Nella miniera belga di Marcinelle sessanta anni fa morirono 262 giovani di 12 nazionalità di cui 136 italiani. Chi ignora questa storia non capirà mai i migranti di oggi
. Corriere della Sera e La Repubblica, 8 agosto 2016 (c.m.c.)
Corriere della Sera
I RAGAZZI DEVONO SAPERE
COSA ACCADE A MARCINELLE
di Paolo Di Stefano
Oggi, 8 agosto, ricorre il 60° anniversario della tragedia di Marcinelle. Che cosa ne sappiamo di quel che accadde quel giorno? Che cosa sappiamo di quel che avvenne prima e di quel che avvenne dopo? Nulla. Provate a chiedere che cosa fu Marcinelle a un ragazzo non dico di 13, ma di 18 anni. Provate a chiedere a un trentenne o a un cinquantenne. Avrete risposte vaghe. Solo i vecchi italiani ricordano qualcosa di quella giornata del 1956.
Quella mattina, prima delle 8, una rara giornata di sole, al Bois du Cazier, la vecchia miniera del distretto di Charleroi in Belgio, un incidente a 975 metri sottoterra scatenò un incendio che investì subito gallerie e cunicoli, sopra e sotto, ovunque. Mezz’ora prima, erano scesi 274 minatori nei vari livelli, fino a -1.035 metri. 262 giovani sarebbero morti, 136 erano italiani. Ne uscirono vivi solo 12, tra cui il molisano Antonio Iannetta, che secondo le ricostruzioni provocò il disastro: aveva inserito male un carrello pieno di carbone nell’ascensore, l’ascensore chissà come e perché (un equivoco con l’operaio di superficie) partì e il vagonetto che fuoriusciva andò a sbattere contro una trave, pochi metri sopra, dove correvano vicinissimi i tubi dell’olio e i cavi elettrici. Lo schianto provocò il fuoco.
I responsabili se la presero comoda: non era la prima volta che succedeva un incidente (anche mortale). Le operazioni di soccorso furono lente, i pompieri arrivarono a mezzogiorno quando già il fumo usciva dalle ciminiere, il cielo era diventato nero e le donne erano attaccate alle grate del cancello ad aspettare e a piangere.
Sono passati sessant’anni, ma per le vedove, gli orfani, i vecchi minatori, l’incidente di Marcinelle (che chiamano, con parola mezzo italiana e mezzo francese, la «catastròfa») è avvenuto ieri. Hanno ancora negli occhi quella mattina e l’attesa delle giornate successive. Due settimane dopo un soccorritore italiano sarebbe tornato in superficie urlando la verità a cui nessuno voleva credere: «Tutti cadaveri!».
I tre processi condannarono a sei mesi con la condizionale il direttore della miniera; gli amministratori e gli ingegneri (responsabili delle incurie, della pessima manutenzione e delle bestiali condizioni di lavoro) non vennero toccati dalla giustizia. I parenti dovettero pagare le spese giudiziarie. Il testimone principe, Iannetta, era stato mandato in Canada (era il suo desiderio) a processo in corso. Il re Baldovino era accorso subito, il giorno stesso, le autorità italiane non si mossero da Roma.
Eravamo dei poveracci. Partivamo dal Nord, dal Centro e dal Sud con un panino o un’arancia in tasca, fuggivamo dalla povertà. I manifestini rosa che invitavano i ragazzi a emigrare in Belgio promettevano case per le famiglie, assicurazioni e buoni stipendi. Niente fu mantenuto: in Belgio gli operai venivano ospitati nelle baracche dei prigionieri di guerra. Erano partiti per cercare un po’ di benessere ma anche per rimediare alle lacune della manodopera belga che non voleva più scendere in miniera e preferiva lavorare nelle fabbriche. Il governo italiano, nel 1946, aveva firmato un accordo con Bruxelles che prevedeva uno scambio: per 1000 minatori mandati in Belgio, sarebbero arrivate in Italia almeno 2500 tonnellate di carbone. Uno scambio uomini-merce (su Marcinelle è appena uscito da Donzelli un libro-inchiesta di Toni Ricciardi).
Che cosa rimane di tutto ciò nella memoria degli italiani? La «catastròfa» è la prima grande tragedia dell’Italia repubblicana: una tragedia europea, perché quel carbone sarebbe servito a risollevare le sorti non solo dell’Italia ma dell’Europa del dopoguerra. Quel giorno morirono uomini di 12 nazionalità diverse (gli italiani furono i più numerosi). Rimane ben poco. Qualche rievocazione per gli anniversari.
Cosa ne sanno i giovani di quel che eravamo non due secoli ma sessant’anni fa (nel 1965 altri 56 operai italiani sarebbero morti a Mattmark, in Svizzera, per il crollo di una diga)? Che cosa ne sanno del razzismo di cui erano vittime gli italiani («Né cani né italiani» era il divieto appeso sulle porte dei locali pubblici in Belgio)? È cambiato tutto. Abbiamo vissuto il boom economico mentre ancora si emigrava in Svizzera e in Germania per fare lavori pericolosi.
Nelle scuole bisognerebbe rendere obbligatorio il capitolo: «Emigrazione italiana», nelle famiglie bisognerebbe parlare anche del nostro passato doloroso. Per educare i nostri figli a guardare con occhi più consapevoli alle emigrazioni degli altri, quelle che oggi dobbiamo «subire». Esercitare la memoria, individuale e collettiva, a futura memoria.
La Repubblica
MARCINELLE,
L’ITALIA È PARTITA DA LÌ
di Guido Crainz
MARCINELLE, Belgio, l’8 agosto di sessant’anni fa: una data da non dimenticare mai. Per il devastante incendio nella miniera di carbone in cui muoiono 262 lavoratori, di cui 136 italiani. Per il più generale simbolo che presto l’evento diventa: non solo nel vissuto delle famiglie e dei paesi colpiti dal lutto, e non solo in quel 1956 (nel 2001 è stata istituita proprio per l’8 agosto la Giornata del sacrificio del lavoro italiano).
Non la dobbiamo dimenticare, anche, per quel che ci dice della nostra storia: quella tragedia affonda le sue radici nell’Italia piagata del dopoguerra ma colpisce un Paese che sta lasciandosi faticosamente alle spalle quegli anni. La notizia dell’«inferno nella miniera arroventata», scriveva Dino Buzzati, giunge in un agosto italiano in cui le vacanze iniziano ad essere costume di massa: stride con quella Italia, quasi a ricordarle i sacrifici che hanno costruito e stanno costruendo il nostro “miracolo”. È infatti del 23 giugno del 1946 l’“accordo minatori-carbone”, come lo chiamerà poi alla Costituente il ministro Carlo Sforza, cioè l’impegno a favorire l’emigrazione nelle miniere del Belgio di 50.000 lavoratori italiani in cambio di forniture preziose: il carbone appariva fondamentale come il pane, e anche il pane scarseggiava in quel 1946.
Ancora a dicembre una prima pagina della Domenica del Corriere sarà dedicata appunto a “Il dramma del grano” e poco dopo Nenni annoterà nel suo diario: «Le scorte sono a zero. Abbiamo dato pane a Milano perché l’ammiraglio Stone ci ha prestato cinquemila quintali di farina». Pochi mesi prima dunque il governo ha firmato l’accordo per l’invio di italiani nelle miniere belghe, in condizioni di vita e di lavoro che si riveleranno spaventose. Miniere in cui i lavoratori di quel Paese non vogliono più scendere.
Ci parla di quell’Italia, dunque, il dramma di Marcinelle: quasi “inevitabilmente” la via dell’emigrazione era apparsa ai governi del tempo una via necessaria, e molti italiani aspirarono realmente e fortemente ad essa per sfuggire a pesanti condizioni di miseria e di incertezza. Non erano inevitabili però le condizioni di quell’emigrazione in Belgio, ben diverse da quelle promesse dai manifesti che tappezzavano le piazze e i locali pubblici. Non erano inevitabili le durezze estenuanti e le umiliazioni dei viaggi (con i treni di fatto “sigillati” mentre attraversavano la Svizzera, ad evitare “fughe”).
Non erano inevitabili le disumane condizioni di vita nelle baracche, o la dura “scoperta” di un lavoro «abbruttente, inumano, svolto lontano dalla luce del Sole, in condizioni spesso di pericolo e di timore (…) una condanna da cui si attende la liberazione» (sono parole di Aldo Moro, che nel 1949 visita il Belgio come sottosegretario). Vi sono anche le carenze delle istituzioni pubbliche nella storia che porta a Marcinelle, e anche quelle carenze - anche quei patti non rispettati, o quei varchi lasciati ai trafficanti del lavoro - contribuiscono a farci comprendere i costi altissimi che furono pagati: lo testimoniarono i moltissimi lavoratori che rientrarono subito, talora sfidando l’arresto per “inadempienza” (un altro paradosso, un altro rovesciamento di questa vicenda).
Lo testimoniarono le moltissime vittime: alla vigilia di Marcinelle erano già 1164 i minatori morti in Belgio dal 1947, e 435 di essi erano italiani.
Ha davvero in sé un “dovere di memoria”, Marcinelle, e lo ha sottolineato con efficacia un recente libro di Toni Ricciardi, Marcinelle, 1956, che ha un sottotitolo eloquente: Quando la vita valeva meno del carbone (Donzelli editore). In esso Annacarla Valeriano analizza bene anche la “comunicazione” e la “rappresentazione” che vi furono di quell’evento e che contribuirono a farlo diventare, appunto, lutto pubblico: chi ha visto i cinegiornali di allora della Incom non li dimentica più, e i giornali sono altrettanto eloquenti.
Il-luminano di luce cruda non solo l’inferno delle miniere ma anche la realtà da cui quegli uomini erano partiti. Disegnano una vera geografia della miseria e del dolore, popolata da piccoli paesi sin lì sconosciuti, soprattutto abruzzesi (viene da questa regione la maggior parte delle vittime italiane): «ci vogliono i titoli sulla prima pagina dei giornali - scriveva Il Giorno - perché l’Italia si chieda dove sia Manoppello, e perché la gente di questo paese è così povera, e cosa si può fare per sollevarla alla miseria senza mandarla a morire in Belgio».
E ricordava che in quell’Italia erano ancora in vigore (e lo saranno sino al 1961) le leggi fasciste contro l’urbanesimo volte a impedire le migrazioni interne: un altro stridente contrasto del nostro dopoguerra. In realtà l’Italia iniziava a cambiare, in quel 1956, ma da qui siamo partiti: questo abbiamo sofferto, e non dovremmo dimenticarlo mai.
«Libia. Per quanto ci riguarda la posizione per noi è chiara ed è quella espressa dalla Rete Disarmo: no ad interventi militari e no alla concessione delle basi militari italiane per i raid». Il manifesto
, 4 agosto 2016 (c.m.c.)
Ieri la ministra della difesa Roberta Pinotti – a un question time chiesto dal Pd – ha annunciato che l’Italia «è pronta a concedere l’uso delle basi e dello spazio aereo nazionale» per gli aerei americani o della coalizione anti-Isis chiamati a intervenire dal governo libico contro l’Isis. Gli americani hanno già iniziato a bombardare Sirte da due giorni e forse stanno già utilizzando le nostre basi.
Nell’intervento la ministra - per l’utilizzo delle basi - non ha fatto riferimento al bisogno di autorizzazione parlamentare poiché la risoluzione 2259 dell’Onu già concernerebbe questa possibilità. Senonché, ora siamo a un punto di pericolosa accelerazione con davanti a noi 30 giorni (e forse più) di bombardamenti americani e l’utilizzo delle nostre basi.
Non ce la si può cavare con un question time e una comunicazione della ministra alle commissioni esteri e difesa che ci sarà oggi. Il parlamento italiano ha il dovere di riunirsi anche nei prossimi giorni e votare sull’impegno del nostro paese in questa vicenda.
Siamo ad un punto di passaggio pericoloso. L’avvio dei raid americani può avere effetti disastrosi, accendendo la miccia di una escalation di cui è difficile prevedere l’esito. E c’è una questione più concreta e drammaticamente importante: quei raid (e sappiamo quanti morti innocenti hanno fatto i droni americani in Afganistan e in Iraq) mettono a repentaglio la vita di 7mila civili tenuti in ostaggio in una zona di Sirte da un migliaio di combattenti dell’Isis. I precedenti dovrebbero invitare alla massima cautela.
Non è la prima volta che in Libia si gioca una partita geopolitica assai complicata, con la Francia coinvolta in una guerra a sostegno di Khalifa Haftar che agisce in proprio, fuori dal controllo del governo centrale di Al-Sarraj. E proprio la risoluzione 2259 chiede ai paesi di evitare «il sostegno a istituzioni parallele».
Proprio quello che sta facendo la Francia con le milizie di Haftar: un elicottero francese pochi giorni fa è stato abbattuto (con tre soldati francesi morti) durante una di queste azioni «parallele». La partita geopolitica ha per oggetto il controllo di risorse ed aree di interesse: per la Francia l’obiettivo principale è la Cirenaica con i suoi pozzi petroliferi. L’Italia non ne sta uscendo bene. Un anno fa la ministra Pinotti ha ventilato l’ipotesi di mandare 5mila soldati in Libia, salvo fare marcia indietro qualche giorno dopo l’altolà di Renzi e della comunità internazionale.
Ora ci apprestiamo a dare le basi di Sigonella e Aviano per i raid senza aver valutato le conseguenze non solo per la Libia, ma anche per il nostro paese. Abbiamo lasciato campo libero a Francia e Usa che ci stanno portando su una china non proprio rassicurante. Più che una missione è un’omissione: il Parlamento viene tenuto all’oscuro. Domani dovrebbe chiudere i battenti, ma vanno riaperti subito per discutere di una avventura da valutare con la necessaria documentazione e con la massima trasparenza nei confronti dell’opinione pubblica e dei cittadini.
Per quanto ci riguarda la posizione per noi è chiara ed è quella espressa dalla Rete Disarmo: no ad interventi militari e no alla concessione delle basi militari italiane per i raid. Va bloccato il traffico delle armi verso quell’area e va rilanciata l’idea della convocazione di una nuova conferenza internazionale di pace, capace di un negoziato vero con gli attori locali, al riparo degli interessi e dell’offensiva geopolitica dei paesi occidentali, della Russia e delle altre potenze regionali. Questo è quello che vorremmo dire in parlamento, che chiediamo di riunire al più presto. Perché se c’è la guerra, le istituzioni repubblicane non possono andare in ferie.
. La procura di Bologna indaga ancora sui mandanti»La Repubblica,
Il manifesto
, 2 agosto 2016 (c.m.c.)
La Repubblica
UNASTRAGE E L’ALTO TRADIMENTO
L’ULTIMO MISTERO DI BOLOGNA
di Carlo Lucarelli
Era un 2 agosto come oggi, esattamente 36 anni fa, quando Bologna, e la sua stazione, furono squassate da un’esplosione: 85 morti, oltre 200 feriti, una ferita mai sanata per la città e per il Paese. Una bomba per colpire al cuore la nostra vita, le nostre vacanze, i nostri affetti. E anche l’inizio di una vicenda giudiziaria lunga, tormentata. Ancora aperta. Strage, insurrezione armata contro i poteri dello Stato e guerra civile.
La bomba che provocò 85 morti e oltre 200 feriti resta una ferita aperta del nostro Paese Un libro curato da Paolo Bolognesi fa il punto sul coinvolgimento della loggia e di uomini di Stato con l’aggravante, per i militari, del reato di alto tradimento. Queste le ipotesi d’accusa formulate dalla procura emiliana – anche se al momento contro ignoti – su impulso dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna. Alto tradimento è anche il titolo di un libro che ad essa è dedicato.
Stiamo parlando della stessa cosa. Parliamo di uomini dello Stato che hanno abiurato al giuramento di fedeltà che avevano fatto. Parliamo di cittadini inermi che dalla bomba di Bologna sono stati falciati. Alto tradimento – appena uscito per Castelvecchi nella collana Stato d’eccezione diretta da Andrea Speranzoni e Silvia Buzzelli – è curato da Paolo Bolognesi, dal 1996 Presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime e dal 2013 deputato indipendente eletto nelle liste del Pd, che ha messo insieme una squadra di ricercatori, ex magistrati e giornalisti. Sono Claudio Nunziata, Roberto Scardova, Gigi Marcucci, Giorgio Gazzotti e Antonella Beccaria. A loro Bolognesi ha chiesto di scavare nella mole di centinaia di migliaia di atti giudiziari di cui l’Associazione stessa si è servita per i suoi memoriali depositati in procura, per far apparire i fili che possano condurre ai mandanti.
Nel libro questi fili emergono. Eccome se emergono. E ne emerge uno un particolare. Giovanni Falcone, per combattere la mafia, diceva che bisognava seguire il percorso del denaro – « Follow the money », raccomandava – e anche qui, in queste pagine, si parte dal percorso che fecero quindici milioni di dollari usati, nell’ipotesi degli autori, per finanziare il massacro del 2 agosto 1980. Ci sono le carte, a volte poco più di foglietti contabili, che ne raccontano la storia. Carte, come il “documento Bologna”, che vengono trovate a Castiglion Fibocchi quando la guardia di finanza perquisisce il 17 marzo 1981 l’azienda di Licio Gelli e che sono addosso allo stesso Venerabile della P2 quando viene arrestato a Ginevra meno di un anno e mezzo dopo. Strano che si porti sempre addosso proprio quei foglietti.
