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il manifesto, 22 ottobre 2016, con postilla

È probabile che quando il Nobel verrà assegnato a chi più ha attivamente usato la paura per far avanzare le sue manovre, il premio andrà al premier israeliano Netanyahu. E se dovesse essere assegnato a chi parla senza sapere di cosa parla, molti israeliani e non pochi italiani si disputeranno il titolo. Lo scandalo Unesco, la decisione tanto criticata su Gerusalemme, è un caso molto strano nel quale la maggioranza degli attori crea ad arte una raccapricciante e tragica gran cortina di fumo, che permette di non parlare delle questioni vere, del costo della guerra e del sangue da versare in una crisi che sta solo precipitando. Netanyahu e la leadership israeliana tutta, con quasi nessuna eccezione, hanno elevato un coro contro la decisione dell’Unesco che negava – secondo loro – ogni vincolo ebreo sui luoghi sacri nella Città vecchia di Gerusalemme. Una negazione che sarebbe stata fatta per pura ignoranza, imbecillità o magari per antisemitismo.

Il problema è che non è questo il contenuto della risoluzione dell’Unesco. Piaccia o no la decisione mette un’altra volta sul tavolo delle discussioni parte del problema, centrato nella Moschea di Al Aqsa, il terzo luogo sacro per i musulmani, costruito nell’anno 705.

Per gli archeologi, nello stesso luogo sarebbe stato edificato il Secondo Tempio, sacro agli ebrei e distrutto durante la rivolta contro i romani nell’anno 70.

Dal 1967, l’allora ministro della difesa Dayan e una gran parte dell’élite dominante – anche sotto governi di destra – evitò di convertire la vicenda in una questione di sostanza per i credenti, così che importanti rabbini proibirono la visita al Monte su cui si troverebbe il Tempio, oggi luogo sacro per i musulmani.

I rabbini intesero bene i pericoli di stimolare i circoli fondamentalisti che oggi, sul Tempio, animano le campagne dell’estrema destra.

Ora i politici israeliani che reagiscono infuriati vogliono accusare l’Unesco di rivelarsi come un’organizzazione quasi antisemita nel negare che gli ebrei abbiano alcun vincolo con i luoghi sacri. I giornali, in generale, giocano un ruolo assai penoso quando riflettono solo la posizione di Netanyahu e dei suoi compari. Com’è possibile, infatti, una decisione che dica o insinui che gli ebrei non abbiano un vincolo storico con questa terra o con Gerusalemme e i suoi luoghi santi? Una tale decisione sarebbe molto più deplorevole e andrebbe a vantaggio dei demagoghi e razzisti di tutti i colori. Il problema è un po’ più chiaro quando si legge la risoluzione dell’Unesco che afferma, tra le altre cose, l’importanza della città vecchia di Gerusalemme «per le tre religioni monoteiste» e deplora profondamente il rifiuto di Israele di applicare le decisioni precedenti dell’Unesco riguardo a Gerusalemme est.

La decisione critica vari passi adottati da Israele e invita anche a ritornare all’accordo di status quo che avevano firmato i governi di Israele e Giordania nel passato. Documento che permetteva le visite di ebrei e turisti in generale è considerato positivo ancora oggi dai circoli diplomatici israeliani. Anche uno dei partecipanti alle discussioni di allora ha invitato, su Haaretz la settimana scorsa, a rifarsi a questo documento.

Già da un anno i fatti di sangue in Israele e specialmente a Gerusalemme si sono aggravati nel segno della «Terza Intifada». La ragione è semplice: la realtà musulmana ha visto nei passi israeliani adottati nell’ultimo anno e nelle provocazioni senza fine della destra fondamentalista, una minaccia reale alla Moschea di Al Aqsa. Forse ad occhi israeliani o europei questo non è importante, ma il moltiplicarsi di passi che accelerano la presenza di circoli israeliani «pro Tempio» che pure violano la proibizione (stabilita negli accordi precedenti) di pregare nella spianata di Aqsa, sicuramente alimenta ogni posssibile teoria, certa o meno, che il pericolo per l’integrità della Moschea sia imminente.

Il governo israeliano si accontenta di dichiarazioni occasionali in cui dice che non desidera cambiare lo status quo perché teme che questo convertirebbe il conflitto in una guerra infernale con tutto il mondo musulmano. Però allo stesso tempo non frena le aggressioni e le provocazioni dei circoli fondamentalisti. E questi vengono accontentati con decisioni che, al contrario, limitano l’arrivo di credenti musulmani sul luogo.

Sarebbe conveniente che l’Europa e gli Usa (se non fossero presi da calcoli elettorali), si svegliassero: Netanyahu e i suoi compari ci stanno portando a un conflitto religioso. Un conflitto politico si può risolvere, uno religioso no.

Il problema oggi non è l’Unesco e le decisioni europee ma l’apatia internazionale di fronte all’aggravarsi dell’occupazione; il consolidarsi di nuovi insediamenti che sono un ostacolo alla pace.

Quattro milioni di esseri umani sprovvisti dei più elementari diritti non sono ascoltati dai politici irresponsabili che non si preoccupano neanche di leggere le dichiarazioni dell’Unesco e ancor meno capiscono che la lotta per una pace vera è urgente e necessaria.

postilla
L'Unesco rimprovera il governo israeliano di non consentire gli interventi amministrativi, gestionali manutentori e religiosi nella Moschea di Al Aqsa, il terzo luogo sacro per i musulmani, costruito nell’anno 705. La pretesa di Netanyahu si fonda sul pretesto che sul medesimo sito esisteva, secoli prima,un tempio, sacro agli ebrei , distrutto durante la rivolta contro i romani nell’anno 70. Il lettore che voglia essere un po' più serio di Matteo Renzi legga il testo del documento dell'Unesco, disponibile qui.

«I negoziati sul Ceta sono cominciati nel 2009 e si sono conclusi nell’agosto del 2014. Sono stati condotti quasi in segreto, se si eccettuano quattro incontri con i rappresentanti di alcune aziende a Bruxelles».

Internazionale online, 18 ottobre 2016 (c.m.c.)

Il 17 ottobre il parlamento della Vallonia ha votato contro l’Accordo economico e commerciale globale (Ceta), il trattato di libero scambio tra l’Unione europea e il Canada. Il Ceta ha sollevato diverse polemiche e viene contestato da molti gruppi ambientalisti, sindacalisti e partiti di sinistra europei.

La posizione del piccolo parlamento belga rischia di complicare l’iter del trattato, ma la Commissione europea ha intenzione di firmarlo. I ministri del commercio dell’Unione europea sono riuniti a Lussemburgo per trovare una soluzione. Ma come si è arrivati al Ceta e perché viene contestato? Ecco un riassunto in otto punti.

La firma del Ceta è prevista per il 27 ottobre 2016, in occasione del vertice tra Bruxelles e i vertici del paese nordamericano. Per l’approvazione definitiva serve la ratifica dei governi e del parlamento europeo. Tutto quello che sappiamo sul trattato è contenuto nel documento pubblicato dall’Unione europea dopo la firma preliminare.

Si tratta di un testo lungo e complesso, di circa 1.600 pagine.
I negoziati sul Ceta sono cominciati nel 2009 e si sono conclusi nell’agosto del 2014. Sono stati condotti quasi in segreto, se si eccettuano quattro incontri con i rappresentanti di alcune aziende a Bruxelles.

L’obiettivo del Ceta, secondo chi l’ha scritto, è eliminare il 99 per cento dei dazi doganali e degli altri ostacoli per le aziende, in modo da far aumentare le esportazioni, ma anche rendere più facile l’accesso agli appalti pubblici da parte delle aziende europee in Canada e viceversa.

Il Ceta, sostengono i suoi promotori, rende più aperto il mercato dei servizi, offre condizioni più vantaggiose agli investitori e previene la circolazione di copie illecite di innovazioni e prodotti tradizionali dell’Unione europea come il parmigiano reggiano, il Cognac, il formaggio Roquefort o le olive toscane o il salame ungherese.

Gli oppositori del Ceta contestano diversi punti del trattato. Secondo loro, l’eliminazione degli “ostacoli” alla produttività delle aziende porterà in realtà a una diminuzione della sicurezza alimentare, dei diritti dei lavoratori e delle tutele ambientali.

Un esempio, secondo il Guardian, è quello delle cosiddette tar sands, o sabbie bituminose. Si tratta di sabbie impregnate di petrolio misto ad acqua e argilla, che si trovano in superficie e il cui processo di estrazione causa grossi danni all’ambiente. La maggior parte della tar sands viene estratta nell’Alberta, in Canada, e , con l’approvazione del Ceta, il loro uso potrebbe diventare frequente anche in Europa.

Al centro delle critiche c’è anche la riforma del sistema degli arbitrati: con il Ceta saranno creati dei nuovi tribunali per la risoluzione delle controversie tra aziende e stati. Secondo gli oppositori, il trattato potrà essere impugnato dalle multinazionali per fare causa a uno stato per tutelare i loro profitti.

La capacità dei governi di controllare le banche e i mercati finanziari inoltre rischia di essere ulteriormente compromessa. Limitare la crescita delle banche che sono diventate “troppo grandi per fallire” potrebbe costringere i governi a doversi difendere in tribunale.

Negli ultimi mesi in diversi paesi europei ci sono state manifestazioni contro il trattato. Il 17 settembre in Germania duecentomila persone hanno protestato contro il Ceta e il Tttip (il trattato di libero scambio tra Ue e Stati Uniti che al momento è più in alto mare). Quattro giorni dopo c’è stato un altro corteo a Bruxelles. Il 15 ottobre migliaia di persone sono scese di nuovo in piazza a Parigi, Varsavia e Madrid.

». il manifesto, 13 ottobre 2016 (c.m.c.)

Davvero è sempre tutto grasso che cola? Prendiamo in esame la città dove tutto sembra risplendere, il laboratorio dell’innovazione che dovrebbe prendere per mano l’Italia – come dice il presidente del Consiglio. Qui, a Milano, tutti gli indicatori promettono benessere e una certa spensieratezza. I turisti accorrono (7,7 milioni nel 2016, 14esima città del mondo più visitata, un paio di posizioni sopra Roma), la popolazione cresce (172 mila abitanti in più negli ultimi dieci anni), i giovani laureati trovano lavoro e il reddito pro capite continua ad aumentare anche in tempo di crisi (negli altri capoluoghi lombardi è accaduto il contrario). Bene.

Ma non è tutto. Ci sono altri indicatori che raccontano la città, solo che vengono sbandierati con meno insistenza: a Milano, per esempio, 13 mila minorenni non hanno da mangiare e ricevono il cibo da strutture assistenziali. Il dato è stato fornito ieri dal Banco Alimentare che ha dipinto un quadro a dir poco desolante, per l’Italia intera. Secondo l’associazione, gli indigenti lombardi sono 670 mila (100 mila in più rispetto all’anno precedente).

Fra questi, circa 60 mila non hanno ancora compiuto 18 anni. A livello nazionale, i minori che patiscono la fame sono un milione e 131 mila. Dal 2008 ad oggi l’incidenza della povertà assoluta sulle famiglie con più figli a carico è aumentata del 250%: “La loro crescente vulnerabilità è legata alla disoccupazione dei genitori”. In tutta Italia (dati Istat) si contano quasi 4 milioni e 600 mila poveri. In totale, i pasti inseriti nei pacchi viveri sono stati 29 milioni e 5 milioni quelli cucinati dalle associazioni: 93.400 pasti distribuiti ogni giorno (lo spreco di cibo in Italia viene quantificato in 5,1 milioni di tonnellate all’anno).

Tocca all’assessore alle politiche sociali del Comune di Milano, Pierfrancesco Majorino, approcciarsi in qualche modo con l’altra Milano che non riesce a raccogliere nemmeno le briciole. “Stiamo per partire con un’iniziativa di sostegno per le famiglie impoverite dalla crisi, con buoni spesa che mettiamo a disposizione delle famiglie più bisognose che possono essere spesi presso alcuni negozi accreditati, perché il rischio è che la povertà si abbatta tra i più fragili, cioè i figli piccoli delle famiglie povere”. Per gli ultimi due mesi dell’anno Palazzo Marino mette a disposizione 750 mila euro. Nel 2017 l’intervento di sostegno dovrebbe essere reiterato.

«i». Il Fatto Quotidiano online\F2 Magazine/ Attualità,12 ottobre 2016 (c.m.c.)

Il male di vivere mai nascosto, una malinconia spessa e nebbiosa come le strade d’inverno della sua Monterosso, «poesia che molto all’ingrosso si può dire metafisica», l’odore dei limoni. Eugenio Montale lo studi a scuola e poi quasi te ne dimentichi, conservando il vago ricordo di quella che a tredici anni t’era sembrata una cupezza troppo incombente.

Te ne dimentichi, come sembra essersene dimenticata la sua Genova: «Il centoventesimo compleanno di Eugenio Montale, nato a Genova il 12 ottobre del 1896 – scrive Donatella Alfonso su Repubblica – passa praticamente sotto silenzio. In corso Dogali, sul grande palazzo in curva dove il poeta era nato, una targa in marmo sbiadisce tra sole e pioggia».

Autodidatta, Montale pubblica la sua prima raccolta di liriche nel 1925, Ossi di seppia. Alla fine della Seconda Guerra mondiale si iscrive al Partito d’Azione e inizia un’intensa attività giornalistica per il Corriere della Sera. Senatore a vita nel 1967, nel 1975 arriva il Nobel per la Letteratura. Nel suo 120esimo compleanno, alcune poesie e aneddoti, per provare a colorare quei ricordi adolescenti fatti di banchi troppo piccoli e cattedre incombenti.

Ho sceso dandoti il braccio (Composta nel 1967 è dedicata alla moglie Drusilla Tanzi. E’ la poesia n.5 di Xenia II)

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.

