnasco, come ha spiegato il fondatore del Cammino neocatecumenale, Kiko Arguello -, gruppi di famiglie numerose organizzatissimi con teli, chitarre, tamburelli e i cartelloni o gli striscioni delle varie comunità che arrivano da Brescia (città di Gandolfini, neocatecumenale anche lui), Roma, Sora, Modugno, Campi salentino e molte altre città. Invocano Kiko, il loro capo carismatico, ma Kiko non parlerà dal palco. «Non sta bene, non è potuto venire», spiega Gandolfini. In realtà lo stesso Gandolfini tre giorni prima del Family day aveva scritto a Kiko — rivela il vaticanista dell’Espresso Sandro Magister sul suo blog — chiedendogli di non intervenire per non dare una connotazione «confessionale» alla manifestazione. Più probabilmente gli organizzatori temevano un bis del Family day del 20 giugno 2015 quando Kiko parlò e, in preda all’estasi predicatoria, arrivò a dire che alcuni comportamenti delle donne possono alimentare i femminicidi.

Dal palco si canta «Mamma», poi interviene Mario Adinolfi, direttore del quotidiano La Croce: «Il ddl Cirinnà vuole appendere il cartellino del prezzo sul ventre delle madri. Renzi ci ricorderemo, fai le scelte giuste!». La piazza si scalda. Sventolano i vessilli degli integralisti di Alleanza cattolica e gli striscioni di Militia Christi, ma anche le bandiere dei comitati locali di “Difendiamo i nostri figli”, Movimento per la vita, Manif pour tous, Pro Vita, si vedono le magliette del combattivo settimanale Tempi (vicino a Cl) e un grande striscione di Comunione e Liberazione, anche se il movimento non ha ufficialmente aderito alla manifestazione.
Dal palco interviene Gianfranco Amato (Giuristi per la vita), autore di un vademecum per i manifestanti su come evitare le domande dei giornalisti: «Il ddl Cirinnà è un pasticcio giuridico a cui ci opporremo senza se e senza ma, non si può mercificare il corpo di una donna per soddisfare il desiderio di due uomini». Toni Brandi (Pro Vita) evoca scenari apocalittici di migliaia di bambini, prodotti dagli uteri in affitto, «che non sapranno su quale tomba potranno piangere la madre che non conoscono».

La piazza è decisamente cattolica, «qui c’è tutto il popolo di Dio», grida Gandolfini. Ma in realtà si tratta solo di una parte di mondo cattolico: le grandi associazioni laicali (Azione cattolica, Agesci e Acli), pur con qualche equilibrismo, si sono dissociate dal Family day; le Comunità cristiane di base e Noi Siamo Chiesa hanno posizioni diametralmente opposte. Ma gli oratori dal palco non se ne accorgono: per loro tutti i cattolici sono qui. Le citazioni sono indicative: Giovanni Paolo II batte papa Francesco 5 a 1, Bergoglio viene richiamato — accolto da applausi tiepidi — solo per la frase di qualche giorno fa al Tribunale della Rota («Non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione»).

Le parole conclusive di Gandolfini sono un tuffo nel passato dell’intransigentismo ottocentesco: «L’apostasia delle proprie radici giudaico-cristiane è la causa di tanti mali della società di oggi». E sulle note di Nessun dorma di Puccini, «Vincerò!», la manifestazione finisce e il Circo Massimo si svuota.
LA CHIUSURA IDENTITARIA
DI UNA GALASSIA
CHE SI SENTE SEMPRE PIÙ MINORANZA
di Alessandro Santagata
Il Family day. Come avviene da tempo negli Stati Uniti e come è accaduto di recente in Francia, le società occidentali sono attraversate oggi da movimenti che si radicalizzano nella presa di consapevolezza di un cambiamento che non possono impedire

Gli osservatori attenti alle trasformazioni delle società occidentali hanno individuato due tendenze fondamentali che possono aiutarci a comprendere la giornata del Family Day. Da una parte, il ritorno delle religioni nella sfera pubblica come sfida alla globalizzazione spersonalizzante (nella versione avanzata da Habermas, come interrogativo posto dal multiculturalismo alla laicità effettiva delle nostre democrazie), dall’altra parte, il riemergere della religione come fattore di chiusura identitaria, uno strumento forte di una lunga tradizione di politicizzazione della fede.

Si tratta di due tendenze carsiche, talvolta convergenti nel discorso dei politici e degli attori religiosi, ma che si scontrano oggi con la realtà di società che vivono un processo di secolarizzazione crescente.
L’ultimo rapporto di Eurispes fotografa un Paese in cui la pratica religiosa è attestata al 25%, la tutela giuridica delle coppie di fatto è auspicata dal 67,6% della popolazione e il matrimonio tra omosessuali è accettato dal 47,8%. Questi dati non erano poi molto diversi dieci anni fa, al tempo del primo Family Day del 2007, lo erano invece il contesto politico (l’Italia nelle mani di Silvio Berlusconi) e quello ecclesiale, caratterizzato dalla linea politica «presenzialista» del card. Ruini, a sua volta forte del sostegno del «papa polacco» e poi del suo successore tedesco.

Si spiega quindi alla luce di questi cambiamenti la decisione dei vescovi di fornire un chiaro appoggio alla manifestazione del Circo Massimo senza però impegnare direttamente la Chiesa, come nei desideri di papa Francesco e di una parte dello stesso episcopato.

Per quanto riguarda i movimenti in difesa della «famiglia tradizionale», le parole d’ordine del Family Day non sono state meno intransigenti di quelle del passato, ma è nitida la percezione di essere di fronte a una galassia che si sente sempre più minoranza, un segmento della società che ha perso la sponda del governo e perfino la sintonia con il pontefice romano.

Ne è venuta fuori una manifestazione tanto pacifica e festosa nelle forme, quanto dura nei contenuti di fondo in un mélange di integrismo vecchia maniera (contro l’edonismo) e di psichiatrizzazione della società, accusata di aver perduto il senso del limite. Medicina e religione, del resto, sono andate a lungo a braccetto nella storia delle retoriche contro le «devianze» sociali e sessuali.

Senza entrare nel merito delle contraddizioni, è interessante osservare anche la permanenza dello schema della catena dei mali, secondo il quale l’introduzione dei nuovi diritti, come la stepchild adoption, porterà inevitabilmente alla pratica dell’utero in affitto e quindi allo sfruttamento delle donne più povere da parte di una presunta élite omosessuale. Dal Family Day arriva dunque un segnale forte e preoccupante che deve essere letto nel contesto del nostro tempo e non solo di quello italiano: nell’orizzonte del mondo cattolico in trasformazione, ma più in generale nella sfera delle forme assunte dal ritorno del religioso nella sfera pubblica.

Come avviene da tempo negli Stati Uniti e come è accaduto di recente in Francia in occasione dell’approvazione del mariage pour tous, le società occidentali sono attraversate oggi da movimenti, spesso “dal basso”, che si radicalizzano nella presa di consapevolezza di un cambiamento che non possono impedire e che sono espressione di un’istanza che trova consensi in maniera interclassista e di cui beneficiano quelle forze politiche, come la Lega Nord e Fratelli d’Italia, che si fanno promotrici di un certo linguaggio antimoderno, identitario e intransigente.

Si tratta di tendenze profonde, alle quali occorre rispondere sul piano discorsivo senza sottovalutare i rischi di questa politica della paura, tendenze che ci devono portare a interrogarci sul modo in cui adeguare la laicità alle nuove frontiere del diritto senza perdere la sfida culturale che deve accompagnare il cambiamento.

l Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2016


STATUE NASCOSTE, SI NASCONDE ANCHE IL GOVERNO RENZI

Inchino a RouhaniNessuno si prende la colpaFranceschini: “Né ioné il premier sapevamo”.Tronca chiede contoalla Sovrintendenza di Roma
Che cosa è successonel corridoio deiMusei Capitolini inCampidoglio al passaggiodel presidente iranianoHassan Rohani? Chi hadeciso di nascondere le opered’arte, quelle statue patrimoniodella cultura italiana edell’umanità, dietro degliimbarazzanti involucri? Chiha occultato non solo le statuema anche alcune porcellanee dipinti del Cinquecento?Il ministro dei Beni culturaliDario Franceschini affermadi non aver preso partealla decisione e che, allo stessomodo, neppure il premiersapesse.