Incrociandoli con altro materiale che salta fuori dal processo per il fallimento del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, ecco allora comporsi un puzzle fatto di conti correnti. Alcuni hanno nomi fantasiosi, come il Recioto, che ai più ricorda solo un buon vino veneto. Altri sono riconducibili a uomini della P2, altissimi funzionari dello Stato italiano, giornalisti chiacchierati. Il disegno che pian piano si configura non riguarda tentativi più o meno riusciti di corrompere ufficiali della Fiamme gialle, come pensato ai tempi, ma il finanziamento di ambienti eversivi per arrivare a ribaltare le istituzioni, facendolo da dentro. Dai documenti trovati, poi, salta il nome “Bologna” e nulla viene trasmesso alla procura che indaga sulla strage più grave del dopoguerra italiano. Strano anche questo. Perché?
La storia di questo Paese è stata attraversata da tanti, tantissimi morti, da tentativi di colpi di Stato, da una violenza indiscriminata che nel 1974 sembra scomparire e invece si inabissa, come ha fatto la mafia dopo la stagione stragista del 1992 e del 1993. In realtà è sempre lì, come quegli uomini che lavorano per sovvertire lo Stato, infiltrando però e infettando i suoi organi.
Ci sono riusciti? A sentire Gelli, quando la P2 fu scoperta, mancavano quattro mesi a un golpe soft, senza i carri armati, il coprifuoco e i proiettili sparati ad altezza d’uomo. «Il Paese deve sapere chi, tramite Licio Gelli, fu tanto determinato contro la democrazia da finanziare una strage di 85 morti e 200 feriti», si legge sul manifesto dell’anniversario di quest’anno. Considerando che ancora oggi siamo qui a porci certe domande, sicuramente qualcosa non ha funzionato in una nazione che ha saputo dare un nome ai responsabili materiali e ai depistatori, ma non è riuscita ad andare più su, verso chi ha la responsabilità politica di aver scatenato una vera e propria guerra civile, come ipotizza la procura di Bologna.
Il manifesto
STRAGE ALLA STAZIONE,
COMMEMORAZIONEA BOLOGNA.CON IL REATO DI DEPISTAGGIO
Trentasei anni fa, ma Bologna ricorda ancora. Non è stato scalfito il dolore per la morte delle 85 persone uccise (e 200 feriti) dalla bomba deflagrata il 2 agosto 1980 alla stazione; unica consolazione l’approvazione definitiva, nel maggio scorso, del reato di depistaggio per ottenere il quale l’associazione dei familiari delle vittime si è battuta a lungo per anni, riuscendo finalmente a portare a termine l’iter di legge grazie all’impegno del presidente Paolo Bolognesi, il deputato eletto nel 2013 nelle liste del Pd.
Per la strage sono stati condannati all’ergastolo in via definitiva come esecutori materiali gli ex Nar Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro insieme all’altro ex Nar, all’epoca minorenne, Luigi Ciavardini, condannato a 30 anni. La procura di Bologna invece indaga ancora sui mandanti, inchiesta che la stessa associazione dei familiari aveva sollecitato depositando un anno fa un nuovo dettagliato dossier, frutto di un lavoro di ricerca e dell’analisi incrociata di migliaia di pagine di atti giudiziari di processi per fatti di strage e terrorismo dal 1974 ad oggi. Per ulteriori sviluppi, i magistrati attendono con interesse le motivazioni della sentenza della Corte di assise di appello di Milano che a luglio 2015 ha condannato Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte per la strage di Piazza della Loggia a Brescia. L’inchiesta bis che indagava i terroristi tedeschi Thomas Kram e Margot Christa Frohlich in una presunta «pista palestinese» è stata archiviata a febbraio 2015.
Come ogni anno, questa mattina sfilerà il corteo lungo via Indipendenza fino alla stazione ferroviaria dove l’orologio della facciata ovest segna ancora le 10:25, l’ora dello scoppio della bomba, quando si osserverà un minuto di silenzio. Dal palco allestito davanti alla stazione parleranno tra gli altri il sindaco di Bologna Virginio Merola e il presidente dell’associazione, Bolognesi.
Alle 8:30 il Comune ospiterà un incontro con i familiari al quale parteciperà, in rappresentanza del governo, il sottosegretario alla presidenza Claudio De Vincenti. Alle 11:30 nella Chiesa di San Benedetto, il vescovo Matteo Zuppi celebrerà una messa alla quale parteciperanno anche i rappresentanti della comunità islamica bolognese.
In serata, alle 21:15, l’orchestra del Teatro Comunale di Bologna suonerà in piazza Maggiore i brani vincitori del concorso internazionale di composizione dedicato alla memoria del 2 agosto. Gli attivisti del Nodo sociale antifascista, che spesso hanno contestato i rappresentanti del governo, hanno annunciato che quest’anno usciranno in silenzio dalla piazza dopo il minuto di silenzio.
Internazionale
online, 1 agosto 2016 (c.m.c.)
Da quando vivo a Ouagadougou, ho l’abitudine di passeggiare nelle sue strade la sera molto tardi, quando la città si svuota. Una sera mi perdo nelle strade di Pissy, un quartiere popolare nella parte ovest della capitale. All’improvviso sento un odore di fumo acre, che mi stringe il naso e la gola. Per la prima volta entro in contatto con la cava di granito di Pissy, che dà lavoro a molte famiglie della zona.
Ci torno la mattina dopo. Vedo, in fondo a un sentiero di terra rossa, delle piramidi di pietre bianche e di sabbia setacciata. Alcuni camion. Un nugolo di bambini, alcuni di loro annunciano il mio arrivo. Corrono dietro di me e urlano: “Nasara! Nasara!”, che significa “la bianca”. Si mettono in fila indiana davanti a me. Uno di loro viene a salutarmi: incrocia le braccia sul petto piegando leggermente le ginocchia. Un altro lo imita. Questa forma di saluto è un segno di rispetto e umiltà, rivolto a “coloro che ti superano”, mi ha spiegato un’amica. Glielo insegnano a casa o a scuola. Il gesto non è riservato ai “bianchi” ma agli adulti in generale.
All’inizio mi sento intimidita. Mi siedo al bancone di un chiosco che serve caffè: è un’enorme scatola metallica blu poggiata su un sentiero di terra. Saluto con un sorriso. Poi mi metto a fissare lo schermo della televisione. Uomini e bambini sono impegnati a guardare un vecchio film con Jackie Chan. Mi unisco a loro. Mamoudou, il proprietario, mi dà il benvenuto e mi serve un sacchetto d’acqua. Un adesivo con il volto di Gheddafi e un altro con quello di Ronaldinho sono incollati al frigo.
Mamoudou compra anche il granito. Lo rivende a privati e imprenditori. Pensa che io sia lì per comprarne un po’. Gli spiego cosa mi ha portato da quelle parti e il mio lavoro di giornalista. Gli rivelo che non sono di passaggio ma che vivo a Ouagadougou. Rassicurato, m’incoraggia a portare avanti il mio progetto.
Mamoudou m’accompagna nella cava per presentarmi ai lavoratori. Attraverso alcune file di capanne che vengono montate la mattina e smontate la sera. Una donna pianta una fragile canna di bambù e la ricopre con un lembo di tessuto consumato. Ogni mattina mettono su queste piccole capanne per proteggersi dal sole. Poco più avanti alcune donne scavano nel terreno. Hanno dieci chili di pietra sulla testa. Alcune trasportano anche i loro bambini sulla schiena.
Attrazione turistica
Vista dall’alto la cava somiglia a un abisso profondo varie decine di metri. La prima volta che entro in questa buca, mi sento soffocare. Intravedo alcune sagome che attraversano delle nubi polverose: sono i gas tossici rilasciati dagli pneumatici che vengono bruciati per rendere la pietra più fragile prima di romperla.
Sento alcuni lavoratori tossire tra i rumori assordanti dei colpi di martello e piccone. La maggioranza delle persone che lavorano qui non ha maschere di protezione né guanti. Mentre scende un pendio sinuoso, una lavoratrice si rivolge a me chiedendomi: “Mana wana” (come va?). Le rispondo: “Lafi, za karamba” (tutto bene, e la famiglia?). “Lafi, lafi, lafi”, risponde lei, tenendo la sua mano nella mia, che viene scossa a ogni parola pronunciata in moré, la lingua parlata dai mossi, l’etnia maggioritaria del paese.
Fiduciosa, estraggo la mia macchina fotografica, faccio due o tre scatti di questa anziana, con il suo permesso, prima di essere avvicinata da un’altra donna che mi stringe la mano, poi con l’altra si tocca la bocca più volte, facendomi segno che vuole mangiare, che le devo dare da mangiare in cambio della foto. Altre donne fanno lo stesso.
Lo sfruttamento della cava di granito è artigianale. In un simile ambiente la macchina fotografica è assimilata a una forma di ricchezza e a un’intrusione straniera. Fin dai miei primi scatti, un gruppo di lavoratori s’è mostrato ostile. La loro diffidenza si è diffusa come una tempesta di sabbia sugli altri lavoratori.
Mamoudou, il proprietario del chiosco, è sempre al mio fianco. Mi spiega che qui “i bianchi quando vengono, quando venivano, portavano aiuti, dei vestiti, delle medicine. Davano qualcosa e poi se ne andavano”. E c’è anche stato un gruppo di turisti venuti in autobus una volta. “Hanno scattato alcune foto e hanno continuato il loro viaggio a Bobo Dioulasso”, ricorda. Secondo loro, i bianchi li trattano come oggetti di curiosità, e questa cava non è altro che un’attrazione turistica.
Metto via la macchina fotografica e decido di trovare un terreno d’intesa. In Burkina Faso è importante saper conversare, le chiacchiere sono una vera e propria istituzione.
Un sostituto della scuola
Il primo giorno non scatto foto ma tengo la macchina al collo. Torno alla cava l’indomani. Saluto alcune donne e mi siedo al loro fianco. Qui si comincia dicendo il cognome: prima di essere individui si è innanzitutto discendenti di una stirpe. Discutiamo del significato dei nomi. Il mio, d’origine araba, significa “fabbro”. Un mestiere al contempo rispettato e temuto, anche se i fabbri sono sempre più rari. Ma ai loro discendenti sono ancora attribuiti poteri mistici. In moré il mio nome significa “piccolo capo”. Alcuni momenti di titubanza, poi risate: sono convinte che abbia degli antenati burkinabé.Prendo un martello, colpisco una pietra.
Cerco di portare dei sassi sulla testa. “È dura”, mi dice una di loro.Vorrebbe fotografarmi. Le spiego come usare la macchina fotografica. Guarda la foto e sorride. Altre donne fanno lo stesso e s’impadroniscono della macchina che diventa un oggetto un po’ meno estraneo. Così nascono i miei primi scatti, durante i momenti di silenzio, tra le chiacchiere, cui spesso assistono un bambino o un adolescente. La maggior parte di loro ha imparato il francese a scuola.Come Amy che, a soli 15 anni, conosce la cava come il palmo della sua mano. Sa come funziona e ha già qualche nozione di contabilità.
Ogni giorno saranno circa un migliaio le persone che penetrano in questo enorme cratere scavato durante gli ultimi vent’anni. Trasportano sulla testa un vassoio carico di pezzi di granito che rivenderanno a trecento franchi Cfa al pezzo (cinquanta centesimi d’euro). Ciascuno lavora per conto proprio e guadagna tra uno e due euro al giorno. Alla fine questo granito servirà a costruire degli edifici, delle case, delle strade.
Qui decine di bambini e adolescenti come Amy spaccano sassi dall’alba al tramonto, durante i fine settimana e le vacanze scolastiche. Altri, che non vanno a scuola, lavorano nella cava tutto l’anno. Amy mi spiega che il lavoro nella cava si svolge in famiglia, ciascuna delle quali può sfruttarne una piccola porzione. I figli aiutano i genitori per aumentare le entrate, pagarsi le spese per i bisogni più elementari e partecipare all’acquisto dei materiali scolastici.
Queste foto di bambini non rivelano solo la povertà, ma anche che la cava è un luogo dove imparano a essere autonomi, un sostituto della scuola in un paese dove sono troppo pochi i bambini che possono frequentarne una. Assisto a una scena rivelatrice dell’immersione dei bambini, loro malgrado, nel mondo del lavoro. Due di loro riempiono delle tazze con dei sassolini di granito. Hanno sette anni. Seduti in mezzo alla cava, la loro pelle e i loro vestiti sono ricoperti di una sottile pellicola bianca, probabilmente un misto di polvere rossa e del diossido di zolfo sprigionato dagli pneumatici bruciati. I loro gesti sono gli stessi di quelli degli adulti che riempiono i loro vassoi di granito per poi risalire i pendii sinuosi e scivolosi.
All’inizio penso che stiano giocando e imitando i gesti degli adulti, come fanno i bambini di tutto il mondo. Dieci minuti dopo uno dei bambini si alza e si mette a sedere davanti a una pila di granito. Prende un martello e sbriciola la pietra tra le sue mani fragili e ferite. Sembrano più vecchie. Il gioco era solo una pausa dal suo lavoro, anche se compiva le stesse azioni.
Da allora ho preso l’abitudine, una o due volte la settimana, di andare a trovare queste persone. A volte solo per salutarle. A volte, quando mi assento per troppo tempo, ricevo una chiamata da Josephine o da sua figlia Nadège: “Son due giorni che non passi. Ci hai abbandonati?”.
Altraeconomia, 29 luglio 2016 (c.m.c)
Ha studiato molto, gode di buona salute, ha un reddito che gli consente di vivere bene ed è pure soddisfatto della vita. Non stiamo parlando di un manager di successo, ma di chi fa volontariato, chi può permettersi il “lusso” di aiutare gli altri.
Un ritratto del volontario medio italiano emerge dall’analisi dei dati dell’indagine Istat del 2014 sugli Aspetti della vita quotidiana. Insieme alla Fondazione volontariato e partecipazione (www.volontariatoepartecipazione.eu) e a CSVnet, il coordinamento nazionale dei centri di servizio al volontariato, l’Istituto di statistica ha sperimentato in Italia il modulo elaborato dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), andando a misurare con precisione le caratteristiche di chi fa volontariato e quanto vale economicamente il suo impegno.
La lettura dei risultati mette in crisi molti dei luoghi comuni che, parlando di volontariato, siamo abituati a sentire e sostenere. Scandagliandoli bene, fotografano anche in questo mondo forti squilibri di opportunità. Esiste un’Italia a due velocità, pure nel volontariato.
La macchina viaggia spedita, con tutte le fatiche e i difetti naturalmente, a Nord, molto più piano al Sud. Nell’area geografica del Nord-ovest, ad esempio, quando, all’epoca della rilevazione, il tasso di occupazione -il rapporto fra il numero di persone occupate e la popolazione totale- è al 63,8%, il tasso di disoccupazione “solo” al 9,3% e il reddito familiare medio di 32.654 euro, il tasso di volontariato in associazioni registrate è del 4,2%. Dall’altra parte dell’Italia, nel Mezzogiorno, il tasso di volontariato è solo dell’1,7%, con quello di occupazione del 41,8% e di disoccupazione del 20,7%. Numeri che fotografano una situazione socioeconomica in filigrana: dove c’è più disagio c’è anche meno aiuto, non solo da parte dello Stato, ma anche dei cittadini stessi.
«La correlazione fra tasso di occupazione e tasso di volontariato -spiega lo statistico Andrea Bertocchini della Fondazione volontariato e partecipazione, che ha elaborato i dati- niente ci dice del legame di dipendenza, del nesso causale. Non possiamo escludere che si tratti anche di una relazione spuria, cioè senza linea diretta, ossia che l’occupazione favorisca effettivamente il volontariato. Ma l’ipotesi accettabile è che livelli di volontariato e occupazione siano strettamente legati perché espressione entrambi di uno sviluppo sociale simile, generati insomma da uno stesso ambiente storico, culturale ed economico favorevole. C’è più volontariato quindi laddove c’è meno bisogno, mentre dove è più difficile trovare lavoro il tasso di volontariato si affievolisce».
Che sia un fenomeno a trainare l’altro o viceversa, i dati ci raccontano comunque che partecipazione al volontariato e solidità economica procedono di pari passo, sia a livello territoriale sia a livello individuale. Perché se guardiamo ai profili personali oltre che a quelli socioeconomici, i dati sono sorprendentemente simili nella media italiana: chi contribuisce alle attività svolte dalla associazioni è in media più istruito rispetto a chi non si impegna (il 21,2% è laureato a fronte dell’11,2 degli altri).
Chi fa volontariato ha in media 12 anni di istruzione alle spalle, chi non lo fa solo 10,2; ha un lavoro nel 48,9% dei casi e solo il 40,6% di chi non lo fa è occupato. Legge in media 3,5 libri all’anno, contro l’1,9 di chi non si dedica agli altri. In generale è più dedito ai consumi culturali, più interessato ai problemi politici e sociali, più soddisfatto della propria vita e più ottimista per il futuro.
