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«L’Europa unita nel nome del filo spinato é l’immagine che i nuovi reazionari stanno edificando.» Nella cultura e nella politica dell'estrema destra degli stati europei il rovesciamento dell'ispirazione cosmopolita e universalista dell'Europa dei nostri sogni.

La Repubblica, 19 agosto 2015 (testo integrale)
L’Europa sta diventando un continente blindato con filo spinato e muri di respingimento. Lo é già nelle sue frontiere a Nord e a Est – il Mediterraneo impedisce di fare altrettanto al Sud. A Calais, da dove i migranti cercano passare il Canale della Manica per raggiungere la Gran Bretagna, si assiste quotidianamente a scene di caos e deportazioni che il governo conservatore di David Cameron benedice come sacrosante se il paese vuole “difendersi dall’invasione” dei migranti, invertendo la politica liberale e umanitaria dei precedenti governi labouristi. L’Inghilterra ha solcato tutti i mari del mondo per invadere terre e rapinare risorse. E ora si sente oltraggiata dal viaggio all’incontrario dei colonizzati.

Quel che succede a Calais succede a Est, dove la costruzione del muro di filo spinato tra Serbia e Ungheria (che il governo di Budapest ha appaltato anche a una ditta italiana) procede spedita, con qualche critica da Bruxelles che tuttavia non produce alcun effetto. Il commissario europeo alle Migrazioni, Dimitris Avramopoulos, ha ricordato come l’EU abbia cercato di concordare atteggiamenti “ragionevoli” con Budapest offrendo in cambio di maggior umanità (distinguere i richiedenti asilo dagli immigranti) 85 milioni di euro per fronteggiare la crisi. Ma il “fronteggiare” non dovrebbe implicare bloccare chi fugge da guerre e violenza. Sennonché, l’UE non ha nulla da dire sui confini nazionali degli stati membri e delle loro politiche di immigrazione perché, occorre ricordarlo, è la sovranità dello Stato che viene messa a dormire con la moneta e la Corte europea dei diritti, non la sovranità della Nazione o la difesa del suolo, delle tradizioni e delle istituzioni dei rispettivi popoli (la riforma autoritaria della costituzione ungherese è avvenuta senza che Bruxelles potesse fare nulla). Sui confini blindati prende forma l’Europa nazionalista del nuovo millennio.

Ha scritto Ilvo Diamanti su questo giornale che la strategia della polemica e la retorica della paura danno forza alla Lega di Matteo Salvini, perché assecondano la facile inferenza immigrazione-invasione, coltivata da anni (il governo Berlusconi ha mietuto consensi con le politiche anti-immigrazione) e che ha ingrossato l’ideologia xenofoba. La strategia polemica di Salvini sfida direttamente le due più rappresentative organizzazioni internazionali e consmopolite: la Chiesa cattolica e l’ONU. In questo modo si posiziona ideologicamente contro l’etica universalista della dignità e dei diritti umani (bollata come ipocrita) e a favore di una lettura delle libertà e delle tradizioni europee che é fortemente localistica ed esclusionaria. Al linguaggio della norma la Lega oppone quello del possesso, rivendicando contro i pastori della religione e del diritto il bene primario della “nostra” terra, dei “nostri” diritti, del “nostro” benessere. Un universalismo per gli identici in qualcosa – similmente a quello coniato dai fondatori del pensiero reazionario moderno, quando attaccarono non i diritti di cittadinanza ma il loro universalismo proclamato dalla Rivoluzione francese (allora gli Ebrei erano gli estranei da escludere). La nuova destra – di Salvini come di altri leader di partiti di destra estrema del Nord e dell’Est Europa – si riappropria di questa ideologia. Si erge a movimento autenticamente europeista, difensore della “nostra” civiltà contro chi la contamina.

Il paradosso del quale é oggi urgente occuparsi e preoccupasi é dunque questo: da anti-europei che erano, i movimenti e le ideologie dei partiti di estrema destra sono diventati i più radicali europeisti. L’Europa che difendono (difendendo le frontiere dei loro paesi con le quali spesso quelle del continente coincidono) é esattamente opposta a quella della tradizione universalista e cosmopolita sulla quale l’Unione europea é nata. Ci può essere un euronazionalismo che traduce in chiave continentale quella cultura comunitaria e proprietaria che ha caratterizzato l’ideologia reazionaria dal tempo della Rivoluzione francese. Allora, la reazione contro l’universalismo dei diritti e l’ideale cosmopolita di cooperazione tra i popoli veniva fatta nel nome delle nazioni e le loro ataviche tradizioni, delle identità linguistiche e dei costumi morali e religiosi dei singoli paesi. Edmund Burke diceva in polemica con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino di non aver mai incontrato “uomini” ma solo tedeschi, francesi, inglesi e italiani. Per la nuova destra, l’europeo si appresta a diventare l’alternativa all’uomo in generale.

L’Europa unita nel nome del filo spinato é l’immagine che i nuovi reazionari stanno edificando. Non più italiani o francesi o ungheresi contro Bruxelles, dunque, ma tutti loro contro quella che essi rappresentano come un’espropriazione dell’Europa da parte dei migranti, con l’avvallo dalla cultura europea dei diritti, laica e religiosa. Alla quale questa Europa nazionalista dovrebbe opporre una politica sistematica di espulsione di tutti coloro che non sono cittadini. L’Europa di destra contro l’Europa che avevano proposto Spinelli e Schumann: é questa oggi la sfida culturale e politica più radicale. Destra e sinistra passano di qui, da due visioni di Europa e di cittadinanza, due visioni del diritto, due visioni dello spazio politico continentale: una che é consapevole delle difficoltà che l’immigrazione pone al modello occidentale di vita e che tuttavia non rinuncia a cercare soluzioni (in Europa e nei paesi d’origine dei migranti) che siano coerenti con i principi del diritto e di quella che Habermas ha chiamato cultura democratica cosmopolita; e un’altra che adatta al continente il nazionalismo xenofobo praticato da generazioni nei singoli paesi.

Tale papa Bergoglio tale cardinale Galantino. Parole sante sulla politica d'oggi, e tutto l'arco costituzionale s'arrabbia. La cronaca di Silvio Buzzanca. e un commento di Francesco Bei e Paolo Rodari. La Repubblica, 19 agosto 2015



GALANTINO ACCUSA TUTTI
“POLITICAHAREM DI FURBI
I POPULISMI UN CRIMINE”

di Silvio Buzzanca
Il segretario Cei: voglio evitare di esasperare il clima Ma poi la relazione su De Gasperi scatena la bufera

Monsignor Nunzio Galantino ha pensato, soppesato, valutato, e alla fine, per evitare nuove polemiche con il mondo politico, ha deciso di disertare l’appuntamento trentino di Pieve Tesino. Doveva tenere una lectio magistralis su Alcide De Gasperi, ma il segretario della Cei ha optato per il passo indietro.

Ha spiegato agli organizzatori di volere evitare «con la mia sola presenza, di contribuire a rafforzare polemiche o anche semplicemente di allontanare il momento del rasserenamento di un clima invano esasperato». Così ha deciso di affidare l’intervento che aveva preparato alla lettura del professore Giuseppe Tognon. Ma quando in sala si è ascoltato il passo dove monsigno Galantino scrive che politica di De Gasperi «non è quella che siamo stati abituati a vedere oggi, vale a dire un puzzle di ambizioni personali all’interno di un piccolo harem di cooptati e di furbi», la strategia della distensione è andata in frantumi. Ancor di più quando il prelato ha spiegato che «il popolo da solo sbanda e i populismi sono un crimine di lesa maestà di pochi capi spregiudicati nei confronti di un popolo che freme e che chiede di essere portato a comprendere meglio la complessità dei passaggi della storia».

Il vivace eurodeputato leghista Gianluca Buonanno commenta subito che «alla fine Galantino si pone come il Giuda degli anni 2000. Un traditore dell’Italia». Ma naturalmente la reazione politicamente più pesante è quella di Matteo Salvini, il politico con cui il segretario della Cei ha incrociato i guantoni negli ultimi giorni. «Non so da quale uovo di Pasqua sia uscito Galantino», dice il leader della Lega. E a chi gli chiede se il vescovo sia l’interprete della linea di Papa Francesco, Salvini risponde: «Galantino ha sproloquiato, non mettiamo sullo stesso piano la cioccolata con qualcos’altro». Salvini affonda i colpi. «Non è un problema Salvini contro i vescovi, è un problema di questo Galantino e pochi altri che sono più a sinistra di Rifondazione comunista. Non ce l’ho con la Chiesa. Ce l’ho con due o tre vescovi che dovrebbero andare in giro con la bandiera rossa, invece che mettere la tonaca».
Salvini incassa l’appoggio di Daniela Santanchè: «In quanto a cooptati, harem e furbi, evidentemente Galantino in quanto capo dei vescovi se ne intende assai», dice la deputata forzista. Ma questa volta prende le distanza da Galantino anche Fabrizio Cicchitto che nei giorni scorsi lo aveva difeso. «Non possiamo fare a meno di marcare il nostro dissenso. Ci aspettiamo da Galantino analisi più serie, culturalmente più fondate, e più capaci di comprendere la realtà nella sua complessità e nelle sue contraddizioni e non battute a effetto» dice il deputato del Nuovo centrodestra.

IL PRELATO CHE SPIAZZA LE SACRESTIEE IL PALAZZO
PD:INGIUSTO CON NOI
di Francesco Bei e Paolo Rodari

Galantino ha scelto da solo, convinto di essere in pieno nella linea di papa Francesco Palazzo Chigi colpito da giudizi ritenuti “ingenerosi”. “Gli anticorpi ora ci sono”

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Francesco gli uomini di Chiesa li vuole così. Capaci di parlare chiaro e comprensibile, e soprattutto che sappiano stare lontani dai giochi della politica. E fa niente se possono creare sconcerto anche dentro la stessa Chiesa, provocando non poca irritazione nel governo e tra i renziani. «È il Vangelo – dice un uomo di curia vicino al Papa – che esige che le carte vengano sempre sparigliate. Il Vangelo, del resto, sta sempre all’opposizione mai col potere». Per questo ieri, la rinuncia del plenipotenziario di Francesco in Cei, il segretario generale Nunzio Galantino, a pronunciare personalmente la lectio degasperiana a Trento, non ha significato un arretramento sui contenuti. La Chiesa italiana, dopo anni di ammiccamenti coi governi di turno, non fa cordate, non promuove sottobanco accordi con nessuno, semplicemente dice quello che pensa. In questo caso, parole di fuoco per la classe politica tout court: «Un piccolo harem di cooptati e di furbi».

Galantino ha maturato la scelta di non presentarsi a Trento da solo. Non ha chiesto il placet del Vaticano e nemmeno della presidenza della Cei. E l’ha fatto proprio per essere fedele alla linea del Papa. Dal suo punto di vista, infatti, se fosse andato a Trento non si sarebbe potuto sottrarre alle domande dei media presenti e il contenuto di una lectio studiata a tavolino da giorni avrebbe corso il rischio di passare in secondo piano. Il messaggio è chiaro: per la Cei la politica, tutta la politica, non ha a cuore gli interessi del popolo, ma soltanto i propri. Una condotta che deve avere una fine.

Certo, a parlare in questo modo c’è il rischio di farsi non pochi nemici. Ma così fu anche per De Gasperi, indicato ieri da Galantino come un «modello» da seguire. Patì l’incomprensione di Pio XII che, nel 1952, non capì l’opposizione netta dello statista all’idea di don Luigi Sturzo di un’ampia alleanza elettorale che coinvolgesse, oltre ai quattro partiti governativi, anche il Movimento Sociale Italiano e il Partito Nazionale Monarchico. Soffrì per l’ostracismo pontificio, ma rimase fermo sulle sue idee.

Così anche Galantino, che ha dichiarato di aver maturato la rinuncia proprio leggendo gli scritti autobiografici di De Gasperi, e che preferisce correre il rischio di essere criticato anche dentro la Chiesa da gerarchie abituate a rapporti più paludati e di compromesso, piuttosto che rinunciare a dire con franchezza ciò che pensa: «Se con parole forti ho potuto urtare la sensibilità di qualcuno, l’ho fatto per un’istanza che continuo a credere esclusivamente evangelica », ha detto nella nota con cui comunicava la decisione di non andare a Trento. Ma le incomprensioni che vive Galantino sono le medesime che vive Francesco. Anch’egli è accusato di avere desacralizzato il papato, parlando troppo come un parroco di campagna, usando uno stile oltremodo vicino al popolo, un Papa «della prossimità ». Eppure questa è la sua strada.

La bomba sganciata ieri da Galantino ha comunque prodotto scosse che sono arrivate fino a Roma. Anche se Renzi ha impartito ordine di non replicare, preferendo mantenere il governo fuori dalla polemica, il malumore nel Pd è palpabile per un giudizio considerato «ingeneroso » e soprattutto espresso in maniera grossolana, senza fare distinzioni.

