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« manifesto, 2 agosto 2015

Cen­ti­naia di com­bat­tenti del Par­tito dei lavo­ra­tori del Kur­di­stan (Pkk) sono rima­sti uccisi e cen­ti­naia feriti in una set­ti­mana di raid dell’aviazione turca con­tro le basi dei ribelli. Col­piti anche vil­laggi e la popo­la­zione kurda. Tra i feriti ci sarebbe anche Nuret­tin Demir­tas, fra­tello del lea­der della for­ma­zione curda Par­tito demo­cra­tico del popolo (Hdp) Sela­hat­tin Demir­tas — che ha avuto una straor­di­na­ria affer­ma­zione alle ultime ele­zioni tur­che con il suo 13%, impe­dendo così di fatto la mag­gio­ranza par­la­men­tare all’Akp di Erdo­gan e per que­sto messo in que­sti giorni sotto accusa, lui e il suo partito.

Sta avve­nendo, sotto i nostri occhi, una car­ne­fi­cina. Che ci riguarda diret­ta­mente. Infatti l’offensiva mili­tare — iro­nia della sorte l’agenzia parla di una ine­si­stente offen­siva con­tro l’Isis — è scat­tata dopo il ver­tice della Nato di Bru­xel­les di nem­meno una set­ti­mana fa, di fatto con­vo­cato da Ankara per avere par­te­ci­pa­zione e avallo alla sua nuova guerra con­tro i kurdi, fatta con la scusa di attac­care anche, per la prima volta le posta­zioni siriane dello Stato isla­mico. La par­te­ci­pa­zione atlan­tica piena non c’è, ma l’avvallo sì e, soprat­tuto, c’è quello degli Stati uniti.

Ora dun­que con l’applauso dell’Alleanza atlan­tica i cac­cia­bom­bar­dieri tur­chi fanno a pezzi i com­bat­tenti della sini­stra turca, vale a dire i mili­tanti che quasi da soli finora com­bat­tono con le armi in pugno in Siria e in Tur­chia con­tro le mili­zie jiha­di­ste dell’Isis. Mili­zie invece soste­nute e finan­ziate negli ultimi tre anni pro­prio da Ankara che ha adde­strato tutte le for­ma­zioni ribelli siriane — com­presa Al Nusra, vale a dire Al Qarda, nelle sue basi a par­tire da quella Nato di Adana, come sanno tutti i governi occi­den­tali e come ha denun­ciato pro­prio la sini­stra turca.

È stato scritto che la svolta «ambi­gua» di Erdo­gan sarebbe deri­vata dall’impossibilità per Washing­ton di sop­por­tare ancora per troppo tempo che un pro­prio alleato potesse mostrare sim­pa­tie per un gruppo ter­ro­ri­sta come l’Isis che gli ame­ri­cani ora sono impe­gnati a distrug­gere. Quando mai? Il fatto è che la Tur­chia, alla fron­tiera tur­bo­lenta della Siria in guerra, ha adde­strato, finan­ziato e soste­nuto i jiha­di­sti pro­prio su man­dato della coa­li­zione degli Amici della Siria, gui­data pro­prio dagli Stati uniti e dall’Arabia sau­dita insieme alle petro­mo­nar­chie mediorientali.

Così adesso anche la Casa bianca (dopo l’esperienza san­gui­nosa di Ben­gasi dell’11 set­tem­bre 2012) corre ai ripari e bom­barda da mesi gli stessi jiha­di­sti che, come in Libia, ha usato per desta­bi­liz­zare l’area. E que­sto gra­zie ad Ankara che mette a dispo­si­zione la sua base di Incir­lik, men­tre gli ame­ri­cani chiu­dono tutti e due gli occhi sul mas­sa­cro della sini­stra kurda.

Ecco dun­que il nuovo ruolo dell’islamista mode­rato Erdo­gan, il sul­tano atlan­tico. Altro che «distratto» mem­bro della Nato.

Cin­que anni fa, scon­fitto nel ten­ta­tivo di entrare in Europa, ha ripie­gato nell’area per costruire una nuova «pax otto­mana», dalla Bosnia a Gaza„ dall’Azerbaijan alla nuova Libia in fun­zione anti-Iran. Ora invece, per accr­di­tarsi con l’Occidente, gioca la carta della «guerra ottomana». Con una spina nel fianco però, che deve pro­prio levarsi: il popolo kurdo. Per­ché le guerre ame­ri­cane ed euro­pee, deva­stando tre paesi cen­trali dell’area nor­da­fri­cana e medio­rien­tale — nell’ordine tem­po­rale, Iraq, Libia e Siria — hanno atti­vato sia il pro­ta­go­ni­smo jiha­di­sta, prima alleato dell’Occidente con­tro i regimi in carica, e ora diven­tato nemico; ma hanno anche chia­mato in causa il popolo kurdo, che resta diviso pro­prio tra Siria, Tur­chia e Iraq (pieno di petro­lio e nemico giu­rato del Pkk).

Fer­mare con le armi il con­ta­gio indi­pen­den­ti­sta e laico della sini­stra kurda (il Pkk ma anche la coa­li­zione politico-sociale del Rojava in Siria) è l’obiettivo di Erdo­gan. Ma anche della «nostra» Alleanza atlan­tica che applaude ogni volta che un F16 decolla per bom­bar­dare. L’Italia atlan­tica, che si pre­para ad una nuova avven­tura mili­tare in Libia, di Pkk del resto se ne intende: ha con­se­gnato alle «alleate» galere tur­che il lea­der Oca­lan venuto da noi per trat­tare la pace.

Sotto l'accusa della magistratura contabile «le gravi defor­ma­zioni pro­vo­cate da una visione mer­can­ti­li­sta dell’economia ispi­rata dal man­tra della com­pe­ti­ti­vità, della ridu­zione dei costi e della com­pres­sione salariale».

Il manifesto, 2 agosto 2015

CORTE DEI CONTI: PIÙ TAGLI, PIÙTASSE.
ECCO COSA CI STA PREPARANDO RENZI

di Roberto Ciccarelli

Austerità. La relazione sulla finanza locale della magistratura contabile: «Gli 80 euro peggiorano il fabbisogno pubblico». L’abolizione dell’Imu? «Danneggia il federalismo fiscale». Le tasse comunali cresciute di otto miliardi di euro dal 2010 a causa di 40 miliardi di tagli agli enti locali, 113 euro a testa in più all’anno. Promemoria in attesa del pacchetto "taglia-tasse" annunciato dal governo

L’abolizione dell’Imu sulla prima casa? Un pastic­cio gigan­te­sco che ha distrutto uno dei prin­cipi car­dine del fede­ra­li­smo fiscale: la cor­ri­spon­denza tra con­tri­buenti e sog­getti bene­fi­ciari dei ser­vizi resi. Vogliamo par­lare del taglio dell’Irap? L’imposta sulle imprese su base regio­nale tagliata di 1,9 miliardi da Renzi per ridurre il «cuneo fiscale» ha avuto «riflessi nega­tivi» sulle fun­zioni degli enti locali. Quanto al «bonus Irpef» degli 80 euro per i lavo­ra­tori dipen­denti con red­diti tra 8 e 26 mila euro è costato 4,5 miliardi di euro e ha «peg­gio­rato il fab­bi­so­gno del set­tore pubblico».

La rela­zione sugli anda­menti della finanza ter­ri­to­riale, resa nota il 27 luglio dalla Corte dei Conti, non è pro­pria­mente una let­tura estiva, ma per­mette di com­pren­dere i danni pro­vo­cati dall’uso popu­li­sta dei conti pub­blici del governo Renzi. Senza con­tare che quella della magi­stra­tura con­ta­bile è la più seria requi­si­to­ria con­tro i tagli voluti dai governi dell’austerità dal Ber­lu­sconi del 2008 al Renzi della legge di sta­bi­lità del 2015.

Alla base non c’è solo la richie­sta del rispetto delle fun­zione costi­tu­zio­nale nella gestione della spesa pub­blica, rego­lar­mente infranta da tutti i governi per rispet­tare i dik­tat della Troika, ma le gravi defor­ma­zioni pro­vo­cate da una visione mer­can­ti­li­sta dell’economia ispi­rata dal man­tra della com­pe­ti­ti­vità, della ridu­zione dei costi e della com­pres­sione salariale.

Tutti ele­menti che hanno pro­vo­cato un boom inau­dito della tas­sa­zione, l’aumento del debito pub­blico e il blocco della tanto ago­gnata «com­pe­ti­ti­vità». L’austerità è un cir­colo vizioso, soprat­tutto senza una cre­scita capace di aumen­tare l’occupazione e inve­sti­menti mancanti.

I tagli agli enti locali dal 2008 a oggi ammon­tano a quasi 40 miliardi, risul­tato della ridu­zione dei tra­sfe­ri­menti sta­tali di 22 miliardi e di un calo dei finan­zia­menti per la sanità di 17,5 miliardi. «Per con­ser­vare l’equilibrio in rispo­sta alle severe misure cor­ret­tive del governo» i Comuni — col­piti da tagli per quasi 8 miliardi tra il 2010 e il 2014 — hanno rispo­sto con «aumenti molto accen­tuati» delle tasse locali.

Oggi il peso del fisco è «ai limiti della com­pa­ti­bi­lità con le capa­cità fiscali locali» denun­cia la magi­stra­tura con­ta­bile. La tas­sa­zione comu­nale è infatti bal­zata dai 505,5 euro a testa del 2011 ai 618,4 euro dello scorso anno. Una pres­sione che tocca i livelli più alti nei Comuni con più di 250mila abi­tanti, arri­vando a 881,94 euro pro capite.

Se i Comuni hanno rispo­sto ai tagli con una revi­sione al rialzo delle ali­quote Ici-Imu — gli «aumenti gene­ra­liz­zati hanno visto gli incassi pas­sare dai 9,6 miliardi di euro del Ici 2011 ai 15,3 miliardi del 2014 — le Regioni hanno pun­tato sul taglio degli inve­sti­menti e dei ser­vizi con «una com­pres­sione delle fun­zioni extra-sanitarie». Tra il 2009 e il 2015 il taglio al finan­zia­mento del fab­bi­so­gno della sanità è stato del 17,5 miliardi.

La Corte dei conti descrive le poli­ti­che del rigore fiscale nei ter­mini di un «mec­ca­ni­smo distor­sivo» che impone agli enti locali di sca­ri­care i tagli impo­sti dal l’Europa agli enti locali sul con­tri­buente. L’equivalenza è net­tis­sima: l’aumento delle tasse è dovuto ai tagli alle risorse sta­tali dal 2011. A que­sto si aggiunge il ritardo nella «ricom­po­si­zione delle fonti di finan­zia­mento della spesa» per garan­tire ser­vizi pub­blici effi­cienti ed eco­no­mici. Que­sto signi­fica aziende dei tra­sporti locali in defi­cit, come la pri­va­tiz­za­zione delle municipalizzate.

E que­sto nono­stante l’incremento con­si­stente delle entrate (+15,63% rispetto al 2013). In altre parole, la crisi di aziende come l’Atac a Roma, di cui tanto si parla in que­sti giorni, non è solo dovuta all’inefficienza orga­niz­za­tiva, ma a un «baco» nel sistema dei tra­sfe­ri­menti delle risorse. La ven­dita di pac­chetti azio­nari, o la pri­va­tiz­za­zione dei ser­vizi pub­blici, sono l’ultimo step che può chiu­dere un cerchio.

«Serve un piano straor­di­na­rio di con­tra­sto alle povertà, una vera epi­de­mia per tante zone del Paese, che com­prenda più fondi e più ser­vizi» sostiene Anto­nio Satta — com­po­nente del diret­tivo dell’Anci –In que­sti anni abbiamo garan­tito ser­vizi, nono­stante un Patto di sta­bi­lità che ci ha tra­sfor­mati in notai più che in ammi­ni­stra­tori e politici».

Per chi vuole leg­gerle, que­ste pagine costi­tui­scono un ammo­ni­mento sulle con­se­guenze dei tagli che ver­ranno, quelli alla Sanità (2,3 miliardi nel 2016) e a quelli alle tasse sulla prima casa (45 miliardi) nei pros­simi tre anni. È in arrivo un’altra imbar­cata di aumenti delle tasse sui cit­ta­dini. La crisi fiscale viene pro­dotta dai governi. I tagli li pagano i cit­ta­dini che, in più, sono obbli­gati a rinun­ciare ai ser­vizi, alle cure e ad un tra­sporto locale efficiente.

E Renzi che dice? Ieri ha assi­cu­rato che i soldi «sot­tratti» ai Comuni per l’abolizione della Tasi/Imu «saranno resti­tuiti inte­gral­mente». Magie con­ta­bili della finanza creativa.

regalo ai più ricchi»

CGIL: «L’ABOLIZIONE DI TASI E IMU È UN REGALO AIPIÙ RICCHI»
di Roberto Ciccarelli

L'abolizione delle tasse promesse da Renzi faranno risparmiare ai poveri 55 , mentre per un milione di contribuenti più ricchi il risparmio sarà in media di circa 827 euro. Il segretario confederale Cgil Danilo Barbi: «Le mancate entrate saranno coperte da tagli sui servizi fruiti dai cittadini»

L’abolizione della tassa sulla prima casa pro­messa urbi et orbi dal pre­si­dente del Con­si­glio Renzi varrà per 8 milioni di con­tri­buenti, quelli delle due fasce di ver­sa­mento più basse, circa 55 euro pro-capite, men­tre per un milione di con­tri­buenti più ric­chi il rispar­mio sarà in media di circa 827 euro.

Lo sconto per 35.700 pro­prie­tari di case di lusso arri­verà a circa 1.940 euro. Lo ha cal­co­lato l’ufficio fisco e finanza pub­blica della Cgi secondo il quale l’operazione «for­nirà bene­fici molto limi­tati a chi ha già poco, cioè la mag­gio­ranza di lavo­ra­tori e pen­sio­nati, men­tre saranno molto più cospi­cui per chi pos­siede pro­prietà di mag­gior valore».

Se per le per­sone a basso red­dito i van­taggi saranno, a giu­di­zio della Cgil, mode­sti, rile­vanti saranno invece gli svan­taggi: «le man­cate entrate deri­vanti dall’abrogazione di Tasi e Imu — sostiene il segre­ta­rio con­fe­de­rale Danilo Barbi — saranno coperte da tagli sui ser­vizi nor­mal­mente fruiti da que­sti cit­ta­dini». Si parla dei tagli da oltre 2 miliardi di euro per il pros­simo trien­nio alla Sanità: «un ulte­riore impo­ve­ri­mento del ser­vi­zio sani­ta­rio pub­blico che ridurrà il diritto uni­ver­sale alla salute».

Per quanto riguarda la tas­sa­zione sulle imprese, nel 2016, le misure strut­tu­rali di ridu­zione fiscale dovreb­bero rag­giun­gere 10 miliardi annui, por­tando ad un’aliquota del 24% nel 2017. In que­sto pac­chetto non biso­gna tanto meno dimen­ti­care la decon­tri­bu­zione sui nuovi «con­tratti a tutele cre­scenti», pre­vi­sti dal Jobs Act.

La Cgil stima una spesa effet­tiva di 5 miliardi in tre anni per la crea­zione com­ples­siva di 200mila unità di lavoro nel set­tore privato.

Un’impresa vana, di fronte a una disoc­cu­pa­zione che resterà sta­bile tra il 12 e il 13% nei pros­simi anni. La ridu­zione di Ires e Irap sulle imprese è «l’ennesimo prov­ve­di­mento ‘a piog­gia che pre­scinde, ad oggi, da inve­sti­menti, inno­va­zione, pro­dut­ti­vità e mag­giore occu­pa­zione» sostiene Barbi.

Per il 2018, Renzi ha annun­ciato la ridu­zione dell’Irpef. La radio­gra­fia del sin­da­cato di Corso Ita­lia ha cal­co­lato un rispar­mio annuo per un red­dito di 18mila euro di 970 euro; per uno di 35mila euro di 2.950; per uno di 150 mila di 11.800 euro. In pra­tica il Pd e Renzi agi­scono come un Robin Hood alla rove­scia: danno ai più ric­chi ciò che hanno tolto ai più poveri, rove­sciando ogni cri­te­rio di pro­gres­si­vità della tas­sa­zione e, anzi, age­vo­lando la legge prin­ci­pale della disu­gua­glianza con­tem­po­ra­nea: la ric­chezza pre­mia sem­pre il ver­tice della pira­mide sociale. In basso «sgoc­cio­lano» sem­pre meno risorse.

L’analogia tra le poli­ti­che fiscali di Ber­lu­sconi e Tre­monti e quelle di Renzi e del Pd non è una sem­pli­fi­ca­zione di comodo. Per la Cgil si tratta della stessa poli­tica: «Evoca una riforma dell’Irpef con due sole ali­quote, non garan­ti­rebbe più la pro­gres­si­vità del sistema tri­bu­ta­rio. Il rispar­mio fiscale sarà così tanto più rag­guar­de­vole, quanto mag­giore è il reddito».

Non solo: sono poli­ti­che che non ser­vono all’aumento dell’occupazione, che non sia quella «dro­gata» da incen­tivi che tutt’al più tra­sfor­mano i con­tratti esi­stenti in quelli a «tutele cre­scenti». «Cia­scuna di que­ste nuove misure fiscali non favo­rirà l’occupazione, e tanto meno sti­mo­lerà la cre­scita del Paese» con­ferma Barbi.

Il pac­chetto «taglia-tasse» del governo pre­ve­de­rebbe una revi­sione della spesa pub­blica com­ples­siva di circa 26 miliardi. Una pro­spet­tiva che pre­oc­cupa il sin­da­cato che pro­pone un’altra strada: la crea­zione diretta di occu­pa­zione e inve­sti­menti pub­blici che avrebbe un bene­fi­cio sul Pil quat­tro volte supe­riore rispetto ad un taglio gene­ra­liz­zato delle tasse.

Il Pais - La Repubblica, 2 agosto 2015
«Il sadico dispotismo dell’ideologia dominante». «La lettura morale di questa crisi». «L’abbraccio mortale del debito». Yanis Varoufakis accoglie El País nella sua casa al centro di Atene; la sua ormai celebre moto è parcheggiata all’angolo della strada, pronta a ripartire rombando alla fine dell’intervista. Visto da vicino, Varoufakis è amabile, attento e disinvolto. Offre al giornalista una tazzina di caffè preparato di fresco, e subito si capisce perché la sua lingua è considerata una delle più affilate d’Europa. Parlando a mitraglia, usa toni tra il solenne e il drammatico, con l’economia e la politica come generi letterari al servizio di un alibi: la Grecia epitome della crisi europea, e quest’ultima vista non come una fase transitoria, ma come uno stato tendente a perpetuarsi.

Alcuni giorni fa ha lasciato il ministero. Come è cambiata la sua vita quotidiana?
«I giornali pensano che io sia deluso per aver lasciato il governo. Di fatto però io non sono entrato in politica per far carriera, ma per cambiare le cose. E chi cerca di cambiarle paga un prezzo».

Quale?
«L’avversione, l’odio profondo dell’establishment. Chi entra in politica senza voler far carriera finisce per crearsi questo tipo di problemi ».

Intanto la Grecia continuerà a subire la tutela della Troika...
«Noi avevamo offerto all’Fmi, alla Bce e alla Commissione l’opportunità di tornare ad essere le istituzioni che erano in origine; ma hanno insistito per ripresentarsi come Troika. Ma l’ultimo accordo si basa sulla prosecuzione di una farsa, ma si tratta solo di procrastinare la crisi con nuovi
prestiti insostenibili, facendo finta di risolvere il problema. Ma si può ingannare la gente, si possono ingannare i mercati per qualche tempo, non all’infinito».

Cosa si aspetta nei prossimi mesi?
«L’accordo è programmato per fallire. E fallirà. Siamo sinceri: il ministro tedesco Wolfgang Schaeuble non è mai stato interessato a un’intesain grado di funzionare. Ha affermato categoricamente che il suo piano è ridisegnare l’eurozona: un piano che prevede l’esclusione della Grecia. Io lo considero come un gravissimo errore, ma Schaeuble pesa molto in Europa. Una delle maggiori mistificazioni di queste settimane è stata quella di presentare il patto tra il nostro governo e i creditori come un’alternativa al piano di Schaeuble. Non è così. L’accordo è parte del piano Schäuble».

La Grexit è ormai scontata?

