« manifesto, 2 agosto 2015
Centinaia di combattenti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) sono rimasti uccisi e centinaia feriti in una settimana di raid dell’aviazione turca contro le basi dei ribelli. Colpiti anche villaggi e la popolazione kurda. Tra i feriti ci sarebbe anche Nurettin Demirtas, fratello del leader della formazione curda Partito democratico del popolo (Hdp) Selahattin Demirtas — che ha avuto una straordinaria affermazione alle ultime elezioni turche con il suo 13%, impedendo così di fatto la maggioranza parlamentare all’Akp di Erdogan e per questo messo in questi giorni sotto accusa, lui e il suo partito.
Sta avvenendo, sotto i nostri occhi, una carneficina. Che ci riguarda direttamente. Infatti l’offensiva militare — ironia della sorte l’agenzia parla di una inesistente offensiva contro l’Isis — è scattata dopo il vertice della Nato di Bruxelles di nemmeno una settimana fa, di fatto convocato da Ankara per avere partecipazione e avallo alla sua nuova guerra contro i kurdi, fatta con la scusa di attaccare anche, per la prima volta le postazioni siriane dello Stato islamico. La partecipazione atlantica piena non c’è, ma l’avvallo sì e, soprattuto, c’è quello degli Stati uniti.
Ora dunque con l’applauso dell’Alleanza atlantica i cacciabombardieri turchi fanno a pezzi i combattenti della sinistra turca, vale a dire i militanti che quasi da soli finora combattono con le armi in pugno in Siria e in Turchia contro le milizie jihadiste dell’Isis. Milizie invece sostenute e finanziate negli ultimi tre anni proprio da Ankara che ha addestrato tutte le formazioni ribelli siriane — compresa Al Nusra, vale a dire Al Qarda, nelle sue basi a partire da quella Nato di Adana, come sanno tutti i governi occidentali e come ha denunciato proprio la sinistra turca.
È stato scritto che la svolta «ambigua» di Erdogan sarebbe derivata dall’impossibilità per Washington di sopportare ancora per troppo tempo che un proprio alleato potesse mostrare simpatie per un gruppo terrorista come l’Isis che gli americani ora sono impegnati a distruggere. Quando mai? Il fatto è che la Turchia, alla frontiera turbolenta della Siria in guerra, ha addestrato, finanziato e sostenuto i jihadisti proprio su mandato della coalizione degli Amici della Siria, guidata proprio dagli Stati uniti e dall’Arabia saudita insieme alle petromonarchie mediorientali.
Così adesso anche la Casa bianca (dopo l’esperienza sanguinosa di Bengasi dell’11 settembre 2012) corre ai ripari e bombarda da mesi gli stessi jihadisti che, come in Libia, ha usato per destabilizzare l’area. E questo grazie ad Ankara che mette a disposizione la sua base di Incirlik, mentre gli americani chiudono tutti e due gli occhi sul massacro della sinistra kurda.
Ecco dunque il nuovo ruolo dell’islamista moderato Erdogan, il sultano atlantico. Altro che «distratto» membro della Nato.
Cinque anni fa, sconfitto nel tentativo di entrare in Europa, ha ripiegato nell’area per costruire una nuova «pax ottomana», dalla Bosnia a Gaza„ dall’Azerbaijan alla nuova Libia in funzione anti-Iran. Ora invece, per accrditarsi con l’Occidente, gioca la carta della «guerra ottomana». Con una spina nel fianco però, che deve proprio levarsi: il popolo kurdo. Perché le guerre americane ed europee, devastando tre paesi centrali dell’area nordafricana e mediorientale — nell’ordine temporale, Iraq, Libia e Siria — hanno attivato sia il protagonismo jihadista, prima alleato dell’Occidente contro i regimi in carica, e ora diventato nemico; ma hanno anche chiamato in causa il popolo kurdo, che resta diviso proprio tra Siria, Turchia e Iraq (pieno di petrolio e nemico giurato del Pkk).
Fermare con le armi il contagio indipendentista e laico della sinistra kurda (il Pkk ma anche la coalizione politico-sociale del Rojava in Siria) è l’obiettivo di Erdogan. Ma anche della «nostra» Alleanza atlantica che applaude ogni volta che un F16 decolla per bombardare. L’Italia atlantica, che si prepara ad una nuova avventura militare in Libia, di Pkk del resto se ne intende: ha consegnato alle «alleate» galere turche il leader Ocalan venuto da noi per trattare la pace.
Sotto l'accusa della magistratura contabile «le gravi deformazioni provocate da una visione mercantilista dell’economia ispirata dal mantra della competitività, della riduzione dei costi e della compressione salariale».
Il manifesto, 2 agosto 2015
di Roberto Ciccarelli
Austerità. La relazione sulla finanza locale della magistratura contabile: «Gli 80 euro peggiorano il fabbisogno pubblico». L’abolizione dell’Imu? «Danneggia il federalismo fiscale». Le tasse comunali cresciute di otto miliardi di euro dal 2010 a causa di 40 miliardi di tagli agli enti locali, 113 euro a testa in più all’anno. Promemoria in attesa del pacchetto "taglia-tasse" annunciato dal governo
L’abolizione dell’Imu sulla prima casa? Un pasticcio gigantesco che ha distrutto uno dei principi cardine del federalismo fiscale: la corrispondenza tra contribuenti e soggetti beneficiari dei servizi resi. Vogliamo parlare del taglio dell’Irap? L’imposta sulle imprese su base regionale tagliata di 1,9 miliardi da Renzi per ridurre il «cuneo fiscale» ha avuto «riflessi negativi» sulle funzioni degli enti locali. Quanto al «bonus Irpef» degli 80 euro per i lavoratori dipendenti con redditi tra 8 e 26 mila euro è costato 4,5 miliardi di euro e ha «peggiorato il fabbisogno del settore pubblico».
La relazione sugli andamenti della finanza territoriale, resa nota il 27 luglio dalla Corte dei Conti, non è propriamente una lettura estiva, ma permette di comprendere i danni provocati dall’uso populista dei conti pubblici del governo Renzi. Senza contare che quella della magistratura contabile è la più seria requisitoria contro i tagli voluti dai governi dell’austerità dal Berlusconi del 2008 al Renzi della legge di stabilità del 2015.
Alla base non c’è solo la richiesta del rispetto delle funzione costituzionale nella gestione della spesa pubblica, regolarmente infranta da tutti i governi per rispettare i diktat della Troika, ma le gravi deformazioni provocate da una visione mercantilista dell’economia ispirata dal mantra della competitività, della riduzione dei costi e della compressione salariale.
Tutti elementi che hanno provocato un boom inaudito della tassazione, l’aumento del debito pubblico e il blocco della tanto agognata «competitività». L’austerità è un circolo vizioso, soprattutto senza una crescita capace di aumentare l’occupazione e investimenti mancanti.
I tagli agli enti locali dal 2008 a oggi ammontano a quasi 40 miliardi, risultato della riduzione dei trasferimenti statali di 22 miliardi e di un calo dei finanziamenti per la sanità di 17,5 miliardi. «Per conservare l’equilibrio in risposta alle severe misure correttive del governo» i Comuni — colpiti da tagli per quasi 8 miliardi tra il 2010 e il 2014 — hanno risposto con «aumenti molto accentuati» delle tasse locali.
Oggi il peso del fisco è «ai limiti della compatibilità con le capacità fiscali locali» denuncia la magistratura contabile. La tassazione comunale è infatti balzata dai 505,5 euro a testa del 2011 ai 618,4 euro dello scorso anno. Una pressione che tocca i livelli più alti nei Comuni con più di 250mila abitanti, arrivando a 881,94 euro pro capite.
Se i Comuni hanno risposto ai tagli con una revisione al rialzo delle aliquote Ici-Imu — gli «aumenti generalizzati hanno visto gli incassi passare dai 9,6 miliardi di euro del Ici 2011 ai 15,3 miliardi del 2014 — le Regioni hanno puntato sul taglio degli investimenti e dei servizi con «una compressione delle funzioni extra-sanitarie». Tra il 2009 e il 2015 il taglio al finanziamento del fabbisogno della sanità è stato del 17,5 miliardi.
La Corte dei conti descrive le politiche del rigore fiscale nei termini di un «meccanismo distorsivo» che impone agli enti locali di scaricare i tagli imposti dal l’Europa agli enti locali sul contribuente. L’equivalenza è nettissima: l’aumento delle tasse è dovuto ai tagli alle risorse statali dal 2011. A questo si aggiunge il ritardo nella «ricomposizione delle fonti di finanziamento della spesa» per garantire servizi pubblici efficienti ed economici. Questo significa aziende dei trasporti locali in deficit, come la privatizzazione delle municipalizzate.
E questo nonostante l’incremento consistente delle entrate (+15,63% rispetto al 2013). In altre parole, la crisi di aziende come l’Atac a Roma, di cui tanto si parla in questi giorni, non è solo dovuta all’inefficienza organizzativa, ma a un «baco» nel sistema dei trasferimenti delle risorse. La vendita di pacchetti azionari, o la privatizzazione dei servizi pubblici, sono l’ultimo step che può chiudere un cerchio.
«Serve un piano straordinario di contrasto alle povertà, una vera epidemia per tante zone del Paese, che comprenda più fondi e più servizi» sostiene Antonio Satta — componente del direttivo dell’Anci –In questi anni abbiamo garantito servizi, nonostante un Patto di stabilità che ci ha trasformati in notai più che in amministratori e politici».
Per chi vuole leggerle, queste pagine costituiscono un ammonimento sulle conseguenze dei tagli che verranno, quelli alla Sanità (2,3 miliardi nel 2016) e a quelli alle tasse sulla prima casa (45 miliardi) nei prossimi tre anni. È in arrivo un’altra imbarcata di aumenti delle tasse sui cittadini. La crisi fiscale viene prodotta dai governi. I tagli li pagano i cittadini che, in più, sono obbligati a rinunciare ai servizi, alle cure e ad un trasporto locale efficiente.
E Renzi che dice? Ieri ha assicurato che i soldi «sottratti» ai Comuni per l’abolizione della Tasi/Imu «saranno restituiti integralmente». Magie contabili della finanza creativa.
L’abolizione della tassa sulla prima casa promessa urbi et orbi dal presidente del Consiglio Renzi varrà per 8 milioni di contribuenti, quelli delle due fasce di versamento più basse, circa 55 euro pro-capite, mentre per un milione di contribuenti più ricchi il risparmio sarà in media di circa 827 euro.
Lo sconto per 35.700 proprietari di case di lusso arriverà a circa 1.940 euro. Lo ha calcolato l’ufficio fisco e finanza pubblica della Cgi secondo il quale l’operazione «fornirà benefici molto limitati a chi ha già poco, cioè la maggioranza di lavoratori e pensionati, mentre saranno molto più cospicui per chi possiede proprietà di maggior valore».
Se per le persone a basso reddito i vantaggi saranno, a giudizio della Cgil, modesti, rilevanti saranno invece gli svantaggi: «le mancate entrate derivanti dall’abrogazione di Tasi e Imu — sostiene il segretario confederale Danilo Barbi — saranno coperte da tagli sui servizi normalmente fruiti da questi cittadini». Si parla dei tagli da oltre 2 miliardi di euro per il prossimo triennio alla Sanità: «un ulteriore impoverimento del servizio sanitario pubblico che ridurrà il diritto universale alla salute».
Per quanto riguarda la tassazione sulle imprese, nel 2016, le misure strutturali di riduzione fiscale dovrebbero raggiungere 10 miliardi annui, portando ad un’aliquota del 24% nel 2017. In questo pacchetto non bisogna tanto meno dimenticare la decontribuzione sui nuovi «contratti a tutele crescenti», previsti dal Jobs Act.
La Cgil stima una spesa effettiva di 5 miliardi in tre anni per la creazione complessiva di 200mila unità di lavoro nel settore privato.
Un’impresa vana, di fronte a una disoccupazione che resterà stabile tra il 12 e il 13% nei prossimi anni. La riduzione di Ires e Irap sulle imprese è «l’ennesimo provvedimento ‘a pioggia che prescinde, ad oggi, da investimenti, innovazione, produttività e maggiore occupazione» sostiene Barbi.
Per il 2018, Renzi ha annunciato la riduzione dell’Irpef. La radiografia del sindacato di Corso Italia ha calcolato un risparmio annuo per un reddito di 18mila euro di 970 euro; per uno di 35mila euro di 2.950; per uno di 150 mila di 11.800 euro. In pratica il Pd e Renzi agiscono come un Robin Hood alla rovescia: danno ai più ricchi ciò che hanno tolto ai più poveri, rovesciando ogni criterio di progressività della tassazione e, anzi, agevolando la legge principale della disuguaglianza contemporanea: la ricchezza premia sempre il vertice della piramide sociale. In basso «sgocciolano» sempre meno risorse.
L’analogia tra le politiche fiscali di Berlusconi e Tremonti e quelle di Renzi e del Pd non è una semplificazione di comodo. Per la Cgil si tratta della stessa politica: «Evoca una riforma dell’Irpef con due sole aliquote, non garantirebbe più la progressività del sistema tributario. Il risparmio fiscale sarà così tanto più ragguardevole, quanto maggiore è il reddito».
Non solo: sono politiche che non servono all’aumento dell’occupazione, che non sia quella «drogata» da incentivi che tutt’al più trasformano i contratti esistenti in quelli a «tutele crescenti». «Ciascuna di queste nuove misure fiscali non favorirà l’occupazione, e tanto meno stimolerà la crescita del Paese» conferma Barbi.
Il pacchetto «taglia-tasse» del governo prevederebbe una revisione della spesa pubblica complessiva di circa 26 miliardi. Una prospettiva che preoccupa il sindacato che propone un’altra strada: la creazione diretta di occupazione e investimenti pubblici che avrebbe un beneficio sul Pil quattro volte superiore rispetto ad un taglio generalizzato delle tasse.
Il Pais - La Repubblica, 2 agosto 2015
«Il sadico dispotismo dell’ideologia dominante». «La lettura morale di questa crisi». «L’abbraccio mortale del debito». Yanis Varoufakis accoglie El País nella sua casa al centro di Atene; la sua ormai celebre moto è parcheggiata all’angolo della strada, pronta a ripartire rombando alla fine dell’intervista. Visto da vicino, Varoufakis è amabile, attento e disinvolto. Offre al giornalista una tazzina di caffè preparato di fresco, e subito si capisce perché la sua lingua è considerata una delle più affilate d’Europa. Parlando a mitraglia, usa toni tra il solenne e il drammatico, con l’economia e la politica come generi letterari al servizio di un alibi: la Grecia epitome della crisi europea, e quest’ultima vista non come una fase transitoria, ma come uno stato tendente a perpetuarsi.
Alcuni giorni fa ha lasciato il ministero. Come è cambiata la sua vita quotidiana?
«I giornali pensano che io sia deluso per aver lasciato il governo. Di fatto però io non sono entrato in politica per far carriera, ma per cambiare le cose. E chi cerca di cambiarle paga un prezzo».
Quale?
«L’avversione, l’odio profondo dell’establishment. Chi entra in politica senza voler far carriera finisce per crearsi questo tipo di problemi ».
Intanto la Grecia continuerà a subire la tutela della Troika...
«Noi avevamo offerto all’Fmi, alla Bce e alla Commissione l’opportunità di tornare ad essere le istituzioni che erano in origine; ma hanno insistito per ripresentarsi come Troika. Ma l’ultimo accordo si basa sulla prosecuzione di una farsa, ma si tratta solo di procrastinare la crisi con nuovi
prestiti insostenibili, facendo finta di risolvere il problema. Ma si può ingannare la gente, si possono ingannare i mercati per qualche tempo, non all’infinito».