«Ognuno risponde con la propria condotta - sostiene Giorgio Tonini, cattolico dem - e per noi parlano le tante cose fatte per contrastare la corruzione, soprattutto quella politica. Gli anticorpi adesso ci sono e sparare un giudizio morale su tutti non aiuta la politica a individuare gli obiettivi giusti». Quanto al paragone tra i politici di oggi e lo statista trentino, avanzato dal monsignore in chiave spregiativa, Tonini ricorda che «anche De Gasperi fu oggetto di polemiche moraliste da parte del Pci, che lo accusava di essere a capo di un partito di “forchettoni”. Pe i comunisti di allora il “furbetto” era lui». Davide Ermini, responsabile giustizia del Nazareno, dà voce all’irritazione dei renziani: «A Galantino si potrebbe rispondere che se in politica abbiamo avuto i De Gasperi e i Galan, anche nella Chiesa c’erano i don Milani e i Marcinkus. Generalizzare è sempre sbagliato».

Risposta a Sergio Staino. «Dobbiamo occuparci soprattutto della parte principale del problema: quella che si chiama Matteo Renzi. Perché questa Sinistra Dem ci stia "scassando i coglioni", come scrivi tu: ma Renzi e il suo governo ci stanno scassando il Paese». La Repubblica, blog "Articolo 9",15 agosto 2015

Carissimo Sergio,

anche io sono stato profondamente colpito dalla tua lettera a Gianni Cuperlo. Ci ho letto tutto il tuo amore per la Sinistra, e ho riconosciuto la tua profonda onestà: cioè la forza – più unica che rara, in questo Paese piagato dal conformismo più opportunista – di non distinguere tra discorso privato e discorso pubblico, tra lettere riservate e pagine dei giornali: di parlare, insomma, senza lingua biforcuta. E ho apprezzato fino in fondo una parte della tua durissima critica alla Sinistra del Partito Democratico: quella in cui hai messo in evidenza la sua radicale incapacità di costruire una proposta alternativa credibile, sia attraverso una lotta parlamentare tenace e produttiva (da ultimo proprio nel caso clamoroso del cda della Rai) , sia – soprattutto – attraverso la produzione e la condivisione di prospettive, programmi, politiche davvero di Sinistra e davvero attuabili (e, anche qua sono d'accordo con te: è stata assurda la rinuncia di Cuperlo a dirigere l'Unità, anche perché quella di De Angelis è davvero allucinante, nonostante tutti i tuoi generosi sforzi). Hai ragione, non c'è dubbio: una parte del nostro problema è che la minoranza del Pd è una compagnia in cui tutti recitano solo il ruolo di Amleto – e lo fanno anche in modo intollerabilmente mediocre.

Ma, Sergio caro, io credo che dobbiamo occuparci soprattutto della parte principale del problema: quella che si chiama Matteo Renzi. Perché è possibile – anzi è sicuro – che questa Sinistra Dem ci stia «scassando i coglioni», come scrivi tu: ma Renzi e il suo governo ci stanno scassando il Paese. E questo – permettimi – è un po' più importante. Tu scrivi che «un sano atteggiamento riformista deve quindi, oggi, partire da questa constatazione: il lavoro fatto fino a ieri dai nostri dirigenti ha portato Renzi alla segreteria del partito e al governo e quindi, fino a prova contraria, non esistendo altre forze alternative di sinistra, Renzi è quanto di più progressista si possa avere in Italia in questo momento storico». Ebbene, non potrei essere meno d'accordo con te.

Matteo Renzi non è un frutto dell'albero del riformismo, tantomeno di quello della Sinistra. Non lo è per storia personale, non lo è culturalmente, non lo è politicamente. Questo frutto non ci sarebbe mai stato senza l'innesto (irresponsabile, per i modi in cui è stato fatto) tra eredità comunista ed eredità democristiana. Te lo dico da cattolico: Renzi appartiene a quella parte del retaggio democristiano che era lontanissimo – e anzi radicalmente altro, e naturaliter alternativo – da una qualunque Sinistra, seppur intesa nella più larga e diluita delle accezioni. Quando Renzi ha detto che per lui «la bandiera rossa è il simbolo della Ferrari, non un riferimento storico» ha detto la verità.

E, soprattutto, Renzi non sarebbe mai arrivato alla segreteria del Pd se non si fosse ad un certo punto deciso (caso unico al mondo) di far scegliere il capo di un partito da coloro che non sono iscritti a quel Partito. Questa opa ostile, questa scalata dall'esterno sono state rese possibili dall'aver affidato «all'elettore indistinto, cioè all'avversario o al curioso che si avvicina al gazebo, il compito di eleggere il segretario di un partito: il che pare un gesto di follia che concede al denaro e ai media le chiavi del partito stesso».

Sono, queste ultime, parole del filosofo della politica Michele Prospero: e ti consiglio di leggere il suo ultimo libro, da cui sono tratte (Il nuovismo realizzato. L'antipolitica dalla Bolognina alla Leopolda, Roma, edizioni Bordeaux, 2015). Eccone un altro passo: «le primarie aperte sono state l'istituzionalizzazione di un non partito, in cui i padroni dei media orientano le aspettative verso presunti annunci profetici di eroi della provincia promossi quali titolari della sacra leadership ... In un partito normale la sovranità spetta agli iscritti, agli aderenti e non all'elettore generico senza alcuna traccia di appartenenza». È stata questa, caro Sergio, la «magia» attraverso cui Renzi si è impadronito del Pd. E Renzi ha scelto il Pd come obiettivo della sua ambiziosissima corsa personale, nello stesso modo in cui si sceglie un dessert su un menu: perché era il più contendibile. Ma lui (cresciuto sulle ginocchia di Verdini, e intimamente post-democratico) potrebbe guidare indifferentemente la Destra o i Cinque Stelle: proprio come un moderno capitano di ventura, e senza dover cambiare nemmeno il 5 per cento di ciò che dice.

Ti confesso che – proprio da cattolico – mi lascia comunque perplesso la tua visione un po' clericale per cui «extra Pd non est salus», e per cui si deve comunque obbedienza al segretario-papa: quando il papa è dichiaratamente ateo, ed è stato eletto da fedeli di altre religioni concorrenti, che senso hanno la mistica della fedeltà, e quella dell'ortodossia?

Ma Renzi non è solo il papa ateo del Pd, è anche il capo del Governo. E come si può non vedere che l'azione di questo governo è da un lato drammaticamente inadeguata, a tratti perfino imbarazzante, e dall'altra porta avanti un programma diametralmente opposto a quello di una qualunque Sinistra? Le riforme istituzionali vanno in direzione di una svolta autoritaria (ha ragione Eugenio Scalfari, ha torto Giorgio Napolitano). La legge elettorale è tanto pericolosa e irresponsabile da essersi fermata quando i sondaggi hanno cominciato a far capire che avrebbe potuto giovare non al Pd, ma a Salvini o a Grillo. La riforma del lavoro diminuisce drasticamente i diritti: in cambio di nulla. Sullo Sblocca Italia, caro Sergio, abbiamo scritto insieme un libro per dire che «è una minaccia per il futuro e per la democrazia». La Legge Madia rischia di far sparire le soprintendenze, sacrificando il territorio ad altre colate di affari e cemento. La buonascuola è una delle riforme più odiose che siano state perpetrate: la mazzata finale alla scuola pubblica. La politica fiscale è l'ennesimo bomba-libera-tutti. Sulla tragedia dell'immigrazione il governo è 'non pervenuto': come dice il segretario della Cei nominato da papa Francesco. Insomma, nemmeno sotto Berlusconi il progetto della Costituzione è stato tanto calpestato e disprezzato: perché allora non c'era un progetto politico, si perseguiva 'solo' un mostruoso interesse personale.

Non sono un complottista, e non so dirti se Renzi sia «il rappresentante di una feroce destra neoliberista totalmente asservita al capitale finanziario». So, però, che nel giugno del 2013 un documento della Banca d'affari americana JP Morgan affermava che «i sistemi politici della periferia meridionale (dell’Europa) sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell'esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici e costituzionali del sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche». Ecco, l'azione del governo Renzi non è l'avvio, ma certo rappresenta il culmine, di un'azione politica volta a eliminare radicalmente tutti questi 'ostacoli': peso del parlamento, garanzie costituzionali, diritto di protestare. Se il programma della Sinistra si identifica – come credo profondamente ­– con quello dell'articolo 3 della Costituzione italiana (e cioè con la costruzione dell'eguaglianza sostanziale, per il pieno sviluppo della persona umana), allora bisogna riconoscere che Renzi non rappresenta uno scarto nella rotta, ma un dirottatore dell'aereo.

È per questo che credo sia radicalmente sbagliato affermare che «Renzi è quanto di più progressista si possa avere in Italia in questo momento storico». Dire una cosa del genere mi pare equivalga a ripetere il mantra del TINA (There Is No Alternative): il motto dell'età di Reagan e della Thatcher, e poi di Blair, modello esplicito di Renzi. E invece chi (come me) studia e insegna, e chi (come te) fa satira e disegna dovrebbe dire che c'è sempre un'alternativa: anzi, questa consapevolezza è l'essenza stessa del pensiero critico. E, vedi, a leggerti mi è venuto in mente un passo struggente dei Diari di Piero Calamandrei. Siamo nel 1939, e Calamandrei non si dà pace che i «giovani» (suo figlio Franco e i suoi amici) pensino che «la storia è composta di fatti e non idee, e se Mussolini è riuscito a diventar dittatore, vuol dire che Mussolini è una realtà e che le idee impotenti degli oppositori sono un'irrealtà: per ora, finché c'è questa realtà, il migliore regime è questo, perché si regge. Rinunciano dunque a giudicarlo, a darne una valutazione morale: se noi non facciamo nulla per rovesciarlo, vuol dire che storicamente esso corrisponde alle necessitò del presente che ce lo fa accettare».
Ora, caro Sergio, non te lo cito per dirti che Renzi assomiglia a Mussolini: ma per dirti invece che gli italiani sono sempre stati pronti a giudicare necessario, inevitabile, senza alternative il potere del momento. Ma il fatto che un regime si regga non vuole affatto dire che sia il migliore possibile: e chi ancora pensa ha il dovere di gridarlo sui tetti.

E dunque, per non farla troppo lunga, sono d'accordo con te sul fatto che l'immobilismo grottesco della Sinistra Pd sia penoso e pericoloso. Quella sinistra dovrebbe lottare con ogni mezzo moralmente lecito per espellere il dirottatore: o, se questo fosse impossibile, dovrebbe rassegnarsi ad andarsene. L'unica cosa che non può fare è stare immobile come il Romano Prodi di Corrado Guzzanti. Per questo ammiro chi, come Pippo Civati, ha anteposto la propria coerenza alla propria convenienza, e sta provando (per esempio attraverso una serie di referendum importanti) a ricostruire la Sinistra dal basso, contendendo consenso ai Cinque Stelle, e cercando di fare qualcosa per riportare alla vita politica la metà degli Italiani che non ne vuole più sapere (già: perché il consenso 'plebiscitario' di Renzi alle Europee, cioè alle uniche vere elezioni nazionali che abbia vinto, era del 41% del 50% che aveva votato: non dimentichiamocelo).

Può bastare il lavoro di Civati? Certo che no: ma è un inizio. E – come diceva Gianni Rodari – «chi non parte, in verità / in nessun luogo arriverà». C'è un bisogno disperato di partire, se vogliamo che, a sinistra di questo povero Pd dirottato, nasca una vera Sinistra di popolo che non sia «la solita infima minoranza che gira le assemblee». Io credo che anche Bobo, sempre così lontano da ogni ortodossia e da ogni potere, potrebbe dare una bella mano, se volesse.
Un abbraccio affettuoso,
Tomaso

E' sempre più chiaro: non si supera il ferreo neoliberismo europeo di Merkel e dei suoi alleati o succubi se ci si affida a un solo paese. L'impegno non deve essere volto a criticare Tsipras perchè non ha voluto salvare i greci dalla catastrofe ,ma a far sì che si sveglino anche gli sfruttati degli altri paesi.

La Repubblica, 16 agosto 2015

«Il piano approvato con tanta fanfara è una vergogna per l’Europa e per l’intera comunità internazionale ». L’irritazione di James Galbraith, economista dell’università del Texas, supera ogni immaginazione. «Leggete il documento approvato. E’ una menzogna fin dalla prima riga: “La Grecia – c’è scritto – ha chiesto aiuto ai suoi partner europei per risolvere i suoi problemi“. Niente di più falso. La Grecia è stata ricattata, spinta alla disperazione e poi costretta ad approvare un piano del genere, che va contro il volere del suo popolo espresso col referendum».

Professore, non le sembrano un po’ forti, per usare un eufemismo, questi giudizi?
«Macché. Lo scopo, quasi dichiarato, della Germania e del potere costituito in Europa, era dimostrare che non c’è alternativa alla linea politico- economica prevalente, e che nessun Paese si può permettere di deviare perché viene schiacciato. Era sbarazzarsi di Syriza, e forse ci sono riusciti. Ma, la prego, continui a scorrere con me il documento...».