«Speriamo di no. Ma mi aspetto molto rumore, e poi rinvii, mancato raggiungimento di obiettivi che di fatto sono irraggiungibili, e l’aggravamento della recessione, che finirà per tradursi in problemi politici. Allora si vedrà se l’Europa vuole davvero continuare a portare avanti il piano di Schäuble oppure no».

Schäuble ha suggerito di togliere poteri alla Commissione, e di applicare le regole con maggior durezza. Se sarà lui a vincere la Grecia è condannata?
«C’è un piano sul tavolo, ed è già avviato. Schaeuble vuole mettere da parte la Commissione e creare una sorta di super-commissario fiscale dotato dell’autorità di abbattere le prerogative nazionali, anche nei Paesi che non rientrano nel programma. Sarebbe un modo per assoggettarli tutti al programma. Il piano di Schaeuble è di imporre dovunque la Troika: a Madrid, a Roma, ma soprattutto a Parigi».

A Parigi?
«Parigi è il piatto forte. È la destinazione finale della troika. La Grexit servirà a incutere la paura necessaria a forzare il consenso di Madrid, di Roma e di Parigi».

Sacrificare la Grecia per cambiare la fisionomia dell’Europa?

«Sarà un atto dimostrativo: ecco cosa succede se non vi assoggettate ai diktat della Troika. Ciò che è accaduto in Grecia è senza alcun dubbio un colpo di Stato: l’asfissia di un Paese attraverso le restrizioni di liquidità, per negargli l’imprescindibile ristrutturazione del debito. A Bruxelles non c’è mai stato l’interesse di offrirci un patto reciprocamente vantaggioso. Le restrizioni di liquidità hanno gradualmente strangolato l’economia, gli aiuti promessi non arrivavano; c’era da far fronte a continui pagamenti a Fmi e Bce. La pressione è andata avanti finché siamo rimasti senza liquidità. Allora ci hanno imposto un ultimatum. Alla fine il risultato è uguale a quando si rovescia un governo, o lo si costringe a gettare la spugna ».

Quali gli effetti per l’Europa?

«Nessuno è libero quando anche una sola persona è ridotta in schiavitù: è il paradosso di Hegel. L’Europa dovrebbe stare molto attenta. Nessun Paese può prosperare, essere libero, difendere la sovranità e i suoi valori democratici quando un altro Stato membro è privato della prosperità, della sovranità e della democrazia».

Anche se è vero che la Grecia ha cambiato i termini del dibattito, in politica si devono ottenere dei risultati. I risultati la soddisfano?

«L’euro è nato 15 anni fa. È stato concepito male, come abbiamo scoperto nel 2008, dopo il tracollo della Lehman Brothers. Fin dal 2010 l’Europa ha un atteggiamento negazionista: l’Europa ufficiale ha fatto esattamente il contrario di quanto avrebbe dovuto fare. Un Paese piccolo come la Grecia, che rappresenta appena il 2% del Pil europeo, ha eletto un governo che ha messo in campo alcuni temi essenziali, cruciali. Dopo sei mesi di lotte siamo davanti a una grande sconfitta, abbiamo perso la battaglia. Ma vinciamo la guerra, perché abbiamo cambiato i termini del dibattito ».

Lei aveva un piano B: una moneta parallela, in caso di chiusura delle banche. Perché Tsipras non ha voluto premere quel pulsante?
«Il suo lavoro era quello di un premier. Il mio, nella mia qualità di ministro, era di mettere a punto i migliori strumenti per quando avremmo preso quella decisione. C’erano buoni argomenti per farlo, come c’erano per non premere quel pulsante».

Alessandra Longo intervista Paolo Gerimberti, ex presidente della Rai, a proposito della riforma della maggiore struttura per la formazione dell'opinione pubblica italiana. «Questa riforma non va, è solo una brutta fiction e lascia la lottizzazione». Come prima, peggio di prima.

LaRepubblica, 2 agosto 2015

Paolo Garimberti, attualmente presidente del consiglio di sorveglianza di Euronews, è stato presidente della Rai dal 2009 al 2012. Tre anni che non ricorda come esaltanti: «Ho trascorso il mio tempo ad evitare guai all’azienda. Ricordo come un incubo le ore passate nei consigli di amministrazione, uno alla settimana...». Garimberti è stato ascoltato dalla Commissione di Vigilanza: «Mi hanno chiesto cosa ne pensavo di un amministratore delegato scelto dal governo, come prevede la riforma. Ho risposto che è una cosa insana». C’era anche Gasparri. Era gonfio come un tacchino dalla gioia. Lo capisco. Al posto suo sarei un pallone aerostatico ».

Garimberti, la Rai diventerà mai la Bbc?
«Solo il nostro provincialismo ne fa un mito. La Bbc è messa malissimo, tra scandali sugli stipendi gonfiati dei manager, un conduttore pedofilo, qualità scadente dei servizi, penso alla diretta sulle elezioni inglesi. La Rai sa fare molto meglio».

Come giudica il disegno di legge passato al Senato?
«La peggior fiction che la Rai abbia mai prodotto su se stessa. Prima le promesse roboanti, del tipo “Faremo la Bbc” (senza contare che, appunto, la Bbc è un mito in frantumi), e poi, come nel gioco dell’oca, questo approdo inquietante, un nuovo Cda fatto con la Gasparri! Una decisione sorprendente».

La governance Rai: si cade sempre lì.
«Sempre e ancora la stessa governance costruita per favorire l’impossessamento della Rai da parte della politica. Mi fa sorridere l’idea del futuro Cda. A riforma passata ci saranno sette consiglieri: due spettano alla Camera, due al Senato, due al governo, uno all’Associazione dipendenti Rai. Norme fatte apposta per continuare a lottizzare ».

Ci sarà un ad potentissimo.
«Sui poteri dell’ad sono d’accordo. Un sistema di comunicazione come la Rai deve essere guidato da una persona con poteri adeguati altrimenti si diventa preda di conflitti politici continui».

Però negli altri Paesi la scelta dell’amministratore delegato non spetta al governo.
«In Francia hanno capito che non si può. Prima il presidente della televisione francese era nominato dal presidente della Repubblica e veniva percepito come un suo uomo. Adesso il sistema è cambiato. C’è una commissione indipendente che esamina i candidati e sceglie».

Mi sembra chiaro che la riforma in Parlamento, così com’è, non le piace proprio.
«Hanno partorito un Topolino e non affrontano i temi veri. Il primo dei quali è il perimetro della Rai. Ha troppi canali: 13. Considerando che le risorse sono quelle che sono, ne basterebbero 5: due generalisti, uno di sport, uno di cultura, uno di informazione 24 ore su 24».

E c’è la questione del canone.

«Il canone è ridicolo, uno dei più bassi d’Europa.E’ impopolare perché viene vissuto come una tassa a favore della Rai e non come il corrispettivo per poter usare il televisore. Nessun governo italiano ha osato porre seriamente il tema».

Se ci fosse un progetto di respiro per il futuro della Rai forse ci sarebbero meno pole- miche su tutto, anche sul canone.

«Fare un buon servizio pubblico è un dovere morale. Ho sperato in una Rai nuova, autonoma e indipendente dalla politica, in una Rai che si renda conto che ormai il mondo è fatto dalla Rete e la Rai sulla Rete non c’è. Mi ritrovo invece con il nuovo Cda eletto con la Gasparri e con le solite logiche di sempre. Se questo è il rottamatore io sono Gengis Khan» Che ricordi ha dei suoi tre anni di presidenza?

«Ricordi di lunghissimi consigli di amministrazione, uno alla settimana. Ore e ore a discutere di una singola fiction, per esempio il Barbarossa che voleva la Lega... La Rai è e sarà sempre paralizzata nel processo decisionale ».

Nonostante tutto, la Rai è pur sempre la più grande azienda culturale del Paese.

«Lo era sicuramente anni fa. Oggi purtroppo non è più così. Non ci si può nascondere dietro gli ascolti di Sanremo. La Rai oggi è un’azienda senz’anima, senza identità».

Ecco perché non è irragionevole la proposta di Tsipras e Varafoukis di ragionare sul debito finanziario della Germania nei confronti del mondo.

Ytali, 30 luglio 2015

L'articolo di Susanne Böhm-Kuby, di cui raccomandiamo la lettura a chi voglia comprendere meglio perché siano del tutto ragionevoli le richieste di Tsipras e Varoufoukis, è la replica a una intervista comparsa sul medesimo sito a firma di Angelo Bolaffi. L'intervista è assolutamente incredibile non tanto per il suo contenuto (chiunque ha il diritto di schierarsi alla destra del più reazionario dei sostenitori di Wolfgang Schuble e Siegmund Gabriel), ma per il fatto che l'ha rilasciata l'ex direttore dell'istituto di cultura italiana di Berlino: cioè del rappresentante ufficiale in Germania della cultura italiana così come la interpreta il governo. E per comprendere meglio l'Italia governativa che vi segnaliamo qui l'intervista rilasciata da Bolaffi


I DEBITI DELLA GERMANIA
NEI CONFRONTI DELLA GRECIA

di Susanna Böme-Kuby

Il “cuore tedesco” di Angelo Bolaffi aveva già dato ampia prova della sua salda fede bundesrepubblicana, e la sola padronanza della lingua tedesca da lui auspicata non basta evidentemente per comprendere a fondo le vicende economiche e le implicazioni storiche della Germania.

La preoccupazione per una montante “sindrome antitedesca” si potrebbe lasciare agli stessi tedeschi che si sentono di nuovo vittime e messi alla gogna, e non solo dai “radicali di sinistra” nell’Europa meridionale: “Die Ungeliebten/ I non amati” titola Die Zeit. Il settimanale si sofferma sui modi in cui viene percepito lo stile autoritario tedesco nelle trattative con la Grecia, non affronta la sostanza del contenzioso, ma auspica infine di poter dare “alla predominanza economica dei tedeschi una nuova forma accettabile nella tradizione dell’umanesimo europeo”.

Mi pare utile invece mettere in luce le cause profonde del complesso squilibrio intereuropeo nel quale riemerge dall’attuale tragedia greca anche una “nuova questione tedesca”, rilevata dal New York Times. Lo strangolamento di fatto dell’economia greca costituisce una realtà che viene percepita in modi completamente diversi non solo tra nord e sud, ma anche all’interno delle nazioni stesse, e la miopia tedesca appare eclatante.

Marco D’Eramo ha rilevato la grande responsabilità delle élite tedesche, quella “di aver consentito, incoraggiato e infine imposto alla stragrande maggioranza della popolazione tedesca una visione della storia che niente ha a che vedere con la realtà e che favorisce tutti gli stereotipi più nazionalisti, xenofobi e persino razzisti.” E chiama in causa il gioco delle parti “di una classe dominante che si dice ‘costretta’ a esigere dalla Grecia insane misure di austerità, perché altrimenti perderebbe i favori di un’opinione pubblica” che questa stessa classe ha plasmato per non perdere il consenso popolare.

Mi torna in mente a proposito la nota constatazione di Axel Springer, primo monopolista della stampa tedesco-occidentale e fondatore nel 1947 del quotidiano Bild: “Alla fine della guerra ho capito che c’era una cosa che il lettore tedesco non avrebbe voluto fare in nessun modo: riflettere, pensare. Di conseguenza ho impostato i miei giornali.”

Vent’anni dopo furono gli studenti del ’68 a chiedere nei loro cortei: “Espropriate Springer!” Invano. La sua vedova, Friede Springer, una delle donne più influenti dell’establishment tedesco, è anche una stretta consigliera di Angela Merkel. E lo Springer-Konzern opera oggi in una quarantina di paesi, soprattutto nei paesi dell’est ex-sovietico.

Il progetto concreto degli Stati uniti d’Europa è nato un secolo fa non dall’impeto popolare, ma dalle esigenze economiche delle élite europee per assicurarsi un loro spazio vitale nel nuovo ordine mondiale dopo la fine del predominio britannico.

Lenin aveva intuito già nel 1915 che un’Europa unita su base capitalista avrebbe riproposto dei rapporti economici di tipo coloniale tra le singole nazioni. E il primo modello paneuropeo del Conte Coudenhove-Calergi propose, dopo la prima guerra mondiale, una unione dotata di moneta unica che doveva garantire l’unità economica e militare all’Europa come baluardo contro l’Unione sovietica, di cui si temevano contagi e mire espansive.

Le idee europeiste del grande capitale dopo la seconda guerra mondiale si orientavano in una direzione simile, sempre in funzione antisovietica, ora pro-atlantica.

Ovviamente dopo i due macelli mondiali si prospettò ai popoli europei una ricostruzione pacifica in una futura unione europea quale garante di pace che durò per circa quarant’anni. Ma la fine della guerra fredda aprì un altro scenario. Anziché smilitarizzarsi la UE venne di fatto associata alla NATO dagli anni Novanta in poi e impegnata per la prima volta dopo il 1945 in nuove guerre (“missioni umanitarie”) nello stesso ambito europeo (Jugoslavia) e nel resto del mondo.

In tal modo la UE è tuttora non autonoma in politica estera, ma strettamente legata agli USA. Le divergenze d’interesse tra i due poli sono evidenti e preoccupanti in molti casi, quello più pericoloso si sta sviluppando attualmente sul nuovo “fronte orientale” della NATO, in Ucraina. Di questo scenario occorre tener presente quando si parla della Grecia, avamposto sudorientale della UE/NATO. Dove nella guerra civile dopo la guerra era stata impedita una svolta comunista e imposta negli anni sessanta una pesante dittatura militare.

La Repubblica federale tedesca è dal suo inizio nel 1949 il perno di quell’Europa atlantica, e i suoi presupposti industriali, economici e sociali permisero una ricostruzione e una crescita molto più rapide che in paesi vicini, magari vincitori della guerra.

Tra quelle premesse storico-economiche – che sono alla base anche dell’odierna predominanza tedesca in Europa – occorre ricordare lo stock del capitale privato accumulato sfruttando il lavoro coatto e mai retribuito di ben 18 milioni di lavoratori stranieri trascinati di forza nella grande Germania durante la guerra. E anche il fatto che le ingenti riparazioni di guerra dovute dal Reich tedesco sia dopo la prima sia dopo la seconda guerra mondiale a una sessantina di Stati belligeranti, vennero pagate solo in minima parte. (Solo il risarcimento più grande, quello assegnato dagli Alleati all’URSS durante la Conferenza di Potsdam (1945), venne in seguito pagato esclusivamente dalla Germania orientale, poi RDT.) Fu guerra fredda. Quando questa venne dichiarata di fatto nel 1947 dal Segretario di Stato John F. Dulles, insieme all’annuncio del piano Marshall per un’Europa postbellica modello USA, era ovvio che quell’Europa sarebbe stata lontana da modelli come quello federale e neutrale di Ventotene o quello a favore di uno sviluppo socialista del manifesto di Buchenwald.

L’Europa atlantica metteva al suo centro il motore economico pressoché intatto della Germania occidentale e prevedeva da subito anche il suo riarmo nell’ambito della futura NATO. Per agevolare lo sviluppo e la riammissione politica della Germania nel contesto europeo si elaborò a Londra nel 1953 un complesso Trattato sul debito che abbonò al Reich tedesco la parte maggiore dei suoi debiti di guerra nei confronti del resto del mondo, spostando eventuali risarcimenti ulteriori a un futuro Trattato di pace dopo un’ipotetica riunificazione delle due repubbliche tedesche fondate nel 1949.

Ma quando questa riunificazione avvenne infine, nel 1989/90, i tedeschi elusero ancora – con l’Accordo 2+4 tra le due Germanie e gli Alleati – la stipula di un vero Trattato di pace che avrebbe riaperto molte richieste e problematiche che ormai la Germania unita vuole chiuse per sempre. Rimane invece di fatto – oltre all’incancellabile colpa tedesca – anche un enorme debito mai onorato.

Non per ultimo stona anche per questo la rigida richiesta dei tedeschi ai greci di pagare il loro debito come ogni buon padre di famiglia. Di fronte alle difficoltà generate dallo squilibrio dovuto anche all’attuale eccessivo export e surplus tedesco si dovrebbe ricominciare a parlare del vecchio debito tedesco ad alta voce in Europa. La questione non riguarda solo i greci, che l’hanno sollevata da tempo, ma anche altri, come gli italiani ben sanno.

In un recente studio (Griechenland am Abgrund. Die deutsche Reparationsschuld, Hamburg, VSA, 2015), recensito su il manifesto da Beppe Caccia (4/7/2015), lo storico Karl Heinz Roth ha sviluppato un piano dettagliato di come la Germania potrebbe onorare almeno nei confronti della Grecia il suo debito di guerra per evitare il crollo dell’intero assetto europeo:

I 7,1 miliardi di dollari concessi nel 1946 alla Conferenza di Parigi alla Grecia corrispondono oggi ad almeno novanta miliardi di euro. Roth propone quindi un trasferimento di una parte delle ricche riserve auree della Bundesbank alle istituzioni finanziarie europee: 28 miliardi per coprire il necessario taglio del cinquanta per cento del debito pubblico greco, sette miliardi alla Banca centrale greca per una programmi di aiuti immediati, 25 miliardi alla Banca europea di investimenti che metterà a disposizione dei crediti non rimborsabili per un grande programma di investimenti da parte di una Banca pubblica greca, otto miliardi per un fondo di risarcimento alla Memoria al quale potrebbero attingere i familiari delle vittime dei massacri tedeschi di guerra oltre al finanziamento di un Istituto di ricerca su guerra, occupazione e resistenza, i restanti 22 miliardi per un fondo di risarcimento europeo a favore anche di altri gruppi di vittime – come punto di partenza per una grande conferenza internazionale che dovrebbe essere in grado di mettere fine alle ipoteche della seconda guerra mondiale che tuttora, ben settant’anni dopo, gravano ancora in modo rilevante sul futuro europeo.

Si obietterà che negli attuali rapporti di forza un simile progetto appare irreale, utopico. Ma l’idea che si possano usare questi vecchi debiti tedeschi per finanziare un programma post-keynesiano in grado di portare fuori dalla crisi le economie europee da un disastro prevedibile, se non si cambia sistema, potrebbe costituire un grande compito politico per le sinistre unite europee. E la Germania potrebbe finalmente entrare in sintonia con la “tradizione dell’umanesimo europeo”, auspicato da Die Zeit.

gli incentivi alle imprese la stagnazione prosegue, così come il passaggio dal lavoro garantito a quello precario. Fichè restano avvolti nel modello tatcheriano non c'è salvezza. Il manifesto, 1 agosto 2015

È LA DISOCCUPAZIONE, BELLEZZA
di Marta Fana

I dati sul lavoro a giugno: 22mila disoccupati in più, la stagnazione continua. Il governo parla di lavoro con argomentazioni strumentali, quando non manifestamente fuorvianti e parziali. Per Renzi è «piccola ripartenza, ma c’è molto da fare». Poletti si giustifica: «I numeri fluttuano perché siamo all’inizio della ripresa». Vediamo come stanno, davvero, le cose

Sostiene l’Istat che il primo seme­stre 2015 si è chiuso con un anda­mento del mer­cato del lavoro per nulla posi­tivo: a giu­gno il tasso di disoc­cu­pa­zione per l’intera popo­la­zione è tor­nato al 12.7% e quello gio­va­nile rag­giunge il 44.2%. Il numero di occu­pati con­ti­nua a dimi­nuire a giu­gno di 22 mila unità in un mese, dopo il calo di mag­gio di 74 mila unità. Dimi­nui­sce anche il tasso di inat­ti­vità, spie­gato dalle con­di­zioni dram­ma­ti­che in cui ver­sano le fami­glie e non dalla fidu­cia ritro­vata (che pro­prio a giu­gno mostra un calo signi­fi­ca­tivo), come invece vuole farci cre­dere il governo.

Il calo del numero di occu­pati a giu­gno è stato trai­nato inte­ra­mente dalla com­po­nente maschile e gio­va­nile. Nel con­fronto con giu­gno 2014, in Ita­lia ci sono 40 mila occu­pati in meno: men­tre per gli uomini il numero di occu­pati dimi­nui­sce (-82 mila), per le donne aumenta spe­cu­lar­mente (+42 mila unità). Rispetto allo stesso mese del 2014, il tasso di disoc­cu­pa­zione maschile è aumen­tato del 7.5% (da 11.5 a 12.3 per­cento), men­tre quello fem­mi­nile è dimi­nuito del 3%, rima­nendo comun­que a un livello (13.1%) di gran lunga supe­riore alla media euro­pea. Nello stesso periodo, il tasso di occu­pa­zione dei gio­vani tra i 14 e i 25 anni è crol­lato dell’8% in un anno.