I dati possono raccontare la società e quelli sul volontariato ci dicono che le situazioni sociali e personali positive influiscono in maniera determinante sui tassi di impegno. Lo stato di salute, per esempio, rappresenta una variabile influente per la partecipazione al volontariato.
Chi fa volontariato sta meglio: i valori rispettivi dell’indice in base 10 dello stato di salute sono di 6,2 per i volontari e di 5,6 per la popolazione nel suo insieme. La salute, si sa, è importante, ma conta il benessere in senso più ampio. Si vede bene se andiamo ad esaminare la propensione ad impegnarsi per gli altri di giovani e donne. I giovani, che in Italia vivono le situazioni di maggiore precarietà, continuano a fare volontariato, ma le difficoltà sono molte.
Osservando i dati Istat -elaborati sulla base di interviste a un campione rappresentativo di 40mila persone- i giovani in effetti fanno meno volontariato degli adulti: la fascia di età dove ci si impegna di più è fra i 40 e i 64 anni (circa il 15%), mentre sotto i 35 anni si danno da fare in media fra il 10 e il 12%.
Non esistono serie storiche di dati da confrontare per capire se i giovani si impegnino di più o di meno rispetto al passato. Ma considerato che la fascia di popolazione giovanile è in calo già da qualche anno, tenute conto le difficoltà sempre più forti nel trovare lavoro e tutto il noto e faticoso contesto italiano, i dati sono incoraggianti. «I ragazzi di oggi -spiega lo statistico Lorenzo Maraviglia che ha elaborato i dati sui giovani e il volontariato- pur vivendo in un mondo profondamente diverso rispetto al passato, non sembrano più ostili ad impegnarsi rispetto ai loro predecessori».
Dall’analisi dei dati viene decostruito anche un altro luogo comune, ossia che i giovani non si farebbero “ingabbiare” dalle realtà organizzate e si impegnerebbero di più in forme inedite e leggere. Il dato parla chiaro: il tasso di partecipazione al volontariato dei giovani è del 10,7%, quelli che si impegnano in forme solo organizzate sono il 6,7%, mentre quelli che lo fanno in maniera individuale il 3,2%. Lo 0,8% fa entrambe le cose. Fra gli adulti dai 30 e i 49 anni il 5,7% lo fa in forma individuale e non organizzata.
Il dato messo allo specchio conferma: l’età media dei volontari è in linea con quella della popolazione, 48,1 anni a fronte del 48,7 della popolazione nel suo complesso. Ma conferma pure che in Italia chi ha situazioni sociali e personali più solide si impegna di più e cerca di restituire alla società il suo benessere. «L’analisi dei tassi di volontariato -conferma Bertocchini- ci dà la percezione di una maggiore probabilità di fare volontariato dai 45 anni in poi, quando l’attività lavorativa si è consolidata e insieme a quella gli equilibri familiari. In ogni caso il legame fra la propensione a svolgere attività gratuite e il livello di reddito della famiglia di appartenenza emerge abbastanza chiaramente: le disuguaglianze nella partecipazione derivano dal fatto che ad attività extralavorative gratuite può più facilmente dedicarsi chi appartiene a famiglie agiate. In quel caso il tasso specifico è del 5,3%. Meno chi ha risorse economiche adeguate (4,2%) e ancora meno chi vive in famiglie con difficoltà economiche (2,4%)».
La distribuzione dei volontari delle organizzazione in base all’età segue comunque una curva a “u” rovesciata: parte dai valori più bassi della presenza giovanile, sale al crescere dell’età, raggiungendo il picco di presenza per i 45-54enni e poi comincia a declinare via via che l’età si alza e avviene il passaggio alla terza e alla quarta età. La partecipazione di giovani e anziani, dunque, rispecchia il peso di queste fasce di età nella popolazione, mentre sono sovrarappresentate le fasce di età centrali dai 45 ai 64 anni.
La fatica, e la tenacia, di chi si impegna per gli altri emerge anche da un altro focus di ricerca che ha indagato le donne nel volontariato. Sono in minoranza nelle associazioni -il 45% del totale-, ma quando possono sono più generose, donando in media a settimana 18,5 ore contro le 15,4 degli uomini, dunque il 18% in più. «Questo -spiega ancora Maraviglia- perché fare volontariato presuppone una certa disponibilità di tempo ed è molto di più quello che le donne dedicano alla famiglia rispetto agli uomini. Voglio dire che se si considerano le attività domestiche il budget di tempo che donne e uomini dedicano ad attività extralavorative di cura, che siano verso gli altri o verso la famiglia, si riequilibria. Questo porta a dire che il loro impegno vale di più».
Un dato evocativo in questo senso riguarda le casalinghe, la cui presenza “censita” tra i volontari appare dimezzata rispetto al dato relativo alla popolazione (il 7,8% contro il 14,9%). All’interno delle organizzazioni di volontariato sono inoltre spesso cristalizzate condizioni strutturali che penalizzano il ruolo della donna, che si trova ad occupare posizioni di minor prestigio e contenuto professionale: lo “scettro del comando”, ad esempio, continua ad essere soprattutto appannaggio degli uomini, che occupano in 71 casi su 100 ruoli dirigenziali.
È dimostrato anche che le donne disoccupate fanno più volontariato degli uomini. «In generale -conferma Maraviglia- la condizione di disoccupazione ha un effetto negativo sulla probabilità di svolgere attività volontarie. Può essere spiegato con il fatto che chi è disoccupato ha poco tempo da dedicare ad altre attività perché assorbito dalla ricerca di un lavoro. Considerando invece l’interazione fra disoccupazione e genere, si può osservare che mentre l’effetto negativo della prima sulla propensione al volontariato si intensifica per gli uomini, esso sparisce completamente per le donne».
A differenza degli uomini, le donne disoccupate hanno le stesse probabilità di militare in associazioni di volontariato delle donne occupate o inattive. Tra le motivazione che portano una donna ad impegnarsi con un’organizzazione c’è anche la ricerca di «occasioni di crescita professionale e per cercare opportunità di lavoro». Oltre le categorizzazioni, sempre utili a capire, il messaggio è chiaro: il volontariato è welfare, ma ha bisogno di welfare.
«Legge sulla tortura . Una brutta pagina scritta dal parlamento. E l’Italia sarà nuovamente condannata, non solo per la violazione del divieto di tortura e di pene inumane o degradanti, ma anche per l’assenza di un "rimedio giurisdizionale interno"». Il manifesto
, 21 luglio 2016 (c.m.c.)
«E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà» (Costituzione della Repubblica italiana, art. 13, co. 4). E ancora: «Il termine ’tortura’ designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona…».
«… o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate» (Convenzione Onu contro la tortura, art. 1).
Anche questa volta non sono bastate queste due limpide dichiarazioni, della Costituzione e della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, a indirizzare il legislatore verso la soluzione di questo autentico misfatto italiano. L’assenza, cioè, del reato di tortura dal nostro ordinamento giuridico. Anzi, a dire il vero, il reato c’è. Manca solo la sanzione: sarebbe bastato replicare le parole della Costituzione o della Convenzione nel codice penale e aggiungervi un minimo e un massimo di pena, e gli odiosi casi di tortura, che pure si manifestano, anche quando non li si voglia chiamare come tali, avrebbero avuto la loro equa punizione.
E invece no, in terza lettura, dopo averne già discusso una prima volta in commissione e in assemblea, e una seconda volta in commissione e in assemblea – e dopo che la Camera aveva fatto altrettanto – il Senato ha stabilito che fosse troppo presto approvare un provvedimento che attende di essere accolto nella nostra legislazione dal 1988 (data di ratifica da parte dell’Italia della Convenzione Onu). Se non dal 1948 (data di entrata in vigore della Costituzione repubblicana). Eh già, troppo presto. E, così, la discussione sul disegno di legge relativo al delitto di tortura è stata sospesa e rinviata a chissà quando.
Intanto, pendono davanti alla Corte europea dei diritti umani le decisioni sui casi di tortura verificatisi nella caserma di Bolzaneto, durante il G8 di Genova del 2001 – esattamente 15 anni fa – e nel carcere di Asti nel 2004. E l’Italia sarà nuovamente condannata, come nel caso della Diaz (sempre Genova 2001), non solo per la violazione del divieto di tortura e di pene inumane o degradanti, ma anche per l’assenza di un «rimedio giurisdizionale interno» (la fattispecie penale di tortura, appunto).
Le responsabilità ultime, si sa, sono del ministro dell’Interno che, alla ricerca di un ruolo e di qualche consenso, fa di ogni erba un fascio e confonde la grande maggioranza degli appartenenti alle forze di polizia agli autori di atti di tortura e di violenza su persone loro affidate. Invece di perseguire le responsabilità penali, appunto personali, dei singoli autori di reato, si associano interi corpi dello Stato a pratiche indegne di servitori delle istituzioni.
Le responsabilità penultime sono di chi ha accettato un progressivo scivolamento di piani. Sin dall’inizio – e da parte anche di alcuni ultra-sinistri – è stata interdetta la qualificazione del reato come proprio delle forze di polizia o degli incaricati di pubblico servizio. Si argomentava che, estendendone l’applicabilità, avrebbe potuto essere punita anche la tortura tra privati, dei sequestratori o dei depravati, e i pubblici ufficiali avrebbero avuto le loro brave aggravanti. Sì, ma quel primo scivolamento apriva la strada al balletto negazionista.
E così siamo finiti a discutere, ancora, di quante volte si possa vessare una persona perché violenze o minacce possano integrare il reato di tortura. E nulla valgono quei mirabili singolari della Costituzione e della Convenzione: «E’ punita ogni violenza …»; tortura è «qualsiasi atto …». Inevitabile, a questo punto, precipitare nella fosca aritmetica della enumerazione delle crudeltà.
Inascoltabili, poi, gli argomenti che associano la sospensione ai fatti di Nizza o al pericolo terroristico: il ministro dell’Interno pensa dunque di fare ricorso a pratiche di tortura per le indagini di terrorismo internazionale? E se accettassimo pure questa scellerata ipotesi sa dirci, il nostro ineffabile ministro, come avrebbe fatto ad applicarla preventivamente all’attentatore di Nizza o all’accoltellatore di Heidingsfeld? Suvvia, perfino da Angelino Alfano si deve pretendere un po’ di serietà.
Al contrario, proprio in queste circostanze, va fatta valere la differenza nella concezione del diritto, tra chi usa la violenza e chi no. Va fatta valere contro i nemici della democrazia e dello stato di diritto e a fronte di pratiche di repressione come quelle di cui siamo testimoni ai confini dell’Europa, nell’Egitto di Al-Sisi come nella Turchia di Erdogan.
«Dopo la richiesta di Alfano di bloccare la legge, passa la richiesta di Fi, Lega e fittiani di bloccare il voto. Protestano Sinistra Italiana e M5s». Il Fatto quotidiano online, 19 luglio 2016
Il Senato ha sospeso l’esame del disegno di legge sul reato di tortura. A deciderlo è stata la conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama su richiesta di Forza Italia, Lega Nord e Conservatori e Riformisti. Si sono espressi contro solo Sinistra Italiana e Cinquestelle. Il Pd ha accettato lo stop al provvedimento, mentre il governo, racconta la capogruppo di Sinistra Italiana Loredana De Petris, “non ha detto una parola”. Proprio ieri il ministro dell’Interno Angelino Alfano, leader di Area Popolare, aveva chiesto una nuova verifica della legge alla Camera. Un terreno che è diventato maturo per le opposizioni di centrodestra per chiedere la sospensione dell’esame e il ritorno in commissione. Gli stessi vertici del Pd del Senato, alla presenza del ministro della Giustizia Andrea Orlando, ha deciso di far slittare il disegno di legge per il quale era previsto in Aula il voto finale. Non è la sola questione sulla giustizia che viene rimandata: andrà per le lunghe anche la riforma del processo penale che contiene tra l’altro modifiche su prescrizione e intercettazioni. Questo testo sarà esaminato dopo l’estate, anche se il capogruppo Pd Luigi Zanda smentisce. Esprime soddisfazione, intanto, proprio il ministro dell’Interno Angelino Alfano che definisce “molto saggia la decisione del Senato di sospendere la discussione sul ddl tortura, e non perché siamo contrari nel merito alla introduzione di questo reato, ma perché non possono esserci equivoci sull’uso legittimo della forza da parte delle Forze di Polizia”. “Le Forze di Polizia – conclude – stanno servendo il Paese con efficacia e professionalità e noi lo riconosciamo non con le parole, ma con i fatti”.
A pesare su tutti questi provvedimenti sono i balletti nell’ala destra del governo. Sono di oggi le dimissioni di Renato Schifani da capogruppo di Area Popolare, in contemporanea l’Udc si è schierata per il no al referendum con il padre fondatore Casini e il presidente ed ex ministro Giampiero D’Alia che invece dicono che voteranno sì. E’ di pochi giorni fa, invece, l’uscita del viceministro Enrico Zanetti che da segretario di Scelta Civica ha lasciato il partito e farà un gruppo unico con Ala, i verdiniani. Fibrillazioni continue che suggeriscono al Pd molta cautela per non finire contro un muro. Il capogruppo al Senato Luigi Zanda la spiega così: “Faremo di tutto perché il testo torni in aula e venga approvato prima delle ferie estive. L’Italia ha un grande debito” su questo tema. “È un provvedimento che non intendiamo abbandonare”. Ma “dobbiamo valutare la maggioranza e vogliamo che sia la più larga possibile”.
Esulta il centrodestra. “Bene sospensione, rimanga in coda il più a lungo possibile, anzi è meglio che non torni in Aula” dice il capogruppo della Lega Gianmarco Centinaio. “La Lega è appena riuscita a bloccare Renzi e il Pd, che avrebbero voluto complicare la vita a poliziotti, carabinieri e uomini in divisa. Noi stiamo con chi ci difende!” aggiunge Matteo Salvini. “La giusta correzione di eventuali eccessi non può né pregiudicare né velare di sospetto il lavoro di chi ogni giorno è impegnato per garantire la sicurezza di tutti i cittadini: secondo Forza Italia questa testo ne deve tenere conto” dichiara Paolo Romani, capogruppo di Forza Italia al Senato.
Protestano invece Movimento Cinque Stelle e Sinistra Italiana. “E’ una vergogna incredibile” secondo Peppe De Cristofaro (Si) perché “accade a 19 anni dal G7 di Genova. Io c’ero a Genova in quei giorni e porto ancora addosso quella ferita indelebile. La decisione di non introdurre nell’ordinamento il reato di tortura è gravissima ed è una resa morale e politica. Prendiamo le distanze più totali come Sel da quello che tra poco si deciderà”. “Chi pensa che un operatore delle forze dell’ordine incorra nel reato di tortura svolgendo il proprio lavoro non ha capito o non vuole capire la norma, la ignora, oppure non sa leggerla” concludono i senatori M5s della commissione Giustizia.
«Per tre ore Usa e Paesi europei, ma soprattutto la Nato hanno atteso gli eventi: praticamente partecipi della riuscita del colpo di stato» Il monarca cui Usa ed Europa hanno affidato il lavoro sporco (dalla strage dei curdi alla galera per i profughi) è diventato scomodo per i suoi stessi padrini. Il manifesto, 17 luglio 2016
Il bagno di sangue c’è stato, le vittime di questo accenno di guerra civile, che se fosse esplosa avrebbe gettato due continenti nel caos, sono più di 300. Ma alla fine ha vinto il cellulare da cui ha parlato Erdogan, hanno vinto le tv private stranamente non oscurate dai golpisti, ha vinto la diretta tv, hanno vinto i muezzin che hanno chiamato in piazza la gente e non alla preghiera, ha vinto l’Akp che ha mobilitato probabilmente centinaia di migliaia se non qualche milione di turchi. Alla fine ha vinto il Sultano Erdogan che primeggia in ogni competizione da quattordici anni.
Ma stavolta vale la pena sottolinearlo, esce a dir poco ridimensionato. Non parliamo della sua popolarità all’interno, quella appare indistruttibile. Il popolo turco per lui si è sdraiato davanti ai carri armati, li ha fermati senza armi in mano, e i suoi pretoriani della polizia lo hanno difeso mitra in pugno da un tentativo di golpe orchestrato, come si è capito quasi subito, solo da un settore dell’esercito e malamente. Essendo probabilmente convinti i golpisti di un seguito popolare all’azione di forza che invece si è rivelato illusorio.
Eppure a guardar bene dietro le immagini del trionfo che si rincorrono ovunque, emerge il ridimensionamento del presidente turco. Erdogan grida vendetta e la farà. Guai ai vinti in Turchia. Ma ormai è un Sultano ferito. Quel che abbiamo visto e sentito ne è la dimostrazione più lampante e feroce. Per buone tre ore – dalla fine della serata di venerdì alla notte – i suoi amici ed alleati internazionali, Usa e Paesi europei sono stati a guardare.
Sono le leadership occidentali che hanno delegato finora alla leadership turca il lavoro sporco del primo sostegno alla ribellione, anche jihadista, contro la Siria di Assad, restituendo in cambio il tacito accordo sul massacro interno dei kurdi. Aspettavano, hanno pensato che fosse l’occasione di gettare via il limone spremuto.