Andiamo avanti, allora.
«Stiamo sempre sulle prime righe. C’è scritto che l’accordo servirà per ritrovare la crescita, per creare posti di lavoro, per ridurre le disuguaglianze e scongiurare i pericolo di instabilità finanziaria. Sono sconcertato. I risultati saranno esattamente l’opposto. Rilegga punto per punto e s’immagini il risultato opposto. La crescita sarà abbattuta, il lavoro diminuirà, le diseguaglianze si accentueranno, eccetera ».

Però come negare che l’instabilità della Grecia costituisca un problema?
«Ma certo. Però il modo per risolverlo era tutt’altro. Lo sanno tutti: andava finanziato un grande piano di investimenti in Grecia senza inseguire una solidità fiscale che comunque era perduta, solo allora si poteva pensare alla crescita. Ora tutto diventa più difficile. Ma l’ha letto il paragrafo successivo?

Ancora?
«Legga con me. Il successo del piano richiederà “ ownership” delle misure da parte del governo greco. Vuol dire che Atene sarà padrona delle sue azioni e le deciderà liberamente. “Il governo perciò è pronto a prendere tutte le misure che riterrà opportune a seconda delle circostanze”. Quale menzogna. Per colmo d’ironia poche righe più sotto c’è scritto: “Il governo si impegna a consultarsi e concordare con l’Ue, l’Fmi e la Bce tutte le azioni rilevanti”. Eccola qui, la verità: a comandare sarà la Troika».

Perché Tsipras ha accettato?
«Perché non aveva scelta. Voleva tenere la Grecia nell’euro ma era ricattato dalla Bce che minacciava di confiscare tutti i risparmi bancari e lasciare il Paese sul lastrico».

(e.occ.)

«Regno Unito. Fine dei sonni tranquilli per l’establishment finanziario, per i centristi e per il "blairismo". L’outsider propone tasse ai ricchi, opere pubbliche finanziate dallo stato e una rivoluzione delle alleanze in politica estera». Il manifesto, 15 agosto 2015

Si chiama Jeremy pro­prio come Clark­son, la con­tro­versa cele­brità tele­vi­siva, ma le simi­li­tu­dini per for­tuna fini­scono qui. Poli­ti­ca­mente, somi­glia assai di più a Ken Living­stone, l’ex sin­daco di Lon­dra e anche lui famosa spina del fianco del par­tito labu­ri­sta: una mina vagante a sini­stra con grosso seguito per­so­nale, e quindi imba­razzo per la mag­gio­ranza centrista.

Depu­tato al par­la­mento nella cir­co­scri­zione lon­di­nese di Isling­ton North, entrato quasi con­tro­vo­glia nella rosa dei can­di­dati al posto di un altro tanto per far vedere che il par­tito era plu­ra­li­sta, Cor­byn pre­senta peri­co­lose ete­ro­dos­sie (a parte natu­ral­mente il socia­li­smo): dal repub­bli­ca­ne­simo, che dalla mag­gio­ranza paese è ancora visto come com­mo­vente e vel­lei­ta­rio, al più grave rifiuto di con­dan­nare l’Ira, visto come un gesto chia­ra­mente antinazionale.

Eppure que­ste pri­ma­rie per la lea­der­ship del par­tito labu­ri­sta che, aper­tesi venerdì, chiu­de­ranno il 10 set­tem­bre con lo spo­glio due giorni dopo, Jeremy Cor­byn rischia di vin­cerle davvero.

Almeno stando ai son­dag­gi­sti di You­Gov, che pre­ve­dono per lui una vit­to­ria del 53% addi­rit­tura al primo turno. Già il mese scorso, l’outsider Cor­byn godeva di ben 17 punti di van­tag­gio sul suo rivale, Andy Bur­n­ham, ex-ministro del tesoro nel governo di Gor­don Brown e attual­mente mini­stro ombra alla sanità. Ora ci si aspetta un suo trionfo.

Sin dalla disa­strosa scon­fitta del mag­gio scorso, il par­tito vagola in un caos calmo d’indeterminatezza. Gli altri tre can­di­dati cen­tri­sti — Liz Ken­dall, Andy Bur­n­ham e Yvette Coo­per — bizan­ti­neg­giano su linee alter­na­tive alla tre­me­bonda pro­pen­sione a sini­stra di Ed Mili­band che sono vir­tual­mente indi­stin­gui­bili. Ed è pro­prio la cre­scente insof­fe­renza della base per la per­ce­pita vacuità delle loro argo­men­ta­zioni, dif­fusa e ampli­fi­cata attra­verso i net­work sociali, ad aver inne­scato un con­senso a sla­vina per Cor­byn, i cui comizi e incon­tri con l’elettorato ormai lasciano pun­tual­mente cen­ti­naia di per­sone fuori per la capienza limi­tata degli spazi a disposizione.

È dun­que un ter­re­moto che sta scuo­tendo le fon­da­menta labu­ri­ste e man­dando un bri­vido gelido lungo molte schiene. Prima fra tutte quella del con­vi­tato di pie­tra Tony Blair, dalla repu­ta­zione a bran­delli eppure — gra­zie alla for­mi­da­bile tri­pletta di vit­to­rie che con­dus­sero alla più lunga per­ma­nenza Labour al timone del paese — con­si­de­rato da molti ancora un faro di realpolitik.

Sup­por­tato da dichia­ra­zioni altret­tanto cupe del suo fami­ge­rato ex spin doc­tor Ala­stair Cam­p­bell, Blair ha scelto le colonne del Guar­dian per lan­ciare un duro e acco­rato monito a diri­genti, iscritti e atti­vi­sti per­ché non seguano Cor­byn in quello che defi­ni­sce un vero e pro­prio rischio di estin­zione del par­tito. «Anche se mi odiate, vi prego di non votare per Cor­byn» ha scritto Tony nel suo appello gron­dante panico.

Gli ha fatto eco Yvette Coo­per rom­pendo un silen­zio dei can­di­dati cen­tri­sti sul feno­meno Cor­byn, man­te­nuto finora per timore di un’escalation delle divi­sioni interne. «Jeremy pro­pone solu­zioni vec­chie a pro­blemi vec­chi», ha detto Coo­per che, al pari di Blair non si cura del pos­si­bile effetto boo­me­rang di simili attacchi.

Que­sto Cin­cin­nato socia­li­sta di vec­chia scuola sta dun­que togliendo il sonno all’establishment eco­no­mico finan­zia­rio. Potrebbe can­cel­larne la finora idil­liaca fre­quen­ta­zione con i ver­tici del par­tito, dovuta alla sapiente tes­si­tura di Blair il quale, coa­diu­vato da Gor­don Brown e Peter Man­del­son, ne comin­ciava entu­sia­sti­ca­mente a fre­quen­tare i pan­fili negli anni Novanta. Quando lui, Jeremy, al mas­simo fre­quen­tava il salotto di Tony Benn, di cui era gio­vane seguace negli anni in cui il grande vec­chio della sini­stra Labour fal­liva la pro­pria sca­lata alla leadership.

Ma è lo «spo­sta­mento fon­da­men­tale» in poli­tica eco­no­mica da lui pro­pu­gnato l’incubo per l’ortodossia neo­li­be­ri­sta: che potrebbe addi­rit­tura por­tare al ripu­dio dell’emblematica clau­sola IV che impe­gnava il par­tito alla nazio­na­liz­za­zione dell’industria, quella di cui Blair si liberò pre­ci­pi­to­sa­mente vent’anni fa onde ren­dere il par­tito «eleg­gi­bile» e «di governo». E che lo vin­cola a rea­liz­zare dav­vero la pro­prietà comune dei mezzi di produzione.

Posi­zioni di sini­stra socia­li­sta clas­sica non dis­si­mili da quelle del par­tito por­tato al potere nel 1945 da Cle­ment Attlee: fine dell’austerity, più tasse ai ric­chi, più cor­po­ra­tion tax, pro­te­zione dello stato sociale, un giro di vite sull’evasione fiscale e soprat­tutto una ven­tata di opere pub­bli­che finan­ziate con denaro stam­pato dalla Banca d’Inghilterra ribat­tez­zato «quan­ti­ta­tive easing popolare».

Resta il pro­po­sito di ridurre il defi­cit, ma a un ritmo dal volto umano, e non attra­verso tagli selvaggi.

Ancora più ambi­ziose le scelte in poli­tica estera. Le sue posi­zioni su Putin, con­si­de­rate esa­ge­ra­ta­mente soft, gli hanno imme­dia­ta­mente attratto le accuse di essere l’utile idiota del grande orso russo; in medio oriente rac­co­manda un dia­logo equi­li­brato tra le parti; ces­se­reb­bero gli attac­chi aerei all’Isis e in Siria e le posture muscolar-militari di cui la Gran Bre­ta­gna è stata assi­dua pra­ti­cante sin dal dopo­guerra, qua­lun­que fosse la mag­gio­ranza al governo.

La pub­blica istru­zione tor­ne­rebbe dav­vero pub­blica: via le «free schools» e le aca­de­mies; sal­te­reb­bero le asfis­sianti tasse uni­ver­si­ta­rie e le scuole pri­vate per­de­reb­bero i pro­pri finan­zia­menti pri­vi­le­giati. Il diritto alla casa sarebbe difeso cal­mie­rando i prezzi del mer­cato immo­bi­liare lon­di­nese, in per­pe­tua levi­ta­zione fino al pros­simo crash.

Tutte misure che improv­vi­sa­mente si vedono resti­tuire lo sta­tus di pos­si­bi­lità dopo essere state a lungo rele­gate a dibat­titi sull’archeologia delle idee. E pro­prio per que­sto enor­me­mente destabilizzanti.

Tanto che, com­plice un mec­ca­ni­smo elet­tivo che per­mette teo­ri­ca­mente a chiun­que di iscri­versi al voto (nelle ultime 24 ore prima della chiu­sura ci sono state ben 160.000 domande d’iscrizione ) si è tor­nato a par­lare di entri­smo, la stra­te­gia di infil­tra­zione del Labour party da parte di frange radi­cali trotz­ki­ste a cavallo fra gli anni Set­tanta e Ottanta. Insomma, che anche il rischio scis­sione sia pal­pa­bile è suf­fra­gato dalle voci di un putsch per esau­to­rare Cor­byn. E sem­pre venerdì il Guar­dian si è pro­dotto in un endor­se­ment a Yvette Coo­per entu­sia­smante come solo quelli scritti sotto la minac­cia delle armi sanno essere.

«Il manifesto, 14 agosto 2015)

Mentre le miopi e ingorde elite europee si accaniscono contro la pagliuzza greca, la trave cinese è penetrata nell’occhio della finanza mondiale. Due svalutazioni dello yuan stanno mettendo in fibrillazione il mondo intero e le Borse vanno in picchiata. Solo l’Europa “brucia” circa 230 miliardi nello spazio di un mattino. Praticamente i due terzi dell’intero debito greco. E non è finita.

Indubbiamente la mossa della Banca centrale cinese si iscrive nel capitolo delle “svalutazioni competitive”, come giustamente ha qui scritto Pieranni. Pechino doveva reagire in qualche modo al crollo del proprio export che a Luglio ha maturato una flessione dell’8%. D’altro canto il tentativo di svoltare nelle politiche economiche, puntando sulla valorizzazione e il potenziamento del mercato interno, era ed è obiettivo troppo ambizioso per potersi realizzare in breve tempo. Ma da qui a dire che è fallito, ce ne corre. Almeno per il momento ed in base ai dati disponibili. Alcuni commenti letti in queste ore peccano di una evidente sottovalutazione delle capacità proteiformi del capitalismo, di quello cinese in particolare. Troppo presto per suonare le campane a morto, anche se lo si vorrebbe.

La mossa cinese ha più motivazioni. C’è innanzitutto un fatto in controtendenza al quadro mondiale che va messo in evidenza. In Cina si è venuta realizzando negli ultimi anni una crescita dei salari medi, come ha registrato anche la stampa economica mainstream. Niente di eccezionale, visto che partivano da livelli molto bassi. Ma pur sempre un elemento significativo, soprattutto perché non deriva solo da una maggiore capacità nel prevenire e nel fronteggiare gli effetti della crisi mondiale da parte delle classi dirigenti cinesi rispetto a quelle di altri paesi – basta pensare alla Unione europea -, ma soprattutto da una presa di coscienza da parte delle classi lavoratrici cinesi nei settori manifatturieri. Ovvero la crescita dei salari e qualche miglioria nelle prestazioni lavorative è il frutto ancora acerbo, dell’incontro tra una rinascente lotta di classe in Cina e una qualche disponibilità ad allentare i cordoni delle borse – visti i margini esistenti – da parte delle classi dirigenti. In altre parole si aprono spazi di riformismo reale, che però la recente decisione della Bank of China rimette fortemente in discussione.

Infatti l’aumento delle retribuzioni è già sufficiente per intaccare la proverbiale competitività delle merci cinesi, ma non ancora in grado di fare da volano alla domanda interna, ovvero all’incremento dei consumi. La crisi mondiale impedisce che questa venga sostituita, senza interventi di tipo monetario, dalla domanda estera. Nello stesso tempo le previsioni sulla crescita quantitativa cinese non sono ottimali. Alcuni centri di analisi le stimano inferiori persino di parecchio a quelle ufficiali, tenendo conto dell’andamento dei consumi energetici e della stessa produzione industriale.