Prima del viaggio (Satura 1962 – 1970)

Prima del viaggio si scrutano gli orari,
le coincidenze, le soste, le prenotazioni
e le prenotazioni (di camere con bagno
o doccia, a un letto o due o addirittura un flat);
si consultano
le guide Hachette e quelle dei musei,
si cambiano valute, si dividono
franchi da escudos, rubli da copechi;
prima del viaggio s’informa
qualche amico o parente, si controllano
valige e passaporti, si completail corredo,
si acquista un supplemento
di lamette da barba, eventualmente
si dà un’occhiata al testamento, pura
scaramanzia perché i disastri aerei
in percentuale sono nulla; prima
del viaggio si è tranquilli ma si sospetta che
il saggio non si muova e che il piacere
di ritornare costi uno sproposito.
E poi si parte e tutto è O.K. e tutto
è per il meglio e inutile.
E ora, che ne sarà
del mio viaggio?
Troppo accuratamente l’ho studiato
senza saperne nulla. Un imprevisto
è la sola speranza. Ma mi dicono
ch’è una stoltezza dirselo.

Non c'è necessariamente contraddizione tra oligarchia e demagogia. Quando l'oligarchia è incardinata su un Capo come Renzi, dotato di capacità demagogiche e di strumenti che gli consentono di raggiungere il demos, divenuto "liquido" la sintesi tra i due termini avviene. L'avevamo già visto con Mussolini. La Repubblica, 6 ottobre 2016

DEMAGOGIA, non oligarchia è la forma corrotta della democrazia che rischiamo in questi tempi. Il timore della formazione di una nuova oligarchia paventata da Gustavo Zagrebelsky nel suo dibattito con Matteo Renzi, e commentata con accenti diversi da Eugenio Scalfari e Nadia Urbinati, non è altro che la rappresentazione di una realtà. Ma non sul versante politico. Piccoli gruppi portatori di interessi particolari dominano l’economia, non la politica. In politica, semmai scontiamo un deficit di rappresentatività e rispondenza delle élite, non l’arroccarsi al potere di un ristretta componente in grado di determinare i destini di una nazione. Pensiamo alla campagna “napoleonica” con cui Matteo Renzi ha sbaragliato avversari consolidati, sulla scena da decenni. Grazie alla sua Austerlitz, una nuova generazione è arrivata nella stanza dei bottoni. Lo stesso vale, piacciano o meno i loro messaggi e il loro stile, per i 5 Stelle che hanno immesso in Parlamento un’ampia schiera di matricole. La politica italiana è quindi in una fase di tumultuoso rinnovamento che sta mescolando le carte in maniera frenetica. Chi poteva pensare che nell’arco di due anni un “giovanotto” (detto in termini puramente anagrafici) sconosciuto a tutti come Luigi di Maio fosse un potenziale aspirante al ruolo di presidente del consiglio? Tutto bene allora? Ovviamente no, per una ragione molto semplice: questi due esempi di rinnovamento sono avvenuti tumultuosamente, fuori da binari definiti, in una sorta di processo rivoluzionario, scuotendo dalle fondamenta il ruolo e il prestigio del partito politico in quanto tale. Guardiamo al caso britannico per capire la differenza. Passata la Brexit, il partito conservatore ha attivato il ricambio della leadership al suo interno, in maniera rapida ed efficiente, seguendo regole ben rodate. Questo perché i partiti in Gran Bretagna hanno ancora l’autorevolezza per guidare la politica. Non devono “appellarsi al popolo” per governare. Hanno ricevuto un mandato e lo esercitano. E se falliscono, come nel caso di David Cameron, rassegnano le dismissioni lasciando ad altri il compito di proseguire.

In Italia, la tensione che si respira con l’avvicinarsi del referendum, di cui hanno parlato, con accenti diversi, Guido Crainz e Roberto Esposito, riflette lo smarrimento per la perdita di ancoraggi collettivi, rappresentati un tempo dai partiti. Il loro sgretolamento identitario ed organizzativo — o la loro reinvenzione in forme ancora indefinite come nel caso dei grillini — lascia un vuoto nella società. Privi di un riferimento consolidato i cittadini fluttuano in un ambiente politico liquido e sono per questo più sensibili di un tempo a richiami “essenziali”, anche brutali nella loro schematicità: pensiamo allo slogan leghista “padroni in casa nostra”, a quanto di primordiale — ma di efficace — esso faccia riferimento. Pura, devastante demagogia.

La radicalità del confronto sul referendum, con tutto il disagio che Esposito segnalava, viene dal deterioramento di attori collettivi capaci di metabolizzare e delimitare i conflitti. L’onda anti-partitica viene da lontano nel nostro Paese e continua a montare. Certo, i partiti hanno mille difetti, e sono ai livelli minimi nella considerazione dei cittadini, in Italia come altrove. Ma sono l’unica stanza di compensazione possibile per gestire le diverse posizioni. Senza partiti radicati nella società, impegnati — ancora e di nuovo — a trasmettere le esigenze e le domande dei cittadini, si apre un varco all’irruzione dei demagoghi. Donald Trump non sarebbe mai arrivato alla nomination se il partito repubblicano non fosse stato squassato dal Tea party. L’antidoto ad un imbarbarimento della politica sta in partiti forti ed aperti alla società. Purtroppo è un auspicio più che una realtà.

«Arrestata a fine luglio, sulla base delle sue espressioni artistiche in una provincia a larga maggioranza kurda nonché dell’attività di direttrice di un’agenzia di stampa femminista, Jinha, Zehra Doğan non ha alcuna intenzione di arrendersi alla repressione cieca che divora la Turchia di Erdogan».

Comune.info, 2 ottobre 2016 (c.m.c.)

Alla fine di luglio Helen Stoilas informava sull’arresto di Zehra Doğan, in un articolo su The Art Newspaper, scrivendo: «L’artista e giornalista turca Zehra Doğan è tra gli arrestati questa settimana nel giro di vite del presidente Tayyip Erdogan dopo il colpo di stato militare fallito. Mercoledì 27 luglio, oltre a chiudere tre agenzie di stampa, 16 canali televisivi, 45 giornali, 15 riviste e 29 case editrici, secondo i dati ufficiali del governo, 47 giornalisti sono stati arrestati dalla polizia.

Negli ultimi cinque mesi, Doğan, che è il direttore dell’agenzia di stampa femminista Jinha, ha fatto reportage e ha dipinto dal quartiere Nusaybin della provincia di Mardin, una regione in gran parte kurda in cui è stato recentemente imposto un rigido coprifuoco. Secondo i suoi amici su Facebook, è stata arrestata dalla polizia mentre stava seduta in un caffè.

Giovedi, 21 luglio, Doğan è stata portata in tribunale, sulla base di una testimonianza anonima, che l’ha descritta e identificata come “una signora minuta con un anello al naso” – Doğan è stata accusata di essere un “membro di un’organizzazione illegale”, secondo l’agenzia Jinha.

La sua arte e la scrittura sono state usate contro di lei dalla procura come prova della sua appartenenza al Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), un gruppo di sinistra militante che si batte per i diritti dei curdi in Turchia, che il governo ha etichettato come “organizzazione terroristica”. La corte ha stabilito che deve essere tenuta in custodia in attesa del processo, che potrebbe richiedere mesi.

«L’arte e dipinti non possono mai essere utilizzati in tal modo,» l’avvocato di Doğan, Asli Pasinli, ha detto ai media dopo il suo arresto. «Questo è un attacco all’arte e all’espressione artistica.»

(tradotto da http://theartnewspaper.com/news/turkish-painter-and-journalist-zehra-do-an-arrested/)

Ecco alcune parole di Zehra Doğan, per chi non la conosce:

«Ho sempre cercato di esistere attraverso i miei dipinti, le mie notizie, e la mia lotta come donna. Ora, anche se sono intrappolata tra le quattro mura, io continuo a pensare che ho fatto assolutamente il mio dovere in pieno. In questo paese, buio come la notte, dove tutti i nostri diritti sono stati incrociati con sangue rosso, sapevo che stavo per essere imprigionata.Voglio ripetere l’insegnamento di Picasso: pensi davvero che un pittore è semplicemente una persona che usa il suo pennello per dipingere insetti e fiori? Nessun artista volta le spalle alla società; un pittore deve usare il suo pennello come arma contro gli oppressori. Nemmeno i soldati nazisti hanno cercato Picasso a causa dei suoi dipinti, e tuttavia io sono a giudizio a causa dei miei disegni. Terrò disegno. Quando una donna rilascia fiumi di colori, è possibile lasciare la prigione. Ma sono solo pennellate …. Non dimenticate mai, è la mia mano che tiene il pennello!»

Sembrava che di Zehra Doğan si fossero perse le tracce, invece qualche giorno fa è apparso su http://bianet.org un articolo che rassicura, Zehra Doğan, nella prigione di Mardin, non si arrende e continua a fare la giornalista.

Le donne della prigione di Mardin hanno creato un giornale “Özgür Gündem Zindan” (Prigione). L’originale quotidiano Özgür Gündem era stato chiuso il 16 agosto con un’irruzione della polizia nell’edificio dove era ospitato il giornale e la decisione di “chiusura temporanea” della corte è stato riportata dal giornale filogovernativo Yeni Şafak il giorno prima.

Zehra Doğan, uno dei redattori dell’agenzia e altre donne della prigione di Mardin, hanno creato a mano il giornale di 8 pagine il 12 settembre. Le immagini che accompagnano gli articoli disegnate a mano dalle donne stesse.

Il titolo del giornale fatto a mano è stato “I prigionieri politici resistono nelle carceri per Ocalan,” e il sottotitolo recita “vivere a Nusaybin (città curda attaccata dall’esercito turco) è un tradimento secondo lo stato turco!“.

Il giornale di 8 pagine comprende sezioni sulle donne, la politica, la cultura e le arti, l’ecologia e l’attualità, e anche una pagina in lingua curda.

Özgür Gündem Zindan ha pubblicato anche alcune interviste a donne detenute, ha affrontato argomenti come l’oppressione contro le donne, le detenzioni e le violazioni dei diritti nella prigione, così come lezioni di disegno sulla pagina di cultura e delle arti ed i benefici di prezzemolo e aglio nella pagina sull’ecologia (Ct / DG).

(tradotto da http://bianet.org/english/women/178859-women-prisoners-create-handmade-newspaper-ozgur-gundem-zindan)

Questo indecente governo italiano, sostenuto da un indecente Parlamento, continua a incoraggiare gli evasori fiscali( e a rendere sempre più poveri gli italiani). «Stabilità 2016. Si può tornare a commerciare liberamente con le società offshore »

Il Fatto Quotidiano online , 1° ottobre 2016 (p.s.)

È ufficiale: per il fisco italiano i paradisi fiscali non esistono più, si può commerciare liberamente con qualsiasi società offshore e perfino scaricarsi le spese e i pagamenti effettuati dalla dichiarazione dei redditi senza giustificazioni. La rivoluzione copernicana che ha drasticamente cambiato verso ai vecchi e superati metodi per mettere almeno un freno all’evasione, alle frodi e alle fughe di capitali, è contenuta in un comma della legge di Stabilità 2016. Sfuggito all’occhio dei più, una circolare dell’Agenzia delle Entrate gli ha dato in questi giorni piena attuazione.

Dal periodo d’imposta 2016 non sarà più necessario indicare separatamente in dichiarazione i costi considerati fino all’anno scorso in “black list”. Di più: saranno deducibili dall’imponibile secondo le regole ordinarie, come tutti gli altri. Di colpo tutto diventa più vecchio e privo di valore, a cominciare proprio dalla lista dei paesi a fiscalità “privilegiata” contenuta in un decreto ministeriale del 23 gennaio 2002 e costantemente aggiornata fino all’anno scorso in Gazzetta ufficiale. Serviva ad applicare una normativa che dal primo gennaio non è più in vigore.

Si dice che l’idea di far sparire la “black list” dall’ordinamento fiscale sia venuta proprio al premier Mattero Renzi dopo l’imbarazzo provato durante una visita in Oman, la Svizzera d’Arabia. Il Paese arabo è inserito nell’elenco degli Stati considerati dall’Italia paradisi fiscali e pare che nel sultanato, uno dei più grandi paesi investitori del mondo, l’abbiano presa come un affronto personale. Rottamarne solo uno? E gli amici degli Emirati? Allora via tutti.

E così nel cervellone dell’anagrafe tributaria, in grado di incrociare milioni di dichiarazioni di redditi d’impresa, non si illuminerà più un led quando nel campo della sede di una società comparirà “Bahamas” o “Panama” . La residenza nelle Isole Vergini britanniche o nelle Tremiti farà scattare le medesime, remote, probabilità di una procedura di controllo e le operazioni finanziarie per scambiare parcelle e fatture con una società che risiede nelle Cayman finiranno anonimamente nel calderone del bilancio, come il pagamento di un qualsiasi fornitore brianzolo.

Il ministero dell’Economia osserva che l’obiettivo dei provvedimenti è favorire l’attività economica e commerciale transfrontaliera delle nostre imprese. Fino al 2014 tutte le spese erano considerate indeducibili, a meno che il contribuente non dimostrasse che le imprese offshore fornitrici svolgevano una prevalente attività commerciale e che le operazioni effettuate rispondevano a un effettivo interesse economico.

Nell’intenzione del legislatore si sarebbero salvaguardate le imprese che commerciano effettivamente tra loro su grandi piazze di scambio a fiscalità agevolata come Hong Kong, Singapore o gli Emirati arabi. Mentre avrebbe reso difficile – o meno facile – le triangolazioni con società e soggetti “virtuali” domiciliati su uno scoglio oceanico. I vincoli di legge sono stati attenuati già nel 2015, fino a scomparire nella circolare 39/E/2016 dell’Agenzia delle Entrate.

