La Repubblica, 27 aprile 2016 (c.m.c.)
I soldi, non i soldati, decideranno il futuro di quel vasto spazio che una volta si chiamava Libia. E dove Fayez Al Serraj, ingegnere e politico tripolino selezionato dalla diplomazia onusiana per il suo poco ingombrante profilo a capeggiare il governo di conciliazione nazionale, sta tentando di rincollare i mille frammenti del puzzle esploso dopo la liquidazione di Gheddafi, nel 2011. Impresa quasi disperata, certo. Ma che appare l’ultima carta giocabile prima della definitiva disintegrazione del territorio, alla mercé di trafficanti, milizie e terroristi. Scenario ideale per lo Stato Islamico.
Mentre per l’Italia significherebbe confinare permanentemente a Sud con una terra di nessuno, proprio mentre i nostri partner nordici minacciano di chiuderci i valichi alpini. Un imbottigliamento geopolitico micidiale. Il successo di Serraj dipenderà dalla sua capacità di evitare che alla frammentazione territoriale segua il collasso economico. Dunque il caos totale. La Libia di Gheddafi ha fondato la sua relativa prosperità su due fattori: la ricchezza energetica e la scarsità di popolazione (attualmente stimata in cinque milioni di anime). Ciò permetteva al Colonnello di godere di un diffuso consenso, grazie alla redistribuzione, per quanto ineguale, della rendita petrolifera. E di mantenere sul proprio territorio oltre due milioni di immigrati africani, adibiti a mansioni poco attraenti per i libici.
Qualsiasi governo intenda reggere una Libia riunita, o parte di essa, deve disporre di tale rendita. Ma oggi la produzione dai campi petroliferi tripolitani e cirenaici è ridotta a circa 300 mila barili/giorno. Insieme al crollo del prezzo del greggio, questo significa che entro massimo due anni la Banca Centrale libica non avrà più i soldi per pagare gli impiegati pubblici — ovvero la maggioranza della forza lavoro locale. E soprattutto, il governo non disporrà delle risorse sufficienti per continuare a pagare le milizie che lo tengono in piedi. A quel punto, come scrive l’analista Mattia Toaldo su Die Zeit, il rischio sarebbe di riprodurre uno scenario iracheno, «quando nel 2003 centinaia di migliaia di soldati di Saddam si trovarono senza impiego, e nel giro di pochi anni si trasformarono da militari laici in combattenti dello Stato Islamico».
Ricomporre l’integrità statuale della Libia — invenzione dei colonizzatori italiani — è probabilmente utopico. Ma almeno in Tripolitania e in alcuni insediamenti del Sud-Ovest il governo Serraj, asserragliato a Tripoli, può contare sul sostegno delle principali milizie. In particolare nell’ex capitale e a Misurata — città di antica vocazione commerciale, che dispone delle brigate più efficienti in teatro. Ovviamente non si tratta di scelta ideologica ma economica: finché i miliziani incassano il soldo dal governo, bene. Un minuto dopo, gli stessi fedelissimi potrebbero assaltare le sedi delle istituzioni e delle organizzazioni internazionali. A protezione di queste ultime dovrebbe essere presto schierato un contingente straniero di circa duecento uomini, di cui una cinquantina italiani. Meno plausibile la protezione internazionale dei pozzi petroliferi, che comunque dipenderà dall’improbabile richiesta esplicita del governo di Tripoli.
Fino a che punto Serraj è davvero appoggiato da europei e americani? Alla prima domanda la risposta non è univoca. L’Italia è fermamente schierata con il governo di conciliazione nazionale. L’America lo sostiene, ma senza spendersi troppo. La Gran Bretagna è impegnata con i suoi esistenziali problemi domestici e comunque è interessata soprattutto alla Cirenaica. La Francia oscilla fra le dichiarazioni di appoggio al governo tripolino e il concreto sostegno che sue unità ombra stanno offrendo al grande rivale di Serraj, il generale Khalifa Haftar. Dalla sua roccaforte di Tobruk, costui si rifiuta di scendere a patti con il rivale tripolino. Punta anzi, grazie al sostegno degli Emirati Arabi Uniti e dell’Egitto, a partire alla conquista di tutta la Cirenaica, a cominciare dai pozzi petroliferi. Come per Serraj, anche per Haftar il futuro dipende dalla conquista dei “suoi” campi petroliferi e dall’esportazione del “suo” greggio attraverso un ente petrolifero parallelo. Solo così potrebbe costruire uno Stato cirenaico, di fatto un protettorato egiziano-emiratino.
In queste ore Tobruk sta infatti cercando di esportare illegalmente 650 mila barili di greggio, ma al tanker Distya Ameya, battente bandiera indiana, è stato vietato di attraccare a Malta. Quando il denaro non si ottiene nello scambio contro merci, c’è solo un’alternativa: produrlo. Haftar è in trattative con i russi per stampare pseudo-dinari libici, creando una sua valuta parallela, con gli immaginabili rischi di inflazione.
Quanto a Serraj, il suo percorso richiede abilità di alta acrobazia. Non può infatti fare a meno del pur labile supporto euro- americano e di alcuni Paesi della regione. Ma non può nemmeno troppo esibirlo. Come il suo sfortunato predecessore Ali Zeidan (2012-14), esita a richiedere formalmente l’aiuto militare internazionale perché teme di essere bollato quale fantoccio dell’Occidente. Il quale secondo le locali teorie del complotto lo avrebbe scelto unicamente per farsene legittimare l’ennesima spedizione neocoloniale “stivali per terra”.
La sua prossima mossa, d’intesa con alcune diplomazie europee e con l’inviato dell’Onu Martin Kobler, potrebbe essere quindi di portare a Gadames, presso la frontiera con Algeria e Tunisia, almeno una quota rilevante del parlamento riconosciuto, oggi bloccato a Tobruk da Haftar, per esserne battezzato come legittimo esecutivo. Altrimenti, il fallimento sarebbe dietro l’angolo. E con esso svanirebbero le residue speranze di stabilizzare l’ex Libia.
Moriamo prima, viviamo peggio. Grazie Mount Pelerin Society, grazie austerity dell' UE, e grazie soprattutto a te, Matteo Renzi. Il manifesto, 27 aprile 2016
Rapporto salute. Per la prima volta nella storia d'Italia sta calando l'aspettativa di vita degli italiani, un fatto quasi inedito nel mondo occidentale. Questa è la diagnosi del rapporto Osservasalute 2015 presentato ieri all'Università Cattolica di Roma. I motivi? Scarsa prevenzione e tagli della spesa sanitaria. "Siamo il fanalino di coda della prevenzione nel mondo e questo ha un peso", spiega il presidente dell'Istituto superiore di Sanità Walter Ricciardi
Si muore di più. Ci si cura di meno. I motivi? Scarsa prevenzione, calo delle vaccinazioni, pochi screening oncologici e soprattutto diminuzione della spesa sanitaria. “Abbiamo avuto la più grande epidemia di mortalità della storia dall’Unità d’Italia: i 54 mila decessi in più nel 2015 rispetto all’anno precedente sono dovuti sicuramente alla popolazione vecchia, ma anche all’influenza e alle sue complicanze, e ai servizi che non riescono più a dare risposte ai cittadini. Ci sono parti del paese in cui i cittadini fanno fatica ad accedervi”.
La diagnosi del presidente dell’Istituto superiore di Sanità, Walter Ricciardi, orienta la lettura del fittissimo rapporto Osservasalute 2015 presentato ieri all’Università Cattolica di Roma. Davanti a quest’ammassarsi di tombe e di nuovi malati, bisognerebbe almeno avere la lucidità di comprendere che le minori risorse destinate al Sistema sanitario nazionale, e la conseguente incapacità di soddisfare i bisogni dei cittadini, non c’entrano nulla con l’ineluttabilità della morte ma fanno parte di una precisa strategia politica che risponde a una logica di profitto, e apre enormi spazi al settore sanitario privato.
Per la prima volta nella storia d’Italia sta calando l’aspettativa di vita degli italiani, un fenomeno che ha pochissimi precedenti nel mondo occidentale. Nel 2015 la speranza di vita per gli uomini è stata di 80,1 anni e per le donne di 84,7 (tre mesi in meno rispetto al 2014). E le differenze registrate nei territori sono scandalose. «Oggi i cittadini di Campania e Sicilia - spiega Ricciardi - hanno un’aspettativa di vita di quattro anni in meno rispetto a chi vive nelle Marche o in Trentino. Abbiamo perso in quindici anni i vantaggi acquisiti in quaranta. E se è vero che l’Italia ha uno dei migliori sistemi sanitari al mondo, questo vale solo per una minoranza di italiani». Potrebbe andare diversamente? Difficile se l’Italia, come dice il rapporto, è il paese europeo che oggi spende meno per la prevenzione, e se la spesa sanitaria continuerà a diminuire come già accade dal 2010.
Le conseguenze e lo stato di salute degli italiani del resto sono state fotografate anche da un recente rapporto dell’Ocse secondo cui il 7,1% degli italiani (più di 4,2 milioni di persone) rinuncia a farsi curare perché il costo della prestazione è troppo alto, le liste d’attesa troppo lunghe oppure l’ospedale troppo lontano. Il dato raddoppia nel caso in cui gli intervistati appartengano al 20% della popolazione più povera. Inoltre, segnala l’Ocse, ticket cari e liste d’attesa, spingono molti italiani a farsi curare nel privato.
I numerosi elementi di criticità sottolineati da Walter Ricciardi sono piuttosto sconfortanti. La spesa sanitaria pubblica è passata dai 112,5 miliardi di euro del 2010 ai 110,5 del 2014, una contrazione che è servita a contenere i deficit regionali ma ha coinciso con il blocco o la riduzione del personale sanitario (e dei consumi). Il dato di 1.817 euro di spesa sanitaria pro capite dice che l’Italia è tra i paesi he spendono meno. Nell’ultimo anno, per esempio, il Canada ha speso il doppio, la Germania il 68% in più e la Finlandia il 35%. Sembra che ci sia poco altro da spolpare. Nel 2014 la dotazione di posti letto negli ospedali era di 3,04 per 1000 abitanti per la componente “acuti” e di 0,58 per 1000 per post-acuzie, lungodegenze e riabilitazioni: sono valori già inferiori agli standard normativi. Anche la spesa per il personale, in rapporto alla popolazione, è diminuita del 4,4% nel triennio 2010-2013. “Il fattore preoccupante – spiega Alessandro Solipaca, segretario scientifico dell’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni – è che i tagli di personale operati nel corso degli ultimi anni potrebbero produrre degli effetti sull’erogazione e sulla qualità dell’assistenza, e in maniera differenziata nelle diverse aree del paese” (nel 2013 sono state assunte 85,6 persone ogni 100 pensionati).
La scarsità dell’investimento nella prevenzione provoca morti: l’Italia destina solo il 4,1% della spesa sanitaria totale all’attività di prevenzione, una quota che ci colloca tra gli ultimi trenta dell’area Ocse. Risultato: è in aumento l’incidenza di alcune patologie tumorali prevenibili. «Siamo il fanalino di coda nella prevenzione nel mondo, e questo ha un peso». Un altro capitolo con risvolti anche drammatici riguarda le vaccinazioni, in particolare l’antinfluenzale per gli over 65: dal 2003 al 2015 la copertura è passata dal 63,4 al 49%, un calo preoccupante che allontana l’Italia dal livello minimo del piano nazionale che indica una percentuale al 75%. Detto questo, il ministro della Salute Beatrice Lorenzin ha avuto una idea geniale: «Nel nostro paese dobbiamo tornare a investire nella prevenzione primaria e secondaria, la prevenzione è una cosa alla quale le Regioni, tutte, devono prestare il massimo dell’impegno e dell’attenzione». Il ministro ha anche invitato gli italiani a seguire uno stile di vita corretto.