Lo stupore dei cinesi di fronte alle reazioni stizzite internazionali, ma non di tutti, non deriva solo dalla tradizionale astuta doppiezza orientale. Non hanno torto quando affermano che non hanno fatto altro che quello che il resto del mondo capitalistico chiedeva loro, ovvero aprirsi al mercato. L’obiettivo non è dunque una generica e confusa guerra valutaria – peraltro già in corso con altri mezzi– quanto quello di rispondere positivamente alle condizioni poste dallo stesso Fmi – che infatti ha gradito - per permettere allo yuan di affiancare le altre monete importanti nel paniere dei Diritti speciali di prelievo (SDR nell’acronimo inglese). Questo farebbe dello yuan una moneta di riserva globale. Il che la renderebbe più stabile e ridurrebbe il bisogno di detenere riserve massicce, liberalizzandone l’uso.

I primi a subire le conseguenze negative della decisione cinese sono i paesi del sud est asiatico, come il Vietnam (mai amato, come è noto, dai cinesi) che ha provveduto anch’esso ad allargare la banda di oscillazione della propria moneta per reggere la concorrenza internazionale. Anche qui la mossa cinese ha una logica tutt’altro che imprevedibile. Vuole rispondere al tentativo americano di stringerle attorno un cappio con il TPP, l’accordo commerciale con i paesi del Pacifico, che non a caso la esclude. La stessa massiccia immissione di liquidità (il quantitative easing) da parte della Fed ha reso ipercompetitivo il dollaro. Se di qualcosa ci saremmo dovuti stupire è che prima o poi non si manifestasse una reazione cinese.

Ma chi rischia veramente grosso è come al solito la nostra Europa. Da un lato le merci cinesi diventeranno più competitive e probabilmente i cinesi spenderanno meno da noi. Il tutto potrebbe tramutarsi persino in un campanello d’allarme utile a smorzare i toni trionfalistici della Germania, molto interessata al mercato orientale, ma ci verrebbe un’altra politica a Berlino. La crisi sta cambiando gli assetti del mondo. Anche l’eterogenesi dei fini gioca il suo ruolo. The Times They Are a-Changin’, anche se in una direzione ben diversa da quella auspicata da Bob Dylan più di 50 anni fa.

Prima puntata di un viaggio lungo il confine che separa Ungheria, Serbia e Romania a pochi giorni dall’inizio della costruzione della barriera lunga 175 km con cui il governo Orbán intende fermare il flusso dei profughi. Per capire quanto è corta la memoria nella fortezza Europa.

Il manifesto, 12 agosto 2015

«Dove ci tro­viamo?» – chiede uno di loro.
«Sì, dove ci tro­viamo?» – insi­ste l’amico.
«Non sanno nean­che dove sono!» – esclama uno di noi, sor­preso.
«Io vengo dalla Siria, sono scap­pato dall’Isis».
«Io dall’Iraq, dal Kurdistan».

«Dove ci tro­viamo?», ripete ancora, più tardi, una ragazza afghana di dodici anni. È scap­pata dai tale­bani, ha lavo­rato un anno in Tur­chia con la madre, ora arri­vano insieme alle porte d’Europa. Nes­sun padre, almeno non qui e non ora.

Non sono in pochi a non sapere nem­meno come si chiama que­sto luogo. Siamo — noi e loro — alla sta­zione fer­ro­via­ria di Seghe­dino (Sze­gede), Unghe­ria, come alcuni hanno sco­perto gra­zie al GPS dei loro smart­phone, gli stessi tele­foni che sono ser­viti da guida per pas­sare alla cieca l’ultima fron­tiera, tra la Ser­bia e l’Ungheria. Con i sistemi di navi­ga­zione sono riu­sciti a loca­liz­zare le coor­di­nate tra­smesse dai traf­fi­canti in uno degli ultimi sms — segnali verso il futuro. E il futuro, che fino a que­sto punto è già costato cen­ti­naia o migliaia di euro, non è ancora qui, in que­sta sta­zione della peri­fe­ria euro­pea in cui tra­scor­riamo insieme le prime ore dell’alba.

Ma sap­piamo dav­vero dove ci tro­viamo, in que­sto sel­fie della “sto­ria del pre­sente”, men­tre una nuova cor­tina di ferro lunga 175 chi­lo­me­tri sem­bra poter nascere nel cuore d’Europa? Le 4 e 36 minuti: risuona l’altoparlante: «In par­tenza, dal bina­rio 1, treno con desti­na­zione…». «Dove ci tro­viamo, e dove stiamo andando?». «E noi?».

Il senso della vita ingabbiato

«Il senso della vita è sca­val­care fron­tiere», diceva il reporter-viaggiatore polacco Ryszard Kapu­scin­ski, frase che risuona ampli­fi­cata quando la fron­tiera con­verge su tre punti. Qui, dove Unghe­ria, Ser­bia e Roma­nia si toc­cano, al Tri­plex Con­fi­nium, sor­gerà l’estremità orien­tale della strut­tura di filo spi­nato, di tre o quat­tro metri d’altezza, la cui costru­zione è stata annun­ciata dalle auto­rità unghe­resi a fine pri­ma­vera 2015, come misura per arre­stare quella che minac­cia di diven­tare la più grande onda migra­to­ria verso l’Unione euro­pea degli ultimi quarant’anni. I due prin­ci­pali punti d’ingresso: l’Italia meri­dio­nale e – appunto — il sud dell’Ungheria, con Gre­cia o Bul­ga­ria, e poi Mace­do­nia e Ser­bia come paesi di transito.

Que­sto “Occi­dente Express” attra­verso i Bal­cani è già diven­tato la prin­ci­pale via d’accesso all’Unione euro­pea, ancor più movi­men­tata delle vie marit­time del Medi­ter­ra­neo fino alle spiagge di Lampedusa.

E per fer­mare i migranti, innal­zano reti: il trac­ciato pre­vi­sto dalle auto­rità di Buda­pest per la bar­riera si estende da qui, punto di par­tenza del nostro viag­gio, fino a un’altra fron­tiera tri­pla (tra Unghe­ria, Ser­bia e Croa­zia), a gomito su un brac­cio del Danu­bio, nostra desti­na­zione finale.

Alcuni lo chia­mano muro, altri dicono che è sol­tanto una «recin­zione»: e così viene defi­nita uffi­cial­mente. Non c’è ancora biso­gno di dar­gli un nome defi­ni­tivo, fin­ché nel pae­sag­gio l’orizzonte rimane ver­gine e lo sguardo sor­vola la pia­nura scon­fi­nata, come un’aquila che flut­tua sopra a una vec­chia e ormai abban­do­nata torre di con­trollo dell’esercito jugo­slavo. La gigan­te­sca torre resi­ste alla rug­gine del tempo, come sim­bolo archeo­lo­gico di un’antica frat­tura che non ha mai smesso di essere fron­tiera e che ora lo diven­terà ancora di più.

È stata la fron­tiera di Tito, ed è stata anche la fron­tiera di Kádár e di Mosca, e ora sarà la fron­tiera di Orbán. È stata la fron­tiera non alli­neata del socia­li­smo «dal volto umano» jugo­slavo e ora sarà la neo-frontiera del capi­ta­li­smo, anch’esso «dal volto umano», di un’Unione euro­pea che, più o meno imbel­let­tata, sta incor­po­rando i volti dei neo-nazionalismi che vin­cono alle urne da que­ste parti. Cama­leonti all’interno del pae­sag­gio reto­rico, gli «ismi» si toc­cano sem­pre, sfu­mano le fron­tiere, mor­dono la coda gli uni agli altri.

Uno sto­rico pic-nic paneuropeo

Aquile qui, che attra­ver­sano i cieli, gab­biani là nel Medi­ter­ra­neo sulla Sici­lia e su Lam­pe­dusa. Anche qui ci sono state isole un tempo, in un’altra era geo­lo­gica, prima dell’Uomo, quando tutto quest’infinito, ora verde come il mais, ora biondo come il grano, era il Mare di Pan­no­nia. Da un campo di gira­soli, una lepre salta all’improvviso davanti alla nostra auto. Nean­che un poli­ziotto, nean­che un rifu­giato, sol­tanto noi. «Qui si potrebbe fare un bel pic-nic!». A par­lare è stata Móni Bense, pro­fes­so­ressa uni­ver­si­ta­ria e tra­dut­trice, che è scesa da Buda­pest fino alla Terra Bassa per accom­pa­gnarmi in que­sto per­corso, men­tre io salivo da Bel­grado alla volta della Vojvodina.

La Terra Bassa unghe­rese e la Voj­vo­dina serba si mesco­lano, sia­mesi nella geo­gra­fia, sorelle su una mappa umana che la sto­ria ha tagliato varie volte. Anche se molto più pic­colo della torre di Tito, il segno della tri­pla fron­tiera è qui, in que­sto campo ster­mi­nato, e potrebbe fare da rendez-vous per il pic-nic che voleva fare Móni. Si sarebbe stesa la tova­glia lì… in piena terra di nes­suno. È in tavola per tutti, gou­lash per favore!

Lei non c’era, ma le sarebbe pia­ciuto par­te­ci­pare allo sto­rico pic-nic del 19 ago­sto 1989, vicino alla fron­tiera austro-ungarica tra Sankt Mar­ga­re­then im Bur­gen­land e Sopron­khida, a Sopron­puszta, dove unghe­resi e austriaci hanno orga­niz­zato l’incontro che il gior­nale fran­cese Le Monde ha defi­nito «il pic-nic che ha fatto oscil­lare la sto­ria». Il primo luogo, in tutta l’Europa, in cui qual­che set­ti­mana prima la cor­tina di ferro venne sim­bo­li­ca­mente can­cel­lata era lì vicino, ma in quel giorno d’estate, nel corso del «pic-nic paneu­ro­peo», cen­ti­naia di tede­schi dell’est (sareb­bero stati decine di migliaia nei mesi suc­ces­sivi) attra­ver­sa­rono il con­fine verso l’Austria, per poi rin­con­trarsi con le pro­prie fami­glie in quella che allora era la Ger­ma­nia Occidentale.

Non riu­scire più a ricordare

Il muro che era comin­ciato a cadere da quelle parti sarebbe crol­lato a Ber­lino sol­tanto tre mesi dopo, e con lui il resto del recinto di ferro che, in mezzo all’Europa, divi­deva il mondo. Móni allora era un’adolescente, e forse cre­sceva ridendo di Gusz­táv, il mitico car­tone ani­mato degli anni Ses­santa e Set­tanta, pro­dotto dal Pan­nó­nia Film­stú­dió, in pieno «comu­ni­smo gou­lash». Gusz­táv era vene­rato in Unghe­ria (ma anche fuori dalla Pan­no­nia, in Jugo­sla­via e non solo) dove c’è chi ha visto e rivi­sto all’infinito lo stesso epi­so­dio, cin­que o sei minuti ripe­tuti fino a sfi­nirsi dalle risate.

Ma su altri schermi, i ricordi sem­brano essere più sfu­mati: «La sto­ria si ripete così rapi­da­mente che la gene­ra­zione che ha vis­suto i suoi epi­sodi più tra­gici qui è ancora viva, ma pare non riu­scire più a ricor­dare», dice ras­se­gnata Móni, lamen­tan­dosi dell’amnesia par­ziale di molti suoi com­pa­trioti, imme­mori dell’eterno sta­tus di migranti e rifu­giati, se non di prima, di seconda o terza gene­ra­zione, che ha accom­pa­gnato il popolo unghe­rese ritor­nando indie­tro solo di un secolo, fino al trat­tato di pace di Trianon.

Forse una rilet­tura delle opere dello psi­ca­na­li­sta unghe­rese Sán­dor Ferenczi, con­tem­po­ra­neo di que­gli eventi, potrebbe aiu­tarci a capire come sia pos­si­bile iscri­vere un vuoto sui traumi vis­suti, un’apparente para­lisi del pen­siero, in grado di lasciare l’individuo, quindi anche il cit­ta­dino e l’elettore, più indi­feso. In effetti, se la sto­ria si ripete in qual­che modo, Ferenczi ci aveva già spie­gato il perché.

È pro­ba­bile che anche Robert Mol­nár sia cre­sciuto con le peri­pe­zie di Gusz­táv. Scom­metto che sarebbe pia­ciuto anche a lui par­te­ci­pare a quel «pic-nic paneu­ro­peo» dell’agosto ’89. In quell’estate che ha pre­ce­duto l’«Autunno dei Popoli», Mol­nár aveva 18 anni, fatti a Kübe­kháza, la cit­ta­dina che dista poco più di un chi­lo­me­tro dal Tri­plex Con­fi­nium, di cui oggi è il sin­daco. Quando lasciamo la linea di con­fine e trac­ciamo l’azimut, attra­verso i campi, diretti al cen­tro del vil­lag­gio, sap­piamo già che non lo incon­tre­remo, né a casa, né in Comune, né alla koc­sma, il bar-taverna locale. È all’estero da qual­che giorno, per lavoro, ma nono­stante tutto con­versa a lungo con noi al telefono.