La battuta d’arresto della normativa italiana sul contrasto ai paradisi fiscali arriva proprio quando esplode alle Bahamas il nuovo filone dell’inchiesta giornalistica internazionale che ha già portato allo scoperto i nomi nascosti dietro centinaia di conti correnti e società offshore, gestiti dallo studio Mossack Fonseca di Panama e pubblicati in Italia dal settimanale L’Espresso. Banchieri, industriali, nobili e finanzieri e tanti professionisti, avvocati, commercialisti: sono 417 i file riconducibili agli italiani scoperti nel database di Bahamas Leaks dall’International Consortium of Investigative Journalists, Icij).

Questa seconda, gigantesca fuga di notizie dopo i “Panama papers” riguarda i dossier di 175 mila società archiviate nel Registrar General Department, di Nassau. Il lavoro dei giornalisti ha portato alla luce solo una piccola parte dei capitali e delle imposte sottratte al fisco nelle decine di paradisi fiscali che, nonostante per l’Italia siano precipitati nel limbo, sono utilizzati ancora a pieno ritmo per far sparire o riciclare con facilità patrimoni dalla provenienza inconfessabile. Basta davvero un clic.

Il governo fascista dell'Ungheria ha perso la sua battaglia contro i rifugiati. Il referendum contro quel minimo di tolleranza espresso dall'Unione europea non ha raggiunto il quorum. Ma la lotta perché vincano ragione e carità, insieme a solidarietà e lungimiranza, prosegue. La Repubblica online, 2 ottobre 2016, h20,19

IL REFERENDUM contro la ripartizione Ue dei profughi in Ungheria non ha raggiunto il quorum. Il presidente dell'Ufficio elettorale nazionale ungherese (Nvi), Andras Patyi, ha detto in tv che non è stato raggiunta l'affluenza del 50%. Parlando al telegiornale della sera, Patyi però non ha fornito cifre riservandosi di annunciarle più tardi.

L'istituto demoscopico vicino al governo, Nezopot, ha pubblicato un exit-poll secondo il quale - con 3,2 milioni di preferenze - il 'No' ai migranti ha ottenuto il 95% dei voti validi, mentre i sì sarebbero stati appena 170 mila (5%).
Secondo il deputato Gergely Gulyas, membro del partito Fidesz del premier Viktor Orban, promotore della consultazione per respingere le quote, il dato è del 45%.
Le operazioni di voto sono iniziate alle 6 ora italiana per concludersi alle 19. I primi risultati dovrebbero essere resi noti dopo le 20.
Il premier Viktor Orbàn esce sconfitto da questa consultazione elettorale. Ha presentato il referendum come passaggio cruciale per la difesa dell'identità cristiana dell'Europa minacciata dalle migrazioni di "masse di persone sfortutante invitate" dall'Ue e sperava di ottenere un avallo plebiscitario alla sua politica concretizzatasi nella barriera di filo spinato eretta alla frontiera con la Serbia. Un muro, voluto dal premier, per impedire che l'Ungheria continuasse a essere un corridoio verso la Germania e la Scandinavia.

Il Fatto Quotidiano, 1° ottobre 2016

Lorenza Carlassare, professoressa emerita di Diritto costituzionale all’Università di Padova, è stata la prima donna in Italia ad avere questa cattedra. A guardarla ha la grazia di un personaggio di un romanzo di Agatha Christie, però le cose non le manda a dire, soprattutto quando in ballo c’è la Costituzione.

La cosa che le dà più fastidio di questa retorica?
Dire che con l’approvazione di questa riforma avremo benefici economici. È una cosa semplicemente ridicola.

Lo sostengono anche molti potentati economici.
Avranno paura che cada il governo. Dimenticando che era stato Renzi a legare la sua permanenza a Palazzo Chigi all’esito del referendum.

È anomalo che un governo si intesti una riforma costituzionale?
Assolutamente, il governo non dovrebbe avere niente a che fare con la modifica della Costituzione. Anzi, dovrebbe restarne fuori, essere imparziale. Intestarsela è contro lo spirito della Costituzione.

Perché questa riforma non va bene?
Perché non è vero che porta a una semplificazione del procedimento legislativo né che viene superato il bicameralismo paritario. Così come è previsto dalla riforma avremo un Senato che non è più eletto dai cittadini ma che manterrà molti poteri, anche in campo legislativo: basti dire che parteciperà paritariamente con la Camera a un’eventuale riforma costituzionale.

Qualcuno potrebbe dire, però, che nell’approvazione della stragrande maggioranza delle leggi il nuovo Senato avrà pochi poteri.
Non è vero, se prende il lunghissimo e noiosissimo nuovo articolo 70 c’è scritto che ogni legge approvata dalla Camera deve passare dal Senato, che può proporre modifiche. A questo punto ci sono un’infinità di ipotesi, divise per materia e per modalità, che possono comportare conflitti tra le due Camere. È lo stesso articolo che prevede questa possibilità di conflitti. E aggiunge che saranno risolti dai presidenti delle due Camere in accordo tra loro.

E se non c’è l’accordo tra i due?
Non si sa cosa accadrà. Ma si rende conto che razza di complicazione?

E cosa dice sull’elezione del presidente della Repubblica?
Qui le motivazioni sono addirittura basate sul falso e sull’inganno. I fautori della riforma dicono di avere aumentato le garanzie alzando, dopo le prime votazioni, le percentuali da maggioranza assoluta ai 3/5. Però dimenticano di dire che sono i 3/5 dei votanti anziché dei componenti. Le garanzie le abbassano, altro che alzarle.

Si dice che con l’Italicum si saprà subito dopo chi ha vinto. Ma in una Repubblica parlamentare è una cosa corretta?
Assolutamente no. Spetta al presidente della Repubblica aprire le consultazioni per capire chi potrà ricevere la fiducia delle Camere, dopodiché gli dà l’incarico per chiedere la fiducia. Non si può sapere il giorno dopo le elezioni chi sarà premier. In una Repubblica parlamentare funziona così.

Secondo lei perché il premier ha forzato così tanto su questa riforma?
Lui vuole modificare il sistema per arrivare a una verticalizzazione del potere e concentrarlo attorno alla figura del premier. Così potrà decidere tutto senza essere disturbato.

Truffetta dopo truffetta, bravissimo il governo Renzi a mescolare qualche spicciolo con l'aria delle promesse e dei rinvii, sollevando così una polvere rosa a fini di propaganda per il SI.

il manifesto, 30 settembre 2016

Malgrado la sua mole, la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza (Nadef) licenziato dal governo martedì notte, non riesce a nascondere le fragilità e le aporie della Renzinomics. Non scalda i cuori né a Bruxelles né a Roma.

Negli ambienti Ue si pensa di rimandare il giudizio definitivo al prossimo maggio in modo da non intralciare il cammino del governo verso il Referendum, fissato a dicembre anche per la legge di stabilità. In questo modo il governo potrebbe tentare di reperire quegli otto miliardi che gli permetterebbero di agire sulle pensioni, sulla “competitività”, sui contratti, sulle misure per la famiglia e per l’Università. Uno spruzzo di qui e uno di là per rinsaldare il fronte referendario del Sì che si sta già sfaldando, come impietosamente hanno evidenziato i fischi dell’assemblea di Firenze della Coldiretti. Naturalmente il taglio dell’Irpef è rimandato al 2018 (si fa per dire) per garantire quello dell’Ires che interessa alle imprese e per scongiurare l’incremento dell’Iva. Il debito italiano torna a crescere, siamo al 132,8% del Pil per colpa della deflazione appena attutita dalla ripresa dei prezzi del petrolio. La Commissione europea aveva già tollerato il rapporto deficit-Pil dall’1,8% al 2%. Ma questo a Renzi non basta. Vuole arrivare al 2,4% per potersi fregiare del titolo di combattente antiausterity.

Ma i conti non tornano. Lo afferma l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), che appone il bollino sulle previsioni tendenziali 2016-2017, ma esprime forti perplessità su quelle programmatiche e revoca in dubbio le stime governative per i due anni successivi. Non crede affatto che la crescita degli investimenti possa raddoppiarsi, sia nel settore delle costruzioni come in quello dei macchinari. Pensa che le stime governative sull’andamento del Pil nominale nel 2018 e nel 2019 siano del tutto gonfiate. «La crescita supposta dal Mef per i consumi delle famiglie appare, soprattutto per il 2018, elevata se si tiene conto dell’andamento complessivamente stagnante della massa retributiva reale», scrive l’Upb, ovvero i salari sono troppo bassi e inibiscono qualunque tipo di crescita. Non solo, l’Ufficio avverte che il commercio internazionale e la domanda mondiale sono in contrazione. Quindi le previsioni governative sono costruite sulla sabbia.

Intanto i dati veri e duri dell’economia si fanno sentire. L’Istat ritorna avverte che la fascia tra 25 e 49 anni ha perso in un mese 39mila occupati e 238mila in un anno. Anche la generazione nata nel 1980 («la più istruita di sempre» secondo Mario Draghi) è perduta e costretta a lavorare fino a 75 anni per uno straccio di pensione. Effetti del Flop Act e di ciò che lo ha preceduto.

La battaglia dei decimali è doppiamente perdente, fondata su stime improbabili e insiste su obiettivi scopertamente fallimentari. Come fare credere che i livelli salariali debbono rincorrere come Achille la tartaruga la produttività aziendale – che peraltro deriva da fattori di sistema che reclamano investimenti pubblici e innovazione -, quando invece proprio l’incremento delle retribuzioni può diventare un fattore potente di sviluppo della produttività del lavoro. E anticipare l’età pensionabile costringendo le persone a indebitarsi con le banche e a vedersi ridotta fino al 25% la propria pensione non elimina le sofferenze e aumenta l’indebitamento privato . Un perseverare tanto più diabolico se lo si confronta con la crisi del pensiero economico mainstream. La recente intervista di De Benedetti apre una voragine in quel mondo dominato dalla «folle scelta dell’austerity» per di più in piena deflazione, anche se poi non offre soluzioni alternative. Non è suo compito. Sarebbe quello di una sinistra da costruire.

Corriere della Sera, 29 settembre 2016

«Il problema è che mentre prima, pacificamente, si rubava per fare carriera all’interno dei partiti politici, adesso si usano altri sistemi. Al momento non è ancora chiaro quali siano, perché i processi relativi alle elezioni primarie non li abbiamo ancora fatti. Quando li faremo, scopriremo come funzionano». Sono parole di Piercamillo Davigo. E non sono parole destinate a passare inosservate; tanto più che le elezioni primarie in Italia le ha fatte il Pd.

Davigo firma con Gherardo Colombo un libro in uscita da Longanesi e che il Corriere ha potuto leggere in bozze: La tua giustizia non è la mia. Dialogo tra due magistrati in perenne disaccordo. Pagine che suscitano godimento intellettuale, per il raffronto serrato da cui emergono a ogni capitolo le differenze culturali tra due pm simbolo di Mani Pulite, e nello stesso tempo angoscia sociale, di fronte alla descrizione di un Paese che appare a volte irredimibile. Per intenderci, sul fatto che i politici non abbiano affatto smesso di rubare sono d’accordo entrambi. Scrive infatti Colombo: «A me pare che la corruzione oggi sia diffusa capillarmente come venti e passa anni fa, quando l’abbiamo svelata con le nostre indagini. Mi sembra però cambiata sotto il profilo fenomenologico. Allora quella di alto livello era quasi sempre connessa al finanziamento illecito dei partiti politici, era un sistema che, in quanto tale, rispondeva a regole precise; adesso è diventata più frammentata e anarchica». Non a caso «in Italia chi denuncia comportamenti illeciti nel campo della corruzione è considerato una spia. Vuol dire che la mentalità generale (non di tutti, per fortuna, ma di tanti) sta dalla parte dell’illecito e non del lecito. Finché esisterà questa mentalità, sarà il denunciante, e non colui che dovrebbe essere denunciato, che sta fuori dal sistema».

Tra i due è soprattutto Colombo a parlare di società, prevenzione, recupero, Costituzione. Davigo è più tranchant. «Giansenista» si definisce. E avverte l’amico: «Tu accordi all’uomo un grado di fiducia che, secondo me, assolutamente non merita». Il problema in Italia, sostiene Davigo, non è la repressione; è il fatto che di repressione non ce n’è abbastanza. Quanto alle intercettazioni, «se sono davvero irrilevanti, il nostro codice prevede già il reato di diffamazione a tutela del soggetto coinvolto. Il problema però è che non è quasi mai vero che sono irrilevanti. Possono essere utili ai fini del processo penale, pensiamo al traffico di influenze; oppure se sei una persona pubblica o un pubblico ufficiale e si scopre che gestisci un bordello, o prendi affitti in nero, è ovvio che non sono più affari privati».

Colombo parla dei suoi incontri con gli studenti su legalità e lotta alla mafia, Davigo replica: «La soluzione non può venire dalla mera educazione. Tu sei convinto che i ragazzi vengano ad ascoltarti perché sono interessati a quello che dici. In realtà, e basta tornare con la memoria alla nostra stessa esperienza di studenti, è comunque preferibile andare ad ascoltare qualcuno che viene a parlarti di un certo argomento piuttosto che stare in classe e assistere alla solita lezione, con il rischio di essere interrogati». E ancora: «Tu parti dal presupposto che l’uomo sia buono per natura. Stai vagheggiando il mito del buon selvaggio di Rousseau, rivelatosi del tutto infondato. Il fatto stesso che tu ritenga che gli individui andrebbero educati, significa che se vengono lasciati allo stato brado buoni non lo sono neanche un po’. Per questo è necessario ricorrere a un cosiddetto male necessario, ossia all’uso della forza». E a Colombo che lamenta il trattamento dei carcerati, replica: «Gran parte delle vicende che hai illustrato io le ho vissute quando ho fatto il servizio militare. Arrivi, ti svesti, ti tagliano i capelli, ti danno l’uniforme ossia un vestito uguale per tutti…». «Ma perché, Piercamillo, non possono cucinare, perché non possono tenere foto alle pareti?». «Sulle foto posso essere d’accordo. Sul fatto di cucinare non tanto. Perché possono essere fatte scoppiare le bombolette del gas contro gli agenti. Nelle carceri di altri Paesi nessuno cucina». Su un altro punto c’è intesa. Colombo riconosce che «i colletti bianchi sono quelli che non vanno mai in prigione». «Il problema è che ci dovrebbero andare, in galera — aggiunge Davigo —. In realtà, sono gli unici che utilizzano tutti gli strumenti studiati a beneficio degli altri. Che invece rimangono in carcere».