1. Di chi è la responsabilitàper quanto accaduto ai MuseiCapitolini? Forse di RomaCapitale?
«Sulla vicenda delle statuedei Musei Capitolini - chiariscela Sovrintendenza aiBeni culturali di Roma Capitale- coperte in occasionedella visita del presidente iranianoRohani dovete chiederea Palazzo Chigi. La misuranon è stata decisa da noi,è stata un’organizzazione diPalazzo Chigi non nostra».Comunque sia il commissariostraordinario FrancescoPaolo Tronca ha chiesto alsovrintendente Claudio ParisiPresicce una relazionescritta su quanto accaduto.L’evento è stato ospitato inCampidoglio ma organizzatoda Palazzo Chigi, resta daaccertare chi fosse a conoscenzadi questa decisione echi no.

2. Quali spiegazioni ha fornitoil governo fin qui?
Il primo a prendere posizione,ieri mattina, a scacciare lecritiche e a iniziare lo scaricabarile è il ministro dei Beniculturali Dario Franceschini:«Non era informato né ilpresidente del Consiglio né ilsottoscritto di quella sceltadi coprire le statue».

3. Che cosa ha detto Renzi ariguardo?Nulla.
Il premier MatteoRenzi, dal canto suo, sollecitatodai giornalisti nel pomeriggiodopo il discorso in Senatorisponde così: «Oggiparlo di banche», e poi ancora:«Bersani? Verdini? Poi tisbagli e dici che copri loro...».

4. È davvero possibile chenessuno avesse informatoRenzi o qualcuno a lui vicino?
Solo nel pomeriggio di ieri,intorno alle 15, Palazzo Chigidetta queste note alle agenzie:«Il segretario generale diPalazzo Chigi Paolo Aquilantiha avviato una indagineinterna per poter accertare leresponsabilità e fornire, conla massima sollecitudine,tutti i chiarimenti necessarirelativi alla organizzazionepresso i Musei Capitolinidella visita in Italia del Presidenteiraniano Rohani. Losi apprende da fonti di PalazzoChigi».

5. Dove potrà arrivare l’indagineinterna di PalazzoChigi?
L’ufficio a forte rischio èquello del Cerimoniale. Lastruttura è guidata dal 2013da Ilva Sapora, finito più voltenel mirino, l’ultima pochesettimana fa per il caso deidoni alla delegazione italiananel viaggio in Arabia Saudita.L’indagine di Aquilantidovrà proprio “accertare leresponsabilità”. Sino ad allora,le ipotesi non mancano.

6. Chi era presente durantei sopralluoghi?
Nei giorni antecedenti allavisita di Rouhani, come daprotocollo, sono stati diversii sopralluoghi del cerimonialee della sicurezza di palazzoChigi in Campidoglio inteam con i rappresentanti delgoverno iraniano.

7. Quindi la decisione è statapresa su richiesta delladelegazione iraniana?
No, almeno a quanto dichiaratodallo stesso Rohani ieri:«È una questione giornalistica.Non ci sono stati contattia questo proposito. Posso diresolo che gli italiani sonomolto ospitali, cercano di faredi tutto per mettere a proprioagio gli ospiti, e li ringrazioper questo». Palazzo Chigisostiene che la decisione dicoprire le statue sarebbe statapresa senza un via libera alivello politico. Altra ipotesi,di cui molto si è parlato traieri e oggi è quella di un “eccessodi zelo”di qualche funzionariointerno che avrebbepreso una decisione di sua iniziativa.Ma, ancora per usarele parole di Franceschini,«ci sarebbero stati facilmentealtri modi per non andarecontro alla sensibilità diun ospite straniero così importante».

8. Qualcuno pagherà?
In attesa degli esito dell’indagine,non mancava chi ingiornata in Parlamento parlavadi avvicendamenti e unariorganizzazione nell’ufficiodel Cerimoniale del governo.


BENI TURALI

di Marco Travaglio
Ma dai, su, chi potrebbe mai sospettare che Renzi fosse informato dell’impacchettamento delle statue ignude dei Musei capitolini per coprirne le pudenda ed evitare che sua eminenza Hassan Rouhani s’imbarazzasse o si arrapasse. È evidente, come scrivono a una voce sola Repubblica e il Corriere, che il premier non sapeva. Anzi, ci è rimasto proprio male per «l’eccesso di zelo». Lui che decide tutto, controlla tutto, rastrella tutto (anche i Rolex d’oro) e, se avesse una puntina di tette, farebbe pure la ministra delle Riforme, era all’oscuro di tutto.
La conferma è arrivata ieri da una fonte al di sopra di ogni sospetto: il ministro dei Beni Culturali (con rispetto parlando) Dario Franceschini, il quale giura che “né il presidente del Consiglio né il sottoscritto eravamo informati della scelta incomprensibile di coprire le statue”. E c’è da credergli: siccome anche la Sovrintendenza invita a “rivolgersi a Palazzo Chigi”, devono aver fatto tutto quei diavoli del Cerimoniale della Presidenza del Consiglio, capitanati dalla dottoressa Ilva Sapora, già custode discreta di un altro segreto: l’arraffa-arraffa dei Rolex gentilmente offerti dal sovrano saudita a Renzi & C. e prontamente scomparsi dalla circolazione. Dunque le cose l’altro giorno devono essere andate così. La security del presidente iraniano, nel sopralluogo ai corridoi del Campidoglio che l’illustre ospite avrebbe dovuto attraversare al fianco di Renzi fino alla sala dell’Esedra per la conferenza stampa senza domande, ha notato le sculture senza veli collezionate da quegli sporcaccioni dei Papi e ne ha preteso l’immediato oscuramento (senza peraltro obiettare nulla su tutte quelle corde stese a mo’ di transenna, possibili allusioni alle forche più che mai in funzione nell’illuminato Iran).
Il Cerimoniale ha subito provveduto, ovviamente senza consultare il capo: l’aveva già fatto nell’ottobre scorso a Firenze durante la visita del principe ereditario degli Emirati, ricevuto a Palazzo Vecchio dal premier ed ex sindaco Renzi, coprendo con un paravento gigliato un calco di gesso con un nudo di Jeff Koons (fra l’altro, ex marito di Cicciolina). Solo che stavolta un paravento non bastava. Subito scartate le prime tre ipotesi all’ordine del giorno. 1)Bombardare o far saltare con la dinamite le pornostatue come han fatto i talebani con quelle di Buddha e l’Isis con i capolavori dell’arte assiro-babilonese.

2) Riesumare i vecchi cari mutandoni usati nella Controriforma da Santa Romana Chiesa per celare gli organi genitali istoriati nella Cappella (sempre con rispetto parlando) Sistina e nei Musei Vaticani. Ma oggi insorgerebbe anche Sua Santità, che non pare turbato da quei nudi d’arte, per giunta opera di noti gay tipo Michelangelo, Leonardo e forse Caravaggio. 3) Mascherare peni e tette marmoree appendendovi un certo numero di Rolex d’oro made in Ryad. Ma i preziosi orologi erano tutti al polso della delegazione italiana e pareva brutto chiederli indietro. Così si è optato per un’idea altamente innovativa e anche esteticamente gradevole, a riprova del fatto che la nuova Italia renziana “cambia verso” anche nella censura: costruire una decina di scatoloni a parallelepipedo di compensato, dipingerli di bianco e usarli come scafandro per le statue più impudiche.