Non è facile tro­vare, in Unghe­ria, soprat­tutto nel pano­rama poli­tico di centro-destra, una voce così diretta con­tro la costru­zione della nuova bar­riera. «Cono­scendo la Sto­ria — dice lui — in pas­sato, quando un Paese ha deciso di costruire un recinto o un muro, come ad Auschwitz-Birkenau, a Ber­lino o nel resto della fron­tiera del blocco comu­ni­sta, è sem­pre diven­tata una piaga per chi l’ha costruito». Per Mol­nár, «l’Ungheria è già un Paese iso­lato a livello intel­let­tuale e psi­co­lo­gico. Que­sto avrà come con­se­guenza la sua ghet­tiz­za­zione. L’Ungheria si cir­con­chiude, il che signi­fica che non esi­ste né uscita né entrata, né da fuori né da den­tro. Siamo in mezzo all’Europa, se non riu­sciamo a navi­gare in acque paci­fi­che, ne deriva che lo spa­zio d’azione degli unghe­resi andrà ridu­cen­dosi», fin­ché «le per­sone non per­de­ranno la spe­ranza e fug­gi­ranno dal Paese». Più che tra­sfor­marsi in un’isola, «l’Ungheria si ghet­tiz­zerà», sot­to­li­nea quest’uomo poli­tico che, fino al 2002, era stato depu­tato a Buda­pest per lo Szerz (Par­tito Indi­pen­dente dei Pic­coli Agri­col­tori e Cit­ta­dini). In quel periodo venne espulso dal par­tito e uscì dal Par­la­mento. È tor­nato nella terra in cui è cre­sciuto e da allora, come indi­pen­dente, dirige i destini di que­sto muni­ci­pio fron­ta­liero in cui vivono circa 1500 persone.

Al Tri­plex Con­fi­nium, un orec­chio acuto rie­sce forse a sen­tire tre cam­pane, a seconda dalla rosa dei venti: quella della chiesa di Kübe­kháza, qui in Unghe­ria, quella di Beba Veche, in Roma­nia, o quella di Rabe, in Ser­bia, tre pae­sini che, quasi equi­di­stanti, for­mano que­sto trian­golo (si riu­ni­scono tutti una volta all’anno, per una festa tran­sfron­ta­liera). Róbert Mol­nár ci tiene a dichia­rarsi cri­stiano pra­ti­cante per riba­dire che «c’è biso­gno di pren­dersi cura dei fore­stieri», il mes­sag­gio di Ste­fano I, re d’Ungheria, poi Santo Ste­fano per i cre­denti. «Lo dice la Bib­bia: non fare agli altri ciò che non vor­re­sti fosse fatto a te stesso», ricorda, e subito pro­fe­tizza che «la cat­ti­ve­ria ci verrà resti­tuita. Se non vogliamo essere mal­trat­tati, non pos­siamo mal­trat­tare gli altri. Per­ché come dice un’espressione che ci ricorda un mio col­lega, tu lec­chi il gelato, ma anche lui ti può leccare».

Nella koc­sma della via prin­ci­pale, le birre e le pálinke sono molto più popo­lari dei gelati. Un uomo, appog­giato all’entrata, si tiene in equi­li­brio con una birra per ogni mano e con­ti­nua a bere, ora una, ora l’altra. I tavo­lini della taverna si esten­dono tra la casa e la strada, come suc­cede per ogni casa, per ogni strada, nella Terra Bassa o nella Voj­vo­dina. Di fronte a ogni casa, que­sta fascia che sem­bra un giar­dino di cin­que o dieci metri, a volte quin­dici, crea una bella tran­si­zione, un’armonia, invece di una fron­tiera bru­sca, tra il legno della porta e l’asfalto della strada – una terra di nes­suno che tutti col­ti­vano come se fosse il pro­prio giar­dino, una terra di tutti. Quel che nasce o è pian­tato in que­sta fascia è pub­blico; anzi, nel mondo rurale, sem­bra impos­si­bile pen­sare a un esem­pio migliore di spa­zio pub­blico. Lì di fianco, un bam­bino, sor­retto dalle brac­cia del padre, coglie ciliegie.

Un’immagine quasi uguale ci verrà descritta, in un’altra koc­sma, in un altro pae­sino, dalla padrona del locale. Si era detta testi­mone «dell’allegria di un gruppo di rifu­giati che rac­co­glieva frutta da un albero». Qui all’entrata della koc­sma di Kübe­kháza, la padrona rac­conta un altro epi­so­dio, qual­cosa di simile, che ha visto in tele­vi­sione. Anzi, fino alla nostra visita, alla fine di giu­gno, i rifu­giati pas­sa­vano dav­vero sol­tanto in tele­vi­sione e lei stessa non aveva ancora visto nes­suno tran­si­tare di lì. L’unico pro­blema con­creto di cui lei aveva sen­tito par­lare era il seguente: un rifu­giato aveva rubato dei pomo­dori a un agri­col­tore che si lamen­tava del fatto, nel repor­tage tele­vi­sivo, come se fosse la fine del mondo. «Poveri», si sente una voce sullo sfondo, con tono empa­tico, «ave­vano fame, nella stessa situa­zione, ognuno di noi farebbe la stessa cosa».

Kübe­kháza non è ancora una nuova Lam­pe­dusa, alla fine della rotta bal­ca­nica dei migranti dell’est e del sud, ma sia il sin­daco della città, sia la signora della koc­sma intui­scono come finirà. Entrambi con­cor­dano, quando dicono che, con la bar­riera fron­ta­liera che sta per ini­ziare nel Tri­plex Con­fi­nium, a poco più di un chi­lo­me­tro dalla città, «è chiaro che i rifu­giati faranno il giro dalla Roma­nia e poi pas­se­ranno nuo­va­mente di qui». A que­sta dedu­zione, ovvia per chi guarda la car­tina, ha rispo­sto Péter Szi­j­jártó, il gio­vane mini­stro degli Esteri e dell’Investimento Estero, affer­mando a vari media che «in tutte le sezioni di fron­tiera su cui non esi­ste nes­suna altra forma effi­cace ad impe­dire l’immigrazione ille­gale [oltre alla linea di divi­sione tra la Ser­bia e l’Ungheria], verrà uti­liz­zato lo stru­mento sicuro della chiu­sura della fron­tiera», ovvero, il pro­lun­ga­mento del muro-recinto.

Fin­ché il filo spi­nato non gli taglia l’orizzonte, Robert Mol­nár, il poli­tico al governo di que­sta cit­ta­dina fron­ta­liera, sostiene che tocca «alla ricca Europa occi­den­tale tro­vare una­ni­me­mente una rispo­sta e che non si può dare la respon­sa­bi­lità solo all’Ungheria, per­ché que­sta è una cata­strofe uma­ni­ta­ria che riguarda il mondo intero”. Ma poi torna a guar­dare verso l’interno, quando parla del muro come di una deci­sione del governo nell’interesse dello stesso par­tito che forma l’esecutivo, il Fidesz (della destra popu­li­sta; 44,5% alle legi­sla­tive del 2014).

Uno spot nazionalista

Mól­nar clas­si­fica la deci­sione come un «mero atto di cam­pa­gna poli­tica interna», per cui lo Stato dovrà sbor­sare più di 20 milioni di euro. La strut­tura sarebbe così un enorme poster di pro­pa­ganda nazio­na­li­sta, con i suoi quat­tro metri d’altezza e 175 chi­lo­me­tri di lun­ghezza. Con­ti­nuando a pas­sare i fatti al setac­cio, l’ex-deputato con­clude che que­sta misura «non è con­tro l’immigrazione, ma serve solo a Vik­tor Orbán e al Fidesz per togliere vento alle vele dello Job­bik (con­si­de­rato un par­tito di estrema destra; 20,5% alle legi­sla­tive 2014), per­ché ci sono già dei radar ter­mici instal­lati su tutta la fron­tiera e il 98% dei rifu­giati ven­gono presi».

«Dove ci tro­viamo?». In un giar­dino in cui Orbán semina muri, che è anche un giar­dino dell’Europa. Qui, ai tavo­lini del­la­koc­sma, il giorno scorre len­ta­mente come il Tisza o il Danu­bio, come le due birre nelle mani di quell’uomo di Kübe­kháza. Sull’albero di fronte a noi, il bam­bino ha lasciato molti grap­poli di cilie­gie per il primo rifu­giato che pas­serà la fron­tiera in que­sto pae­sino tran­quillo. Domani o più avanti, non tar­de­ranno a pas­sare di qui. Forse Shar­bat, forse Moham­med, gente che incon­tre­remo alla sta­zione di Seghe­dino una notte di que­sto viag­gio, o forse Rafiq, che aspetta ancora, in una fab­brica abban­do­nata di Subo­tica, senza pas­sa­porto, che un traf­fi­cante gli dia le coor­di­nate per con­ti­nuare il viaggio.

Nel frat­tempo, nella memo­ria della taverna, rim­bomba la voce di quell’agricoltore unghe­rese che si lamenta in tele­vi­sione che «loro» gli hanno «rubato i pomodori».

«Loro» sono quelli che sono scap­pati dalla fine del mondo spe­rando di tro­vare un posto nell’eden-fortezza dell’Unione euro­pea. In unghe­rese, in serbo e in croato (i due lati della lin­gua serbo-croata), pomo­doro e para­diso sono parole sorelle, con la stessa radice, che indica sia il frutto-verdura che il luogo dell’idillio:paradiscom/paradiscom, paradajz/raj, rajica/raj. Ci usci­rebbe un bell’episiodio di Gusz­táv, penso io, Gusz­táv tra­sfor­mato in rifugiato-ladro di para­disi, un selfie-caricatura di cui l’Ungheria e l’Europa pro­ba­bil­mente hanno bisogno.

Que­sto arti­colo è stato ori­gi­na­ria­mente pub­bli­cato su Osser­va­to­rio Bal­cani e Cau­caso, tra­du­zione dal por­to­ghese di Serena Cac­chioli

(1 — continua)

Il partito delle discariche e degli inceneritori segue una strategia lineare. Rallenta come può il passaggio alla raccolta differenziata porta a porta ed enfatizza l’incipienza delle inevitabili emergenze». Il Fatto Quotidiano, 12 agosto 2015 (m.p.r.)

È una guerra. Guerra economica, ma guerra vera, feroce. E il governo, con il ministro dell’Ambiente Gianluca Galletti, impegnatissimo, non è neutrale. La preda in palio è l’immondizia, in gergo tecnico Rsu (rifiuti solidi urbani), un tesoro attorno al quale si muovono interessi miliardari. Da una parte c’è il partito della raccolta differenziata, del trattamento e del riciclaggio. Un partito fatto da aziende specializzate con i loro interessi, spalleggiato dagli ambientalisti. Dall’altra c’è il partito delle discariche e degli inceneritori: grandi aziende (molte municipalizzate), grandi interessi e collegamenti densi con i partiti di governo, quali che siano. Le regole del gioco, in nome del bon ton istituzionale, impongono di ignorare l’esistenza della criminalità organizzata, che della partita è protagonista sempre più ingombrante e sfrontato.