La disputa si accende anche sulla valutazione dei colleghi. «Da quel che dici sembra che da una parte ci siano i magistrati, bravi, e dall’altra il resto del mondo, cattivo — obietta Colombo —. Credo sia il caso di riconoscere che a volte le mancanze stanno anche dalla parte della magistratura». Risponde Davigo: «Certo che no! E comunque non lo devi dire a me, che deferisco un magistrato al giorno al collegio dei probiviri»
Due punti di vista (di Ferruccio De Bortoli e di Matteo Bortolon) su una persona che fu diversamente decisiva in diverse fasi della storia nazionale: negli anni della resistenza al nazifascismo e in quelli della globalizzazione capitalista.

Corriere della Sera il manifesto, 17 settembre 2016


Corriere Della Sera
L’ORGOGLIO DI SERVIRE IL SUO PAESE
di Ferruccio de Bortoli

«È la migliore intervista che ho fatto». «Quale presidente? Non l’ho letta». «E forse non la leggerà mai». Aveva l’aria quasi divertita Ciampi nel suo ufficio di senatore a vita, pochi mesi dopo aver lasciato il Quirinale. Quella mattina era soddisfatto di aver portato a termine un compito gravoso: rilasciare all’archivio di Stato un resoconto dettagliato, con tutti i documenti e gli appunti personali, dei suoi sette anni al Colle. L’etica repubblicana dell’ex governatore della Banca d’Italia (dal ‘79 al ‘93), diventato politico per necessità (del Paese, non sua), presidente della Repubblica dal ‘99 al 2006, imponeva l’assolvimento scrupoloso di ogni incombenza, anche la più piccola. Con meticolosità calvinista, acribia maniacale. La sindrome della scrivania vuota la sera, pulita, senza cose da evadere.

In banca, una volta, si faceva così. In estrema sintesi: senso del dovere e grande rispetto delle istituzioni. Istituzioni che Ciampi ha servito, sentendosene onorato, e mai occupato con sufficienza o persino con disprezzo come gli capitò di notare negli anni in cui dovette contenere il berlusconismo più rampante e anche un certo pressappochismo della sinistra di governo. Una disciplina quasi militare la sua, esercitata alla scuola della Banca d’Italia. Palazzo Koch era (ed è) una roccaforte del rigore quasi estranea al costume italiano, un’eccellenza nazionale che suscita più invidia e sospetti che ammirazione e gratitudine. Aveva un metodo di lavoro prussiano. «Mi concentro su una cosa alla volta, con calma».

La Banca d’Italia è stata per lui la seconda famiglia, il luogo da amare, la stanza del potere discreto che si esercita con la moral suasion, dove il tratto fermo e gentile è l’arma di governo più efficace. Una prassi che non conosce le durezze espressive del comando. Non c’è bisogno di gridare per farsi obbedire, né di battere i pugni sul tavolo. L’autorevolezza conta più delle amicizie influenti; le prove di serietà sono il migliore biglietto da visita. Non che Ciampi non avesse le sue durezze. Ricordo una sua telefonata particolarmente piccata quando il Corriere scrisse che non sarebbe succeduto come capo del governo a Prodi nel ‘98. Ci sperava e pare avesse già scritto il suo discorso.

In uno dei tanti colloqui che avemmo, mi raccontò che negli anni più difficili per l’economia italiana, nei momenti più bui delle responsabilità a Palazzo Chigi e in via XX Settembre, la sede del ministero dell’Economia, teneva in tasca un biglietto con il grafico della differenza dei tassi italiani rispetto a quelli tedeschi. Quel divario in termini di costo del denaro sarebbe diventato sinistramente famoso con la parola spread. Prima della moneta unica aveva raggiunto anche i seicento punti base, un disastro per il servizio del debito italiano.

Ciampi misurava i successi del governo con la riduzione di quel divario. Teneva costantemente sotto osservazione il grafico come fosse una pagella inappellabile. E non perché fosse ossessionato dal giudizio dei mercati e dal loro potere. Ma perché einaudianamente, da buon padre di famiglia, in questo caso molto allargata, faceva di conto. Oggi lo si fa assai meno. Ed era consapevole che senza una buona reputazione, senza dimostrare serietà di comportamento non si sarebbe andati da nessuna parte. L’Italia si sarebbe piegata sotto il peso dei propri difetti oltre che per il fardello del debito. Il suo governo uscì dalle secche pericolose della speculazione, consolidò il risanamento avviato da Amato dopo la crisi valutaria del ‘92 che coincise anche con l’attacco della mafia allo Stato. Una tempesta valutaria che si scatenò quando, da governatore della Banca d’Italia, ricevette la telefonata più drammatica della sua vita. La Bundesbank lo avvertiva che non avrebbe più sostenuto il cambio della lira, difesa già costata un’emorragia di riserve.

Negli anni in cui fu, nei governi Prodi e D’Alema, alla guida dell’economia vinse il sospetto degli alleati, in particolare i tedeschi, suscitò l’ammirazione di «falchi» come il ministro delle Finanze di Berlino Theo Waigel e, persino, del suo terribile collega olandese Gerrit Zalm. Il suo credito personale è stato tra i fattori di successo della rincorsa italiana per entrare nella moneta unica. E non dimenticheremo mai la sua espressione soddisfatta ed emozionata quando mostrò, fresco di conio, il primo euro uscito dalla Zecca. Era la vittoria di un ideale, nato tra le macerie della guerra e della Resistenza, combattute con onore, e coltivato nel sogno di Ventotene, nelle suggestioni azioniste e nell’entusiasmo repubblicano. L’euro come moneta di pace. Immaginiamo la sofferenza intima che un grande europeista come lui deve avere provato nell’assistere al lento e inesorabile indebolimento dell’Unione Europea, prigioniera degli egoismi nazionali. E il dispiacere nel vedere che i fantasmi del passato e i veleni del totalitarismo combattuti dalla sua generazione ricomparivano un po’ ovunque, specie in quell’Est che deve all’Unione Europea libertà e benessere.

Un italiano per bene, orgoglioso di aver servito il suo Paese, è stato - e lo sarà ancora nel posto che la Storia gli riserverà - il simbolo della serietà e della competenza. Merce rara, diciamolo. Il suo settennato ha avuto come obiettivo, quasi una missione, quello di rianimare il concetto di patria, di restituire agli italiani l’orgoglio dell’appartenenza, la gioia di cantare l’inno. Compito non facile in un Paese in cui durante la Guerra fredda c’era chi di patrie ne aveva due e il tricolore era appannaggio politico solo della destra. Ricordo che in un pranzo al Quirinale, appena insediato nel ‘99, mi disse che avrebbe voluto visitare tutte le province italiane. Impegno che rispettò quasi fosse un fioretto laico. In quell’occasione il suo consigliere Arrigo Levi fece firmare a tutti i presenti il menù e promise che li avrebbe raccolti per i successivi sette anni. «Si rispettano tutti gli impegni, anche i più piccoli». Sorridemmo. La tenacia di Levi venne premiata, come quella del presidente. Tra le sue eredità, l’organizzazione delle celebrazioni nel 2011 del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. L’occasione per celebrare il ritorno del senso di patria che per lui non era morto l’8 settembre del 1943. Un testimone raccolto, splendidamente, dal suo successore Napolitano. Quel marzo del 2011 rimane nella memoria collettiva degli italiani, al pari di Torino 1961, un momento significativo della costruzione identitaria nazionale.

L’economista Ciampi, che era laureato in Lettere, il banchiere centrale più mitteleuropeo che romano, ha sempre avuto per la politica un grande rispetto, pur tenendosi a distanza. Ne temeva le insidie anche se ne sentiva il fascino che a volte per un tecnico può essere irresistibile. Non coltivò però il sogno di improbabili discese in campo, quando dovette preparare con il suo governo le elezioni che nel ‘94 videro il primo trionfo di Berlusconi. Rinunciò al comizio finale che per le regole delle tribune politiche spetta al presidente del Consiglio in carica. Si ritirò in buon ordine in un piccolo ufficio messogli a disposizione dalla Banca d’Italia. Non sperava di tornare al governo e nemmeno di andare al Quirinale. Il Corriere , in un editoriale a firma di chi scrive, lo propose nella primavera del ‘99 come il candidato più autorevole. Ciampi chiamò la mattina seguente. «Grazie direttore, ma non so se mi ha fatto un favore». Poche settimane dopo l’accordo sul suo nome fu trovato con un consenso ampio. E la nomina avvenne al primo scrutinio. In un clima di concordia nazionale del quale oggi abbiamo profonda nostalgia.

il manifesto
DUE COSE SU CIAMPI

di Matteo Bortolon

«Carlo Azeglio Ciampi fu (anche) economista e banchiere. A lui si devono due scelte che l'Italia sta ancora pagando con costi pesantissimi. Il "divorzio" di Bankitalia e Tesoro (deciso con Andreatta) nel sostegno al debito pubblico degli anni '80 e la liberalizzazione totale del mercato finanziario negli anni '90»

Buona parte della stampa traccia oggi un ritratto dell’appena scomparso Carlo Azeglio Ciampi. Grande statista, grande premier, giusto, elegante, sobrio. Se la sobrietà era una delle sue qualità altrettanto non si può dire dei suoi elogiatori attuali.

A destra si sottolinea il patriottismo con le forti connessioni con il Risorgimento. A sinistra l’esser stato partigiano, l’europeismo, «uomo delle istituzioni», l’aver portato l’Italia nell’euro. Per trovare delle critiche bisogna ridursi a cercare nell’area destra radicale – Lega. Ovviamente il bilancio di una eredità politica non potrà che essere più meditato, magari includendo qualche parte un po’ meno «entusiasmante» come il ripristino della parata militare il 2 giugno…

In questo spazio si intendono ricordare due questioni direttamente riconducibili all’azione politica di Ciampi, che presumibilmente non entreranno molto nel dibattito. Le cui pesantissime conseguenze l’Italia sta tutt’ora vivendo.

Carlo Azeglio Ciampi è stato economista e banchiere. Fra il 1979-1993 ha ricoperto la carica di governatore della Banca d’Italia. In questa veste ha promosso un evento che ai più è rimasto completamente inosservato: il cosiddetto divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia. Come spiegherà qualche anno più tardi l’altro comprimario di tale atto, Beniamino Andreatta, nel 1981, lui in qualità di ministro delle Finanze si mise d’accordo con l’allora governatore per sancire il fatto che Bankitalia non avrebbe più sostenuto il debito pubblico italiano acquistando i titoli andati invenduti, e così abbassandone il prezzo.

Si trattò in pratica di una liberalizzazione del settore finanziario interno, per cui solo il mercato avrebbe deciso il costo dell’indebitamento dello stato. L’ex ministro lo dirà esplicitamente in un’intervista anni più tardi: «Naturalmente la riduzione del signoraggio monetario e i tassi di interesse positivi in termini reali si tradussero rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e l’escalation della crescita del debito rispetto al prodotto nazionale».

Un anno prima del «divorzio», Ciampi aveva esposto con una sinistra chiarezza il nuovo assetto da costruire: «L’ultimo decennio ha visto crescere ancora la somma delle domande sociali rivolte alle strutture pubbliche. E’ giunto a un punto di tensione il movimento che prese avvio dalla crisi degli anni trenta e che portò in tutti i paesi ad assegnare alla politica economica e sociale un ruolo centrale e permanente».

Tali parole sono del 1980. Si avviava il processo che avrebbe reso indipendente la banca centrale consegnando il famoso potere del mercato sullo stato in materia di titoli pubblici – che anni più tardi si sarebbe reso famoso come il famoso spread. I due protagonisti intendevano così rendere l’Italia adeguata all’Europa in costruzione, liberista e oramai già incardinata nello Sme che il Pci aveva a sua volta contrastato.

L’effetto fu l’indebitamento crescente delle casse pubbliche in virtù di un atto che costruiva, come ribadisce lo stesso Andreatta, il «potere monetario» come quarto potere indipendente dagli altri. Un effetto ulteriore fu però di ingigantire la rendita di chi si poteva permettere di prestare soldi allo stato – a meno che non si abbassasse drammaticamente la spesa sociale – e di aumentare la disoccupazione dirigendo risorse nell’investimento finanziario.

Buona parte del dominio della finanza deriva da tale processo. E sarebbe giunto a compimento quando ai primi anni Novanta si sarebbe proibito con direttiva europea ogni vincolo alla libera circolazione di capitali, e poco dopo approvato una legge che demoliva la distinzione fra banche d’affari e d’investimento, saggiamente stabilita ai tempi di Roosevelt e recepita nella legge italiana nel 1936. E chi la fece la nuova legge? Carlo Azeglio Ciampi. C’è molto di che riflettere sulla sua memoria.

La risposta meritata da un ambasciatore che non sa fare il suo mestiere. A qualcuno viene il dubbio che sia condizionatodai nemici di Re Matteo.