Varia­zioni con­si­de­re­voli riguar­dano anche il numero di inat­tivi (-18 mila rispetto a mag­gio) e il cor­ri­spon­dente tasso di inat­ti­vità, entrambi in dimi­nu­zione e trai­nati dalla mag­gior ricerca di lavoro da parte delle donne (-34 mila), men­tre gli uomini sem­brano sem­pre più sco­rag­giati. Tut­ta­via, i dati con­fer­mano che tra mag­gio e giu­gno l’aumento del tasso di disoc­cu­pa­zione è dovuto più alla ridu­zione del numero di occu­pati che a quella rela­tiva agli inat­tivi. Al con­tra­rio, sul con­fronto ten­den­ziale con giu­gno dello scorso anno, è vero che la ridu­zione del tasso di disoc­cu­pa­zione è deter­mi­nato prin­ci­pal­mente dal calo degli inattivi.

Il governo che doveva risol­vere — come molti altri che l’hanno pre­ce­duto — la disoc­cu­pa­zione, feno­meno strut­tu­rale aggra­vato dalla crisi, si rivela di fatto ina­de­guato ad affron­tare il pro­blema: l’unica poli­tica attiva è stata quella di rega­lare alle imprese miliardi di sgravi sul costo del lavoro da uti­liz­zare libe­ra­mente per accre­scere la pro­pria liqui­dità e pro­fitti piut­to­sto che inve­stire e creare occu­pa­zione. Il governo non è sol­tanto inca­pace di far fronte a un feno­meno dram­ma­tico, ma appare anche dele­te­rio, data l’assenza di pro­gram­ma­zione e i tagli al wel­fare. Se è pre­sto per giu­di­care in modo esau­stivo il Job­sAct, rimane incon­te­sta­bile che dall’insediamento del governo Renzi, il tasso di disoc­cu­pa­zione sia aumen­tato del 3.5% a fronte di un calo del tasso di inat­ti­vità di un esi­guo 0.2%.

Il Job­sAct pare non avere alcun effetto miglio­ra­tivo sul mer­cato del lavoro. Di fronte a que­sto qua­dro per nulla posi­tivo, governo e entou­rage pro­vano ad eva­dere il dato sui disoc­cu­pati per mezzo di argo­men­ta­zioni stru­men­tali, quando non mani­fe­sta­mente fuor­vianti e par­ziali. Non si può dar torto al respon­sa­bile eco­no­mico Pd Filippo Tad­dei quando afferma che il tasso di occu­pa­zione segue quello del Pil, tut­ta­via il para­gone è quan­to­meno infe­lice: in Ita­lia, la cre­scita del Pil segnata nel primo tri­me­stre 2015 è di appena lo 0.3% rispetto al tri­me­stre pre­ce­dente quando era nega­tiva: a conti fatti la situa­zione, pur­troppo, è quella di un paese in piena sta­gna­zione e i cui deboli segnali posi­tivi pro­ven­gono dall’andamento dell’economia euro­pea e glo­bale e non certo da una ritro­vata vita­lità del sistema Ita­lia. Il Pil nel primo tri­me­stre del 2015 è cre­sciuto meno di 20 euro a per­sona, per un totale di 1.181 miliardi di euro in più rispetto all’ultimo tri­me­stre del 2014, men­tre nello stesso periodo la domanda per con­sumi delle fami­glie con­ti­nua a dimi­nuire dato che la cre­scita non è uguale per tutti.
Pur di tro­vare un segnale di miglio­ra­mento il mini­stro del lavoro Giu­liano Poletti con­si­dera la ridu­zione delle ore di cassa inte­gra­zione come un aspetto ine­qui­vo­ca­bil­mente posi­tivo. Ma i dati sulle ore lavo­rate pub­bli­cati dall’Istat riguardo al primo tri­me­stre di quest’anno segna­lano come le ore lavo­rate aumen­tino a fronte di una ridu­zione degli occu­pati, soprat­tutto i dipen­denti nell’industria. Ciò indica che sem­pre più lavo­ra­tori sono chia­mati a fare straor­di­nari a con­di­zioni non sem­pre van­tag­giose. Rispetto alla Cig si cela il fatto che la can­cel­la­zione di alcune tipo­lo­gie come quella per ces­sa­zione di atti­vità, ha modi­fi­cato lo sta­tus dei lavo­ra­tori, che sono adesso in mobi­lità e quindi il numero di ore di cig non può che dimi­nuire. Ma le ore di cig dimi­nui­scono anche data la minore coper­tura degli ammor­tiz­za­tori in con­ti­nuità di con­tratto e nel caso di ces­sa­zione di atti­vità. Un det­ta­glio non for­nito dal governo.

RENZI REGALA 16MILIARDI ALLE IMPRESE
E NON PRODUCE NUOVI POSTI DI LAVORO
di Roberto Ciccarelli

Dopo lo Svi­mez, anche l’Istat gua­sta la festa al governo. Ven­ti­due­mila occu­pati in meno e cin­quan­ta­cin­que mila disoc­cu­pati in più a giu­gno, 85 mila in più dal 2014, hanno indotto ieri il pre­si­dente del Con­si­glio Mat­teo Renzi a par­lare di «pic­cola ripar­tenza» dell’occupazione. A Renzi è stato sug­ge­rito di guar­dare i dati Istat che atte­stano la ridu­zione degli inat­tivi, sin­tomo di una mag­giore par­te­ci­pa­zione al mer­cato del lavoro. Una ten­denza che si è strut­tu­rata nell’ultimo anno: –0,9% (-131 mila). «C’è ancora mol­tis­simo da fare ma i dati sono inte­res­santi per­ché quelli che ven­gono con­si­de­rati inat­tivi, che erano sfi­du­ciati o ras­se­gnati, tor­nano a cre­derci - ha detto - cioè aumenta il numero di per­sone che ha tro­vato un posto di lavoro ma anche chi lo sta cercando».

A riprova della stra­te­gia del governo, tutta in difesa per giu­sti­fi­care dati da sta­gna­zione pura e sem­plice, sono arri­vati anche i pen­sieri del respon­sa­bile eco­no­mico del Pd, Filippo Tad­dei, il quale sostiene che la «cre­scita» (data allo 0,7%) pro­durrà effetti occu­pa­zio­nali in autunno, «con sei mesi di ritardo». C’è qual­cosa che però non fun­ziona nella trin­cea sca­vata dal governo sotto l’intenso can­no­neg­gia­mento della crisi: se il tasso di inat­ti­vità dimi­nui­sce, dovrebbe dimi­nuire allora anche quello della disoc­cu­pa­zione. Invece accade il con­tra­rio, e non da ieri. Si torna a sfio­rare il record del 13% (siamo al 12,7%).

In pra­tica, coloro che per­dono il lavoro sono di più di quelli che lo cer­cano e sono tor­nati a «met­tersi in gioco» come direbbe Renzi. Chi invece ha tro­vato un lavoro esce dalla cassa inte­gra­zione. Lo atte­stano i dati: tra il 2014 e il 2015 110 mila per­sone si tro­vano in que­sta situa­zione. Tad­dei e il mini­stro del lavoro Poletti ieri lo hanno rivendicato.

Solo che c’è un grande pro­blema: non si tratta di nuovi posti di lavoro, quelli tanto pro­messi, ma sono con­ver­sioni di quelli già esi­stenti, ma pre­cari. Le imprese non stanno creando nuovi posti di lavoro, ma si limi­tano ad incas­sare gli sgravi fiscali elar­giti dal governo. Da Palazzo Chigi si giu­sti­fi­cano soste­nendo che arri­ve­ranno «dopo», ma si sa che la teo­ria dei due tempi non fun­ziona mai. Per avere un qua­dro più atten­di­bile, e meno ideo­lo­gico, della situa­zione dalle parti della mag­gio­ranza biso­gna pre­stare ascolto ad uno degli alleati di Renzi, per di più ex mini­stro del lavoro e pre­si­dente della com­mis­sione lavoro del Senato: «Il governo – ha spie­gato Mau­ri­zio Sac­coni — deve riflet­tere sugli impulsi prio­ri­tari alla cre­scita posto che gli oltre 16 miliardi di detas­sa­zione sul lavoro hanno sor­tito effetti mode­sti. Come inse­gna la ripresa spa­gnola, non basta la domanda estera se non si con­giunge con la ria­ni­ma­zione di quella interna».

Per Sac­coni tale «ria­ni­ma­zione» avverrà con il taglio delle tasse pro­messe da Renzi sugli immo­bili, per pagare i quali il governo taglierà la sanità pub­blica. Un pastic­cio, pro­dotto puris­simo dell’austerità, da cui non sarà facile uscire per l’esecutivo. Da que­sti discorsi, fatti arram­pi­can­dosi sugli spec­chi, ieri è rima­sto in un cono d’ombra il con­ti­nente della disoc­cu­pa­zione gio­va­nile: al 44,2%. Dopo il fal­li­mento del pro­gramma di Garan­zia Gio­vani, per il governo è ormai un tabù, tanto è vero che non ieri non ne ha par­lato. In que­sto caso non ci sono «flut­tua­zioni dovute alla ripresa» come sostiene Poletti per la disoc­cu­pa­zione gene­rale. La ten­denza è uni­voca: i gio­vani, e le donne, under 34 sono ormai le vit­time accer­tate della crisi. Alfredo D’Attorre, depu­tato della sini­stra Pd, coglie il punto: «Mai è stata così alta – sostiene – si scrive dal 77 solo per­ché allora comin­ciano le serie sta­ti­sti­che omo­ge­nee, in realtà allora la disoc­cu­pa­zione gio­va­nile era al 21,7%, oggi è al 44,2%». I gio­vani sono per­duti lungo la strada sognata della «crescita».

«L’Istat con­ferma come l’occupazione gio­va­nile sia insta­bile e di breve durata – ha soste­nuto Serena Sor­ren­tino (Cgil) – Il Jobs Act non dà rispo­ste, ma il governo è ancora in tempo per modi­fi­carne radi­cal­mente i decreti. La smetta di finan­ziare a piog­gia le imprese e finanzi un piano per il lavoro». L’impotenza sui gio­vani e la «mal riu­scita Garan­zia Gio­vani» spinge Guglielmo Loy (Uil) a par­lare di fal­li­mento delle poli­ti­che del lavoro. «Non è suf­fi­ciente un incen­tivo per aumen­tare l’occupazione» ha aggiunto Gigi Pet­teni della Uil. Da parte delle oppo­si­zioni duplice è la richie­sta: «red­dito di cit­ta­di­nanza e inter­venti per il bene pub­blico» (Gior­gio Airaudo, Sel) e «abban­dono della leva fiscale e inve­sti­menti pub­blici che trai­nano quelli pri­vati. Altri­menti il Tita­nic di Renzi e Poletti pun­terà dritto verso l’iceberg» (Movi­mento 5 Stelle).

Il viag­gio pro­cede a velo­cità sostenuta.

«Una storia di ragazzi di 35 anni fa, mescolata alla politica e alle trame del tempo, di cui i ragazzi di oggi mostrano di sapere poco o niente. Forse perché è stata digerita in fretta, a dispetto degli enigmi irrisolti e degli intrecci con le altre vicende del terrorismo italiano e straniero».

Corriere della Sera, 1 agosto 2015 (m.p.r.)

Il 2 agosto 1980 alle 10.25 ci fu una violentissima esplosione nella stazione di Bologna, affollata di turisti in arrivo e partenza per le vacanze. È considerato il più grave atto terroristico compiuto in Italia nel secondo dopoguerra. La bomba era composta da 23 chili di esplosivo chiuso in una valigia posta su un tavolino. Di una delle vittime, una donna, non venne ritrovato il corpo. L’esplosione la disintegrò.

Angela Fresu stava per compiere 3 anni, sua madre Maria - contadina della provincia di Sassari - ne aveva festeggiati 24 a febbraio. Sonia Burri aveva 7 anni, sua sorella Patrizia 18; venivano da Bari. Roberto Gaiola, vicentino, era uno studente di 14 anni come il tedesco Eckhard Mader (il fratello Kai ne aveva 8). Antonella Ceci, diciannovenne di Rimini, era fidanzata con Leoluca Marino, operaio, 24 anni, siciliano come le sorelle Domenica e Angelina, 26 e 23 anni.

Sono alcune delle vittime della strage: bambini, ragazzi o poco più. Degli ottantacinque morti, circa la metà non aveva trent’anni. Giovani vite spezzate da giovani assassini, stando alla sentenza che ha individuato tre colpevoli: Valerio Fioravanti, 22 anni; Francesca Mambro, 21; Luigi Ciavardini, nemmeno 18: è stato processato a parte, dal tribunale dei minorenni. Loro, terroristi-ragazzini sotto la sigla neofascista dei Nuclei armati rivoluzionari, per la bomba si proclamano innocenti nonostante la condanna definitiva. Hanno rivendicato e ammesso omicidi di poliziotti, carabinieri, magistrati, avversari politici e «camerati» accusati di tradimento; ma la strage no, ripetono da sempre. Dopo aver scontato la pena, sono tornati liberi; in Italia si può, anche con più di un ergastolo sulle spalle.

Esecutori giovani, depistatori anziani
Una storia di ragazzi di 35 anni fa, mescolata alla politica e alle trame del tempo, di cui i ragazzi di oggi mostrano di sapere poco o niente. Forse perché è stata digerita in fretta, a dispetto degli enigmi irrisolti e degli intrecci (reali, plausibili o solo immaginari) con le altre vicende del terrorismo italiano e straniero, che il Paese ha archiviato nonostante le risposte mancanti; dai legami col resto dell’eversione nera ai possibili collegamenti con la strage di Ustica (il Dc9 precipitato con 81 persone a bordo il 27 giugno 1980) e con il terrorismo medio-orientale.

Anziani, o comunque uomini maturi, furono invece i depistatori accertati. A cominciare da Licio Gelli, il «grande vecchio» dei misteri italiani, oggi novantaseienne, condannato per aver tentato di deviare le indagini, all’ombra della Loggia P2, insieme a due alti ufficiali del servizio segreto militare, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, e al faccendiere Francesco Pazienza. Un altro giovane estremista nero dell’epoca, Massimo Carminati, poi passato armi e bagagli alla criminalità comune e ora nuovamente in carcere con l’accusa di essere il capo di Mafia Capitale, fu anche lui processato e infine assolto per aver contribuito al depistaggio. Per quel che lo riguarda Gelli nega tutto, la sua idea è che l’attentato non fu nemmeno voluto: qualcuno trasportava una valigia di esplosivo e un mozzicone di sigaretta provocò il disastro. Spiegazione banale quanto «minimale» per l’atto di terrorismo più grave verificatosi nel dopoguerra nell’intera Europa occidentale.

Politica e strategia della tensione
L’ultimo capitolo della cosiddetta strategia della tensione, sostengono i più; anche perché, se pure Fioravanti, Mambro e Ciavardini fossero innocenti (così si chiamava il comitato sorto in loro difesa al tempo dei processi, al quale aderirono diversi esponenti della sinistra), ciò non significherebbe che l’eccidio non sia ascrivibile ai neo-fascisti. Anzi. Nell’andamento altalenante dei verdetti (condanne in primo grado, assoluzioni in appello, annullamento della Cassazione, nuove condanne nell’appello-bis e conferma in Cassazione) si sono persi per strada nomi noti dell’eversione nera della generazione precedente, già coinvolti nelle indagini sulle stragi del periodo 1969-1974, da piazza Fontana al treno Italicus, passando per Brescia. Assolti o prosciolti, certo. Ma a star dietro alle sole condanne, per contare i responsabili del lungo rosario di bombe che hanno insanguinato l’Italia basterebbero le dita di una mano. Un po’ poco. Ci dev’essere dell’altro. Anche per Bologna.

Nel 1980 il quadro politico era ben diverso da quello dei primi anni Settanta: l’avanzata delle sinistre si era arenata, e dopo il delitto Moro (1978) il Partito comunista era definitivamente uscito dall’area di governo; ogni timore di cedimento sul fronte orientale dell’Europa divisa in due poteva considerarsi superato, nonostante mancasse un altro decennio al crollo del muro di Berlino. Capo del governo era Francesco Cossiga (che bollò subito la strage come «fascista» salvo chiedere successivamente scusa), seguito da Arnaldo Forlani (travolto in pochi mesi dallo scandalo P2), e poi dal repubblicano Giovanni Spadolini, primo non-democristiano a entrare a palazzo Chigi nella storia della Repubblica. In ogni caso, il terrorismo di sinistra bastava e avanzava per tenere alta la guardia filo-occidentale.

Trentacinque anni dopo, il mistero della strage persiste intorno al movente: ci sono i nomi dei giovanissimi esecutori materiali, d’accordo, ma mancano mandanti e intermediari. Pedine di un gioco inevitabilmente più grande, in un mondo che esiste più, rimaste senza manovratori. Nella ricostruzione iniziale c’erano, da Gelli in giù, ma col tempo troppi anelli della catena si sono spezzati per comporre un quadro credibile. Basti dire che alla fine pure il neofascista veneto (e più in età) Massimiliano Fachini uscì assolto, così come Sergio Picciafuoco, l’unico certamente presente sul luogo del delitto perché rimasto ferito.

I dubbi sul movente e le altre piste
L’associazione dei familiari delle vittime, per bocca del suo presidente Paolo Bolognesi, attuale deputato del Pd, sostiene che in realtà sullo sfondo altri colpevoli si intravedono, e di recente un nuovo dossier è stato consegnato agli inquirenti affinché svolgano ulteriori indagini. «Sarà valutato con grande attenzione e pari riservatezza», annuncia il procuratore aggiunto di Bologna. Si vedrà. Le piste alternative degli ultimi anni (compresa quella palestinese legata al gruppo terroristico che guardava a Est guidato da Carlos) sono state archiviate perché costruite su indizi rivelatisi troppo labili. E in generale è auspicabile che si proceda con cautela e diligenza, perché pure sul processo approdato alle tre condanne definitive rimangono dubbi e sospetti sulla genuinità delle prove; a cominciare dalla confessione dell’informatore che «inchiodò» Mambro e Fioravanti.

Tutto questo pesa su una strage di cui gli italiani continuano a sapere troppo poco. Non solo per colpa loro: anche per i più informati restano troppe zone d’ombra. E restano le storie delle vite saltate in aria il 2 agosto di 35 anni fa. Come quella di un’altra giovane vittima: Mauro Di Vittorio, 24 anni, romano simpatizzante dell’estrema sinistra, recentemente tirato in ballo da qualche «revisionista» come ipotetico complice della trama medio-orientale. L’ultimo provvedimento di archiviazione l’ha del tutto scagionato. Sua sorella Anna e il marito Giancarlo (amico di Sergio Secci, stessa età di Mauro, ferito nell’esplosione e morto dopo 5 giorni di agonia) continuano a studiare le carte giudiziarie per difenderne pubblicamente la memoria violata.

Considerazioni sullo stato del partito di Renzi e del suo padrone. Il declino è cominciato e Matteo dovrà scegliere tra due possibili vie d'uscita; nessuna di esse sembra utile per gli abitanti della Penisola. La Repubblica, 1 agosto 2015

NEL Pd le tensioni crescono, sia al centro che in periferia. In parlamento le defezioni rispetto alle decisioni del partito, dal voto sull’arresto del senatore Azzollini agli emendamenti sulla riforma della Rai, hanno messo in minoranza il governo. In periferia il segretario non ha piegato la resistenza del sindaco di Roma Ignazio Marino né quella del governatore siciliano Rosario Crocetta, e ora anche il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano alza la voce reclamando fondi per il Sud. Emerge sempre più chiaramente la difficoltà di conciliare il ruolo di segretario di partito con quello di capo del governo. Non per nulla ieri Renzi ha riconosciuto che i contrasti interni devono risolversi tra le mura del partito e non scaricarsi in parlamento. Giusto, ma per questo è necessario che il partito torni ad essere il luogo privilegiato della discussione e dell’elaborazione politica, non l’occasione di passerelle in streaming e diluvi di tweet.

In questi ultimi diciotto mesi non è stata avviata nessuna discussione approfondita sulla strategia da perseguire e sulle iniziative da prendere, con parziale eccezione della riforma sulla scuola. Certo il Pd si è trovato in una situazione del tutto inedita, e quindi difficile da gestire: essere il partito dominante in parlamento e alla guida del governo. Bisogna tornare ai fasti della Dc degli anni Cinquanta per trovare situazioni analoghe; e agli esecutivi di Amintore Fanfani per trovare una sovrapposizione tra leadership partitica e premiership governativa. Il predominio politico- parlamentare del Pd, fin qui quasi senza avversari, e la condizione difficile in quanto “anomala” del suo leader, catapultato in due posizioni di vertice senza nessuna esperienza parlamentare o di direzione politica, ha prodotto tensioni e cortocircuiti; e non poteva essere altrimenti. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Renzi ha perso vento perché non riesce a farsi seguire da tutto il suo partito, tanto al centro quanto in periferia. L’ ostentata disattenzione riservata alla vita del Pd si è ritorta come un boomerang sul leader.