All’epoca del nudo di Koons tutti scrissero che la censura l’aveva ordinata Renzi, allora tutt’altro che amareggiato visto che l’“eccesso di zelo” era suo. Stavolta invece, siccome ci ride dietro mezzo mondo (quello non islamico), dice indignato che non sapeva. Strano, perché i corridoi del Campidoglio impreziositi da quei cassoni bianchi di compensato li ha percorsi anche lui, accanto a Rouhani. Chissà cos’avrà pensato nel vederli: “Carino questo allestimento di arte contemporanea, mi ricorda quello con Sordi e la buzzicona sulla sedia alla Biennale di Venezia”. Oppure: “Parliamo sottovoce, la Venere Esquilina, Eros e Dioniso stanno ancora riposando nelle loro casette di legno”. O ancora: “Chissà perché le nostre belle statuine han preso l’ascensore”. O magari: “Che gentili, gli iraniani: guarda quanti pacchi dono mi han portato, ora mi sbrigo con i giornalisti poi me li scarto con calma”. Invece, amara sorpresa: censura, ecco che cos’era.
Disappunto, scandalo, orrore. Perché sia chiaro: noi siamo tutti Charlie, noi siamo in prima fila nella guerra di civiltà, noi difendiamo l’identità occidentale, noi non ci pieghiamo al fanatismo, noi non cambiamo stile di vita, noi non abbiamo paura di una Venere desnuda. E che diamine. Qualcuno pagherà (gli altri). Però sarebbe un peccato gettar via quei cassoni. Possono sempre tornare utili, specie ora che Verdini e la sua fairy band entrano ufficialmente al governo: si potrebbero usare per coprirli mentre votano la fiducia, se no poi Mattarella sospetta che sia cambiata la maggioranza e, casomai ritrovasse l’uso della parola, magari chiede spiegazioni. Ma potrebbero rendersi preziosi anche per i ministri che sabato sfileranno al Family Day contro il loro governo. Fossero già stati disponibili un paio d’anni fa, papà Boschi avrebbe potuto scafandrarsi per bene ed evitare di farsi beccare a braccetto con Flavio Carboni. Meglio conservarli al ministero dei Beni Culturali, sempre parlando con pardon. Anzi, per non urtare la sensibilità degli arabi moderati, è allo studio un’altra Grande Riforma. Via l’ambiguo prefisso Cul: chiamiamolo ministero dei Beni Turali e non se ne parli più.


“AVREBBERO FATTO MEGLIO A RICEVERLO TRA FERRARI E PIATTI DI SPAGHETTI”
intervista di Emiliano Liuzzi a Philippe Daverio

«Èil simbolo del pressappochismoall'italiana. Probabilmentenella fretta della rottamazionerenziana hannomandato via anche quelli cheun minimo conoscono le regole:hanno sostituito il maggiordomocon un maniscalco». Aparlare Philippe Daverio, storicodell’arte, docente universitario,cavaliere dell’ordinedella Legion d’onore in Franciae medaglia d’oro ai benemeriti dellaCultura e dell’arte in Italia. Ovviamentesi riferisce alla visita di Rouhani aRoma e alle statue oscurate.

Come può essere venuta in mente unacosa del genere?
Non ho idea. mancano davverole basi della corretta diplomaziae ospitalità. Hanno fattouna sciocchezza, ma ripeto,sono la metafora di quest’Italia.Non dovevano ricevereRouhani in un museo. Dovevanoospitarlo in un garage inmezzo alle Ferrari e con unpiatto spaghetti. Quello avrebbeapprezzato moltissimo,si sarebbe fatto riprenderedalle sue tv sorridente e nonci sarebbe stata nessuna polemica.Le basi, mancano anche quelle.Con un ulteriore avvertimento per laprossima visita.

Quale avvertimento?
Il vino. No, il vino non si può. Dell'ottimaacqua minerale, ma quelli chehanno sostituito il maggiordomo sappianoche a tavola con Rouhani nondeve esserci il vino.

Siamo irrimediabilmente cafoni?
Lo siamo più di prima. Gheddafi,nell’ultima visita, lo misero in una tenda.Viveva in una tenda, gli allestironouna tenda, non un museo.

Eppure siamo il Paese della “GrandeExpo”...
Lasciamo perdere, hanno fatto anchepeggio: i visitatori, quelli di altre religionie culture, accolti all’aeroportodalle statue coi salami appesi ai genitali.Manco sono usciti per arrivare incentro, hanno preso il primo aereo esono rientrati a casa. Se proprio vogliamo,a Roma, hanno fatto quasi unpasso avanti.

«Mai che cresca una sana psicosi e un tonico odio contro le guerre. Così il finto fucilino di plastica genera allarme e paura, mentre regna un silenzio "disarmato copre le guerre» cui l'Italia partecipa, direttamente oppure con i carichi di armamenti che partono dalle sue operose fabbriche di morte».

Ilmanifesto, 28 gennaio 2016

«Col fucile finto tra i binari. Un’ora di paura»: suonavano come rimprovero i titoli dei giornaloni e giornalini in questi giorni, rivolto al malcapitato padre ciociaro presunto «terrorista». Giacché alla stazione Termini, cuore pulsante della capitale d’Italia, se ci si deve proprio andare bisogna portarsi almeno un fucile vero. Se non altro per giustificare l’apparato di presidi armati che ha militarizzato la scena delle nostre città. Apparato che, di fronte alla minaccia cresciuta d’intensità in Italia per fortuna solo per la brutta bestia della psicosi collettiva dopo gli attentati di Parigi, si è subito pericolosamente schierato in armi.

E contro cittadini inermi che prendevano un treno o tornavano da un viaggio. Pancia a terra, mani in alto, perquisizioni, armi da guerra sfoderate dai militari. Subito in campo per l’avvistamento in un monitor di un uomo armato di fucile e per una voce su «spari». Senonché alla fine l’arma si è rivelata finta. Resta vero il terrore vissuto da chi si è trovato le armi spianate davanti.

E restano altrettanti interrogativi. Se l’arma fosse stata vera e poteva tranquillamente esserlo, a che serve quel dispositivo di guerra in atto con sentinelle armate fino ai denti e ovunque che ci troviamo davanti ogni giorno? Siamo sicuri che alpini e marò con armi automatiche in mano nei metrò e nelle stazioni ferroviarie siano davvero un presidio preventivo o non piuttosto una occasione in più di pericolo? Visto il semplice fatto che ogni volta che passiamo loro davanti siamo frapposti, cioè stiamo in mezzo, al bersaglio di una vera o presunta sparatoria contro veri o presunti terroristi: vale a dire che siamo da subito morti predestinati. Dobbiamo abituarci allo stato di guerra, a quell’emergenza che vede i profughi come nemici e che ormai non convince più nemmeno la ministra della giustizia francese Christiane Taubira che per questo ha deciso di lasciare la compagine governativa di Hollande.

Ora, naturalmente, bisogna trovare il colpevole per quei minuti di scene di guerra nel cuore di Roma. È il «terrorista ciociaro», dato «in fuga» ad Anagni che, inconsapevole, rischia ora di essere accusato di procurato allarme. Eppure la sua unica colpa è quella di avere perseverato nella pessima abitudine di regalare armi giocattolo al «figlio maschio» (articoli del resto in vendita in tutti i negozi d’Italia).

Tant’è. La brutta bestia della psicosi collettiva accredita attentati, pericoli e paura ad ogni angolo. Grazie anche ai media mainstream che, dimenticando il ruolo delle nostre guerre in Iraq, Libia e Siria che hanno prodotto il terrorismo che oggi ci torna in casa, alimentano ogni giorno questo clima scaldando i motori delle nuove guerre che si annunciano in calendario, a partire dal re-intervento in Libia. Una crisi ossessiva, tardo-coloniale, per la quale l’Italia ha auspicato un governo «unitario» solo per fare la guerra, per augurarsi poi che non ci sia per farla subito alle dipendenze degli Usa che, anche loro, già ri-scaldano i motori cancellando i disastri che lì hanno provocato.

Mai che cresca una sana psicosi e un tonico odio contro le guerre. Così il finto fucilino di plastica genera allarme e paura, mentre regna un silenzio «disarmante» sui dati internazionali del Sipri che dicono che l’Italia spende 80 milioni di euro al giorno per le spese militari vere; o per le vagonate di armi altrettanto reali che ogni giorno inviamo dai nostri aeroporti – come in questi giorni da Cagliari – all’alleata Arabia saudita che ha inventato lo Stato islamico.

Che il falso sia una forma che interpreta e svela il vero?

Il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2016 (m.p.r.)