L'Espresso online. blog "Piovono rane", 14 settembre 2016

Gentile ambasciatore Phillips,

personalmente non sono tra quelli che che si scandalizzano per il suo intervento di ieri sul referendum italiano: anzi, qui si apprezza la franchezza nell'ammettere che gli Stati Uniti continuano a condizionare la politica italiana, come hanno sempre fatto da quando ci liberarono dai nazifascisti.

Tra l'altro, cinquant'anni fa a interferire eravate solo voi e il Vaticano: oggi i poteri esterni che limitano la democrazia in Italia (e non solo) sono molto di più - e spesso si tratta di concentrati finanziari indecifrabili, senza volto, senza nome. Al confronto dei quali il suo intervento fa quasi tenerezza, perché ci fa sentire tutti più giovani, ci rimanda a un mondo più semplice.

Semmai quello che mi ha stupito è che nessuno l'abbia avvertita, avvocato Phillips, dell'"effetto boomerang": con tutto il rispetto e l'ammirazione per gli Stati Uniti, l'idea che la maggiore potenza del mondo voglia cambiare la Costituzione italiana forse a qualche italiano non sembra piacevolissima.

Mi chiedo quindi che consiglieri abbia, lì in via Veneto. Da da quali fonti tragga la sua lettura delle cose nostrane.

E qui viene il punto, ambasciatore. Le sue fonti, i suoi informatori. È la questione fondamentale.

Vede, quando sei anni fa WikiLeaks pubblicò una serie di cablogrammi della diplomazia americana, qui ci si è tutti divertiti a scoprire che consideravate Berlusconi "un clown" ma non si è guardato abbastanza al punto più stupefacente che emergeva da tutta la vicenda: cioè, appunto, la qualità delle vostre fonti.

Abbiamo cioè scoperto che l'ambasciata Usa informava Washington sulle cose italiane ritagliando e traducendo articoli di giornali. E con criteri di scelta - diciamo - un po' superficiali. Noi, che forse abbiamo letto troppa letteratura spionistica, pensavamo che per sapere cosa succedeva in Italia gli Usa si avvalessero di chissà quali teste d'uovo, chissà quali infiltrati nei gangli di potere, chissà quali iniziati alle segrete cose. Invece ritagliavate un po' di editoriali, poi li mandavate al Dipartimento di Stato con quattro notarelle di commento. By the way, nel casino dei cablogrammi a un certo punto ho appreso che avevate classificato come "confidential" pure una cosa che avevo scritto io su questo blog, e le confesso che ci ho riso una settimana, con gli amici.

Ecco, tutto questo per dire che forse il suo intervento sul referendum costituzionale è frutto di un increscioso equivoco. Di qualche informazione letta in giro, ma poco approfondita. Chessò, tipo un editoriale di Panebianco, per capirci.

Le spiego: sì, le intenzioni iniziali di Matteo Renzi erano più o meno quelle che dice lei, cioè aumentare la governabilità anche a discapito della rappresentanza, velocizzare l'iter legislativo, accrescere il potere del premier rispetto al Parlamento. Questo obiettivo può piacere o non piacere (a me, ad esempio, non piaceva), ma era sicuramente l'intenzione del nostro attuale premier. E, se il disegno fosse andato in porto così come concepito, avrebbe probabilmente avvicinato l'Italia al sistema americano, anzi forse avrebbe ridotto ancora di più i contrappesi di potere rispetto a quelli di cui godete voi oltreoceano.

Ma, ambasciatore, il punto è che poi non è andata così.

Qui siamo in Italia. Che è un posto complicato. Dove oltre ai partiti ci sono le correnti, le cordate, i transfughi. E soprattutto una subcultura dell'arzigogolo che a Bisanzio in confronto era tutto lineare.

Quindi la legge che aveva in testa Renzi - a forza di mediare con Verdini, di cercare la quadra con Bersani e di accontentare Alfano - si è trasformata in una cosa che non velocizza affatto l'iter legislativo ma anzi lo complica, creando un'infinità di varianti, di de cuius, di possibilità diverse. La vaghezza della norma finale - insieme alla pessima forma in cui è stata scritta - lascia spazio a interpretazioni quasi infinite, quindi a potenziali dispute altrettanto eterne. E se - Dio non volesse - di qui ai prossimi anni dovessimo avere in Camera e Senato maggioranze e presidenti di opposti partiti, il tutto si declinerà in una montagna di conflitti davanti alla Corte Costituzionale. La quale sarà in ogni caso impegnata notte e giorno a dirimere le competenze tra Stato e Regioni in questioni relative a industria, agricoltura, artigianato, per esempio.

Se non ci crede, ambasciatore, si faccia tradurre il testo della Renzi-Boschi. In particolare l'articolo 70. Con tanti auguri ai traduttori, perché già chi è madrelingua italiano fatica a comprenderlo.

Ecco, avvocato Phillips, io temo fortemente che lei sia caduto in un tranello per la cattiva informazione che le hanno riportato.

Così come probabilmente per scarsa capacità di lettura delle cose italiane non le hanno detto che il problema degli investimenti stranieri nel nostro Paese è direttamente collegato non con la Costituzione della Repubblica (che parla d'altro) bensì con gli ostacoli concreti e reali che tutti gli investitori del mondo si trovano davanti al naso quando mettono dei soldi nello Stivale: corruzione diffusa, malavita organizzata e non, burocrazia farraginosa, incertezza delle norme, lungaggini nella loro applicazione, ritardi grotteschi nei pagamenti delle fatture e così via.

Insomma, se qui arrivano pochi investimenti è per via della parte peggiore dell'Italia, avvocato Phillips, non per la Carta del '48: che è invece una delle cose migliori prodotte da questo Paese.

Sono certo che lei, se ben informato, saprà distinguere: così come passeggiando per Roma ha imparato negli anni a distinguere le bellezza dei suoi vicoli e dei suoi monumenti dalla bruttezza della sua monnezza e del suo traffico.

Con la più viva cordialità e i migliori auguri di buon lavoro.

. La Repubblica, 26 settembre 2016 (c.m.c.)

La decisione di Renzi di fissare il rapporto deficit-Pil del prossimo anno al 2,3 (e, se riuscirà ad ottenere da Bruxelles il via libera, al 2,4) rende meno complicata la strada del governo, ma prepariamoci ugualmente a stringere la cinta per circa 7 miliardi: dalla sanità, ai beni e servizi, alle partecipate. Risorse anche da nuove entrate come il rientro dei capitali-bis, la lotta all’evasione dell’Iva, giochi e frequenze.

Il Consiglio dei ministri previsto per oggi si occuperà di referendum: slitta dunque a domani la riunione per l’aggiornamento del Def. Intanto si rifanno i conti: i nuovi margini dovuti alle circostanze eccezionali (terremoto, migranti e minore crescita) ci consentiranno di sterilizzare l’aumento dell’Iva e di scongiurarlo definitivamente (il valore è 0,9 del Pil circa 15 miliardi). A scanso di equivoci il governo non molla la presa su Bruxelles: la flessibilità «ce la siamo guadagnata perché abbiamo fatto riforme e investimenti » ed è «sbagliato» non prolungarla nel tempo, ha detto il ministro per lo Sviluppo Calenda a L’intervista di Sky Tg24.

Sostanzialmente la questione dell’Iva sarà risolta aumentando il deficit e spostando il livello del fatidico rapporto con il Pil al 2,3-2,4 per cento: in questo modo si coprirà completamente la differenza con il vecchio deficit tendenziale dell’aprile scorso (1,4-1,5 per cento: rapporto così basso perché dava per effettuato il pericoloso aumento dell’Iva di 2 punti) e superando di slancio l’1,8 programmatico che aveva già avuto un mezzo via libera da Bruxelles. Insomma per evitare l’aumento dell’Iva non dobbiamo fare tagli ma ci basta aumentare il deficit.

La boccata di respiro c’è, necessaria per rilanciare la nostra economia, ma per arrivare ai 22-24 miliardi di manovra lorda (cioè il mancato aumento dell’Iva per 15 miliardi coperto con la nuova flessibilità più i 7-8 di nuovi interventi sull’economia) restano da trovare ancora nuove risorse. Si tratta infatti di finanziare le misure sulle pensioni, i contratti degli statali, povertà, Industria 4.0 (superammortamento, imposta unica per le società di persone, salario di produttività), ecobonus e interventi sui condomini, bonus scuola-bis, investimenti, terremoto.

Dunque la “nuova flessibilità” o comunque la decisione di portare l’asticella del deficit più in alto non basterà e si dovrà mettere mano alle forbici, operazione che tuttavia potrà essere indicata solo sommariamente nell’imminente “nota“ al Def e che sarà contenuta nella legge di Bilancio che potrà arrivare in Parlamento entro un paio di settimane.

La caccia ai 7-8 miliardi è aperta da tempo, ma stando alle ultime indicazioni il menù si starebbe focalizzando. Non è affatto escluso il taglio, o aumento ridotto, al fondo sanitario nazionale pari ad un miliardo. Il complesso della spending review resta ben saldo anche se la cifra dovrebbe assestarsi intorno ai 2 miliardi tra operazione tradizionale sull’acquisto di beni e servizi e ed altri risparmi cui vanno aggiunti 500 milioni dalla chiusura delle società partecipate. Il resto verrà da maggiori entrate: la prima misura in ballo è la voluntary disclosure [cioè un premio agli evasori fiscali che si pentono un po'- n.d.r.]- bis per la quale si stimano 1,5 miliardi di gettito sulla base di una ipotesi di capitali da recuperare fino a 30 miliardi.

L’altra posta sulla quale conta molto il governo è il cosiddetto split payment, una norma che consente da circa un anno all’amministrazione pubblica di trattenere l’Iva dei fornitori assicurando un versamento sicuro e integrale: il gettito sarebbe maggiore del previsto e potrebbe essere cifrato in 1,5 miliardi. Il resto verrà da interventi fiscali sui giochi e dalle frequenze per circa 500 milioni.

Il Fatto Quotidiano, 5 settembre 2016 (p.d.)

Portare il freddo in Africa per evitare che il cibo prodotto venga buttato prima di arrivare sul tavolo dei consumatori. In un’epoca di tecnologie avanzate, uno spreco davvero paradossale, soprattutto in un continente dove la fame uccide così tanto”: è questa l’ultima scommessa di Madi Sakande, originario di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, in Italia dal 1997, alla guida di una storica azienda di refrigerazione e climatizzazione a Calderara di Reno, nel Bolognese.
Una storia di sfide e successi quella di Sakande, classe 1972, sbarcato dal Burkina Faso con un visto turistico per fare visita a un parente immigrato, un periodo di clandestinità e una sanatoria nel 98. A 25 anni, la voglia di esplorare il mondo e il sogno nel cassetto di diventare calciatore lo portano in Italia. Un sogno infranto per via di un infortunio in pieno allenamento sportivo nel Foggiano, pochi mesi dopo il suo arrivo. Guardandosi indietro, Sakande ricorda: “Al mio arrivo in Italia non capivo niente quando mi parlavano. Conoscevo solo la parola ‘ciao’, quella della mascotte italiana ai mondiali del 90. Al l’inizio la difficoltà maggiore era di non potere comunicare!”. Nel Sud Italia, come molti dei suoi connazionali, ha lavorato nei campi, alla raccolta dei pomodori e “quando sei senza documenti, ti sfruttano come se fossi uno schiavo”.

La svolta è arrivata dopo il trasferimento a Bologna. Grazie ad una formazione scientifica e all’esperienza professionale nel settore dei frigoriferi nel paese di origine, per dodici anni Sakande si è fatto le ossa in un’azienda del settore del freddo e condizionamento per la quale ha curato l’ufficio commerciale, girando per tutta l’Emilia Romagna e l’Italia, diventando responsabile della clientela anche nei paesi dell’Europa dell’Est. “Non mi sono mai perso d’animo di fronte a pregiudizi e ostacoli, facendo affidamento sulla mia determinazione e forza interiore – confida – ispirandomi alla grande figura di Thomas Sankara, ho capito che se vuoi cambiare la tua vita e il mondo che ti circonda la rivoluzione deve cominciare dentro di te. Dalle difficoltà nascono le opportunità più grandi di crescita. E questo è sempre stato un mio cavallo di battaglia”.

Nel 2010, la voglia di realizzare un progetto professionale in proprio per “non dipendere più da nessuno”. Con un gruppo di colleghi la decisione di cominciare una nuova avventura, prendendo il timone della New Cold System srl, (allora Cold System, prima ancora conosciuta come ditta Tovoli Aldo, ndr) azienda con 60 anni di esistenza che stava attraversando un periodo di crisi. “Abbiamo subito capito che dovevamo puntare su formazione e innovazione se volevamo farla crescere. Il settore della refrigerazione e climatizzazione è in piena trasformazione e crescita per via dei cambiamenti climatici e del mutato stile di vita.

Così, giorno dopo giorno, io per primo, con soci e dipendenti abbiamo seguito corsi di formazione continua affinché ogni nostro progetto fosse davvero innovativo” dice con entusiasmo Sakande, che è anche docente del Centro Studi Galileo e consulente dell’Unido (Organizzazione delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Industriale) per la formazione e la certificazione dei tecnici e delle aziende a norma CE 303/08.

Un ulteriore riconoscimento è arrivato lo scorso giugno con l’assegnazione del Premio all’Imprenditore Immigrato del 2016, rappresentante di eccellenza di tutte e cinque le categorie (crescita, occupazione, innovazione, imprenditoria giovanile e responsabilità sociale) all’ottava edizione del concorso del Money Gram Award. In passato era già stato premiato come migliore imprenditore all’Africa-Italy Excellence Award.

Con nove dipendenti e un fatturato di circa 2 milioni di euro, la New Cold System srl vende i suoi prodotti esclusivamente alle aziende e trasmette il suo know-how progettando impianti ad hoc innovativi sul mercato italiano, ma sta puntando sempre di più all’internazionalizzazione.