Anche sulle infiltrazioni criminali nel partito romano, denunciate oltre che dalla magistratura da una coraggiosa indagine interna affidata ad un super partes come Fabrizio Barca, il segretario di partito porta “oggettivamente”, per il suo stesso ruolo, una parte di responsabilità: inevitabili oneri della leadership. Se poi al suo disinteresse aggiungiamo quel fastidio per le critiche interne unito ad una sottovalutazione al limite dell’irrisione degli oppositori (Fassina chi?) e una conoscenza opaca del partito nel territorio, capiamo cosa ha portato Renzi a cercare soluzioni altrove, all’esterno, prima con il patto del Nazareno, ora con la sua riedizione in sedicesimo attraverso Denis Verdini.

Con un processo a spirale, più Renzi guarda fuori dal Pd - magari pensando ad una nuova formazione - più la sua presa sul partito si indebolisce. L’iniziale entusiasmo, anche di tanti bersaniani che volevano finalmente un cambio di passo, sta infatti svanendo. E nell’opinione pubblica il consenso al Pd rischia di superare quello riservato al suo segretario.

Di fronte a questa situazione le strade sono due: l’esasperazione del conflitto interno e la contestuale ricerca di un accordo organico di taglio neo-centrista con la nuova formazione di Verdini e l’assorbimento di parte dell‘Ncd, oppure la ricucitura interna per elaborare una agenda condivisa. Lo stile tranchant e decisionista adottato da Renzi fa dubitare che adotti questa seconda strada. Ma la prima porta a scenari inediti, con cambi di maggioranze lontani mille anni luce dal mandato elettorale, senza che si possa nemmeno invocare uno stato di eccezione come nel 2011 (e con un presidente della Repubblica che ha recentemente fatto capire di non voler più far da levatrice ad esperimenti politici di qualsiasi tipo). Quindi un passaggio verso un governo retto da neo-responsabili, al di là della sua efficacia nelle aule parlamentari e quindi dell’efficienza dell’azione dell’esecutivo, non rimarrebbe senza conseguenze all’interno del partito: porterebbe ad una spaccatura verticale, certamente molto più profonda nel territorio che al centro. La ricerca di una navigazione più tranquilla in parlamento rischia di portare invece ad un brusco naufragio.

yriza continua a combattere, per la Grecia e per l'Europa, per tutti noi. La Repubblica, 1 agosto 2015

Alexis Tsipras vince per ko la prima sfida con i ribelli di Syriza, allontana il rischio di elezioni anticipate e scende in trincea per difendere il controverso “Piano B” di Yanis Varoufakis per la creazione di un sistema bancario parallelo in Grecia. «Si trattava di un progetto di emergenza cui io avevo dato il benestare e non del percorso per portare il paese fuori dall’euro — ha detto il premier in Parlamento — . I nostri partner del resto hanno messo a punto le loro strategie in caso di Grexit ed era nostro diritto essere pronti a tutto». «Varufakis, come tutti noi, ha fatto degli errori negli ultimi mesi — ha detto rivolgendosi all’ex ministro delle finanze, arrivato in aula con un’originale camicia psichedelica — . Potete criticarlo per le sue esternazioni, per il suo gusto in tema di camicie, ma certo non accusarlo di aver rubato o di aver lavorato contro gli interessi della Grecia”. Parole che riavvicinano un po’ i due, apparsi negli ultimi giorni ai ferri corti.

Tsipras è sembrato ieri mattina molto più rilassato dopo il Comitato centrale fiume in cui è riuscito ad arginare la contestazione dell’ala più radicale di Syriza. Il massimo organo del partito ha votato infatti a maggioranza la proposta del premier per un congresso straordinario a settembre dopo aver raggiunto il compromesso con i creditori.

La Piattaforma di sinistra chiedeva un vertice immediato in cui votare l’addio al tavolo delle trattative e (in sostanza) dare il via al piano per uscire dall’euro. Al momento del voto è stata però sconfitta. Il premier prende così due piccioni con una fava: da una parte può concentrarsi sui negoziati con Ue, Bce e Fmi per sbloccare i nuovi aiuti per 83 miliardi entro (se possibile) il 20 agosto, quando scade un nuovo prestito da 3,5 miliardi della Banca centrale. Dall’altra, grazie ai regolamenti del partito, può ora ridisegnare con nuovi delegati il Comitato centrale in vista del redde rationem di settembre quando lo scontro ideologico con l’opposizione interna («viviamo nella giunta dell’euro», ha attaccato ieri il suo leader Panagiotis Lafazanis) potrebbe portare a una scissione. In quel caso il governo rimarrebbe senza maggioranza e — a meno di sorprese — sarebbero inevitabili le elezioni anticipate.

Ad Atene intanto sono iniziati ieri i negoziati ad alto livello con l’ex Troika cui si è unito ora in un inedito quartetto pure l’Esm. Il ministro delle finanze Euclid Tsakalotos e quello dell’economia George Stathakis hanno incontrato ieri i massimi rappresentanti dei creditori: «Abbiamo parlato di ricapitalizzazione delle banche, di privatizzazioni e di obiettivi fiscali — ha spiegato Tsakalotos — . Su alcune cose siamo molto vicini, su altre un po’ meno». Facile immaginare che la vendita di asset pubblici sia uno dei capitoli più delicati, mentre a tenere con il fiato sospeso i creditori è il modo in cui verranno puntellate le banche. Il timore in Grecia è che ai correntisti con i depositi più ricchi — come è successo a Cipro — sia chiesto un contributo per impedire il fallimento degli istituti.

Atene proverà intanto lunedì a muovere un altro passo verso la normalità con la riapertura della Borsa dopo più di un mese di chiusura. Le autorità imporranno dei limiti agli scambi. Ma alla luce dell’andamento dei titoli ellenici quotati a New York nessuno si fa troppe illusioni e secondo tutte le previsioni la ripaertura dovrebbe essere segnata da una pesantissima flessione.

«Svimez. Il rapporto 2015 sull’economia racconta lo tsunami che ha travolto il Mezzogiorno nei sette anni della crisi: è cresciuto meno del paese di Tsipras devastato dalla Troika. Viaggio nel paese sotterraneo dove i poveri sono più poveri, le donne e i giovani i più colpiti dalle disuguaglianze prodotte dall’iniqua Eurozona».

Il manifesto, 31 luglio 2015

Il Sud, la nostra Gre­cia. Al set­timo anno di crisi – sostiene un’anticipazione del rap­porto Svi­mez sull’economia del Mez­zo­giorno 2015 pre­sen­tata ieri a Roma – l’emergenza con­cla­mata oggi è un disa­stro accer­tato. Il crollo della domanda interna, dei con­sumi e degli inve­sti­menti pro­dur­ranno uno stra­vol­gi­mento demo­gra­fico impre­ve­di­bile che ampli­fi­cherà la deser­ti­fi­ca­zione indu­striale e alla civile.

Come in guerra

Per il set­timo anno con­se­cu­tivo il Pil del Mez­zo­giorno è nega­tivo (1,3%, nel 2013 era –2,7%), cre­sce il diva­rio rispetto al Centro-Nord (-0,2%). La mappa di que­sto immane slit­ta­mento è così com­po­sta: tra il 2008 e il 2014, la crisi ha pro­dotto le per­dite più pesanti in Molise (-22,8%), Basi­li­cata (-16,3%), Cam­pa­nia (-14,4%), Sici­lia (13,7%), Puglia (-12,6%). Con­si­de­rato il primo quin­di­cen­nio dell’unione mone­ta­ria 2001–2014, quella che avrebbe dovuto creare una «con­ver­genza» tra il Nord e il Sud dell’Europa, lo Svi­mez con­clude che il Sud Ita­lia sta molto peg­gio della Gre­cia. Lo si vede dal tasso di cre­scita cumu­lato: la Gre­cia ha regi­strato un calo dell’1,% (conta qui la «cre­scita» prima dei vari «memo­ran­dum»), men­tre il Sud affonda con il –9,4% e il Centro-Nord regi­stra ancora un segno posi­tivo con l’1,5%. Que­sta diva­ri­ca­zione geo-economica pesa sulla per­cen­tuale del Pil nazio­nale che ha regi­strato un meno 1,1%. È il ritratto di un paese diviso all’interno di un con­ti­nente spac­cato sia dal punto di vista eco­no­mico che da quello sociale. E le distanze con­ti­nue­ranno ad aumen­tare a causa delle poli­ti­che di auste­rità che pro­du­cono reces­sione e disoccupazione.

Mappe della povertà

Una per­sona su tre a Sud è a rischio povertà, men­tre a Nord lo è una su dieci. Dal 2011 al 2014, sostiene lo Svi­mez, le fami­glie asso­lu­ta­mente povere sono cre­sciute a livello nazio­nale di 390 mila nuclei. A Sud c’è stata un’impennata del 37,8%, ma i numeri sono impie­tosi anche al Centro-nord: il 34,4%. La regione ita­liana dove più forte è il rischio povertà è la Sici­lia con il 41,8%, seguita a ruota dalla Cam­pa­nia (37,7%). In que­sta selva di numeri e per­cen­tuali un ele­mento è certo: in con­creto, essere poveri signi­fica oggi gua­da­gnare meno di 12 mila euro all’anno. In que­sta con­di­zione si trova il 62% della popo­la­zione meri­dio­nale, con­tro il 28,5% del Centro-Nord. Dramma in Cam­pa­nia dove que­sto numero aumenta ancora al 66%.

Lo Svi­mez cal­cola solo il numero dei poveri che non lavo­rano, non quello dei cosid­detti wor­king poors che rap­pre­sen­tano un’altra fac­cia della crisi che stiamo vivendo. Tra il 2008 e il 2014 l’occupazione nel Mez­zo­giorno è crol­lata del 9%, a fronte del meno 1,4% del Centro-Nord, oltre sei volte in più. Delle 811 mila per­sone che in Ita­lia hanno perso un posto di lavoro, e dif­fi­cil­mente lo ritro­ve­ranno se e quando finirà la crisi, ben 576 mila vivono tra Abruzzo e le Isole. Pur essendo pre­sente solo il 26% della popo­la­zione attiva, a Sud si con­cen­tra dun­que il 70% delle per­dite pro­dotte dalla crisi. Gli occu­pati sono tor­nati a 5,8 milioni. L’impatto psi­co­lo­gico, e non solo sociale, è stato immenso.

Lo Svi­mez riprende i dati dell’Istat secondo la quale viviamo al livello più basso almeno dal 1977, anno da cui sono dispo­ni­bili le serie sto­ri­che dell’istituto nazio­nale di sta­ti­stica. Tra il primo tri­me­stre 2014 e quello del 2015 è arri­vato un riflesso di miglio­ra­mento: gli occu­pati sono saliti nel paese di 133 mila unità, 47 mila vivono al Sud e 86 nel Centro-Nord. Segnali festeg­giati a suo modo come il segnale della “ripresa” dal governo che non con­si­dera il calo delle per­sone in cerca di occu­pa­zione. Nel primo tri­me­stre 2015, cal­cola lo Svi­mez, sono scese a 3 milioni 302 unità, 145 mila in meno rispetto allo stesso periodo del 2014.

Deser­ti­fi­ca­zione industriale

I sog­getti più col­piti sono le donne e i gio­vani under 34. Quanto alle prime, nel 2014 a fronte di un tasso di occu­pa­zione fem­mi­nile medio del 51% nell’Ue a 28, il Mez­zo­giorno era fermo al 20,8%tra le 35enni e le 64enni. Ancora peg­gio per le gio­vani donne con un’età com­presa tra i 15 e i 34 anni: solo una su 5 ha un lavoro. E quando si parla di lavoro, si parla nella mag­gio­ranza dei casi di pre­ca­riato. Que­sta frat­tura tra le gene­ra­zioni, e i sessi, si allarga nella tra­sfor­ma­zione della com­po­si­zione del mer­cato del lavoro che pena­lizza chi ha meno di 34 anni, e in par­ti­co­lare i gio­vani tra i 15 e i 24 anni, men­tre gli over 55 strap­pano qual­che posto di lavoro in più. 622 mila under 34 hanno perso un posto di lavoro tra il 2008 e il 2014, men­tre gli over 55 ne hanno gua­da­gnati 239 mila. Se a livello nazio­nale nel 2014 il tasso di disoc­cu­pa­zione era del 12,7%, al Sud que­sta per­cen­tuale arri­vava al 20,5% men­tre al Centro-Nord era al 9,5%.

Que­sta situa­zione è il pro­dotto di una «deser­ti­fi­ca­zione indu­striale» — così la defi­ni­sce lo Svi­mez – che ha visto crol­lare il valore aggiunto del set­tore mani­fat­tu­riero del 16,7% in Ita­lia, con­tro il 3,9% dell’Eurozona. A pesare è sem­pre il Sud che ha perso il 34,8% della pro­dut­ti­vità in que­sto set­tore e ha più che dimez­zato gli inve­sti­menti. In que­sto caso il crollo è totale: meno 59,3%. La crisi è pro­fonda anche al Centro-Nord dove la per­dita è stata però meno della metà del pro­dotto mani­fat­tu­riero (-13,7) e circa un terzo degli inve­sti­menti (-17%).

Tsu­nami demografico

Nel 2014 al Sud si sono regi­strate solo 174 mila nascite, livello al minimo sto­rico regi­strato oltre 150 anni fa, durante l’Unità d’Italia. Il tasso di fecon­dità è arri­vato a 1,31 figli per donna, ben distanti dai 2,1 neces­sari a garan­tire la sta­bi­lità demo­gra­fica e infe­riore comun­que all’1,43 del Centro-Nord. Que­sta con­di­zione riguarda anche i cit­ta­dini stra­nieri nel Centro-Nord. Il Sud è desti­nato a per­dere 4,2 milioni di abi­tanti nei pros­simi 50 anni, arri­vando così a pesare per il 27,3% sul totale nazio­nale a fronte dell’attuale 34,3%. Una pre­vi­sione sostan­ziata dai dati della migra­zione interna e infra-europea. Dal 2001 al 2014 sono migrate dal Mez­zo­giorno verso il Centro-Nord oltre 1,6 milioni di per­sone, rien­trate 923 mila, con un saldo migra­to­rio netto di 744 mila per­sone, di cui 526 mila under 34 e 205 mila laureati.

Sot­to­svi­luppo permanente

Que­sta deser­ti­fi­ca­zione è dovuta «all’assenza di risorse umane, impren­di­to­riali, finan­zia­rie che potreb­bero impe­dire di aggan­ciare la pos­si­bile ripresa e tra­sfor­mare la crisi ciclica in un sot­to­svi­luppo per­ma­nente». Si parla di denu­tri­zione, man­cati acqui­sti di vestia­rio e cal­za­ture (-16%, il dop­pio del resto del paese: 8%). Senza red­dito si rinun­cia ai ser­vizi per la cura della per­sona e non si inve­ste sull’istruzione. In altre parole, i tagli a que­sti set­tori pro­du­cono la per­ma­nenza del sot­to­svi­luppo e il sot­to­svi­luppo ali­menta la cre­scita dei ren­di­menti dei pochi ai danni dei molti. La cre­scita mini­male che sarà regi­strata nel 2015 in Ita­lia (+0,7% si dice) non sia il pro­dotto del sot­to­svi­luppo di alcune aree del paese a dispetto delle altre, e di que­ste rispetto ad altre zone dell’Eurozona. La «cre­scita» invo­cata è il risul­tato dell’impoverimento dra­stico e irre­ver­si­bile delle classi medio-basse e dei poveri che lavo­rano da dipen­denti pre­cari o da auto­nomi a favore di un’élite di oli­gar­chi sem­pre più ric­chi (lo 0,1% della popo­la­zione mon­diale). Que­sto è l’effetto del crollo dei con­sumi delle fami­glie, oltre due volte mag­giore a Sud (13,2%) rispetto a quella regi­strata in Ita­lia (-5,5%). Oggi ogni paese euro­peo ha il suo «Mezzogiorno».

Le conseguenze anche nel bollettino economico della Banca Centrale Europea. Oggi il dualismo economico tra Nord e Sud Italia si è allargato al Nord e Sud Europa. L'analisi degli economisti Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo». Il manifesto, 30 luglio 2015

È stato il pre­mio Nobel dell’economia Paul Krug­man a par­lare per la prima volta di «mez­zo­gior­ni­fi­ca­zione» dell’Europa nel 1991 nel libro «Geo­gra­fia e com­mer­cio inter­na­zio­nale». Il dua­li­smo eco­no­mico che ha segnato i rap­porti tra Nord e Sud Ita­lia si è allar­gato a quello tra i paesi del Nord e del Sud dell’Europa e all’interno di tutti i paesi, a comin­ciare della Ger­ma­nia, uni­fi­cata, ma divisa ancora tra un Ovest e un Est. Gli eco­no­mi­sti ita­liani Emi­liano Bran­cac­cio e Ric­cardo Real­fonzo hanno ripreso que­sta cate­go­ria in uno stu­dio del 2008, inti­to­lato L’Europa è a rischio “mez­zo­gior­ni­fi­ca­zione. Il dibat­tito con­ti­nua inten­sis­simo a pro­po­sito delle varie ipo­tesi sull’uscita dall’euro, delle sue con­se­guenze sui salari e in gene­rale sull’implosione dell’Eurozona.

Echi si ritro­vano nel rap­porto 2015 dello Svi­mez sul Mez­zo­giorno (ita­liano) dove al rap­porto asim­me­trico tra il cen­tro (in sostanza la Ger­ma­nia) e le peri­fe­rie (i paesi dell’Europa del Sud) se ne aggiunge un altro: quello tra Sud e Est euro­peo inte­grato nell’Eurozona. «Dal 2001 al 2013 la cre­scita del Pil con­si­de­rato in potere di acqui­sto (Ppa) è stato un quinto infe­riore di quella delle regioni deboli dei nuovi paesi dell’Est. Nei primi cin­que anni della crisi, 2008–2013, il Pil è aumen­tato del 4,5% nelle aree più forti («regioni della com­pe­ti­ti­vità») ed è dimi­nuito dell’1,1% in quelle più deboli (quelle della «con­ver­genza») che all’inizio ave­vano un red­dito pro-capite infe­riore al 75%. Prima della crisi, dal 2001 al 2007, le regioni più deboli ave­vano regi­strato una con­ver­genza cre­scendo del 39,6%, più delle aree forti (+31,3%). È acca­duto in Spa­gna, men­tre in Ger­ma­nia si è regi­strata una mag­giore omogeneità.

L’Italia fa sto­ria a parte. Sud e Centro-Nord cre­sce­vano prima della crisi con il 19% e il 21,8%, poi il crollo: +0,6% il Centro-Nord, –5,1%. Le asim­me­trie si sono aggra­vate con l’allargamento a Est. Il Sud ha sof­ferto la con­cor­renza del dum­ping fiscale. Tra il 2000 e il 2013 l’Italia è stato il paese che è cre­sciuto di meno in ter­mini di Pil in Ppa: +20,6% con­tro il 37,3% dell’Eurozona a 18. Il Sud è cre­sciuto oltre 40 punti in meno della media delle regioni di con­ver­genza dell’Europa a 28 (+53,6%). A una con­clu­sione simile è arri­vata la Bce nel bol­let­tino eco­no­mico di mag­gio 2015: l’Italia «ha regi­strato i risul­tati peg­giori» sulla cre­scita del Pil pro­ca­pite tra quelli che hanno adot­tato l’euro fin dall’inizio». La richie­sta Bce è aumen­tare la fles­si­bi­lità nei mer­cati dei beni e ser­vizi e del lavoro. Per gli eco­no­mi­sti ita­liani (e Krug­man) è l’opposto. Per loro è fal­lito il modello eco­no­mico per cui la pro­dut­ti­vità e la cre­scita dipen­dono dal con­te­ni­mento del costo del lavoro. Que­sti paesi hanno invece biso­gno di poli­ti­che industriali.

«La vicenda greca rivela una nuova forma di colonialismo, condotto con il consenso dei paesi occupati, anche se sotto un ricatto assolutamente inedito. È un esperimento in corso e gli esiti dello stress test sono incerti. Ma una cosa è certa: qualunque sia il risultato, l’Europa non sarà più la stessa».