Per tre ore dagli Stati uniti e dai Pesi europei, dagli organismi dell’Ue, ma soprattutto dalla Nato – della quale la Turchia è fondamentale baluardo a sud -, hanno atteso l’evoluzione degli eventi: praticamente partecipi della riuscita del colpo di stato. Senza condanna alcuna come ci si aspetta per una prova di forza militare contro un governo di un Paese o regime alleato. E trincerati dietro l’ufficialità di dichiarazioni, escludendo appunto la condanna dei golpisti, si limitavano alla presa d’atto. Come ha fatto John Kerry che si è augurato stabilità e pace, pieno di speranza per la «continuità»; pressapoco come Putin – che nemico resta, nonostante il recente riallacciamento di rapporti – si è dichiarato contro «il bagno di sangue». Solo più tardi, quando è apparso evidente il fallimento dell’avventura militare, hanno cominciato a fioccare sdegno e solidarietà. La solitudine di Erdogan era già un fatto compiuto.
Quanto questa nuova debolezza e isolamento di Erdogan sia pesante è diventato evidente nell’impossibilità da parte del Sultano di chiamare in causa e accusare subito i responsabili del tentato golpe, cioè proprio i Paesi Occidentali, gli Stati uniti in primis e la Nato. Che è stata spettatrice-attrice di un conflitto militare interno all’Alleanza, con vittime militari in un campo e nell’altro. Soprattutto è da ricordare infatti che i colonnelli e i generali che hanno provato a destituire il presidente turco sono uomini della Nato, schierati militarmente su tre fronti delicati di conflitto: con la Siria, a Dyarbakir nel conflitto kurdo e sui confini per la vicenda migranti. Quei carri armati Leopard che hanno preso posizione sulle strade di Istanbul e Ankara sono gli stessi di mille esercitazioni atlantiche congiunte, e non si mettono in moto senza che lo stato maggiore della Nato non lo sappia.
E del resto, come giudicare l’atteggiamento della Germania, se sarà confermato il diniego all’atterraggio dell’aereo di Erdogan in fuga? E come comprendere la richiesta di asilo politico di otto colonnelli golpisti alla Grecia, Paese Nato e storico avversario nel sud-est europeo? Parlando alla folla Erdogan è stato costretto a limitarsi ad accusare Fethullah Gülen, il suo ex amico diventato acerrimo nemico e in esilio negli Stati uniti. E diventato il capro espiatorio perfetto di igni malefatta. Invece di accusare direttamente l’amministrazione Obama, ha ripiegato su «quelli laggiù in Pennsylvania», dove Gülen è in esilio e da dove gli Usa si rifiutano da tre anni di estradarlo, come il Sultano ha più volte richiesto. La comunità internazionale insomma non tira un sospiro di sollievo. Anzi, è il contrario.
Sbarazzarsi del testimone scomodo Erdogan poteva essere un obiettivo, stavolta non raggiunto. Ma siamo solo all’inizio della nuova crisi turca, dove l’esercito è uno stato nello stato, pieno di privilegi e sottopoteri e fin qui complice di ogni infamia del regime, a cominciare dai traffici di petrolio e armi da e con la Siria con lo Stato islamico. A cominciare dal trattamento riservato alla disperazione dei profughi siriani, ormai appaltati dall’Unione europea al «posto sicuro» che è lo Stato turco.
È una crisi, che coinvolge Europa e Medio Oriente, al crocevia della fase proclamata conclusiva della guerra contro l’Isis, e che non a caso si gioca tutta sul destino delle solo annunciate aperture, ma di svolta, avviate dal neopremier Yldirim, che, probabilmente per impedire il crollo della credibilità dell’intera leadership di Erdogan, riallaccia il rapporto storico con Israele, dialoga col nemico Putin a cui ha abbattuto un aereo, e addirittura promette possibili nuove «relazioni» con la stessa Siria che ha provato a destabilizzare con una guerra crudele per quattro anni.
Avrà pure vinto, Erdogan, ma per restare al potere deve far finta di avere amici che non può accusare apertamente di averlo pugnalato alle spalle e, allontanando la prospettiva strategica di egemonia ottomana nella regione dopo aver perso la prospettiva europea, è costretto adesso ad abbracciare pericolosamente e umilmente tutti i suoi nemici.
P.s. Anche l’Italia è stata a guardare, solo ieri mattina Gentiloni si è sbracciato in apprezzamenti al governo di Ankara. Renzi però ha superato se stesso: ha dichiarato che «ha vinto la stabilità». Vuoi vedere che pensava al referendum di ottobre?
La povertà è in crescita e in Italia più che negli altri paesi. A scattare la drammatica fotografia è stato ieri l’Istat: soffrono le famiglie numerose, quelle di origine straniera ma soprattutto il nucleo-tipo (due genitori giovani e due figli) fa fatica a sbarcare il lunario. Articoli di Roberto Petrini e Chiara Saraceno.
La Repubblica, 15 luglio 2016 (c.m.c.)
POVERTÀ ASSOLUTA PER 4,6 MILIONI
È RECORD DAL 2005
di Roberto Petrini
La crisi economica degli ultimi anni ha lasciato il segno: la povertà è in crescita e in Italia più che negli altri paesi. A scattare la drammatica fotografia è stato ieri l’Istat: soffrono le famiglie numerose, quelle di origine straniera ma soprattutto il nucleo-tipo (due genitori giovani e due figli) fa fatica a sbarcare il lunario. Le nude cifre, relative all’anno 2015, dicono che ci sono 4 milioni e 598 mila italiani che vivono sotto la soglia di povertà assoluta (il 7,6 per cento): un dato in crescita, il più elevato dal 2005, e che nel 2014 era al 6,8 per cento. Conforta poco che il numero dei nuclei familiari in povertà assoluta sia stabile a quota 1 milione e 582 mila: gli individui poveri crescono perché le famiglie numerose sono la componente più importante all’interno dell’area di povertà.
La radiografia Istat indica che la povertà assoluta è salita tra le coppie con 2 figli dal 5,9 del 2014 all’8,6 per cento dello scorso anno. Colpite anche le famiglie di origine straniera: si passa dal 23,4 per cento del 2014 al 28,3 per cento del 2015, con margini più accentuati al Nord. Segnali di peggioramento si registrano anche tra chi vive nelle aree metropolitane (la povertà sale dal 5,3 al 7,2 per cento) e tra i 45-54enni. La povertà assoluta invece diminuisce se aumentano l’età del capofamiglia e il titolo di studio: dati che integrati con quelli forniti dal presidente dell’Inps Tito Boeri l’altro giorno in occasione della presentazione rapporto Onds, ci forniscono la fotografia di un’Italia dove a soffrire sono giovani e la fascia tra i 55 e i 65 anni, cioè coloro che sono privi di ammortizzatori sociali.
Un tema che rimbalza sul terreno politico dove proprio ieri la Camera ha approvato, con 221 sì e 22 no, il ddl del governo per il contrasto alla povertà che introduce il «reddito di inclusione » e che ora passa al Senato. Il reddito di inclusione, contrariamente al reddito di cittadinanza proposto dal M5S che è sostanzialmente erga omnes, si rivolge ad una platea identificata ed è dotato di norme precise di applicazione. I grillini di conseguenza si sono astenuti e hanno attaccato il nuovo reddito di inclusione definito «iniquo e assistenziale ». Il provvedimento sta tuttavia camminando: la Stabilità del 2016 ha istituito il Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale finanziato con un miliardo dal prossimo anno e ieri il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, alla Confcommercio ha assicurato che il governo «è impegnato a migliorare le condizioni di vita dei cittadini» sebbene sia l’occupazione «il primo strumento di contrasto delle diseguaglianze».
PERCHÉ CRESCE IL PAESE DEI POVERI
di Chiara Saraceno
In controtendenza con i dati positivi sull’occupazione, la povertà assoluta nel 2015 non solo non è diminuita, ma è aumentata, coinvolgendo quasi 400 mila persone in più rispetto al 2014 e raggiungendo 4 milioni e 598 mila persone, pari al 7,6 per cento della popolazione. Si tratta, secondo i dati Istat pubblicati ieri, del dato più alto dal 2005.
L’incidenza della povertà continua ad essere maggiore nel Mezzogiorno. Ma l’aumento è avvenuto pressoché tutto nelle regioni del Nord, dove riguarda in prevalenza famiglie di persone straniere e regolarmente residenti nel nostro paese. Tra queste, infatti, si trova in povertà assoluta quasi un terzo, il 32,1, una percentuale di 8 punti maggiore rispetto all’anno prima e più alta di quella, pur considerevole (28,3 per cento), rilevabile per queste famiglie a livello nazionale.
Se si riducono un po’ i divari Nord-Sud, ciò sembra avvenire in larga misura a causa dell’aumento del divario, soprattutto al Nord, tra famiglie di italiani e famiglie di stranieri. Se a livello nazionale le famiglie di tutti stranieri si trovano in povertà oltre sei volte di più di quelle di tutti italiani, nel Nord la differenza è di oltre tredici volte.
Gli effetti lunghi della crisi sembrano aver colpito molto di più gli stranieri, che faticano a trovare o ritrovare un lavoro che sia anche decente. Potremmo pensare che questi dati non rispecchiano il miglioramento avvenuto sul piano dell’occupazione a seguito del dispiegarsi degli effetti del jobs act, stante che questo è avvenuto soprattutto nell’ultimo trimestre del 2015.
Può essere, ma solo in parte. Siamo, infatti, ancora ben lontani dall’aver recuperato tutti i posti di lavoro perduti. Inoltre va considerato con grande preoccupazione che l’aumento della povertà assoluta (dal 5,2 al 6,1 per cento) ha riguardato anche famiglie con persona di riferimento occupata, soprattutto se operaio o assimilato. Tra le famiglie di questi ultimi l’incidenza della povertà assoluta è passata in un anno dal 9,7 all’11 per cento. Molti di questi lavoratori hanno avuto un reddito troppo basso per poter fruire degli 80 euro, perché incapienti, o li hanno dovuti restituire perché “indebitamente” percepiti, in base alla logica paradossale degli 80 euro che esclude i più poveri.
Il fenomeno dei lavoratori e delle famiglie di lavoratori povere ha conosciuto un fortissimo aumento negli anni della crisi, a motivo sia della riduzione del numero di occupati in famiglia, soprattutto a causa della disoccupazione giovanile, sia della crescita del part-time involontario. Quest’ultimo è sempre meno una caratteristica solo dei contratti di lavoro a tempo determinato e in generale dei contratti atipici quando non irregolari.
Come documenta il Rapporto Inps presentato la scorsa settimana, quattro contratti a tutele crescenti su dieci sono a tempo parziale. Avere un lavoro non sempre è sufficiente a proteggere dalla povertà, se è a tempo ridotto, o troppo poco pagato, o se il reddito che fornisce deve bastare per diverse persone. Da questo punto di vista, un altro dato preoccupante riguarda l’aumento della povertà assoluta tra le famiglie con due figli, specie se minori. Finora era il terzo figlio a far scattare un rischio di povertà sopra la media.
Ora basta il secondo. Non stupisce, allora, che i minori siano sovrarappresentati tra chi si trova in povertà assoluta, con un peggioramento sensibile nell’arco di dieci anni. Era in povertà assoluta il 3,9 per cento di tutti i minori nel 2005, il 10,9 per cento nel 2015. In termini numerici sono più del doppio degli anziani: 1 milione e 131 mila rispetto a 538 mila. Ma anche i loro fratelli più grandi non stanno meglio, con quasi il 10 per cento, pari a un milione e 13 mila individui, in povertà assoluta.
A ben vedere, poco meno della metà dei poveri assoluti appartiene alle giovani e giovanissime generazioni, che non hanno ancora l’età per entrare nel mercato del lavoro o che ne vengono escluse, come mostrano i dati del citato Rapporto Inps sull’invecchiamento della forza lavoro occupata negli anni della crisi, a seguito del combinarsi di riduzione della domanda di lavoro e innalzamento dell’età alla pensione. Investire sull’aumento dell’occupazione, come ha dichiarato il ministro Padoan, è certo necessario per combattere la povertà.
Ma il fenomeno dei lavoratori poveri e delle loro famiglie, della sovrarappresentazione dei minori e dei giovani tra i poveri, insieme alla drammaticità dell’incidenza della povertà tra gli immigrati, segnalano che non è sufficiente se non si tiene conto di quale lavoro si tratta e di chi può accedervi. Impongono anche di rivedere criticamente alcune scelte redistributive, dagli 80 euro al bonus bebè.
«Dispiace leggere che la magistratura abbia subito individuato, come al solito, soltanto le responsabilità dell’ultimo anello della catena senza alzare lo sguardo verso chi aveva il dovere giuridico di adottare le misure che sono necessarie a tutelare l’integrità dei lavoratori e dei viaggiatori
». Il manifesto, 15 luglio 2016 (c.m.c.)
L’errore umano non esiste, o meglio non esiste nulla che possa giustificare una strage in conseguenza di una banale distrazione o di un equivoco in una comunicazione tra due ferrovieri. Non esiste come giustificazione nel senso che l’errore è sempre presente nell’azione dell’uomo, è un evento incombente, connaturato alla quotidianità ed all’essenza umana, appunto.
Se ci fosse stata una efficace valutazione del rischio, questo sarebbe emerso ed eliminato o attenuato al minimo possibile. Pertanto chiunque organizzi o gestisca un’attività produttiva che abbia qualche rischio per i lavoratori o per i terzi ha l’obbligo morale e giuridico di prevedere l’errore umano come fattore onnipresente in qualsiasi azione o procedura e di prevenirne gli effetti.
Qualsiasi carpentiere precipiti da un’impalcatura e qualsiasi operaio si amputa una mano sotto una fresa, sicuramente commette un errore umano. È un evento prevedibile come il sonno o la fame. Per questo sono stati inventati, e resi obbligatori per legge, i parapetti e le fotocellule di blocco delle lame. Perché a quei ferrovieri che pure facevano un lavoro così delicato e rischioso non sono stati forniti dei ‘parapetti’ che nel momento della stanchezza, distrazione o di tensione non li hanno trattenuti dal precipitare nel disastro?
Se si fosse trattato di avviare un grande macchinario in una normale fabbrica, il comando esclusivamente telefonico, senza controlli sarebbe stato fuorilegge da sessant’anni. Sarebbero stati imposti vincoli meccanici, elettrici e elettronici di controllo, da una postazione remota con allarme incorporato… magari via internet. Per quei treni no: ancora oggi sono autorizzati a circolare, con norme scritte nel secolo scorso, solo per queste ferrovie «minori» poiché sulla rete nazionale dopo alcuni gravissimi incidenti – e solo grazie a quei morti – le regole e le tecnologie sul distanziamento dei treni sono finalmente cambiate.
Il vero, grande errore umano – commesso pure da esseri umani – è mantenere in esercizio una linea ferroviaria così intensamente trafficata col sistema primitivo del «blocco telefonico», cioè uno scambio di fonogrammi mediante una normale telefonata, tra due capistazione.
È un errore umano anche destinare investimenti, per sviluppare in modo così disomogeneo le diverse linee gestite dalla stessa società: da una parte stazioni e treni nuovi (quasi di zecca), dotati di tutti i moderni sistemi che passano prima su linee con tecnologie moderne e poi proseguono la loro corsa su una linea rimasta al secolo scorso. Dove anche gli stessi macchinisti e capitreno sono indotti all’errore poiché devono cambiare continuamente il «registro mentale» delle loro azioni più volte al giorno in base al punto in cui sono.
Un errore ancora più grande è quello in capo alle istituzioni ministeriali di scrivere e mantenere in vigore delle norme di sicurezza che consentono alle imprese ferroviarie di continuare a gestire, senza limiti di tempo, un servizio pubblico strategico con standard di sicurezza di serie C.
Questi sono «errori disumani», perché commessi, con scelte consapevoli e precise strategie manageriali ed istituzionali, da persone lontane nel tempo e nello spazio dal luogo del disastro e dallo strazio di quelle lamiere. Errori commessi a tavolino con fredda lucidità in conseguenza dei quali si sono create le «insidie o le trappole» in cui sono caduti i compagni di lavoro pugliesi.
Dispiace leggere che la magistratura abbia subito individuato, come al solito, soltanto le responsabilità dell’ultimo anello della catena, senza alzare lo sguardo verso chi aveva il dovere giuridico di adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori e dei viaggiatori.
, ora gli italiano strappano i brandelli residui. La Repubblica online, "Economia e finanza", 14 luglio 2016
«Aperte le buste adAtene, Mazzoncini: "Operazione in mira con il piano industriale, che miraall'espansione all'estero". Battuta la concorrenza dei russi. Nel futurolo sbarco in Iran per 1 miliardo di valore»
LeFerrovie dello Stato italiano mettono le mani sulla società che gestisce iltrasporto su rotaia in Grecia. Il Fondo per la privatizzazione delle ferroviegreche (Hellenic Republic Development Asset Fund) ha dichiarato infattidichirato le Fs "preferred investor" per l'acquisizione della societàgreca di trasporto ferroviario Trainose, accettandone la relativa offertaeconomica.