Cosa si aspetta nei prossimi mesi?
«L’accordo è programmato per fallire. E fallirà. Siamo sinceri: il ministro tedesco Wolfgang Schaeuble non è mai stato interessato a un’intesain grado di funzionare. Ha affermato categoricamente che il suo piano è ridisegnare l’eurozona: un piano che prevede l’esclusione della Grecia. Io lo considero come un gravissimo errore, ma Schaeuble pesa molto in Europa. Una delle maggiori mistificazioni di queste settimane è stata quella di presentare il patto tra il nostro governo e i creditori come un’alternativa al piano di Schaeuble. Non è così. L’accordo è parte del piano Schäuble».
La Grexit è ormai scontata?
«Speriamo di no. Ma mi aspetto molto rumore, e poi rinvii, mancato raggiungimento di obiettivi che di fatto sono irraggiungibili, e l’aggravamento della recessione, che finirà per tradursi in problemi politici. Allora si vedrà se l’Europa vuole davvero continuare a portare avanti il piano di Schäuble oppure no».
Schäuble ha suggerito di togliere poteri alla Commissione, e di applicare le regole con maggior durezza. Se sarà lui a vincere la Grecia è condannata?
«C’è un piano sul tavolo, ed è già avviato. Schaeuble vuole mettere da parte la Commissione e creare una sorta di super-commissario fiscale dotato dell’autorità di abbattere le prerogative nazionali, anche nei Paesi che non rientrano nel programma. Sarebbe un modo per assoggettarli tutti al programma. Il piano di Schaeuble è di imporre dovunque la Troika: a Madrid, a Roma, ma soprattutto a Parigi».
A Parigi?
«Parigi è il piatto forte. È la destinazione finale della troika. La Grexit servirà a incutere la paura necessaria a forzare il consenso di Madrid, di Roma e di Parigi».
Sacrificare la Grecia per cambiare la fisionomia dell’Europa?
«Sarà un atto dimostrativo: ecco cosa succede se non vi assoggettate ai diktat della Troika. Ciò che è accaduto in Grecia è senza alcun dubbio un colpo di Stato: l’asfissia di un Paese attraverso le restrizioni di liquidità, per negargli l’imprescindibile ristrutturazione del debito. A Bruxelles non c’è mai stato l’interesse di offrirci un patto reciprocamente vantaggioso. Le restrizioni di liquidità hanno gradualmente strangolato l’economia, gli aiuti promessi non arrivavano; c’era da far fronte a continui pagamenti a Fmi e Bce. La pressione è andata avanti finché siamo rimasti senza liquidità. Allora ci hanno imposto un ultimatum. Alla fine il risultato è uguale a quando si rovescia un governo, o lo si costringe a gettare la spugna ».
Quali gli effetti per l’Europa?
«Nessuno è libero quando anche una sola persona è ridotta in schiavitù: è il paradosso di Hegel. L’Europa dovrebbe stare molto attenta. Nessun Paese può prosperare, essere libero, difendere la sovranità e i suoi valori democratici quando un altro Stato membro è privato della prosperità, della sovranità e della democrazia».
Anche se è vero che la Grecia ha cambiato i termini del dibattito, in politica si devono ottenere dei risultati. I risultati la soddisfano?
«L’euro è nato 15 anni fa. È stato concepito male, come abbiamo scoperto nel 2008, dopo il tracollo della Lehman Brothers. Fin dal 2010 l’Europa ha un atteggiamento negazionista: l’Europa ufficiale ha fatto esattamente il contrario di quanto avrebbe dovuto fare. Un Paese piccolo come la Grecia, che rappresenta appena il 2% del Pil europeo, ha eletto un governo che ha messo in campo alcuni temi essenziali, cruciali. Dopo sei mesi di lotte siamo davanti a una grande sconfitta, abbiamo perso la battaglia. Ma vinciamo la guerra, perché abbiamo cambiato i termini del dibattito ».
Lei aveva un piano B: una moneta parallela, in caso di chiusura delle banche. Perché Tsipras non ha voluto premere quel pulsante?
«Il suo lavoro era quello di un premier. Il mio, nella mia qualità di ministro, era di mettere a punto i migliori strumenti per quando avremmo preso quella decisione. C’erano buoni argomenti per farlo, come c’erano per non premere quel pulsante».
Alessandra Longo intervista Paolo Gerimberti, ex presidente della Rai, a proposito della riforma della maggiore struttura per la formazione dell'opinione pubblica italiana. «Questa riforma non va, è solo una brutta fiction e lascia la lottizzazione». Come prima, peggio di prima.
LaRepubblica, 2 agosto 2015
Paolo Garimberti, attualmente presidente del consiglio di sorveglianza di Euronews, è stato presidente della Rai dal 2009 al 2012. Tre anni che non ricorda come esaltanti: «Ho trascorso il mio tempo ad evitare guai all’azienda. Ricordo come un incubo le ore passate nei consigli di amministrazione, uno alla settimana...». Garimberti è stato ascoltato dalla Commissione di Vigilanza: «Mi hanno chiesto cosa ne pensavo di un amministratore delegato scelto dal governo, come prevede la riforma. Ho risposto che è una cosa insana». C’era anche Gasparri. Era gonfio come un tacchino dalla gioia. Lo capisco. Al posto suo sarei un pallone aerostatico ».
Garimberti, la Rai diventerà mai la Bbc?
«Solo il nostro provincialismo ne fa un mito. La Bbc è messa malissimo, tra scandali sugli stipendi gonfiati dei manager, un conduttore pedofilo, qualità scadente dei servizi, penso alla diretta sulle elezioni inglesi. La Rai sa fare molto meglio».
Come giudica il disegno di legge passato al Senato?
«La peggior fiction che la Rai abbia mai prodotto su se stessa. Prima le promesse roboanti, del tipo “Faremo la Bbc” (senza contare che, appunto, la Bbc è un mito in frantumi), e poi, come nel gioco dell’oca, questo approdo inquietante, un nuovo Cda fatto con la Gasparri! Una decisione sorprendente».
La governance Rai: si cade sempre lì.
«Sempre e ancora la stessa governance costruita per favorire l’impossessamento della Rai da parte della politica. Mi fa sorridere l’idea del futuro Cda. A riforma passata ci saranno sette consiglieri: due spettano alla Camera, due al Senato, due al governo, uno all’Associazione dipendenti Rai. Norme fatte apposta per continuare a lottizzare ».
Ci sarà un ad potentissimo.
«Sui poteri dell’ad sono d’accordo. Un sistema di comunicazione come la Rai deve essere guidato da una persona con poteri adeguati altrimenti si diventa preda di conflitti politici continui».
Però negli altri Paesi la scelta dell’amministratore delegato non spetta al governo.
«In Francia hanno capito che non si può. Prima il presidente della televisione francese era nominato dal presidente della Repubblica e veniva percepito come un suo uomo. Adesso il sistema è cambiato. C’è una commissione indipendente che esamina i candidati e sceglie».
Mi sembra chiaro che la riforma in Parlamento, così com’è, non le piace proprio.
«Hanno partorito un Topolino e non affrontano i temi veri. Il primo dei quali è il perimetro della Rai. Ha troppi canali: 13. Considerando che le risorse sono quelle che sono, ne basterebbero 5: due generalisti, uno di sport, uno di cultura, uno di informazione 24 ore su 24».
E c’è la questione del canone.
«Il canone è ridicolo, uno dei più bassi d’Europa.E’ impopolare perché viene vissuto come una tassa a favore della Rai e non come il corrispettivo per poter usare il televisore. Nessun governo italiano ha osato porre seriamente il tema».
Se ci fosse un progetto di respiro per il futuro della Rai forse ci sarebbero meno pole- miche su tutto, anche sul canone.
«Fare un buon servizio pubblico è un dovere morale. Ho sperato in una Rai nuova, autonoma e indipendente dalla politica, in una Rai che si renda conto che ormai il mondo è fatto dalla Rete e la Rai sulla Rete non c’è. Mi ritrovo invece con il nuovo Cda eletto con la Gasparri e con le solite logiche di sempre. Se questo è il rottamatore io sono Gengis Khan» Che ricordi ha dei suoi tre anni di presidenza?
«Ricordi di lunghissimi consigli di amministrazione, uno alla settimana. Ore e ore a discutere di una singola fiction, per esempio il Barbarossa che voleva la Lega... La Rai è e sarà sempre paralizzata nel processo decisionale ».
Nonostante tutto, la Rai è pur sempre la più grande azienda culturale del Paese.
«Lo era sicuramente anni fa. Oggi purtroppo non è più così. Non ci si può nascondere dietro gli ascolti di Sanremo. La Rai oggi è un’azienda senz’anima, senza identità».
Ecco perché non è irragionevole la proposta di Tsipras e Varafoukis di ragionare sul debito finanziario della Germania nei confronti del mondo.
Ytali, 30 luglio 2015
di Susanna Böme-Kuby
La preoccupazione per una montante “sindrome antitedesca” si potrebbe lasciare agli stessi tedeschi che si sentono di nuovo vittime e messi alla gogna, e non solo dai “radicali di sinistra” nell’Europa meridionale: “Die Ungeliebten/ I non amati” titola Die Zeit. Il settimanale si sofferma sui modi in cui viene percepito lo stile autoritario tedesco nelle trattative con la Grecia, non affronta la sostanza del contenzioso, ma auspica infine di poter dare “alla predominanza economica dei tedeschi una nuova forma accettabile nella tradizione dell’umanesimo europeo”.
Mi pare utile invece mettere in luce le cause profonde del complesso squilibrio intereuropeo nel quale riemerge dall’attuale tragedia greca anche una “nuova questione tedesca”, rilevata dal New York Times. Lo strangolamento di fatto dell’economia greca costituisce una realtà che viene percepita in modi completamente diversi non solo tra nord e sud, ma anche all’interno delle nazioni stesse, e la miopia tedesca appare eclatante.
Marco D’Eramo ha rilevato la grande responsabilità delle élite tedesche, quella “di aver consentito, incoraggiato e infine imposto alla stragrande maggioranza della popolazione tedesca una visione della storia che niente ha a che vedere con la realtà e che favorisce tutti gli stereotipi più nazionalisti, xenofobi e persino razzisti.” E chiama in causa il gioco delle parti “di una classe dominante che si dice ‘costretta’ a esigere dalla Grecia insane misure di austerità, perché altrimenti perderebbe i favori di un’opinione pubblica” che questa stessa classe ha plasmato per non perdere il consenso popolare.
Mi torna in mente a proposito la nota constatazione di Axel Springer, primo monopolista della stampa tedesco-occidentale e fondatore nel 1947 del quotidiano Bild: “Alla fine della guerra ho capito che c’era una cosa che il lettore tedesco non avrebbe voluto fare in nessun modo: riflettere, pensare. Di conseguenza ho impostato i miei giornali.”
Vent’anni dopo furono gli studenti del ’68 a chiedere nei loro cortei: “Espropriate Springer!” Invano. La sua vedova, Friede Springer, una delle donne più influenti dell’establishment tedesco, è anche una stretta consigliera di Angela Merkel. E lo Springer-Konzern opera oggi in una quarantina di paesi, soprattutto nei paesi dell’est ex-sovietico.
Il progetto concreto degli Stati uniti d’Europa è nato un secolo fa non dall’impeto popolare, ma dalle esigenze economiche delle élite europee per assicurarsi un loro spazio vitale nel nuovo ordine mondiale dopo la fine del predominio britannico.
Lenin aveva intuito già nel 1915 che un’Europa unita su base capitalista avrebbe riproposto dei rapporti economici di tipo coloniale tra le singole nazioni. E il primo modello paneuropeo del Conte Coudenhove-Calergi propose, dopo la prima guerra mondiale, una unione dotata di moneta unica che doveva garantire l’unità economica e militare all’Europa come baluardo contro l’Unione sovietica, di cui si temevano contagi e mire espansive.
Le idee europeiste del grande capitale dopo la seconda guerra mondiale si orientavano in una direzione simile, sempre in funzione antisovietica, ora pro-atlantica.
Ovviamente dopo i due macelli mondiali si prospettò ai popoli europei una ricostruzione pacifica in una futura unione europea quale garante di pace che durò per circa quarant’anni. Ma la fine della guerra fredda aprì un altro scenario. Anziché smilitarizzarsi la UE venne di fatto associata alla NATO dagli anni Novanta in poi e impegnata per la prima volta dopo il 1945 in nuove guerre (“missioni umanitarie”) nello stesso ambito europeo (Jugoslavia) e nel resto del mondo.
In tal modo la UE è tuttora non autonoma in politica estera, ma strettamente legata agli USA. Le divergenze d’interesse tra i due poli sono evidenti e preoccupanti in molti casi, quello più pericoloso si sta sviluppando attualmente sul nuovo “fronte orientale” della NATO, in Ucraina. Di questo scenario occorre tener presente quando si parla della Grecia, avamposto sudorientale della UE/NATO. Dove nella guerra civile dopo la guerra era stata impedita una svolta comunista e imposta negli anni sessanta una pesante dittatura militare.
La Repubblica federale tedesca è dal suo inizio nel 1949 il perno di quell’Europa atlantica, e i suoi presupposti industriali, economici e sociali permisero una ricostruzione e una crescita molto più rapide che in paesi vicini, magari vincitori della guerra.
Tra quelle premesse storico-economiche – che sono alla base anche dell’odierna predominanza tedesca in Europa – occorre ricordare lo stock del capitale privato accumulato sfruttando il lavoro coatto e mai retribuito di ben 18 milioni di lavoratori stranieri trascinati di forza nella grande Germania durante la guerra. E anche il fatto che le ingenti riparazioni di guerra dovute dal Reich tedesco sia dopo la prima sia dopo la seconda guerra mondiale a una sessantina di Stati belligeranti, vennero pagate solo in minima parte. (Solo il risarcimento più grande, quello assegnato dagli Alleati all’URSS durante la Conferenza di Potsdam (1945), venne in seguito pagato esclusivamente dalla Germania orientale, poi RDT.) Fu guerra fredda. Quando questa venne dichiarata di fatto nel 1947 dal Segretario di Stato John F. Dulles, insieme all’annuncio del piano Marshall per un’Europa postbellica modello USA, era ovvio che quell’Europa sarebbe stata lontana da modelli come quello federale e neutrale di Ventotene o quello a favore di uno sviluppo socialista del manifesto di Buchenwald.
L’Europa atlantica metteva al suo centro il motore economico pressoché intatto della Germania occidentale e prevedeva da subito anche il suo riarmo nell’ambito della futura NATO. Per agevolare lo sviluppo e la riammissione politica della Germania nel contesto europeo si elaborò a Londra nel 1953 un complesso Trattato sul debito che abbonò al Reich tedesco la parte maggiore dei suoi debiti di guerra nei confronti del resto del mondo, spostando eventuali risarcimenti ulteriori a un futuro Trattato di pace dopo un’ipotetica riunificazione delle due repubbliche tedesche fondate nel 1949.
Ma quando questa riunificazione avvenne infine, nel 1989/90, i tedeschi elusero ancora – con l’Accordo 2+4 tra le due Germanie e gli Alleati – la stipula di un vero Trattato di pace che avrebbe riaperto molte richieste e problematiche che ormai la Germania unita vuole chiuse per sempre. Rimane invece di fatto – oltre all’incancellabile colpa tedesca – anche un enorme debito mai onorato.