Sbilanciamoci.info, 27 luglio 2015

L’Europa è diventata un laboratorio per il futuro. Ciò che sta succedendo lì dovrebbe essere motivo di preoccupazione per tutti i democratici e specialmente per chiunque sia di sinistra. Due esperimenti in questo momento stanno venendo messi in pratica - e quindi, presumibilmente, stanno venendo controllati - in questo ambiente di laboratorio.

Il primo esperimento è uno stress test sulla democrazia, la cui ipotesi di fondo è la seguente: la volontà democratica di un paese forte può abbattere non democraticamente la volontà democratica di un paese debole senza intaccare la normalità della vita politica europea. I prerequisiti del successo dell’esperimento sono tre: il controllo dell’opinione pubblica che permette che gli interessi nazionali del paese più forte si trasformino nell’interesse comune dell’eurozona; il proseguimento, da parte di un gruppo di istituzioni non elette (Eurogruppo, Bce, Fmi, Commissione Europea), nella neutralizzazione e nella punizione di ogni decisione democratica che disobbedisca ai diktat del paese dominante; la demonizzazione del paese più debole così da assicurarsi che non ottenga comprensione dagli elettori degli altri paesi europei, specialmente nel caso di elettori di paesi che potrebbero disobbedire.

La Grecia è la cavia di questo agghiacciante esperimento. Stiamo parlando della seconda operazione di colonialismo del ventunesimo secolo (dal momento che la prima è stata la Missione di stabilizzazione ad Haiti nel 2004). È un nuovo colonialismo, condotto con il consenso dei paesi occupati, anche se sotto un ricatto assolutamente inedito. E, proprio come il vecchio colonialismo, la giustificazione che ora viene data è che tutto ciò che avviene sia nell’interesse del paese occupato. E’ un esperimento in corso e gli esiti dello stress test sono incerti. A differenza dei laboratori, le società non sono ambienti controllati, a prescindere dalla pressione che si esercita per tenerle sotto controllo. Una cosa è certa: una volta che l’esperimento sarà finito, e qualunque sia il risultato, l’Europa non sarà più l’Europa di pace, coesione sociale e democrazia. Al contrario, diverrà l’epicentro di un nuovo dispotismo occidentale, la cui brutalità rivaleggerà con quella del dispotismo orientale già analizzato da Karl Marx, Max Weber e Karl Wittfogel .

Il secondo esperimento in atto è un tentativo di liquidare definitivamente la sinistra europea.

La sua ipotesi di fondo è la seguente: non c’è spazio in Europa per la sinistra fintanto che insista per un’alternativa alle politiche di austerità imposte dal paese che è egemone. I prerequisiti per il successo di questo esperimento sono tre. Il primo consiste nel causare una sconfitta preventiva dei partiti di sinistra , punendo con violenza quelli che osano disobbedire. Il secondo consiste nel far credere agli elettori che i partiti di sinistra non li rappresentano. Fino ad ora la nozione che “i nostri rappresentanti non ci rappresentano più” era l’argomento principale del movimento degli Indignados e di Occupy, rivolto contro i partiti di destra e i loro alleati. Ora che Syriza è stata costretta a bere la cicuta dell’austerità – nonostante il “No” del referendum greco convocato da Syriza stessa -, gli elettori saranno sicuramente portati a concludere che, comunque vada a finire, anche i partiti di sinistra abbiano fallito nel rappresentarli. Il terzo prerequisito consiste nell’intrappolare la sinistra in un falsa contrapposizione tra scelte del Piano A e scelte del Piano B. Negli ultimi anni la sinistra si è divisa tra coloro che credevano che la cosa migliore da fare fosse rimanere nell’euro e tra coloro che credevano che la cosa migliore da fare fosse lasciare l’euro. Delusione: nessun paese può lasciare l’euro in maniera ordinata, ma, se un paese dovesse mostrare di essere disobbediente, sarà espulso e il caos si abbatterà su di lui inesorabilmente. Allo stesso modo chiedono una ristrutturazione del debito, che si è dimostrato essere un tema molto divisivo per la sinistra. Delusione: la ristrutturazione avrà luogo quando sarà funzionale agli interessi dei creditori – che è la ragione per cui l’altra questione principale della sinistra è ora divenuta la politica del FMI.

Gli esiti di questo esperimento sono parimenti incerti, per le ragioni sopra esposte. Tuttavia, una cosa è certa: per sopravvivere a questo esperimento la sinistra avrà bisogno di rifondare se stessa al di là di ciò che oggi è immaginabile. Servirà molto coraggio, molta audacia e molta creatività.

(traduzione di Bruno Montesano)

ULa Repubblica, 27 luglio 2015

SANITÀ, TAGLI PER DECRETO
TETTO A ESAMI E VISITE
CHI SFORADOVRÀ PAGARE
di Roberto Petrini

Un pacchetto di emendamenti al decreto “omnibus” enti locali, presentato nei giorni scorsi, darà la prima spinta alla spending review sulla Sanità. Dopo il via libera tecnico-politico giunto con le parole del Commissario alla revisione della spesa pubblica, Yoram Gutgeld, nell’intervista a Repubblica , si accelera la ratifica del piano concordato dalla Conferenza Stato-Regioni del 2 luglio scorso. Il provvedimento arriva oggi in aula al Senato e non è escluso il ricorso alla fiducia per poi passare alla Camera. «No agli allarmismi – ha rassicurato ieri il premier Renzi – sulla sanità si lavora soprattutto alla razionalizzazione e alla riduzione delle centrali di spesa». Mentre le Regioni si mettono in posizione di guardia: «Abbiamo già dato», dicono in coro gli assessori alla Sanità.

In ballo c’è un pacchetto di misure per 2,3 miliardi nel 2015, altrettanti nel 2016 e nel 2017. Importanti, e in qualche caso dolorosi, i provvedimenti che riguarderanno direttamente i cittadini. In primo luogo c’è il taglio delle prestazioni specialistiche (visite, esami strumentali ed esami di laboratorio) non necessarie (nel linguaggio tecnico: non appropriate). Il ministero della Salute con un imminente decreto stilerà la lista delle situazioni e patologie dove analisi e approfondimenti sono necessari,se si è fuori della lista si pagherà di tasca propria. La norma prevede anche una stretta sui medici perché il principo che ispira la razionalizzazione è che bisogna frenare il fenomeno della cosiddetta “medicina difensiva”: medici che per mettersi a riparo da eventuali vertenze giudiziarie, “elargiscono” con facilità analisi e controlli. Da oggi chi sbaglia subirà un taglio allo stipendio.

Lo stesso schema varrà per i ricoveri per riabilitazione: revisione delle tipologie in base alla appropriatezza e pagamento percentuale oltre i giorni di degenza previsti dalle nuove soglie; controlli e penalizzazioni.

Tanto per farsi un’idea: le prestazioni erogate ogni anno dal settore pubblico o privato sono circa 200 milioni: l’obiettivo sarebbe quello di ridurle del 15 per cento con il taglio di circa 28 milioni di prestazioni l’anno. Da questa operazione verrebbero risparmi per 198 milioni di euro l’anno.

C’è poi la questione degli ospedali. E’ previsto, oltre al controllo delle strutture in rosso, l’azzeramento dei ricoveri nelle case di cura convenzionate con meno di 40 posti letto, la riduzione della spesa del personale a seguito del taglio della rete ospedaliera, la riduzione della degenza media e del tasso di ospedalizzazione. Complessivamente: circa 210 milioni di tagli all’anno.

La gran parte dei risparmi verrà tuttavia dalla rinegoziazione dei contratti di acquisto di beni e servizi (con la centrale unica di acquisti) e in particolare dei dispositivi medici. Inoltre sarà costituito presso il ministero della Salute un osservatorio sui prezzi dei dispositivi medici (apparecchi, impianti, sostanze) il cui costo non potrà comunque superare il tetto del 4,4 per cento.

Le Regioni stanno sulla difensiva dopo l’uscita di Palazzo Chi- gi. «Esistono spazi di miglioramento nella sanità, ma li cerchino dove sono: noi abbiamo già tagliato nel 2012», ha detto Luca Colletto, assessore alla Sanità nel Veneto e coordinatore del settore nella Conferenza delle Regioni. Polemica Sonia Viale (Sanità, Liguria): «Questa è la logica del governo: tirano le righe sopra. Sulle Province, sugli ospedali in rosso. Li cancellano. La Liguria e la Lombardia, invece, propongono un modello costruttivo, non distruttivo: mettiamo in condivisione le eccellenze sanitarie delle due regioni». Più cauto Antonio Saitta (Sanità, Piemonte): «D’accordo ci sono margini, ma ricordo che noi siamo stati la prima Regione ad applicare la riorganizzazione della rete ospedaliera». Rincara la dose Fabio Rizzo ( Commissione sanita Lomardia): «Il governo si sveglia tardi, segua l’esempio Lombardo». Vantano passi avanti anche in Toscana: «La centrale unica d’acquisto noi ce l’abbiamo già per tutte le aziende sanitarie », aggiunge Stefania Saccari (Sanità). Persino la Sicilia si chiama fuori: «Per noi il percorso è più facile: abbiamo un avanzo di 30 milioni», dice l’assessore alla Sanità Baldo Guicciardi.

“UN SUPERTICKET PER INTIMIDIRCI”

intervista di RosariaAmato a Costantino Troise, segretario di Anao-Assomed

Chi stabilirà se una prescrizione o un ricovero sono inappropriati e quindi il medico va sanzionato? Secondo Costantino Troise, segretario di Anaao-Assomed, l’associazione dei medici dirigenti, il compito non può certo essere affidato a «un gruppo di tecnocrati», a meno che il vero obiettivo del governo non sia quello di introdurre un nuovo, esoso «superticket» sulla sanità.

Non ci sono margini di razionalizzazione delle prescrizioni secondo voi?
«Esistono sicuramente molte prescrizioni inutili per quel determinato malato in quel determinato momento, ma il metodo per rivederle non è quello di intimidire il medico. Dubito che si possa fare senza i professionisti e contro i professionisti. La strada è quella della legge sulla responsabilità professionale, che invece giace da anni in Parlamento. Dubito fortemente che protocolli o linee guida di Stato messi a punto entro 30 giorni dal decreto possano avere una validità scientifica.».

Eppure anche le Regioni hanno dato il via libera.
«E’ curioso che Regioni e Stato di giorno litighino e di notte si accordino. L ’obiettivo vero di questa norma è quello di fare cassa, introdurre un superticket neanche tanto mascherato che porrà a carico dei cittadini una serie di prestazioni, con conseguente arretramento e impoverimento della sanità pubblica. Già adesso la spesa privata è a 30 miliardi, tra le più alte ».

Il governo calcola risparmi per 100 milioni.
«Non so come si possa dire che si risparmiano 100 o 200 milioni, c’è molta demagogia. È un atteggiamento di controllo dell’operato dei professionisti e sostanzialmente lancia un messaggio: da ora in poi è lo Stato che decide quanto si fa. Aumenteranno la diffidenza verso i medici, il contenzioso e le disuguaglianze, che sono già enormi».

Sarà ancora possibile fare prevenzione?
«La prevenzione porta sicuramente risparmi, ma in un orizzonte molto più lungo di quello elettorale».

Il manifesto, 26 luglio 2015

Alleanze regio­nali sì, ma nes­suna intesa a livello sta­tale con Izquierda unida (Iu): così si è espressa la «base» di Pode­mos. Il risul­tato della con­sul­ta­zione on line, dif­fuso ieri pome­rig­gio, non lascia spa­zio a dubbi: l’85% dei votanti (45 mila in totale) ha aval­lato la stra­te­gia pro­po­sta dal lea­der Pablo Igle­sias e dalla mag­gio­ranza del gruppo dirigente.

Tra­monta quindi – salvo sor­prese – l’opzione soste­nuta dal gio­vane numero uno di Iu, Alberto Gar­zón: una lista di «unità popo­lare» sul modello di quelle pre­sen­tate, con suc­cesso, alle scorse ele­zioni comu­nali (con la rile­vante ecce­zione di Madrid, dove Iu non c’era).

Casua­lità vuole che l’annuncio dell’esito della con­sul­ta­zione degli iscritti di Pode­mos abbia coin­ciso con la dif­fu­sione di un son­dag­gio dell’autorevole isti­tuto Metro­sco­pia, pub­bli­cato sulla pagina web del quo­ti­diano El País.

Se si votasse oggi, il Par­tito socia­li­sta (Psoe) otter­rebbe il 23,5%, in lieve van­tag­gio sul Par­tido popu­lar (Pp) del pre­mier Mariano Rajoy, al 23,1%. Più distanti, Pode­mos (18,1%) e i cen­tri­sti di Ciu­da­da­nos (16%), a chiu­dere Iu con il 5,6%. Salta agli occhi che la somma di Pode­mos e Iu situe­rebbe l’ipotetica lista di «unità popo­lare» davanti a tutti gli altri, sep­pur di pochis­simo, con il 23,7%.

Occorre chie­dersi, tut­ta­via, se una lista di tal genere otter­rebbe real­mente la stessa quan­tità di con­sensi deri­vante dall’addizione delle pre­fe­renze otte­nute sepa­ra­ta­mente. La que­stione è vec­chia come la poli­tica stessa: unirsi sotto le stesse inse­gne porta bene­fici o, al con­tra­rio, allon­tana poten­ziali elet­tori? Ogni situa­zione fa sto­ria a sé, e nes­suno, ovvia­mente, può essere sicuro di avere la rispo­sta giusta.ù

E dun­que, Igle­sias e com­pa­gni sono con­vinti che pre­sen­tarsi alle urne insieme a Iu non gio­ve­rebbe, men­tre Gar­zón è dell’opinione oppo­sta. Natu­ral­mente, la spro­por­zione fra Pode­mos e Iu con­di­ziona nega­ti­va­mente il con­fronto, dal momento che il dise­gno di Iu è anche inter­pre­ta­bile come un mal­de­stro ten­ta­tivo di «salire sul carro dei vin­ci­tori»: ed è esat­ta­mente così che la vede Iglesias.

In ogni caso, i media main­stream già suo­nano la gran­cassa della «crisi di Pode­mos», dal momento che a gen­naio i son­daggi attri­bui­vano alla nuova for­ma­zione il 28% dei suffragi.

Fra le spie­ga­zioni addotte, il senso di rifiuto che genera il lea­der Igle­sias, che è per­ce­pito – secondo le ana­lisi dei son­dag­gi­sti di Metro­sco­pia – come figura inca­pace di acqui­stare con­sensi tra­sver­sali: un per­so­nag­gio «divi­sivo», si direbbe nel les­sico poli­tico ita­liano delle lar­ghe intese. Più apprez­zati – sem­pre stando alle ana­lisi demo­sco­pi­che divul­gate da El País – il socia­li­sta Pedro Sán­chez e Albert Rivera di Ciu­da­da­nos, per­ché tra­smet­te­reb­bero l’idea di essere più dispo­ni­bili a cer­care i neces­sa­rie com­pro­messi con altre forze. Boc­ciato senza appello il pre­mier Rajoy, che sem­bra ormai irri­me­dia­bil­mente avviato sul viale del tra­monto. Non prima, però, di avere dato gli ultimi vele­nosi colpi di coda.

A set­tem­bre entrerà in vigore – salvo che il Senato, a sor­presa, la bocci – la «legge per la sicu­rezza nazio­nale»: una norma che pre­oc­cupa molto le opposizioni.

Uffi­cial­mente, deve ser­vire a dotare il governo cen­trale di poteri spe­ciali in casi di pan­de­mie, disa­stri natu­rali o gravi minacce ter­ro­ri­ste. In realtà, sono in molti a sospet­tare che Rajoy voglia uti­liz­zarla anche con­tro even­tuali azioni «sepa­ra­ti­ste» del governo di Bar­cel­lona. Il 27 set­tem­bre ci saranno le cru­ciali ele­zioni regio­nali in Cata­lo­gna, da cui potrebbe emer­gere una volontà mag­gio­ri­ta­ria di sepa­rarsi dal resto della Spa­gna. Per l’indipendentista Joan Tardá, depu­tato di Esquerra repu­bli­cana de Cata­lu­nya (Erc), «il pre­mier potrebbe porre al pro­prio diretto ser­vi­zio i Mos­sos (la poli­zia auto­noma cata­lana, ndr) e tutti i fun­zio­nari della Gene­ra­li­tat cata­lana con un sem­plice decreto». Pre­oc­cu­pati per l’eccesso di potere che la norma con­fe­ri­sce al governo sono anche i nazio­na­li­sti baschi del Pnv (centro-destra non indi­pen­den­ti­sta) e Iu. Favo­re­voli, con qual­che riserva, i socia­li­sti, con­vinti che non metta in peri­colo le auto­no­mie regionali.

Bisogna rovistare nelle cronache locali, ma accanto ai razzisti, agli xenofobi, ai neonazisti e agli ipocriti si trovano anche italiani puliti, e perciò solidali. Questa volta li abbiamo trovati alla periferia di Milano.

La Repubblica, ed Milano, 26 luglio 2015

C’e l’Italia che protesta contro i profughi, e quella che si mette in ferie per aiutarli. Succede a Bruzzano, estrema periferia nord di Milano, alla parrocchia della Beata Vergine Assunta di via Acerbi, dove da due notti sono ospiti 60 fra eritrei, sudanesi, nigeriani, somali e altri ne arriveranno, fino alla fine del mese . Profughi che arrivano a Milano dopo un lungo viaggio attraverso mari e deserti, paesi in guerra e carneficine. Per loro, il parroco di questa chiesa di frontiera ha aperto la palestra, allestita con brandine della Protezione civile e ha creato una mensa, nella stessa sala dove a giugno mangiavano i bambini dell’oratorio di San Luigi.

È stato don Paolo Selmi assieme a don Vittorio Marelli, parroco di una chiesa nella vicina Affori (che l’estate scorsa aveva fatto la stessa esperienza ospitando centinaia di asilanti), a proporre ai suoi fedeli e al quartiere, a giugno, durante un’assemblea aperta, di aprire le porte ai profughi. «La risposta è stata subito entusiastica - racconta il “don”, ora che i migranti sono arrivati - . Quella sera avevamo preparato 40 sedie, abbiamo dovuto aggiungerne altrettante. E nei giorni successivi, siamo stati sommersi da richieste di partecipazione». L’assessore alla Sicurezza, Marco Granelli, che abita nel quartiere, è stato subito coinvolto e ovviamente ha accettato la proposta di mandare qui i profughi che arrivano in Centrale, all’hub che da poche settimane è stato inaugurato in via Tonale.

«Io mi chiamo Cristiana, ho 23 anni, e un bambino di due, che mi aspetta al mio paese, in Africa - racconta una ragazza dagli occhi grandi, che viene dalla Nigeria - . Sono venuta in Italia perché nel mio Paese c’è la guerra, mio marito è stato ammazzato, la mia famiglia è dispersa. Ho speso 2mila euro per arrivare fino a qua. Ho visto di tutto, la morte, la fame, la tortura. Ho gli occhi pieni di paura ». Storie come questa si raccolgono fra le persone che siedono nel grande cortile cortile alberato della chiesa, dove si aggira anche un accaldato don Virginio Colmegna, presidente della Casa della carità, che darà alla parrocchia il sostegno dei mediatori culturali e degli operatori professionali fino alla fine del mese. «Abbiamo voluto fare questa proposta di solidarietà concreta alla città - spiega don Colmegna - perché abbiamo voglia di dare un messaggio di solidarietà e di speranza, di gioia e di fiducia, senza nessuna pretesa di risolvere l’emergenza che certo è molto più ampia di quel che vediamo qua, di quel che possiamo risolvere noi, offrendo al massimo 80 posti letto a notte. Ma l’importante è dare un segnale, dare l’esempio di una solidarietà gratuita».