Il decreto attuativo dell’articolo 35 dello Sblocca Italia, con il quale Galletti tenta di imporre alla regioni 12 nuovi inceneritori, è schiettamente schierato con il partito dei “metodi tradizionali”: inceneritori e discariche, appunto. Per capire quale sia veramente la posta in gioco basta osservare la più stridente contraddizione nella strategia del governo Renzi. Da una parte si sostiene la necessità di costruire nuovi inceneritori per soddisfare una presunta domanda insoddisfatta. Dall’altra si liberalizza il traffico di rifiuti da una regione all’altra per far fronte al più drammatico problema dei cosiddetti termovalorizzatori: quelli attualmente in funzione sono quasi tutti sottoutilizzati, con pesanti ricadute sui conti delle società che li gestiscono, e hanno dunque disperato bisogno di importare rifiuti da bruciare, da qualunque parte provengano.
A segnalare il problema non sono movimenti ambientalisti o i grillini, bensì Intesa Sanpaolo. Pochi giorni fa un documento del suo centro studi ha confermato il rischio che da tempo qualche gufo segnala inascoltato, e cioè che l’operazione inceneritori sarà fulminata da un’inevitabile procedura d’infrazione europea: “Se è vero che l’attuale capacità di trattamento è sottoutilizzata (la capacità di trattamento viene utilizzata per circa l’80%), per ottimizzare l’uso della dotazione impiantisca, dovranno essere bypassati due principi chiave della gestione dei Rsu: 1) il principio di prossimità, in base al quale i luoghi di produzione dei rifiuti e di trattamento e smaltimento devono essere attigui; 2) il principio dell’autosufficienza, in base al quale lo smaltimento dei Rsu deve avvenire nella regione di produzione in modo da minimizzarne il trasporto”.
Il partito delle discariche e degli inceneritori segue una strategia lineare. Rallenta come può il passaggio alla raccolta differenziata porta a porta ed enfatizza l’incipienza delle inevitabili emergenze. A Roma la differenziata è tenuta a freno da anni, la storica discarica di Malagrotta è satura, così è gioco facile rilanciare l’idea dell’inceneritore di Albano (anche se sulla sua oscura origine è in corso un processo per corruzione) oppure prepararsi a mandare i rifiuti della capitale a Terni, dove l’A ce a (municipalizzata di Roma) ha già un inceneritore e vorrebbe farne uno di portata tripla.
A Genova la differenziata è di poco superiore al 10 per cento, ma niente paura: l’inesorabile emergenza sarà risolta mandando treni di immondizia all’inceneritore di Torino e a quello di Piacenza, tutti e due gestiti dalla Iren, la municipalizzata nata dalla fusione delle precedenti società di Torino, Genova e dell’Emilia. Iren è quotata in Borsa e non va benissimo. Nel 2014 i suoi ricavi sono scesi del 14 per cento e l’utile netto del 20 per cento, ha 2,3 miliardi di debiti contro un fatturato di 2,9, e ha appena annunciato che per un po’ i comuni azionisti devono scordarsi il dividendo. Anche le altre grandi municipalizzate quotate, Hera di Bologna e A2A di Milano e Brescia, hanno il problema di sfruttare meglio gli impianti di termovalorizzazione. Il vero tesoro nel decreto Galletti è dunque proprio la libertà di andare a comprare rifiuti in giro per l’Italia. Ma gli inceneritori hanno un ciclo di vita lungo, 20-30 anni, e per ripagare il capitale investito bisogna che ci sia immondizia da bruciare fino alla fine. Se dunque nel frattempo i comuni italiani imboccassero la strada virtuosa della differenziata porta a porta, che ridurrebbe quasi a zero i residui da incenerire o mandare in discarica, i signori degli inceneritori sarebbero rovinati.
Pochi giorni fa le cronache finanziarie ci hanno offerto un trailer del film che vedremo nei prossimi anni. Hanno annunciato la fusione due società quotate attive nel trattamento dei rifiuti, la Kinexia di Pietro Colucci e la Biancamano di Giovanni Battista Pizzimbone. Quest’ultimo, amico di Marcello Dell’Utri, aveva rilevato nel 2009 le attività ambientali del gigante cooperativo Manutencoop. Colucci si è distinto nel novembre scorso per la partecipazione alla cena da mille euro con Matteo Renzi per finanziare il Pd. “Il mercato dei rifiuti si sta concentrando su grandi soggetti ”, ha spiegato Colucci al Sole 24 Ore, come se la fusione fosse una mossa per la sopravvivenza, poi ha detto però che la nuova società sarà la maggiore in Italia. Nascerebbe con 260 milioni di fatturato e 370 di debiti, infatti l’operazione si farà solo se i debiti di Pizzimbone (il cui bilancio 2014 è stato bocciato dai revisori dei conti) saranno convertiti in azioni dalle banche creditrici. Tra le quali spicca naturalmente Intesa Sanpaolo. Auguri.
C'è qualcuno che non si limita a essere solidale solo con le chiacchiere: magari sa che alla predica occorre coniugare la pratica. La Repubblica, 12 agosto 2015

LA VITA è strana, e nel mio caso anche in vacanza mi porta sempre lo stesso messaggio, «il popolo siriano ha bisogno di aiuto, non girarti dall’altra parte ». Faccio la volontaria da un anno al mezzanino della stazione Centrale perché non potevo più stare a guardare questa tragedia umana dei siriani in fuga dalla guerra, e anche qui mi sono ritrovata in una sorta di mezzanino sul mare del Dodecanneso. I primi segnali li ho avuti a Kalimnos e a Leros, vedendo i gommoni degli scafisti, sgonfi, abbandonati dopo aver traghettato centinaia di povere anime siriane. Qui sbarcano 100/200 profughi al giorno su ogni isola, e la Grecia non è preparata ad accoglierli.

Poi, sabato scorso alle quattro di mattina, nel buio pesto dell’isoletta di Pserimos (poche miglia a nord di Kos) siamo entrati in prima persona nell’incubo. Urla, pianti di bambini, parole in arabo. Non ho avuto dubbi, erano siriani spiaggiati. Io e mio marito ci siamo guardati e subito ci siamo messi un costume, preso alla rinfusa acqua, biscotti, pane e siamo saliti sul nostro gommoncino a remi per andare verso le urla. Non sbagliavamo. Con le torce abbiamo visto un gommone di una decina di metri bianco mezzo sfasciato sulle rocce, e lì un brulicare di ombre che si inerpicavano verso la montagna dalla parte sbagliata dell’isola, anziché costeggiare le rocce a pelo d’acqua e raggiungere la spiaggia a poche centinaia di metri da noi, e da lì, con un cammino di mezz’ora sulla montagna, arrivare al paesino di Pserimos.

Sapendo bene cosa vivono in questi sbarchi e con quanta paura arrivano in una terra che non conoscono, ho cominciato a chiamarli: « Yalla yalla , venite, scendete verso di noi, siamo italiani, fidatevi, vogliamo solo aiutarvi, fate scendere le donne coi bambini ». Ho parlato in inglese, ho usato le poche parole di arabo imparate alla Centrale e così ho convinto i primi giovani a scendere. Poi gli abbiamo passato acqua, biscotti, e molti sorrisi.

Siamo andati in fila indiana, io davanti con la torcia, dietro i ragazzi, poi le donne e i mariti coi bambini (11, di cui molti sotto l’anno di età). Ci siamo ritrovati sulla spiaggia increduli. Mio marito è tornato a bordo a prendermi un pareo per coprirmi e altri viveri e acqua. Con lui sono tornati anche i nostri due bambini (9 e 11 anni) svegliati dal trambusto a bordo e dalle grida dei siriani.

Ripreso fiato, ci siamo incamminati sulla collina che dalla baia di Ormos Vathi porta a Pserimos, dove attracca il piccolo ferry che collega con Kalimnos e Kos. Mio marito è tornato in barca con i bambini, io ho cominciato la mia giornata di mezzanino greco per aiutarli a organizzarsi il viaggio, orientarsi e capire cosa potevano e dovevano fare per continuare il loro viaggio.

Non abbiamo fatto niente di speciale, solo quello che qualunque marinaio farebbe, ma è vero che nella baia c’erano altre 15 barche alla fonda, e solo il nostro gommone è partito in soccorso ai profughi. E questo la dice lunga sulla paura dello straniero.

In tutto erano una cinquantina. Una trentina di uomini sui 25/30 anni, 11 bambini molto piccoli con genitori sfiniti e giovanissimi anche loro, due fratellini di 9 e 11 anni che “viaggiavano” soli con il fratello di 18 anni perché madre e padre sono morti sotto le bombe. C’era anche una coppia tenerissima sui 65 anni, lui con femore malandato, stampella e cuore malconcio. Ci siamo incamminati come una carovana unita, e insieme siamo sbarcati sull’altro versante, dove loro pensavano ci fosse un campo profughi, la prima cosa che mi hanno chiesto insieme alla stazione di polizia. Invece c’erano quattro ristoranti, due bar chiusi e una spiaggia bianchissima con il molo e i venditori di spugne. Un schiaffo quasi insopportabile, questa Grecia da cartolina.

Sono stata con loro quasi 12 ore, assicurandomi che trovassero tutti posto con regolare biglietto sul ferry delle 17 per Kalimnos. Il capitano è stato splendido: prima ha fatto salire donne, bambini e i due anziani, poi i turisti e poi tutti, fino all’ultimo, i siriani che nel frattempo erano diventati 80 con quelli che sono arrivati da altri punti dell’isola. I greci hanno portato pannolini di ricambio per i bambini, ceste di uva e fichi, hanno offerto le loro docce, il patio di una casa, il cortile della scuola.

Mille e 300 euro a testa, il prezzo della traversata da Bodrum in Turchia a qui. Pagati a delinquenti più disgraziati di loro, come il driver, un iracheno di 22 anni più spaventato di loro che nessuno voleva indicarmi.Nessuno lo denuncerà, perché se non li aiutano gli scafisti, chi li salva dall’inferno?
L’Assemblea regionale siciliana approva la legge che applica il referendum del 2011: «minimo vitale» di 50 litri a persona e fondo per i poveri, inver­tendo un pro­cesso di pri­va­tiz­za­zioni nei ser­vizi pub­blici che data dagli anni ’90».

Il manifesto 12 agosto 2015 (m.p.r.)

Fos­simo in Gre­cia, la potremmo tran­quil­la­mente attri­buire ad Ale­xis Tsi­pras e a Syriza. Ma la legge sull’acqua pub­blica appro­vata l’altra notte a Palazzo dei Nor­manni porta la firma del gover­na­tore sici­liano Rosa­rio Cro­cetta, si spinge oltre i risvolti uma­ni­tari (il minimo di 50 litri garan­titi a ogni cit­ta­dino, un fondo di soste­gno per chi non rie­sce a pagare le bol­lette) e si pre­senta come la prima in Ita­lia ad appli­care il refe­ren­dum del 2011, inver­tendo un pro­cesso di pri­va­tiz­za­zioni nei ser­vizi pub­blici che data dagli anni ’90. Fatta ecce­zione per la giunta gui­data da Luigi de Magi­stris a Napoli (che ha ripub­bli­ciz­zato inte­gral­mente l’azienda comu­nale con una deli­bera comu­nale all’avanguardia, gra­zie all’aiuto dell’allora asses­sore Alberto Luca­relli e del giu­ri­sta Ugo Mat­tei, poi silu­rato dalla pre­si­denza della neo­nata azienda Abc, Acqua bene comune), il voto di quat­tro anni fa era rima­sto let­tera morta. Ma ora c’è un ulte­riore passo in avanti: per la prima volta l’acqua ridi­venta «pre­va­len­te­mente pub­blica» per legge.

A Cro­cetta è riu­scita l’impresa di con­durre in porto un cavallo di bat­ta­glia della sua cam­pa­gna elet­to­rale, sfrut­tando le divi­sioni interne alle forze poli­ti­che e incas­sando un soste­gno tra­sver­sale, a par­tire dai 5 Stelle all’opposizione, forte del fal­li­mento delle pri­va­tiz­za­zioni alla sici­liana, che non hanno miglio­rato il ser­vi­zio né ridotto le bol­lette ai cit­ta­dini, e della spinta di un movi­mento ali­men­tato da decine di sin­daci espro­priati della gestione delle risorse idri­che e dai comi­tati che si rico­no­scono nel Forum dei movi­menti per l’acqua.

Per otte­nere il via libera defi­ni­tivo è stato neces­sa­rio un ultimo com­pro­messo: l’assessore ai Ser­vizi di pub­blica uti­lità, l’ex magi­strata ren­ziana Vania Con­tra­fatto, ha pre­teso l’inserimento della pos­si­bi­lità di avere anche gestioni miste o pri­vate, pena l’accusa di inco­sti­tu­zio­na­lità e un pro­ba­bile con­flitto con lo Stato. Ma la par­te­ci­pa­zione dei pri­vati è stata imbri­gliata da for­tis­sime limi­ta­zioni: dovranno offrire ser­vizi a prezzi infe­riori a quelli for­niti dal pub­blico, a «con­di­zioni bloc­cate per tutta la durata dell’affidamento», che non può supe­rare i nove anni (con­tro i qua­ranta, ad esem­pio, dell’attuale con­ces­sione a Sici­liac­que spa), e con multe sala­tis­sime in caso di dis­ser­vizi, dai 100 ai 300 milioni al giorno (da pagare all’Ato di rife­ri­mento), fino alla rescis­sione del con­tratto in caso di man­cata ero­ga­zione per più di quat­tro giorni in almeno il due per cento del bacino idrico.

Per que­sti motivi nei giorni scorsi, men­tre infu­riava la bufera inter­cet­ta­zioni sulla sanità sici­liana e si pro­spet­tava il rischio di un ritorno anti­ci­pato alle urne, il Forum dei movi­menti per l’acqua pub­blica invi­tava ad appro­vare la legge che rece­pi­sce diverse loro pro­po­ste, dal rico­no­sci­mento di un «minimo vitale» di 50 litri al giorno a per­sona, come sta­bi­li­sce il Con­tratto mon­diale dell’acqua, alle tariffe scon­tate del 50 per cento lad­dove l’acqua non è pota­bile e non può essere usata nep­pure per cuci­nare, a un fondo di soste­gno per il paga­mento delle bol­lette delle per­sone meno abbienti. Saranno gli Ambiti ter­ri­to­riali otti­mali (Ato), che riman­gono nove e non ven­gono accor­pati come aveva chie­sto il ple­ni­po­ten­zia­rio ren­ziano (e grande rivale di Cro­cetta) Davide Faraone appena tre giorni fa, a deci­dere, attra­verso «pro­ce­dure di evi­denza pub­blica», a chi affi­dare la gestione delle risorse idriche.