Non per ultimo stona anche per questo la rigida richiesta dei tedeschi ai greci di pagare il loro debito come ogni buon padre di famiglia. Di fronte alle difficoltà generate dallo squilibrio dovuto anche all’attuale eccessivo export e surplus tedesco si dovrebbe ricominciare a parlare del vecchio debito tedesco ad alta voce in Europa. La questione non riguarda solo i greci, che l’hanno sollevata da tempo, ma anche altri, come gli italiani ben sanno.
In un recente studio (Griechenland am Abgrund. Die deutsche Reparationsschuld, Hamburg, VSA, 2015), recensito su il manifesto da Beppe Caccia (4/7/2015), lo storico Karl Heinz Roth ha sviluppato un piano dettagliato di come la Germania potrebbe onorare almeno nei confronti della Grecia il suo debito di guerra per evitare il crollo dell’intero assetto europeo:
I 7,1 miliardi di dollari concessi nel 1946 alla Conferenza di Parigi alla Grecia corrispondono oggi ad almeno novanta miliardi di euro. Roth propone quindi un trasferimento di una parte delle ricche riserve auree della Bundesbank alle istituzioni finanziarie europee: 28 miliardi per coprire il necessario taglio del cinquanta per cento del debito pubblico greco, sette miliardi alla Banca centrale greca per una programmi di aiuti immediati, 25 miliardi alla Banca europea di investimenti che metterà a disposizione dei crediti non rimborsabili per un grande programma di investimenti da parte di una Banca pubblica greca, otto miliardi per un fondo di risarcimento alla Memoria al quale potrebbero attingere i familiari delle vittime dei massacri tedeschi di guerra oltre al finanziamento di un Istituto di ricerca su guerra, occupazione e resistenza, i restanti 22 miliardi per un fondo di risarcimento europeo a favore anche di altri gruppi di vittime – come punto di partenza per una grande conferenza internazionale che dovrebbe essere in grado di mettere fine alle ipoteche della seconda guerra mondiale che tuttora, ben settant’anni dopo, gravano ancora in modo rilevante sul futuro europeo.
Si obietterà che negli attuali rapporti di forza un simile progetto appare irreale, utopico. Ma l’idea che si possano usare questi vecchi debiti tedeschi per finanziare un programma post-keynesiano in grado di portare fuori dalla crisi le economie europee da un disastro prevedibile, se non si cambia sistema, potrebbe costituire un grande compito politico per le sinistre unite europee. E la Germania potrebbe finalmente entrare in sintonia con la “tradizione dell’umanesimo europeo”, auspicato da Die Zeit.
gli incentivi alle imprese la stagnazione prosegue, così come il passaggio dal lavoro garantito a quello precario. Fichè restano avvolti nel modello tatcheriano non c'è salvezza. Il manifesto, 1 agosto 2015
Sostiene l’Istat che il primo semestre 2015 si è chiuso con un andamento del mercato del lavoro per nulla positivo: a giugno il tasso di disoccupazione per l’intera popolazione è tornato al 12.7% e quello giovanile raggiunge il 44.2%. Il numero di occupati continua a diminuire a giugno di 22 mila unità in un mese, dopo il calo di maggio di 74 mila unità. Diminuisce anche il tasso di inattività, spiegato dalle condizioni drammatiche in cui versano le famiglie e non dalla fiducia ritrovata (che proprio a giugno mostra un calo significativo), come invece vuole farci credere il governo.
Il calo del numero di occupati a giugno è stato trainato interamente dalla componente maschile e giovanile. Nel confronto con giugno 2014, in Italia ci sono 40 mila occupati in meno: mentre per gli uomini il numero di occupati diminuisce (-82 mila), per le donne aumenta specularmente (+42 mila unità). Rispetto allo stesso mese del 2014, il tasso di disoccupazione maschile è aumentato del 7.5% (da 11.5 a 12.3 percento), mentre quello femminile è diminuito del 3%, rimanendo comunque a un livello (13.1%) di gran lunga superiore alla media europea. Nello stesso periodo, il tasso di occupazione dei giovani tra i 14 e i 25 anni è crollato dell’8% in un anno.
Il governo che doveva risolvere — come molti altri che l’hanno preceduto — la disoccupazione, fenomeno strutturale aggravato dalla crisi, si rivela di fatto inadeguato ad affrontare il problema: l’unica politica attiva è stata quella di regalare alle imprese miliardi di sgravi sul costo del lavoro da utilizzare liberamente per accrescere la propria liquidità e profitti piuttosto che investire e creare occupazione. Il governo non è soltanto incapace di far fronte a un fenomeno drammatico, ma appare anche deleterio, data l’assenza di programmazione e i tagli al welfare. Se è presto per giudicare in modo esaustivo il JobsAct, rimane incontestabile che dall’insediamento del governo Renzi, il tasso di disoccupazione sia aumentato del 3.5% a fronte di un calo del tasso di inattività di un esiguo 0.2%.
Dopo lo Svimez, anche l’Istat guasta la festa al governo. Ventiduemila occupati in meno e cinquantacinque mila disoccupati in più a giugno, 85 mila in più dal 2014, hanno indotto ieri il presidente del Consiglio Matteo Renzi a parlare di «piccola ripartenza» dell’occupazione. A Renzi è stato suggerito di guardare i dati Istat che attestano la riduzione degli inattivi, sintomo di una maggiore partecipazione al mercato del lavoro. Una tendenza che si è strutturata nell’ultimo anno: –0,9% (-131 mila). «C’è ancora moltissimo da fare ma i dati sono interessanti perché quelli che vengono considerati inattivi, che erano sfiduciati o rassegnati, tornano a crederci - ha detto - cioè aumenta il numero di persone che ha trovato un posto di lavoro ma anche chi lo sta cercando».
A riprova della strategia del governo, tutta in difesa per giustificare dati da stagnazione pura e semplice, sono arrivati anche i pensieri del responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, il quale sostiene che la «crescita» (data allo 0,7%) produrrà effetti occupazionali in autunno, «con sei mesi di ritardo». C’è qualcosa che però non funziona nella trincea scavata dal governo sotto l’intenso cannoneggiamento della crisi: se il tasso di inattività diminuisce, dovrebbe diminuire allora anche quello della disoccupazione. Invece accade il contrario, e non da ieri. Si torna a sfiorare il record del 13% (siamo al 12,7%).
In pratica, coloro che perdono il lavoro sono di più di quelli che lo cercano e sono tornati a «mettersi in gioco» come direbbe Renzi. Chi invece ha trovato un lavoro esce dalla cassa integrazione. Lo attestano i dati: tra il 2014 e il 2015 110 mila persone si trovano in questa situazione. Taddei e il ministro del lavoro Poletti ieri lo hanno rivendicato.
Solo che c’è un grande problema: non si tratta di nuovi posti di lavoro, quelli tanto promessi, ma sono conversioni di quelli già esistenti, ma precari. Le imprese non stanno creando nuovi posti di lavoro, ma si limitano ad incassare gli sgravi fiscali elargiti dal governo. Da Palazzo Chigi si giustificano sostenendo che arriveranno «dopo», ma si sa che la teoria dei due tempi non funziona mai. Per avere un quadro più attendibile, e meno ideologico, della situazione dalle parti della maggioranza bisogna prestare ascolto ad uno degli alleati di Renzi, per di più ex ministro del lavoro e presidente della commissione lavoro del Senato: «Il governo – ha spiegato Maurizio Sacconi — deve riflettere sugli impulsi prioritari alla crescita posto che gli oltre 16 miliardi di detassazione sul lavoro hanno sortito effetti modesti. Come insegna la ripresa spagnola, non basta la domanda estera se non si congiunge con la rianimazione di quella interna».
Per Sacconi tale «rianimazione» avverrà con il taglio delle tasse promesse da Renzi sugli immobili, per pagare i quali il governo taglierà la sanità pubblica. Un pasticcio, prodotto purissimo dell’austerità, da cui non sarà facile uscire per l’esecutivo. Da questi discorsi, fatti arrampicandosi sugli specchi, ieri è rimasto in un cono d’ombra il continente della disoccupazione giovanile: al 44,2%. Dopo il fallimento del programma di Garanzia Giovani, per il governo è ormai un tabù, tanto è vero che non ieri non ne ha parlato. In questo caso non ci sono «fluttuazioni dovute alla ripresa» come sostiene Poletti per la disoccupazione generale. La tendenza è univoca: i giovani, e le donne, under 34 sono ormai le vittime accertate della crisi. Alfredo D’Attorre, deputato della sinistra Pd, coglie il punto: «Mai è stata così alta – sostiene – si scrive dal 77 solo perché allora cominciano le serie statistiche omogenee, in realtà allora la disoccupazione giovanile era al 21,7%, oggi è al 44,2%». I giovani sono perduti lungo la strada sognata della «crescita».
«L’Istat conferma come l’occupazione giovanile sia instabile e di breve durata – ha sostenuto Serena Sorrentino (Cgil) – Il Jobs Act non dà risposte, ma il governo è ancora in tempo per modificarne radicalmente i decreti. La smetta di finanziare a pioggia le imprese e finanzi un piano per il lavoro». L’impotenza sui giovani e la «mal riuscita Garanzia Giovani» spinge Guglielmo Loy (Uil) a parlare di fallimento delle politiche del lavoro. «Non è sufficiente un incentivo per aumentare l’occupazione» ha aggiunto Gigi Petteni della Uil. Da parte delle opposizioni duplice è la richiesta: «reddito di cittadinanza e interventi per il bene pubblico» (Giorgio Airaudo, Sel) e «abbandono della leva fiscale e investimenti pubblici che trainano quelli privati. Altrimenti il Titanic di Renzi e Poletti punterà dritto verso l’iceberg» (Movimento 5 Stelle).
Il viaggio procede a velocità sostenuta.
«Una storia di ragazzi di 35 anni fa, mescolata alla politica e alle trame del tempo, di cui i ragazzi di oggi mostrano di sapere poco o niente. Forse perché è stata digerita in fretta, a dispetto degli enigmi irrisolti e degli intrecci con le altre vicende del terrorismo italiano e straniero».
Corriere della Sera, 1 agosto 2015 (m.p.r.)
Il 2 agosto 1980 alle 10.25 ci fu una violentissima esplosione nella stazione di Bologna, affollata di turisti in arrivo e partenza per le vacanze. È considerato il più grave atto terroristico compiuto in Italia nel secondo dopoguerra. La bomba era composta da 23 chili di esplosivo chiuso in una valigia posta su un tavolino. Di una delle vittime, una donna, non venne ritrovato il corpo. L’esplosione la disintegrò.
Angela Fresu stava per compiere 3 anni, sua madre Maria - contadina della provincia di Sassari - ne aveva festeggiati 24 a febbraio. Sonia Burri aveva 7 anni, sua sorella Patrizia 18; venivano da Bari. Roberto Gaiola, vicentino, era uno studente di 14 anni come il tedesco Eckhard Mader (il fratello Kai ne aveva 8). Antonella Ceci, diciannovenne di Rimini, era fidanzata con Leoluca Marino, operaio, 24 anni, siciliano come le sorelle Domenica e Angelina, 26 e 23 anni.
Sono alcune delle vittime della strage: bambini, ragazzi o poco più. Degli ottantacinque morti, circa la metà non aveva trent’anni. Giovani vite spezzate da giovani assassini, stando alla sentenza che ha individuato tre colpevoli: Valerio Fioravanti, 22 anni; Francesca Mambro, 21; Luigi Ciavardini, nemmeno 18: è stato processato a parte, dal tribunale dei minorenni. Loro, terroristi-ragazzini sotto la sigla neofascista dei Nuclei armati rivoluzionari, per la bomba si proclamano innocenti nonostante la condanna definitiva. Hanno rivendicato e ammesso omicidi di poliziotti, carabinieri, magistrati, avversari politici e «camerati» accusati di tradimento; ma la strage no, ripetono da sempre. Dopo aver scontato la pena, sono tornati liberi; in Italia si può, anche con più di un ergastolo sulle spalle.
Esecutori giovani, depistatori anziani
Una storia di ragazzi di 35 anni fa, mescolata alla politica e alle trame del tempo, di cui i ragazzi di oggi mostrano di sapere poco o niente. Forse perché è stata digerita in fretta, a dispetto degli enigmi irrisolti e degli intrecci (reali, plausibili o solo immaginari) con le altre vicende del terrorismo italiano e straniero, che il Paese ha archiviato nonostante le risposte mancanti; dai legami col resto dell’eversione nera ai possibili collegamenti con la strage di Ustica (il Dc9 precipitato con 81 persone a bordo il 27 giugno 1980) e con il terrorismo medio-orientale.
Anziani, o comunque uomini maturi, furono invece i depistatori accertati. A cominciare da Licio Gelli, il «grande vecchio» dei misteri italiani, oggi novantaseienne, condannato per aver tentato di deviare le indagini, all’ombra della Loggia P2, insieme a due alti ufficiali del servizio segreto militare, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, e al faccendiere Francesco Pazienza. Un altro giovane estremista nero dell’epoca, Massimo Carminati, poi passato armi e bagagli alla criminalità comune e ora nuovamente in carcere con l’accusa di essere il capo di Mafia Capitale, fu anche lui processato e infine assolto per aver contribuito al depistaggio. Per quel che lo riguarda Gelli nega tutto, la sua idea è che l’attentato non fu nemmeno voluto: qualcuno trasportava una valigia di esplosivo e un mozzicone di sigaretta provocò il disastro. Spiegazione banale quanto «minimale» per l’atto di terrorismo più grave verificatosi nel dopoguerra nell’intera Europa occidentale.
Politica e strategia della tensione
L’ultimo capitolo della cosiddetta strategia della tensione, sostengono i più; anche perché, se pure Fioravanti, Mambro e Ciavardini fossero innocenti (così si chiamava il comitato sorto in loro difesa al tempo dei processi, al quale aderirono diversi esponenti della sinistra), ciò non significherebbe che l’eccidio non sia ascrivibile ai neo-fascisti. Anzi. Nell’andamento altalenante dei verdetti (condanne in primo grado, assoluzioni in appello, annullamento della Cassazione, nuove condanne nell’appello-bis e conferma in Cassazione) si sono persi per strada nomi noti dell’eversione nera della generazione precedente, già coinvolti nelle indagini sulle stragi del periodo 1969-1974, da piazza Fontana al treno Italicus, passando per Brescia. Assolti o prosciolti, certo. Ma a star dietro alle sole condanne, per contare i responsabili del lungo rosario di bombe che hanno insanguinato l’Italia basterebbero le dita di una mano. Un po’ poco. Ci dev’essere dell’altro. Anche per Bologna.
Nel 1980 il quadro politico era ben diverso da quello dei primi anni Settanta: l’avanzata delle sinistre si era arenata, e dopo il delitto Moro (1978) il Partito comunista era definitivamente uscito dall’area di governo; ogni timore di cedimento sul fronte orientale dell’Europa divisa in due poteva considerarsi superato, nonostante mancasse un altro decennio al crollo del muro di Berlino. Capo del governo era Francesco Cossiga (che bollò subito la strage come «fascista» salvo chiedere successivamente scusa), seguito da Arnaldo Forlani (travolto in pochi mesi dallo scandalo P2), e poi dal repubblicano Giovanni Spadolini, primo non-democristiano a entrare a palazzo Chigi nella storia della Repubblica. In ogni caso, il terrorismo di sinistra bastava e avanzava per tenere alta la guardia filo-occidentale.