Gli italiani sono messi così così. I fumatori sono in calo: nel 2010 fumava il 22,8% della popolazione, nel 2013 il 20,9%. I consumi di alcol, invece, sono in leggera crescita. Con calma, stiamo diventando più sportivi: nel 2014 il 28% della popolazione ha dichiarato di svolgere un’attività di tipo amatoriale (passeggiate, corsa, bici, nuoto). I consumi alimentari non sono proprio da popolazione ben educata: nel periodo 2001-2014 la persone in sovrappeso sono passate dal 33,9 al 36,2% (più magri al nord, più in carne al sud). Ma è un altro tipo di consumo che meriterebbe di essere approfondito con dati non solo di natura statistica: gli antidepressivi in Italia sono sempre in aumento. Tecnicamente - ma il dato non può che essere sottostimato considerando che l’automedicazione è prassi - su 1000 abitanti si registrano 39,30 dosi di ansiolitici o antidepressivi. Sono in leggero aumento anche i suicidi (7,99 casi su 100 mila nel 2011-2012). Un’altra spia che dice che il sistema non funziona - non solo sanitario.
Riferimenti
Che cos'è la Mount Pelerin Society: il potente gruppo di pensatori e altri personaggi influenti che costruì l'ideologia del neoliberalismo ("neoliberism") che da decenni domina il mondo. Guardate, per esempio, l'informazione neutrale di Wikipedia. Per una più realistica lettura critica leggete, di David Harvey, Breve storia del neoliberismo
«Il movimento francese contro il Jobs act di Valls e Hollande dilaga in tutto il paese. La protesta degli studenti e dei precari contro la riforma del lavoro coinvolge i ferrovieri e i portuali. In migliaia restano nelle piazze fino a notte fonda. A due settimane dal gigantesco sciopero contro il governo socialista, gli orologi sono fermi.
Il Manifesto, 15 aprile 20916
Se la difesa dello statuto dei lavoratori sotto attacco è il primo punto all’ordine del giorno, la posta in gioco della mobilitazione è ben altra. Al coordinamento nazionale degli studenti medi, che sabato e domenica si è riunito per la prima volta a Nanterre, c’è perfino chi suggerisce di votare la rivoluzione. Nelle assemblee universitarie (miste, non miste, di dipartimento e interfacoltà), che si susseguono e si moltiplicano a scadenze ravvicinate, il lavoro è in questione: si discute delle 32 ore, dei sussidi di disoccupazione, di basic income e organizzazione sindacale.
C’è chi perora la causa dei contratti a tempo indeterminato, chi dice “lavorare tutti/lavorare meno” e chi, come Selim, al quarto anno di filosofia alla Sorbona, di lavoro salariato non vuole sentire parlare perché andrebbe abolito. L’assemblea degli studenti di filosofia di Paris 1, riunita lunedì nell’anfiteatro Turgot, si confronta a lungo sulla mozione che propone l’aumento di 300 euro del salario minimo (Smic). Per alcuni è una mossa al ribasso, per Mathieu, che la difende a spada tratta, “non significa la fine del capitalismo, ma è una misura concreta che può servire a qualcosa”; alla fine conquista i pareri degli scettici e la maggioranza è favorevole.
“Fare deragliare il governo”
Rapidamente nel corso delle riunioni studentesche è maturata la consapevolezza che non è possibile combattere la Loi Travail senza espandere il perimetro della contestazione: quindi si esige anche la fine dello stato di emergenza, si chiede la revoca della nuova legge contro la prostituzione che criminalizza i clienti, si condannano gli sgomberi degli accampamenti dei rifugiati, si chiede il rilascio immediato dei manifestanti fermati e si decidono azioni concrete di sostegno ai lavoratori in lotta.
La lettera indirizzata ai ferrovieri della Gare d’Austerlitz dagli studenti di Paris 1 e dell’Ecole Normale Supérieure comincia così: “Cari lavoratori e lavoratrici, […] il 31 marzo eravamo più di un milione in piazza a manifestare e a esprimere in massa e con entusiasmo la nostra collera e il rifiuto categorico di questa progetto antisociale. La pioggia e i manganelli non sono riusciti ad abbatterci”. Se il calendario di mobilitazione previsto dalle direzioni sindacali rischia di “dividere il movimento proprio nel momento in cui è fondamentale restare uniti”, gli studenti prendono l’iniziativa da soli e invitano i ferrovieri a Tolbiac, a partecipare sabato mattina a un’assemblea interprofessionale di quartiere con i postini, gli insegnanti, il personale dell’ospedale della Pitié-Salpêtrière e altri lavoratori mobilitati. Se “la convergenza delle lotte non è un mito, né il disco rotto di militanti ottusi, ma la sola carta vincente di questo movimento”, allora bisogna darsi da fare.
E gli studenti non perdono tempo: in duecento martedì pomeriggio hanno fatto incursione alla stazione di Saint-Lazare per dare manforte ai travailleurs debout con la proposta di “far deragliare insieme il governo”. L’obiettivo di questo e altri interventi a fianco di un settore tradizionalmente combattivo, e ora in lotta contro l’attuale riforma dello statuto dell’impresa ferroviaria oltre che contro la Loi Travail, è il tentativo di rinnovare le relazioni pericolose tra studenti e ferrovieri e far scoccare la scintilla sui binari per accendere la fiamma dello sciopero generale, come accaduto a maggio del 1968 e a novembre del 1995.
Call Center, la catena della miseria
Karim, delegato di Sud Rail, che lavora nelle officine di manutenzione dei Tgv e degli Eurostar di Saint-Denis, prende la parola all’incontro sulla convergence des luttes organizzato dal comitato di mobilitazione di Paris 8. “Venite a trovarci in stazione e in officina, perché abbiamo bisogno di sapere che c’è gente là fuori che non aspetta altro che paralizziamo tutti i treni”. Marie, studentessa di Paris 8, raccoglie l’invito: “Se non lo facciamo noi che abbiamo tempo ed energia a disposizione, chi lo deve fare questo lavoro?”. La parata di lavoratori e studenti in lotta che chiedono e promettono di sostenersi a vicenda continua.
Ci sono anche Moustafa e Karine di Air France, Alexis della RATP, l’azienda metropolitana di Parigi, Elisa della coordination degli intermittenti dello spettacolo, e il collettivo degli operatori sociali del 93, un distretto alla periferia nord della capitale. Luís lavora al 3949, il call center del collocamento.
“Lo chiamiamo il gulag perché è un inferno. Noi lavoriamo come sorvegliati speciali, mentre i disoccupati che telefonano ci trattano come se fosse colpa nostra”. Luís racconta la “catena della miseria” che nelle banlieues si propaga all’infinito. Per questo “la battaglia contro la Loi El Khomri deve farsi carico delle periferie dove il lavoro è già una tragedia e per essere fermati dalla polizia non serve neanche manifestare”. Kenza, del coordinamento degli studenti medi, fa appello all’unità contro le intimidazioni.
Cgt: se la polizia tocca uno studente, blocchiamo i porti
Dopo il caso (virale su youtube con oltre due milioni di visualizzazioni) di Danon del liceo Bergson, a Parigi, preso a pugni da tre poliziotti che gli hanno spaccato il naso, e la vicenda di Ryan, il quindicenne fermato per 24 ore con l’accusa di aver tentato di bruciare un cassonetto davanti al liceo Voltaire, che ora rischia fino a 10 anni di prigione e 75mila euro di penale per danneggiamento di beni materiali suscettibile di causare danni a terzi, al liceo Blanqui, a Saint-Ouen, i militari pattugliano l’ingresso dell’edificio, formalmente per ottemperare al piano Vigipirate antiterrorismo.
Manuela lavoratrice portuale di Le Havre, in Normandia, lancia una proposta concreta: “Da noi la CGT ha votato una mozione semplice: se la polizia tocca uno studente, blocchiamo il porto, e finora la minaccia ha funzionato”. Applausi.
Contro la tentazione diffusa a isolare i casseurs (letteralmente “quelli che spaccano”), la portavoce del coordinamento nazionale degli universitari Aïssatou Dabo ha replicato che “la violenza sta tutta da una parte sola”. Gli studenti, insomma, non ci cascano. E il fatto che qualche migliaio di poliziotti abbia sfilato il 7 aprile scorso all’appello del sindacato Unité-police SGP-FO per chiedere una riqualificazione professionale e remunerativa all’altezza degli sforzi supplementari imposti dallo stato di emergenza, è forse la cartina di tornasole più palese di uno stato di repressione, che è riuscito ad affaticare non solo chi lo subisce ma perfino chi lo infligge.
Place de la République: centro irradiatore
Finora, nonostante gli incidenti di percorso, gli studenti hanno dimostrato di avere tutto quello che serve per continuare la protesta: i piedi per terra, per correre e sfuggire alle cariche della polizia, e la testa sulle spalle, per non lasciare che la divisione mediatica tra buoni e cattivi si insinui a frantumare il movimento. Il corteo del 5 aprile è stata una bella prova di solidarietà. A Parigi la manifestazione è finita dopo ore e ore di presidio davanti al commissariato di Rue de l’Evangile in attesa che i compagni arrestati venissero rilasciati (130, di cui molti adolescenti) e si è conclusa con una marcia trionfante e spontanea che poi è confluita verso la Place de la République per ripartire di nuovo, a tarda notte, verso il Quartiere Latino e erigere le barricate sul Boulevard Saint-Germain aspettando la liberazione degli ultimi fermati.
La place de la République, che solo pochi mesi fa era stata investita dal lutto commemorativo degli attentati di novembre, è stata designata dai promotori della Nuit debout a epicentro della protesta. La trovata viene da lontano e risale a una riunione organizzata il 23 febbraio alla Camera del lavoro, non lontano da lì, su iniziativa della redazione del giornale satirico Fakir, diretto da François Ruffin, il regista del film Merci patron!, che sta riscuotendo un successo sorprendente nelle sale e nelle piazze francesi.
In quell’occasione lavoratori, precari, studenti e sindacalisti hanno lanciato la proposta di inventare un modo per “mettere paura” al governo. Quando a marzo quell’iniziativa ha incrociato il percorso della battaglia contro la Loi Travail, è nata l’idea di occupare République, a partire dalla notte del 31 marzo, per perpetuare il movimento e fare in modo che il 1 aprile non segnasse una battuta d’arresto della protesta cristallizzata dallo sciopero del giorno precedente. Così è nato il nuovo calendario che sta prolungando all’infinito il mese di marzo.
Straripamenti
Trascorrere la nuit debout significa rimanere svegli e vigili, ma restare anche in piedi, ben dritti pronti a resistere e contrattaccare. Occupata dopo tre settimane dall’inizio della mobilitazione contro la Loi Travail, la Place de la République, non è il “crepuscolo dei bobo” (bourgeois-bohémiens) che vorrebbe Le Figaro, ma un centro di irradiazione delle lotte. La manifestazione del 9 aprile, partita da République e conclusa tra cariche e lacrimogeni a Place de la Nation, verso sera è tornata al punto di partenza. Da lì ancora centinaia di manifestanti hanno lanciato la proposta di andare a prendere l’aperitivo a casa del primo ministro Manuel Valls. E dopo una lunga scorrazzata in giro per i quartieri del centro – unica vittima un veicolo elettrico dell’autolib, il servizio di car sharing di proprietà del gruppo Bolloré, antico marchio del capitalismo francese dal 1822 – tutti sono riconfluiti di nuovo in piazza cercando di bloccare il traffico dei boulevard limitrofi.
Per prevenire altri “straripamenti”, paventati dalla sindaca socialista della capitale Anne Hidalgo, l’ennesimo sgombero della Place de la République minacciato per la notte di domenica, è avvenuto prevedibilmente all’alba di lunedì, ma la piazza è stata altrettanto prevedibilmente rioccupata dai protagonisti della Nuit debout. All’appello del segretario del Partito Socialista, Jean-Christophe Cambadélis rivolto ai CRS debout! (Celerini in piedi!) la piazza ha risposto per le rime: Paris debout, Valls à genoux! (Parigi in piedi, Valls in ginocchio). E intanto dalle tante piazze francesi della Nuit debout meno celebrate dai riflettori, ma combattive e persistenti, si fa strada l’idea di un appuntamento parigino nazionale, mentre si moltiplicano le notti brave anche nelle periferie della capitale grazie agli sforzi delle assemblee interprofessionali e delle associazioni di quartiere.