L'annuncio arriva da parte della società guidata da Renato Mazzoncini, che haspecificato che il prezzo offerto è di 45 milioni di euro. L'apertura dellebuste con le offerte è avvenuta stamattina ad Atene, mentre la formaleoperazione di acquisto di Trainose verrà finalizzata nelle prossime settimane.Nei giorni scorsi, era emerso l'interesse per Trainose anche da parte dellarussa Rzd e di un gruppo di imprenditori greci. Mazzoncini aveva dichiarato cheil fatturato delle ferrovie greche è di 130 milioni.
"Perle Fs Italiane - ha dichiarato lo stesso Mazzoncini - quest'operazione è inlinea con il piano industriale, che sarà presentato a settembre e che mira, tral'altro, all'espansione internazionale. Rappresenta anche un'occasione dicrescita e di sviluppo per le ferrovie greche, che potranno contare sul knowhow e sull'esperienza del Gruppo Fs Italiane, maturati in oltre 110 anni distoria". E in effetti, a distanza di poche ore, dal ministro delleInfrastrutture e dei Trasporti - dove si sono incontrati Graziano Delrio e ilsuo omologo iraniano Abbas Ahmad Akhoundi - le Fs e le ferrovie iraniane Raihanno firmato una dichiarazione sui progetti congiunti nel settore deltrasporto ferroviario. Progetti per la realizzazione e sviluppo di due nuovelinee ad alta velocità: la Qom-Arak di 100 chilometri, e la Teheran-Hamedan di300 chilometri: "'Sulla rampa di lancio, c'è, innanzitutto, la lineaQom-Arak, del valore di circa 1 miliardo. Entro il 25 agosto - ha spiegatoMazzoncini - forniremo il progetto di dettaglio con la valutazione economicaper arrivare a febbraio alla firma del contratto: da bravi ferrovieri, stiamospaccando il secondo sulla realizzazione degli impegni reciproci".
"L'innovazione e l'alto contenuto tecnologico sono due dei pilastridi FS - ha commentato invece Gioia Ghezzi, presidente del Gruppo FS Italiane,tornando allo shopping greco - e siamo sicuri che saranno i giusti driver perguidare il cambiamento in Trainose. Le ferrovie greche potranno anchebeneficiare della grande attenzione che da sempre poniamo nella valorizzazionedei dipendenti, infatti per il secondo anno consecutivo FS è stata decretataBest Employer of Choice".
L'annunciocade proprio a poche ore di distanza dalla tragedia pugliese che - pur non coinvolgendo direttamente le Ferroviedello Stato, che non gestivano i treni e i binari coinvolti - ha ancora unavolta posto l'accento sulla necessità di rinnovare e modernizzare letecnologie, anche in Italia.
« Il manifesto, 12 luglio 2016
Un tempo c’erano i gufi, gli oppositori prevenuti di ogni cambiamento. Costoro – secondo quanto veniva propagandato dai costruttori del nuovo – utilizzavano toni apocalittici, inaccettabili. Perché strillare se tutto veniva svolto entro il solido recinto della nostra democrazia? Ora il vento è cambiato e l’apocalisse appare nei discorsi dei promotori della riforma. Le conseguenze di una mancata approvazione della riforma sarebbero drammatiche. Non solo cade il governo, ma non se ne potrebbe fare nessun altro; non solo l’attuale – peraltro risicata e ondivaga – maggioranza parlamentare verrebbe sconfessata, ma l’intero parlamento verrebbe delegittimato; non solo si esprimerebbe la contrarietà a questa riforma della Costituzione, ma ci si precluderebbe la possibilità di ogni cambiamento futuro.
Forse è il caso di tornare a ragionare con misurata serenità. Qualora dovesse vincere il No al referendum non avverrebbe nulla di drammatico.
Se il governo dovesse ritenere concluso il suo mandato e rassegnare le dimissioni nelle mani del presidente Mattarella, questi – come sempre avviene – svolgerà le sue consultazioni per individuare un successore che possa ottenere una nuova maggioranza parlamentare. Un governo pienamente politico ovvero un governo con profilo più segnatamente istituzionale. Sarà possibile perseguire la prima ipotesi qualora una nuova maggioranza parlamentare possa formarsi sulla base di un programma di governo innovativo.
In fondo è già avvenuto in questa legislatura con il governo Renzi che ha sostituito quello Letta, nella precedente con la successione di Monti a Berlusconi. Nessuna ragione d’ordine costituzionale può ostacolare una simile soluzione anche in questo caso. Vero è che potrebbero non esservi le condizioni “politiche”: a questo si attaccano gli apocalittici di oggi. Come in ogni scenario drammatizzato si vuol far credere che non vi siano alternative, ma è questa una previsione priva di fondamento. Chi può onestamente dire quali saranno le concrete condizioni politiche che si verranno a creare dopo il referendum? Al più si può prevedere un sobbalzo, l’apertura di una dinamica che porterà a mutamenti radicali, poco prevedibili. Altro che stasi.
È, allora, possibile ma non scontato che dopo il referendum non si riesca a trovare una maggioranza politica alternativa all’attuale. In tal caso, il capo dello stato, cui spetta salvaguardare l’assetto costituzionale complessivo dei poteri, potrà (dovrà?) verificare le condizioni perché si possa varare un “governo istituzionale”. Con molte possibilità di successo. Sarebbe in effetti difficile per delle forze politiche responsabili negare il sostegno ad un governo che si proponesse di modificare la legge elettorale divenuta – a seguito del referendum – irrazionale e che predisponesse la legge finanziaria in scadenza. Un governo di scopo diretto dalla seconda carica dello Stato o dal ministro dell’Economia, per poi giungere alle elezioni in una situazione di normale dialettica democratica.
Si scongiurerebbe così anche la seconda drammatizzazione. Che il nostro parlamento stia vivendo una fase di crisi della propria legittimazione non può essere negato. Ciò che appare sfrontato è l’individuare la causa nel rifiuto del corpo elettorale di una modifica della costituzione che ha tra i suoi caratteri quello di ridurre il ruolo autonomo del parlamento. Non voglio neppure qui ripetere le ragioni che fanno ritenere esattamente l’opposto: la delegittimazione del parlamento ha origine proprio nell’utilizzazione forzata delle regole parlamentari e nell’incapacità di rappresentanza politica autonoma dell’organo che le vicende della riforma costituzionale hanno messo in drammatico rilievo. Il fallimento della riforma costituzionale può ben essere letta come un tentativo di ridare dignità ad un parlamento offeso.
Certo, una nuova legge elettorale dopo il referendum fallito s’imporrebbe. Ed è proprio da lì che può iniziare una risalita, una ri-legittimazione della rappresentanza politica, altro che drammatizzare la crisi.
Che dire poi della “minaccia” di non poter più cambiare. Dopo questa riforma si chiuderebbe per sempre ogni possibilità di trasformazione. Condannati ad un futuro di declino e impotenza. Una serie veramente cospicua di argomenti valgono a confutare questa torva prospettiva. C’è da chiedersi anzitutto se il rischio di non riuscire più a cambiare possa comunque giustificare un peggioramento. È la logica del cambiamento per il cambiamento che non può essere condivisa.
Perché tanti fautori dell’attuale riforma si opposero allo stravolgimento della costituzione nel 2005? Solo perché a proporla erano le forze del centrodestra? Ovvero perché era una riforma anch’essa fortemente innovativa, e però di segno regressivo? Se – come dev’essere – è il senso del cambiamento che deve essere valutato e non certo la mera capacità di cambiare (in peggio) è chiaro che l’argomento di non riuscire più a modificare l’assetto costituzionale perde molta della sua forza. Ma poi è questa una previsione priva di riscontro storico. Se ci volgiamo al passato non può dirsi che dopo i fallimenti delle “grandi” revisioni del testo costituzionale si sia arrestata la capacità dei parlamenti di modificare il testo costituzionale. Dalla riscrittura del Titolo V all’introduzione del pareggio di bilancio, non è mai mancata la spinta al cambiamento del testo costituzionale. E non sempre è stato in meglio.
Infine, c’è scarso senso della storia in questa presunzione di far terminare la stagione delle riforme con quest’ultima revisione. È la logica dell’ultima spiaggia che appare una visione miope, non in grado di guardare oltre al proprio orizzonte. Ed è proprio per trovare nuovi lidi che è necessario opporsi a questo mesto tramonto che ci viene proposto in nome del nuovo.
«
la Fondazione intitolata a lui, ha organizzato una serie di iniziative che tendono a raccordare diverse sue esperienze».
La Repubblica, 10 luglio 2016 (c.m.c.)
Emilio Vedova moriva dieci anni fa, nell’ottobre del 2006. E per il decennale la Fondazione intitolata a lui e a sua moglie Annabianca, scomparsa appena un mese prima del marito, ha organizzato una serie di iniziative che tendono a raccordare diverse sue esperienze.
In primo luogo, ovviamente, la pittura e, a seguire, la musica e l’architettura. Il cuore dell’esposizione è nei Magazzini del sale, lungo la Fondamenta delle Zattere, all’inizio del canale della Giudecca, dove Vedova aveva il suo studio. Qui, su un grande pannello che occupa buona parte di una parete è allestito un complesso collage di opere su carta, che nella loro sequenza compongono quasi un lavoro a sé. Come a voler documentare un’unitarietà di fondo della produzione di Vedova al di là della successione cronologica.
Il collage è il fulcro della mostra Emilio Vedova Disegni, curata da Germano Celant e Fabrizio Gazzarri (fino al primo novembre. Catalogo Lineadacqua), che raccoglie materiali perlopiù inediti di Vedova appartenenti alla Fondazione. Essi abbracciano l’intera carriera del pittore veneziano, dal 1935 fino al 2006 e si dividono in due segmenti, uno dal ’35 al ’40, l’altro dal ’40 al 2006.
Lo squilibrio temporale è determinato dal fatto che la prima sezione documenta il lavoro iniziale di Vedova, compresi i suoi studi sulle chiese veneziane, Sant’Agnese e San Salvatore in specie, mentre la seconda spazia in tutte le successive fasi della pittura di Vedova, dalle suggestioni cubiste e futuriste degli anni immediatamente seguenti la guerra, all’esplosione di segni e di forme che in vario modo caratterizzano il suo linguaggio nei decenni a venire.
Il decennale della morte è anche l’occasione per rievocare la stretta relazione fra Vedova e Renzo Piano. Negli archivi della fondazione sono visibili le lettere che il pittore inviava all’architetto. In una di queste gli annuncia l’intenzione di creare una propria fondazione, fondazione che poi avrà sede in alcuni locali dei quattrocenteschi Magazzini del Sale. Sarà poi lo studio di Piano a progettare l’allestimento della sede espositiva realizzando quel formidabile meccanismo che consente di far scivolare le gigantesche opere di Vedova lungo un binario e di sistemarle a diverse altezze, quasi fosse una macchina scenica che trasforma l’esposizione in una rappresentazione teatrale. I carrelli scorrono nella navata, agganciano i quadri, li sollevano e poi li depositano: tutto è comandato elettronicamente.
Le lettere di Vedova a Piano documentano un sodalizio che conobbe un intenso passaggio creativo nel 1984. Entrambi collaborarono al Prometeo, l’opera di Luigi Nono con i testi che Massimo Cacciari aveva tratto da Eschilo, Euripide, fino a Hölderlin, a Walter Benjamin e ad Arnold Schönberg. Direttore d’orchestra era Claudio Abbado. Piano ideò l’Arca, ossia lo spazio scenico in cui si svolgeva l’opera, e Vedova curò la scenografia, in particolare le luci.
Dall’architettura alla musica. Un’altra iniziativa della Fondazione s’intitola Euroamerica ed è un ciclo di concerti che si apre il 15 luglio, sempre al Magazzino del sale, con il pianista Chick Corea.
La rassegna, curata da Mario Messinis, fa riferimento al De America un ciclo di circa cinquanta dipinti su tela che Vedova realizzò nella seconda metà degli anni Settanta, avendo negli occhi le impressioni suscitate da diversi viaggi oltreoceano, attraverso «deserti, canyons, riserve indiane, ghetti nei e bianchi delle immense metropoli».
». Corriere della Sera, 9 luglio 2016 (c.m.c.)
L’Aquila L’antidoto per l’antipolitica è la politica. E l’ingrediente perché la democrazia non si disperda nello stagno della sfiducia, dei poteri e dei proclami è il coinvolgimento dei cittadini. Quell’insieme di azioni, parole, dialoghi, sperimentazioni a cui si ispira il Festival della Partecipazione in corso in questi giorni a L’Aquila (7-10 luglio). Quattro giorni, 88 incontri, un centinaio di relatori riuniti da ActionAid, Cittadinanzattiva e Slow Food nel più grande cantiere d’Europa che il terremoto ha reso anche un laboratorio di ricostruzione sociale.
Riempire il buco dell’antipolitica è come ricostruire una città distrutta dove tutto è da rifare, riscrivere e mettere in ordine. L’analogia è fin troppo diretta: i vecchi intermediari della politica sono appassiti. La risposta si cerca nelle nuove figure che trovano Dna nel volontariato non solo sostituendosi allo Stato per il welfare ma per contare, agire con nuove forme di potere capaci di trasformare più che dettare.
Il metodo è quello che si sta vivendo nel festival aquilano. «Si respira un senso di impotenza nelle istituzioni», dice l’economista Fabrizio Barca. «In Italia e nel mondo le autorità non hanno più capacità di prendere decisioni. Partendo da questo “buco” non è casuale che i cittadini rispondano con diffidenza verso chi governa e disertando il voto e che allo stesso tempo aumenti il numero delle persone che si danno da fare per fare accadere le decisioni. Questa è la partecipazione».
Rispetto all’assemblearismo di 40 anni fa ironizzato da Moretti, la novità è che oggi si partecipa per decidere. «Certo ci vuole un metodo — continua Barca —. La novità è che si sperimentano metodi. Siamo a L’Aquila per trovare punti comuni utili per altre esperienze».
La partecipazione non è concertazione, insiste l’ex ministro, deve includere gli antagonisti, è fatta di informazione puntuale e non deve essere razionale ma ragionevole. L’allusione a Brexit è implicita. La politica diventa così un dispositivo che aiuta le persone a condividere una comune visione del futuro, valorizzando il loro capitale di energie e competenze, passioni e tempo. Non chiediamoci che cosa è ma come funziona e cerchiamola nella polis dei cittadini, ha detto ieri il sociologo Giovanni Moro che nei quattro giorni conduce alcune strisce di approfondimento.
Molte le esperienze messe a confronto dalla progettazione e pianificazione urbanistica ai gruppi che si attivano per il riutilizzo degli spazi abbandonati intesi come beni comuni, dalle comunità di montagna all’edilizia scolastica all’accoglienza dei migranti. Dalle esperienze politiche di partecipazione in diverse parti d’Italia ai laboratori in cui la si sperimenta.
Marco De Ponte, segretario generale di ActionAid fa riferimento alla pazienza organizzativa e alla passione trasformativa: «La partecipazione è il sale della democrazia — dice —. Le democrazie liberali si sono assottigliate, sembra che tutto sia ridotto al momento elettorale. Perché ogni giorno sia sapido la democrazia va esercitata prima e dopo il voto. Ruolo di organizzazioni come le nostre è condire la democrazia. Il metodo è il dialogo continuo e interattivo. Non basta mettere a disposizione le informazioni ma creare un flusso continuo e circolare tra istituzioni e cittadini in modo che possano questionare. I partiti cattolici, comunisti e liberali lo seppero fare, oggi i partiti restano luoghi di gestione del potere, non di discussione».
Per dirla con le parole del filosofo Emilio Gentile, che cita i costituenti come lo sguardo verso il «bene comune», il festival della partecipazione è come la semina: «Alcuni semi cadono sulle pietre altri nel terreno. E seminare in questa occasione è alimentare la comunicazione per riflettere, invitare le persone a non lasciarsi trasformare in folla». I frutti, nell’idea degli organizzatori, si raccoglieranno anno dopo anno attraverso i 10 anni che il festival si è dato come prospettiva.
Prosegue sempre più tortuosamente il tentativo renziano di distorcere pesantemente il sistema istituzionale italiano, riducendone ancora la democraticità, aprendo nuove contraddizioni e rendendone sempre più evidente la pericolosità.
La Repubblica, 9 luglio 2016
È STATO evidente fin dall’inizio che le proposte di modificare la legge elettorale esprimono strategie diverse, anche profondamente conflittuali. Si sta giocando una partita tutta politica, in cui si coglie anche un forte uso congiunturale delle istituzioni, appiattite sulle esigenze del breve o brevissimo periodo. È quel che sta accadendo con le proposte di modificare la legge elettorale per impedire la vittoria del Movimento 5Stelle in un eventuale ballottaggio, che tuttavia, con il passaggio dal voto di lista ad uno di coalizione, servirebbe pure a salvare gli spezzoni di partito all’interno di centrodestra e centrosinistra, che altrimenti sparirebbero.