Trentacinque anni dopo, il mistero della strage persiste intorno al movente: ci sono i nomi dei giovanissimi esecutori materiali, d’accordo, ma mancano mandanti e intermediari. Pedine di un gioco inevitabilmente più grande, in un mondo che esiste più, rimaste senza manovratori. Nella ricostruzione iniziale c’erano, da Gelli in giù, ma col tempo troppi anelli della catena si sono spezzati per comporre un quadro credibile. Basti dire che alla fine pure il neofascista veneto (e più in età) Massimiliano Fachini uscì assolto, così come Sergio Picciafuoco, l’unico certamente presente sul luogo del delitto perché rimasto ferito.
I dubbi sul movente e le altre piste
L’associazione dei familiari delle vittime, per bocca del suo presidente Paolo Bolognesi, attuale deputato del Pd, sostiene che in realtà sullo sfondo altri colpevoli si intravedono, e di recente un nuovo dossier è stato consegnato agli inquirenti affinché svolgano ulteriori indagini. «Sarà valutato con grande attenzione e pari riservatezza», annuncia il procuratore aggiunto di Bologna. Si vedrà. Le piste alternative degli ultimi anni (compresa quella palestinese legata al gruppo terroristico che guardava a Est guidato da Carlos) sono state archiviate perché costruite su indizi rivelatisi troppo labili. E in generale è auspicabile che si proceda con cautela e diligenza, perché pure sul processo approdato alle tre condanne definitive rimangono dubbi e sospetti sulla genuinità delle prove; a cominciare dalla confessione dell’informatore che «inchiodò» Mambro e Fioravanti.
Tutto questo pesa su una strage di cui gli italiani continuano a sapere troppo poco. Non solo per colpa loro: anche per i più informati restano troppe zone d’ombra. E restano le storie delle vite saltate in aria il 2 agosto di 35 anni fa. Come quella di un’altra giovane vittima: Mauro Di Vittorio, 24 anni, romano simpatizzante dell’estrema sinistra, recentemente tirato in ballo da qualche «revisionista» come ipotetico complice della trama medio-orientale. L’ultimo provvedimento di archiviazione l’ha del tutto scagionato. Sua sorella Anna e il marito Giancarlo (amico di Sergio Secci, stessa età di Mauro, ferito nell’esplosione e morto dopo 5 giorni di agonia) continuano a studiare le carte giudiziarie per difenderne pubblicamente la memoria violata.
NEL Pd le tensioni crescono, sia al centro che in periferia. In parlamento le defezioni rispetto alle decisioni del partito, dal voto sull’arresto del senatore Azzollini agli emendamenti sulla riforma della Rai, hanno messo in minoranza il governo. In periferia il segretario non ha piegato la resistenza del sindaco di Roma Ignazio Marino né quella del governatore siciliano Rosario Crocetta, e ora anche il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano alza la voce reclamando fondi per il Sud. Emerge sempre più chiaramente la difficoltà di conciliare il ruolo di segretario di partito con quello di capo del governo. Non per nulla ieri Renzi ha riconosciuto che i contrasti interni devono risolversi tra le mura del partito e non scaricarsi in parlamento. Giusto, ma per questo è necessario che il partito torni ad essere il luogo privilegiato della discussione e dell’elaborazione politica, non l’occasione di passerelle in streaming e diluvi di tweet.
In questi ultimi diciotto mesi non è stata avviata nessuna discussione approfondita sulla strategia da perseguire e sulle iniziative da prendere, con parziale eccezione della riforma sulla scuola. Certo il Pd si è trovato in una situazione del tutto inedita, e quindi difficile da gestire: essere il partito dominante in parlamento e alla guida del governo. Bisogna tornare ai fasti della Dc degli anni Cinquanta per trovare situazioni analoghe; e agli esecutivi di Amintore Fanfani per trovare una sovrapposizione tra leadership partitica e premiership governativa. Il predominio politico- parlamentare del Pd, fin qui quasi senza avversari, e la condizione difficile in quanto “anomala” del suo leader, catapultato in due posizioni di vertice senza nessuna esperienza parlamentare o di direzione politica, ha prodotto tensioni e cortocircuiti; e non poteva essere altrimenti. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Renzi ha perso vento perché non riesce a farsi seguire da tutto il suo partito, tanto al centro quanto in periferia. L’ ostentata disattenzione riservata alla vita del Pd si è ritorta come un boomerang sul leader.
Anche sulle infiltrazioni criminali nel partito romano, denunciate oltre che dalla magistratura da una coraggiosa indagine interna affidata ad un super partes come Fabrizio Barca, il segretario di partito porta “oggettivamente”, per il suo stesso ruolo, una parte di responsabilità: inevitabili oneri della leadership. Se poi al suo disinteresse aggiungiamo quel fastidio per le critiche interne unito ad una sottovalutazione al limite dell’irrisione degli oppositori (Fassina chi?) e una conoscenza opaca del partito nel territorio, capiamo cosa ha portato Renzi a cercare soluzioni altrove, all’esterno, prima con il patto del Nazareno, ora con la sua riedizione in sedicesimo attraverso Denis Verdini.
Con un processo a spirale, più Renzi guarda fuori dal Pd - magari pensando ad una nuova formazione - più la sua presa sul partito si indebolisce. L’iniziale entusiasmo, anche di tanti bersaniani che volevano finalmente un cambio di passo, sta infatti svanendo. E nell’opinione pubblica il consenso al Pd rischia di superare quello riservato al suo segretario.
yriza continua a combattere, per la Grecia e per l'Europa, per tutti noi. La Repubblica, 1 agosto 2015
Tsipras è sembrato ieri mattina molto più rilassato dopo il Comitato centrale fiume in cui è riuscito ad arginare la contestazione dell’ala più radicale di Syriza. Il massimo organo del partito ha votato infatti a maggioranza la proposta del premier per un congresso straordinario a settembre dopo aver raggiunto il compromesso con i creditori.
La Piattaforma di sinistra chiedeva un vertice immediato in cui votare l’addio al tavolo delle trattative e (in sostanza) dare il via al piano per uscire dall’euro. Al momento del voto è stata però sconfitta. Il premier prende così due piccioni con una fava: da una parte può concentrarsi sui negoziati con Ue, Bce e Fmi per sbloccare i nuovi aiuti per 83 miliardi entro (se possibile) il 20 agosto, quando scade un nuovo prestito da 3,5 miliardi della Banca centrale. Dall’altra, grazie ai regolamenti del partito, può ora ridisegnare con nuovi delegati il Comitato centrale in vista del redde rationem di settembre quando lo scontro ideologico con l’opposizione interna («viviamo nella giunta dell’euro», ha attaccato ieri il suo leader Panagiotis Lafazanis) potrebbe portare a una scissione. In quel caso il governo rimarrebbe senza maggioranza e — a meno di sorprese — sarebbero inevitabili le elezioni anticipate.
Ad Atene intanto sono iniziati ieri i negoziati ad alto livello con l’ex Troika cui si è unito ora in un inedito quartetto pure l’Esm. Il ministro delle finanze Euclid Tsakalotos e quello dell’economia George Stathakis hanno incontrato ieri i massimi rappresentanti dei creditori: «Abbiamo parlato di ricapitalizzazione delle banche, di privatizzazioni e di obiettivi fiscali — ha spiegato Tsakalotos — . Su alcune cose siamo molto vicini, su altre un po’ meno». Facile immaginare che la vendita di asset pubblici sia uno dei capitoli più delicati, mentre a tenere con il fiato sospeso i creditori è il modo in cui verranno puntellate le banche. Il timore in Grecia è che ai correntisti con i depositi più ricchi — come è successo a Cipro — sia chiesto un contributo per impedire il fallimento degli istituti.
Atene proverà intanto lunedì a muovere un altro passo verso la normalità con la riapertura della Borsa dopo più di un mese di chiusura. Le autorità imporranno dei limiti agli scambi. Ma alla luce dell’andamento dei titoli ellenici quotati a New York nessuno si fa troppe illusioni e secondo tutte le previsioni la ripaertura dovrebbe essere segnata da una pesantissima flessione.
«Svimez. Il rapporto 2015 sull’economia racconta lo tsunami che ha travolto il Mezzogiorno nei sette anni della crisi: è cresciuto meno del paese di Tsipras devastato dalla Troika. Viaggio nel paese sotterraneo dove i poveri sono più poveri, le donne e i giovani i più colpiti dalle disuguaglianze prodotte dall’iniqua Eurozona».
Il manifesto, 31 luglio 2015
Il Sud, la nostra Grecia. Al settimo anno di crisi – sostiene un’anticipazione del rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno 2015 presentata ieri a Roma – l’emergenza conclamata oggi è un disastro accertato. Il crollo della domanda interna, dei consumi e degli investimenti produrranno uno stravolgimento demografico imprevedibile che amplificherà la desertificazione industriale e alla civile.
Come in guerra
Per il settimo anno consecutivo il Pil del Mezzogiorno è negativo (1,3%, nel 2013 era –2,7%), cresce il divario rispetto al Centro-Nord (-0,2%). La mappa di questo immane slittamento è così composta: tra il 2008 e il 2014, la crisi ha prodotto le perdite più pesanti in Molise (-22,8%), Basilicata (-16,3%), Campania (-14,4%), Sicilia (13,7%), Puglia (-12,6%). Considerato il primo quindicennio dell’unione monetaria 2001–2014, quella che avrebbe dovuto creare una «convergenza» tra il Nord e il Sud dell’Europa, lo Svimez conclude che il Sud Italia sta molto peggio della Grecia. Lo si vede dal tasso di crescita cumulato: la Grecia ha registrato un calo dell’1,% (conta qui la «crescita» prima dei vari «memorandum»), mentre il Sud affonda con il –9,4% e il Centro-Nord registra ancora un segno positivo con l’1,5%. Questa divaricazione geo-economica pesa sulla percentuale del Pil nazionale che ha registrato un meno 1,1%. È il ritratto di un paese diviso all’interno di un continente spaccato sia dal punto di vista economico che da quello sociale. E le distanze continueranno ad aumentare a causa delle politiche di austerità che producono recessione e disoccupazione.
Mappe della povertà
Una persona su tre a Sud è a rischio povertà, mentre a Nord lo è una su dieci. Dal 2011 al 2014, sostiene lo Svimez, le famiglie assolutamente povere sono cresciute a livello nazionale di 390 mila nuclei. A Sud c’è stata un’impennata del 37,8%, ma i numeri sono impietosi anche al Centro-nord: il 34,4%. La regione italiana dove più forte è il rischio povertà è la Sicilia con il 41,8%, seguita a ruota dalla Campania (37,7%). In questa selva di numeri e percentuali un elemento è certo: in concreto, essere poveri significa oggi guadagnare meno di 12 mila euro all’anno. In questa condizione si trova il 62% della popolazione meridionale, contro il 28,5% del Centro-Nord. Dramma in Campania dove questo numero aumenta ancora al 66%.
Lo Svimez calcola solo il numero dei poveri che non lavorano, non quello dei cosiddetti working poors che rappresentano un’altra faccia della crisi che stiamo vivendo. Tra il 2008 e il 2014 l’occupazione nel Mezzogiorno è crollata del 9%, a fronte del meno 1,4% del Centro-Nord, oltre sei volte in più. Delle 811 mila persone che in Italia hanno perso un posto di lavoro, e difficilmente lo ritroveranno se e quando finirà la crisi, ben 576 mila vivono tra Abruzzo e le Isole. Pur essendo presente solo il 26% della popolazione attiva, a Sud si concentra dunque il 70% delle perdite prodotte dalla crisi. Gli occupati sono tornati a 5,8 milioni. L’impatto psicologico, e non solo sociale, è stato immenso.
Lo Svimez riprende i dati dell’Istat secondo la quale viviamo al livello più basso almeno dal 1977, anno da cui sono disponibili le serie storiche dell’istituto nazionale di statistica. Tra il primo trimestre 2014 e quello del 2015 è arrivato un riflesso di miglioramento: gli occupati sono saliti nel paese di 133 mila unità, 47 mila vivono al Sud e 86 nel Centro-Nord. Segnali festeggiati a suo modo come il segnale della “ripresa” dal governo che non considera il calo delle persone in cerca di occupazione. Nel primo trimestre 2015, calcola lo Svimez, sono scese a 3 milioni 302 unità, 145 mila in meno rispetto allo stesso periodo del 2014.
Desertificazione industriale
I soggetti più colpiti sono le donne e i giovani under 34. Quanto alle prime, nel 2014 a fronte di un tasso di occupazione femminile medio del 51% nell’Ue a 28, il Mezzogiorno era fermo al 20,8%tra le 35enni e le 64enni. Ancora peggio per le giovani donne con un’età compresa tra i 15 e i 34 anni: solo una su 5 ha un lavoro. E quando si parla di lavoro, si parla nella maggioranza dei casi di precariato. Questa frattura tra le generazioni, e i sessi, si allarga nella trasformazione della composizione del mercato del lavoro che penalizza chi ha meno di 34 anni, e in particolare i giovani tra i 15 e i 24 anni, mentre gli over 55 strappano qualche posto di lavoro in più. 622 mila under 34 hanno perso un posto di lavoro tra il 2008 e il 2014, mentre gli over 55 ne hanno guadagnati 239 mila. Se a livello nazionale nel 2014 il tasso di disoccupazione era del 12,7%, al Sud questa percentuale arrivava al 20,5% mentre al Centro-Nord era al 9,5%.
Questa situazione è il prodotto di una «desertificazione industriale» — così la definisce lo Svimez – che ha visto crollare il valore aggiunto del settore manifatturiero del 16,7% in Italia, contro il 3,9% dell’Eurozona. A pesare è sempre il Sud che ha perso il 34,8% della produttività in questo settore e ha più che dimezzato gli investimenti. In questo caso il crollo è totale: meno 59,3%. La crisi è profonda anche al Centro-Nord dove la perdita è stata però meno della metà del prodotto manifatturiero (-13,7) e circa un terzo degli investimenti (-17%).
Tsunami demografico
Nel 2014 al Sud si sono registrate solo 174 mila nascite, livello al minimo storico registrato oltre 150 anni fa, durante l’Unità d’Italia. Il tasso di fecondità è arrivato a 1,31 figli per donna, ben distanti dai 2,1 necessari a garantire la stabilità demografica e inferiore comunque all’1,43 del Centro-Nord. Questa condizione riguarda anche i cittadini stranieri nel Centro-Nord. Il Sud è destinato a perdere 4,2 milioni di abitanti nei prossimi 50 anni, arrivando così a pesare per il 27,3% sul totale nazionale a fronte dell’attuale 34,3%. Una previsione sostanziata dai dati della migrazione interna e infra-europea. Dal 2001 al 2014 sono migrate dal Mezzogiorno verso il Centro-Nord oltre 1,6 milioni di persone, rientrate 923 mila, con un saldo migratorio netto di 744 mila persone, di cui 526 mila under 34 e 205 mila laureati.