Anomalia francese
L’occupazione della piazza evoca inevitabilmente i precedenti illustri di questi ultimi anni – Puerta del Sol, Zuccotti e Gezy Park. Ma i paragoni aiutano fino a un certo punto e rischiano di annacquare l’anomalia francese. Intanto, a differenza del 15-M e di Occupy, la Nuit debout si inscrive all’interno di un movimento sociale nato per contestare un provvedimento di legge che rimette in discussione i capisaldi del diritto del lavoro; non a caso lo sciopero generale, profondamente inscritto nella tradizione del movimento operaio di questo paese, è una delle parole d’ordine della protesta.
E a République tra le tante commissioni che si riuniscono quotidianamente o quasi – Françafrique, azione, democrazia, migrazione lgbt+, educazione, femminismo, economia, discriminazione – per poi presentare lo stato dei lavori ogni sera in assemblea c’è anche la commissione grève générale. In secondo luogo si tratta di un movimento offensivo che ha dato ripetutamente prova di voler forzare limiti e divieti imposti dall’ordine pubblico, pur incanalando la collera nei ranghi della strategia. Merita di non essere trascurata nemmeno la partecipazione delle organizzazioni politiche e sindacali all’esperienza della Nuit debout. Il processo di erosione della legittimità di queste stesse organizzazioni che aveva largamente ispirato l’M15, è per ragioni storiche e congiunturali meno pronunciato in Francia che in Spagna.
Furiosamente espansivi
La dinamica della piazza è furiosamente espansiva. A République non solo confluiscono le tante anime della protesta, ma da lì defluiscono per mobilitare altre forze e altri spazi. La convergence des luttes, un cavallo di battaglia di vecchia data nella storia dell’extrême gauche francese, è nel ritmo prima e oltre che nello spazio, e consiste nel tentativo di sincronizzare gli orologi della lotta. Il tous ensemble, l’arma gloriosa degli scioperi del 1995 contro la riforma del welfare dell’allora primo ministro di Chirac, Alain Juppé, e l’obiettivo dichiarato di questo movimento, non può che essere il risultato di una trama composita di tempistiche non allineate.
Per questo tra le fila dei militanti sindacali, degli studenti e di tanti lavoratori mobilitati c’è timore che le direzioni confederali, la Cgt in primis, rischino di bruciare i tempi rinviando la convocazione del prossimo sciopero al 28 aprile. Per ora le gentili concessioni di Valls agli studenti non hanno sortito alcun esito, mentre Cgt, Sud, Fo, Fsu mantengono la richiesta del ritiro in blocco della Loi Travail.
Se ci fossero ripensamenti da parte dell’Unef, il principale sindacato degli universitari e il più moderato, il coordinamento nazionale degli studenti sarà pronto a contestare qualsiasi accordo unilaterale. A fine aprile inizia perciò il secondo round della mobilitazione: dopo lo sciopero intersindacale del 28, che alcuni settori sembrerebbero pronti a prolungare, la discussione della legge debutterà in Assemblea Nazionale il 3 maggio – qualche settimana prima del processo agli operai di Air France protagonisti a ottobre dell’affaire delle camicie strappate, fissato per il 27 maggio – per concludere a giugno l’iter parlamentare. Difficile fare previsioni in attesa di questo secondo round.
Intanto un nuovo movimento sociale ha cominciato a prender forma, tramutando la rabbia, la crisi, e i tempi bui dell’état d’urgence in qualcosa di nuovo e fortunatamente imprevedibile. “Non sapevano che fosse impossibile, allora l’hanno fatto”, direbbe Mark Twain.
Uno strano paese, una strana democrazia negli USA: un popolo capace di offrire sorprendenti audacie. Perché dopo un presiedente nero non sperare in un presidente socialista?
La Repubblica, 16 aprile 2016
«Sarò felice di incontrare il Papa, se questo sarà possibile. E di discutere i temi sociali, economici e ambientali che propongo da decenni e sui quali ho molte similarità con lui. Poi tornerò negli Stati Uniti. Martedì ci sono le primarie di New York, una battaglia importante con Hillary Clinton per la nomination democratica. Se alla fine vincerò, come penso, affronterò poi la sfida con il repubblicano Donald Trump per arrivare alla Casa Bianca».
È l’uomo nuovo della politica americana. Non ha paura a definirsi «un socialista». E vuole rovesciare il sistema economico e politico, risanandolo. Per questo ha file di ammiratori e di detrattori. Il senatore Bernard Sanders, Bernie per tutti, è l’incognita variabile delle elezioni presidenziali di novembre. Se vince, sarà una sorpresa. Se perde, la sua influenza andrà oltre le presidenziali del 2016.
In ogni caso un successo, come testimoniano i risultati già raggiunti che fanno tremare Hillary.
Oggi pomeriggio il senatore del Vermont, nato a New York 74 anni fa, parlerà in Vaticano a un convegno per i 25 anni dell’Enciclica sociale di Giovanni Paolo II “Centesimus annus” organizzato dalla Pontificia accademia delle Scienze sociali. Ci saranno diversi leader della sinistra latinoamericana: dal presidente ecuadoregno Correa al capo di Stato boliviano Morales. E poi l’economista Jeffrey Sachs e il cardinale honduregno Oscar Andres Rodriguez Maradiaga. Una riunione insolita dentro le Mura vaticane. Sanders ne parla volentieri in questa intervista esclusiva con Repubblica.
Senatore, come ha ricevuto l’invito a partecipare al convegno in Vaticano? Lei ha addirittura sospeso la sua campagna elettorale in un momento decisivo, il confronto di New York. Felice di varcare le porte della Santa Sede?
«Sono molto felice e orgoglioso di partecipare a questo convegno. Ho ricevuto l’invito dal Cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze sociali, monsignor Marcelo Sanchez Sorondo, al quale esprimo i miei ringraziamenti. La squadra di relatori è di alto livello ed è concentrata sulle questioni che studio e propongo da decenni: i temi della giustizia sociale e della sostenibilità ambientale, tutte questioni fondamentali per la ripresa dell’economia mondiale”.
Incontrerà Papa Francesco?
«Sarò molto felice di vederlo, se me ne verrà data l’opportunità ».
Il suo intervento si intitola “L’urgenza di un’economia morale”: quali sono i temi principali?
«Affronterò soprattutto la distribuzione delle risorse globali, le diseguaglianze nella sanità e i cambiamenti climatici. Non trovo accettabile da un punto di vista morale, economico o ambientale che così poche persone abbiamo così tanto e che l’avidità stia dilagando ovunque».
Quali similitudini trova allora fra le cose che lei propone e la visione del mondo e dell’economia di Jorge Bergoglio?
«Guardi, io penso che la ragione per la quale sono stato invitato a partecipare a questo convegno sia che molti degli argomenti che il Papa affronta sono simili ai miei. Sono un grandissimo sostenitore del Pontefice, anche se ho opinioni diverse dalle sue su alcuni temi, a partire dalla legalizzazione delle coppie omosessuali. Ma penso che Francesco sia una figura carismatica che sta aiutando l’opinione pubblica a prendere coscienza delle diseguaglianze di reddito e ricchezza che vediamo in tutto il mondo».
Lei ha sicuramente visto le polemiche per il suo viaggio lampo in Vaticano. Pensa di avere l’appoggio della Santa Sede per la campagna elettorale?
«No, non è così. Il Vaticano non è coinvolto in questo. E il convegno in programma non è un evento politico».
Proprio sulla campagna elettorale, quali sono le sue sensazioni fino ad ora?
«Stiamo cavalcando un grande momento. Tra la fine dei caucus e le primarie stiamo colmando il gap che c’era, e abbiamo ancora molta energia da spendere. Vedo che ogni giorno migliaia di persone arrivano dalla nostra parte. Io sono determinato a vincere la nomination e poi ad affrontare Donald Trump».
Lei ha molti giovani dalla sua parte. Ma il voto dei neri?
«Abbiamo la metà della comunità afro-americana con noi. Ma, certo, c’è ancora molto lavoro da fare. E sono sicuro che supereremo le difficoltà che restano».
Pensa di avere delle possibilità di battere la senatrice Clinton?
«Lo penso, sì. In questo i segnali dei caucus e delle primarie mi stanno confortando. Stiamo andando bene. Otterrò la nomination».
E nel caso poi di un confronto diretto con Trump, ritiene che gli americani si schiereranno con lei?
«Lo credo fortemente. Vedo ogni sondaggio che riguarda Trump e sono confortato. Sono certo che in ultimo lo batterò nella corsa alla Casa Bianca ».
Ma non sarà imbarazzato, lei, un socialista dichiarato, nel varcare oggi le porte della Santa Sede?
«Non credo proprio. La Chiesa oggi parla anche di donne e di omosessuali. Il Papa vuole riparare la società dalle ingiustizie sociali. E in questo sono perfettamente con lui».
Col referendum NoTRIV, si apre la stagione dei referendum. I quesiti contro le norme dell’Italicum, Buona Scuola, Sblocca Italia e Jobs Act. La raccolta delle firme continua oggi e durerà fino a luglio. E' il rilancio di una nuova stagione referendaria , l'estrema difesa della democrazia. Il manifesto, 11 aprile 2016
Undici quesiti referendari per una nuova stagione della democrazia. Frutto di percorsi eterogenei destinati a incontrarsi come affluenti nello stesso fiume, ieri è iniziata la raccolta firme per abrogare le principali leggi del governo Renzi nella primavera del 2017. Ci sono due quesiti sull’Italicum; tre sul Jobs Act; quattro sulla Buona Scuola e due sullo Sblocca Italia. A una settimana dal referendum NoTriv del 17 aprile e a sei mesi da quello costituzionale, movimenti sindacati e associazioni già rilanciano la battaglia a tutto campo contro Renzi e il Pd.
«Anche se il conduttore dice di aver incalzato Riina con le domande evidentemente non è riuscito a ottenere risposte che non fossero quelle prevedibili di un mafioso figlio di un mafioso, portatore di un codice di omertà che ha dato un’eccezionale prova di forza».
La Repubblica, 8 aprile 2016 (m.p.r.)
Roma. «Immagino gli applausi dei mafiosi per la fermezza dimostrata in tv dal figlio di Riina...». Sono 48 ore di collera mista ad amarezza quelle del presidente del Senato Piero Grasso. Proprio lui, il giudice che ha motivato le condanne del maxi processo a Cosa nostra, lui ex procuratore Antimafia, ma soprattutto il magistrato che Totò Riina avrebbe voluto far saltare in aria nel ‘93, con il tritolo piazzato in un tombino, mentre andava a trovare la madre.
«Premi. Il riconoscimento a Mimmo Lucano, sindaco di Riace, da parte del settimanale
Fortune. Ma tali riconoscimenti devono essere accompagnati da un po’ di risorse pubbliche». Il manifesto, 2 aprile 2016 (p.d.)
Non è facile dissentire da questo papa. Eppure, a volte è necessario farlo: per esempio, a proposito di laicità dello stato.
La Repubblica, 31 marzo 2016
Da cristiano, prima ancora che da cittadino, sono stato profondamente colpito da un passaggio dell’incalzante meditazione con cui papa Francesco ha chiuso la Via Crucis del Venerdì Santo. Con una scelta davvero molto forte, il pontefice ha incluso tra i peccati devastanti di un’umanità che torna a crocifiggere Cristo (stragi, terrorismo, vendita di armi, pedofilia, corruzione, distruzione dell’ambiente...) anche un’opinione: «O Croce di Cristo – ha detto Francesco – ti vediamo ancora oggi in coloro che vogliono toglierti dai luoghi pubblici ed escluderti dalla vita pubblica, nel nome di qualche paganità laicista, o addirittura in nome dell’uguaglianza che tu stesso ci hai insegnato ».
Se non è mai facile, per un cristiano, dissentire dal papa, lo è ancora di meno di fronte a questo papa: così evidentemente profetico, ed evangelico. D’altra parte, è difficile non interrogarsi sulle conseguenze di questa fortissima – per quanto implicita – riaffermazione della necessità di una società cristiana, e addirittura di uno Stato cristiano.