All’opposto, le modifiche dovrebbero restituire la legge elettorale alla costituzionalità, messa radicalmente in dubbio dalle iniziative che hanno portato l’Italicum davanti alla Corte costituzionale, con la speranza che essa lo demolisca in tutto o nelle sue parti più significative com’è avvenuto con il Porcellum. Compare così un altro soggetto nella partita politica in corso, con un ruolo particolarmente rilevante, sia per le sue specifiche competenze, sia perché dovrebbe affrontare il problema il 4 ottobre, dunque in un momento che cade nella fase referendaria (a meno che i giudici della Consulta non trovino soluzioni che li liberino da questa incomoda coincidenza).
Ma la discussione sulla legge elettorale ha prospettato una diversa finalità, ancor più ambigua e distorcente. Si prospetta con insistenza una sorta di “liberi tutti”, nel senso che si sostiene esplicitamente che, se l’Italicum verrà modificato, cadrebbero le ragioni che inducono taluni a ritenere che, a questo punto, il voto referendario potrebbe tranquillamente essere orientato verso il Sì. Questa, tuttavia, appare più come la ricerca di un alibi che come una plausibile argomentazione. Infatti, pur essendo evidente la connessione tra legge elettorale e riforma costituzionale, gli effetti pesantemente negativi dell’Italicum richiedono una sua riscrittura, intervenendo seriamente sul doppio meccanismo maggioritario, sul fatto che si continua ad essere di fronte a nominati più che a eletti, sull’evidente concentrazione del potere verso l’alto, nelle mani del governo anche per quanto riguarda i tempi del procedimento legislativo. E, soprattutto, dovrebbe essere recuperato il diritto dei cittadini ad essere rappresentati, la cui mancanza ha determinato l’incostituzionalità del Porcellum. Anche così, tuttavia, non scomparirebbero i vizi della riforma costituzionale, e il passaggio al Sì sarebbe poco più che una operazione di convenienza. Renzi, da parte sua, continua ad escludere che la legge elettorale possa essere modificata.
Tutto troppo aggrovigliato? Ma le cose stanno proprio così, e bisogna averne consapevolezza perché questo dimostra che la discussione non può essere chiusa in modo autoritario, come peraltro dimostra la proposta di Franceschini di riprendere la questione dopo il referendum. Peraltro, qui siamo di fronte ad una questione più generale e ad una clamorosa contraddizione. Si ripete che bisogna discutere “nel merito” e poi, invece, si afferma perentoriamente che il testo della riforma deve essere accettato in blocco, perché è già stato fatto un gran lavoro, perché bisogna rispettare la coerenza interna dei testi e perché potrebbe altrimenti determinarsi una situazione difficilmente gestibile. Questo, però, è un argomento improprio, a suo modo ricattatorio, perché ai cittadini deve essere riconosciuto nella sua pienezza il diritto di fare la loro scelta in una materia sbandierata come un cambiamento radicale del sistema. La confusione, se mai, è il frutto del modo approssimativo e disinvolto con il quale il governo ha impostato la questione, associando impropriamente la vittoria del No ad una inevitabile fase di incertezza, addirittura allo scioglimento delle Camere, del tutto estraneo alle sue competenze.
Inoltre, questo modo aggressivo di procedere, che sostanzialmente vuole delegittimare il No, crea ogni giorno di più una divisione profonda tra i cittadini, sì che l’eventuale vittoria del Sì ci consegnerebbe una Costituzione “provvisoria”, quasi certamente approvata solo da una minoranza. La conseguenza? La fragilità del testo, perché evidentemente il programma delle forze di opposizione avrebbe come punto essenziale proprio il suo cambiamento. Un bel risultato da parte di chi va predicando stabilità.
La verità è che, una volta di più, pesano la povertà culturale, l’assenza di una memoria storica. Non si è sfiorati dalla necessità di riflettere sul senso di responsabilità degli autori della Costituzione che, all’indomani dell’esclusione dal governo dei partiti di sinistra, non fecero prevalere interessi di parte, mantennero fermo il principio della condivisione, e così garantirono la lunga durata della Costituzione e la possibilità che in essa potessero riconoscersi le forze più diverse. Oggi la riforma costituzionale è stata buttata nel conflitto politico in modo disinvolto e tecnicamente approssimativo. Ma è possibile una riforma costituzionale senza cultura costituzionale?
Bisogna procedere così perché la riforma è attesa da troppo tempo? L’argomento è inconsistente e pericoloso, perché una cattiva riforma rimane tale quale che sia la sua originaria motivazione. Torna così la questione del giudizio sul merito, che riguarda le parole d’ordine adoperate dai sostenitori della riforma. Non v’è la semplificazione legislativa, perché è stato abbondantemente dimostrato il moltiplicarsi dei procedimenti ai quali è associato il Senato, l’incidenza sul principio della sovranità popolare, con effetti rilevanti sull’idea stessa di sistema democratico. Le minori spese sono poco più che una furba strizzata d’occhio alla peggiore antipolitica, peraltro realizzabili in maniera più intelligente e persino più incisiva. Rimane ancora incerto il criterio di selezione dei consiglieri regionali che dovranno far parte del nuovo Senato. Stiamo andando verso la votazione di un testo costituzionale incerto, sul quale bisognerà subito mettere le mani. È accettabile?
Ma, si dice, finalmente ci liberiamo del bicameralismo perfetto, fonte di lungaggini e di compromessi — Qui la manipolazione dell’informazione è ancora più evidente. Si identificano i critici della riforma con i sostenitori del sistema attuale, mentre basta leggere le molte proposte di modifiche presentate nel corso delle audizioni parlamentari per rendersi conto che proprio da molti di loro erano stati prospettati cambiamenti del sistema più profondi e razionali. E si è addirittura cercato di arruolare, senza troppa fortuna, nelle schiere degli attuali riformatori Berlinguer, Ingrao, Iotti, che a questi problemi avevano guardato con ben altri occhi.
Di nuovo una questione di cultura, che ci porta a un tema centrale della discussione. Quale informazione sta accompagnando la già lunghissima campagna elettorale? L’asimmetria di potere è clamorosa, come dimostrano i dati riguardanti la presenza dei sostenitori del Sì in particolare nei programmi della televisione pubblica. Dobbiamo aspettare la fissazione della data del voto, che individuerà così anche il periodo in cui dovrà essere garantito un minimo di par condicio? E sembra vano sperare in una qualche neutralità del governo, che continuamente trasforma troppe sue iniziative in argomenti a favore del Sì.
Giorno dopo giorno si accumulano così conflitti politico-istituzionali che i sostenitori del Sì faticano a gestire senza una loro drammatizzazione, senza chiamare a raccolta le persone e gli argomenti che vogliono mostrare come non esista alcuna alternativa ragionevole. E poiché protagonista obbligato di questa vicenda è il presidente del Consiglio, chiedergli di “spersonalizzare” è quasi una contraddizione insuperabile.
Del resto non è giusto che i soldi risparmiati dai governanti tagliando sulle pensioni, sul welfare e sulle altre funzioni utili ai governati vadano solo a rimpinguare il patrimoni delle banche. That's Italy.
Il Fatto Quotidiano, 6 luglio 2916
Dopo il successo di pubblico, per The Floating Piers è arrivato il momento di fare i conti con i costi sostenuti dalle casse pubblicheper rendere possibile la realizzazione dell’evento ideato dall’artista bulgaro Christo. Quanto si è speso per portare sul lago di Iseo 1,2 milioni di visitatori in 16 giorni e per garantire loro sicurezza e assistenza? A farsi carico dell’installazione della passerella per circa 15 milioni di euro è stata la società The Floating Piers srl, legata allo stesso Christo. Ma le attività aggiuntive di pubblica sicurezzasono state finanziate dallo Stato, mentre i servizi sanitari, la vigilanza e i trasporti sono toccate a Regione Lombardia ed enti locali, che in tutto hanno messo in budget 3 milioni di euro. Di questi, una quota da 900mila euro verrà coperta grazie a un contributo messo a disposizione dall’artista: secondo l’assessore lombardo allo Sviluppo economico Mauro Parolini, 300mila euro sono destinati alla Regione, 600mila alla Provincia di Brescia e altri enti locali. Legambiente denuncia però i costi eccessivi di un evento che ha generato “due settimane di caos, ritardi e rincari”, con una serie di conseguenze negative che secondo l’associazione ambientalista superano i vantaggi dovuti all’indotto e alla promozione turistica.
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Il dettaglio delle spese sostenute dal Pirellone lo ha fornito martedì l’assessore Parolini rispondendo a una interrogazione del consigliere regionale del Pd Jacopo Scandella. Per il potenziamento del trasporto ferroviario di Trenord, che ha consentito di portare a Sulzano 460mila passeggeri, gli oneri in più rispetto al servizio ordinario sono stati 218mila euro, “coperti in parte o in toto dalla vendita dei biglietti”, ha precisato Parolini, ancora in attesa del consuntivo sui ricavi. Circa 420mila passeggeri sono stati invece trasportati grazie alle imbarcazioni, senza spese aggiuntive per Regione Lombardia in quanto il servizio rientra nelle funzioni di programmazione in capo all’Autorità di Bacino.
Per quanto riguarda i servizi sanitari garantiti ai visitatori, con in media 100 interventi di soccorso al giorno, la regione ha stanziato 535,5 mila euro: 330 mila per i soccorsi extra ospedalieri gestiti dall’Areu (Agenzia regionale emergenza urgenza), 65mila euro per l’igiene e la prevenzione sanitaria in capo alle Ats (le vecchie Asl) di Brescia e Bergamo, 80mila euro per il pronto soccorso ospedaliero dell’Asst della Franciacorta e infine 60,5 mila euro per potenziare l’assistenza primaria fornita dalle Ats di Brescia, di Bergamo e della Montagna. A tali spese vanno aggiunti i 400mila euro necessari per pagare le trasferte dei vigili arrivati sul lago di Iseo da altre città lombarde, come Milano: 300mila euro verranno coperti con il contributo della società di Christo. Restano i 2.289 volontari della protezione civile: per quelli di loro che sono rimasti a casa dal lavoro, il Pirellone dovrà farsi carico dei versamento dei contributi previdenziali per una spesa massima stimata in 150mila euro.
Sforzi che hanno reso possibile un evento che il governatoreRoberto Maroni ha definito “un modello”, ma che ha attirato le critiche di Legambiente. Sotto accusa gli oltre due milioni spesi da Regione ed enti locali a cui, fa notare Dario Balotta, responsabile Trasporti di Legambiente Lombardia e presidente del circolo del lago di Iseo, “vanno aggiunti i costi sostenuti dallo Stato per garantire la presenza di agenti di polizia stradale, carabinieri, guardia di finanza e guardia costiera con mezzi nautici. Ci sono poi i costi dell’inquinamento ambientale. E quelli provocati dallacongestione con cui hanno avuto a che fare i 30 mila abitanti della zona, che in base a uno standard internazionale per valutare il valore del tempo abbiamo stimato sui 16 giorni in almeno 8 milioni”. La rendicontazione dell’assessore Parolini, secondo Balotta, non tiene poi conto di un altro aspetto: “La spesa sostenuta per assistere la maggior parte dei visitatori soccorsi, che sono stati portati nella clinica privata di Ome, più vicina alla passerella rispetto alle strutture pubbliche. Una spesa che Legambiente stima in altri 340mila euro”.
«». La Repubblica
La notizia della Gran Bretagna fuori dall’Europa unita è stata indubbiamente una doccia fredda per molti. È evidente che le istituzioni nate dal sogno di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Robert Schuman non riescano a intercettare il desiderio di futuro di una popolazione europea impaurita da quasi dieci anni di crisi economica, da un’emergenza migratoria alimentata da politiche poco lungimiranti e da un modello di welfare inclusivo ormai profondamente minacciato.
Come siamo arrivati qui? Lasciando da parte per un attimo le questioni strettamente economiche, che molto sono state trattate in questi giorni, credo che non si possa non tornare al tema centrale di ogni ordinamento politico e sociale: la democrazia e il coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni. Il progetto europeo è oggi sotto lo scacco della finanza: tutto si muove perché «lo chiedono i mercati» e troppo spesso i cittadini appaiono come accessori di meccanismi economici implementati lontano dagli organi di rappresentanza. L’economia deve invece tornare a essere un mezzo e non un fine.
Emblematico di questo il fatto che Juncker, a meno di una settimana dal voto britannico, si sia affrettato a ribadire che le trattative sui due accordi commerciali con Usa e Canada, il Ttip e il Ceta, continueranno senza battute di arresto e che sono questioni che riguardano l’Europa e non gli stati nazionali, dunque dal suo punto di vista non necessitano di ratifica da parte dei parlamenti.
Posto che si tratta di un’impostazione discutibile anche sul piano giuridico, dato che la salute pubblica è competenza degli stati nazionali e che Ttip e Ceta, occupandosi anche di cibo, rientrano pienamente in questo ambito, stiamo comunque parlando di due accordi che avranno un enorme impatto sulla vita degli europei, che modificheranno il quadro di ciò che si può o non si può fare e che incideranno su molti aspetti della quotidianità dei cittadini.
A fronte di questa rilevanza, poco o nulla è stato dibattuto in sede pubblica, i documenti sono stati segreti per molto tempo e solo a seguito della pressione della società civile iniziano ora ad essere resi pubblici, seppur ancora parzialmente. Non è questa l’Europa dei cittadini, e non è da questa Europa che possiamo ripartire.
Se rimuovere i dazi doganali e le tariffe può avere un senso per quanto riguarda manufatti e servizi, per ciò che concerne il cibo bisogna stare molto attenti, perché si parla di standard di qualità differenti, si parla di tutela di prodotti territoriali, si parla di parametri di sicurezza alimentare, si parla di metodi di produzione.
La ratio che anima Ttip e Ceta è quella di eliminare le barriere tariffarie e non tariffarie che rallentano o rendono costosi i commerci tra le due sponde dell’Atlantico. Ma che significa barriere non tariffarie? In sostanza si tratta delle normative, che con il Ttip e il Ceta dovrebbero trovare un terreno di armonizzazione per raggiungere standard comuni. Ma normative significa diritti e tutele per i cittadini, dunque materia quanto mai delicata e intrinsecamente “democratica”.
Armonizzare due approcci giuridici radicalmente differenti (gli Usa adottano il principio del rischio accettabile, gli europei quello di precauzione definito alla conferenza di Rio nel 1992) rischia infatti di determinare un livellamento verso il basso, ovviamente il tutto sempre in nome della facilità dei commerci.
Per fare un esempio, in Europa è necessario etichettare i prodotti che contengono organismi geneticamente modificati, norma che invece non vale per gli Stati Uniti. In un caso come questo, che significa armonizzare? E se invece parliamo di ormoni utilizzati nell’allevamento della carne, che in Europa sono vietati e oltreoceano no, come la mettiamo? Per non parlare delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine europee, che al momento confliggono con il fatto che in Canada e Stati Uniti è permesso produrre e vendere vini che recano in etichetta nomi come Champagne o Porto e addirittura Prosciutti di Parma, in cui la città emiliana è diventata marchio registrato.
L’elenco potrebbe continuare ancora a lungo, ma ciò che qui interessa è che, nella definizione dei criteri di trattativa, il coinvolgimento democratico è pari a zero: non c’è dibattito sui metodi, non c’è dibattito sul merito, non c’è nemmeno dibattito sull’opportunità o meno di siglare accordi di questo genere.
La maggior parte del cibo che produciamo, vendiamo e mangiamo è sicuro grazie all’Unione Europea e alle sue norme che, riguardando l’intera comunità senza smettere di operare ai confini nazionali, sono una garanzia per tutti.
Se dobbiamo rimettere in discussione queste conquiste, varrebbe almeno la pena saperlo e poterne discutere apertamente, documenti alla mano. Se così non è, a far implodere l’Unione non saranno stati né il voto britannico né la crisi economica, quanto una cronica mancanza di democrazia operativa che, alla prima occasione, come in Gran Bretagna giovedì scorso, si vede presentare il conto dai cittadini trascurati.
«UE/USA. Ma Bruxelles, dopo la sconfitta del leave, potrebbe puntare a un forte segnale di "decisionismo", accelerando e concludendo la trattativa». Il manifesto, 1 luglio 2016 (c.m.c.)
Poco più di un mese fa è stata istituita la «sala di lettura» presso il Ministero dello Sviluppo Economico del Ttip, il trattato euro-americano sul libero commercio. Una «sala lettura» per permettere ai parlamentari di leggere la bozza dei negoziati in corso. 800 pagine (in nove plichi) da leggere in un’ora (questo il tempo concesso), lasciando fuori della sala di lettura telefonino e computer, senza la possibilità di fare le fotocopie e sotto il controllo vigile di un funzionario del ministero: infatti si possono prendere solo appunti ed è vietato ricopiare le frasi del trattato.
Infatti la bozza del trattato è «segreta»: gli si può dare un’occhiata, ma non troppo. Il Ministro Calenda ha detto che i negoziatori non possono farsi “imbrigliare” dal parlamento e si oppone al diritto dei parlamenti nazionali di ratificare l’altro trattato gemello (tra Unione Europea e Canada): il Ceta. In realtà è il parlamento ad essere imbrigliato (e tenuto all’oscuro) dai negoziatori europei e dal business delle multinazionali (americane ed europee), le vere beneficiarie di questo trattato.