Nel 1966 una prestigiosa casaeditrice italiana pubblicò unlibro di racconti fantastici,alcuni dei quali veramentespassosi, intitolato Storie naturali.Autore ne era DamianoMalabaila, del tutto sconosciutoalle patrie lettere.Leggendolo, non furono pochii lettori che ebbero delleperplessità: troppo esperta esorvegliata la scrittura, assolutamenteperfetto il dosaggiotra gli elementi costitutividi ogni racconto per essereopera di un autore esordiente.E poi: come aveva fatto unautore alle prime armi a esserepubblicato da una casaeditrice nota per la severitàdelle sue scelte? Dopo pocotempo, si ebbe la risposta.Damiano Malabaila non esisteva,era uno pseudonimodietro il quale si nascondeva,con somma sorpresa di melettore, niente di meno chePrimo Levi, l’autore dell’immortaleSe questo è un uomo.

Mi sono più volte chiesto sequesta sorpresa non fossecondivisa dallo stesso Levi,quando aveva scopertoin sé una venacosì divertentecome quellache segnagran partedelle Storienaturali,motivo peril quale forseaveva decisodi firmarlecomeMalabaila. Aogni modo,la sezioneProsa radiofonicadellaRai, per laquale io lavoravocome regista,decise di fareadattare a radiodrammauno diquesti racconti, Ilversificatore, e di farlo realizzarenegli studi di Torino.Ma quando, un mese dopo,i responsabili della Prosa ascoltaronoil radiodrammaprima di mandarlo in onda rimaseroallibiti, perché laqualità dell’interpretazionee della regia era di così scarsolivello che la trasmissione avrebbepotuto addiritturaconfigurarsi come una sortadi offesa all’autore Levi. Deciseroipso facto di farne unaseconda edizione completamentediversa affidandone ame la regia. Avevamo pocotempo perché l’opera era giàstata annunciata in cartellone.

Partii subito per Torino ela prima cosa che feci fu dichiedere per telefono un appuntamentoa Primo Levi,che non conoscevo. Quandolui seppe il motivo della miarichiesta si mostrò perplesso.«Ma Il versificatore non eragià stato «Sì, mavede, siccome non è venutotanto bene, allora…» . Tagliòcorto: «Posso invitarla domania pranzo al Cambio?» michiese. Il Cambio era il piùnoto e storico ristorante diTorino. «Volentieri!» risposi.Il versificatore era la storia diuna macchina capace di fareversi a comando e secondo alcuneprecise indicazioni, senonchéquesta macchina nelracconto di Levi spesso e volentierisi prendeva delle, diciamocosì, licenze poetiche,che finivano per generareequivoci e confusione.La mia idea era quelladi far parlare la macchinanon con la vocemeccanica e priva diqualsiasi intonazioneche sembra esserepropria dei robotparlanti, ma di farlerecitare i versi conun’intonazione enfaticapropria delcattivo poeta che legge unasua opera. Fermo restandoche avrei in qualche modotrattato la voce dell’attore,per suggerire che si trattavadi una macchina e non di unessere umano, col soccorsodell’Istituto di fonologia diMilano.

Mi presentai al Cambio conun certo batticuore: conosceredi persona Levi e parlarecon lui mi metteva in agitazione.Ma la dolcezza dei suoimodi, la cortesia, l’interesse,l’attenzione che da subitoprestò alle mie parole mi miseroperfettamente a mio agio.Scoprimmo, ma non ce lodicemmo, di esserci reciprocamentesimpatici, perciòquel pranzo in qualche modovenne da Levi prolungato:dopo aver preso il caffè midisse che aveva ancora tempoa disposizione e che avrebbeancora voluto parlare con medella mia Sicilia. Poi uscimmodal ristorante. Proprio attaccataal Cambio si ergeva lamaestosa facciata del TeatroCarignano: «Ha mai lavoratonel nostro teatro?» mi chieseLevi. «Non ne ho mai avutol’opportunità». «Ma non l’hamai visto neanche da spettatore?».«Neanche».Notò che l’ingresso principaledel teatro era spalancato.Mi guardò e mi disse:«Vuole visitarlo? Sono amicodel «Volentieri»risposi.

Entrammo. Un signoremolto elegante stavaparlando con una donna; alvedere Levi gli andò incontrocon la mano tesa, si salutaronocon calore. Levi gli spiegòil motivo della nostra presenza.Il direttore si mise a disposizione,fece accendere tuttele luci di sala: effettivamentesi trattava di un piccologioiello che dava un’idea digrandiosità. Chiesi di salirein palcoscenico, lui mi accompagnò,mi guidò a vederela cabina delle luci, mi mostrò,sia pure a distanza, l’organizzazione della soffitta ein quel momento venne chiamatoda un inserviente perchéera arrivata una telefonatadall’estero che il direttoreattendeva. Questi allora ci salutò,ci disse che potevamo,terminata la visita, usciredalla porta posteriore, la cosiddettaentrata degli artisti,e ci lasciò soli.

Rimasi ancora cinque minutia guardare quello splendoree poi dissi a Levi che potevamoandarcene. Nel retropalcoindividuammo laporta che conduceva all’uscita: si apriva su un corridoioche terminava proprio conl’entrata degli artisti. Vidiche vicino all’ingresso c’eralo sgabuzzino del portiere, ilquale se ne stava intento aleggere un giornale. Al sentirciavvicinare, il portiere alzògli occhi, il suo sguardo siilluminò, si alzò, aprì la portadel gabbiotto a vetri e mi corseincontro, la mano protesaaddirittura gridando: «DottorCamilleri! Che bella sorpresa!È venuto qui da noi perun’altra regia?». Mentre laterra letteralmente si aprivasotto ai miei piedi e io vi sprofondavodentro madido disudore, bofonchiai qualcosaal portiere e mi precipitaiverso l’uscita seguito da Levi.

In strada cademmo in unsilenzio imbarazzante. Io,che ero sconvolto, riuscii inqualche modo a controllarmi,e dissi a Levi: «Le devo unaspiegazione». «Non mi devenulla – fece lui gentilissimo-, ma se vuole parlarmene…».Allora gli raccontai comesolo sei anni prima io avessimesso in scena, proprioal Teatro Carignano, un’edizione speciale dell’atto unicodi Giovanni Verga Cavalleriarusticana, ma vuoi per l’infelice scelta degli attori, vuoiper un malaccorto errore diinterpretazione mia, quellospettacolo mi era parso ilpeggiore di tutti quelli da mefino a quel momento realizzatie l’avevo cancellato totalmentedalla mia memoria, sinoa scordarmi di aver lavoratoin quel teatro. «Ho fattouna vera e propria rimozione»dissi. Levi, che mi avevaascoltato in silenzio, guardandoun po’ imbarazzato lapunta delle sue scarpe, sollevòla testa e mi fissò dritto negliocchi. «Sapesse quante neho dovute fare io…» sussurrò.E riprendemmo a camminareancora in silenzio.

"Il ricordo della Shoah rischia di restare relegato a un passato autoconcluso se non insegna niente a un’Europa che oggi rischia di andare in pezzi per l’incapacità di accogliere migranti e profughi".

Il manifesto, 27 gennaio 2016 (m.p.r.)

Non sono poche, né poco autorevoli, le voci che lamentano un rischio, senz’altro reale, di saturazione, di ritualità burocratica e ripetitiva, un ricordo di un giorno per non pensarci più per tutto l’anno. D’altra parte, quando da fonti autorevoli sentiamo dire che l’idea della Shoah è stata suggerita a Hitler dai palestinesi, mentre l’Iran continua a non prendere le distanze dal negazionismo e neonazisti e affini di tutta Europa scelgono l’Italia per i loro raduni, ci rendiamo conto di quanto pervasivi possano essere il razzismo, il revisionismo opportunista e il negazionismo strumentale.

Il problema, come sempre, non è tanto se ricordare o no, ma che cosa ricordare e come. Dovremmo cominciare col distinguere la memoria in senso lato di conoscenza storica del passato, dalla memoria in senso proprio di consapevolezza critica delle esperienze sociali e personali vissute. La giornata della memoria acquisterebbe una dimensione ulteriore di senso se, insieme agli eventi ricordati, aprisse anche una riflessione sulla presenza, il ruolo, la crisi della memoria stessa.