Perché, naturalmente, la presenza del crocifisso nelle aule pubbliche italiane è regolata dallo Stato, per legge. Per le scuole essa fu prescritta dalla legge Casati (promulgata nel Regno di Sardegna nel 1859, e poi estesa all’Italia unita), e poi fu duramente ribadita (a colpi di circolari, decreti e ordinanze) durante il fascismo. Dopo che la revisione del Concordato del 1984 aveva esplicitamente recepito la svolta costituzionale per cui il cattolicesimo non è più religione di Stato, è sorto un forte dibattito pubblico (ripercorribile in Sergio Luzzatto, Il crocifisso di Stato, Einaudi 2011) sull’opportunità di rimuovere i crocifissi dalle aule statali. I vari tentativi di intraprendere, a questo fine, la via giudiziaria si sono fermati di fronte a una sentenza della Corte di Strasburgo del marzo 2011, che – ribaltando una sua altra sentenza – ha stabilito che il crocifisso non è, in Italia, un simbolo religioso attivo, ma un elemento culturale e identitario “passivo”, e come tale incapace di agire sulla coscienza degli alunni. Mentre, in Italia, la Conferenza episcopale esultava, il rabbino capo di Roma, Riccardo di Segni, osservò che «dire che il crocifisso è simbolo culturale è, a mio parere, mancargli di rispetto». Da cristiano formatosi sui testi di don Lorenzo Milani – che tolse il crocifisso dall’aula della sua scuola – mi trovai perfettamente d’accordo con quel giudizio: perché profondamente convinto della non passività del crocifisso.
Da cittadino dell’Europa dilaniata dalle bombe di Parigi e Bruxelles mi chiedo oggi se non abbiamo nuove ragioni per essere in disaccordo con quella sentenza – e con il papa. Combattiamo la mostruosità di un sedicente Stato Islamico: dove ad essere mostruosa è la pretesa di essere uno Stato, ma anche quella di essere islamico. Ed è l’unione delle due cose, cioè la mescolanza tra Stato e religione, a ripugnarci profondamente. Non è forse questo un buon motivo per essere più radicalmente fedeli alle nostre convinzioni, quelle su cui si basa questa ripugnanza? Non è forse il momento in cui i cristiani d’occidente ribadiscano con forza che la laicità dello Stato, la neutralità religiosa dello spazio pubblico e un rispetto incondizionato per le minoranze religiose non sono altrettante “paganità laiciste”, ma valori non sradicabili dalla nostra identità di cittadini? Lungi dall’essere un cedimento, una simile scelta sarebbe la più ferma delle risposte: non accettiamo il ruolo dei crociati. Da cristiano credo che Gesù ci abbia insegnato l’uguaglianza più radicale. Ma da cittadino italiano credo nell’articolo 3 della Costituzione, che ci invita a rimuovere gli ostacoli che impediscono un’uguaglianza sostanziale. E credo che, facendo questa distinzione, si obbedisca anche al precetto evangelico che obbliga «a dare a Cesare, quel che è di Cesare». Come scriveva Mario Gozzini nel 1988, “la fede cristiana non ha bisogno di orpelli statali per essere testimoniata come fermento che rende più umano il tessuto sociale”.
Naturalmente questo non significa affatto ridurre la fede ad una dimensione privata: «Che la religione nelle società democratiche e laiche debba avere una rilevanza pubblica, per me è del tutto pacifico» (così Luigi Manconi nel suo recentissimo, e bellissimo, Corpo e anima. Se vi viene voglia di fare politica, Minimum fax 2016). Ma la rilevanza pubblica è ben altra cosa dall’imposizione attraverso le leggi dello Stato: ed è precisamente in questo che i criteri e i valori in cui ci riconosciamo sono diversi da quelli di chi sta seminando la morte nelle strade dell’Europa.
Nelle classi dei miei figli (scuola primaria pubblica, centro di Firenze) ci sono diversi bambini musulmani: che non hanno una moschea in cui pregare (finora il Comune e la Curia hanno remato contro), ma ogni mattina trovano un crocifisso nella loro aula scolastica. Se vogliamo lavorare all’Italia in cui questi bambini saranno tutti egualmente cittadini, dobbiamo lasciarci alle spalle il retaggio non certo del cristianesimo, ma della legge Casati. Il modo più carico di futuro per reagire al terrore è costruire una società più inclusiva: una comunità civile che sappia essere davvero di tutti. Un’Italia in cui chi è arrivato all’ultima ora abbia gli stessi diritti di chi c’è fin dall’inizio: come dice la Costituzione (e come dice il Vangelo).
Il Fatto Quotidiano, 23 marzo 2016 (m.p.r)
«Vent’anni dopo l’assedio la pace è un lungo dopoguerra. Ecco cosa resta del conflitto che ha cambiato il volto dell’Europa».
La Repubblica, 17 aprile 2016 (m.p.r.)
Quattro Bmw nere ultimo modello con vetri affumicati arrivano sgommando davanti a un ristorante sulla strada fra Tuzla e Sarajevo. Ne escono dieci uomini con giubbotto antiprotettile e pistole nelle fondine, seguiti da civili e qualche valigetta 24ore. L’ultimo ad aprire la portiera è un uomo in giacca e cravatta, faccia rubiconda. Entra senza salutare con la scorta, nella locanda si fa silenzio. Consuma agnello arrosto, patate. Beve un bicchiere di yogurt misto ad acqua, poi butta sul tavolo una manciata di euro spiegazzati e se ne va, seguito dai guardiaspalle. Non è un boss. È un ministro. E la gente dice che è cosa normale. La Bosnia è in mano alla mafia, mentre il popolo è alla fame.
A partire dagli eventi pre-elettorali di Roma, una lettura dell'evoluzione della destra italiana dopo la crisi del berlusconismo. Chi rifonderà l'area della sinistra?
Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2016 (m.p.r.)
Come al solito su queste pagine una domanda riemerge, drammatica: come mai un così palese disprezza della democrazia, un così pertinace privilegio ai grandi interessi economici a danno degli interessi di tutti non toglie consensi all'autore di queste scelte?
Il manifesto, 16 marzo 2016
Quello che i parlamentari del Pd da una parte, e il Governo Renzi-Madia dall’altra, stanno portando avanti in questi giorni sulla questione dell’acqua, è di una gravità estrema.
Partiamo dai fatti. Nel 2007 il movimento per l’acqua aveva presentato, corredata da 406.000 firme, una legge d’iniziativa popolare per la ripubblicizzazione dell’acqua e la sua gestione partecipativa. Quella legge, mai portata in discussione nelle istituzioni fino alla decadenza, è stata ripresentata in questa legislatura da un intergruppo di parlamentari (M5S, Sel e alcuni Pd), in diretto accordo con il Forum italiano dei movimenti per l’acqua. La legge è finalmente approdata alle Camere, ma, all’ultima curva prima del traguardo, con la sorpresa di emendamenti Pd – votati anche dai parlamentari proponenti della legge (!)- che, abrogando l’articolo che prevedeva modi e tempi per il ritorno alla gestione pubblica di ogni situazione territoriale oggi in mano ai privati, ne stravolge il cuore e il senso.
Con questo atto, il Pd pone una cesura irreversibile non solo con il movimento per l’acqua, ma con l’idea stessa di democrazia diretta, come iniziativa legislativa posta in essere direttamente da centinaia di migliaia di cittadini.
Nel contempo, oltre 26 milioni di donne e di uomini di questo Paese si sono pronunciati, nel referendum del giugno 2011, per l’uscita dell’acqua dal mercato e dei profitti dall’acqua, attraverso un’esperienza di straordinaria partecipazione dal basso e un percorso di alfabetizzazione sociale senza precedenti.
Anche quel pronunciamento è oggi sotto attacco diretto: è stato diffuso, sempre in questi giorni, il Testo Unico sui servizi pubblici locali, decreto attuativo della Legge Madia n. 124/2015, che si prefigge – letteralmente – gli obiettivi di «ridurre la gestione pubblica dei servizi ai soli casi di stretta necessità» e di «garantire la razionalizzazione delle modalità di gestione dei servizi pubblici locali, in un’ottica di rafforzamento del ruolo dei soggetti privati».
In quel testo, è contenuto l’obbligo di gestione dei servizi pubblici locali a rete attraverso società per azioni (art. 7, comma 1); nonché l’obbligo, laddove la società per azioni sia a totale capitale pubblico, di rendere conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato (comma 3), di presentare un piano economico-finanziario relativo a tutta la durata dell’affidamento, sottoscritto da un istituto di credito (comma 4), di acquisire il parere dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (comma 5).
E, affinché sia chiaro a tutti come l’anomalia referendaria vada definitivamente consegnata agli archivi, ecco ricomparire, dopo anni con cui si era tentato di nasconderla dentro la dicitura «oneri finanziari», l’”adeguatezza della remunerazione del capitale investito” (art. 25, comma 1) nella composizione della tariffa, nell’esatta dicitura che 26 milioni di cittadini avevano democraticamente abrogato.
Il disprezzo della volontà popolare e della democrazia non poteva essere meglio esternato.
Dopo aver annichilito il paese con la trappola-shock del debito pubblico ed averlo rinchiuso nella gabbia del pareggio di bilancio, del patto di stabilità e dei vincoli monetaristi, le grandi lobby finanziarie, grazie ai provvedimenti del governo Renzi, si apprestano ora ad espropriarlo dell’acqua, dei beni comuni e di tutto ciò che a tutti appartiene.
Alle donne e agli uomini che, in tutti questi anni, hanno detto chiaramente come l’acqua e i beni comuni siano garanzia di diritti universali, da sottrarre al mercato e da restituire alla gestione partecipativa delle comunità territoriali, il compito di fermarli.
Perché, oggi più che mai, si scrive acqua, si legge democrazia.
L'ennesima volta che dobbiamo esclamare: "che abbiamo combattuto a fare?" Forse solo per arrivare a comprendere che gli italiani, se lo sopportano, sono come li vuole Renzi.
Il Fatto quotidiano, 13 marzo 2016
Nel 2011 i cittadini italiani dissero che andava abrogato il decreto Ronchi, che obbligava gli enti locali a mettere a gara anche la distribuzione dell’acqua nelle case, e che andava cancellata la voce della bolletta che garantiva “adeguata remunerazione del capitale investito dai gestori”. Gli italiani dissero in sostanza che quel servizio non andava messo sul mercato, ma gestito dal pubblico senza fini di lucro. In quasi cinque anni quel referendum non ha avuto alcun esito: le bollette sono cambiate solo in superficie e non esiste una legge che obblighi i Comuni a “ripubblicizzare” il servizio.
Ora però, alla Camera, hanno cominciato a discutere un ddl di iniziativa popolare che risale al 2007: lo presentarono i movimenti per l’acqua pubblica e in questa legislatura “aggiustato
” da un intergruppo parlamentare in cui figurano deputati di Pd, Sel e Movimento 5 Stelle, partiti che appoggiarono il referendum. Federica Daga (M5S) è la prima firmataria di una legge che qualifica l’acqua come “diritto umano” e, come tale, garantisce a tutti una fornitura minima di 50 litri al giorno pagata, se serve, dalla fiscalità generale. Il cuore del ddl è l’articolo 6: prescrive l’affidamento del servizio idrico solo a enti di diritto pubblico pienamente controllati dallo Stato (niente Spa pubblico-privato), gli enti hanno un anno per adeguarsi.
Il problema è che la legge, ora che si comincia a votare per portarla in Aula, a qualcuno non va più bene: martedì 8 marzo i resoconti di Montecitorio danno conto dell’esistenza di due emendamenti di Enrico Borghi e Piergiorgio Carrescia (deputati Pd come gli altri firmatari che chiedono di “sopprimere i mere” l’articolo 6, cioè il cuore della legge. Il 9 marzo, poi, il relatore Massimiliano Manfredi (Pd) “esprime parere favorevole sugli identici emendamenti Borghi e Carrescia”. La sottosegretaria Silvia Velo, a nome del governo, “concorda”. L’esecutivo, insomma, vuole cancellare l’articolo centrale della legge, quello che invera la volontà di 26 milioni di italiani (oltre la metà degli aventi diritto): martedì è il giorno della verità in commissione.