Un trattato che costringerà gli europei (in cambio dell’abbassamento dei dazi americani) ad allentare gli standard ambientali e sanitari su una miriade di prodotti, beni e servizi: dal settore agroalimentare (il cibo che ci mangiamo) a quello tessile, dai servizi pubblici al welfare.
Dalle etichettature dei prodotti (avremo meno informazioni su cosmetici e prodotti alimentari) alla sicurezza delle automobili (i test per la sicurezza degli abitacoli saranno ridotti al minimo), dalle denominazione di origine (che fine faranno i nostri Dop e Docg?) agli Ogm (cui si danno nuove chances) fino al mancato rispetto delle convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro: il Ttip è una sorta di Waterloo europea per i diritti sociali e dei lavoratori, per la sicurezza alimentare, per la coesione sociale del nostro continente, per la democrazia. Ci rimetteranno anche i piccoli produttori, che saranno spazzati via dalle nuove regole.
Il tutto sacrificato sull’altare degli interessi delle multinazionali, di una visione ideologica del libero commercio, della supremazia di un mercato senza limiti. Anche a costo di dar vita ad una sorta di arbitrato privato cui gli Stati saranno chiamati a rispondere, nel caso approvino leggi a tutela dei consumatori e dei cittadini (ma che danneggino le multinazionali).
La potestà legislativa degli Stati sarà messa sotto tutela dalle imprese e il principio di precauzione (cioè la cautela su aspetti controversi riguardo alla salubrità di prodotti e merci) andrà alle ortiche: l’onore della prova (se un prodotto fa male) graverà sulle spalle di cittadini e consumatori.
Il prossimo 11 luglio inizierà un altro round di negoziati a Bruxelles tra europei ed americani. Non è detto che si concluda positivamente. I britannici erano tra più strenui sostenitori del trattato e con la Brexit i neoliberisti della Commissione perdono un importante alleato. La Francia si oppone a tante parti del trattato (che danneggerebbe numerosi suoi beni e servizi: prodotti alimentari, settore audiovisivo,), mentre l’Italia, con il ministro Calenda, continua ad essere allineata nelle schiere degli ortodossi del Ttip.
La campagna Stop Ttip (che organizza il prossimo 5 luglio alla Camera dei deputati un importante confronto con il Ministro dello Sviluppo Economico) invita il nostro governo alla trasparenza, al coinvolgimento del parlamento e dice una cosa che va sostenuta: bisogna togliere il mandato di negoziare ai funzionari di Bruxelles. Bisogna ricondurre il potere di decidere su materie così importanti al parlamento europeo e alle assemblee elettive nazionali.
Magari qualcuno, su a Bruxelles, può pensare che dopo la Brexit, si tratta ora di dare un forte segnale di decisionismo europeo, accelerando e concludendo la trattativa sul Ttip. Sarebbe una sciagura che pagheremmo cara: un ulteriore regalo al neoliberismo, alle multinazionali e alle lobby. Così si costruisce l’Europa dei mercanti, non dei cittadini. E non si va lontano.
«Due sono gli scenari che si aprono: una maggiore integrazione, ma fondata su presupposti neoliberali, o un recupero di sovranità, politica ed economica, da parte degli Stati membri».
Sbilanciamoci info 29 giugno 2016 (c.m.c.)
A meno di un anno dal referendum greco, una nuova scossa ha investito il processo di integrazione europeo. Il 23 di giugno, la maggioranza assoluta dei votanti del Regno Unito ha deciso di abbandonare l’Unione Europea. Si chiude così una vicenda iniziata con la mossa di Cameron, che nella campagna elettorale del 2015 promise il referendum per contenere il deflusso di voti verso gli estremisti dello UKIP.
Difficile negare che si tratti di una sorpresa: il leave ha vinto nonostante l’impatto emotivo dell’omicidio della deputata laburista Jo Cox e l’appoggio dato al remain da parte dei grandi partiti e dalla maggioranza degli intellettuali. Tuttavia, come segnalava Krugman sul suo blog, bisognava essere ciechi per non vedere arrivare una crisi di questo genere nel progetto europeo. L’analisi del voto mostra infatti risultati interessanti: da un punto di vista geografico, a votare per il leave sono stati per lo più i cittadini dei grandi centri urbani delle Midlands come Birmingham e vecchi distretti industriali delle West (59,3%) e East Midlands (58,5%).
Aree che hanno sofferto intensi processi di deindustrializzazione e smantellamento di interi comparti produttivi, a seguito dell’applicazione delle ricette neoliberiste di origine Thatcheriana portate avanti negli ultimi decenni con la benedizione dell’UE. I voti a favore del leave schizzano in centri medio-piccoli quali Mansfield (70.86%), Doncaster (68.98%), Sunderland (61.34%), Middlesbrough (65.48%), Scunthorpe (66.30%) in cui disoccupazione e povertà registrano valori superiori alla media nazionale. Città contro periferie, ricchi contro poveri, dirigenti e funzionari contro operai e lavoratori precari.
È bene chiarire quali sono i termini della questione. Il referendum non è vincolante: il Parlamento è sovrano e può decidere di ignorarlo. Sarebbe una pessima decisione, che segnerebbe ancor di più il solco tra il popolo del leave e i rappresentanti politici nazionali. Inoltre, si profilerebbe come un regalo politico allo UKIP di Nigel Farage, da sempre antagonista alla costruzione politica ed economica della UE.
Tuttavia, non sarebbe la prima volta che l’UE, o gli Stati membri direttamente, prendono la decisione di ignorare gli esisti dei referendum consultivi (il no danese contro Maastricht nel 1992, le sconfitte nei referendum sulla costituzione del 2005 in Francia e Olanda, e l’OXI greco). Adottando questa linea, alcuni parlamentari del Labour hanno già formalmente chiesto di ignorare il risultato, un dato che la dice lunga sulla ‘sintonia’ che lega alcune componenti del partito di Corbyn e settori importanti della classe operaia britannica, che in larga parte ha votato per l’uscita.
Se si decidesse di andare avanti e appellarsi all’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea, che regola l’uscita di uno Stato membro dall’UE, da un punto di vista giuridico inizierebbe una negoziazione con la UE e verosimilmente una contemporanea adesione all’EFTA, l’area di libero scambio europea, di cui sono membri, oltre ai Paesi dell’UE, l’Islanda, la Svizzera e la Norvegia. Il processo durerebbe un massimo di due anni ma la reale durata del processo potrebbe variare sensibilmente a seconda di come la situazione evolverà.
Le conseguenze economiche sarebbero, invece, determinate dai termini dell’adesione. Al momento, la linea di tensione più forte per l’economia del Regno Unito è il deficit esterno di circa il 5% del PIL, squilibrio che (sebbene di dimensione variabile) si trascina dal 1985.
Il finanziamento di questo deficit non è in principio problematico, per tre ragioni: 1) la City di Londra è un polo attrattivo per i capitali; 2) il Regno Unito ha la propria moneta e si indebita in sterline, eliminando eventuali problemi di bilancio per la svalutazione in atto; 3) Londra condivide con la UE la strategia fallimentare fatta di austerità di bilancio e lotta all’inflazione. Basti ricordare che dal 2010 Cameron e Osborne han ridotto di 5 punti di PIL la spesa pubblica pur non essendo stretti nel cappio dell’Euro.
Tuttavia, se si imponessero ai britannici dei termini ‘punitivi’ di accesso all’EFTA, si potrebbe generare una pericolosa recessione nel Regno Unito moltiplicando le conseguenze economiche negative per la UE e alimentando ancor di più i rispettivi spiriti di rivalsa nazionalistica. Innanzitutto, il 5% del deficit esterno del Regno Unito si spiega per il 53% con l’import dall’UE (dati Eurostat), quindi non è nell’interesse economico dell’Europa castigare Londra, che copre il 10% dell’import intra-UE.
Inoltre, questa sorta di rappresaglia suonerebbe come una minaccia imperialista che rappresenterebbe un ulteriore regalo elettorale allo UKIP. Tutte le altre proposte abbozzate, come castigare la City o offrire accordi tributari speciali per dirottare le sedi delle multinazionali verso la UE sono o inutili – i servizi finanziari sono il 7% del PIL inglese e si spiegano soprattutto con vantaggi comparati – o dannose, perché approfondirebbero la disuguaglianza che cresce ogni volta che aumenta la quota del capitale nel reddito.
D’altra parte, anche il populismo inglese dovrà fare i conti con la realtà: l’accesso all’EFTA implica l’adozione di regolamenti e standard europei, l’accettazione delle norme sulla circolazione delle persone e un contributo economico, sebbene inferiore a quanto pagato alla UE oggi.
E l’Europa? Chi si preoccupa del progetto europeo in fieri, sa bene che le contraddizioni esistenti sarebbero esplose prima o poi. Che sia accaduto in Inghilterra, che tra tutti i paesi ha sempre avuto una certa resistenza ai processi di integrazione europea, si deve alle contingenze storiche. Il sistema istituzionale europeo è incapace di far fronte agli shock asimmetrici, con il risultato che ogni scossone aumenta le divergenze interne. La crisi del 2008 lo ha mostrato in modo chiaro, con l’austerità imposta ai paesi in crisi e i paesi più forti favoriti dai bassi tassi di interesse.
Dal 2009, il processo d’integrazione è andato avanti come mai prima d’ora. Tuttavia, ciò è avvenuto solo nella direzione di garantire un ambiente favorevole al capitale a dispetto delle montanti disuguaglianze e dei crescenti rischi di disintegrazione. Regole costituzionali contro il deficit di bilancio, ma non la mutualizzazione dei debiti; un’unione bancaria con regole di salvataggio, ma non l’assicurazione sui depositi. Una schizofrenia istituzionale che fa temere per quel che potrebbe accadere con un ministro delle finanze comune.
La stessa schizofrenia istituzionale è la causa prima degli esistenti problemi di gestione dell’immigrazione. Il turismo del welfare contro cui si scagliano i sostenitori del leave sono in effetti esacerbati dalla mancata convergenza dentro l’Unione, generando insofferenza nell’opinione pubblica. La legislazione e gli accordi recenti circa la gestione dei flussi migratori di cittadini non comunitari si stanno dimostrando incompatibili con i divari di reddito e le tensioni sociali crescenti negli Stati membri. Infine, paesi deboli come Grecia e Italia si trovano nella folle posizione di dover gestire la frontiera comune essendo nello stesso tempo vittime di austerità, e dunque privi delle necessarie risorse per farlo.
A questo punto, con un possibile effetto domino alle porte e ulteriori tensioni sulla strada dell’integrazione rimangono due sole strade possibili. Una maggiore integrazione, ancora una volta fondata su presupposti neoliberali e con la capital union a fare da perno; o un arretramento del medesimo processo di integrazione, con gli Stati membri a recuperare parte della loro sovranità politica ed economica.
Nel primo caso, le garanzie che una maggiore integrazione non soffra degli stessi problemi di disegno istituzionali denunciati finora sono oggettivamente nulle. Politicamente, questo rischierebbe anche di favorire in modo sostanziale la crescita dell’estrema destra come le ultime elezioni hanno dimostrato.
Nel secondo caso, potrebbe aver luogo un accordo di cooperazione politico-economica, teso ad arretrare rispetto al processo di integrazione stesso, rimettendo in discussione, ad esempio, la libera circolazione dei capitali.
Di fronte ad una destra arrembante e sempre più efficace nell’intercettare la rabbia antieuropea delle classi popolari, ogni opzione merita di essere presa in considerazione e valutata. Con l’unico metro possibile: quello delle condizioni di vita, di lavoro e soprattutto di agibilità politica delle classi che più stanno subendo le conseguenze dell’attuale configurazione europea.
«Il lungo anno di incapacità dell’Europa di trovare una politica comune sulle frontiere e sulle politiche sociali è stato tra i fattori che hanno fatto maturare il sentimento di chiusura in Gran Bretagna e altrove». La Repubblica, 26 giugno 2016
LA lunga strada verso Brexit è cominciata insieme ai boat people e alle guerre civili che in questi ultimi anni hanno disintegrato paesi chiave del nord Africa e del Medio Oriente.
Insieme ai disperati che per mare e per terra cercano scampo dalla fame e dalle guerre cercando rifugio nella ricca Europa. Povertà e mancanza di sicurezza sono beni irrinunciabili e non negoziabili, beni assoluti che siamo disposti a cercare altrove quando non sono disponibili vicino a noi. Nella speranza di trovare porte aperte e non ermeticamente chiuse. La storia dell’Europa del nostro tempo è legata inscindibilmente con quella di questa speranza e di questa disperazione. Dunque: le frontiere sono uno dei fattori che dobbiamo tener presente se vogliamo cercare di capire Brexit.
A partire dalla scorsa estate l’Ungheria ha iniziato - prima tra i paesi europei - a installare barriere di filo spinato per chiudere le frontiere con i paesi balcanici, quasi a farsi porta blindata dell’Unione Europea. Nessuno glielo ha impedito. I paesi dell’Unione hanno criticato quella decisione ma non sarà nei loro poteri quello di intervenire perché le frontiere dell’Europa sono ancora le frontiere degli stati-membri. Un tentativo di politica comune con Frontex - di respingimento dei migranti e, in casi di emergenza, soccorso - e poi un accordo con la Turchia, un paese autoritario e lesivo delle libertà civili e dei diritti umani, per pattugliare le porte ad Est, verso la Siria e i paesi distrutti e destabilizzati dai governi americani con gli alleati occidentali. Le frontiere sono la questione geopolitica sulla quale l’Europa rischia di disintegrarsi. Nata per abbattere le frontiere interne (il prossimo anno si festeggerà il Trattato di Roma che riconobbe ai cittadini di paesi ex-nemici di muoversi oltre le frontiere dei loro stati d’origine) le frontiere sono la sua damnatio memoriae.
Chi ha più bisogno di frontiere, nel mondo globalizzato, è chi è più vulnerabile nella libera competizione delle merci e della forza lavoro, la merce che può essere comperata a bassissimo costo quando le frontiere sono aperte ai disperati della terra, disposti per vivere a salari da fame e al lavoro quasi servo, senza diritti. Tutto questo avviene in Gran Bretagna e in tutti i paesi europei - dove l’Unione non si è in questi anni di crisi infinita impegnata a non far sentire la paura delle frontiere aperte, dove, al contrario, si è speculato sulla mano d’opera serva (pensiamo al bracciantato nelle campagne del nostro meridione).
La responsabilità di Brexit esce dalle frontiere della Gran Bretagna dunque, e non è semplicisticamente imputabile all’irrazionalità di chi l’ha votata - i cittadini impoveriti e ridiventati poveri non hanno tanto interesse a che il loro paese tenga le frontiere aperte. Sarebbe un errore sottovalutare questa legge eterna: la libertà non sta insieme alla destituzione. L’Unione Europea non può per questo andare avanti, oltre Brexit, come se nulla fosse cambiato, come se Brexit non mettesse in discussione la sua miope politica di austerità. Il problema è quindi un problema di frontiere perché è un problema di opportunità sociale ed economica. In questo ultimo anno si è pensato che la costruzione del filo spinato non solo all’esterno dell’Europa ma anche dentro l’Europa fosse la soluzione - una soluzione nazionalista e populista.
La risposta non può però venire dalla continuazione dello status quo: il problema dei rifugiati e il problema dell’erosione del benessere dei cittadini europei sono ineludibili e sono legati tra loro. Richiedono un governo politico però. Il lungo anno di incapacità dell’Europa di trovare una politica comune sulle frontiere e sulle politiche sociali è stato tra i fattori che hanno fatto maturare il sentimento di chiusura in Gran Bretagna e altrove. Sarebbe urgente che in risposta a Brexit l’Europa mostrasse anche la faccia politica e costruttiva oltre a quella bancaria e restrittiva.
«Gli enti locali nel mirino. Sono loro a "possedere" la gran parte della ricchezza sociale del paese – in termini di territorio, patrimonio pubblico e servizi pubblici localiIl manifesto, 25 giugno 2016 (c.m.c.)
Il risultato delle recenti elezioni amministrative apre nuovi scenari nel nostro Paese: la pesante sconfitta del governo Renzi e del Pd si è espressa con una forte domanda di cambiamento, che da Napoli -con la riconferma di De Magistris- a Roma e Torino –con la netta vittoria di Virginia Raggi e Chiara Appendino, giovani sindache del M5S- attraversa l’intera penisola.
Non è un caso se questa ribellione si sia evidenziata nella scelta sulla guida dei comuni e delle città: nonostante il contributo degli enti locali al debito pubblico italiano sia risibile (intorno al 2,1%) è sugli stessi che in questi ultimi quindici anni sono state scaricate tutte le misure per farvi fronte.
Un dato per tutti: nel periodo 2008/2014, il contributo richiesto agli enti locali – fra tagli ai trasferimenti e patto di stabilità interno- è passato da 1.650 a 16.665 miliardi (!). Facile immaginare cosa abbia voluto dire in termini di taglio dei servizi e delle prestazioni sociali, abbandono del territorio e delle periferie, dispersione e solitudine sociale.