Per ottobre sarà pronto un impianto di refrigerazione alimentato con energia solare che potrà essere utilizzato per conservare carne, pesce, frutta e verdura nelle zone più remote dell’Africa, quelle senza corrente elettrica. Fino ad oggi l’interruzione della catena del freddo costringe a buttare tra il 50 e 70% di quello che si produce. “Il mio impegno professionale va oltre l’aspetto tecnico-commerciale: è doveroso mettere la proprie competenze al servizio della società, specie in quelle zone in difficoltà – conclude Sakande – che conosco bene. Allo stesso modo, nel nostro quotidiano dobbiamo ritrovare umanità e non smettere mai di lavorare in modo costruttivo per le generazioni future, superando paure e pregiudizi”.

Il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2016

E' una fortuna che la Festa del Fatto a Roma si sia tenuta sabato e domenica, perché ieri è uscito un articolo del ragionier Claudio Cerasa, direttore del Foglio e noto scienziato della più moderna sismologia, che inchioda con dovizia di prove l’organizzatore occulto del recente terremoto e di chissà quanti altri passati: Salvatore Settis. Se l’articolo, putacaso, fosse uscito venerdì o sabato, le forze dell’ordine non avrebbero avuto altra scelta che irrompere al Foro Boario, circondare il nostro palco e arrestare il professor Settis lì davanti a tutti. Invece la cattura del putribondo untore sismico avverrà – ne siamo certi – nelle prossime ore, a festa ormai chiusa. Va da sé che, se avessimo appreso per tempo le responsabilità del facinoroso cattedratico, ben ci saremmo guardati dall’invitarlo alla festa. Ma, purtroppo, non si riesce mai a pensar male di certa gente ed è una fortuna che il giornalismo investigativo ci regali ancora pagine di denuncia di così alto valore civile. Già il titolo cerasiano è da Pulitzer: “Il sisma e i danni dell’Agenda Settis”. Ecco cos’era quel quadernetto che sabato gli abbiamo visto estrarre furtivamente, con fare sospetto, dalla borsa: l’Agenda Settis. Prima di sfoderare le prove a suo carico, il rag. Cerasa la prende un po’alla lontana: “Parte dell’opinione pubblica italiana tende a negare che possano esistere delle tragedie naturali, in cui non esiste altro colpevole se non la forza della natura”.

Sante parole: c’è un sacco di gente strana che si fa domande bizzarre, tipo perché in Giappone i terremoti di magnitudo 6 o 7 non fanno cadere un calcinaccio e non ammazzano neppure un moribondo, mentre da noi ogni volta è un disastro e una strage. Complottisti d’accatto, iscritti al “giustiziere collettivo, alla ricerca ossessiva di un capro espiatorio”. Incapaci “di accettare un dolore che non si può imputare a nessuno se non, come direbbe Giacomo Leopardi, alla ‘natura matrigna’” (segue citazione dal trattato di sismologia “A Silvia”). Siccome, “con tutta la tecnologia migliore del mondo, il terremoto non sarà mai a rischio zero”, è inutile cercare di ridurre i pericoli al minimo, costruendo case antisismiche. Anzi, molto meglio continuare a edificare con la sabbia e la cartapesta, anche se l’ideale sarebbe proprio tornare alle palafitte e alle capanne di fango, così si risparmia sui lavori e si mettono da parte i soldi per i funerali, che sono l’unica certezza della vita. Tanto prima o poi bisogna morire: chi può si porti avanti col lavoro, vuoi mettere la soddisfazione di crepare imprecando alla natura matrigna?

Chi poi cercasse altri colpevoli, distolga lo sguardo dai costruttori senza scrupoli e conservi lo sdegno per i veri responsabili: l’“internazionale del benecomunismo” che da decenni “inietta un virus nelle arterie del nostro paese”. Un virus che ci porta a pensare che “la modernità è un problema, il progresso ci ha corrotto e il ritorno al passato, allo stato di natura, quando tutti eravamo felici e non c’erano ogm, non c’era acqua privata, non c’erano treni ad alta velocità, non c’erano palazzi moderni costruiti ovviamente da affaristi e costruttori vicini alle mafie, è l’unica soluzione possibile”. Eccoci a Settis: il quale deve aver sostenuto da qualche parte – non sappiamo dove né quando, ma se lo dice il rag. Cerasa dev’essere vero – che senza ogm, acqua privata e Tav non ci sarebbero terremoti. E che “la colpa è sempre del progresso, mai della natura e mai tantomeno – come ha ricordato sul Foglio Umberto Minopoli – degli ambientalisti che hanno imposto al paese battaglie farlocche”.

Capito che fa, quel diavolo di Settis? Per depistare le indagini e occultare le prove delle sue colpe nei terremoti, non solo ignora gli scritti di Minopoli (il che è già grave), ma dà pure un’intervista al Fatto da cui il rag. Cerasa desume che “i terremoti creano danni perché l’Italia ha perso tempo a inseguire il progresso costruendo treni ad alta velocità”. Mentre è universalmente noto che l’unico antidoto ai danni sismici è fare migliaia di Tav. E poi cementificare e asfaltare tutto, pure i fiumi e possibilmente il mare, così ogni pioggerellina diventa alluvione. E sradicare quelle poche, orrende piante rimaste a frenare la libera iniziativa delle frane. La natura matrigna va privata di ogni laccio e lacciuolo per innescare il meccanismo virtuoso dei terremoti, delle alluvioni e delle frane, dunque delle ricostruzioni. Solo così si aiuta il progresso, la crescita e il Pil, rilanciando l’edilizia e un altro settore in crisi: quello delle casse da morto. Chi pensa che il progresso consista nel costruire o ristrutturare le case con le più moderne tecnologie antisismiche – come hanfatto in Giappone e in California, ma anche a Norcia, luoghi purtroppo contaminati dal più ottuso benecomunismo – si vergogni e arrossisca. Se le case non crollano e non si può più costruire sui greti dei torrenti, alle pendici dei vulcani e sugli orli dei burroni, dove andremo a finire?

A questo punto qualcuno si domanderà dall’alto di quale cattedra il rag. Cerasa insegni a vivere a Settis, noto incompetente che insegna archeologia da una vita, ha diretto la Normale di Pisa e il Getty Center for the History of Art and the Humanities, è membro dei Lincei e di una dozzina di accademie europee e americane, ha guidato il Consiglio Superiore dei Beni Culturali, ha una Cátedra al Prado e presiede il consiglio scientifico del Louvre. Robetta, dinanzi al curriculum del nostro ragioniere che – come scrive di se medesimo – “lavora al Foglio da 10 anni, è interista, ma soprattutto palermitano, va pazzo per i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate”. Ma, soprattutto, “è su Twitter”. Settis gli fa una pippa.

«“Rifondazione.it, 29.agosto 2016 (c.m.c.)

C’è voluta la dichiarazione del vice cancelliere tedesco e ministro dell’Economia, il socialdemocratico Sigmar Gabriel, per mettere la parola fine ai negoziati sul TTIP, l’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Stati Uniti, di cui si è concluso nel luglio scorso a Bruxelles il 14° round negoziale.

In un’intervista alla rete ZDF Gabriel ha dichiarato che i negoziati sul TTIP sono «di fatto falliti perché noi europei non possiamo accettare supinamente le richiesta americane». Un colpo pesante a quei Paesi membri, Italia in testa, che del Trattato Transatlantico era sostenitori in prima persona.

«Una dichiarazione importante perché fa proprie le preoccupazioni della società civile europea e statunitense» dichiara Monica Di Sisto, portavoce della Campagna Stop TTIP Italia.«Ma c’è comunque da tenere gli occhi aperti: se Sigmar Gabriel sottolinea ciò che da anni hanno sostenuto Stop TTIP Italia e le altre campagne europee, questo non significa che non possa trattarsi di tattica negoziale. Capiremo cosa accade al Consiglio Europeo di Bratislava di settembre dove, tra l’altro, si parlerà anche del preoccupante Accordo con il Canada, il CETA, già approvato ma che grazie alle pressioni dal basso abbiamo ottenuto che venga ratificato anche dai Parlamenti nazionali, senza esautorare i nostri Parlamentari da una decisione così importante per l’economia del nostro Paese. Da Bratislava dovrà uscire un secco stop al TTIP e al CETA, come richiesto dalla maggioranza dei cittadini europei».

«La dichiarazione di Sigmar Gabriel dovrebbe aprire un serio dibattito interno all’Europa e al nostro Governo su come vengano decise le priorità politiche ed economiche» sottolinea Elena Mazzoni, tra i coordinatori della Campagna Stop TTIP Italia. «Ma l’eventuale e auspicato blocco del negoziato TTIP non risolve il problema: l’accordo con il Canada ormai approvato va bloccato in sede parlamentare, facendo mancare la ratifica da parte di alcuni Paesi membri.
Hanno sempre presentato il CETA come precursore del TTIP: una sua approvazione presenterebbe molti dei problemi che il TTIP portava con sé, a cominciare dal dispositivo di tutela degli investimenti, la cui riforma non ci rassicura per nulla sulla tenuta dei diritti sociali e ambientali».

«Una buona notizia, emersa grazie a milioni di persone che si sono opposte e a una pressione dal basso che ha chiesto a gran voce di non derogare sui diritti e sulla qualità» dichiara Marco Bersani, tra i coordinatori della Campagna Stop TTIP Italia. «Ma un risultato così importante per la società civile non deve farci dimenticare che serve un vero e proprio ribaltamento della politica commerciale europea, ad oggi basata troppo sulla spinta verso la liberalizzazione dei mercati e l’austerità, e troppo poco verso un processo realmente rispettoso delle persone e dell’ambiente».

Analogie e grandi misteri della resa dei conti dei potenti di Cina e Turchia. Ricordi personali di un viaggiatore tra grandi folle tranquille e grandi folle arrabbiate, tra cortei democratici e cortei fanatici.

La Repubblica, 23 agosto 2016 (m.p.r.)

Quel che sta succedendo in Turchia mi ricorda un altro paese in preda alle convulsioni. Esattamente cinquant’anni fa, era il 18 agosto 1966, c’era stato a Pechino il primo grande raduno delle guardie rosse. Anziché bandiere rosse con la mezzaluna, in milioni in Piazza Tiananmen agitavano un rossissimo libriccino, fresco di stampa, rilegato con le copertine di plastica rossa fornite dalla nostra Montedison.

Mao si limitò a indossare il bracciale. Accanto a lui c’era Lin Biao, uno dei dieci marescialli, quello che aveva inventato il Libretto rosso. La conta dei dirigenti e generali che mancavano sul podio della Porta della pace celeste servì a capire chi era stato fatto fuori. Lo si seppe molto dopo: era una reazione a quello che, nella sua paranoia, Mao riteneva un fallito colpo di Stato militare ai suoi danni. Le guardie rosse, ragazzine e ragazzini in età scolastica, furono usate in un’operazione di linciaggio di massa degli avversari politici. Manifestavano, torturavano, saccheggiavano, umiliavano, uccidevano con estrema convinzione, con entusiasmo e fanatismo di tipo religioso. E con la benevola approvazione del presidente per antonomasia. In pochi giorni ci furono migliaia di morti nella capitale.

Sarebbe durata dieci anni. I morti negli scontri tra fazioni contrapposte sarebbero divenuti decine di milioni, coloro che ne subirono le conseguenze centinaia di milioni. Fazioni rivali si diedero battaglia con le armi pesanti. Lin Biao, nominato successore designato di Mao, fece intervenire l’esercito a riportare ordine. Poi sarebbe stato abbattuto con un missile mentre tentava di fuggire in Unione sovietica: anche quello un misterioso golpe fallito. Quando anche a Mao sembrò che le guardie rosse esagerassero, un’intera generazione fu deportata a “rieducarsi” in campagna. Tra questi i massimi dirigenti di oggi, Xi Jinping compreso.

Quando ero corrispondente a Pechino, l’allora segretario del Partito comunista cinese Hu Yaobang mi disse che la rivoluzione culturale era uno dei dieci grandi “misteri” della recente storia cinese su cui ancora andava fatta luce. Era appena tornato dalla Corea dei Kim dove era stato accolto con i consueti bagni di folla osannanti. «Noi in Cina abbiamo una certa esperienza di come portare in piazza folle sterminate. Ma loro come fanno a fargli venire anche le lacrime agli occhi?», mi disse con un sorriso ironico.

Sono convinto che questa sua insistenza su chiarimenti storici e l’altra sua affermazione, sulla necessità di una “riforma politica” che accompagnasse quelle economiche, siano tra le ragioni della sua defenestrazione nel 1986. La protesta degli studenti nel 1989 era partita come omaggio a Hu. Curioso, la motivazione con cui Deng Xiaoping diede l’ordine di massacrarli con i tank fu: mai più guardie rosse, caos e anarchia come la rivoluzione culturale. Da allora i misteri restano. Hanno avuto uno sviluppo strepitoso. Ma senza democrazia.

Tra i tanti misteri ce n’è uno che riguarda noi. A decenni di distanza, non riesco a capire come mai quel caos permanente, quella storia d’orrore durata un decennio, quella resa dei conti spietata tra fazioni politiche abbia affascinato tanta parte della mia generazione. Non solo i giovani, ma anche alcuni tra i più prestigiosi intellettuali dell’Occidente. Perché rispondeva a un bisogno di novità, di palingenesi, di rottamazione dell’esistente, di pulizia e onestà, disgusto per il marcio, di voglia di credere nel futuro, di credere in qualcosa? Per il modo in cui veniva propinata la favola? Spero (direi prego se fossi credente) che siamo vaccinati.