Altrimenti, la necessarissima conoscenza storica e sentita commemorazione della Shoah, della Resistenza (e anche delle foibe e del gulag) non compensa la smemoratezza intenzionale di una società in cui politici e media possono dire una settimana il contrario di quello che avevano detto la settimana prima senza che nessuno se lo ricordi e glielo ricordi.

Più ancora della conoscenza storica, la memoria impone una relazione vissuta fra il passato ricordato e il presente che ricorda. La commemorazione smette di essere un rituale e diventa memoria vissuta se quello che ci raccontiamo del passato serve a orientare il nostro agire nel presente. Il ricordo della Shoah rischia di restare relegato a un passato autoconcluso se non insegna niente a un’Europa che oggi rischia di andare in pezzi per l’incapacità di accogliere migranti e profughi. Una giornata della memoria dovrebbe servire anche a farci ricordare che l’Europa che oggi respinge i migranti è la stessa Europa che ha inventato e messo in pratica il genocidio organizzato. Non è stata la nostra barbarie, è stata la nostra cultura che ha prodotto e produce tutto questo.

Proprio perché la Shoah è un crimine specificamente europeo, non possiamo fare del suo ricordo una memoria etnocentrica.

E invece, fra le tante memorie che giustamente vengono evocate in giornate come questa, non trova posto la memoria del colonialismo, specialmente del colonialismo italiano e dei suoi crimini. Di che memoria sono portatori gli abitanti della Libia, ex colonia italiana, dove ci prepariamo di nuovo a “intervenire” (dopo il 1912 e il 2012), che memoria arriva in Italia con i migranti che giungono (quando ci riescono) dall’ex colonia italiana dell’Eritrea? Che cosa ricordiamo dei trent’anni di resistenza libica all’occupazione, della resistenza etiope all’aggressione italiana, nel paese che erige sacrari alla memoria di un massacratore di libici e di etiopi come Rodolfo Graziani? Possiamo parlarne, o no, nella cosiddetta giornata della memoria?

Con tanti problemi e domande, però vorrei aggiungere un esempio positivo. Il 23 gennaio, nel liceo che porta il suo nome, si è svolta un’emozionante “notte di Primo Levi”. E’ stata emozionante per il modo in cui Edith Bruck, Sami Modiano, Giacoma Limentani – testimoni diretti degli eventi – hanno fatto capire a una vasta aula magna stracolma di studenti e famiglie fino a che punto le tragedie di allora sono ferite ancora aperte nell’anima di persone che ci sono vicine; farli vivere a una vasta aula magna stracolma di studenti e famiglie; per come tutto è stato reso più profondo e coinvolgente dalla musica dei MishMash e del coro Musica Nova, e dagli spettacoli e letture creati dagli studenti stessi; per la creazione di un senso di comunità e condivisione attorno alle tavole cariche di buone cose portate dai ragazzi e dai genitori stessi; per la consapevolezza diffusa che, come in tutte le grandi culture tradizionali, fare festa è un modo serio di ricordare.

Ma è stato bellissimo soprattutto perché gli studenti e le loro famiglie non hanno partecipato come destinatari più o meno coinvolti di discorsi calati dall’alto, ma hanno retto tutto l’evento con il lavoro, le voci e le idee loro e dei loro insegnanti.

Questo è un modo non solo di prendere coscienza del passato, ma di costruire memoria per il futuro: perché imparando da narratori come Edith, Sami, Giacometta i ragazzi di oggi si rendono conto che la memoria futura del nostro tempo dipende dalla loro partecipazione attiva in esso: se non ricordiamo, non saremo ricordati. Per una volta, insomma, si è vista in azione la vera e autentica “buona scuola”.

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Nell' Italia neoliberista il sistema è sempre lo stesso. Quando i banchieri o gli altri gestori/approfittatori del sistema capitalista sbagliano i conti, le loro perdite le paga lo Stato, cioè noi cittadini: o con l'aumento delle tasse o con la riduzione del welfare. Il manifesto, 27 gennaio 2016

In vista del Consiglio dei Ministri del 28 gennaio che si troverà sul tavolo il delicato Dossier banche, il Ministro dell’economia Pier Carlo Padoan si è recato a Bruxelles, dove non gli è parso vero di fare sfoggio di infondato ottimismo definendo, di fronte alla Commissione Lavoro dell’Europarlamento, la situazione italiana come “in ripresa” e persino connotata da “un’occupazione di migliore qualità”.
Non abbiamo ancora i dettagli, ma nel successivo confronto con la commissaria europea alla concorrenza, Margrethe Vestager, sarà risultato difficile a Padoan mascherare le difficoltà in cui si dibatte il paese, specificatamente per quanto riguarda il suo settore bancario, da sempre presentato come tra i più solidi. Ma un arretramento di dieci punti di Pil e la perdita del 25% di produzione industriale, quali si sono verificati nella nostra economia nella Grande Crisi, non potevano non avere effetti deleteri sullo stato di salute dei crediti delle banche.

Infatti dal 2008 i crediti deteriorati (o non performing loans, NPL) accumulati dal sistema bancario italiano ammontano 350 miliardi di euro. Sono catalogati in quattro categorie, delle quali la più consistente e preoccupante è costituita dai bad loans, che ammontano a circa 200 miliardi, ovvero i prestiti per i quali il debitore è già fallito. Sono le sofferenze vere e proprie. Poi ci sono gli “incagli” (ovvero prestiti che la banca reputa di improbabile restituzione); gli “scaduti” (da più di 90 giorni); i “ristrutturati” (quelli su cui la banca è già intervenuta per facilitare il debitore sui tempi e sui tassi di restituzione).

L’idea su cui si muove il governo italiano e su cui ruota il dibattito è la costituzione di una o più bad bank, cioè un nuovo veicolo societario che gestisca i crediti deteriorati, correndo tutti i rischi del caso, ma anche godendo degli eventuali rendimenti ovviamente più alti data l’improbabilità del recupero. E’ un sistema che ha preso le mosse nei primi anni Novanta. In Europa fu la Svezia a sperimentare una delle prime bad bank. La sua comparsa in Italia avviene a cavallo del secolo quando il Sanpaolo dopo l’acquisizione – salvataggio del Banco di Napoli si servì di una Società per il recupero dei crediti in sofferenza.
Il problema è naturalmente stabilire quali siano i prezzi di mercato dei crediti deteriorati. Ma ve ne è uno che lo sovrasta. Cosa dovrebbe succedere infatti se i pacchetti di crediti acquistati dalla bad bank determinassero in realtà un rendimento inferiore al prezzo con cui sono stati pagati? Visto che nessuno ci vuole perdere, e meno che mai nel mondo bancario, dovrebbe a questo punto scattare una sorta di rete di salvataggio. E questa verrebbe naturalmente garantita dallo Stato. Anche le più raffinate e sofisticate soluzioni avanzate da economisti e gruppi di studiosi, come quelli della Luiss, finiscono inevitabilmente per poggiare sull’intervento dello stato, quale salvatore in ultima istanza. Ciò che viene teoricamente e praticamente negato dai fautori del neoliberismo, ovvero la Banca centrale come prestatore in ultima istanza per impedire la speculazione sui titoli del debito pubblico, oppure lo Stato occupatore in ultima istanza per favorire l’incremento dell’occupazione, viene perfettamente previsto e attuato per sgravare le banche dei crediti deteriorati
Qui si innesta lo scontro con l’Europa che è il vero e concreto sottostante ai recenti bisticci fra Renzi e le massime autorità della Ue. Infatti se l’assicurazione pubblica ha un costo molto basso potrebbe essere considerata un aiuto di Stato – che la Ue aborrisce - e le banche potrebbero sgravarsi dei crediti deteriorati gonfiandone il prezzo. Se quel costo invece fosse più alto potrebbe risultare inappetibile e quindi inservibile ai fini dello sgravamento dei crediti inesigibili dal bilancio delle banche.
Nelle intenzioni del governo, almeno finora, la garanzia dovrebbe essere fornita da una controllata della Cassa depositi e prestiti, le cui potenziali funzioni di agente per il rilancio dell’economia produttiva verrebbero invece curvate al servizio del salvataggio di un sistema bancario nel quale si sono aperte oramai troppe falle per poterlo continuare a definire solido e sano.
Ma i crediti malati non si sono certamente materializzati tutti d’un colpo. Come abbiamo visto sono giunti a quell’impressionante volume come conseguenza della crisi e delle politiche di austerity che l’hanno ingigantita e prolungata. Intanto i governi che si sono succeduti hanno fatto finta di non vedere. Come hanno osservato diversi analisti finanziari, il governo italiano, che ora pesta i piedi e rotea i pugni, ha la responsabilità di essersi mosso troppo tardi per intervenire sulle sofferenze bancarie, perdendo l’opportunità di farlo – come ad esempio è successo nel caso spagnolo – quando questo ancora non andava direttamente a sbattere contro i divieti della Ue. La campana d’allarme rappresentata dall’entrata in vigore del bail in (ovvero dell’obbligo degli azionisti, dei possessori di obbligazioni e dei depositanti sopra i 100mila euro di partecipare al salvataggio degli istituti di credito in difficoltà) ha colto il governo Renzi in un sonno troppo profondo.
Gli eredi delle tante stagioni del colonialismo, che hanno condotto alla miseria e alla disperazione e fomentato le guerre e hanno dimenticato il tempo dei genocidi nazisti, ne proseguono una ancora più devastante.