Sottosviluppo permanente
Questa desertificazione è dovuta «all’assenza di risorse umane, imprenditoriali, finanziarie che potrebbero impedire di agganciare la possibile ripresa e trasformare la crisi ciclica in un sottosviluppo permanente». Si parla di denutrizione, mancati acquisti di vestiario e calzature (-16%, il doppio del resto del paese: 8%). Senza reddito si rinuncia ai servizi per la cura della persona e non si investe sull’istruzione. In altre parole, i tagli a questi settori producono la permanenza del sottosviluppo e il sottosviluppo alimenta la crescita dei rendimenti dei pochi ai danni dei molti. La crescita minimale che sarà registrata nel 2015 in Italia (+0,7% si dice) non sia il prodotto del sottosviluppo di alcune aree del paese a dispetto delle altre, e di queste rispetto ad altre zone dell’Eurozona. La «crescita» invocata è il risultato dell’impoverimento drastico e irreversibile delle classi medio-basse e dei poveri che lavorano da dipendenti precari o da autonomi a favore di un’élite di oligarchi sempre più ricchi (lo 0,1% della popolazione mondiale). Questo è l’effetto del crollo dei consumi delle famiglie, oltre due volte maggiore a Sud (13,2%) rispetto a quella registrata in Italia (-5,5%). Oggi ogni paese europeo ha il suo «Mezzogiorno».
Le conseguenze anche nel bollettino economico della Banca Centrale Europea. Oggi il dualismo economico tra Nord e Sud Italia si è allargato al Nord e Sud Europa. L'analisi degli economisti Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo». Il manifesto, 30 luglio 2015
Echi si ritrovano nel rapporto 2015 dello Svimez sul Mezzogiorno (italiano) dove al rapporto asimmetrico tra il centro (in sostanza la Germania) e le periferie (i paesi dell’Europa del Sud) se ne aggiunge un altro: quello tra Sud e Est europeo integrato nell’Eurozona. «Dal 2001 al 2013 la crescita del Pil considerato in potere di acquisto (Ppa) è stato un quinto inferiore di quella delle regioni deboli dei nuovi paesi dell’Est. Nei primi cinque anni della crisi, 2008–2013, il Pil è aumentato del 4,5% nelle aree più forti («regioni della competitività») ed è diminuito dell’1,1% in quelle più deboli (quelle della «convergenza») che all’inizio avevano un reddito pro-capite inferiore al 75%. Prima della crisi, dal 2001 al 2007, le regioni più deboli avevano registrato una convergenza crescendo del 39,6%, più delle aree forti (+31,3%). È accaduto in Spagna, mentre in Germania si è registrata una maggiore omogeneità.
L’Italia fa storia a parte. Sud e Centro-Nord crescevano prima della crisi con il 19% e il 21,8%, poi il crollo: +0,6% il Centro-Nord, –5,1%. Le asimmetrie si sono aggravate con l’allargamento a Est. Il Sud ha sofferto la concorrenza del dumping fiscale. Tra il 2000 e il 2013 l’Italia è stato il paese che è cresciuto di meno in termini di Pil in Ppa: +20,6% contro il 37,3% dell’Eurozona a 18. Il Sud è cresciuto oltre 40 punti in meno della media delle regioni di convergenza dell’Europa a 28 (+53,6%). A una conclusione simile è arrivata la Bce nel bollettino economico di maggio 2015: l’Italia «ha registrato i risultati peggiori» sulla crescita del Pil procapite tra quelli che hanno adottato l’euro fin dall’inizio». La richiesta Bce è aumentare la flessibilità nei mercati dei beni e servizi e del lavoro. Per gli economisti italiani (e Krugman) è l’opposto. Per loro è fallito il modello economico per cui la produttività e la crescita dipendono dal contenimento del costo del lavoro. Questi paesi hanno invece bisogno di politiche industriali.
«La vicenda greca rivela una nuova forma di colonialismo, condotto con il consenso dei paesi occupati, anche se sotto un ricatto assolutamente inedito. È un esperimento in corso e gli esiti dello stress test sono incerti. Ma una cosa è certa: qualunque sia il risultato, l’Europa non sarà più la stessa».
Sbilanciamoci.info, 27 luglio 2015
L’Europa è diventata un laboratorio per il futuro. Ciò che sta succedendo lì dovrebbe essere motivo di preoccupazione per tutti i democratici e specialmente per chiunque sia di sinistra. Due esperimenti in questo momento stanno venendo messi in pratica - e quindi, presumibilmente, stanno venendo controllati - in questo ambiente di laboratorio.
Il primo esperimento è uno stress test sulla democrazia, la cui ipotesi di fondo è la seguente: la volontà democratica di un paese forte può abbattere non democraticamente la volontà democratica di un paese debole senza intaccare la normalità della vita politica europea. I prerequisiti del successo dell’esperimento sono tre: il controllo dell’opinione pubblica che permette che gli interessi nazionali del paese più forte si trasformino nell’interesse comune dell’eurozona; il proseguimento, da parte di un gruppo di istituzioni non elette (Eurogruppo, Bce, Fmi, Commissione Europea), nella neutralizzazione e nella punizione di ogni decisione democratica che disobbedisca ai diktat del paese dominante; la demonizzazione del paese più debole così da assicurarsi che non ottenga comprensione dagli elettori degli altri paesi europei, specialmente nel caso di elettori di paesi che potrebbero disobbedire.
La Grecia è la cavia di questo agghiacciante esperimento. Stiamo parlando della seconda operazione di colonialismo del ventunesimo secolo (dal momento che la prima è stata la Missione di stabilizzazione ad Haiti nel 2004). È un nuovo colonialismo, condotto con il consenso dei paesi occupati, anche se sotto un ricatto assolutamente inedito. E, proprio come il vecchio colonialismo, la giustificazione che ora viene data è che tutto ciò che avviene sia nell’interesse del paese occupato. E’ un esperimento in corso e gli esiti dello stress test sono incerti. A differenza dei laboratori, le società non sono ambienti controllati, a prescindere dalla pressione che si esercita per tenerle sotto controllo. Una cosa è certa: una volta che l’esperimento sarà finito, e qualunque sia il risultato, l’Europa non sarà più l’Europa di pace, coesione sociale e democrazia. Al contrario, diverrà l’epicentro di un nuovo dispotismo occidentale, la cui brutalità rivaleggerà con quella del dispotismo orientale già analizzato da Karl Marx, Max Weber e Karl Wittfogel .
Il secondo esperimento in atto è un tentativo di liquidare definitivamente la sinistra europea.
La sua ipotesi di fondo è la seguente: non c’è spazio in Europa per la sinistra fintanto che insista per un’alternativa alle politiche di austerità imposte dal paese che è egemone. I prerequisiti per il successo di questo esperimento sono tre. Il primo consiste nel causare una sconfitta preventiva dei partiti di sinistra , punendo con violenza quelli che osano disobbedire. Il secondo consiste nel far credere agli elettori che i partiti di sinistra non li rappresentano. Fino ad ora la nozione che “i nostri rappresentanti non ci rappresentano più” era l’argomento principale del movimento degli Indignados e di Occupy, rivolto contro i partiti di destra e i loro alleati. Ora che Syriza è stata costretta a bere la cicuta dell’austerità – nonostante il “No” del referendum greco convocato da Syriza stessa -, gli elettori saranno sicuramente portati a concludere che, comunque vada a finire, anche i partiti di sinistra abbiano fallito nel rappresentarli. Il terzo prerequisito consiste nell’intrappolare la sinistra in un falsa contrapposizione tra scelte del Piano A e scelte del Piano B. Negli ultimi anni la sinistra si è divisa tra coloro che credevano che la cosa migliore da fare fosse rimanere nell’euro e tra coloro che credevano che la cosa migliore da fare fosse lasciare l’euro. Delusione: nessun paese può lasciare l’euro in maniera ordinata, ma, se un paese dovesse mostrare di essere disobbediente, sarà espulso e il caos si abbatterà su di lui inesorabilmente. Allo stesso modo chiedono una ristrutturazione del debito, che si è dimostrato essere un tema molto divisivo per la sinistra. Delusione: la ristrutturazione avrà luogo quando sarà funzionale agli interessi dei creditori – che è la ragione per cui l’altra questione principale della sinistra è ora divenuta la politica del FMI.
Gli esiti di questo esperimento sono parimenti incerti, per le ragioni sopra esposte. Tuttavia, una cosa è certa: per sopravvivere a questo esperimento la sinistra avrà bisogno di rifondare se stessa al di là di ciò che oggi è immaginabile. Servirà molto coraggio, molta audacia e molta creatività.
(traduzione di Bruno Montesano)
ULa Repubblica, 27 luglio 2015
Un pacchetto di emendamenti al decreto “omnibus” enti locali, presentato nei giorni scorsi, darà la prima spinta alla spending review sulla Sanità. Dopo il via libera tecnico-politico giunto con le parole del Commissario alla revisione della spesa pubblica, Yoram Gutgeld, nell’intervista a Repubblica , si accelera la ratifica del piano concordato dalla Conferenza Stato-Regioni del 2 luglio scorso. Il provvedimento arriva oggi in aula al Senato e non è escluso il ricorso alla fiducia per poi passare alla Camera. «No agli allarmismi – ha rassicurato ieri il premier Renzi – sulla sanità si lavora soprattutto alla razionalizzazione e alla riduzione delle centrali di spesa». Mentre le Regioni si mettono in posizione di guardia: «Abbiamo già dato», dicono in coro gli assessori alla Sanità.
In ballo c’è un pacchetto di misure per 2,3 miliardi nel 2015, altrettanti nel 2016 e nel 2017. Importanti, e in qualche caso dolorosi, i provvedimenti che riguarderanno direttamente i cittadini. In primo luogo c’è il taglio delle prestazioni specialistiche (visite, esami strumentali ed esami di laboratorio) non necessarie (nel linguaggio tecnico: non appropriate). Il ministero della Salute con un imminente decreto stilerà la lista delle situazioni e patologie dove analisi e approfondimenti sono necessari,se si è fuori della lista si pagherà di tasca propria. La norma prevede anche una stretta sui medici perché il principo che ispira la razionalizzazione è che bisogna frenare il fenomeno della cosiddetta “medicina difensiva”: medici che per mettersi a riparo da eventuali vertenze giudiziarie, “elargiscono” con facilità analisi e controlli. Da oggi chi sbaglia subirà un taglio allo stipendio.
Lo stesso schema varrà per i ricoveri per riabilitazione: revisione delle tipologie in base alla appropriatezza e pagamento percentuale oltre i giorni di degenza previsti dalle nuove soglie; controlli e penalizzazioni.
Tanto per farsi un’idea: le prestazioni erogate ogni anno dal settore pubblico o privato sono circa 200 milioni: l’obiettivo sarebbe quello di ridurle del 15 per cento con il taglio di circa 28 milioni di prestazioni l’anno. Da questa operazione verrebbero risparmi per 198 milioni di euro l’anno.
C’è poi la questione degli ospedali. E’ previsto, oltre al controllo delle strutture in rosso, l’azzeramento dei ricoveri nelle case di cura convenzionate con meno di 40 posti letto, la riduzione della spesa del personale a seguito del taglio della rete ospedaliera, la riduzione della degenza media e del tasso di ospedalizzazione. Complessivamente: circa 210 milioni di tagli all’anno.
La gran parte dei risparmi verrà tuttavia dalla rinegoziazione dei contratti di acquisto di beni e servizi (con la centrale unica di acquisti) e in particolare dei dispositivi medici. Inoltre sarà costituito presso il ministero della Salute un osservatorio sui prezzi dei dispositivi medici (apparecchi, impianti, sostanze) il cui costo non potrà comunque superare il tetto del 4,4 per cento.
Le Regioni stanno sulla difensiva dopo l’uscita di Palazzo Chi- gi. «Esistono spazi di miglioramento nella sanità, ma li cerchino dove sono: noi abbiamo già tagliato nel 2012», ha detto Luca Colletto, assessore alla Sanità nel Veneto e coordinatore del settore nella Conferenza delle Regioni. Polemica Sonia Viale (Sanità, Liguria): «Questa è la logica del governo: tirano le righe sopra. Sulle Province, sugli ospedali in rosso. Li cancellano. La Liguria e la Lombardia, invece, propongono un modello costruttivo, non distruttivo: mettiamo in condivisione le eccellenze sanitarie delle due regioni». Più cauto Antonio Saitta (Sanità, Piemonte): «D’accordo ci sono margini, ma ricordo che noi siamo stati la prima Regione ad applicare la riorganizzazione della rete ospedaliera». Rincara la dose Fabio Rizzo ( Commissione sanita Lomardia): «Il governo si sveglia tardi, segua l’esempio Lombardo». Vantano passi avanti anche in Toscana: «La centrale unica d’acquisto noi ce l’abbiamo già per tutte le aziende sanitarie », aggiunge Stefania Saccari (Sanità). Persino la Sicilia si chiama fuori: «Per noi il percorso è più facile: abbiamo un avanzo di 30 milioni», dice l’assessore alla Sanità Baldo Guicciardi.
intervista di RosariaAmato a Costantino Troise, segretario di Anao-Assomed
Chi stabilirà se una prescrizione o un ricovero sono inappropriati e quindi il medico va sanzionato? Secondo Costantino Troise, segretario di Anaao-Assomed, l’associazione dei medici dirigenti, il compito non può certo essere affidato a «un gruppo di tecnocrati», a meno che il vero obiettivo del governo non sia quello di introdurre un nuovo, esoso «superticket» sulla sanità.
Non ci sono margini di razionalizzazione delle prescrizioni secondo voi?
«Esistono sicuramente molte prescrizioni inutili per quel determinato malato in quel determinato momento, ma il metodo per rivederle non è quello di intimidire il medico. Dubito che si possa fare senza i professionisti e contro i professionisti. La strada è quella della legge sulla responsabilità professionale, che invece giace da anni in Parlamento. Dubito fortemente che protocolli o linee guida di Stato messi a punto entro 30 giorni dal decreto possano avere una validità scientifica.».
Eppure anche le Regioni hanno dato il via libera.
«E’ curioso che Regioni e Stato di giorno litighino e di notte si accordino. L ’obiettivo vero di questa norma è quello di fare cassa, introdurre un superticket neanche tanto mascherato che porrà a carico dei cittadini una serie di prestazioni, con conseguente arretramento e impoverimento della sanità pubblica. Già adesso la spesa privata è a 30 miliardi, tra le più alte ».
Il governo calcola risparmi per 100 milioni.
«Non so come si possa dire che si risparmiano 100 o 200 milioni, c’è molta demagogia. È un atteggiamento di controllo dell’operato dei professionisti e sostanzialmente lancia un messaggio: da ora in poi è lo Stato che decide quanto si fa. Aumenteranno la diffidenza verso i medici, il contenzioso e le disuguaglianze, che sono già enormi».
Sarà ancora possibile fare prevenzione?
«La prevenzione porta sicuramente risparmi, ma in un orizzonte molto più lungo di quello elettorale».
Il manifesto, 26 luglio 2015
Casualità vuole che l’annuncio dell’esito della consultazione degli iscritti di Podemos abbia coinciso con la diffusione di un sondaggio dell’autorevole istituto Metroscopia, pubblicato sulla pagina web del quotidiano El País.
Se si votasse oggi, il Partito socialista (Psoe) otterrebbe il 23,5%, in lieve vantaggio sul Partido popular (Pp) del premier Mariano Rajoy, al 23,1%. Più distanti, Podemos (18,1%) e i centristi di Ciudadanos (16%), a chiudere Iu con il 5,6%. Salta agli occhi che la somma di Podemos e Iu situerebbe l’ipotetica lista di «unità popolare» davanti a tutti gli altri, seppur di pochissimo, con il 23,7%.