Un’altra norma pre­vede che si valuti «la sus­si­stenza dei pre­sup­po­sti per l’eventuale eser­ci­zio del diritto di recesso dalla con­ven­zione con Sici­liac­que ed in ogni caso avvia le pro­ce­dure per la revi­sione della stessa al fine di alli­nearla ai prin­cipi gene­rali dell’ordinamento giu­ri­dico sta­tale e comu­ni­ta­rio diretti a garan­tire la pos­si­bi­lità di accesso, secondo cri­teri di soli­da­rietà, all’acqua in quanto bene pub­blico pri­ma­rio». Sici­liac­que è il cavallo di Troia della tran­si­zione dal pub­blico al pri­vato in Sici­lia: è la con­ces­sio­na­ria che nel 2004 è suben­trata al vec­chio Ente acque­dotti sici­liano (Eas), inte­ra­mente di diritto pub­blico. Si tratta di una società per azioni (dun­que di diritto pri­vato) par­te­ci­pata al 25 per cento dalla Regione, che all’inizio dete­neva solo il 5 per cento ed ha poi rile­vato le quote del disciolto Eas. Il rima­nente 75 per cento è nelle mani di Idro­si­ci­lia spa, com­po­sta al 60 per cento dalla mul­ti­na­zio­nale fran­cese Veo­lia e dal 40 per cento dall’Enel. A Sici­liac­que è stato garan­tito un con­tratto qua­ran­ten­nale, che sca­drà nel 2044, ma ora la nuova legge pre­vede la pos­si­bi­lità di rece­dere, pur se già viene agi­tato lo spau­rac­chio di salate penali da pagare nel caso tutto venga rimesso in discus­sione. Ma alla Regione Sici­lia, che nomina tre con­si­glieri d’amministrazione su cin­que della spa, sono con­vinti di avere in mano gli stru­menti giu­ri­dici per garan­tire una tran­si­zione al con­tra­rio, dal pri­vato al pub­blico. Anche se sono con­sa­pe­voli che non sarà una passeggiata.

Matteo Renzi che della Tatcher condivide l'ideologia neoliberista, lo schierarsi sul versante destro, la subalternità ai poteri economici, ha però una marcia e un'ambizione in più.

Huffington post, blog , 10 agosto 2015, con postilla

Margaret Thatcher al colmo del potere dichiarò: "So che la Bbc mi attacca ma non posso farci niente". E non mosse un dito contro la Bbc. Matteo Renzi invece partecipa attivamente alle scelte del nuovo CdA della Rai e prima di partire per il Giappone riceve a Palazzo Chigi il candidato al ruolo di amministratore unico Antonio Campo Dall'Orto protagonista della Leopolda renziana. Una investitura personale, chiaramente. Il direttore generale di Bbc rimane in carica anni scelto per meriti professionali dai 12 "governors" della Fondazione i quali tutelano l'autonomia della Tv pubblica.

Renzi continua a parlare di Fondazione tipo Bbc e fa l'esatto contrario. Il CdA della Rai viene nominato con una accurata spartizione partitica, anzi correntizia. Lo stesso accade per la presidente che al Tg1 fu paladina della svolta di centrodestra del suo direttore Minzolini. E sì che aveva promesso: "Fuori i partiti dalla Rai!".

In tutte le principali emittenti radiotelevisive d'Europa esiste un organismo di garanzia che mette al riparo radio e tv pubblica dalle ingerenze dell'esecutivo e dei partiti tant'è che il direttore generale della rete pubblica tedesca ZDF, Dieter Stolte, è durato vent'anni in carica.

In Italia no. Però esisteva anni fa un primo filtro rappresentato dalla nomina di 5 consiglieri da parte dei presidenti di Camera e Senato e fra essi il CdA eleggeva il presidente. Sistema travolto da Berlusconi con la legge Gasparri.

Con Renzi il presidente lo nomina il governo e gli mette accanto come consigliere del Tesoro (proprietario dell'azienda) il suo suggeritore per la comunicazione. L'omologazione fra presidente/segretario e radio e tv pubblica appare totale. Si sono levate critiche per un CdA di basso profilo. Infatti il Consiglio conterà assai poco e il rapporto strategico sarà quello che correrà fra Matteo Renzi e Antonio Campo Dall'Orto. Il resto è figura. Succede in qualche alto Paese di democrazia compiuta? Non mi pare. E pensare che nel 1945 venne nominato dal CLN alla presidenza della Rai, ex Eiar, un personaggio del livello politico e culturale di Carlo Arturo Jemolo.

C'è il precedente della nomina diretta dei vertici dell'ente per l'informazione e la comunicazione: nel 1927 quando il fascismo creò l'Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche (EIAR), Benito Mussolini nominò al vertice il principale collaboratore di Guglielmo Marconi, il professor Marchesi, però ci mise suo fratello Arnaldo in qualità di vice-presidente. Arnaldo Mussolini era già presidente dell'Istituto di Previdenza nato dalla fusione delle Casse Pie e dell'Albo dei giornalisti e pubblicisti al quale potevano associarsi soltanto quelli iscritti al PNF. Delle agenzie di stampa ne rimase una sola, la Stefani, presieduta e diretta da quel Manlio Morgagni forse l'unico amico fedele del duce (il solo a suicidarsi dopo il 25 luglio 1943).

postilla

Matteo Renzi che condivide l'ideologia neoliberista della Tatcher, ha però l'ambizione di fare un passo più deciso verso passato. Vuole costruire (e sta costruendo) una strutturs statale neofeudale nella quale in ogni settore della vita pubblica (la scuola, la salute, la cultura, l'informazione, l'uso dei beni culturali e in generale del territorio) ove non sia di stretta competenza dei potentati economici, sia assoggettato al Monarca tramite una catena di comando di vassalli, valvassori e valvassini, gerarchicamente ordinati e da lui prescelti. Ci sta riuscendo, e giàsi potrebbero individuare i nomi dei feudatari da lui già investiti.

Un grande nebbione deve essere calato sull'Italia se Sergio Staino, e tante altre persone che hanno storie simili, possono pensare ancora che Matteo Renzi possa dirsi "di sinistra". È proprio arrivata l'ora di andar via da questo paese. LaRepubblica, 10 agosto 2015

«Gianni [Cuperlo], vai fra la gente, vai in un cinema affollato, in una trattoria, in un autobus e ur-la: “Questa sinistra Dem ci sta veramente scassando i coglioni”. Avrai come risposta una standing ovation, non vi sopporta più nessuno tranne, ovviamente, Renzi...». Sergio Staino attacca Gianni Cuperlo. Lo fa dalle pagine dell’Unità , nuova gestione D’Angelis. Una lettera di fuoco, in un primo tempo privata e indirizzata all’esponente della minoranza Pd, e poi resa pubblica «perché non ho ancora ricevuto risposta». Non c’è l’ironia di Bobo, ma la rabbia e il livore dell’ex «amico fraterno». Così si definisce Staino nei confronti di Cuperlo per poi infilargli il coltello nel costato: «State uccidendo la sinistra, date di voi stessi un’immagine di estremisti disperati che urlano su tutto e tutti senza sapere cosa proporre... Cosa stai offrendo di concreto allo smarrimento dei nostri elettori? Nulla. Solo la coscienza che Renzi è una m....».

Per Cuperlo, una sorpresa dolorosa, come ci dice al telefono: «Sono profondamente colpito dai toni e dal linguaggio usati e anche dall’enfasi con cui è stata pubblicata la lettera». Il direttore dell’ Unità , Erasmo D’Angelis, confidava ieri in una sua risposta pubblica: «L’ho chiamato al cellulare ma è irrintracciabile ».

Accusare uno come l’ex presidente (per 38 giorni) del Pd di volere la morte della sinistra è come dire a Don Ciotti che non sta facendo tutto per combattere la mafia. Perché tanta virulenza? Proprio per i rapporti pregressi. Staino, andato e tornato (era con Sel alle europee del 2009), considerava Gianni «un grande compagno». Ora non condivide nulla di quel che fa. Di qui, per proprietà transitoria, uno Staino «renziano» ( non è una novità, già mesi fa aveva lodato «la furbizia e l’intelligenza » del premier, ndr). Il segretario c’è ed è Renzi: «Lo considero un frutto amaro del nostro partito ». Tradotto: Renzi si è materializzato sui vostri errori, sugli errori di una dirigenza (leggi tutto il vecchio establishment)che dovrebbe ritirarsi a vita privata: «Sono ormai fuori dalla storia, finiti».

Ma perché prendersela tanto con Cuperlo, che di tutto il gruppo è sempre stato quello dai toni più riflessivi e meno demagogici? D’Angelis ha la versione del padre di Bobo: «A fine luglio c’è stato a Roma, alla Festa dell’Unità, un dibattito in cui Staino le ha cantate pubblicamente a Gianni il quale poi gli avrebbe mandato degli sms infastiditi ». Segue lettera privata, trasformata in attacco frontale pubblico: «Comportandovi così state tirando la volata a Grillo e Salvini».

Cuperlo è sconcertato: «Staino dice cose non vere. Non ho mai detto, per esempio, che Renzi e Berlusconi sono simili. Il mio problema non è Renzi, è di capire dove va il Pd».

Piovono commenti al giornale. D’Angelis: «La gran parte vengono dalla prima minoranza Pd, quella che adesso si è allontanata... Danno ragione a Staino». Orfini, infatti, detta la linea sobria sull’ Huffington : giusto criticare la minoranza (“Staino coglie un punto vero”, però «Matteo deve fare qualcosa più di sinistra».

Alla fine della giornata, resta soprattutto la pesantezza di Staino che non ne passa una all’ex amico: «Sei stato altezzoso e arrogante a non accettare la direzione dell’ Unità». D’Angelis concorda «sull’atteggiamento complessivo » di Cuperlo: «Si è dimesso da presidente del partito e non ha accettato la direzione del quotidiano, che non è poca cosa...».

La Repubblica, 9 agosto 2015.
LA LETTURA dei giornali in questo inizio d’agosto è piena di fatti drammatici o comici, talvolta comici per la loro drammaticità, soprattutto quando toccano non più la cronaca ma la politica. «Hanno distrutto la Rai», ha detto Walter Veltroni dopo le nomine fatte dal governo e dai partiti. «Mi viene da ridere pensando alla Rai», ha detto Renzo Arbore che cinquant’anni fa la rinnovò da capo a fondo. A leggere queste cose ti viene da pensare.

Ma ancora di più il turbamento aumenta su temi che riguardano la struttura di fondo del paese: il Mezzogiorno, l’occupazione, le tasse. Tre ferite aperte e purulente che concorrono alla mancata crescita del paese, antiche quasi come l’unità d’Italia. La nostra storia nazionale ha avuto anche aspetti positivi, altri pessimi, ma Mezzogiorno, occupazione e fisco sono state tre zavorre permanenti che hanno ostacolato il nostro cammino verso la modernità facendo aumentare la corruzione, le mafie, la tendenza verso regimi autocratici e addirittura dittatoriali.

Cristo si è fermato ad Eboli? Purtroppo no, se con la parola Cristo intendiamo il bene pubblico; si è fermato molto prima, a Cuneo, come disse alcuni anni fa il sindaco di quella città, oppure a Verona, a Bergamo, a Bologna, ma non più oltre. E adesso stiamo attraversando un guado assai rischioso. L’ha scritto Roberto Saviano su questo giornale a proposito di mafie e di corruzione, l’ha detto Ezio Mauro valutando la fragilità della nostra democrazia, l’hanno raccontato Michele Ainis e Angelo Panebianco sul Corriere della Sera: siamo ad una svolta, ad un passaggio cruciale.

Ed è forse una delle rare occasioni che la maggioranza dei cittadini ne è consapevole, sia pure da posizioni diverse ed anche opposte.

***
Il birillo rosso al centro del biliardo è Matteo Renzi, il castello dei birilli bianchi che lo attorniano, cioè i co-protagonisti del gioco, sono Berlusconi, Salvini, Grillo, Bersani. Ai bordi del biliardo ci sino alcuni personaggi che suggeriscono le mosse della partita. Il più autorevole di tutti è Giorgio Napolitano.

Mi sono spesso domandato — fuor di metafora — perché lo fa e me lo chiedo ancora una volta dopo aver letto la lettera da lui inviata qualche giorno fa al Corriere della sera. Il tema — di capitale importanza — è la legge costituzionale di riforma del Senato che arriverà in terza lettura ai primi di settembre a palazzo Madama. Sarà, così sembra, la battaglia decisiva che vede quasi tutte le opposizioni ed anche i dissidenti del partito democratico contrari, con un Berlusconi in posizione di attesa, decisiva ai fini del risultato.

La tesi di Napolitano è radicale: la legge deve essere approvata così com’è, nel testo già approvato da Camera e Senato nelle prime due letture: il Senato trasformato in una Autorità di controllo e di rappresentanza territoriale senza più alcun potere legislativo nazionale, ridotto a cento componenti. Questo suggerisce il Presidente emerito e per lui non è certo un’improvvisazione: è su questa posizione da molti anni ed ora gli preme più che mai vederla portata a buon fine da Renzi che di un appoggio così autorevole ha certo molto bisogno.

Personalmente ho grande stima e amicizia per Napolitano. Ma su questo tema sono in totale disaccordo. L’ho già scritto in numerose occasioni perché si tratta di un tema che domina da mesi la politica italiana insieme alla riforma elettorale che vi è strettamente connessa. Purtroppo debbo ripetermi perché la lettera di Napolitano ripropone l’argomento e riapre il dibattito.