Non ci sono convenzioni col Comune o con la Prefettura a coprire i costi di questa iniziativa, che i promotori hanno deciso di finanziare “dal basso”, facendo la colletta nel quartiere, attraverso il sito di Casa della Carità, e chiedendo ai cittadini di portare vestiti e generi di prima necessità. «I costi umani invece li mettiamo noi - scherza Attilio Cattaneo, 75 anni, volontario con lunga esperienza di servizio in parrocchia - . Tutto nostro è il piacere di far del bene a qualcuno che ha bisogno, senza stare a guardare il colore della pelle, il numero sul passaporto». Come il signor Attilio sono in tanti i cittadini di Bruzzano a darsi da fare. Fra loro anche molti giovani come Andrea Percivalli, 21 anni, studente: «Mi sembrava un bel modo per trascorrere l’estate sentendomi utile», dice con qualche timidezza. Sembrano tutti amici, tutti uniti dallo stesso desiderio di aiutare. «La politica la lasciamo fare ai politici, noi siamo qui perché ci piace far del bene in questa società in cui sembra che tutto vada male », dice il signor Lorenzo Gaglio, 58 anni, impiegato, che farà le ferie in chiesa in mezzo ai profughi, con la sorella Annalisa, medico, e la moglie Matilde. Marito e moglie avevano già lavorato con i rifugiati l’anno scorso ad Affori. «E questa volta abbiamo coinvolto nella compagnia anche la cognata», sorridono le due donne, a cui sembra normalissimo passare così le vacanze invece che in spiaggia sotto all’ombrellone.

E nessuno protesta? «C’è stato un po’ di dibattito sulla pagina Facebook del quartiere, nelle prime settimane. Credo che chi ha protestato abbia paura, ma soprattutto non conosca il fenomeno e abbia pregiudizi infondati - confessa don Paolo Selmi - . Ma sinceramente su poche voci critiche, sono prevalse le tante voci contente che ci mettessimo in questa iniziativa. C’è voglia di fare, di non stare a guardare».

Yusuf viene dall’Eritrea e parla in tigrino col mediatore culturale Tsehaies Woldeab, 46 anni, che di profughi ne ha visti passare tanti in questi mesi: «Hanno solo bisogno di ascolto, è gente che non farebbe mai male a nessuno. Hanno sofferto troppo. Aiutarli dovrebbe essere per tutti la cosa più naturale da fare».

«Beni comuni. La grande stampa in soccorso del nuovo ciclo di privatizzazioni promosso dal governo Renzi colpisce direttamente i beni di appartenenza collettiva». Una reazione alla crescente diffusione dell'idea (rivoluzionaria per l'ideologia corrente), che alcuni beni non possono essere ridotti a merci.

Il manifesto, 25 luglio 2015

È appena stata bat­tez­zata la nuova tribù degli “anti­be­ni­co­mu­ni­sti” capi­ta­nati dall’Istituto Bruno Leoni e pro­mossa da Pier­luigi Bat­ti­sta sulla grande stampa (il Cor­riere della Sera di gio­vedì scorso). L’obiettivo è impu­tare al “beni­co­mu­ni­smo” di essere la «solita mine­stra sta­ta­li­sta e diri­gi­sta che ha nutrito per oltre un secolo la sini­stra». Si tratta di una for­mi­da­bile misti­fi­ca­zione, ma ancor più signi­fica non com­pren­dere pro­prio il carat­tere inno­va­tivo e con­tem­po­ra­neo che sta alla base della teo­ria e dei movi­menti dei beni comuni.

Per dirla in estrema sin­tesi, è evi­dente che Bat­ti­sta è poco avvezzo ad un pen­siero che si situa den­tro la spe­ci­fi­cità del capi­ta­li­smo finan­zia­rio e della sua crisi e che si distan­zia pro­prio da un’idea di pub­blico sta­ta­li­sta che ha acco­mu­nato la cul­tura della sini­stra nove­cen­te­sca, sia quella di estra­zione comu­ni­sta che di quella socialdemocratica.

La vera novità espli­ci­tata dalla teo­ria e dai movi­menti dei beni comuni, in oppo­si­zione al modello neo­li­be­ri­sta, sta pro­prio nel vedere la gene­rale mer­ci­fi­ca­zione dei beni e dell’attività umana e, dun­que, nell’affermare che i beni ad appar­te­nenza col­let­tiva alla base dei diritti umani fon­da­men­tali non pos­sono essere con­se­gnati al mer­cato e che, anzi, vanno gestiti in modo dif­fuso e partecipato.

Se pro­prio si vuole tro­vare un ante­ce­dente illu­stre in quest’approccio, più che a Prou­d­hon, biso­gna guar­dare a Pola­nyi che , non a caso, scrive sulla grande crisi del capi­ta­li­smo degli anni ’30 del secolo scorso, e che già allora evi­den­zia che quando si vuol ridurre lavoro, terra (e cioè beni comuni) e moneta pura­mente a merce, essi si pren­dono la loro rivin­cita e rive­lano come il mer­cato auto­re­go­lan­tesi sia, con­tem­po­ra­nea­mente, una grande costru­zione arti­fi­ciale e una grande illusione.

Ma quello che mi spinge a pren­dere in con­si­de­ra­zione il ragio­na­mento di Bat­ti­sta non sta tanto nel misu­rarsi su que­sti temi di fondo, quanto il suo intento dichia­rato di voler sfer­rare un’offensiva con­tro l’ “ideo­lo­gia dei beni comuni”, pren­dendo atto che essa ha segnato diversi punti a suo favore, e di chie­dere che la poli­tica si spenda con forza su que­sta strada. Per fare que­sto Bat­ti­sta non esita a ricor­rere ad acco­sta­menti per­lo­meno arditi, come quando riduce il tema della demo­cra­zia par­te­ci­pa­tiva ad una sorta di con­fuso assem­blea­ri­smo, che poi si tra­duce nel rispol­ve­rare il vec­chio luogo comune — que­sto sì– per cui pic­cole avan­guar­die mili­tanti si sen­tono inve­stite della volontà popo­lare. Soprat­tutto arriva a soste­nere che i refe­ren­dum sull’acqua del 2011 sareb­bero stati, in buona sostanza, una gran­diosa ope­ra­zione mani­po­la­tiva da parte di una pic­cola schiera di intel­let­tuali che avreb­bero fal­sa­mente pro­pi­nato al popolo che era in campo l’intenzione di pri­va­tiz­zare l’acqua e il ser­vi­zio idrico.

A parte qua­lun­que con­si­de­ra­zione sul fatto che vivremmo in un’epoca in cui il “popolo bue” si lascia incan­tare da qual­che paro­laio e, ancor più, il disprezzo che tra­pela per un isti­tuto, come quello refe­ren­da­rio, che ha visto comun­que pro­nun­ciarsi in modo ine­qui­voco la mag­gio­ranza asso­luta dei cit­ta­dini ita­liani, è troppo chie­dere al nostro di andare sem­pli­ce­mente a rileg­gersi il decreto Ron­chi, che venne appunto abro­gato da quel pro­nun­cia­mento? E’ troppo ricor­dar­gli che quel prov­ve­di­mento avrebbe obbli­gato tutte le società di pro­prietà pub­blica a far entrare i sog­getti pri­vati, entro la fine del 2011, nel capi­tale sociale delle stesse, in una misura non infe­riore al 40%?

E che dare la gestione del ser­vi­zio idrico a sog­getti pri­vati, con­sen­tire ad essi di rea­liz­zare pro­fitti in quest’attività, equi­vale esat­ta­mente a pri­va­tiz­zare l’acqua?

Il fatto è che biso­gna alli­neare la grande stampa al nuovo ciclo di pri­va­tiz­za­zione pro­mosso diret­ta­mente dal governo Renzi e affi­dato con­cre­ta­mente alle grandi mul­tiu­ti­li­ties quo­tate in Borsa. E ciò, come dimo­stra l’esperienza con­creta e quella che si rea­liz­zerà se que­sto dise­gno andrà in porto, non solo com­porta le con­se­guenze nega­tive dei clas­sici pro­cessi di pri­va­tiz­za­zione, come l’incremento delle tariffe, il calo dell’occupazione, il decre­mento degli inve­sti­menti, il peg­gio­ra­mento della qua­lità del ser­vi­zio, ma anche quelle nuove, quando sono pro­mosse da grandi sog­getti finan­zia­riz­zati, non radi­cati nei ter­ri­tori e orien­tati dalla quo­ta­zione in Borsa, e cioè in par­ti­co­lare la per­dita di qua­lun­que ruolo deci­sio­nale degli Enti locali e della pos­si­bi­lità di espres­sione demo­cra­tica dei cittadini.

Del resto, quest’impostazione, che indi­vi­dua nel “socia­li­smo muni­ci­pale” uno dei nodi da aggre­dire nel nostro paese per farlo avan­zare sulla strada della moder­niz­za­zione, non a caso incon­tra una chiara sin­to­nia con quanto ci spiega il neo­di­ret­tore dell’Unità Era­smo De Ange­lis, dalle colonne del gior­nale, per cui il nostro sarebbe rima­sto l’unico Paese model­lato sull’esperienza del socia­li­smo reale.

Infine, non si può sot­ta­cere come que­sta spinta ideo­lo­gica mira anche ad attac­care l’idea dell’esistenza di diritti fon­da­men­tali, come quello del diritto all’acqua. Come inter­pre­tare se non in que­sta chiave, ad esem­pio, alcuni fatti di que­sti giorni, quello per cui il sin­daco di Bolo­gna viene inda­gato dalla Pro­cura per­ché aveva dispo­sto l’allacciamento all’acqua in alcuni sta­bili occu­pati in quella città o il fermo di alcuni atti­vi­sti che si sono oppo­sti al distacco dell’erogazione dell’acqua ad uno spa­zio occu­pato a Roma per tra­sfor­marlo in cen­tro di aggre­ga­zione del quartiere?

In ogni caso, Bat­ti­sta può stare tran­quillo: non saranno le inter­pre­ta­zioni di comodo, le misti­fi­ca­zione della realtà, l’accondiscendenza nei con­fronti dei poteri forti ad arre­stare un pro­cesso che affonda le sue radici, mate­riali e sog­get­tive, nelle tra­sfor­ma­zioni radi­cali e regres­sive che ci con­se­gna non il socia­li­smo muni­ci­pale, ma il capi­ta­li­smo neo­li­be­ri­sta. Soprat­tutto se, come mi auguro e come esi­stono le con­di­zioni per rea­liz­zarlo già nei pros­simi mesi, le ragioni dei beni comuni, del lavoro, di un rin­no­vato Stato sociale, acco­mu­nate dall’idea dell’universalimo dei diritti della per­sona, sapranno incon­trarsi e ren­dere cre­di­bile l’idea di un modello pro­dut­tivo e sociale alter­na­tivo a quello che le éli­tes domi­nanti, in Europa come nel nostro Paese, con­ti­nuano a pro­porci come l’unico possibile.

Travolta dai marosi dei vaniloqui, affogata nell'oceano sconfinato delle chiacchiere ipocrite, è stata sepolta nelle acque innocenti del mare la solidarietà europea. I fatti, le accuse e le domande dell'eurodeputata italiana. Il Fatto Quotidiano, 25 luglio 2015
Dopo il naufragio del 18 aprile, l’Unione si impegnò a intensificare l’attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale, e il 25 maggio l’agenzia europea Frontex annunciò la firma del nuovo piano della missione Triton che, con maggiori mezzi e fondi, avrebbe portato soccorso a 138 miglia marittime a sud della Sicilia, quasi quintuplicando il proprio raggio d’azione.

Durante il periodo estivo, in cui normalmente si assiste al picco degli sbarchi, “Triton schiererà , 6 navi d’altura, 12 pattugliatori e 2 elicotteri”, affermò il direttore esecutivo Fabrice Leggeri, “così da sostenere le autorità italiane nel controllo delle frontiere marittime e nel salvataggio di vite umane”. Pareva che le navi di numerosi Stati membri avessero dato vita a una missione umanitaria, una sorta di Mare Nostrum europeo, e in giugno non si registrò nessuna morte per naufragio. Ma i tempi d’impegno erano circoscritti a poche settimane. A fine mese, dopo aver salvato più di tremila naufraghi, la Marina britannica ha ritirato la nave da guerra Bulwark, che poteva caricare fino a 800 persone, e l’ha sostituita con l a nave oceanografica Enterprise, che può caricarne 120. Dopo il 30 giugno sono scomparse anche le navi tedesche Schleswig-Holstein e Werra.

Dall’inizio di luglio sono riprese le morti in mare. Almeno dodici persone sono annegate nel naufragio di quattro barconi nel Canale di Sicilia e più di cento cadaveri sono stati recuperati dalla Guardia costiera libica nel tratto di mare antistante Tripoli, nel sostanziale disinteresse dei media.

L'Unione europea in fuga. Rimangono le ONG

A soccorrere i naufraghi non c’era Frontex, non c’era l’Unione Europea, ma le tre navi umanitarie private di Migrant Offshore Aid Station (Moas), Medici Senza Frontiere e Sea-Watch, assieme alle unità della Guardia costiera e della Marina militare italiana, e alle poche navi rimaste degli Stati membri, la cui appartenenza organica alla missione Triton è tutt’altro che chiara, poiché sui rispettivi siti governativi risultano essere messe a disposizione dai singoli Stati, sotto il coordinamento della Guardia costiera italiana. Lo stesso vale per la nave irlandese LÉ Niamh, per la cui opera di salvataggio non si fa riferimento all’operazione Triton-Frontex, ma a “operazioni congiunte con la Marina italiana”. Il quadro offerto dall’equipaggio della ong tedesca Sea-Watch, che con la sua nave ha salvato 587 persone in 6 giorni, è allarmante: “Non abbiamo passato un solo giorno in mare senza aver effettuato soccorsi, abbiamo incontrato la nave di Msf e quella del Moas, ma non abbiamo visto una sola nave di Triton né di Eunavfor Med. [...] L’Unione europea non sembra prendere sul serio il soccorso in mare. [...] Ci sentiamo abbandonati dall’Unione e dal governo federale”.

Il 1° luglio è avvenuto un passaggio di consegne tra l’operazione Triton e la missione Eunavfor Med di cui ancora non si conoscono con chiarezza i contenuti operativi; quel che sappiamo è che si è creato un vuoto denso di conseguenze. I segnali sono davanti ai nostri occhi, benché generalmente ignorati dai mezzi di comunicazione: il 2 luglio, 904 migranti sono stati recuperati e condotti nel porto di Reggio Calabria dalla nave Dattilo della Marina militare italiana; il 9 luglio, 12 cadaveri sono stati recuperati in mare e 500 naufraghi sono stati salvati dalla Guardia costiera italiana; il 14 luglio, più di cento cadaveri di migranti subsahariani sono stati raccolti dalla guardia costiera libica davanti alle coste tripoline; il 16 luglio, 835 persone partite dalle coste libiche sono state recuperate dalla nave Dattilo nel corso di quattro distinti naufragi nel Canale di Sicilia; il 17 luglio, una motovedetta della Guardia costiera partita da Lampedusa ha tratto in salvo duecento migranti; il 19 luglio, la nave di Medici Senza Frontiere ha salvato 129 persone, tra cui 13 donne e 12 bambini; il 22 luglio, la nave della Marina militare irlandese LÉ Niamh ha sbarcato 370 naufraghi a Palermo. Sempre il 22 luglio, un pattugliatore della Guardia costiera italiana ha salvato 578 migranti e li ha sbarcati a Messina. Ancora il 22 luglio, a Lampedusa, la Guardia costiera italiana ha salvato 414 migranti naufragati a bordo di quattro diversi gommoni, tra loro c’erano quattro neonati. Il 23 luglio la nave militare tedesca Holstein ha sbarcato ad Augusta 283 profughi che hanno fatto naufragio su tre diversi gommoni. Decine i morti.

Tre domande urgenti per la commissione europea

La Commissione, secondo le dichiarazioni di Leggeri, avrebbe “dotato Frontex di 26.25 milioni di euro aggiuntivi per rafforzare le operazioni Triton in Italia e Poseidon in Grecia”, ma non c’è chiarezza sulla destinazione e l’uso di quei fondi. Il bilancio di Frontex comprende i salvataggi effettuati dalla Guardia costiera italiana e dalle altre unità navali dei singoli Stati membri? Quali e quante navi operano nel Mediterraneo, e con che inquadramento nella missione Triton? Soprattutto: quali disposizioni sono previste perché l’Unione europea non si renda complice di altre sciagure in mare durante le prossime settimane di luglio e di agosto?

«ational Review un articolo che ripercorre tutti i difetti del caccia che l’Italia si è impegnata ad acquistare senza discussioni. La critica? Costa troppo e non funziona

La «peg­giore minac­cia alla sicu­rezza degli Stati uniti da trent’anni a que­sta parte» non è l’ultima por­tae­rei cinese, i silen­ziosi sot­to­ma­rini die­sel nor­d­co­reani o i satel­liti spia russi, è… l’F35. Un «pro­gramma inge­sti­bile, inso­ste­ni­bile e che non rag­giun­gerà mai i suoi obiet­tivi mili­tari», «stac­care la spina a que­sto peri­co­loso spreco di denaro non avverrà mai troppo tardi». Non sono slo­gan della cam­pa­gna pre­si­den­ziale del socia­li­sta demo­cra­tico Ber­nie San­ders, ma parole di Mike Fre­den­burg, fon­da­tore dell’Istituto Adam Smith di San Diego, una penna fero­ce­mente conservatrice.

Con­si­de­ra­zioni tanto più inte­res­santi visto il pul­pito da cui pro­ven­gono, il sito dell’americana Natio­nal Review, maga­zine della destra repub­bli­cana dal 1955. Una rivi­sta rea­ga­niana, liber­ta­ria, libe­ri­sta e ultra-conservatrice, che con­si­dera i sin­da­cati un puro «stru­mento socia­li­sta» e l’Onu una tro­vata diplo­ma­tica delle élite libe­ral. Tra i prin­cipi dichia­rati dalla reda­zione la «lotta senza sosta alla cre­scita del governo fede­rale» e la guerra senza quar­tiere al comu­ni­smo, una «uto­pia sata­nica con cui è impos­si­bile coesistere».

Insomma, men­tre in Ita­lia il dibat­tito sull’F35 è stato insab­biato die­tro le col­tri del «Libro bianco sulla Difesa» e il par­la­mento osserva inerte la par­te­ci­pa­zione tri­co­lore a que­sto stru­mento di guerra e immane spreco di risorse, negli Usa l’«aereo del futuro» è cri­ti­cato fero­ce­mente soprat­tutto dalla destra.

L’arti­colo di Fre­den­burg sulla Natio­nal Review riper­corre tutte le pro­messe man­cate dalla Loc­kheed Mar­tin, i dubbi a mezza bocca dei gene­rali, i difetti ripe­tuti nei pro­getti, le cri­ti­che delle varie ana­lisi indi­pen­denti che in vent’anni hanno esa­mi­nato il programma.

Secondo stime uffi­ciali del 2013, lo svi­luppo dell’F35 e il suo man­te­ni­mento ope­ra­tivo per i pros­simi 55 anni coste­ranno 1.500 miliardi di dol­lari, «il più costoso sistema di arma­menti della sto­ria dell’umanità». E alla fine – osserva spie­tato Fre­den­burg – avremo «un aereo più lento dell’F14 Tom­cat del 1970, meno mano­vra­bile dell’A6 Intru­der di quarant’anni fa, con una per­for­mance ope­ra­tiva para­go­na­bile a quella dell’F4 Phan­tom del 1960», «un aereo che in recenti test di com­bat­ti­mento ha perso per­fino con­tro l’F16».

Un cac­cia che non caccia
Le rive­la­zioni su que­sto test sono apparse su Medium pochi giorni fa. Il com­bat­ti­mento simu­lato F16 con­tro F35 risa­li­rebbe al 14 gen­naio 2015, sopra l’oceano anti­stante la base dell’Air Force a Edwards, California.

L’F35A (desi­gnato col codice AF-02 e dotato di tec­no­lo­gia stealth di serie) doveva inter­cet­tare e abbat­tere un nor­male F16D, uno degli aerei che dovrà sosti­tuire, a un alti­tu­dine com­presa tra 3mila e 9.500 metri. Le cin­que pagine del rap­porto del pilota descri­vono l’aerodinamica del nuovo aereo sostan­zial­mente come un «can­cello» ingui­da­bile, inca­pace di abbat­tere il «nemico» e anzi, alla fine, desti­nato a essere abbattuto.

Secondo il col­lau­da­tore, l’F35 ha una sola mano­vra in cui è stato supe­riore all’F16. Sfor­tu­na­ta­mente, que­sta con­suma tal­mente tanta ben­zina che si tratta di una sola pal­lot­tola, poi al mal­ca­pi­tato non reste­rebbe che scap­pare più velo­ce­mente pos­si­bile con la coda tra le gambe. Alla fine, il col­lau­da­tore cer­ti­fica che in com­bat­ti­mento rav­vi­ci­nato l’F35A è infe­riore all’F15E degli anni Ottanta.