Occorre chiedersi, tuttavia, se una lista di tal genere otterrebbe realmente la stessa quantità di consensi derivante dall’addizione delle preferenze ottenute separatamente. La questione è vecchia come la politica stessa: unirsi sotto le stesse insegne porta benefici o, al contrario, allontana potenziali elettori? Ogni situazione fa storia a sé, e nessuno, ovviamente, può essere sicuro di avere la risposta giusta.ù
E dunque, Iglesias e compagni sono convinti che presentarsi alle urne insieme a Iu non gioverebbe, mentre Garzón è dell’opinione opposta. Naturalmente, la sproporzione fra Podemos e Iu condiziona negativamente il confronto, dal momento che il disegno di Iu è anche interpretabile come un maldestro tentativo di «salire sul carro dei vincitori»: ed è esattamente così che la vede Iglesias.
In ogni caso, i media mainstream già suonano la grancassa della «crisi di Podemos», dal momento che a gennaio i sondaggi attribuivano alla nuova formazione il 28% dei suffragi.
Fra le spiegazioni addotte, il senso di rifiuto che genera il leader Iglesias, che è percepito – secondo le analisi dei sondaggisti di Metroscopia – come figura incapace di acquistare consensi trasversali: un personaggio «divisivo», si direbbe nel lessico politico italiano delle larghe intese. Più apprezzati – sempre stando alle analisi demoscopiche divulgate da El País – il socialista Pedro Sánchez e Albert Rivera di Ciudadanos, perché trasmetterebbero l’idea di essere più disponibili a cercare i necessarie compromessi con altre forze. Bocciato senza appello il premier Rajoy, che sembra ormai irrimediabilmente avviato sul viale del tramonto. Non prima, però, di avere dato gli ultimi velenosi colpi di coda.
A settembre entrerà in vigore – salvo che il Senato, a sorpresa, la bocci – la «legge per la sicurezza nazionale»: una norma che preoccupa molto le opposizioni.
Ufficialmente, deve servire a dotare il governo centrale di poteri speciali in casi di pandemie, disastri naturali o gravi minacce terroriste. In realtà, sono in molti a sospettare che Rajoy voglia utilizzarla anche contro eventuali azioni «separatiste» del governo di Barcellona. Il 27 settembre ci saranno le cruciali elezioni regionali in Catalogna, da cui potrebbe emergere una volontà maggioritaria di separarsi dal resto della Spagna. Per l’indipendentista Joan Tardá, deputato di Esquerra republicana de Catalunya (Erc), «il premier potrebbe porre al proprio diretto servizio i Mossos (la polizia autonoma catalana, ndr) e tutti i funzionari della Generalitat catalana con un semplice decreto». Preoccupati per l’eccesso di potere che la norma conferisce al governo sono anche i nazionalisti baschi del Pnv (centro-destra non indipendentista) e Iu. Favorevoli, con qualche riserva, i socialisti, convinti che non metta in pericolo le autonomie regionali.
Bisogna rovistare nelle cronache locali, ma accanto ai razzisti, agli xenofobi, ai neonazisti e agli ipocriti si trovano anche italiani puliti, e perciò solidali. Questa volta li abbiamo trovati alla periferia di Milano.
La Repubblica, ed Milano, 26 luglio 2015
È stato don Paolo Selmi assieme a don Vittorio Marelli, parroco di una chiesa nella vicina Affori (che l’estate scorsa aveva fatto la stessa esperienza ospitando centinaia di asilanti), a proporre ai suoi fedeli e al quartiere, a giugno, durante un’assemblea aperta, di aprire le porte ai profughi. «La risposta è stata subito entusiastica - racconta il “don”, ora che i migranti sono arrivati - . Quella sera avevamo preparato 40 sedie, abbiamo dovuto aggiungerne altrettante. E nei giorni successivi, siamo stati sommersi da richieste di partecipazione». L’assessore alla Sicurezza, Marco Granelli, che abita nel quartiere, è stato subito coinvolto e ovviamente ha accettato la proposta di mandare qui i profughi che arrivano in Centrale, all’hub che da poche settimane è stato inaugurato in via Tonale.
«Io mi chiamo Cristiana, ho 23 anni, e un bambino di due, che mi aspetta al mio paese, in Africa - racconta una ragazza dagli occhi grandi, che viene dalla Nigeria - . Sono venuta in Italia perché nel mio Paese c’è la guerra, mio marito è stato ammazzato, la mia famiglia è dispersa. Ho speso 2mila euro per arrivare fino a qua. Ho visto di tutto, la morte, la fame, la tortura. Ho gli occhi pieni di paura ». Storie come questa si raccolgono fra le persone che siedono nel grande cortile cortile alberato della chiesa, dove si aggira anche un accaldato don Virginio Colmegna, presidente della Casa della carità, che darà alla parrocchia il sostegno dei mediatori culturali e degli operatori professionali fino alla fine del mese. «Abbiamo voluto fare questa proposta di solidarietà concreta alla città - spiega don Colmegna - perché abbiamo voglia di dare un messaggio di solidarietà e di speranza, di gioia e di fiducia, senza nessuna pretesa di risolvere l’emergenza che certo è molto più ampia di quel che vediamo qua, di quel che possiamo risolvere noi, offrendo al massimo 80 posti letto a notte. Ma l’importante è dare un segnale, dare l’esempio di una solidarietà gratuita».
Non ci sono convenzioni col Comune o con la Prefettura a coprire i costi di questa iniziativa, che i promotori hanno deciso di finanziare “dal basso”, facendo la colletta nel quartiere, attraverso il sito di Casa della Carità, e chiedendo ai cittadini di portare vestiti e generi di prima necessità. «I costi umani invece li mettiamo noi - scherza Attilio Cattaneo, 75 anni, volontario con lunga esperienza di servizio in parrocchia - . Tutto nostro è il piacere di far del bene a qualcuno che ha bisogno, senza stare a guardare il colore della pelle, il numero sul passaporto». Come il signor Attilio sono in tanti i cittadini di Bruzzano a darsi da fare. Fra loro anche molti giovani come Andrea Percivalli, 21 anni, studente: «Mi sembrava un bel modo per trascorrere l’estate sentendomi utile», dice con qualche timidezza. Sembrano tutti amici, tutti uniti dallo stesso desiderio di aiutare. «La politica la lasciamo fare ai politici, noi siamo qui perché ci piace far del bene in questa società in cui sembra che tutto vada male », dice il signor Lorenzo Gaglio, 58 anni, impiegato, che farà le ferie in chiesa in mezzo ai profughi, con la sorella Annalisa, medico, e la moglie Matilde. Marito e moglie avevano già lavorato con i rifugiati l’anno scorso ad Affori. «E questa volta abbiamo coinvolto nella compagnia anche la cognata», sorridono le due donne, a cui sembra normalissimo passare così le vacanze invece che in spiaggia sotto all’ombrellone.
E nessuno protesta? «C’è stato un po’ di dibattito sulla pagina Facebook del quartiere, nelle prime settimane. Credo che chi ha protestato abbia paura, ma soprattutto non conosca il fenomeno e abbia pregiudizi infondati - confessa don Paolo Selmi - . Ma sinceramente su poche voci critiche, sono prevalse le tante voci contente che ci mettessimo in questa iniziativa. C’è voglia di fare, di non stare a guardare».
Yusuf viene dall’Eritrea e parla in tigrino col mediatore culturale Tsehaies Woldeab, 46 anni, che di profughi ne ha visti passare tanti in questi mesi: «Hanno solo bisogno di ascolto, è gente che non farebbe mai male a nessuno. Hanno sofferto troppo. Aiutarli dovrebbe essere per tutti la cosa più naturale da fare».
«Beni comuni. La grande stampa in soccorso del nuovo ciclo di privatizzazioni promosso dal governo Renzi colpisce direttamente i beni di appartenenza collettiva». Una reazione alla crescente diffusione dell'idea (rivoluzionaria per l'ideologia corrente), che alcuni beni non possono essere ridotti a merci.
Il manifesto, 25 luglio 2015
È appena stata battezzata la nuova tribù degli “antibenicomunisti” capitanati dall’Istituto Bruno Leoni e promossa da Pierluigi Battista sulla grande stampa (il Corriere della Sera di giovedì scorso). L’obiettivo è imputare al “benicomunismo” di essere la «solita minestra statalista e dirigista che ha nutrito per oltre un secolo la sinistra». Si tratta di una formidabile mistificazione, ma ancor più significa non comprendere proprio il carattere innovativo e contemporaneo che sta alla base della teoria e dei movimenti dei beni comuni.
Per dirla in estrema sintesi, è evidente che Battista è poco avvezzo ad un pensiero che si situa dentro la specificità del capitalismo finanziario e della sua crisi e che si distanzia proprio da un’idea di pubblico statalista che ha accomunato la cultura della sinistra novecentesca, sia quella di estrazione comunista che di quella socialdemocratica.
La vera novità esplicitata dalla teoria e dai movimenti dei beni comuni, in opposizione al modello neoliberista, sta proprio nel vedere la generale mercificazione dei beni e dell’attività umana e, dunque, nell’affermare che i beni ad appartenenza collettiva alla base dei diritti umani fondamentali non possono essere consegnati al mercato e che, anzi, vanno gestiti in modo diffuso e partecipato.
Se proprio si vuole trovare un antecedente illustre in quest’approccio, più che a Proudhon, bisogna guardare a Polanyi che , non a caso, scrive sulla grande crisi del capitalismo degli anni ’30 del secolo scorso, e che già allora evidenzia che quando si vuol ridurre lavoro, terra (e cioè beni comuni) e moneta puramente a merce, essi si prendono la loro rivincita e rivelano come il mercato autoregolantesi sia, contemporaneamente, una grande costruzione artificiale e una grande illusione.
Ma quello che mi spinge a prendere in considerazione il ragionamento di Battista non sta tanto nel misurarsi su questi temi di fondo, quanto il suo intento dichiarato di voler sferrare un’offensiva contro l’ “ideologia dei beni comuni”, prendendo atto che essa ha segnato diversi punti a suo favore, e di chiedere che la politica si spenda con forza su questa strada. Per fare questo Battista non esita a ricorrere ad accostamenti perlomeno arditi, come quando riduce il tema della democrazia partecipativa ad una sorta di confuso assemblearismo, che poi si traduce nel rispolverare il vecchio luogo comune — questo sì– per cui piccole avanguardie militanti si sentono investite della volontà popolare. Soprattutto arriva a sostenere che i referendum sull’acqua del 2011 sarebbero stati, in buona sostanza, una grandiosa operazione manipolativa da parte di una piccola schiera di intellettuali che avrebbero falsamente propinato al popolo che era in campo l’intenzione di privatizzare l’acqua e il servizio idrico.
A parte qualunque considerazione sul fatto che vivremmo in un’epoca in cui il “popolo bue” si lascia incantare da qualche parolaio e, ancor più, il disprezzo che trapela per un istituto, come quello referendario, che ha visto comunque pronunciarsi in modo inequivoco la maggioranza assoluta dei cittadini italiani, è troppo chiedere al nostro di andare semplicemente a rileggersi il decreto Ronchi, che venne appunto abrogato da quel pronunciamento? E’ troppo ricordargli che quel provvedimento avrebbe obbligato tutte le società di proprietà pubblica a far entrare i soggetti privati, entro la fine del 2011, nel capitale sociale delle stesse, in una misura non inferiore al 40%?
E che dare la gestione del servizio idrico a soggetti privati, consentire ad essi di realizzare profitti in quest’attività, equivale esattamente a privatizzare l’acqua?
Il fatto è che bisogna allineare la grande stampa al nuovo ciclo di privatizzazione promosso direttamente dal governo Renzi e affidato concretamente alle grandi multiutilities quotate in Borsa. E ciò, come dimostra l’esperienza concreta e quella che si realizzerà se questo disegno andrà in porto, non solo comporta le conseguenze negative dei classici processi di privatizzazione, come l’incremento delle tariffe, il calo dell’occupazione, il decremento degli investimenti, il peggioramento della qualità del servizio, ma anche quelle nuove, quando sono promosse da grandi soggetti finanziarizzati, non radicati nei territori e orientati dalla quotazione in Borsa, e cioè in particolare la perdita di qualunque ruolo decisionale degli Enti locali e della possibilità di espressione democratica dei cittadini.
Del resto, quest’impostazione, che individua nel “socialismo municipale” uno dei nodi da aggredire nel nostro paese per farlo avanzare sulla strada della modernizzazione, non a caso incontra una chiara sintonia con quanto ci spiega il neodirettore dell’Unità Erasmo De Angelis, dalle colonne del giornale, per cui il nostro sarebbe rimasto l’unico Paese modellato sull’esperienza del socialismo reale.
Infine, non si può sottacere come questa spinta ideologica mira anche ad attaccare l’idea dell’esistenza di diritti fondamentali, come quello del diritto all’acqua. Come interpretare se non in questa chiave, ad esempio, alcuni fatti di questi giorni, quello per cui il sindaco di Bologna viene indagato dalla Procura perché aveva disposto l’allacciamento all’acqua in alcuni stabili occupati in quella città o il fermo di alcuni attivisti che si sono opposti al distacco dell’erogazione dell’acqua ad uno spazio occupato a Roma per trasformarlo in centro di aggregazione del quartiere?
In ogni caso, Battista può stare tranquillo: non saranno le interpretazioni di comodo, le mistificazione della realtà, l’accondiscendenza nei confronti dei poteri forti ad arrestare un processo che affonda le sue radici, materiali e soggettive, nelle trasformazioni radicali e regressive che ci consegna non il socialismo municipale, ma il capitalismo neoliberista. Soprattutto se, come mi auguro e come esistono le condizioni per realizzarlo già nei prossimi mesi, le ragioni dei beni comuni, del lavoro, di un rinnovato Stato sociale, accomunate dall’idea dell’universalimo dei diritti della persona, sapranno incontrarsi e rendere credibile l’idea di un modello produttivo e sociale alternativo a quello che le élites dominanti, in Europa come nel nostro Paese, continuano a proporci come l’unico possibile.
Durante il periodo estivo, in cui normalmente si assiste al picco degli sbarchi, “Triton schiererà , 6 navi d’altura, 12 pattugliatori e 2 elicotteri”, affermò il direttore esecutivo Fabrice Leggeri, “così da sostenere le autorità italiane nel controllo delle frontiere marittime e nel salvataggio di vite umane”. Pareva che le navi di numerosi Stati membri avessero dato vita a una missione umanitaria, una sorta di Mare Nostrum europeo, e in giugno non si registrò nessuna morte per naufragio. Ma i tempi d’impegno erano circoscritti a poche settimane. A fine mese, dopo aver salvato più di tremila naufraghi, la Marina britannica ha ritirato la nave da guerra Bulwark, che poteva caricare fino a 800 persone, e l’ha sostituita con l a nave oceanografica Enterprise, che può caricarne 120. Dopo il 30 giugno sono scomparse anche le navi tedesche Schleswig-Holstein e Werra.
Dall’inizio di luglio sono riprese le morti in mare. Almeno dodici persone sono annegate nel naufragio di quattro barconi nel Canale di Sicilia e più di cento cadaveri sono stati recuperati dalla Guardia costiera libica nel tratto di mare antistante Tripoli, nel sostanziale disinteresse dei media.