Il manifesto, 26 gennaio 2016

Anche i simboli hanno il loro peso. Nato trent’anni fa a bordo di un barca, il trattato di Schengen rischia oggi di essere affondato dai barconi carichi di migranti. Quello che si potrebbe leggere come l’inizio della fine, è stato annunciato ufficialmente ieri ad Amsterdam al termine del vertice informale tra i ministri degli Interni dei 28, quando si è saputo della richiesta avanzata dagli stati europei alla Commissione Ue di avviare le procedure per consentire di estendere fino a due anni (anziché sei mesi) i controlli alle frontiere. Si tratta di una possibilità prevista dall’articolo 26 del Trattato e applicabile solo in casi eccezionali, come la comprovata incapacità di uno stato nel controllare le proprie frontiere.

Finora sono cinque i Paesi che hanno sospeso il trattato sulla libera circolazione. Oltre a Germania e Austria, anche Francia, Danimarca e Svezia. A premere di più per la proroga sono Berlino e Vienna, per le quali i controlli alle frontiere scadranno a maggio e insistono per rinnovarli. Ma non solo loro. A chiedere frontiere più blindate sarebbero infatti molte capitali, tanto che ieri la ministra austriaca degli Interni Johana Mickl-Leitner, tra i più risoluti nel chiedere misure per arginare gli arrivi di migranti, ha avvertito i partner europei: «Il Trattato sta per saltare. Ciascuno è consapevole che l’esistenza dello spazio Schengen è in bilico e che deve succedere qualcosa velocemente».
Ovviamente non sono certo i profughi che fuggono dalla guerra i responsabili di questa situazione, e Bruxelles dovrebbe guardare piuttosto alla sua incapacità di far rispettare gli impegni presi già da mesi, come quello sui ricollocamenti, agli stati membri. Cosa che però non accade. Il risultato è che gli interessi nazionali prevalgono su tutto spingendo ogni stato a decidere in autonomia. Così c’è chi alza muri, chi rafforza i controlli alle frontiere e chi come l’Austria fissa un tetto alla sua disponibilità ad accogliere i migranti (127.500 fino al 2019).
A spaventare non è solo il milione di profughi arrivato l’anno scorso, ma quelli che potrebbero affacciarsi alle porte dell’Europa non appena le condizioni del tempo lo permetteranno. «Più di 30mila persone sono arrivate via mare finora nel 2016, vale a dire in sole tre settimane», ha detto un allarmato Dimitri Avramopoulos, il commissario Ue all’immigrazione di solito attento a non creare allarmi.
Sul banco degli imputati è finita così soprattutto la Grecia, ancora una volta accusata da molti paesi di non fare sforzi a sufficienza per fermare i migranti e per la quale è perfino ventilata l’ipotesi di una sua possibile esclusione da Schengen. Un atto di accusa portato soprattutto dalla Germania e che ha provocato l’immediata reazione del ministro alle politiche migratorie di Atene Yoannis Mouzalas. «Basta con queste gioco di accuse ingiusto», ha detto durante il vertice. Elencando poi una serie di inadempienze dell’Unione europea, promesse di mezzi e aiuti mai realizzati. «Di tutte le cose che abbiamo chiesto - ha proseguito il ministro - abbiamo ottenuto solo una parte, sia in termini di uomini che di mezzi per gestire l’emergenza».
Il rischio che la situazione possa degenerare a questo punto non è più solo teorico. Bruxelles accelera per la costituzione di una guardia di frontiera terrestre e marittima in grado di intervenire alle frontiere in aiuto di quei paesi in difficoltà nel fronteggiare il flusso di migranti, ma deve spingere anche sui ricollocamenti, facendo fronte alle resistenze di chi, come i paesi dell’est, non ne vogliono neanche sentire parlare. La Slovenia ha addirittura proposto di aiutare la Macedonia a rafforzare i suoi confini, un’idea che guarda caso sarebbe piaciuta a Ungheria, Croazia, repubblica ceca, Polonia, Slovacchia e Austria e che non dispiacerebbe neanche a Bruxelles, anche se ancora non si è pronunciata ufficialmente. Ma che ovviamente allarma non poco la Grecia che in questo modo vedrebbe centinaia di migliaia di migranti bloccati all’interno dei propri confini.

Tra quanti ancora sostengono strenuamente Schengen c’è l’Italia, preoccupata da un’eventuale fine di Schengen. «Abbiamo poche settimane per evitare che si dissolva tra gli egoismo nazionali», ha detto ieri al termine del vertice di Amsterdam il ministro degli Interni Angelino Alfano. Al Viminale si sta pensando anche all’apertura di un hot spot ai confini con la Slovenia: «Dobbiamo tenerci pronti ad un’ipotesi di flusso dalla frontiera nord est a seguito della rotta balcanica», ha spiegato Alfano.

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La Repubblica, 26 gennaio 2016

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LA DECISIONE di recarsi a Ventotene a rendere omaggio ad Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, padri fondatori del federalismo europeo, sgombra il campo da ogni incertezza sul profilo europeista del capo del governo. Renzi ha sempre sottolineato, anche con enfasi, come il nostro futuro sia legato ad una maggiore e migliore integrazione europea. E invece il processo di integrazione sovranazionale sta facendo paurosi passi all’indietro. L’autorevolezza delle istituzioni comunitarie — Bce esclusa, per fortuna (soprattutto nostra) — è al punto più basso e, corrispettivamente, dominano gli interessi e gli egoismi nazionali.

In realtà, gli interessi nazionali sono sempre stati difesi nella vita dell’Unione Europea. Basti ricordare le prese di posizione della Francia gollista sull’agricoltura o il rebate (lo sconto) preteso da Margaret Thatcher. Ma oggi non si litiga su alcuni provvedimenti che possano favorire qualcuno. Si tratta di evitare che certe decisioni provochino danni devastanti in tutta l’Ue. Quindi, insistere come fa Renzi su una gestione comunitaria della migrazione biblica a cui stiamo assistendo senza alzare nuovi muri — posizione che l’Italia ha sostenuto nella riunione dei 28 ministri degli Interni ieri — o su una politica economica non più appiattita sul rigore ma indirizzata alla crescita, come richiesto dagli economisti di tutto il mondo, è sacrosanto. Solo che nella questione del rigore siamo in difficoltà, per tempi e modi. Il “momento” è passato. Lasciando solo il governo greco a sbagliare tutto, l’anno scorso, è stata persa l’occasione propizia per impostare una strategia diversa.