In mezzo secolo da giornalista ne ho viste di grandi folle. Ai funerali di Berlinguer c’ero. Alla demolizione del Muro di Berlino no, ma la vidi in diretta, così come la folla che accolse Mandela liberato dal carcere. Sono portato invece a diffidare delle folle arrabbiate: mi ricordano i pogrom di cui sono stati regolarmente vittime i miei antenati ebrei. Non mi fece paura invece l’immenso corteo che si snodò fino all’aeroporto di Teheran per il ritorno dall’esilio di Khomeini il 1 febbraio 1979. C’era tutto il popolo, compresi quelli che di lì a poco sarebbero stati perseguitati dagli integralisti. Al corteo che dieci anni dopo accompagnò Khomeini e quasi rovesciò la bara si respirava invece fanatismo puro.

In Cina ancora non si vota. In Iran sì, e ora c’è al governo un moderato, anche se ha a che fare con resistenze micidiali da parte della vecchia guardia. In Turchia Erdogan è stato votato, anche se non da una maggioranza assoluta. Ora punta a imporre il controllo assoluto con altri mezzi. La mappa degli ultimi risultati elettorali in Turchia somiglia in modo inquietante alla mappa del voto per la Brexit in Gran Bretagna, a quella delle ultime elezioni in Iran, e alle mappe che si potrebbero disegnare se vincesse Trump in America, o la Le Pen in Francia: immense periferie arrabbiate (le campagne avrebbe detto Mao), che assediano le città delle élite.

Un’ultima nota di comparazione: per scaramanzia, se non altro. La Cina della Rivoluzione culturale aveva già l’atomica. Il mondo non sapeva in mano a quale delle fazioni che si scannavano potesse finire. Per anni si è scatenato un bailamme attorno al fatto che l’Iran vuole dotarsi di centrali nucleari. Per il timore che un giorno si facciano anche la bomba. Non ho invece sentito esprimere analoghe preoccupazioni per il fatto che la prossima potenza nucleare potrebbe essere la Turchia.
La prima centrale gliela sta costruendo la Russia. E questa potrebbe essere una delle ragioni del riavvicinamento. Anche se al momento nessuno ipotizza che Ankara voglia farsi la bomba.

«Da una ricerca universitaria è emerso un dato molto interessante: gli italiani sono cinquantasette tipi diversi, tutta colpa di un mix di patrimoni genetici». Ma forse se oltre alla saliva si fossero analizzate anche le storie, i luoghi e le culture i risultati sarebbero stati più interessanti.

Ytali online, 22 agosto 2016

In casa ho appeso come un quadro l’ingrandimento di una foto che coglie nel tramonto un padre baffuto, una madre in nero col bimbo in grembo, una donna più anziana in nero, sullo sfondo una palma. «Chi sono? Arabi? Dove l’hai scattata?», mi chiedono sistematicamente i miei ospiti. «No -rispondo- sono siciliani di Partinico ripresi alla fine degli Anni Cinquanta durante un digiuno di Danilo Dolci».

C’è spesso curiosità in chi chiede e poi assorbe (incerto) la risposta. E allora io mostro loro un ritaglio della Stampa, vecchio ormai di un paio d’anni. Era stato, ed è rimasto, l’unico giornale a riferire di una ricerca di quattro università da cui è emerso un dato molto interessante: gli italiani sono cinquantasette tipi diversi, tutta colpa di un mix di patrimoni genetici. Il razzismo non c’entra nulla, c’entra piuttosto l’incredibile impasto di civiltà che ha formato non solo la Sicilia ma tutta l’Italia che per millenni è stata scorribanda di nazioni, di poteri, di eserciti di mezzo mondo che hanno provocato incroci, fusioni, disaggregazioni, minuscole immigrazioni.

Con il risultato, scriveva Stefano Rizzato in quel pezzo del quotidiano torinese, che c’è più distanza/diversità genetica all’interno del nostro paese che tra Spagna e Ungheria. Come dire che a tenere insieme gli italiani ci sono il passaporto, un tricolore e, appena da qualche decennio, una lingua. Tutto il resto è diverso, e differente soprattutto il patrimonio genetico: quel codice nascosto tra le eliche del Dna e destinato a passare da padre in figlio per secoli. L’Italia, insomma, è il paese con la biodiversità umana più estesa d’Europa: lo conferma uno studio che ha unito genetica e antropologia, che è durato oltre sei anni ed è stato condotto da quattro atenei: quelli di Roma-La Sapienza, Bologna, Cagliari e Pisa.

Da una parte la raccolta di campioni di saliva, poi catalogati e confrontati nei luoghi più disparati d’Italia; dall’altra l’incrocio tra questa raccolta e il meticoloso studio linguistico, culturale ed etnografico dello stivale. “Abbiamo sfruttato l’aspetto genetico per mostrare in tutta la sua ricchezza le diversità umane del nostro Paese”, aveva spiegato a Rizzato il prof. Giovanni Destro Bisol, antropologo alla Sapienza, che ha coordinato il team di ricercatori. Chi sa, del resto, che esistono comunità di origine croata tra Abruzzo e Molise, oppure che, comprese l’albanese e la ladina (piuttosto note), ci sono ben dodici minoranze, anche linguistiche, tutelate dalla nostra Costituzione?

Su quali indicatori si è basata l’équipe inter-universitaria? «Su due indicatori molto sensibili», aveva aggiunto il prof. Destro Bisol: «l Dna mitocondriale, ereditato esclusivamente per via materna, e il cromosoma Y, localizzato nel nucleo delle cellule ma ereditato solo nella linea maschile». Ora questi due indicatori conservano traccia anche di variazioni ed evoluzioni anche recenti. D’altra parte è stata tenuta presente anche una certa “unicità” geografica dell’Italia: «In un paese lungo e stretto, con una miriade di habitat diversi, la biodiversità umana non è meno accentuata di quella che riguarda piante e animali». In gran parte dei casi, poi, è stata la combinazione tra isolamento geografico e linguistico a proteggere l’unicità di popolazioni che ancora oggi risultano diversissime persino da quelle confinanti.

In Europa un melting pot comparabile c’è solo nei paesi balcanici. Messe insieme, le minoranze presenti sul territorio italiano sono appena il cinque per cento della popolazione. Sono comunità sempre più piccole che tendono a spopolarsi ma vivono e difendono la loro identità con intensità e orgoglio. Ma anche con la profonda consapevolezza di essere parte della stessa nazione.

Finalmente qualcuno che, oltre a dire cose ragionevoli sul merito dello "scandalo di Capalbio" riconosce che "sinistra" e PD sono cose diverse.

. Corriere della Sera, 20 agosto 2016 (c.m.c.)

Luciana Castellina, tra i fondatori de il manifesto nel 1970, ex parlamentare del Pdup e di Dp, ex europarlamentare del Pci e poi di Rifondazione, il 5 agosto ha superato splendidamente la boa degli 87 anni: è al mare all’Argentario, guida la macchina, nuota, cucina, vede gli amici. Capalbio è vicina, lì spesso ha partecipato a dibattiti per «Capalbio libri», nel 2011 parlò del suo volume autobiografico La scoperta del mondo.

Come giudica, Luciana Castellina, quello che sta avvenendo nella «sinistra capalbiese» in vista dell’arrivo dei cinquanta immigrati?
«Per favore, smettiamola con il giochino di Capalbio simbolo della sinistra, o luogo di ritrovo solo di quell’area, sembra solo un divertimento estivo quando stiamo affrontando un problema grave e reale... Poteva essere vero un tempo, anni fa, ma adesso c’è di tutto: la sinistra, gli ex di sinistra, quelli che a sinistra non sono mai stati, la destra...».

Allora, come dice lei, parliamo di un problema serio. Dei 50 immigrati in arrivo. «Visto che ci siamo, vorrei affrontare la questione razionalmente e senza moralismi. C’è chi ha detto: “che vengano pure gli immigrati, ma senza bighellonare in giro”...».

Si riferisce a Chicco Testa.
«...vorrei dire, per tornare alla razionalità, che siamo di fronte a un processo irreversibile, di dimensioni enormi, a un problema gigantesco...».

C’è chi polemizza: la sinistra predica in un modo, poi agisce in un altro.
«Prima di parlare della sinistra, vorrei citare i problemi provocati dalle posizioni dei vari Salvini, del centrodestra... Ma torniamo al punto. In questo caso, certo, non si può parlare teoricamente di globalizzazione, di circolazione di merci e idee, discuterci sopra e mettere da parte il vero problema che ci riguarda. Cioè l’immigrazione di massa, i flussi che vediamo. Questa, sì, è una contraddizione».

E quindi?
«Quindi è bene darsi una regolata in tempo utile: nessuno può pensare di rinchiudersi nel suo piccolo castello, magari circondato da un fossato, alzando il ponte levatoio».

E nel caso di Capalbio?
«Ma lo sa quanti italiani tra il 1850 e il 1950 lasciarono il nostro Paese per emigrare? Trentuno milioni! Ai quali vanno aggiunti gli emigrati tedeschi, irlandesi, francesi. E noi di cosa discutiamo?».

Di 50 immigrati, si sa.
«Appunto, di cinquanta immigrati! Meglio essere seri».

Il sindaco pd Bellumori ha definito questa prospettiva, nelle prime ore, «una catastrofe lesiva dell’appeal di Capalbio». Che ne pensa?
«Una frase vergognosa. Però il sindaco ha detto anche altro. Cioè che è impensabile affidare alla prefettura di Grosseto tutte le decisioni, senza condivisione col territorio. La contestazione, in questo senso, non è sbagliata. Certe decisioni vanno affrontate con chi conosce le aree e i loro problemi».

Quindi lei pensa che gli errori della sinistra...
«Anche qui basta con i luoghi comuni. Io sono presidente onorario dell’Arci, che è un’organizzazione storica della sinistra. Tutti i 5.000 circoli e il milione di iscritti si sono mobilitati per organizzare forme di accoglienza».

Ma la sinistra è anche il Pd al potere: locale e nazionale.
«Dal mio punto di vista, il Pd nemmeno appartiene alla sinistra. Il discorso è complesso e la faccenda riguarda anche il resto d’Europa. Il governo socialista di Hollande ha vietato il Burkini sulle spiagge. Ho smesso da quel momento di considerarlo di sinistra. Imporre alle donne come devono vestirsi rasenta il fascismo. Sì, il fascismo...».

come gruppi terroristi è un errore grave con conseguenze altrettanto distruttive.».

Ilmanifesto, 18 agosto 2016




Che la Turchia agisca come «piattaforma per jihadisti» non è una gran novità. Dal suo permeabile confine passano migliaia di miliziani islamisti che vanno ad arricchire le già folte schiere dell’Isis e dell’ex al Nusra. Ma nei documenti del governo tedesco finiti alla stampa c’è di più. Secondo Berlino, Ankara è un hub per terroristi perché sostiene Hamas, governo de facto di Gaza (nonché vincitore delle ultime elezioni democratiche nei Territori Palestinesi Occupati, nel 2006), e i Fratelli Musulmani in Egitto.

Ecco che rispunta l’annosa questione che l’Occidente non intende affrontare né capire: la differenza ideologica e di azione tra Islam politico e jihadismo. Etichettare la Fratellanza Musulmana, nata in Egitto nel 1928 e da allora diffusasi nel mondo arabo, come gruppo terrorista è un errore grave con conseguenze altrettanto distruttive. La coperta (cortissima) del modello di export della democrazia non ci pensa neppure ad inserire tra le proprie categorie concettuali l’Islam politico perseguito dai Fratelli Musulmani, pur avendo i paesi occidentali i propri partiti democristiani.
La re-islamizzazione vissuta dal mondo arabo nel secolo scorso è stata frutto di un insieme di processi: decolonizzazione, nascita degli Stati nazione, ricerca di un’alternativa ai regimi nazionalisti laici e socialisti.

La Fratellanza Musulmana nasce da lì: l’Islam come strumento di trasformazione (pacifica) della società e di conseguente partecipazione politica. L’islamismo moderato ha visto e vede nel processo democratico e nel rapporto con sindacati e movimenti sociali il mezzo di trasformazione della società. E quindi nell’ingresso nel processo istituzionale il grimaldello per modificare il sistema dall’interno, senza il ricorso a violenza o lotta armata.

Esattamente l’opposto del jihad militare profetizzato da Isis e al Qaeda. Porre sullo stesso piano tali organizzazioni e i Fratelli Musulmani incrementa il potere di attrazione dei primi a scapito dei secondi, da decenni vittima di repressione di Stato spesso sostenuta – dietro le quinte – proprio da gruppi salafiti e jihadisti. Che hanno l’occhio più lungo del nostro: demonizzare e isolare gli islamisti moderati garantisce all’estremismo un bacino di consenso sempre più ampio e radicato.

Il Fatto quotidiano online, 18 agosto 2016 (c.m.c.)

«Il problema di fondo? Si pensa che i servizi siano un costo. E si finanziano solo se c’è denaro che avanza, come fossero un lusso. Invece, come ho cercato di spiegare a tanti ministri, si tratta di un investimento in capitale umano, in coesione sociale, in solidarietà. Un investimento che, se si vuol far ripartire la crescita, dev’essere sullo stesso piano di quelli nella banda larga o nelle ferrovie».

Le conclusioni del rapporto 2016 della fondazione Bertelsmann, che ha messo ancora una volta il dito nella piaga di un sistema di politiche sociali inefficiente nel mitigare povertà e disuguaglianza, non stupiscono la sociologa Chiara Saraceno, esperta di welfare, già docente alla facoltà di scienze politiche dell’università di Torino e professore di ricerca al Wissenschaftszentrum für Sozialforschung di Berlino, oggi honorary fellow al Collegio Carlo Alberto del capoluogo piemontese.