L'Unione europea in fuga. Rimangono le ONG
A soccorrere i naufraghi non c’era Frontex, non c’era l’Unione Europea, ma le tre navi umanitarie private di Migrant Offshore Aid Station (Moas), Medici Senza Frontiere e Sea-Watch, assieme alle unità della Guardia costiera e della Marina militare italiana, e alle poche navi rimaste degli Stati membri, la cui appartenenza organica alla missione Triton è tutt’altro che chiara, poiché sui rispettivi siti governativi risultano essere messe a disposizione dai singoli Stati, sotto il coordinamento della Guardia costiera italiana. Lo stesso vale per la nave irlandese LÉ Niamh, per la cui opera di salvataggio non si fa riferimento all’operazione Triton-Frontex, ma a “operazioni congiunte con la Marina italiana”. Il quadro offerto dall’equipaggio della ong tedesca Sea-Watch, che con la sua nave ha salvato 587 persone in 6 giorni, è allarmante: “Non abbiamo passato un solo giorno in mare senza aver effettuato soccorsi, abbiamo incontrato la nave di Msf e quella del Moas, ma non abbiamo visto una sola nave di Triton né di Eunavfor Med. [...] L’Unione europea non sembra prendere sul serio il soccorso in mare. [...] Ci sentiamo abbandonati dall’Unione e dal governo federale”.
Il 1° luglio è avvenuto un passaggio di consegne tra l’operazione Triton e la missione Eunavfor Med di cui ancora non si conoscono con chiarezza i contenuti operativi; quel che sappiamo è che si è creato un vuoto denso di conseguenze. I segnali sono davanti ai nostri occhi, benché generalmente ignorati dai mezzi di comunicazione: il 2 luglio, 904 migranti sono stati recuperati e condotti nel porto di Reggio Calabria dalla nave Dattilo della Marina militare italiana; il 9 luglio, 12 cadaveri sono stati recuperati in mare e 500 naufraghi sono stati salvati dalla Guardia costiera italiana; il 14 luglio, più di cento cadaveri di migranti subsahariani sono stati raccolti dalla guardia costiera libica davanti alle coste tripoline; il 16 luglio, 835 persone partite dalle coste libiche sono state recuperate dalla nave Dattilo nel corso di quattro distinti naufragi nel Canale di Sicilia; il 17 luglio, una motovedetta della Guardia costiera partita da Lampedusa ha tratto in salvo duecento migranti; il 19 luglio, la nave di Medici Senza Frontiere ha salvato 129 persone, tra cui 13 donne e 12 bambini; il 22 luglio, la nave della Marina militare irlandese LÉ Niamh ha sbarcato 370 naufraghi a Palermo. Sempre il 22 luglio, un pattugliatore della Guardia costiera italiana ha salvato 578 migranti e li ha sbarcati a Messina. Ancora il 22 luglio, a Lampedusa, la Guardia costiera italiana ha salvato 414 migranti naufragati a bordo di quattro diversi gommoni, tra loro c’erano quattro neonati. Il 23 luglio la nave militare tedesca Holstein ha sbarcato ad Augusta 283 profughi che hanno fatto naufragio su tre diversi gommoni. Decine i morti.
Tre domande urgenti per la commissione europea
La Commissione, secondo le dichiarazioni di Leggeri, avrebbe “dotato Frontex di 26.25 milioni di euro aggiuntivi per rafforzare le operazioni Triton in Italia e Poseidon in Grecia”, ma non c’è chiarezza sulla destinazione e l’uso di quei fondi. Il bilancio di Frontex comprende i salvataggi effettuati dalla Guardia costiera italiana e dalle altre unità navali dei singoli Stati membri? Quali e quante navi operano nel Mediterraneo, e con che inquadramento nella missione Triton? Soprattutto: quali disposizioni sono previste perché l’Unione europea non si renda complice di altre sciagure in mare durante le prossime settimane di luglio e di agosto?
La «peggiore minaccia alla sicurezza degli Stati uniti da trent’anni a questa parte» non è l’ultima portaerei cinese, i silenziosi sottomarini diesel nordcoreani o i satelliti spia russi, è… l’F35. Un «programma ingestibile, insostenibile e che non raggiungerà mai i suoi obiettivi militari», «staccare la spina a questo pericoloso spreco di denaro non avverrà mai troppo tardi». Non sono slogan della campagna presidenziale del socialista democratico Bernie Sanders, ma parole di Mike Fredenburg, fondatore dell’Istituto Adam Smith di San Diego, una penna ferocemente conservatrice.
Considerazioni tanto più interessanti visto il pulpito da cui provengono, il sito dell’americana National Review, magazine della destra repubblicana dal 1955. Una rivista reaganiana, libertaria, liberista e ultra-conservatrice, che considera i sindacati un puro «strumento socialista» e l’Onu una trovata diplomatica delle élite liberal. Tra i principi dichiarati dalla redazione la «lotta senza sosta alla crescita del governo federale» e la guerra senza quartiere al comunismo, una «utopia satanica con cui è impossibile coesistere».
Insomma, mentre in Italia il dibattito sull’F35 è stato insabbiato dietro le coltri del «Libro bianco sulla Difesa» e il parlamento osserva inerte la partecipazione tricolore a questo strumento di guerra e immane spreco di risorse, negli Usa l’«aereo del futuro» è criticato ferocemente soprattutto dalla destra.
L’articolo di Fredenburg sulla National Review ripercorre tutte le promesse mancate dalla Lockheed Martin, i dubbi a mezza bocca dei generali, i difetti ripetuti nei progetti, le critiche delle varie analisi indipendenti che in vent’anni hanno esaminato il programma.
Secondo stime ufficiali del 2013, lo sviluppo dell’F35 e il suo mantenimento operativo per i prossimi 55 anni costeranno 1.500 miliardi di dollari, «il più costoso sistema di armamenti della storia dell’umanità». E alla fine – osserva spietato Fredenburg – avremo «un aereo più lento dell’F14 Tomcat del 1970, meno manovrabile dell’A6 Intruder di quarant’anni fa, con una performance operativa paragonabile a quella dell’F4 Phantom del 1960», «un aereo che in recenti test di combattimento ha perso perfino contro l’F16».
Un caccia che non caccia
Le rivelazioni su questo test sono apparse su Medium pochi giorni fa. Il combattimento simulato F16 contro F35 risalirebbe al 14 gennaio 2015, sopra l’oceano antistante la base dell’Air Force a Edwards, California.
L’F35A (designato col codice AF-02 e dotato di tecnologia stealth di serie) doveva intercettare e abbattere un normale F16D, uno degli aerei che dovrà sostituire, a un altitudine compresa tra 3mila e 9.500 metri. Le cinque pagine del rapporto del pilota descrivono l’aerodinamica del nuovo aereo sostanzialmente come un «cancello» inguidabile, incapace di abbattere il «nemico» e anzi, alla fine, destinato a essere abbattuto.
Secondo il collaudatore, l’F35 ha una sola manovra in cui è stato superiore all’F16. Sfortunatamente, questa consuma talmente tanta benzina che si tratta di una sola pallottola, poi al malcapitato non resterebbe che scappare più velocemente possibile con la coda tra le gambe. Alla fine, il collaudatore certifica che in combattimento ravvicinato l’F35A è inferiore all’F15E degli anni Ottanta.
Un programma mefistofelico
I ritardi ormai sono leggendari. Deciso dall’amministrazione Clinton nel gennaio 1994 come unico aereo per tutta le forze Usa, il programma dell’F35 o Joint Strike Fighter doveva entrare in produzione operativa nel 2010, poi nel 2012, ora nell’aprile 2019 (ma alcune funzioni sono attese dal 2021). Tutti sanno che questa data difficilmente sarà rispettata.
Ad oggi, il motore dell’F35 può prendere fuoco, ha problemi di aerodinamica (viste le funzioni richieste dai vari generali non ha ancora un design e un assetto stabili), presenta gravissimi problemi al software, al casco del pilota, ai sensori del radar, al sistema elettrico (a 270 volt, unicum nell’aviazione), alla mitragliatrice, all’alimentazione e all’espulsione sicura del carburante (infatti ancora non può essere rifornito in volo), al raffreddamento del motore e perfino alle gomme!
L’aereo è talmente sensibile ai fulmini (se colpito potrebbe esplodere sia in volo che parcheggiato a terra) che il Pentagono ne ha ufficialmente proibito l’utilizzo entro 30 chilometri da un temporale (tutto ufficiale, riassunto qui).
Il software a bordo dell’F35 ha 8 milioni di linee di codice. Per capirci, lo Space Shuttle della Nasa ne aveva 400mila. Una quantità di informazione pari a 16 volte quella contenuta in tutta l’Enciclopedia Treccani. Ma il totale del software necessario in volo e a terra è pari a 30 milioni di linee di codice. Inevitabili, sono già migliaia i «bug» di sistema difficili da scovare e risolvere.
Per dire l’ultima, soltanto il 22 luglio scorso è partita la sperimentazione sul campo della mitragliatrice da 25mm. In un aereo stealth completamente liscio, infatti, la semplice apertura del foro della mitragliatrice interna è un inedito tutto da verificare.
L’arma più costosa della storia, privatizzata
Secondo i sempre più numerosi critici (anche militari e insospettabili, per esempio l’aviazione israeliana), il progetto è partito malissimo.
Questo circolo vizioso di vecchi e nuovi problemi porta a costi di manutenzione letteralmente stratosferici: dai 32mila dollari per ora di volo preventivati si è passati a un più realistico 68mila dollari l’ora. Ma la Difesa americana non è in grado di fare la manutenzione a un oggetto così complesso, perciò è già messo in conto il ricorso totale ai contractor fino alla fine del secolo. Una manna per Lockheed Martin, Northrop Grumman, Pratt & Whitney e il loro indotto.
Nei 400 miliardi fin qui preventivati dagli Stati uniti, non sono inclusi inoltre:
- i maggiori costi per risolvere i problemi sopra sintetizzati
- tutti gli armamenti e munizioni
l- ’adattamento al trasporto di bombe nucleari
- l’adattamento per serbatoi esterni di carburante
- e nemmeno l’integrazione e la comunicazione con la flotta di F15, F16 e F22 esistente!
In breve, è l’aereo nudo e crudo. Solo questo elenco di migliorie potrebbe portare a maggiori costi per 68 miliardi di dollari, pari al costo finale di tutto il programma per l’F22.
Nel progetto del 1994, ogni aereo doveva costare tra 28 e 35 milioni di dollari a seconda delle versioni (45 e 61 milioni in dollari attuali). Non a caso, invece, le stime attendibili più recenti parlano di un costo ad aereo tra i 190 e i 270 milioni di dollari, il quintuplo.
Ma la Russia è in vantaggio
L’F35 è uno strumento di guerra tra grandi potenze. Se alla fine il Pentagono acquisterà davvero tutti gli aerei ordinati, gli Usa avranno una flotta 15 volte più grande della Cina. Ma la loro «superiorità aerea» strategica mondiale sarà tutt’altro che garantita.
Secondo gli analisti militari citati da Fredenburg, infatti, la Russia è già molto più avanti: il suo Sukhoi Su-35S di quarta generazione (finirà i test quest’anno) «è più veloce, ha un raggio operativo più ampio e porta il triplo dei missili».
Il futuro PAK T-50 stealth (previsto per il 2018) sarà ancora migliore. I «nemici», infatti, hanno già preso le contromisure, visto che il programma dura da vent’anni (l’F16, per fare un confronto, durò “solo” 5 anni).
L’F35 è un «programma troppo grande per fallire», un buco nero finanziario e militare ma non politico.
Il Pentagono ha aumentato da 34 a 57 gli aerei richiesti per il 2016, quasi il doppio dei 38 finanziati dal Congresso per quest’anno. Molto opportunamente, infatti, la Lockheed ha sparso le sue fabbriche in centinaia di collegi in 5 stati chiave, e ben pochi congressmen vogliono rischiare la perdita di 60mila posti di lavoro garantiti dal governo con soldi pubblici.
Entro l’estate alcuni F35B dovrebbero entrare in servizio presso il corpo dei Marines, che a questo punto pregheranno per non utilizzarli in combattimento, visto che i difetti accertati ufficialmente finora sono 1.151 (di cui 151 critici e inaggirabili).
«La Repubblica, 24 luglio 2015
A che serve una sentenza di condanna 41 anni dopo il fatto? È davvero giustizia? Domande come queste serpeggiano insistenti nell’opinione pubblica dopo la condanna dei due neofascisti Maggi e Tramonte per la strage di piazza della Loggia, lo scorso 22 luglio.
Un verdetto così tardivo, infatti, agli occhi di molti ha quasi il sapore di una beffa, l’ultimo scherzo maligno di uno Stato colluso e traditore. La giustizia, per esser tale, deve giungere tempestiva a riparare i torti e ristabilire l’ordine spezzato da un reato.
Quanto alla funzione di simili giudizi, poi, non si può certo invocare l’effetto di deterrenza: la prospettiva di decenni d’impunità non potrebbe che rassicurare, al contrario, qualunque aspirante criminale. Non regge la logica retributiva; della prospettiva costituzionale della rieducazione del detenuto, infine, neanche parlarne. Perché, allora, i mezzi d’informazione stanno dando tanta attenzione a questi due ergastoli fuori tempo massimo?
Credo si possano fare due ordini di considerazioni. In primo luogo, il significato e il valore di questa sentenza non possono prescindere dalla natura particolarissima del reato. Il massacro di piazza della Loggia s’iscrive a pieno titolo nella strategia della tensione. Tra il 1969 e il ‘74, anni di Guerra Fredda, anche per effetto del fortissimo vincolo di fedeltà atlantico, pezzi importanti degli apparati dello Stato non obbedivano alla Costituzione, ma piuttosto operavano secondo la logica di una costituzione materiale anticomunista, in nome della quale, pur di arginare lo scivolamento a sinistra dell’asse politico e l’ascesa elettorale del Partito comunista, pareva legittimo coprire e proteggere, anziché i cittadini inermi colpiti dalle bombe, i terroristi che organizzavano e compirono attentati che avevano la funesta finalità di “destabilizzare per stabilizzare”.
Con un passato del genere alle spalle, il fatto che oggi gli anticorpi democratici della Repubblica riescano a ottenere un po’ di giustizia contro quell’antica perversione del potere, è un risultato di grande significato politico e simbolico. Lo dobbiamo a chi è sempre rimasto fedele alla Costituzione contro la logica feroce della ragion di Stato. La durata abnorme di processi come quelli per le grandi stragi politiche o mafiose è dovuta ai reiterati depistaggi, non a inefficienze burocratiche. La giustizia, attraverso la parte sana della magistratura e delle forze di sicurezza, ha dovuto operare in un contesto a tal punto ostile e alterato che il fattore-tempo non deve far sminuire il valore di aver fatto prevalere un altro pezzetto di legalità costituzionale.
Ma la pur tardiva sentenza sulla strage di Brescia è preziosa anche in un’altra prospettiva. Possiamo immaginare la convivenza civile nella società come una preziosa seta multicolore, intessuta di molti fili, le vite dei cittadini. Alcuni crimini hanno un impatto diretto e profondo sulla collettività, non solo sulle vittime dirette: stragi, terrorismo, delitti di mafia producono lacerazioni profonde in questo tessuto delicato.
Con la Grecia, il Sud dell'Europa: «Non si può continuare a stare immobili e subire. Questo è un appello. E per questo ho scelto le colonne del
manifesto per lanciarlo». Il manifesto, 23 luglio 2015
L’Europa monetaria, unita solo dall’euro e dominata dalla teologia dell’austerità, non funziona proprio. Sono in molti ad affermarlo e non è un caso che la Gran Bretagna abbia voluto conservare la sterlina pur aderendo all’Unione europea nei confronti della quale manifesta dissensi crescenti. E, in generale, non dobbiamo dimenticare che siamo in una fase di continui cambiamenti, tali da indurre Guido Rossi a scrivere (Il Sole 24 Ore, 19 luglio) un editoriale dal titolo Quei Trattati superati che creano disordine.