Oggi non c’è più la spinta dell’urgenza e della drammaticità. Per uno 0,2 percento in più o in meno nel rapporto deficit/Pil non si smuovono dogmi economici consolidati. Si fa piccolo cabotaggio. Per questo non ha senso, come sostengono anche autorevoli analisti internazionali — per tutti si veda il graffiante intervento di Wolfgang Munchau sulla “assenza di adulti” nell’entourage del presidente del Consiglio —, andare all’assalto della Commissione e della Germania con dichiarazioni gladiatorie.

Attaccare tutti dichiarando che l’Italia è un grande Paese, che merita rispetto, porta solo all’isolamento. Di posture crispine, per non dire di peggio, l’Italia ha già fatto amare esperienze. Non vorremmo che il riferimento ideale a Giorgio La Pira, a cui spesso si richiama Renzi, venisse preso alla lettera dal premier, vista l’impoliticità di quell’uomo generoso che si immaginava mediatore tra America e Vietnam al tempo del conflitto indocinese.

Il velleitarismo e il provincialismo sono due vizi storici della nostra politica estera. Se a questi aggiungiamo il pressapochismo e il disinteresse verso le questioni europee, visto che i nostri politici arrivavano spesso ai meeting senza adeguata preparazione, e persino inconsapevoli degli interessi nazionali (per non dire dei parlamentari europei, assenteisti e pronti a dimettersi alla prima occasione), allora confermiamo la fama di europeisti a parole, ma pasticcioni e inconcludenti nella discussione dei dossier più caldi. Finché comunque eravamo in linea con il vecchio motore franco-tedesco, bastava il sostegno verbale all’Europa ad evitare problemi. Ma se ora si vuole battere il pugno sul tavolo bisogna avere le carte in regola, a incominciare dall’osservanza delle norme dell’Ue, che invece infrangiamo più di ogni altro Paese.

Per essere presi sul serio è necessario essere seri. Per questo, alle belle parole su una Europa dei valori e ai bei gesti, come la visita a Ventotene, vanno fatte seguire proposte concrete, ben articolate, e anche di respiro. Il governo dovrebbe avere il coraggio di fare un salto di qualità: di proporre una revisione dell’architettura istituzionale e delle funzioni dell’Unione per renderla più vicina ai cittadini, con un Parlamento in grado di controllare e indirizzare le politiche e una Commissione non più succube del Consiglio. All’Unione, come ripete Renzi, va data una scossa. Giusto. E allora, invece di parole, il governo butti sul tavolo europeo un disegno articolato di riforme. È così che si conquista quell’autorevolezza che consente poi di giocare un ruolo attivo all’interno dell’Ue. E anche di difendere gli interessi nazionali.

Il summit europero raccontato da Andrea Tarquini e i ragionamenti di Ilvo Diamanti sul concetto di "confine": «sarebbe sbagliato trattare i “confini” semplicemente come un problema. Le frontiere e i confini: sono necessari. Non solo sul piano istituzionale, ma anche cognitivo. ».

La Repubblica, 25 gennaio 2016 (m.p.r.)

LA NOSTRA IDENTITÀ IN QUEL TRATTATO.
NON PUÒ BASTARE LA MONETA UNICA
di Ilvo Diamanti
Un giorno dopo l’altro, l’Europa appare sempre più divisa. D’altronde, è difficile affidare il progetto unitario a una moneta. Tanto più in tempi di crisi economica e finanziaria. Perché se l’Europa si riduce a un euro, allora si svaluta. E l’anti-europeismo si allarga. Tuttavia, la questione europea diventa critica quando vengono messi in discussione i confini. Meglio: quando vengono ripristinati i controlli sui confini. Non per caso, la direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, a Davos, ha espresso il timore che l’emergenza prodotta dai flussi di migranti possa compromettere il trattato di Schengen sulla libera circolazione delle persone tra gli Stati dell’Unione. Perché in quel caso verrebbe - implicitamente - rimesso in discussione il progetto di costruzione europea. Lo stesso timore è stato ribadito dal premier Matteo Renzi. D’altronde, l’euro, come i mercati, non ha confini. Può circolare comunque e dovunque. Le persone no. E i limiti imposti ai migranti si riproducono e rimbalzano anche sui residenti. Perché le frontiere sottolineano la sovranità degli Stati nazionali rispetto a quella europea. In definitiva: riflettono - e accentuano - la debolezza dell’Europa. Come progetto e come soggetto.

Tuttavia, sarebbe sbagliato trattare i “confini” semplicemente come un problema. Da superare e, possibilmente, eliminare. Per dare forza alla sovranità e all’identità europea. Le frontiere e i confini: servono. Sono necessari. Non solo sul piano istituzionale, ma anche cognitivo. Come la geografia, le mappe. Servono a orientarci, a rappresentare il mondo intorno a noi. I cambiamenti dei confini - e della geografia - riflettono, a loro volta, i cambiamenti nella distribuzione e nell’organizzazione del potere, su base territoriale. Il nostro dis-orientamento, negli ultimi decenni, negli ultimi anni, riflette il declino, in alcuni casi, il dissolversi dei nostri punti di riferimento. La trasformazione rapida e violenta del limes, com’era definito il confine (in continua evoluzione) dell’Impero romano. (E come recita il titolo di una nota rivista di geopolitica: liMes, appunto).
Noi, infatti, siamo orfani dei muri che per decenni hanno (de)marcato il nostro mondo. Eppure, al tempo stesso, gli davano senso, oltre che rappresentazione. Il muro di Berlino, a Est. Il Mediterraneo a Sud. Erano frontiere politiche, ma anche sociali e culturali. Ideologiche. Oggi non ci sono più. A Est: dallo sfaldamento dell’Unione Sovietica è riemersa la Russia. Che, tuttavia, non costituisce più, come prima, “l’altro” polo del Mondo. Ma “un” polo, per quanto importante. Mentre, nel caso del Mediterraneo, non si tratta più di un muro. Non ci separa (e non ci difende) più dall’Africa, né dal Medio- Oriente. È, invece, un confine stretto. Mentre il mondo è divenuto sempre più largo. E sempre più vicino. Incombe su di noi. La globalizzazione, per riprendere una nota definizione di Antony Giddens, è stretching spazio-temporale. Allungamento dei processi e delle relazioni nello spazio e nel tempo. E, dunque, perdita dei confini. Perché tutto ciò che avviene dovunque, nel mondo, anche molto lontano da noi, può avere riflessi immediati qui. Adesso.
Anche perché tutto avviene e scorre sotto i nostri occhi. Riprodotto e amplificato dai media. In diretta. E tutto rimbalza sulla rete. A cui tutti possono accedere. In tempo reale. Per questo, i confini non ci possono difendere. Ma, proprio per questo, abbiamo bisogno di confini. Di frontiere. Perché, come ha sostenuto Régis Debray, in un testo alcuni anni fa (dal titolo significativo Eloge des frontières, Gallimard 2010, pubblicato in Italia da ADD, 2012): «…una frontiera riconosciuta è il miglior vaccino possibile contro l’epidemia dei muri». (D’altronde, neppure i muri possono frenare i movimenti di persone, quando si tratta di esodi spinti dal terrore e dalla fame). Né, tanto meno, possono - né vogliono - fermare i flussi economici e monetari. Per questo, tanto più per questo, abbiamo bisogno di frontiere. Per dare ordine alla nostra visione del mondo. Per sentirci sicuri. Per avere la sensazione che esistano autorità in grado di governare la società. Capaci di esercitare la sovranità nel territorio in cui viviamo.
Perché, in fondo, è questo il fondamento - e il significato - dello Stato. Senza confini e senza frontiere, noi rischiamo di perderci. Di divenire, noi stessi, eterni migranti. Alla ricerca di una terra. Non “promessa”. Una terra e basta. Noi abbiamo bisogno di mappe per orientarci. Il trattato di Schengen è importante. Perché supera e apre i confini “interni” all’Europa. Ma, al tempo stesso, marca i confini “esterni”. Dentro i quali è possibile la libera circolazione. In base ai quali è possibile negoziare con gli “altri”. Così, de-finisce (cioè, delimita) l’Europa. Lo spazio entro il quale non abbiamo bisogno di passaporti da esibire alle frontiere. Perché non ci sono controlli alle frontiere. Anzi, non ci sono frontiere. Lo spazio dove, cioè, possiamo dirci - e sentirci - europei. Non uno Stato nazionale, ma una Confederazione di Stati nazionali. Che condivide alcuni interessi ma, anzitutto, un sentimento comune.
Per questo, come hanno osservato, polemicamente, Lagarde e Renzi, le limitazioni imposte alle frontiere di alcuni Stati europei rischiano di provocare il fallimento del Trattato di Schengen. E, insieme, del progetto europeo. Perché l’Europa, questa Europa, è senza confini. L’Europa: dove comincia e dove finisce? Chi ne fa parte? Chi ne farà parte? Difficile comprenderlo. Tanto più se, invece di indicare un limes, un territorio condiviso, che distingua noi dagli altri, i governi nazionali sono impegnati a erigere barriere interne all’Europa, invece di delineare e condividere quelle esterne. E in questo modo confermano e, anzi, accentuano l’incapacità di costruire l’Europa. Perché, senza uno spazio comune, senza un confine condiviso: com’è possibile costruire un’identità europea? Sentirsi e dirsi europei? La globalizzazione è allungamento dei processi e delle relazioni, nello spazio e nel tempo.