Il problema della legge: coperture poco serie
Va detto che il ddl Daga non è senza macchie. Il punto più critico è l’articolo 12, dove si parla di soldi (che pure servono per cacciare i privati e mettere a posto la rete). Sono nero su bianco coperture da anime belle : 1 miliardo l’anno dagli F35; risparmi dell’evasione fiscale (2 miliardi); aumento della tassa sulle transazioni finanziarie e un paio di tasse di scopo su prodotti inquinanti. Quanto al “Fondo nazionale per la ripubblicizzazione” cioè i soldi da dare subito ai privati per cacciarli si citano anticipazioni di Cassa depositi e prestiti non quantificate. Questa vaghezza ha spinto anche il Servizio Studi della Camera a chiedere correttivi e “norme coerenti coi principi di contabilità pubblica”.
Il problema vero, in termini di fondi, sono gli investimenti sulla rete: in generale quella italiana ha un tasso di dispersione del 37%, mancano impianti di depurazione e fognari, si fa poca manutenzione. L’Autorità per l’energia ha calcolato i soldi necessari in 65 miliardi in 30 anni, ovviamente con spese più ingenti all’inizio.
Dentro il modello economico Ue, però, l’Italia non può fare investimenti così importanti. Per questo si “vende” l’acqua ai privati, che poi però gli investimenti non li fanno: secondo lo stesso governo, dal 2006 i privati hanno pagato solo l’11% dei fondi investiti nel settore idrico, il resto sono soldi pubblici. Pure il caso di Napoli, unica grande città ad aver rispettato l’esito del referendum, non propaganda le virtù del mercato: la società Abc ha chiuso il 2015 in utile per 8 milioni nonostante tariffe tra le più basse d’Italia (ora però ha il problema che la Regione di De Luca ha fatto una pessima legge sul settore idrico).
I piani di Palazzo Chigi e la truffa del diritto Ue
L’appoggio del governo alla cancellazione della volontà popolare è un fatto nuovo, ma non inimmaginabile dati i precedenti. La stessa responsabile “acqua” del ministero dell’Ambiente, Gaia Checcucci, ha sostenuto a Presadiretta che “il referendum ha abrogato il decreto Ronchi e ora è quindi in vigore il quadro normativo comunitario, che consente dunque la gestione privata, mista o pubblica”. Insomma, come se in 26 milioni non avessero parlato.
Nella pratica, Renzi lavora contro il referendum fin dallo “Sblocca Italia” del 2014, che indica l’obiettivo della sua azione nella concentrazione dei servizi pubblici locali nelle mani di poche grandi multiutility capaci di competere all’estero. A livello normativo, tra l’altro, la cosa viene incentivata grazie alla previsione che “gestore unico” (obbligatorio per ogni ambito territoriale) divenga chi ha già in mano il servizio “per almeno il 25 % della popolazione” (ridono A2A, Iren, Hera, Acea, etc).
Si passa poi alla Legge di Stabilità che incentiva i Comuni a privatizzare i servizi pubblici a rete (acqua inclusa) attraverso sconti sul Patto di Stabilità interno. Ora un decreto attuativo della riforma Madia della P.A. oltre a spingere sulle solite fusioni in poche grandi realtà cancella anche l’altro referendum, quello sulla tariffa: si dovrà tener conto della “adeguatezza della remunerazione del capitale investito, coerente con le prevalenti condizioni di mercato”. E tanti saluti ai 26 milioni.
«Stiamo cercando di trasformare l’Europa», affermerà Renzi nel cortile dell’Eliseo a ora di pranzo, quando i lavori sono appena terminati, «ma non è possibile fare un Consiglio europeo ogni 15 giorni, così diamo l’idea di non saper governare processi epocali come quelli migratori». Hollande rilancia invece alcune idee italiane come la necessità di istituire «un bilancio e un governo dell’eurozona».
Proprio Hollande e Renzi nel chiuso dell’Eliseo si spartiscono i ruoli: il primo fa il discorso introduttivo, il secondo parla subito dopo per tracciare le linee della discussione. Renzi chiede «un’iniziativa dei socialisti e democratici europei che solleciti investimenti e flessibilità». In sostanza il premier, poi appoggiato dagli altri, vuole che gli sconti sul taglio del deficit utili a tagliare le tasse e a lanciare la crescita valgano ogni anno e senza limiti quantitativi togliendo le briglie alla flessibilità imposte dall’Eurogruppo, il tavolo dei ministri finanziari dominato da Schaeuble e dall’olandese Dijsselbloem. Entrambi finiti nel mirino dei leader socialisti con frasi di questo genere: «Basta con i loro attacchi, la flessibilità non può essere messa in discussione, tuttalpiù se ne parli per ampliarla».
Tutti hanno reso omaggio alla nuova manovra di Draghi, concordando però che ora servono politiche per la crescita anche a Bruxelles. Renzi ha sottolineato che l’austerità non funziona nemmeno politicamente perché «i governi rigoristi sono caduti come in un domino: come minimo porta sfortuna e dà fiato al populismo ». E così il maltese Muscat, da molti considerato figura ideale alla successione del traballante Tusk alla guida del Consiglio europeo nel 2017, fa gioco di sponda con Renzi e Hollande: «Dovremmo preparare una piattaforma di riforme dei progressisti su economia, energia e libertà civili». Si decide di darsi un nuovo appuntamento a luglio a Roma, dopo il referendum inglese sulla Brexit, per lanciare un vero piano per cambiare l’Europa. Per questa ragione ieri i leader del Pse non hanno dato cifre e struttura delle idee, ma emerge la volontà di chiedere più soldi ed estensione per tre anni del piano Juncker sugli investimenti e soprattutto di permettere ai governi di spendere per la crescita o sfilando dal Patto di Stabilità gli investimenti virtuosi oppure finanziandoli con gli Eurobond. Così come un piano per l’occupazione giovanile da 20 miliardi.
Nel mirino dei socialisti anche l’accordo con la Turchia in via di perfezionamento per chiudere la rotta dell’Egeo. Renzi, Hollande e Mogherini (che parla severamente di «criticità») sono contrari a chiudere un occhio sui diritti umani e sulla libertà di stampa per siglare l’intesa con Erdogan, quanto mai vitale per la Merkel. Il premier francese invoca apertamente «nessuna concessione ad Ankara in materia di diritti umani o sui criteri di liberalizzazione dei visti». Critiche dirette alla Cancelliera, poi, sulla decisione di sdoganare domenica scorsa le nuove richieste della Turchia in una cena con il premier Davutoglu alla vigilia del summit tra il premier turco e gli europei. Tutti si ribellano duramente quando Faymann afferma che «l’Austria non vuole più fungere da anticamera, se non si controllano le frontiere esterne io rimetto i confini interni».
Se sui migranti restano differenze, e il vertice dei Ventotto della prossima settimana a Bruxelles si annuncia quanto mai complicato, sulla svolta economica ormai i socialisti sono pronti, attendono che si attenui l’emergenza rifugiati e il referendum britannico. E un buon segno è anche il fatto che Hollande — la Francia è storicamente contraria a cedere sovranità — abbia parlato di «Europa a due velocità», un’eurozona che si stacca dagli altri per andare avanti nell’integrazione politica. Così come piace l’avvicinamento al Pse di Tsipras. Tanto che Renzi salutando l’Eliseo ha sentenziato: «Sono contento e ottimista, i socialisti e democratici di tutta Europa hanno dato un segnale».
Sacrosanta la predica (anzi, l'anatema), ma viene dal pulpito sbagliato. Peccato che dai pulpiti giusti si taccia, e, quando pure si parla, non si agisca.
Il manifesto, 12 marzo 2016
Ai vituperati giornalisti, Massimo D’Alema ne regala tali e tante sul Pd da far invidia a Beppe Grillo. Con la differenza che le bordate sparate dal primo rottamato dell’era Renzi non sono affidate al linguaggio urlato del Blog, ma recitate nel freddo e lucido linguaggio della battaglia politica e della lotta di partito.
Il giudizio di D’Alema sul gruppo dirigente del Nazareno è pesante e senza appello, sul filo delle carte bollate: le primarie sono fatte apposta «per falsificare e gonfiare» i voti. Renzi è «oggettivamente» come Berlusconi. Jobs act, Imu e riforma elettorale non hanno niente a che vedere «con un progetto riformatore». I dirigenti sono «oltre l’arroganza, siamo alla stupidità». Come quella di credere che andando con Alfano e Verdini si vince mentre si perdono tutti i voti del centrosinistra verso il quale Renzi «non ha mai nascosto il suo disprezzo».
Peccato che l’accusa a Renzi di non rispettare lo spirito dell’Ulivo, di non riconoscere a lui e a Prodi il ruolo di padri fondatori del Pd, venga da proprio dal pulpito da cui partì l’attacco al padre dell’Ulivo quando D’Alema, insieme a Bertinotti, disarcionò il governo, fu colpito da una sonora sconfitta del Pd alle elezioni regionali e poi si persuase alle sue stesse dimissioni da palazzo Chigi. Ma il j’accuse è lungo, non si salva niente e nessuno. A parte gli 80 euro, è tutto sbagliato, è tutto da rifare.
Nell’intervista al Corriere della Sera e successivamente a un seminario romano sulla politica estera, l’ex presidente del consiglio ha giocato a fare l’estremista. Non fino al punto di risparmiarsi la battuta sui «partitini di sinistra», ma senza dimenticare che se il Pd va avanti con Alfano e Verdini «nessuno può escludere che alla fine qualcuno riesca a trasformare questo malessere in un partito». Però qui viene il punto. Per non finire nella ridotta di un partitino di sinistra e ricostruire una sinistra di larghe culture politiche e sociali, sarebbe più facile se chi se ne dice portatore all’interno del Pd si decidesse a lasciare Renzi al suo destino di fondatore del partito della nazione.
Invece eccole le «simpatiche minoranze» dei Cuperlo e dei Bersani, che «non riescono a incidere sulle decisioni fondamentali», come nota la perfidia di D’Alema. Tutta la ricca schiera degli oppositori del leader di Rignano abbaia alla luna e non sposta Renzi di un millimetro. Tanto che basta il bazooka dalemiano per incenerire il borbottìo delle esauste minoranze.
L'elmetto indossato da Renzi diventa sempre più ingombrante, l'articolo 11 della Costituzione sempre più calpestato, l'Italia sempre più colonia degli UsaDa Comiso d Aviano una grade base militare per aggredire il nemico.
Antonio Mazzeo Blog, 11 marzo 2016
“Dal prossimo mese di ottobre verrà stanziato ad Aviano uno squadrone dell’US Air Force destinato al controllo aereo”. A riferirlo il console degli Stati Uniti d’America per il nord Italia, Philip Thomas Reeker, durante l’incontro svoltosi a Trieste mercoledì 9 marzo con la presidente della regione Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, vicesegretaria nazionale del Pd. “Contrariamente alle indiscrezioni di chiusura o ridimensionamento, Aviano è strategica per la sua posizione geografica e per le strutture presenti”, ha spiegato il console Reeker. “Saranno circa 450 persone, contando le famiglie, che giungeranno nella base aerea e la loro presenza avrà anche un impatto positivo di tipo economico sul territorio”.
“L’aumento della presenza nella base di Aviano, confermata dal console generale, è senza dubbio una notizia molto positiva ed è un ulteriore tassello negli ottimi rapporti tra Stati Uniti e Friuli Venezia Giulia”, ha commentato Debora Serracchiani. “Con Reeker ci siamo confrontati su alcuni temi che riguardano la nostra regione ma in generale tutta l’Europa, come l’immigrazione, ma è stata soprattutto un’opportunità per continuare il ragionamento avviato nella visita istituzionale a New York e Washington dello scorso ottobre che ha visto protagonista in particolare il Sistema della Ricerca regionale. A giugno organizzeremo in Friuli Venezia Giulia un forum con gli enti americani e le aree di ricerca della nostra regione”.