Un pro­gramma mefistofelico

I ritardi ormai sono leg­gen­dari. Deciso dall’amministrazione Clin­ton nel gen­naio 1994 come unico aereo per tutta le forze Usa, il pro­gramma dell’F35 o Joint Strike Fighter doveva entrare in pro­du­zione ope­ra­tiva nel 2010, poi nel 2012, ora nell’aprile 2019 (ma alcune fun­zioni sono attese dal 2021). Tutti sanno che que­sta data dif­fi­cil­mente sarà rispettata.

Ad oggi, il motore dell’F35 può pren­dere fuoco, ha pro­blemi di aero­di­na­mica (viste le fun­zioni richie­ste dai vari gene­rali non ha ancora un design e un assetto sta­bili), pre­senta gra­vis­simi pro­blemi al soft­ware, al casco del pilota, ai sen­sori del radar, al sistema elet­trico (a 270 volt, uni­cum nell’aviazione), alla mitra­glia­trice, all’alimentazione e all’espulsione sicura del car­bu­rante (infatti ancora non può essere rifor­nito in volo), al raf­fred­da­mento del motore e per­fino alle gomme!

L’aereo è tal­mente sen­si­bile ai ful­mini (se col­pito potrebbe esplo­dere sia in volo che par­cheg­giato a terra) che il Pen­ta­gono ne ha uffi­cial­mente proi­bito l’utilizzo entro 30 chi­lo­me­tri da un tem­po­rale (tutto uffi­ciale, rias­sunto qui).

Il soft­ware a bordo dell’F35 ha 8 milioni di linee di codice. Per capirci, lo Space Shut­tle della Nasa ne aveva 400mila. Una quan­tità di infor­ma­zione pari a 16 volte quella con­te­nuta in tutta l’Enciclopedia Trec­cani. Ma il totale del soft­ware neces­sa­rio in volo e a terra è pari a 30 milioni di linee di codice. Ine­vi­ta­bili, sono già migliaia i «bug» di sistema dif­fi­cili da sco­vare e risolvere.

Per dire l’ultima, sol­tanto il 22 luglio scorso è par­tita la spe­ri­men­ta­zione sul campo della mitra­glia­trice da 25mm. In un aereo stealth com­ple­ta­mente liscio, infatti, la sem­plice aper­tura del foro della mitra­glia­trice interna è un ine­dito tutto da veri­fi­care.

L’arma più costosa della sto­ria, privatizzata

Secondo i sem­pre più nume­rosi cri­tici (anche mili­tari e inso­spet­ta­bili, per esem­pio l’aviazione israe­liana), il pro­getto è par­tito malissimo.

Que­sto cir­colo vizioso di vec­chi e nuovi pro­blemi porta a costi di manu­ten­zione let­te­ral­mente stra­to­sfe­rici: dai 32mila dol­lari per ora di volo pre­ven­ti­vati si è pas­sati a un più rea­li­stico 68mila dol­lari l’ora. Ma la Difesa ame­ri­cana non è in grado di fare la manu­ten­zione a un oggetto così com­plesso, per­ciò è già messo in conto il ricorso totale ai con­trac­tor fino alla fine del secolo. Una manna per Loc­kheed Mar­tin, Nor­th­rop Grum­man, Pratt & Whit­ney e il loro indotto.

Nei 400 miliardi fin qui pre­ven­ti­vati dagli Stati uniti, non sono inclusi inoltre:
- i mag­giori costi per risol­vere i pro­blemi sopra sintetizzati
- tutti gli arma­menti e munizioni
l- ’adattamento al tra­sporto di bombe nucleari
- l’adattamento per ser­ba­toi esterni di carburante
- e nem­meno l’integrazione e la comu­ni­ca­zione con la flotta di F15, F16 e F22 esistente!

In breve, è l’aereo nudo e crudo. Solo que­sto elenco di miglio­rie potrebbe por­tare a mag­giori costi per 68 miliardi di dol­lari, pari al costo finale di tutto il pro­gramma per l’F22.

Nel pro­getto del 1994, ogni aereo doveva costare tra 28 e 35 milioni di dol­lari a seconda delle ver­sioni (45 e 61 milioni in dol­lari attuali). Non a caso, invece, le stime atten­di­bili più recenti par­lano di un costo ad aereo tra i 190 e i 270 milioni di dol­lari, il quintuplo.

Ma la Rus­sia è in vantaggio

L’F35 è uno stru­mento di guerra tra grandi potenze. Se alla fine il Pen­ta­gono acqui­sterà dav­vero tutti gli aerei ordi­nati, gli Usa avranno una flotta 15 volte più grande della Cina. Ma la loro «supe­rio­rità aerea» stra­te­gica mon­diale sarà tutt’altro che garantita.

Secondo gli ana­li­sti mili­tari citati da Fre­den­burg, infatti, la Rus­sia è già molto più avanti: il suo Sukhoi Su-35S di quarta gene­ra­zione (finirà i test quest’anno) «è più veloce, ha un rag­gio ope­ra­tivo più ampio e porta il tri­plo dei missili».

Il futuro PAK T-50 stealth (pre­vi­sto per il 2018) sarà ancora migliore. I «nemici», infatti, hanno già preso le con­tro­mi­sure, visto che il pro­gramma dura da vent’anni (l’F16, per fare un con­fronto, durò “solo” 5 anni).

L’F35 è un «pro­gramma troppo grande per fal­lire», un buco nero finan­zia­rio e mili­tare ma non politico.

Il Pen­ta­gono ha aumen­tato da 34 a 57 gli aerei richie­sti per il 2016, quasi il dop­pio dei 38 finan­ziati dal Con­gresso per quest’anno. Molto oppor­tu­na­mente, infatti, la Loc­kheed ha sparso le sue fab­bri­che in cen­ti­naia di col­legi in 5 stati chiave, e ben pochi con­gress­men vogliono rischiare la per­dita di 60mila posti di lavoro garan­titi dal governo con soldi pubblici.

Entro l’estate alcuni F35B dovreb­bero entrare in ser­vi­zio presso il corpo dei Mari­nes, che a que­sto punto pre­ghe­ranno per non uti­liz­zarli in com­bat­ti­mento, visto che i difetti accer­tati uffi­cial­mente finora sono 1.151 (di cui 151 cri­tici e inaggirabili).

«La Repubblica, 24 luglio 2015
A che serve una sentenza di condanna 41 anni dopo il fatto? È davvero giustizia? Domande come queste serpeggiano insistenti nell’opinione pubblica dopo la condanna dei due neofascisti Maggi e Tramonte per la strage di piazza della Loggia, lo scorso 22 luglio.

Un verdetto così tardivo, infatti, agli occhi di molti ha quasi il sapore di una beffa, l’ultimo scherzo maligno di uno Stato colluso e traditore. La giustizia, per esser tale, deve giungere tempestiva a riparare i torti e ristabilire l’ordine spezzato da un reato.

Quanto alla funzione di simili giudizi, poi, non si può certo invocare l’effetto di deterrenza: la prospettiva di decenni d’impunità non potrebbe che rassicurare, al contrario, qualunque aspirante criminale. Non regge la logica retributiva; della prospettiva costituzionale della rieducazione del detenuto, infine, neanche parlarne. Perché, allora, i mezzi d’informazione stanno dando tanta attenzione a questi due ergastoli fuori tempo massimo?

Credo si possano fare due ordini di considerazioni. In primo luogo, il significato e il valore di questa sentenza non possono prescindere dalla natura particolarissima del reato. Il massacro di piazza della Loggia s’iscrive a pieno titolo nella strategia della tensione. Tra il 1969 e il ‘74, anni di Guerra Fredda, anche per effetto del fortissimo vincolo di fedeltà atlantico, pezzi importanti degli apparati dello Stato non obbedivano alla Costituzione, ma piuttosto operavano secondo la logica di una costituzione materiale anticomunista, in nome della quale, pur di arginare lo scivolamento a sinistra dell’asse politico e l’ascesa elettorale del Partito comunista, pareva legittimo coprire e proteggere, anziché i cittadini inermi colpiti dalle bombe, i terroristi che organizzavano e compirono attentati che avevano la funesta finalità di “destabilizzare per stabilizzare”.

Con un passato del genere alle spalle, il fatto che oggi gli anticorpi democratici della Repubblica riescano a ottenere un po’ di giustizia contro quell’antica perversione del potere, è un risultato di grande significato politico e simbolico. Lo dobbiamo a chi è sempre rimasto fedele alla Costituzione contro la logica feroce della ragion di Stato. La durata abnorme di processi come quelli per le grandi stragi politiche o mafiose è dovuta ai reiterati depistaggi, non a inefficienze burocratiche. La giustizia, attraverso la parte sana della magistratura e delle forze di sicurezza, ha dovuto operare in un contesto a tal punto ostile e alterato che il fattore-tempo non deve far sminuire il valore di aver fatto prevalere un altro pezzetto di legalità costituzionale.

Ma la pur tardiva sentenza sulla strage di Brescia è preziosa anche in un’altra prospettiva. Possiamo immaginare la convivenza civile nella società come una preziosa seta multicolore, intessuta di molti fili, le vite dei cittadini. Alcuni crimini hanno un impatto diretto e profondo sulla collettività, non solo sulle vittime dirette: stragi, terrorismo, delitti di mafia producono lacerazioni profonde in questo tessuto delicato.

Meno drammatica, ma profondamente logorante, la corruzione onnipervasiva lascia una miriade di strappi che lo indeboliscono. Ottenere giustizia per un attentato che mirava a sovvertire la democrazia come fu la bomba di piazza della Loggia vuol dire operare nel solco di una “giustizia riparativa” in senso lato: una giustizia che cerca di riparare i danni inflitti al rapporto di fiducia tra cittadini e Stato. Visto che il tessuto della società non è mai al riparo dal logoramento, e in Italia, in particolare, la seta è stata brutalmente stracciata in più punti, non è mai troppo tardi per provare a ridurre, se non riparare, qualcuno di quei vecchi strappi con una parola di giustizia. Non lo dobbiamo solo alle vittime della violenza del passato. È un investimento per il futuro.
Con la Grecia, il Sud dell'Europa: «Non si può continuare a stare immobili e subire. Questo è un appello. E per questo ho scelto le colonne del

manifesto per lanciarlo». Il manifesto, 23 luglio 2015
L’Europa mone­ta­ria, unita solo dall’euro e domi­nata dalla teo­lo­gia dell’austerità, non fun­ziona pro­prio. Sono in molti ad affer­marlo e non è un caso che la Gran Bre­ta­gna abbia voluto con­ser­vare la ster­lina pur ade­rendo all’Unione euro­pea nei con­fronti della quale mani­fe­sta dis­sensi cre­scenti. E, in gene­rale, non dob­biamo dimen­ti­care che siamo in una fase di con­ti­nui cam­bia­menti, tali da indurre Guido Rossi a scri­vere (Il Sole 24 Ore, 19 luglio) un edi­to­riale dal titolo Quei Trat­tati supe­rati che creano disordine.

Ma tor­niamo alla Gre­cia, la cui crisi strut­tu­rale non è stata affatto risolta con i pre­stiti e le dila­zioni di paga­mento del debito, ma solo rin­viata e nem­meno a lungo ter­mine e non sarà age­vole una ripe­ti­zione dei pre­stiti. I punti sono due:
- tutti i paesi che hanno accet­tato l’euro sono in con­di­zioni molto diverse e peg­giori di quelle della Ger­ma­nia, che si con­ferma domi­nante nel cir­colo dell’euro;
- manca, anzi è rifiu­tata, una poli­tica eco­no­mica diretta a equi­li­brare i rap­porti di forza all’interno della comu­nità: tutti abbiamo l’ euro, ma ci sono quelli che ne hanno tanti e li fanno cre­scere e quelli che ne hanno pochi e li vedono dimi­nuire continuamente.

Di que­sta situa­zione noi ita­liani abbiamo una certa com­pe­tenza: anche quando usa­vamo tutti la lira il Mez­zo­giorno era un disa­stro e, con l’aiuto di Gram­sci, sco­primmo la “que­stione meri­dio­nale”, che oggi si ripro­pone a scala euro­pea. E così mi ha col­pito, e per­suaso, il grande titolo del sup­ple­mento di la Repub­blica del 20 luglio: Mez­zo­giorno, la Gre­cia d’Italia.

Nella nostra unità nazio­nale fin da prin­ci­pio a domi­nare fu la moneta, cioè la lira, e così si aprì la que­stione meri­dio­nale, con la mise­ria e l’emigrazione. In alcune regioni del Mez­zo­giorno si stava meglio ai tempi del regno di Napoli con i Bor­bone piut­to­sto che dopo con l’unità d’Italia e i Savoia.

La crisi della Gre­cia sarà lunga e dura e ci saranno – già lo si vede – altri paesi inve­stiti dalla crisi pro­dotta dall’attuale unione mone­ta­ria e sol­tanto mone­ta­ria. Si tratta – già ci sono gli annunci – dei paesi medi­ter­ra­nei: la Spa­gna, dove si voterà que­sto autunno e dove sta cre­scendo il par­tito Pode­mos, abba­stanza simile a Syriza e poi il Por­to­gallo e anche l’Italia – è sotto gli occhi di tutti – non sta tanto bene.

Il futuro – allo stato attuale – è di cre­scita della disoc­cu­pa­zione e di defi­cit di bilan­cio. Insomma il per­corso della Gre­cia – ancora per niente con­cluso – dovrebbe illu­mi­narci. Siamo – ne sono con­vinto – all’apertura di un que­stione meri­dio­nale che pro­vo­che­rebbe una crisi ben più grave di quella che si è aperta con la Gre­cia che conta meno di dieci milioni di abi­tanti e un Pil pari al 2 per cento di quello euro­peo. Una crisi assai più dif­fi­cile da affron­tare con una unione solo mone­ta­ria, non poli­tica e nep­pure economica.

La pre­vi­sione più facile, e nega­tiva, è che salti tutto pro­vo­cando un disor­dine ingo­ver­na­bile. Tra non molto tempo la crisi greca si ria­prirà e inve­stirà, assai più’ dura­mente che oggi, anche i paesi medi­ter­ra­nei: l’Europa sarà in una crisi più grave ed estesa di quella che ha inve­stito la Gre­cia e anche la Ger­ma­nia avrà più di un pro­blema. A que­sto punto mi pare utile citare un passo dell’ottimo arti­colo di Luciana Castel­lina (il mani­fe­sto, 17 luglio): «Altra cosa – scrive Luciana – è che a met­tere in discus­sione l’eurozona sia uno schie­ra­mento più forte, almeno i paesi medi­ter­ra­nei, sulla base di un chiaro pro­getto di lotta e di reci­proca soli­da­rietà. Que­sto fronte oggi non c’è e noi ita­liani pos­siamo ver­go­gnarci per­ché il nostro pre­si­dente del con­si­glio avrebbe potuto e dovuto avere un ruolo di primo piano da svol­gere in que­sta situa­zione, ha messo, pau­roso, la testa sotto la sab­bia. Tocca anche a noi costruire un piano B, ma non solo per la Grecia».

Quello che non ha fatto e non ha pen­sato il nostro attuale pre­si­dente del con­si­glio lo pos­sono e lo deb­bono fare i nostri poli­tici di sinistra.

Riunirsi, prendere contatto con le personalità di sinistra di Portogallo, Spagna, Grecia e anche Italia per affrontare l’attuale questione meridionale europea.

E’ lo sforzo che hanno fatto in que­sti mesi i gruppi e i par­titi che stanno cer­cando di dar vita ad un nuovo sog­getto di sini­stra nel nostro paese, con­sa­pe­voli che occorre ora­mai ope­rare a livello euro­peo e non solo nazio­nale sta­bi­lendo rap­porti o ren­den­doli meno formali.

Lo ha già fatto la Fiom con i sin­da­cati metal­mec­ca­nici del sud Europa.

In que­sto senso si muo­vono anche Strauss-Kahn, Fitoussi, e Varou­fa­kis con il soste­gno del pre­mio Nobel Sti­glitz e anche James Gal­braith per una for­ma­zione di sini­stra a livello euro­peo. E’ urgente e posi­tivo, e per noi ita­liani che sulla que­stione meri­dio­nale abbiamo avuto la lezione di Gram­sci, ancora più pressante.

Non si può continuare a stare immobili e subire. Questo è un appello. E per questo ho scelto le colonne del manifesto per lanciarlo.

L’Unione euro­pea è da rea­liz­zare, ma non può essere solo mone­ta­ria: non solo è insuf­fi­ciente ma anche dan­nosa. Deve essere un’unione poli­tica e quindi demo­cra­tica cioè tale da pren­dere in con­si­de­ra­zione le dif­fe­renze eco­no­mi­che e sociali tra i vari paesi. Un’unione non è una som­ma­to­ria acri­tica di differenze.

«Intervista a Jean-Claude Juncker. Il presidente della Commissione europea critica il ritorno dei nazionalismi e ammette che è stata la paura a permettere l’accordo sulla Grecia, che tuttavia non deve sentirsi umiliata dalle nuove condizioni». dovrebbe sentirsi umiliato lui.

La Repubblica, 22 luglio 2015

Bruxelles. Otto giorni dopo il summit maratona della zona euro che ha concluso i negoziati tra la Grecia e i suoi creditori internazionali, il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, per la prima volta traccia il suo bilancio sulle trattative con Atene e la lezione che deve trarne tutta Europa. Juncker ci riceve nel suo ufficio del Berlaymont mentre è in corso la parata del 21 luglio. Dalla strada arriva un sottofondo di musica militare.