Del resto, gli enti locali sono nel mirino per un ben preciso motivo: sono loro a «possedere» la gran parte della ricchezza sociale del paese –in termini di territorio, patrimonio pubblico e servizi pubblici locali. Una ricchezza quantificata dalla Deutsche Bank in ben 571 miliardi, e da tempo nel mirino dei grandi interessi speculativi e finanziari, alla ricerca di mercati sicuri e profittevoli.
I comuni sono dunque uno dei luoghi di precipitazione della crisi e uno dei terreni su cui si approfondiranno importanti conflittualità sociali. Per questo è bene che, fuori da una astratta neutralità degli enti locali, i nuovi sindaci siano consapevoli di alcune fondamentali battaglie sulle quali sarà richiesto loro di prendere posizione.
Il primo terreno è quello del debito, utilizzato come ricatto per permettere la spoliazione delle comunità locali e la messa a valorizzazione finanziaria di tutti i beni comuni urbani. La radicale rimessa in discussione dell’ideologia del debito, attraverso l’avvio di audit pubblici e partecipati, potrebbe essere il primo passo per le comunità territoriali verso il diritto di riappropriarsi del proprio destino.
Un secondo terreno è quello della contestazione del patto di stabilità e del pareggio di bilancio, che in questi anni hanno prodotto solo instabilità sociale e aumento delle disuguaglianze. E’ un terreno decisivo per sindaci che vogliano abbandonare il ruolo di facilitatori della penetrazione dei grandi interessi finanziari sulla società, per riappropriarsi finalmente di quello di difensori delle comunità territoriali e degli uomini e le donne che le abitano.
Da questo punto di vista, la messa in discussione dell’Anci, organismo da sempre subalterno ai diktat governativi, anche pensando ad una nuova aggregazione delle “municipalità ribelli”, diventa uno dei possibili tasselli del cambiamento.
Il terzo terreno è senz’altro quello della riappropriazione dei beni comuni urbani, sia per garantire diritti fondamentali alle comunità amministrate, sia per impostare sul riconoscimento degli stessi una nuova economia territoriale, ecologicamente e socialmente orientata.
Da questo punto di vista, il contrasto da parte dei Comuni del decreto Madia di privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici locali diviene dirimente, e dovrà vedere –in caso di sua approvazione- l’estendersi a macchia d’olio della disobbedienza territoriale.
Siamo dentro un tempo, in cui non si può più definirsi «sindaco di tutti» e occorre decidere se schierarsi con la città e gli abitanti che la vivono o con i poteri forti della speculazione immobiliare e finanziaria. Questione dirimente, che riguarda i sindaci, ma, naturalmente e soprattutto, le comunità territoriali, che devono riappropriarsi del futuro, iniziando dal presente.
«Nel 2015, sono stati 479 gli atti intimidatori e le minacce rivolte ad amministratori locali e funzionari pubblici. 40 intimidazioni al mese, una minaccia ogni 18 ore». Il manifesto
, 25 giugno 2016 (c.m.c.)
Avrebbero potuto essere di più. Sarebbe stato un dovere istituzionale di tutti. Una esigenza per chi continuamente ricorda con note stampa e proclami che fare l’amministratore in Calabria significa sacrificarsi. Però, quando bisogna dimostrarlo in piazza, in troppi disertano.
La prima marcia nazionale “Amministratori sotto tiro” voluta da Avviso Pubblico a Polistena, in provincia di Reggio Calabria, conserva comunque intatto il suo valore simbolico. Anche se i cittadini rimangono a guardare dalle finestre, più incuriositi che partecipi, più nascosti che visibili. Ma qui siamo in Calabria e qui niente è semplice. Quasi mai. Resta, però, di questa passeggiata tra gonfaloni, bandiere di Libera, fasce tricolore il ricordo di visi felici. Quelli dei ragazzi che hanno sfilato tutt’altro che in silenzio. Hanno urlato che loro non temono la mafia, ma anche che vogliono che gli si garantisca un futuro.
Ecco perché vale la pena, comunque, insistere e ancora resistere. Di una nuova resistenza ha parlato Don Pino De Masi che è il parroco della piccola cittadina calabrese. “Chi marcia oggi insieme a noi, lo fa anche per coloro i quali invece hanno deciso di non partecipare. E’ vero che sono ovunque i sindaci che con la mafia flirtano, ma questo è un motivo in più per credere che chi non lo fa, è partigiano di questo tempo. L’Italia si deve rifare e saremo noi i combattenti”.
Così, da un angolo bello e profondo del Sud, tanto bistrattato e dimenticato da essersi formato leggi fuori dalla legge, che si alza forte un grido di aiuto allo Stato. A farlo dal palco, senza alcuna diplomazia, come ha notato il vice ministro dell’Interno Filippo Bubbico, è stato il primo cittadino di Polistena, Michele Tripodi che ha tuonato contro il Governo reo di aver impoverito ulteriormente e in maniera drammatica le casse dei Comuni e di averle così “rese fragili anche agli occhi dei cittadini”.
Qui si rischia di tornare tanto indietro da non ricordare neanche più da dove si è partiti. Così Tripodi denuncia e a fermarlo non ci riesce neanche una improvvisa pioggia battente “la mafia qui, è tornata ad essere punto di riferimento. La privatizzazione del ciclo dei rifiuti, come dell’acqua è legata ad appetiti illeciti e i danneggiamenti subiti dalle aziende che attualmente lavorano in questi ambiti, sono solo avvisaglie. Noi però abbiamo scelto, noi non restiamo muti, noi non ci leviamo il cappello”.
Questo il benvenuto a Polistena, questo è il monito di un Sindaco che non rinuncia a parlare anche della riforma costituzionale e di come quello che sta per accadere in Italia è il contrario di ciò che gli italiani auspicano. Di Costituzione ha parlato anche Don Luigi Ciotti: “Il primo e più importante testo antimafia che deve ancora trovare piena applicazione”.
A cambiare, invece, deve essere la politica, l’unico strumento destinato al miglioramento. Altrimenti, avverte Don Ciotti “le mafie non moriranno mai, se non cacciamo via coloro i quali si nascondono dietro le parole giuste, ma rimangono immobilizzati in una grave malattia che si chiama potere”.
Avviso Pubblico ha chiesto impegno ai parlamentari presenti e a Rosy Bindi e a Bubbico. Ha domandato maggiore attenzione ai percorsi legislativi che dovranno garantire il lavoro svolto dagli amministratori, anche attraverso la regolazione della normativa che riguarda i beni confiscati. Auspicando la formazione di una classe dirigente responsabile e trasparente. Tutti compiti ardui, ma non impossibili.
Ci credono i sindaci venuti fin qui anche da Campania, Puglia e Sicilia. Ci credono i giornalisti minacciati come Michele Albanese che combatte una strenue lotta solo per poter fare bene il suo mestiere, solo perché ha raccontato fatti che in molti preferirebbero venissero taciuti. Albanese non si stupisce della scarsa adesione, anche di quella dei cittadini “hanno paura a schierarsi. Non vedi come rimangono distanti, lo fanno perché è così che opera la ‘ndrangheta. Si muove sotto traccia e in silenzio si impone”.
Di come si muova la ‘ndrangheta non hanno dubbi neanche due ex sindaci di Lamezia Terme e di Rosarno, Gianni Speranza e Elisabetta Tripodi. Entrambi si definiscono indignati e preoccupati. Speranza dal canto suo legge “una ipocrisia calabrese che soffoca ogni buon progetto, sempre in silenzio, sempre senza appello”.
Come senza possibilità alcuna hanno lasciato la giovane ex sindaca Tripodi che ci tiene a dire “noi non siamo tutti uguali, sono riusciti però nella concezione al ribasso. Il problema non è solo la mafia, ma il suo gene, che rischia di macchiare tutti”.
E se le parole non fossero ancora abbastanza per comprendere il fenomeno, tocca ai numeri la sintesi. Nel 2015, sono stati 479 gli atti intimidatori e le minacce rivolte ad amministratori locali e funzionari pubblici. 40 intimidazioni al mese, una minaccia ogni 18 ore. Rispetto allo scorso anno, l’incremento in tutta Italia è stato del 33 per cento.
«Dentro o fuori. Il premier lanciò l'idea del referendum per prevenire l’emorragia elettorale verso la destra populista dell’Ukip di Farage». Il manifesto, 25 giugno 2016
Cameron pareva (ed è) un esponente tipico dell’euro scetticismo moderato del partito Tory. Uno da cui non usciva mai una professione di europeismo, ma solo l’esultanza per una eccezione strappata, per uno sconto ottenuto sui fondi da corrispondere, per ogni episodio in cui il punto di vista strategico degli Usa si imponeva grazie all’alleanza speciale con i britannici. Pareva ed era, la sua, solo una nuova edizione della vecchia dottrina di Macmillan.
Nel 1960 il primo ministro Tory aveva commissionato un rapporto ai maggiori esperti conservatori, da cui impietosamente risultava il declino del Regno Unito come forza globale, e l’urgenza di un’adesione alla Comunità Europea. Per questo, dopo il ritiro di un De Gaulle contrario all’adesione britannica, il Regno Unito era stato ammesso al principio degli anni 1970, ancora grazie a un primo ministro conservatore come Heath.
Il dinamismo superiore del Mercato Comune e i portenti industriali di Italia e Germania ridicolizzavano gli eleganti snobismi di chi, fra i conservatori, aveva definito la conferenza di Messina e il Trattato di Roma «scavi archeologici». Fra rovesci, riprese e oscillazioni, fra asprezze thatcheriane e morbidezze alla Mayor la linea Tory era sostanzialmente rimasta la medesima: non era sufficiente essere solo il paese più vicino agli Usa, occorreva (anche per essere più preziosi per gli americani) al contempo essere parte importante dell’integrazione europea. Dovere «scegliere fra le due sponde dell’Atlantico», sosteneva Macmillan, rappresentava in realtà una condizione di minorità e di dipendenza, non di forza. Si trattava casomai di fare ambedue le cose: essere lo Stato membro con la migliore «relazione speciale» con Washington. Certo: il progetto europeo, specie da Thatcher in poi, non doveva essere che un mercato a integrazione negativa, e il rapporto con gli Usa doveva ricevere un riguardo che la Lady di ferro non avrebbe mai riservato alle istituzioni europee.
Il risultato del referendum però ha rotto per sempre questa, forse già logora, ambivalenza dei tories.
La differenza l’ha fatta la spregiudicatezza: Cameron nel 2013 promise il referendum per prevenire l’emorragia elettorale verso la destra populista dell’Ukip di Farage. Di questa spregiudicatezza l’eccentrico ex sindaco di Londra Ben Johnson, però, ha deciso di fare uso più estremo: puntare ai voti di Farage ma assumendo egli stesso una leadership anti europeista definitiva, senza timore di spaccare profondamente il partito conservatore, spostandolo sulla Brexit oggi, domani e sempre, a prescindere dal referendum e dal suo risultato. Un risultato che poi ha tramutato in scioccante realtà quelli che sembravano giochi tattici per la leadership della destra. Un altro esempio che la spregiudicatezza, in tempi di sistemi politico-sociali sempre più deteriorati, conduce verso l’avventurismo.
C’è chi nella attuale instabilità europea vede solo una classe operaia che si dissolve, a danno della sinistra europea: costoro non hanno capito che le classi medie sono oggi altrettanto imprevedibili di altri ceti. Il dramma dei conservatori britannici lo conferma. Questo, come fra le due guerre, accade sempre in epoche chiuse in ideologie economiche talmente ottuse da non lasciare prospettive. Un contesto che, in modo diverso, ha danneggiato anche la strategia di Corbyn e del Labour. La sua linea di «Sì in Europa contro il liberismo dei tory» rompeva con gli anni di Blair: da quest’ultimo erano, è vero, giunte inedite professioni di europeismo (almeno in qualche efficace discorso) ma il progetto europeo era rimasto sostanzialmente quello di un mercato largo, e il rapporto speciale con gli Usa era giunto fino a spaccare la Ue, e a ignorare l’opinione della stragrande maggioranza degli europei (britannici compresi) pur di combattere una guerra all’Iraq fatta di menzogne e pseudo-strategie.
La campagna di Corbyn per una Social Europe di nuovo conio intendeva e intende essere, a anche a prescindere dalla sua realizzabilità, anzitutto critica del modello sociale britannico, condivisa dal socialismo nazionale dello Scottish National Party. Un europeismo affermatosi nel Labour già nella seconda metà degli anni 1980 con la leadership di Kinnock, che in una futura regolazione europea scorgeva un modello da opporre in quegli anni alla signora Thatcher. Precedentemente, invece, aveva dominato l’anti-europeismo della New Left laburista, specie fra gli anni 1970 e 1980.
A convertire in seguito i laburisti a una possibile Social Europe era intervenuto Jacques Delors: in un discorso del 1988 al congresso delle Unions egli aveva prospettato un’integrazione dedita a combattere le aree di sottosviluppo e ritardo sociale del continente, a favore di maggiore protezione sociale e maggiore potere negoziale del sindacato. Sappiamo che questa prospettiva, in parte ancora presente nel Libro Bianco di Delors, è stata abbandonata negli ultimi 25 anni. Proprio l’abbandono di questo progetto del socialismo europeo ha indebolito Corbyn e la sua battaglia per il remain. Rimane il grido che tutti i laburisti e i socialisti nazionali scozzesi rivolgono alla sinistra europea: «Non lasciateci su quest’isola da soli con i tories».
La Gran Bretagna esce dall’Unione europea. Oltre 17 milioni di sudditi di sua maestà (51,89%) hanno votato a favore del Brexit.
Il manifesto, 24 giugno 2016 (m.p.r.)
Remain: 16.141.241 (48.11%)
Leave: 17.410.742 (51.89%)
Affluenza molto alta al referendum (72,2%), che dopo i conteggi della notte ha consegnato un verdetto storico, che ora quasi sicuramente scatenerà un effetto domino per tutto il continente. Diverse forze anti-europeiste infatti hanno già chiesto il referendum sull’Unione.
Sterlina ai minimi storici, crollo delle borse mondiali. La Banca d’Inghilterra assicura che prenderà “tutti i passi necessari per la stabilità finanziaria e monetaria”.
Il leader dell’Ukip, Nigel Farage, ha chiesto le dimissioni del premier David Cameron: «E’ il nostro giorno dell’indipendenza, una vittoria della gente vera, una vittoria della gente ordinaria, una vittoria della gente per bene».
Preoccupazioni anche per la tenuta del Regno Unito, visto che Scozia e Irlanda del Nord hanno votato massicciamente a favore dell’adesione all’Europa. Lo Scottish National Party (Snp) si prepara in ogni caso a chiedere a Westminster di partecipare al negoziato tra Regno Unito e Ue per il ritiro. E’ altamente probabile che contestualmente sarà richiesta la possibilità di un secondo referendum limitato alla sola Scozia. Alex Salmond (Snp): «L’esito del referendum cambia completamente tutto il contesto dell’indipendenza scozzese».
Secondo i trattati l’uscita di Londra andrà ora negoziata con l’Ue ma la trattativa e l’uscita definitiva dovrebbe concludersi entro due anni (salvo proroghe).
Non è escluso che in questo lungo processo di uscita, la Scozia scelga di tenere un nuovo referendum definitivo sulla permanenza o no nell’Ue a differenza del Regno Unito.
Critiche all’interno del Labour anche per il leader Jeremy Corbyn, a favore del Remain. Il Guardian parla di manovre rapidissime dietro le quinte per votare la sfiducia al segretario e costringerlo alle dimissioni.
Previste per la mattinata riunioni in tutte le cancellerie del mondo.
Rinviata a data da destinarsi la direzione del Partito democratico che era stata convocata per oggi dopo la sconfitta alle elezioni comunali.
Si è tenuta questa mattina presso la Sala Situazioni della Presidenza del Consiglio una riunione convocata da Matteo Renzi. Alla riunione hanno partecipato il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, il Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, il Ministro per lo Sviluppo Economico Carlo Calenda, il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Marco Minniti (servizi segreti) e il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco.
Alle 11.30 conferenza stampa a Parigi di Marine Le Pen (in Francia le presidenziali si terranno l’anno prossimo). La leader del Fronte Nazionale ha già chiesto l’indizione di un identico referendum in Francia e in tutti i paesi Ue che lo vorranno.
Il premier belga Charles Michel ha chiesto la convocazione immediata di un vertice europeo senza la presenza inglese.
Le tre istituzioni che guidano l’Europa (il premier olandese Rutte come presidente di turno, Juncker per la Commissione, Tusk per il Consiglio) si riuniranno oggi alle 10.30.
Convocato nel pomeriggio in Lussemburgo un vertice di tutti i ministri degli Esteri europei.
Nel suo discorso alla nazione, in diretta televisiva (alle 9.20 ora italiana, le 8,20 a Londra), il premier David Cameron ha detto che Galles, Scozia e Irlanda del Nord saranno coinvolte nei negoziati con Bruxelles.
Cameron si dimette da primo ministro e affida al congresso del Partito Conservatore di ottobre la scelta di individuare il suo successore, continuerà dunque a governare per i prossimi tre mesi.