Quelli che giungeranno ad Aviano il prossimo autunno saranno i componenti del 606th Air Control Squadron dell’aeronautica militare Usa (circa 300 unità più familiari al seguito), sino ad oggi ospitato nella base di Spangdahlem, Germania. Il loro trasferimento in Italia era stato annunciato lo scorso anno dal Pentagono nell’ambito del cosiddetto piano European Infrastructure Consolidation (EIC), finalizzato al “consolidamento delle strutture militari statunitensi in Europa” attraverso la concentrazione di uomini e mezzi in grandi poli militari e la chiusura di piccole e costose installazioni sparse nel continente. Il 606th Air Control Squadron è un’unità di comando mobile con apparecchiature di telecomunicazione high-tech. Gli avieri possono operare in tempi brevissimi dal loro trasferimento nei teatri di guerra per “fornire il loro supporto ovunque sia necessario e trasmettere utilizzando comunicazioni radio o chat via internet”. In occasione di un dislocamento in Iraq nel 2005, la sezione armi del 606th Air Control Squadron ha coordinato più di 2.500 missioni di combattimento. Nel 2013 l’US Air Force aveva disattivato proprio ad Aviano un’unità gemella (il 603rd Air Control Squadron).
Sempre lo scorso anno il Pentagono ha deciso di trasferire nella base aerea friulana pure due squadroni di pronto intervento di pararescuemen (paracadutisti-cercatori d’uomini), il 56th e il 57th Rescue Squadron dell’US Air Force di stanza nella base britannica di Lakenheath. “Questi due squadroni sono specializzati nella conduzione di missioni di ricerca in teatri di combattimento e recupero del personale civile e militare e il loro trasferimento in Italia consentirà migliori opportunità addestrative, avvicinandoli agli hot spot regionali”, ha spiegato il comandante del 56th Rescue Squadron, col. Bernard Smith. “Da un punto di vista geostrategico, questo spostamento ci consentirà di essere ancora più agili e di rispondere più velocemente in supporto alle richieste di soccorso del personale Usa in Europa, Africa e nell’Asia sud-occidentale”.
“I nostri pararescuemen hanno la necessità di addestrarsi in condizioni e climi differenti e Aviano si trova nel luogo migliore perché assicura un facile accesso alle Alpi, al Mare Adriatico e a diversi poligoni terrestri italiani”, ha aggiunto il col. José Cabrera, comandante del 57th Rescue Squadron. Ricostituito solo nel febbraio 2015, questo squadrone è composto da una settantina di avieri ultra-specializzati denominati Guardian Angels, abilitati ad azioni di pronto intervento in mezzo al campo di battaglia, al lancio con il paracadute e all’attività subacquea e con una preparazione specifica anche in campo infermieristico-sanitario. Il rischieramento ad Aviano dei circa 350 avieri, 5 elicotteri HH-60 “Pave Hawk” (una variante più moderna e armata dei più noti UH-60A “Black Hawk”) e dei velivoli da trasporto Lockheed HC-130 “Hercules” nella disponibilità dei due squadroni sarà avviato a partire del 2017 e dovrebbe concludersi in un anno.
A preferire Aviano quale base di lancio dei due squadroni di paracadutisti-cercatori d’uomini ha certamente contribuito il sistema logistico-infrastrutturale creato in questi ultimi anni per assicurare la più ampia mobilità dei reparti di pronto impiego e dei propri mezzi da combattimento. La base è infatti una delle principale facility in Europa per le operazioni dei grandi aerei da trasporto statunitensi e funge da vero e proprio trampolino di lancio per la 173rd Airborne Brigade, la brigata aviotrasportata dell’esercito Usa di stanza a Vicenza che opera prevalentemente negli scacchieri di guerra afgani e iracheni e più recentemente anche in Ucraina ed Est Europa. Per assistere i reparti d’assalto statunitensi, ad Aviano sono entrati in funzione in particolare un grande magazzino-hangar dove vengono tenuti i materiali necessari per le operazioni di aviolancio, un centro logistico in grado di ospitare sino ad un migliaio di paracadutisti in transito e una piattaforma per le soste tecnico-operative dei velivoli da trasporto, capace di accogliere simultaneamente sino a dodici Lockheed C-130 “Hercules” o cinque Boeing C-17 “Globemaster”.
Attualmente nella grande base di Aviano operano 4.200 militari e 300 dipendenti civili statunitensi. L’infrastruttura è sede del 31st Fighter Wing di US Air Force con due squadroni dotati di cacciabombardieri F-16 (il 510th e il 555th Fighter Squadron) in grado di operare regionalmente ed extra-area su richiesta della NATO e del Comando supremo alleato in Europa.
I due squadroni del 31st Fighter Wing sono abilitati al trasporto e al lancio di testate nucleari, armi che sono custodite all’interno della base aerea friulana. Sino al 2000 Aviano ospitava una settantina di ordigni in 18 caveau, ciascuno dei quali con una capienza massima di quattro testate. Nei mesi scorsi, le forze armate statunitensi hanno avviato il potenziamento dei sistemi di protezione dei bunker che custodiscono le testate che potrebbe portare ad una loro riduzione quantitativa (forse un massimo di 35 atomiche stoccate in 12 caveau). I lavori di ristrutturazione rientrano nell’ambizioso programma di ammodernamento nucleare varato dall’amministrazione Obama che prevede nel caso specifico di Aviano e di altre basi aeree Usa in Europa la sostituzione delle vecchie testate B61 con le nuove bombe all’idrogeno B 61-12. Queste saranno disponibili in quattro versioni (da 0.3, 1.5, 10 e 50 kilotoni), tutte a guida di precisione, che potranno essere sganciate a grande distanza dall’obiettivo, con una potenza distruttiva nettamente superiore alle vecchie testate. Per il programma di aggiornamento di circa 400-500 ordigni B61-12, Washington ha previsto una spesa di 12 miliardi di dollari. Essi saranno messi a disposizione dei bombardieri strategici B-2 e dei cacciabombardieri F-16 e Tornado PA-200 e, a partire del 2020, anche dei caccia di quinta generazione F-35 acquistati dai paesi NATO.
Un'analisi come al solito acuta del quadro della politica politicienne italiana, in particolare del centrosinistra. Ma un'inesplicabile speranza di un ravvedimento del PMR. La Repubblica, 11 marzo 2016
AFFONDA molto all’indietro e ha molte ragioni la deriva del Partito democratico, il suo logorarsi in dissoluzioni e frantumazioni, e talora indecenze, sempre più incomprensibili. Sembra tramontare per questa via la possibilità stessa di una forza riformatrice nel nostro Paese: di questo si tratta e di questo occorre ragionare.
Era ambiziosa l’idea che iniziò faticosamente a profilarsi dopo il trauma di Tangentopoli, nello scomparire dei grandi partiti del Novecento: l’idea di raccogliere i lasciti più fecondi delle principali correnti riformatrici per costruire una realtà nuova, adeguata alle nuove sfide. Non era più possibile guardare all’indietro: i funerali di Berlinguer, nell’ormai lontanissimo 1984, avevano visto l’ultimo, commosso apparire di un “popolo comunista” di cui erano crollati ormai i pilastri fondativi (dalla “centralità operaia” ai riferimenti internazionali e ad altro ancora). E Tangentopoli aveva reso solo più evidente quanto fosse deperito e degradato il riformismo cattolico nel corso di una lunga occupazione del potere.
È su questa china che il centrosinistra ha visto progressivamente isterilirsi il proprio ceto politico, le proprie rappresentanze, le proprie dinamiche interne. Ha visto moltiplicarsi burocrazie e piccoli potentati, e ha iniziato a smarrire sin regole etiche. Un altro nodo è venuto poi alla luce all’uscir di scena dei protagonisti formatisi all’alba della repubblica: la grande inadeguatezza della generazione successiva della sinistra, pur cresciuta negli anni di uno straordinario miracolo economico, di una forte apertura culturale e di un diffuso protagonismo collettivo. Qualunque sia stata la sua scelta iniziale nel partito comunista in espansione degli anni Sessanta e Settanta o nelle effimere esperienze all’esterno di esso - quella generazione mancava ora largamente alla prova, e una sua parte era già affondata con il Psi craxiano. Veniva anche da qui l’incapacità della sinistra di rivolgersi agli italiani nel momento stesso in cui il ventennio berlusconiano franava lasciando orfana, smarrita e inasprita quell’ampia parte del Paese che vi aveva creduto.
Venne soprattutto da qui il successo alle elezioni europee del 2014, in cui il Pd riconquistava tutti i suoi elettori - come non accadeva da tempo - e ne attraeva moltissimi altri. Era un dato fondamentale in un Paese che stava smarrendo la fiducia nella democrazia e due anni dopo non è facile comprendere perchè la leadership di Renzi abbia in qualche modo tradito se stessa proprio su questo nodo centrale, smarrendo l’iniziale “spinta propulsiva” e larga parte della propria credibilità. Poteva avere buone ragioni, certo, l’idea di rinnovare il Paese a partire soprattutto dall’azione di governo ma va riconosciuto che non ha retto alla prova.
Il segretario “rottamatore” è apparso sempre più prigioniero di feudatari locali, soprattutto nel Mezzogiorno; sempre più sordo ai segnali che via via venivano (si pensi almeno all’astensionismo esploso nella roccaforte emiliana); condizionato in alcune realtà, e non solo a Roma, da un partito «dannoso e pericoloso» (parole di Fabrizio Barca) che aveva preso corpo prima di lui; in estrema difficoltà nel proporre nelle più importanti città italiane una classe dirigente all’altezza del compito, e certo non stimolato da una sinistra interna a lungo silente proprio su questi aspetti.
Nell'intervista ad Aldo Cazzullo, D'Alema spara a zero su Matteo Renzi.
Corriere della sera, 10 marzo 2016
Le polemiche dopo le primarie di Roma e Napoli. Ma soprattutto la situazione in cui versa il Pd: «Una condizione gravissima» con una classe dirigente che «reagisce insultando e calunniandocon metodi staliniani. Ilpartito è in mano a persone arroganti e autoreferenzialiche vogliono distruggerlo». L’ex premier Massimo D’Alema dice al Corriere: «Nascono associazioni e gruppi, maverrà qualcuno a unirli per ricostruire il centrosinistra».E ancora: «Le primarie? Bisogna riscrivere le regole».
Massimo D’Alema, allora ci siamo? Bray candidato a Roma, Bassolino a Napoli, tutti contro Renzi, con lei regista?
«Sono sbarcato all’alba a Fiumicino dall’Iran, dove Vodafone non prende. Non avevo né telefono né Internet. Non so nulla di quello che è successo in questi giorni. So solo che il Pd versa in una condizione gravissima, e la classe dirigente reagisce insultando e calunniando con metodi staliniani».
Lei a Roma sostiene Bray, sì o no?
«Massimo Bray è un mio carissimo amico, ma è un uomo libero e indipendente. È anche una delle persone più testarde che ho conosciuto in vita mia. Non sente nessuno; decide, e va rispettato nella sua decisione. E non è neppure iscritto al Pd. Basta consultare la Rete per vedere quanti cittadini e associazioni si stanno rivolgendo a lui; anche se io non figuro, non faccio parte di questa comunità».
Quindi lei vota Giachetti?
«Non so ancora chi siano i candidati. Li valuterò liberamente da cittadino romano. Non so cosa farà Bray. Certo non ho il minimo dubbio che la sua candidatura sarebbe quella di maggior prestigio per la Capitale; mentre qui pare tutto un giochino interno al Pd. Sono molto attaccato a questa città, che dopo le vicende drammatiche che ha vissuto merita un sindaco di alto livello, a prescindere dall’appartenenza di partito».
Giachetti non lo è?
«Giachetti si è fotografato su Internet mentre traina un risciò su cui è seduto Renzi. Ma questa non può essere l’immagine del sindaco di Roma, neanche per scherzo. Il quadro è estremamente preoccupante. C’è una crisi della democrazia. Una caduta di partecipazione e tensione politica, di fronte alla quale i partiti, compreso il Pd, non riescono a schierare personalità all’altezza».
Siamo alla scissione che lei paventò un anno fa sul «Corriere»?