SCHENGEN LA BATTAGLIA DEI CONFINI
Di Andrea Tarquini

Oggi il summit europeo sui profughi. In Germania la politica dell’accoglienza della Merkel è sempre più in difficoltà. E gli stop alla libera circolazione mettono a rischio l’Unione

Berlino. Oggi ad Amsterdam il vertice straordinario dei ministri dell’Interno dell’Unione europea sui migranti è atteso come una scadenza decisiva non soltanto per la libera circolazione tra i paesi dell’area Schengen, ma per l’avvenire stesso dell’Unione e della moneta unica. Come ha ammonito la presidente del Fondo monetario, Christine Lagarde, lo stesso futuro dell’euro è in forse se Schengen verrà di fatto sospeso o revocato. E nelle ultime ore, alcuni paesi-chiave (Germania, Austria, Danimarca, Svezia e Norvegia) hanno chiesto la proroga fino al 2017 dei controlli provvisori al confine. Posizione cui l’Italia e altri paesi si oppongono duramente: «Nessun passo indietro, sarebbe un affossamento delle libertà conquistate in decenni d’integrazione, e l’Europa corre un rischio mortale», ha detto il titolare del Viminale Angelino Alfano.

A Calais intanto nuovi scontri con i profughi al confine hanno indotto i camionisti britannici a invocare l’intervento dell’esercito. A sorpresa a Londra il premier Cameron ha promesso di accogliere 3.000 bimbi siriani e 20mila profughi da campi vicini al paese arabo. Ma a Berlino sale la sfida dei falchi ad Angela Merkel e all’Europa meridionale. Julia Kloeckner, vicepresidente Cdu e finora fedelissima della leader, l’ha attaccata duramente. Ha proposto di ridurre gli ingressi e creare ai confini centri di raccolta dove i richiedenti asilo vengano distinti dai profughi economici, subito espulsi. L’idea è creare hot spot in Germania. Attacco implicito a Italia e Grecia accusate di non istituirli. L’offensiva di Kloeckner arriva dopo un crollo della CduCsu nei sondaggi, dal 39 al 32%, con gli xenofobi di Alternative fur Deutschland che sarebbero terzo partito.

«Strategia unica degli avvocati dello stato nei tribunali dei ricorsi. Boomerang di palazzo Chigi: Premio troppo alto? "Protegge dai cambi di casacca". Gaffe di Renzi sulla fiducia: sulle riforme non si può».

Il manifesto, 23 gennaio 2016

Il governo (palazzo Chigi e il ministero dell’interno) difende la legge elettorale con una strategia unica in tutti i tribunali dove l’Italicum è stato portato in giudizio — con l’accusa di violazione del diritto di voto dei cittadini, ma con l’obiettivo dichiarato di far arrivare la legge alla Consulta e ottenerne la bocciatura come fu per il Porcellum. Presentati in quasi tutti i tribunali dei capoluoghi regionali, i ricorsi saranno esaminati per la gran parte prima del prossimo 1 luglio, il giorno in cui scadrà la «clausola di salvaguardia» e l’Italicum entrerà pienamente in vigore. I primi ricorsi saranno discussi a inizio febbraio (Genova il giorno 1, Potenza il 2, Trieste il 3 e Messina il 5) e in preparazione di quelle udienze l’avvocatura dello stato sta presentando, in ogni tribunale, le sue risposte alle argomentazioni dei cittadini ricorrenti. Sono identiche e documentano per la prima volta le ragioni di difesa dell’Italicum da parte del governo, al di là dello slogan renziano «è una legge che presto ci copierà tutta Europa» (cosa che, trascorsi nove mesi da quanto è stata approvata, non risulta stia accadendo).

Abbiamo letto le memorie presentate dalle avvocature distrettuali di stato per conto di palazzo Chigi e Viminale a Genova, Trieste e Milano. Nel capoluogo lombardo pende un ricorso diverso (per risarcimento del danno, avvocati Bozzi e Tani), che ha tempi di esame più lunghi ma che è in uno stadio più avanzato rispetto agli atri: al termine dell’udienza di giovedì scorso il giudice si è riservato di decidere. Nello schema di ricorso messo a punto (dall’avvocato Felice Besostri) per il «Coordinamento per la democrazia costituzionale» sono individuate una quindicina di cause di incostituzionalità dell’Italicum. Il governo risponde a tutte, a cominciare da quella che è considerata tra le più evidenti dai ricorrenti: il fatto che la legge elettorale sia stata approvata — alla camera — con il ricorso alla fiducia. Il che sembrerebbe escluso dalla Costituzione che all’articolo 72 prevede che «la procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale». Una previsione che ha peraltro confermato appena tre giorni fa proprio il presidente del Consiglio, che intervenendo al senato sulla revisione costituzionale ha detto: «Il punto vero però è che le riforme costituzionali non fanno mettere le fiducia, ma hanno restituito fiducia agli italiani». Su quel «non fanno mettere la fiducia» speculerà il coordinamento, visto che il riferimento costituzionale è unico sia per le leggi di revisione che per la legge elettorale. Nuove memorie saranno presentate ai giudici dei 19 tribunali individuati per i ricorsi. Intanto l’avvocatura ha risposto sostenendo che la questione di fiducia non ha fatto venir meno la votazione dell’Italicum «articolo per articolo» dunque deve intendersi perfettamente regolare. Peccato però che una volta chiesta la fiducia la discussione sul testo si interrompe e si passa a votare a favore o contro il governo (avviene sempre ed è avvenuto anche per la legge elettorale). C’è un precedente del 1980 nel quale la giunta della camera (presidente Iotti) stabilì che il voto sulla questione di fiducia «dà vita a un iter autonomo e speciale» ma la presidente Boldrini nell’ammetterlo sull’Italicum non ha voluto seguirlo. Al senato, poi, è successo anche di peggio, dal momento che a dicembre la commissione decise di portare il testo in aula senza relatore (Renzi aveva fretta), senza dunque concludere la «normale» fase referente. Curioso poi che tra le ragioni dell’avvocatura venga citato l’ostruzionismo del senatore Calderoli e dei suoi milioni di emendamenti. Non ammettere la possibilità della fiducia, scrivono gli avvocati del governo, «comporterebbe con ogni probabilità il blocco dei lavori». Ma quel precedente riguarda la riforma costituzionale, quando la questione di fiducia non fu posta e l’ostruzionismo superato con altre tecniche (il cosiddetto «canguro»).

In alte parti delle memorie dell’avvocatura di stato si sostiene la necessità dell’alto premio di maggioranza previsto dall’Italicum per proteggere la maggioranza «dai frequentissimi cambi di partito o di gruppo parlamentare»; argomento interessante provenendo da un governo che esattamente grazie a questi cambi è riuscito ad approvare le sue riforme. Infine, alla tesi dei ricorrenti che un ballottaggio tra liste per la formazione dell’organo legislativo come quello introdotto dall’Italicum, «non è previsto in nessun ordinamento democratico conosciuto», il governo replica che non è così. Perché c’è in Valle d’Aosta, e in Toscana.

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