Presidente, ritiene che quello sulla Grecia sia stato un buon accordo dal punto di vista economico e morale?
«L’aspetto morale non è la cosa meno importante, però abbiamo evitato il peggio e lo abbiamo evitato non perché siamo stati particolarmente saggi, ma perché avevamo paura. E’ la paura che ha permesso l’accordo. Dopo la paura c’è sempre il sollievo».
Un accordo basato sulla paura è un buon accordo?
«Sì perché abbiamo evitato il peggio. Ma su questo punto, come sull’immigrazione, ho constatato una rottura di fatto – che fino a quel momento era virtuale – dei legami di solidarietà in Europa. E dunque esco da questa esperienza contento ma non felice. Ne esco molto preoccupato per il futuro. Non parlo solo della Grecia, c’è un insieme di elementi che ci fanno preoccupare molto. Ad ogni modo l’accordo è buono perché esiste. Nella vita di una coppia ci sono momenti difficili dove ci sono dubbi e ci interroghiamo sul nostro futuro insieme. Poi però torniamo in noi per paura del futuro. A un certo punto avevo detto che il nuovo governo greco si stava per suicidare per paura di morire. Abbiamo evitato la morte e abbiamo fatto di tutto per evitare il suicidio».
Molti stigmatizzano gli elementi duri per la Grecia contenuti nell’accordo.
«Credo sinceramente che la Grecia non abbia alcuna ragione di sentirsi umiliata perché la Commissione ha fatto di tutto per smussare gli angoli tenendo conto delle preoccupazioni, delle paure e delle aspettative degli uni e degli altri. La Commissione è una delle tre istituzioni con Fmi e Bce che ha preparato l’accordo finale, ma noi l’abbiamo fatto con maggiore entusiasmo e cuore. La Commissione ha fatto un buon lavoro e in me resiste l’ammirazione per la nazione greca».
Anche per il suoi governanti?
«Ho trovato Alexis Tsipras simpatico, l’ho accolto con molta amicizia. Ho sempre fatto del mio meglio per non fargli perdere la faccia, non sarebbe stato un modo di negoziare europeo».
Un approccio condiviso da tutti?
«No, ma ne sono infischiato perché bisognava lasciare a questa grande nazione uno spazio di autodeterminazione».
Il sentimento di umiliazione è tuttavia molto presente, non soltanto in Grecia.
«Gli europei non amano l’idea che i pensionati greci piangono seduti sulle scale di una banca, questa non è l’Europa! Ho scelto con grande convinzione di parlare apertamente ai greci rispettando la loro dignità. L’avevo fatto molte volte come presidente dell’Eurogruppo contro l’opinione di tutti gli altri, che invece volevano picchiare duro. Ma io non gli ho dato retta perché mi dicevo sempre che “in Europa serve qualcuno del quale i greci possano avere fiducia”, altrimenti avrebbero avuto l’impressione che l’Europa fosse un’invenzione che si era trasformata in una macchina antigreca. Ho sempre parlato della Grecia con tenerezza, a volte quando mi rileggo mi sembra di essere stato persino ridicolo».
Questo sentimento antigreco o antitedesco la preoccupa?
«Sì, temo il sentimento che si è diffuso in Europa dopo questa umiliazione e temo che le reazioni provocate da questa soluzione terranno alta la temperatura nel Continente. Ho notato in molti paesi una rabbia antigreca che si spiega con motivi di politica interna e si limita a vedere l’aspetto economico delle cose. Ci dimentichiamo gli aspetti sociali della crisi. C’è una storia di disamoramento perché molti paesi erano più concentrati sugli aspetti della propria politica interna che sulla soluzione del problema».
Di cosa ha avuto più paura in queste settimane?
«Della una rottura definitiva. Mi sono detto che se l’eurozona si fosse spaccata a quel punto tutto si sarebbe potuto disintegrare».
E’ saltato un tabù quando Schaeuble ha proposto il fondo per le privatizzazioni come alternativa alla Grexit. Non è molto grave?
«Non ho un giudizio così drammatico, quest’ultima frase (sulla Grexit, ndr) prodotta dall’Eurogruppo era contenuta tra due parentesi all’inizio del vertice dei leader. Non era la soluzione che volevamo, ma quella che sarebbe rimasta se tutto il resto fosse fallito. Fin dall’inizio ho detto a Tsipras: “Non credere che salverò la Grecia con una magia”».
Cosa ha fatto piegare Tsipras?
«Gli ho spiegato che nell’eurozona ci sono 19 democrazie, non solo una. Spesso mi hanno rimproverato di avere detto che le elezioni non cambiavano i trattati e i comportamenti degli altri».
Tsipras ha avuto paura dopo il referendum?
«Ha sottovalutato la volontà degli altri. Dopo il referendum alcuni paesi dicevano: “E’ finita”. Abbiamo dovuto superare questa situazione. Non si può mai dare più importanza ad una democrazia che a tutte le altre. Tsipras è diventato un uomo di Stato quando ha capito che se fosse andato fino in fondo per la Grecia sarebbe stata la fine. Gli ho spiegato in dettaglio il piano di aiuti umanitari da 1,8 miliardi che avremmo lanciato all’indomani della Grexit fino alla fine del 2015. Ho anche insistito sul fatto che la Commissione aveva offerto 35 miliardi di risorse per la crescita ma lui di questa proposta non aveva mai parlato ai greci».
Sul debito ci sono pareri differenti tra le diverse istituzioni, tra gli economisti e gli stati.
«Sono stato sorpreso dalle dichiarazioni del Fondo monetario internazionale (sulla ristrutturazione del debito, ndr) due o tre giorni prima del referendum che ha aiutato la campagna del “no” in Grecia. Hanno scelto un momento sbagliato e sono stati strumentalizzati. Ma non si può rimproverare all’Fmi di dire che il debito greco non è sostenibile. Da mesi avevo detto a Tsipras che la questione del debito esisteva e che potevamo risolverla appena avesse attuato le prime misure. Nel testo approvato dal Consiglio europeo c’è scritto che valuteremo il debito “dopo una prima valutazione” (delle riforme, ndr), io invece nel testo che i greci hanno rifiutato avevo scritto ad “ottobre” in modo da aiutare Tsipras. Ma poi abbiamo tolto la data perché Irlanda, Portogallo, Spagna non volevano questa formulazione prima delle proprie elezioni. Erano molto arrabbiati con me. Vede, a fine 2012 abbiamo già alleggerito il servizio del debito greco e quello del Belgio, ad esempio, oggi costa di più. Questo ha causato un grande problema, setto-otto paesi pensavano che in Grecia la situazione fosse migliore che da loro, ad esempio sul salario minimo. Chi descrive il programma come un massacro o un catalogo di crudeltà non conosce bene il dossier e nemmeno i livelli di protezione sociale di molti altri paesi dell’eurozona che sono inferiori a quelli dei greci. Se la Grecia avesse approvato le riforme strutturali, non saremmo arrivati fino a qui».
Per quanto tempo reggerà questo accordo?
«Se la Grecia manterrà gli accordi e immaginiamo che dopo la prima valutazione delle misure alleggeriremo il debito, il problema non tornerà a porsi per i prossimi tre anni».
«Un atto che si pone in alter­na­tiva alla linea teu­to­nica della «seces­sione» che noi dovremmo cono­scere bene. Infatti, la pro­po­sta della Gre­xit da parte tede­sca è para­go­na­bile a quella della Lega Nord negli anni ’90 per il Mez­zo­giorno».

Il manifesto, 22 luglio 2015 (m.p.r.)

L’aver sal­vato la Gre­cia dall’espulsione voluta da alcuni espo­nenti della classe poli­tica del Nord Europa è un merito di Ale­xis Tsi­pras. Si tratta adesso di vedere se il gio­vane lea­der greco riu­scirà ad argi­nare gli effetti nega­tivi dell’amara medi­cina che ha dovuto accet­tare, usando l’astuzia e l’intelligenza di Ulisse di fronte ad un nemico che pensa di avere già vinto la guerra. Ha di fronte prove par­la­men­tari dif­fi­cili per la mag­gio­ranza di governo e un par­tito diviso.

C’eravamo entu­sia­smati come non suc­ce­deva da molto tempo. Abbiamo in tanti, in Ita­lia ed in Europa, cre­duto in Tsi­pras e aspet­tato con appren­sione i risul­tati del refe­ren­dum sulle richie­ste di Bru­xel­les. La vit­to­ria del No ci ha por­tato al set­timo cielo, abbiamo visto aprirsi una strada con­creta per costruire l’Altra Europa.

Quel grande OXI, che sulla stampa ita­liana è stato curio­sa­mente tra­scritto come Oki, suo­nava come un noto far­maco anti­do­lo­ri­fico, ed era di fatto un antico rime­dio con­tro i ter­ri­bili dolori e sof­fe­renze dell’austerity. Poi, improv­vi­sa­mente, la nego­zia­zione tra il governo greco ed i potenti dell’Eurogruppo ha preso un’altra piega, ina­spet­tata. Nes­suno imma­gi­nava, infatti, che il con­senso del popolo greco alla linea del governo Tsi­pras potesse por­tare ad un ulte­riore irri­gi­di­mento da parte del governo tede­sco e dei suoi satelliti.

In pochi giorni il qua­dro è tra­gi­ca­mente mutato. L’alternativa è diven­tata: uscire dall’euro o accet­tare la peg­giore ricetta di poli­tica eco­no­mica che Bru­xel­les aveva pre­sen­tato negli ultimi sei mesi di trat­ta­tive. Pren­dere o lasciare. E Tsi­pras, il com­bat­tente, tenace e riso­luto lea­der di Syriza, ha ceduto, si è inchi­nato ai dik­tat del mini­stro delle finanze tede­sco. E’ inu­tile negarlo o rica­marci sopra: abbiamo subito una grande scon­fitta che per molti si è tra­dotta in una Grande Delu­sione. Ma, è stata persa una bat­ta­glia e non la guerra.

Per supe­rare que­sto stato depres­sivo, ine­vi­ta­bile dopo una botta del genere, dob­biamo ela­bo­rare il lutto e per farlo cor­ret­ta­mente dob­biamo avere il corag­gio di guar­dare in fac­cia la realtà. Se Tsi­pras avesse sbat­tuto la porta in fac­cia ai despoti di Bru­xel­les lo avremmo osan­nato, sarebbe diven­tato il Supe­re­roe della sini­stra euro­pea, un sim­bolo per tutti coloro che non accet­tano più di essere trat­tati come servi. Ma, cosa sarebbe suc­cesso al popolo greco?

L’uscita improv­visa dall’euro avrebbe preso in con­tro­piede il governo di Syriza e com­por­tato un periodo di almeno due set­ti­mane di stallo, neces­sa­rie per stam­pare nuo­va­mente la dracma e distri­buirla, con ban­che chiuse e fuga gene­ra­liz­zata dei capi­tali in euro all’estero. Due set­ti­mane dove poteva acca­dere di tutto: la gente presa dal panico, affa­mata, poten­zial­mente espo­sta alle mani­po­la­zioni della destra neo­na­zi­sta, super­mer­cati svuo­tati, tutti con­tro tutti. Una volta tor­nati alla dracma biso­gnava poi fare i conti con una sva­lu­ta­zione di almeno il 60 per cento rispetto a euro e dol­laro, con una ine­vi­ta­bile riper­cus­sione sui prezzi ed un rischio di ipe­rin­fla­zione, data la strut­tura della bilan­cia com­mer­ciale greca.

I lavo­ra­tori ed i pen­sio­nati greci avreb­bero avuto una vit­to­ria morale ed una scon­fitta mate­riale molto pesante con un impo­ve­ri­mento improv­viso, una netta per­dita del potere d’acquisto dei già magri salari, sus­sidi e pen­sioni. Di con­tro, accet­tando i dik­tat di Schau­ble e Mer­kel il primo mini­stro greco avrebbe con­trad­detto tutto il per­corso che lo aveva por­tato a indire il refe­ren­dum, sarebbe stato accu­sato di incoe­renza quando non di tra­di­mento, e avrebbe pro­dotto una frat­tura in Syriza, come pun­tual­mente è avvenuto.

Secondo alcune fonti gior­na­li­sti­che Tsi­pras ha avuto dal pre­si­dente Jean-Claude Junc­ker un docu­mento in cui veniva trac­ciato il qua­dro cata­stro­fico che sarebbe sca­tu­rito dalla Gre­xit, secondo altre fonti sono stati gli stessi con­su­lenti del governo greco a pro­spet­tar­gli sce­nari da seconda guerra mon­diale. Un fatto è certo: Tsi­pras ha scelto di non fare l’Eroe, l’indomito guer­riero che lotta con­tro tutto e tutti, ed ha lasciato ad altri que­sta parte. Ha scelto il male minore pur sapendo di dover pagare di per­sona un conto salato.

Un atto di corag­gio e di respon­sa­bi­lità che solo col tempo verrà com­preso da chi oggi lo liquida fret­to­lo­sa­mente. Un atto che si pone in alter­na­tiva alla linea teu­to­nica della «seces­sione» che noi dovremmo cono­scere bene. Infatti, la pro­po­sta della Gre­xit da parte tede­sca è para­go­na­bile a quella della Lega Nord negli anni ’90 per il Mez­zo­giorno. Come la stampa tede­sca ha creato lo ste­reo­tipo del greco fan­nul­lone, imbro­glione, che vive alle spalle del lavo­ra­tore tede­sco così negli anni ’90 in Ita­lia, gra­zie anche a gior­na­li­sti demo­cra­tici come Gior­gio Bocca (vedi L’Inferno, 1990), si era creata l’immagine di un Mez­zo­giorno fatto solo di cri­mi­na­lità e assistenza.

Se la seces­sione fosse risul­tata vin­cente che cosa sarebbe capi­tato al popolo meri­dio­nale? Come risul­tava dalle simu­la­zioni fatte in quel tempo il Mez­zo­giorno avrebbe dovuto avere una moneta pro­pria sva­lu­tata al 40% rispetto alla valuta del Centro-Nord, avrebbe perso un flusso netto di risorse dello Stato pari al 35% del suo Pil e un crollo dei con­sumi di pari entità. Un collasso. Certo se la seces­sione del Nord-Italia fosse avve­nuta subito dopo la seconda guerra mon­diale le con­se­guenze per il Mez­zo­giorno sareb­bero state ben diverse e non pochi sareb­bero stati i van­taggi. Ma, ed è que­sto il punto: in eco­no­mia come nella poli­tica la scelta del tempo “giu­sto” è decisiva.

La Gre­xit è una que­stione seria che ci riguarda da vicino, non solo per­ché dopo la Gre­cia toc­cherà a noi - mal­grado le ras­si­cu­ra­zioni del mini­stro Padoan- ma per­ché pone un’ipoteca sul futuro della stessa Unione euro­pea. Non sono pochi i segnali che vanno nella dire­zione di una gene­rale seces­sione dei paesi ric­chi del Nord Europa, al di là dell’Eurozona.

Basta citare il modo con cui i paesi della Ue hanno affron­tato la tra­ge­dia dei migranti che muo­iono nel Medi­ter­ra­neo. Il para­me­tro che è stato usato è quello delle “quote” come se si trat­tasse di latte o carne da macello, dimo­strando al mondo di essere inca­paci di andare al di là del lin­guag­gio dei mer­canti. Non diver­sa­mente sugli stessi spo­sta­menti di popo­la­zione all’interno della Ue, ad ini­ziare dalla Gran Bre­ta­gna, si parla di vin­coli da porre ai gio­vani che dal Sud e dall’Est Europa cer­cano lavoro in que­sti paesi.

E, infine, non va sot­to­va­lu­tato il fatto che l’euro, con tutti i suoi errori, costi­tui­sce una base comune per con­tra­stare l’egemonia del dol­laro e gio­care un ruolo a livello inter­na­zio­nale come Europa. Su que­sto punto la Mer­kel ha ragione: la fine dell’euro rap­pre­sen­te­rebbe la fine della Ue. Si ritor­ne­rebbe neces­sa­ria­mente alle bar­riere doga­nali ed alle sva­lu­ta­zioni com­pe­ti­tive, con tutti gli ingre­dienti di un ritorno al più becero e peri­co­loso nazio­na­li­smo. D’altra parte, con­ti­nuando con que­ste poli­ti­che di auste­rity, che non risol­vono la que­stione del debito pub­blico inso­ste­ni­bile, non si fa altro che ali­men­tare divi­sioni tra Nord e Sud Europa, e si va dritti verso l’implosione.

Da parte nostra si tratta di appog­giare, non solo poli­ti­ca­mente, tutte quelle forme di eco­no­mia soli­dale che sono nate in que­sti anni di crisi e che, come ci ha rac­con­tato Angelo Mastran­drea, hanno avuto anche il soste­gno della soli­da­rietà internazionale. Senza dimen­ti­care che que­sta crisi sta met­tendo a nudo la que­stione mone­ta­ria, il biso­gno di un con­trollo sociale di que­sto mezzo di paga­mento che è diven­tato da stru­mento a fine dell’agire sociale, non­ché l’insostenibilità di un pro­cesso di inde­bi­ta­mento infi­nito. Ma, su que­sta rile­vante que­stione tor­ne­remo in altra occasione.

«“Quella giovane dietro di me è morta” recita la didascalia della foto con le vittime dell’attentato di Suruc, diventata virale. Una storia esemplare in tempi di terrore globalizzato».

La Repubblica, 22 luglio 2015 (m.p.r.)

La didascalia originale di questa immagine contiene una terribile frase di undici parole: «La ragazza con la maglietta bianca dietro di me è morta». È quella con il sorriso più esibito, gli occhi una fessura appena, il collo lungo, i capelli ricci sbandati di lato. Quella con le dita a V in segno di vittoria, un anello all’indice. Lei non c’è più. Forse non ci sono più altri che compaiono alle spalle di Madersahi, la ragazza in primo piano che ha scattato il selfie e che ci ha informato, prima di quelle undici parole, di essere ancora viva.

La storia di questa fotografia è esemplare: racconta una piccola distorsione e una grande distrazione. Ha cominciato a rimbalzare sui social qualche ora dopo l’attentato di lunedì a Suruc, in Turchia, nel quale hanno perso la vita (finora) trentadue aderenti alla federazione dei giovani socialisti. Il massacro è stato attribuito allo Stato Islamico, in particolare a una diciottenne kamikaze, seguace del Califfato, di cui pure è stata diffusa l’immagine, che, nera e cupa, non potrebbe essere più differente da quella della «ragazza con la maglietta bianca». La piccola distorsione è consistita in un equivoco. Per ore sul web il selfie è stato tramandato e condiviso come se fosse scattato pochi istanti prima del botto. Come se quel gruppo di ragazzi festanti ( clic! ) non avessero fatto in tempo a spegnere i sorrisi che (boom !) i loro corpi, tutti quanti, fossero stati dilaniati.
È un peccato veniale, stupido sensazionalismo, bisogno di estremizzare qualcosa che è già estremo di suo e non meno inaccettabile. Cambia davvero qualcosa sapere che la foto era stata fatta tempo prima, dopo il successo elettorale del partito filocurdo e non alla vigilia di una partenza per Kobane a costruire una biblioteca e un campo giochi? Cambia qualcosa sapere che non sono morti tutti un attimo dopo? Che è viva Madershai, uno di quelli con la barba alle sue spalle e altri ancora? «La ragazza con la maglietta bianca dietro di lei è morta» ed è morta per tutti e con tutti, come il decimo della fila che deve fare un passo avanti verso il fucile. Quando cadono lui o lei cadono tutti, è un domino che non esclude nessuno.
Il tempo è irrilevante se il finale è irreversibile. La foto del turista sulla vetta di una delle torri gemelle con un aeroplano alle spalle è un falso idiota solo perché sincronizza per renderli sensazionali due eventi che sono tremendi anche nella loro separazione: ci sarà stato qualcuno in quel punto qualche minuto prima dell’impatto e sarà morto mentre scendeva, che differenza fa? Che non ha un volto, ne è un ultimo momento in cui possiamo identificarci con lui.
E questa è la grande distrazione. La ragazza con la maglietta bianca ci conduce tutti a Suruc dove, ammettiamolo, non è che i media occidentali ci avessero trascinato con la forza della persuasione.
Utoya, i giovani socialisti norvegesi, di lì eravamo passati. Ma Suruc? Studenti filocurdi? Chi sono questi? Sono la ragazza con la maglietta bianca, così simile a quella che incontri sulle scale, alla nuova fidanzata di tuo cugino o nipote. Da queste parti ci impressionano le stragi di crocieristi europei, non quelle di passanti orientali. Di cristiani, non di sciiti. Ci sarebbe voluto un selfie anche dalla moschea in Kuwait attaccata nello stesso giorno della strage sulla spiaggia tunisina. Una didascalia che dicesse: «L’uomo con la camicia blu dietro di me è morto». E quello, ripreso felice allo stadio, sarebbe stato simile al tuo benzinaio, o a tuo padre quando tu eri ancora un bambino.
Ci vorrebbero decine, centinaia di selfie, da ogni parte del mondo in cui un innocente è stato ammazzato per questo peccato mortale di causa. E ce ne vorrebbe uno scattato con un grandangolo immenso che mostri tutto e tutti, i Campi Elisi e Central Park , la corniche di Beirut e le case di Kobane, i milioni di facce che li abitano e il mondo che dovremmo difendere da ogni timore o sottomissione finché «il ragazzo con la maglietta bianca dietro di te è vivo e lotta».
«Yanis Varoufakis sta mettendo insieme una formazione politica con ambizioni europee più ancora che nazionali, dove Syriza resta forte. Una formazione di sinistra, radicale, intransigente “ma non biecamente marxista-leninista”».

La Repubblica, 21 luglio 2015 (m.p.r.)

Roma. «Cari amici tedeschi, un’Europa in cui voi dettate le leggi con un gruppetto di Paesi nordici e baltici al seguito, è inaccettabile per tutti gli altri». Parole aspre e fiere, dettate da un amico, o forse è meglio dire un ex-amico: Dominique Strauss-Kahn, che prima di perdere il posto all’Fmi per le vicissitudini boccaccesche era stato il potente ministro dell’Economia al fianco di Francois Mitterrand nelle trattative con la Germania post-unificazione per la nascita dell’euro.

Ma ancora più significativa è la tribuna da cui è stata resa pubblica la lettera di DSK: il blog di Yanis Varoufakis, che dichiaratamente sta mettendo insieme una formazione politica con ambizioni europee più ancora che nazionali, dove Syriza resta forte. Una formazione di sinistra, radicale, intransigente «ma non biecamente marxista-leninista», precisa Jean-Paul Fitoussi, l’economista che con Strauss-Kahn ha condiviso decenni di insegnamento in quell’atelier di cultura liberal che è la parigina SciencesPo. E che è tuttora suo grande amico: «State tranquilli, non è un rivoluzionario senza speranze, è un riformista moderato che ha a cuore il bene dell’Europa».

La strana coppia Varoufakis-DSK insomma mette le basi per un raggruppamento politico transnazionale che può essere davvero un esperimento nuovo, al quale hanno già dato la loro adesione informale alcuni prestigiosi economisti americani, da James Galbraith al premio Nobel Joseph Stiligliz. «Voi contate i vostri miliardi – scrive DSK ai tedeschi – anziché usarli per aiutare chi sta peggio di voi, rifiutate di accettare una peraltro scontata riduzione dei crediti, mettere il risentimento davanti ai progetti per il futuro, voltate le spalle a quello che l’Europa dovrebbe essere, cioè una comunità solidale, a rischio che il castello vi crolli addosso». Prove tecniche, per ora, di un partito filo-europeo ma fortemente critico con il mainstream economico.
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