«Sta crescendo un enorme malessere alla sinistra del Pd che si traduce in astensionismo, disaffezione, nuove liste, nuovi gruppi. Si tratta di un problema politico e non di un complotto di D’Alema, che è impegnato in altre attività di carattere culturale e internazionale».
Lei è uno dei fondatori del Pd. Ci sarà o no la scissione?
«Anche Prodi lo è, e anche lui mi pare sempre più distaccato. Il Pd è finito in mano a un gruppetto di persone arroganti e autoreferenziali. Dei fondatori non sanno che farsene. Ai capi del Pd non è passato per l’anticamera del cervello di consultarci una volta, in un momento così difficile. Io cosa dovrei fare? Cospargermi il capo di cenere e presentarmi al Nazareno in ginocchio a chiedere udienza a Guerini?».
A Napoli bisogna annullare le primarie?
«I dati sono impressionanti. Nelle aree di voto d’opinione, Bassolino è nettamente avanti. In altre zone è sotto di tremila voti: a proposito di capibastone e di truppe cammellate, come le chiamano i nostri cosiddetti leader. Bassolino denuncia un mercimonio. Produce video che lo provano. E il presidente del partito, con il vicesegretario, rispondono che il ricorso è respinto perché in ritardo? Ma qui siamo oltre l’arroganza. Siamo alla stupidità».
Il presidente del partito, Matteo Orfini, è una sua creatura.
«Nella vita si può evolvere in tanti sensi. Del resto, loro dicono che sono bollito; anch’io avrò avuto una mia evoluzione. Ma come non capire che una risposta così sconcertante getta discredito sul partito, sulla politica?».
Basta primarie allora?
«Non ho detto questo. Ma così hanno perso ogni credibilità. Sono manipolate da gruppetti di potere. Sono diventate un gioco per falsificare e gonfiare dati. Bisogna scrivere nuove regole. E intanto rispettare quelle che già ci sono».
A Milano la sinistra Pd aveva pensato a Gherardo Colombo.
«Nessuno potrebbe sospettarmi di essere l’ispiratore di Gherardo Colombo: l’ultima volta che ci siamo incrociati, scrisse che con la Bicamerale volevo realizzare il programma della P2. Il punto vero è che il Pd non ce la fa più a tenere insieme il campo di forze del centrosinistra. E dubito che riuscirà a compensare le masse di voti perse a sinistra alleandosi con il mondo berlusconiano: non solo Alfano,Verdini, Bondi, ma anche Mediaset e uomini di Cl. A destra viene riconosciuto a Renzi il merito di aver distrutto quel che restava della cultura comunista e del cattolicesimo democratico. Ma così ha reciso una parte fondamentale delle radici del Pd. Ha soffocato lo spirito dell’Ulivo: del resto Renzi non ha mai nascosto il suo disprezzo per l’esperienza di governo del centrosinistra, che anzi è bersaglio costante della sua polemica».
Il premier replica che mai lei e Bersani avete avuto una parola in sostegno del governo.
«Non è vero. Potrei elencare una serie di mie dichiarazioni a favore del governo, a cominciare dagli 80 euro».
Allora Renzi non governa così male.
«L’Italia cresce dello 0,7%. Questo dato modesto viene presentato come frutto di grandi riforme. In realtà, la ripresa sia pur faticosa investe tutta l’Europa; e la ripresa italiana è metà di quella europea, forse un po’ meno. La Germania cresce dell’1,7, con la disoccupazione al 6. Altro che “siamo più forti dei tedeschi, l’Italia ha ripreso a correre, non ce n’è più per nessuno”. Sarebbe carino evitare la propaganda e dire la verità al Paese. Il nostro gap viene da lontano, non è certo colpa di Renzi. Ma lo si affronta con un vero progetto riformista di innovazione. Non vedo questo né nel Jobs act né nella cancellazione dell’Imu».
Sta dicendo che Renzi somiglia più a Berlusconi che all’Ulivo?
«Oggettivamente è così. La cultura di questo nuovo Pd è totalmente estranea a quella originaria. Anche la sua riforma elettorale si ispira a quella di Berlusconi, non alla riforma uninominale maggioritaria voluta dalle forze dell’Ulivo. È una legge plebiscitaria: non si elegge il Parlamento; si vota il capo».
Nascerà un partito alla sinistra del Pd?
«Molti elettori ci stanno abbandonando. Compresi quelli che ci avevano votato alle Europee, nella speranza che Renzi avrebbe rinnovato la vecchia politica: ora vedono un gruppo di persone che ha preso il controllo del Paese, alleandosi con la vecchia classe politica della destra. Non so quanto resteranno in stato di abbandono. Nessuno può escludere che, alla fine, qualcuno riesca a trasformare questo malessere in un nuovo partito».
Perché invece non combattere una battaglia interna al partito?
«L’attuale gruppo dirigente considera il partito un peso. Gli iscritti sono poco più di 300 mila; il Pds ne aveva 670 mila. Si tende a trasformare il Pd nel partito del capo. Tutti quelli che non si allineano vengono brutalmente spinti fuori. Guardo con simpatia alla battaglia della minoranza, ma non mi pare che, purtroppo, riesca a incidere sulle decisioni fondamentali».
Renzi obietta che è stato il segretario a convocare più direzioni.
«La direzione è una cassa di risonanza. È un luogo dove lui fa dei discorsi e viene applaudito. Poi si vota a maggioranza cose che dovrebbero vincolare tutti. Ma la politica è ascolto, scambio, mediazione».
Separare l’incarico di segretario da quello di premier aiuterebbe a tenere tutti insieme?
«Ma loro non vogliono tenere insieme il centrosinistra. Vogliono sbarazzarsene. Mi fanno ridere quelli che lanciano l’allarme sul partito della Nazione; il partito della Nazione è già fatto, è già accaduto. Lo schema mi pare evidente: approfittare della crisi di Berlusconi per prenderne il posto. Ma è un’illusione. Il problema non è Verdini, che è uomo intelligente e molto meno estremista di alcuni suoi partner del Pd. Verdini ha capito che se Renzi rompe con la sinistra va dritto verso la sconfitta, magari in un ballottaggio con i Cinque Stelle. Per questo, capendo di politica, è preoccupato».
Sta dicendo che Renzi sarà sconfitto?
«Secondo me, una volta lacerato il centrosinistra, non viene il partito della Nazione; viene il populista Grillo. O viene la destra. Perché il ceto politico berlusconiano che oggi si riunisce attorno a Renzi non gli porterà i voti di Berlusconi. La destra è confusa, ma esiste, e una volta riorganizzata voterà per i suoi candidati. Renzi sposterà voti marginali, non paragonabili a quelli che perde. Di questo bisogna discutere, anziché insultare la gente. La vera sfida è come si ricostruisce il centrosinistra. Ed è, oggi, una battaglia che non si conduce più, oramai, soltanto all’interno del Pd».
Lei come voterà al referendum di ottobre?
«Al momento opportuno presenterò in modo motivato le mie opinioni. Non mi sento vincolato se non dalla mia coscienza: si vota sulla Costituzione della Repubblica. La rivista Italianieuropei sta preparando un numero sui 70 anni della Costituzione. Ho appena ricevuto il contributo di Giorgio Napolitano. Si intitola: “Elogio di una classe dirigente”. Ma si riferisce a quella del 1946; non a questa».
Flop del candidato di Renzi a Roma: alle primarie del PD ci è andato meno della metà di quelli che ci andarono per eleggere Marino. La Repubblica, 7 marzo 2016
Un paio di esempi del modo in cui di distorcono le leggi e le direttive calpestando diritti personali e sociali fondamentali, per accontentare i potenti di turno normative a favore della speculazione
Che sul fronte del diritto alla casa questo fosse un paese al contrario un po’ ce ne eravamo accorti. Questi ultimi mesi sono stati esemplari. Nella legge di stabilità per il 2016 è stata confermata l’odiosa esenzione IMU in vigore dal 2013 (art. 2 del D.L. n. 102/2013) per gli immobili invenduti dalle imprese di costruzione. Non solo, ma questo privilegio fiscale, inizialmente previsto per soli tre anni, è stato garantito per sempre dal Governo Renzi. E’ chiaro come questa sia una norma che agevoli fiscalmente solo le grandi imprese di costruzione senza riconoscere gli stessi diritti ai comuni mortali che, ad esempio, ereditino una casa e la vogliano rivendere non potendola mantenere. In più questa normativa “droga” il mercato immobiliare perché consente ai costruttori di aspettare che i prezzi si alzino per vendere il loro stock abitativo. Così facendo, inoltre, si impedisce a chi è in cerca di una prima casa di beneficiare di prezzi accessibili.
L’ultima forzatura pro speculazione edilizia, in ordine di tempo, è quella contenuta nell’articolo 16 del decreto legge n. 18 del 2016 (c.d. “Decreto banche” – v. box 1 in calce ). Con questa norma si permette a chi fa il mestiere di comprare e rivendere case alle aste immobiliari, di fare più soldi. Infatti potranno comprare e rivendere casa pagando solo 200 euro di tassa fissa (anziché il 9% sul prezzo di aggiudicazione). Quindi se, per esempio, ad una asta fallimentare avente ad oggetto un immobile dal valore di 200.000 euro si dovessero presentare una persona che cerca di comprare la sua prima casa e un’impresa immobiliare che compra e rivende, quest’ultima, in caso di aggiudicazione, sarà avvantaggiata perché dovrà pagare di tasse solo 200 euro (anziché 18.000), mentre il semplice cittadino in cerca della sua prima casa ne dovrebbe pagare ben 4.000 (2%). Insomma il Governo privilegia la speculazione immobiliare, la incoraggia, non solo a svantaggio di coloro che cercano di acquistare la loro prima casa, ma anche dei contribuenti. Infatti questo ulteriore privilegio neanche risulta a costo zero per i cittadini perchè costerà 220 milioni di soldi pubblici (vedi il comma 3).
E il futuro? Non è certo roseo perché è in via di approvazione uno schema di decreto legislativo (v. box 2) nel quale è previsto che le banche, in caso di ritardo nel pagamento delle rate del mutuo, si possano riprendere la casa direttamente, senza attivare alcuna procedura giudiziaria di vendita. La solita scusa che si accampa è che la direttiva 2014/17/UE imporrebbe questa norma. Ma a ben leggerla non è affatto così, in quanto la direttiva non esclude, come invece fa il decreto legislativo in itinere, che l’accertamento del valore sia effettuato sotto la supervisione giudiziaria. Con questo decreto legislativo si faranno stracci di secoli di civiltà giuridica che hanno sempre vietato il c.d. patto commissorio, cioè il prelievo diretto del bene dato in garanzia. E questo perché è chiaro che le banche e i creditori in generale sono molto più forti dei debitori, che sono le parti fragili del rapporto e vanno tutelate, specie nel caso in cui si tratti della prima casa. Per questo il patto commissorio è sempre stato proibito, anche dal nostro codice civile (art. 2744), almeno fino ad oggi…
Questi sono gli esempi riferiti solamente agli ultimi due mesi, ma sono tante le norme che sono state approvate in questi ultimi dieci anni, in nome di una invocata crisi del settore edilizio e finanziario. Si continuano a vedere norme che forzano le ragioni della tutela del paesaggio, dei beni comuni, dei consumatori e del diritto alla casa, a tutto vantaggio della speculazione edilizia e della grande finanza. La lista è lunga: piani casa, deroghe regionali agli standard urbanistici, silenzio-assenso per le autorizzazioni paesaggistiche, depotenziamento delle Soprintendenze, rivalutazione delle quote che gli istituti di credito detengono in Banca Italia, svendita del patrimonio culturale del Paese. E si potrebbe continuare.
Sarebbe ora che ci fosse una inversione di tendenza e che si imboccasse la strada delle regole scritte nell’interesse generale e non dei potentes di turno.