Ma torniamo alla Grecia, la cui crisi strutturale non è stata affatto risolta con i prestiti e le dilazioni di pagamento del debito, ma solo rinviata e nemmeno a lungo termine e non sarà agevole una ripetizione dei prestiti. I punti sono due:
- tutti i paesi che hanno accettato l’euro sono in condizioni molto diverse e peggiori di quelle della Germania, che si conferma dominante nel circolo dell’euro;
- manca, anzi è rifiutata, una politica economica diretta a equilibrare i rapporti di forza all’interno della comunità: tutti abbiamo l’ euro, ma ci sono quelli che ne hanno tanti e li fanno crescere e quelli che ne hanno pochi e li vedono diminuire continuamente.
Di questa situazione noi italiani abbiamo una certa competenza: anche quando usavamo tutti la lira il Mezzogiorno era un disastro e, con l’aiuto di Gramsci, scoprimmo la “questione meridionale”, che oggi si ripropone a scala europea. E così mi ha colpito, e persuaso, il grande titolo del supplemento di la Repubblica del 20 luglio: Mezzogiorno, la Grecia d’Italia.
Nella nostra unità nazionale fin da principio a dominare fu la moneta, cioè la lira, e così si aprì la questione meridionale, con la miseria e l’emigrazione. In alcune regioni del Mezzogiorno si stava meglio ai tempi del regno di Napoli con i Borbone piuttosto che dopo con l’unità d’Italia e i Savoia.
La crisi della Grecia sarà lunga e dura e ci saranno – già lo si vede – altri paesi investiti dalla crisi prodotta dall’attuale unione monetaria e soltanto monetaria. Si tratta – già ci sono gli annunci – dei paesi mediterranei: la Spagna, dove si voterà questo autunno e dove sta crescendo il partito Podemos, abbastanza simile a Syriza e poi il Portogallo e anche l’Italia – è sotto gli occhi di tutti – non sta tanto bene.
Il futuro – allo stato attuale – è di crescita della disoccupazione e di deficit di bilancio. Insomma il percorso della Grecia – ancora per niente concluso – dovrebbe illuminarci. Siamo – ne sono convinto – all’apertura di un questione meridionale che provocherebbe una crisi ben più grave di quella che si è aperta con la Grecia che conta meno di dieci milioni di abitanti e un Pil pari al 2 per cento di quello europeo. Una crisi assai più difficile da affrontare con una unione solo monetaria, non politica e neppure economica.
La previsione più facile, e negativa, è che salti tutto provocando un disordine ingovernabile. Tra non molto tempo la crisi greca si riaprirà e investirà, assai più’ duramente che oggi, anche i paesi mediterranei: l’Europa sarà in una crisi più grave ed estesa di quella che ha investito la Grecia e anche la Germania avrà più di un problema. A questo punto mi pare utile citare un passo dell’ottimo articolo di Luciana Castellina (il manifesto, 17 luglio): «Altra cosa – scrive Luciana – è che a mettere in discussione l’eurozona sia uno schieramento più forte, almeno i paesi mediterranei, sulla base di un chiaro progetto di lotta e di reciproca solidarietà. Questo fronte oggi non c’è e noi italiani possiamo vergognarci perché il nostro presidente del consiglio avrebbe potuto e dovuto avere un ruolo di primo piano da svolgere in questa situazione, ha messo, pauroso, la testa sotto la sabbia. Tocca anche a noi costruire un piano B, ma non solo per la Grecia».
Quello che non ha fatto e non ha pensato il nostro attuale presidente del consiglio lo possono e lo debbono fare i nostri politici di sinistra.
Riunirsi, prendere contatto con le personalità di sinistra di Portogallo, Spagna, Grecia e anche Italia per affrontare l’attuale questione meridionale europea.
E’ lo sforzo che hanno fatto in questi mesi i gruppi e i partiti che stanno cercando di dar vita ad un nuovo soggetto di sinistra nel nostro paese, consapevoli che occorre oramai operare a livello europeo e non solo nazionale stabilendo rapporti o rendendoli meno formali.
Lo ha già fatto la Fiom con i sindacati metalmeccanici del sud Europa.
In questo senso si muovono anche Strauss-Kahn, Fitoussi, e Varoufakis con il sostegno del premio Nobel Stiglitz e anche James Galbraith per una formazione di sinistra a livello europeo. E’ urgente e positivo, e per noi italiani che sulla questione meridionale abbiamo avuto la lezione di Gramsci, ancora più pressante.
Non si può continuare a stare immobili e subire. Questo è un appello. E per questo ho scelto le colonne del manifesto per lanciarlo.
L’Unione europea è da realizzare, ma non può essere solo monetaria: non solo è insufficiente ma anche dannosa. Deve essere un’unione politica e quindi democratica cioè tale da prendere in considerazione le differenze economiche e sociali tra i vari paesi. Un’unione non è una sommatoria acritica di differenze.
«Intervista a Jean-Claude Juncker. Il presidente della Commissione europea critica il ritorno dei nazionalismi e ammette che è stata la paura a permettere l’accordo sulla Grecia, che tuttavia non deve sentirsi umiliata dalle nuove condizioni». dovrebbe sentirsi umiliato lui.
La Repubblica, 22 luglio 2015
Bruxelles. Otto giorni dopo il summit maratona della zona euro che ha concluso i negoziati tra la Grecia e i suoi creditori internazionali, il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, per la prima volta traccia il suo bilancio sulle trattative con Atene e la lezione che deve trarne tutta Europa. Juncker ci riceve nel suo ufficio del Berlaymont mentre è in corso la parata del 21 luglio. Dalla strada arriva un sottofondo di musica militare.
«Un atto che si pone in alternativa alla linea teutonica della «secessione» che noi dovremmo conoscere bene. Infatti, la proposta della Grexit da parte tedesca è paragonabile a quella della Lega Nord negli anni ’90 per il Mezzogiorno».
Il manifesto, 22 luglio 2015 (m.p.r.)
L’aver salvato la Grecia dall’espulsione voluta da alcuni esponenti della classe politica del Nord Europa è un merito di Alexis Tsipras. Si tratta adesso di vedere se il giovane leader greco riuscirà ad arginare gli effetti negativi dell’amara medicina che ha dovuto accettare, usando l’astuzia e l’intelligenza di Ulisse di fronte ad un nemico che pensa di avere già vinto la guerra. Ha di fronte prove parlamentari difficili per la maggioranza di governo e un partito diviso.
C’eravamo entusiasmati come non succedeva da molto tempo. Abbiamo in tanti, in Italia ed in Europa, creduto in Tsipras e aspettato con apprensione i risultati del referendum sulle richieste di Bruxelles. La vittoria del No ci ha portato al settimo cielo, abbiamo visto aprirsi una strada concreta per costruire l’Altra Europa.
Quel grande OXI, che sulla stampa italiana è stato curiosamente trascritto come Oki, suonava come un noto farmaco antidolorifico, ed era di fatto un antico rimedio contro i terribili dolori e sofferenze dell’austerity. Poi, improvvisamente, la negoziazione tra il governo greco ed i potenti dell’Eurogruppo ha preso un’altra piega, inaspettata. Nessuno immaginava, infatti, che il consenso del popolo greco alla linea del governo Tsipras potesse portare ad un ulteriore irrigidimento da parte del governo tedesco e dei suoi satelliti.
In pochi giorni il quadro è tragicamente mutato. L’alternativa è diventata: uscire dall’euro o accettare la peggiore ricetta di politica economica che Bruxelles aveva presentato negli ultimi sei mesi di trattative. Prendere o lasciare. E Tsipras, il combattente, tenace e risoluto leader di Syriza, ha ceduto, si è inchinato ai diktat del ministro delle finanze tedesco. E’ inutile negarlo o ricamarci sopra: abbiamo subito una grande sconfitta che per molti si è tradotta in una Grande Delusione. Ma, è stata persa una battaglia e non la guerra.
Per superare questo stato depressivo, inevitabile dopo una botta del genere, dobbiamo elaborare il lutto e per farlo correttamente dobbiamo avere il coraggio di guardare in faccia la realtà. Se Tsipras avesse sbattuto la porta in faccia ai despoti di Bruxelles lo avremmo osannato, sarebbe diventato il Supereroe della sinistra europea, un simbolo per tutti coloro che non accettano più di essere trattati come servi. Ma, cosa sarebbe successo al popolo greco?
L’uscita improvvisa dall’euro avrebbe preso in contropiede il governo di Syriza e comportato un periodo di almeno due settimane di stallo, necessarie per stampare nuovamente la dracma e distribuirla, con banche chiuse e fuga generalizzata dei capitali in euro all’estero. Due settimane dove poteva accadere di tutto: la gente presa dal panico, affamata, potenzialmente esposta alle manipolazioni della destra neonazista, supermercati svuotati, tutti contro tutti. Una volta tornati alla dracma bisognava poi fare i conti con una svalutazione di almeno il 60 per cento rispetto a euro e dollaro, con una inevitabile ripercussione sui prezzi ed un rischio di iperinflazione, data la struttura della bilancia commerciale greca.
I lavoratori ed i pensionati greci avrebbero avuto una vittoria morale ed una sconfitta materiale molto pesante con un impoverimento improvviso, una netta perdita del potere d’acquisto dei già magri salari, sussidi e pensioni. Di contro, accettando i diktat di Schauble e Merkel il primo ministro greco avrebbe contraddetto tutto il percorso che lo aveva portato a indire il referendum, sarebbe stato accusato di incoerenza quando non di tradimento, e avrebbe prodotto una frattura in Syriza, come puntualmente è avvenuto.
Secondo alcune fonti giornalistiche Tsipras ha avuto dal presidente Jean-Claude Juncker un documento in cui veniva tracciato il quadro catastrofico che sarebbe scaturito dalla Grexit, secondo altre fonti sono stati gli stessi consulenti del governo greco a prospettargli scenari da seconda guerra mondiale. Un fatto è certo: Tsipras ha scelto di non fare l’Eroe, l’indomito guerriero che lotta contro tutto e tutti, ed ha lasciato ad altri questa parte. Ha scelto il male minore pur sapendo di dover pagare di persona un conto salato.
Un atto di coraggio e di responsabilità che solo col tempo verrà compreso da chi oggi lo liquida frettolosamente. Un atto che si pone in alternativa alla linea teutonica della «secessione» che noi dovremmo conoscere bene. Infatti, la proposta della Grexit da parte tedesca è paragonabile a quella della Lega Nord negli anni ’90 per il Mezzogiorno. Come la stampa tedesca ha creato lo stereotipo del greco fannullone, imbroglione, che vive alle spalle del lavoratore tedesco così negli anni ’90 in Italia, grazie anche a giornalisti democratici come Giorgio Bocca (vedi L’Inferno, 1990), si era creata l’immagine di un Mezzogiorno fatto solo di criminalità e assistenza.
Se la secessione fosse risultata vincente che cosa sarebbe capitato al popolo meridionale? Come risultava dalle simulazioni fatte in quel tempo il Mezzogiorno avrebbe dovuto avere una moneta propria svalutata al 40% rispetto alla valuta del Centro-Nord, avrebbe perso un flusso netto di risorse dello Stato pari al 35% del suo Pil e un crollo dei consumi di pari entità. Un collasso. Certo se la secessione del Nord-Italia fosse avvenuta subito dopo la seconda guerra mondiale le conseguenze per il Mezzogiorno sarebbero state ben diverse e non pochi sarebbero stati i vantaggi. Ma, ed è questo il punto: in economia come nella politica la scelta del tempo “giusto” è decisiva.
La Grexit è una questione seria che ci riguarda da vicino, non solo perché dopo la Grecia toccherà a noi - malgrado le rassicurazioni del ministro Padoan- ma perché pone un’ipoteca sul futuro della stessa Unione europea. Non sono pochi i segnali che vanno nella direzione di una generale secessione dei paesi ricchi del Nord Europa, al di là dell’Eurozona.
Basta citare il modo con cui i paesi della Ue hanno affrontato la tragedia dei migranti che muoiono nel Mediterraneo. Il parametro che è stato usato è quello delle “quote” come se si trattasse di latte o carne da macello, dimostrando al mondo di essere incapaci di andare al di là del linguaggio dei mercanti. Non diversamente sugli stessi spostamenti di popolazione all’interno della Ue, ad iniziare dalla Gran Bretagna, si parla di vincoli da porre ai giovani che dal Sud e dall’Est Europa cercano lavoro in questi paesi.
E, infine, non va sottovalutato il fatto che l’euro, con tutti i suoi errori, costituisce una base comune per contrastare l’egemonia del dollaro e giocare un ruolo a livello internazionale come Europa. Su questo punto la Merkel ha ragione: la fine dell’euro rappresenterebbe la fine della Ue. Si ritornerebbe necessariamente alle barriere doganali ed alle svalutazioni competitive, con tutti gli ingredienti di un ritorno al più becero e pericoloso nazionalismo. D’altra parte, continuando con queste politiche di austerity, che non risolvono la questione del debito pubblico insostenibile, non si fa altro che alimentare divisioni tra Nord e Sud Europa, e si va dritti verso l’implosione.
Da parte nostra si tratta di appoggiare, non solo politicamente, tutte quelle forme di economia solidale che sono nate in questi anni di crisi e che, come ci ha raccontato Angelo Mastrandrea, hanno avuto anche il sostegno della solidarietà internazionale. Senza dimenticare che questa crisi sta mettendo a nudo la questione monetaria, il bisogno di un controllo sociale di questo mezzo di pagamento che è diventato da strumento a fine dell’agire sociale, nonché l’insostenibilità di un processo di indebitamento infinito. Ma, su questa rilevante questione torneremo in altra occasione.
«“Quella giovane dietro di me è morta” recita la didascalia della foto con le vittime dell’attentato di Suruc, diventata virale. Una storia esemplare in tempi di terrore globalizzato».
La Repubblica, 22 luglio 2015 (m.p.r.)
La didascalia originale di questa immagine contiene una terribile frase di undici parole: «La ragazza con la maglietta bianca dietro di me è morta». È quella con il sorriso più esibito, gli occhi una fessura appena, il collo lungo, i capelli ricci sbandati di lato. Quella con le dita a V in segno di vittoria, un anello all’indice. Lei non c’è più. Forse non ci sono più altri che compaiono alle spalle di Madersahi, la ragazza in primo piano che ha scattato il selfie e che ci ha informato, prima di quelle undici parole, di essere ancora viva.
«Yanis Varoufakis sta mettendo insieme una formazione politica con ambizioni europee più ancora che nazionali, dove Syriza resta forte. Una formazione di sinistra, radicale, intransigente “ma non biecamente marxista-leninista”».
La Repubblica, 21 luglio 2015 (m.p.r.)
Ma ancora più significativa è la tribuna da cui è stata resa pubblica la lettera di DSK: il blog di Yanis Varoufakis, che dichiaratamente sta mettendo insieme una formazione politica con ambizioni europee più ancora che nazionali, dove Syriza resta forte. Una formazione di sinistra, radicale, intransigente «ma non biecamente marxista-leninista», precisa Jean-Paul Fitoussi, l’economista che con Strauss-Kahn ha condiviso decenni di insegnamento in quell’atelier di cultura liberal che è la parigina SciencesPo. E che è tuttora suo grande amico: «State tranquilli, non è un rivoluzionario senza speranze, è un riformista moderato che ha a cuore il bene dell’Europa».