Il rapporto mette in evidenza debolezze storiche che sembrano impermeabili a qualsiasi riforma.
I nodi in effetti sono sempre gli stessi: il quasi esclusivo affidamento del welfare alla famiglia, cosa che contribuisce a riprodurre le disuguaglianze di generazione in generazione, l’esclusione pressoché totale da qualsiasi forma di protezione pubblica di chi non è ancora entrato nel mercato del lavoro o ne è uscito da troppo tempo e lo scarso sostegno ai nuclei familiari che sostengono il costo dell’allevamento e dell’educazione dei figli.

Negli ultimi anni si è messo mano agli ammortizzatori sociali e di recente il governo ha annunciato nuovi strumenti di lotta alla povertà. Non basta per modificare il quadro?
Renzi ha fatto qualche intervento, è vero, ma molto debole e di segno non univoco. La cosa più positiva è stata la riforma dell’indennità di disoccupazione che ha eliminato gran parte delle difformità nella protezione previste dal sistema precedente. Ma per definizione l’indennità va solo a chi un lavoro lo ha avuto e protegge di più chi ha lavorato per più anni. Questo già indebolisce la posizione dei giovani, che tendono ad avere lavori a termine e non continuativi. Le donne giovani, poi, sono penalizzate ulteriormente, visto che rispetto ai coetanei hanno più spesso lavori a tempo determinato o flessibile.

Continua invece a mancare un sistema di protezione che copra anche chi è fuori dal mercato del lavoro. A partire dai giovani.
Sì: finora ci sono annunci, come quello sul Sostegno di inclusione attiva (Sia) che partirà a settembre (peraltro già in ritardo di tre mesi), ma continua a non esistere un reddito minimo per i poveri e anche le nuove misure escludono i giovani: il Sia andrà solo a chi ha in famiglia almeno un figlio minore o disabile o una donna incinta. E questi paletti secondo me non dipendono da motivi ideologici, ma semplicemente dal fatto che non c’erano abbastanza soldi. Non a caso ci sarà una graduatoria e non tutti quelli che rispettano i parametri riceveranno il contributo di cui hanno bisogno. Sconta lo stesso problema il ddl delega che dovrebbe mettere a regime una misura contro la povertà più ampia: il finanziamento previsto è di 1 miliardo ma tutti quelli che hanno studiato la questione sostengono che a regime ne servirebbero 7. Anche lì, peraltro, si dice che si partirà dalle famiglie con figli. E’ ragionevole, intendiamoci, ma tutto questo fa sì che ai giovani meno privilegiati sia quasi preclusa la possibilità di farsela, una famiglia.

Di fatto oggi l’unica misura di sostegno individuale sono gli 80 euro. Li giudica utili?
A parte il fatto che vanno solo ai lavoratori dipendenti, il problema è che escludono gli incapienti. Con il paradosso che in una famiglia lo possono prendere anche in tre o quattro membri essendo una detrazione personale mentre chi è solo e guadagna pochissimo non lo prende. O, ancora peggio, se lo ha preso ora gli viene chiesto di restituirlo. Una follia che grida vendetta, non capisco perché si sia smesso di parlarne.

Secondo la fondazione Bertelsmann, comunque, anche i benefit per le famiglie sono insufficienti.
Il sistema è estremamente frammentato e poco efficiente: c’è l’assegno al nucleo famigliare, ma solo per i lavoratori dipendenti a basso reddito, quello per il terzo figlio che va solo alle famiglie con reddito Isee sotto una certa soglia e tre figli tutti minori, poi le detrazioni per i figli a carico che però escludono anch’esse gli incapienti, poi il bonus bebè… mille rivoli che aumentano le disuguaglianze, perché c’è chi li prende tutti e chi nessuno. La soluzione sarebbe usare tutte queste risorse per un unico assegno per i figli, magari decrescente al crescere del reddito, che tirerebbe fuori dalla povertà una buona quota di famiglie. Si pensi che stando agli ultimi dati lo scorso anno il 10,9% dei minori (1,13 milioni) era in povertà assoluta. E nella maggior parte dei casi parliamo di nuclei in cui almeno un adulto lavora ma il suo stipendio non basta. Per questo la vera soluzione sarebbe quella di favorire l’occupazione delle madri.

Perché allora non si è mai deciso di fare piazza pulita di questi contributi inefficienti, unificarli e in parallelo investire in nidi e altri servizi?
Sul primo fronte, indubbiamente annunciare singole misure come il bonus bebè costa di meno e forse fa più scena. Quanto ai servizi pubblici di cura non famigliare, ci sono diversi ordini di difficoltà: a volte gli enti locali, soprattutto nel Mezzogiorno, non spendono i soldi che hanno a disposizione, e allora dovrebbe intervenire lo Stato. Ma più in generale il problema è che sono considerati costi invece che investimenti nelle generazioni future e in particolare in quelle meno avvantaggiate. Molte capacità si consolidano prima dell’entrata nella scuola elementare, per cui far andare al nido i bambini meno fortunati, penso anche ai piccoli migranti che magari non parlano ancora bene la nostra lingua, è un modo per favorire il loro futuro accesso al mercato del lavoro. Un investimento, appunto.

Scarso successo delle politiche economiche twittate dal premier Renzi. C'era da aspettarselo. Intanto, la liquidazione del patrimonio pubblico prosegue (ma questo il giornale non lo dice). Corriere dellaSera, 13 agosto 2016

La serie positiva è finita. Dopo cinque trimestri consecutivi di crescita l’economia italiana resta al palo. A certificarlo è l’Istat, ufficializzando che «nel secondo trimestre del 2016 il Pil (Prodotto interno lordo) è rimasto invariato rispetto al trimestre precedente». Vale aggiungere che nel secondo trimestre il Pil è aumentato dello 0,7% rispetto all’analogo trimestre del 2015, ma a fine marzo il dato tendenziale evidenziava una crescita dell’1%. Crescita zero, insomma, nel periodo compreso tra aprile e giugno, durante il quale, tra l’altro, c’è stata una giornata lavorativa in più sia rispetto al trimestre precedente sia rispetto al secondo trimestre dello scorso anno.

A pesare su base congiunturale è il rallentamento del valore aggiunto nell’industria. Un segnale poco rassicurante per il governo che vede allontanarsi l’obiettivo di una crescita dell’1,2%, così come sottoscritto dall’esecutivo ad aprile. Il viceministro dell’Economia, Enrico Morando, ammette: «non c’è dubbio che sulla base di questi dati appare difficile conseguire l’obiettivo di crescita fissato per il 2016».

La «variazione acquisita» per il 2016 è lo 0,6%. Significa che tale sarà la crescita se nei prossimi due trimestri il Pil resterà inchiodato sullo zero. La frenata italiana si inserisce in un contesto generale che vede i Paesi dell’eurozona crescere dello 0,3% nel secondo trimestre e dell’1,6% su base annua. In particolare, l’economia tedesca ha registrato un aumento congiunturale dello 0,4%, la Spagna dello 0,7%, mentre la Francia evidenzia un Pil a crescita zero proprio come l’Italia. Un dato quello italiano che comprime inevitabilmente i margini di manovra del governo sia sul fronte della richiesta di flessibilità sui conti pubblici, sia sull’ammontare delle risorse da indirizzare su capitoli di spesa come pensioni e investimenti. Tanto che il ministero dell’Economia tramite una nota fissa alcune puntualizzazioni: il rallentamento dell’economia era previsto ed è un fenomeno globale, i conti pubblici sono sotto controllo, la legge di bilancio 2017 concentrerà le risorse disponibili su poche misure a sostegno della stabilità. Da via XX Settembre tengono a sottolineare che alcuni fattori di rischio geopolitico come Brexit (anche se a dire il vero il voto c’è stato il 23 giugno), terrorismo e crisi dei migranti hanno avuto un impatto particolarmente negativo. Ciò non toglie, specifica la nota, che «gli investimenti lordi fissi hanno registrato una ripresa e che occorre insistere su questo fronte».

Il Tesoro, non a caso, rivendica le decisioni assunte dal Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) mercoledì scorso con lo sblocco di investimenti per 40 miliardi di euro. Resta che l’attuale scenario circoscrive il raggio d’azione del premier Matteo Renzi, confidente nella possibilità di varare misure di politica economica espansive e intenzionato «ad avere da Bruxelles libertà d’azione prima del referendum sulla riforma costituzionale», scrive il Financial Times . Nei fatti il premier deve fronteggiare una «stagnazione non sorprendente in quanto i dati mensili sulla produzione sia nell’industria che nelle costruzioni avevano mostrato una flessione», come spiega Paolo Mameli, senior economist di Intesa SanPaolo, che aggiunge, «difficilmente anche l’anno prossimo la crescita si collocherà sopra l’1%». Sul versante politico la certificazione dell’Istat e le previsioni al ribasso sul Pil espongono il governo agli attacchi dell’opposizione. Il leader della Lega, Matteo Salvini, bolla il fallimento di Renzi e avanza proposte alternative come federalismo fiscale e superamento dell’euro. Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia, ha gioco facile nell’evidenziare la «pioggia di brutte notizie per Renzi. Bankitalia e Istat suonano il de profundis al governo». A parlare per i sindacati è la segretaria generale della Cisl, Annamaria Furlan, «il dato è davvero preoccupante, serve una svolta a livello europeo».

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Il manifesto, 12 agosto 2016 (c.m.c.)

«Il 72 percento dei geni dell’uomo è identico a quello dei maiali. Ma noi a differenza dei maiali siamo la specie vivente che ha la coscienza di essere responsabile della vita sul pianeta. Facciamo parte della vita, siamo il prodotto della storia della vita. Per questo possiamo coltivare la possibilità di un’alternativa», così Riccardo Petrella in una delle lecture di apertura del Forum Sociale Mondiale che si è aperto ufficialmente ieri l’altro con una marcia per il centro di Montreal.

Un Forum che potrebbe rappresentare uno spartiacque nella storia di un appuntamento che da tempo appare avvitato su se stesso. È la prima volta che un Forum si tiene in un paese del Nord del mondo. Ed è la prima volta che, non appoggiandosi a partiti o sindacati locali, un gruppo di persone a titolo individuale ha formulato la proposta al Comitato internazionale che ha accettato. Ad oggi questo Forum è stato caratterizzato da una serie di problemi organizzativi che in parte costituiscono un tema politico. È il caso della scarsa partecipazione di rappresentanti del cosiddetto «Sud del Mondo» inficiata da una rigida politica di concessione di visti da parte del governo canadese.

Il Forum potrebbe comunque vivere l’inizio di una nuova fase, centrata sulle metodologie di lavoro, workshop autogestiti, assemblee di convergenza su temi quali la militarizzazione, il clima, i diritti umani e la democrazia, i migranti, e cosiddette «Grand Conferences», dibattiti di alto livello su questioni «chiave».

Un incontro assembleare definirà poi il calendario di attività ed iniziative future. Altra innovazione quella di «decentrare» il forum con collegamenti con varie città e realtà in ogni parte del mondo, a significarne il carattere orizzontale globale. Che lo spirito di Nuit Debout e degli Indignados sia arrivato anche qua? Un tema ricorrente, non a caso essendo in Quebec terra attraversata dalla questione nazionale ed identitaria, è quello delle lotte per l’autodeterminazione dei popoli, dai Sahrawi, alla Siria, alla Palestina (un tema di polemica pre-Forum è stato quello del sostegno o meno alla campagna Boycott Disinvestments Sanctions) il confederalismo democratico in Rojava, i movimenti per la democrazia in Egitto, la resistenza alle multinazionali.

Eppoi i temi ambientali, della giustizia climatica, della resistenza alla liberalizzazione del commercio. Una delle principali assemblee di convergenza dei primi giorni dedicata al tema della guerra ha prodotto proposte di mobilitazione a sostegno del Forum Sociale Iracheno che si terrà a fine settembre a Baghdad, terzo appuntamento dedicato alla Pace ed a Diritti dei Popoli.

Sempre nei prossimi mesi si terrà il primo Forum Sociale Kurdo, mentre a Berlino a fine settembre sarà la volta della conferenza pacifista contro il commercio di armi e le spese militari dell’International Peace Bureau. A rappresentare il Forum Sociale Iracheno Yassim al-Helfi, presidente del Information Center for Research and Development, accompagnato da Un Ponte Per, ed intervenuto alla Grand Conference sulla Siria, per portare la solidarietà ai movimenti della società civile siriana che tentano di resistere alla logica delle armi , e praticando mutualismo ed autogestione lavorano per la Siria del futuro.

Un paese oggi teatro di uno scontro tra due «mostri» armati, attori di un conflitto ormai internazionale. Prima la testimonianza della scrittrice siriana Samar Zazbek e poi le parole di Gilbert Achcar docente al Soas di Londra sono chiare. In Siria la rivoluzione pacifica contro il regime di Assad ed alimentata – sulla scia delle primavere arabe – da una situazione socio-economica disastrosa è stata repressa in maniera brutale ed ha lasciato il passo ad uno scontro armato, ad un’involuzione di tipo islamista.

Una guerra per procura contro il popolo siriano, dalla quale si deve uscire solo con la forza della politica, oggi assente colpevole. Parla anche Leo Gabriel, promotore assieme ad un gruppo di grandi padri del Fsm, da Ignacio Ramonet a Francois Houtart, a Adolfo Perez Esquivel, di un’iniziativa per una soluzione politica al conflitto siriano, attraverso il dialogo tra i vari rappresentanti della società civile siriana.

La Siria qua a Montreal è vista come uno dei casi estremi della logica pervasiva della guerra e delle conseguenze nefaste del neoliberismo. «In nome di Dio, in nome della nazione o in nome del profitto», per parafrasare le parole di Petrella. Questi i tre mantra da sconfiggere per continuare sulla la via dell’alternativa, di un altro mondo possibile, della solidarietà internazionale con popoli che oggi sembrano condannati alla guerra ed alla distruzione.

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