Il manifesto, 4 marzo 2016
Qualche giorno fa Matteo Renzi è andato a Milano a prospettare entusiasticamente il «nuovo orizzonte» della ricerca italiana: l’annuncio dell’avvio del progetto Human Technopole, un centro di ricerca e innovazione affidato al IIT, Istituto italiano di tecnologia di Genova, ente di diritto privato che disporrà – senza valutazione e selezione alcuna – di un finanziamento di 1,5 miliardi di euro in dieci anni, 150 milioni l’anno di cui 80 milioni già stanziati dal bilancio 2015 (oltre ai 100 milioni annui di contributi «normali» all’Istituto). Il progetto si avvarrà del riutilizzo delle strutture dell’Expo milanese.
Come stabilito con un rapido decreto di Presidenza del Consiglio e del Tesoro, atto da cui stranamente manca proprio il ministero dell’Università e della Ricerca. Il mondo della ricerca e della scienza sta urlando di rabbia e indignazione.
È paradossale infatti che mentre di tagliano fondi per università e ricerca scientifica si trovi non un tesoretto, ma «un tesorone» per finanziare un’istituzione privata. Che – bontà sua – ha già individuato i prossimi partner per l’operazione; non escludendo peraltro – almeno questo! – le università pubbliche milanesi.
A fronte di questo, il bilancio dell’università e della ricerca italiana langue: l’ultimo programma relativo ai Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale, Prin, disporrà di appena 92 milioni di euro, stanziati dopo oltre tre anni di attesa, a fronte delle oltre le 4400 proposte presentate. Così nell’ambito di tale programma i progetti prescelti non potranno occupare più di 1 giovane ricercatore.
Sembra che si voglia incentivare, non bloccare, la «fuga dei cervelli» in atto, le migliaia di giovani laureati che ogni anno lasciano l’Italia. Come dimostrato dai vincitori italiani di molti bandi per progetti comunitari, che però operano in servizio presso –e a beneficio di — università ed istituzioni scientifiche estere. L’università e la ricerca italiana sembrano così costituire, fin dai governi Berlusconi con un trend che prosegue fino a Renzi, dei veri e propri accidenti («altro che eccellenze») cui l’esecutivo deve ovviare, ridimensionando progressivamente quello che evidentemente assume come problema.
Altri dati illustrano meglio il quadro: fin dal ministero Gelmini si sono ridotti il Ffo (Fondo di Finanziamento Ordinario) ed il First (Fondo Investimenti Ricerca Scientifica e Tecnologica): a quest’ultimo sono andati meno di 60 milioni di euro, compreso il fondo per la ricerca di base. Si parla di cifre in media pari a circa un decimo di quanto investito negli altri grandi paesi europei. E il fondo è preannunciato in riduzione per il prossimo triennio. Ancora, perfino un settore tradizionalmente «ricco» della nostra ricerca, quale quello dell’innovazione nel primario, ha visto la relativa disponibilità contrarsi fino a 21 milioni di euro (il piccolo Lussemburgo vi investe circa 10 volte tanto).
I fondi per la diffusione della cultura scientifica sono stati quasi azzerati presso il Miur, erano rimasti 10 milioni di euro (20 volte meno che la media europea) che si ridurranno del 40% nel prossimo triennio. Tutto ciò si riflette ovviamente anche sull’organizzazione didattica: si chiudono corsi e corsi di laurea, mentre il reclutamento con Abilitazione è praticamente fermo: a due anni dalla conclusione della prima selezione (intanto è terminata anche la seconda), più dell’60% degli abilitati ad associato e del 70% di quelli di prima fascia non hanno avuto modo di accedere al nuovo ruolo.
In questi giorni più di 20 mila docenti universitari da tutta Italia stanno rifiutando di inviare i propri prodotti scientifici per la VqR (Valutazione della Qualità della Ricerca). I docenti contestano i metodi di valutazione adoperati, assai discutibili; ma soprattutto adesso protestano per il blocco degli scatti stipendiali, nonché il trattamento carrieristico, pensionistico e di fine rapporto. Saranno contentissimi a sapere che stanno finanziando la Grande Opera per la ricerca presso l’Expo!
In tutto questo il governo assegna 1,5 miliardi di euro ad un ente privato che però riutilizzerà «le strutture dell’Expo». Forse il problema è proprio questo, l’Expo: al di là della polemica attuale sui 20 milioni eventualmente persi per i costi dell’attività Expo rispetto ai ricavi – su cui abilmente la grancassa renziana, di cui Sala è uno dei portavoce milanesi, ha oggi orientato il dibattito -, c’è, ben più grosso anche se rimasto sullo sfondo, il problema della copertura dei costi dei terreni: un debito di miliardi di euro, che grava sulla Società Arexpo, cioè oggi su Regione Lombardia e Comune di Milano.
La «bolla» è attualmente in mano alle banche che, per evitarne lo scoppio fragoroso, hanno bisogno di risorse per il riutilizzo di aree e strutture, che coprano il finanziamento dei nuovi programmi di ridestinazione, ma soprattutto il buco enorme creatosi con l’acquisizione delle aree. Come in casi analoghi, forse il vero obiettivo della «Grande Opera per la ricerca» non è la ricerca.
Ma è proprio così? Ad un esame più attento non sembrerebbe. Leggendo con più attenzione i dati Istat ed anche la stampa, sia quella generalista che quella specializzata, emerge un quadro assai più torbido. Per comodità prendo ad esempio l’editoriale del Sole24Ore di mercoledì 2 marzo. In esso Luca Ricolfi, pur sotto un titolo redazionale compiacente, offre un panorama assai meno sgargiante. Nel quale emerge con forza un’ipotesi più che probabile. Al di là della disputa sui numeri, che dipendono ovviamente dai punti e dai parametri di riferimento, l’incremento dei posti di lavoro non è che l’esito di un’onda lunga dovuta a tre cause: il contratto a tutele crescenti (jobs act), la generosissima decontribuzione, la liberalizzazione dei contratti a termine dovuta al decreto Poletti del marzo del 2014. Il mercato del lavoro si è servito prevalentemente di questi ultimi, generando precarietà. Per poi orientarsi sul contratto a tutele crescenti grazie alla decontribuzione ad esso collegata (più di 8mila euro per assunto). Questa scelta si è venuta intensificando in prossimità dell’abbattimento previsto della contribuzione medesima.
A questo punto serietà vorrebbe che ci si interrogasse se questa trasformazione del tempo determinato in tempo indeterminato – si fa per dire, perché priva della protezione contro i licenziamenti ingiusti che era prevista dall’articolo 18 dello statuto dei diritti dei lavoratori – ha possibilità di segnare una reale inversione di tendenza consolidandosi nel tempo. E qui i facili entusiasmi scemano rapidamente. Nel complesso l’economia mondiale, già dentro una crisi epocale - Larry Summers parla di “stagnazione secolare” - sta per entrare in una congiuntura ancora più sfavorevole. Difficile che un paese come il nostro, che ha già perso il 25% della propria potenzialità produttiva, possa risollevarsi solo con misure che agiscono solo dal lato dell’offerta di lavoro. Se si guarda all’insieme del mondo del lavoro, quindi anche al mondo del lavoro autonomo o presunto tale, si scopre che l’occupazione totale – fatti salvi i travasamenti dal lavoro autonomo al lavoro dipendente in virtù delle decontribuzioni e delle altre norme favorevoli - è rimasta negli ultimi sei mesi pressoché invariata.
Ma soprattutto bisognerebbe capovolgere l’angolo di visuale. Guardare cioè non solo al tasso di disoccupazione ma a quello di occupazione. Ovvero al peso dei lavoratori sul totale della popolazione in età da lavoro. L’Italia, per diventare un paese normale, per dirla alla D’Alema, dovrebbe aumentare di sette milioni i suoi posti di lavoro. Nei primi nove mesi del 2015 il tasso di occupazione è sì tornato sopra il 56%, ma siamo lontani da quello francese (64%) o da quello tedesco (74%). Da noi il tasso di occupazione tra i più giovani è sceso al 15%, ovvero 10 punti in meno rispetto all’inizio della crisi. Contemporaneamente è salito quello tra gli anziani, a seguito dell’allungamento dell’età pensionabile. In Italia le persone che non studiano e non lavorano sono ormai 14 milioni, di questi 4,4 hanno meno di 24 anni. Una generazione perduta per lo studio e il lavoro, le cui conseguenze si faranno sentire nel tempo sia in termini economici che civili.
Per tutte queste ragioni non c’è davvero nulla per esultare. Tanto più che politiche di interventi strutturali nella nostra economia per favorire il rilancio di investimenti pubblici e privati in settori innovativi capaci di impiegare lavoro e conoscenze non se ne vedono. Il Governo prepara invece un Documento di economia e finanza per aprile – in vista delle prossima legge di stabilità - il cui cuore sembrano essere ritocchi all’Ires in favore delle imprese e forse qualche anticipazione sull’Irpef, cioè l’imposta sulle persone fisiche. Ma in questo caso si vorrebbe ridurre da cinque a tre gli scaglioni, con aliquote pari al 23%, 27% e 43%. A beneficiarne sarebbero particolarmente i redditi medio-alti, con un risparmio di circa 2430 euro l’anno per chi ne guadagna 50mila e di 3.500 euro l’anno per chi sta sui 60mila. Come si vede Renzi sente approssimarsi il periodo elettorale.
Quanti "gufi" l'avevano predicato, quante persone lontane dal cerchio magico del twittatore l'avevano compreso? Ora i nodi vengono al pettine: «Ammonta a 63 miliardi, Lazio e Piemonte in testa. Carenza di liquidità e risorse minori del previsto destinate al sistema sanitario nazionale».La Repubblica, 3 marzo 2016
La corposa relazione della Corte dei conti non è un semplice esercizio statistico: l’introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione con la legge del 2012 prevede infatti l’obbligo del pareggio di bilancio non solo per lo Stato centrale, ma anche per tutte le amministrazioni pubbliche, Regioni comprese, che devono assicurare l’equilibrio tra entrate e spese la sostenibilità del debito. L’indebitamento, dunque dice la Corte, deve seguire la «regola aurea» ovvero i prestiti devono servire solo per gli investimenti e non per finanziare la spesa corrente.
E i creditori? Sono sostanzialmente banche e Cassa depositi e prestiti. La Corte dei conti spiega che i 63,4 miliardi sono composti da 22,7 miliardi di mutui, 22,1 miliardi di anticipazioni di liquidità da parte dello Stato (ad esempio, per pagare i debiti dei fornitori) e di 13,4 miliardi di titoli obbligazionari. Quest’ultima voce è per circa 9,3 miliardi attribuibile a strumenti di finanza derivata a copertura di mutui e prestiti obbligazionari: la Corte segnala tuttavia che gli accantonamenti operati dalle Regioni a fronte della restituzione dei bond sono in crescita e sono indicativi di una «maggiore consapevolezza »« e prudenza degli enti locali.
La classifica delle Regioni con maggiore debito pro-capite vede in testa la Valle D’Aosta a quota 4.775 euro, seguita dal Lazio con 3.380 euro, dal Piemonte con 2013 euro. Se si guarda al solo debito destinato a finanziare la spesa sanitaria ci si accorge come questo rappresenti un vero e proprio “fardello” sulle spese delle Regioni: il debito sanitario è cresciuto dai 17,5 miliardi del 2011 al 29,6 del 2014 con un incremento di 12,1 miliardi pari al 69,1 per cento.
Perché cresce l’indebitamento delle Regioni? La spiegazione che dà la Corte dei Conti parla di «carenza di liquidità», dovuta a ritardi nei trasferimenti e alla riduzione delle risorse destinate al servizio sanitario nazionale. Insomma: i tagli stanno provocando l’esplosione del debito. Due i dati citati dalla Relazione, che lamenta anche i tagli «lineari » e ritardi nella efficientazione: nel 2014 la spesa sanitaria è stata di 111 miliardi in crescita «contenuta» di soli 984 milioni rispetto al 2013; dato che si associa ad una riduzione della spesa sanitaria in rapporto alla spesa complessiva della pubblica amministrazione dal 17 per cento del 2010 al 16% nel 2014. La spesa sanitaria, rileva la Corte, nel quinquennio 2010-2014 ha avuto «incisive economie» seconde solo alla spesa per investimenti e la spesa pro capite è scesa dai 1.843 euro del 2013 ai 1.768 del 2014.