È senz’altro opportuno che il Senato sia privato del potere di votare la fiducia al governo, ma tutti gli altri poteri legislativi debbono restare integri. La nostra è una Repubblica parlamentare e la linea politica è indicata dal Parlamento mentre al potere esecutivo spetta — come dice il nome — il mandato di tradurre in atti esecutivi coerenti con la linea indicata dal Parlamento, che rappresenta il popolo sovrano. In Parlamento si approvano le leggi che attuano la linea indicata dalla maggioranza che il Parlamento esprime; sicché il sistema elettorale deve essere analogo in entrambe le Camere. Analogo ma non identico, a cominciare dall’età dei componenti e da altre accettabili difformità.

Naturalmente è anche possibile che il Senato scompaia e si attui un sistema monocamerale; in gran parte d’Europa è così. In tal caso però le elezioni alla Camera debbono essere totalmente libere e rappresentare fedelmente il popolo sovrano. Il sistema monocamerale previsto dall’“Italicum” di Renzi è in larga misura un monocamerale di “nominati” dal governo in carica; la conseguenza è evidente: il potere legislativo è declassato e subordinato all’esecutivo, il presidente del Consiglio diventa così il personaggio che “comanda da solo” esattamente il contrario della democrazia parlamentare.

Mi pare molto singolare che Napolitano non veda questo risvolto della abolizione di fatto del Senato. Un monocamerale in gran parte “nominato” dall’esecutivo ci avvia inevitabilmente all’autocrazia. E questo che si vuole?

Non sono in grado ovviamente di conoscere in proposito il parere del presidente Mattarella, ma supponiamo per pura ipotesi che egli ravvisi un’illegalità in questa soluzione e rinvii la legge costituzionale alle Camere. La posizione di Napolitano sarebbe in quel caso estremamente imbarazzante e sarebbe come se il papa emerito Benedetto XVI facesse pubblicamente affermazioni teologiche diverse da quelle di papa Francesco. Vi sembra possibile una situazione simile? *** Naturalmente la dissidenza del Pd si rende ben conto che la posizione critica che ha deciso di assumere di fronte alla legge del governo può portare ad uno strappo e addirittura ad una scissione del partito. Perché lo fa? Perché non si limita ad astenersi dal voto o a non presentare emendamenti profondamente diversi dal testo della legge in discussione? Se il motivo fosse soltanto quello connesso alla legge sul Senato, la dissidenza del Pd potrebbe ancora una volta chiuder gli occhi ed accettare l’amaro boccone che Renzi ha deciso di farle trangugiare, ma in realtà ci sono due altri motivi: la vocazione autocratica che si esprime attraverso le due leggi elettorale e costituzionale e lo spostamento in corso del Pd da partito di centrosinistra a partito di centro. Non a caso Renzi ha come punto di riferimento storico Tony Blair, che trasformò il partito laburista inglese e proseguì portandola a compimento la politica di Margaret Thatcher.

Quello spostamento consentì a Blair di governare per due legislature di seguito e ancora ne mena vanto sostenendo che i voti in una società moderna si prendono al centro e non a sinistra.

Sarà pur vero, ma quella che allora si chiamava Inghilterra non sembra abbia fatto passi da gigante dopo i lunghi anni di governo di Tony Blair; è rimasta un ex impero coloniale senza più colonie, ai margini dell’Europa e ormai diviso in una federazione dove l’Inghilterra convive con le sovranità della Scozia, del Galles e dell’Irlanda. Tony Blair ha un bel passato personale ma storicamente è stato una foglia al vento e il suo Paese conta ben poco nell’Europa di oggi; nella società globale, conta niente del tutto. Ha scritto a questo proposito Angelo Panebianco: «Il partito della Nazione ha bisogno di sostituire il mancato radicamento sociale con la crescita di potere dell’esecutivo. Per questo la riforma del Senato è oggi così importante e per questo la minoranza intende fare di tutto per batterlo e garantire la propria sopravvivenza. Sa che Renzi è uno che non fa prigionieri».

Tutto comprensibile. Ma che fine farà la democrazia parlamentare? Che fine farà la sinistra? E soprattutto che fine farà un Paese che sembra ricordarsi dell’Europa solo per ottenere libertà di “deficit spending”? Il “deficit spending” è importante, ma gli Stati Uniti d’Europa lo sono ancora di più. Quel tema però interessa assai poco. Gli immigrati interessano molto di più, ma sul quel tema non è stato compiuto nessun passo avanti e l’altro ieri sono morte in mare altre centinaia di persone. Sono questi i risultati?

La Repubblica, 8 agosto 2015


LA CONDIZIONE di declino e di degrado del Sud viene descritta dalla Svimez, un’agenzia nazionale non un sindacato come scrive Michele Salvati sul Corriere della Sera, con dati e cifre che Roberto Saviano ha tradotto in parole dirette e a tutti comprensibili quando ha parlato di un «un urlo di dolore, non un piagnisteo». Simbolo di pregiudizi vecchi e nuovi, già negli anni ’20 del secolo scorso Antonio Gramsci aveva messo in luce come per molto Nord intraprendente il Meridione fosse vissuto come una “palla al piede” che deturpava l’immagine di un Italia moderna e degna di un posto d’onore tra i grandi. Dunque, il Sud come questione nazionale la cui risoluzione richiederebbe un rinnovamento radicale, culturale e politico. Non solo finanziamenti (come il governo promette di fare, e che comunque sono necessari) ma anche una classe politica, nazionale e locale, che abbia il coraggio e l’onestà di interrompere una tradizione di malgoverno, disfunzioni e incapacità che è tanto antica quanto la nostra storia nazionale. Il dramma del Sud non è una questione relativa solo al Sud o “del” Sud, né è cominciato con la Prima Repubblica.

La questione meridionale è nata insieme all’unità d’Italia. È nata, scrissero Pasquale Villari e Francesco De Santis, quando gli italiani del Nord scoprirono che il Sud della realtà non corrispondeva a quello della lussureggiante fertilità della loro immaginazione. La miseria si cominciò a vedere con il governo liberale: i viaggi elettorali costrinsero i candidati e i giornalisti ad attraversarlo, il meridione. E il brigantaggio era una realtà, esploso insieme alle lotte risorgimentali come retroguardia di un potentato locale che non voleva essere scalzato via, ma anche come diffidenza e aperta opposizione verso i piemontesi, che con la loro supponenza di dominatori finirono, disse anni dopo Antonio Gramsci, per mostrarsi “dei dilettanti” che «non hanno alcuna simpatia per gli uomini...Obbligano a soffrire inutilmente nel tempo stesso che sciolgono degli inni alati alla virtù, alla forza di sacrificio e di volontà del cittadino italiano». Il brigantaggio, le forme di illegalità, le periodiche rivolte fecero in pochi anni temere che il Sud fosse una polveriera pronta a esplodere.

Negli anni ’70 dell’Ottocento la “questione meridionale” divenne un oggetto scientifico, anzi il primo oggetto sociale di studio scientifico nel nostro Paese, crocevia di diverse discipline, alcune nuovissime (come l’antropologia e la sociologia), altre rinnovate (come la letteratura popolare e la storia locale), altre nuove (come l’economia politica). Il problema fece nascere una scienza; che nel 1876 produsse la prima inchiesta sulla Sicilia a firma di Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti, grazie alla quale l’opinione nazionale scoprì l’esistenza della mafia. Ma fu un’autodidatta inglese a darci il primo importante racconto sociale sul meridione, Jessie White. Moglie di Alberto Mario, un patriota garibaldino di fede repubblicana e federalista, aveva perseguito sogni rivoluzionari partecipando al nostro Risorgimento, e nella sua Miseria di Napoli raccontò delle condizioni di dolore, malattia e degrado in cui languiva larga parte della popolazione partenopea, che viveva in grotte e sotterranei.

Quei due libri uscirono mentre una nuova “questione” sorgeva, questa volta non italiana soltanto ma continentale: la “questione sociale”, la nascita della classe operaia organizzata, che chiedeva diritti di sciopero e politici, assicurazioni mutualistiche e previdenziali. Questione meridionale e questione sociale in Italia marciarono insieme: l’una e l’altra figlie degli squilibri generati dall’industrializzazione e dall’erosione delle solidarietà comunitarie. Le due questioni confermavano che lo Stato non poteva “lasciar fare e lasciar passare” ma doveva intervenire. Gli interventi per risolvere la questione meridionale e quella sociale cominciarono pressoché insieme. Ma lo Stato liberale italiano li affrontò essenzialmente come questione di ordine pubblico e di sicurezza: per reprimere innanzitutto tutte le forme di “ribellione” nelle campagne come nelle città industriali.

Affiancava a questa strategia poliziesca una pratica di finanziamenti statali per le opere pubbliche che, lamentarono subito Silvio Spaventa e Marco Minghetti, finirono per favorire il malaffare locale e la corruzione politica. La questione era dunque nazionale, di competenza e di etica delle classi di governo. Il vuoto lasciato dalla mancanza di una forza conservatrice liberale, di una destra parlamentare moderna, fu presto riempito da un nazionalismo demagogico e populista che cronicizzò la “disgregazione sociale” e rese più facile al fascismo metter radici nella società italiana. Ecco dunque che, questione meridionale e questione nazionale o erano risolte insieme o insieme deragliavano il Paese.

Gramsci, che aborriva tanto il fatalismo quanto il volontarismo, non aveva dubbi su questo destino intrecciato. E la conferma veniva anche dai milioni di emigrati sfornati dal Sud, un’emorragia di forze che era prova provata del fallimento dei governi unitari.

In alcune lettere dal carcere, Gramsci ricostruì le tappe della devastante politica dello Stato italiano verso il Sud, legando la “questione meridionale” direttamente ai limiti delle classi dirigenti nazionali, politiche ed economiche. «Perché si provveda adeguatamente ai bisogni degli uomini di una città, di una regione, di una nazione, è necessario sentire quei bisogni; e necessario potersi rappresentare concretamente nella fantasia questi uomini in quanto vivono, in quanto operano quotidianamente, rappresentarsi le loro sofferenze, i loro dolori, le tristezze della vita che sono costretti a vivere. Se non si possiede questa forza di drammatizzazione della vita, non si possono intuire i provvedimenti generali e particolari che armonizzino le necessita della vita con le disponibilità dello Stato».

Per rovesciare questo trend, Gramsci suggeriva di cominciare proprio da dove si era arenato il progetto liberale: incorporare il Sud nello Stato nazionale. Oggi l’Italia è una democrazia solida, eppure il degrado nel quale versa il Sud conferma integralmente il senso delle parole gramsciane: non considerare il Sud come un problema locale, perché il Meridione rappresenta l’intera nazione, le sue sconfitte come i suoi successi. L’Italia non riparte se non tutta insieme.

Per un laico è amaro ammetterlo: l'unico tra i potenti che esprime parole di saggezza politica (anche perché umane) appartiene alla sfera della religione. Se non fosse un potente qualcuno si direbbe "stai sereno".

Il manifesto, 8 agosto 2015

Papa Fran­ce­sco aveva già detto, dopo un’ennesima strage di migranti al largo di Lam­pe­dusa: «È una ver­go­gna». Que­sta ver­go­gna non ha fatto che ripe­tersi, per mesi, e c’è anche qual­cuno che si ral­le­gra per­ché l’Europa adesso mostre­rebbe un po’ più di sen­si­bi­lità, c’è per­fino una nave irlan­dese che par­te­cipa alle ope­ra­zioni di tumu­la­zione nel Medi­ter­ra­neo di cen­ti­naia e cen­ti­naia di pro­fu­ghi, men­tre una parte ne salva.

Intanto la Fran­cia sigilla la fron­tiera di Ven­ti­mi­glia, l’Inghilterra sta­bi­li­sce una linea Magi­not all’ingresso dell’Eurotunnel della Manica, l’Ungheria alza un muro e l’Italia è tutta con­tenta per­ché ha posto fine all’unica cosa buona che era riu­scita a fare, l’operazione «Mare Nostrum», ed è rien­trata nei ran­ghi dell’Europa per­ché sia chiaro che la vita negata ai pro­fu­ghi non è una scelta solo dell’Italia, ma è un sacri­fi­cio col­let­tivo che tutta l’Europa offre a se stessa avendo ces­sato di essere umana.

Ed ecco che il papa Fran­ce­sco dà il nome alla cosa: respin­gere i pro­fu­ghi è guerra, e cac­ciare via da un Paese, da un porto, da una sponda i migranti abban­do­nati al mare, è vio­lenza omicida.

Lo dice nell’anniversario del delitto fon­da­tore di que­sta fase della moder­nità, lo dice nei giorni di Hiro­shima e Nagasaki.

Quando aveva denun­ciato che la guerra mon­diale non era finita, per­ché nella glo­ba­liz­za­zione si sta com­bat­tendo una guerra mon­diale «a pezzi», era sem­brato che par­lasse per meta­fore; ma oggi mette le cose in chiaro: la guerra è que­sta, i garan­titi con­tro i dispe­rati, un mondo che voleva abo­lire le fron­tiere e ne ha alzate altre più spie­tate e inva­li­ca­bili, con­tro un’umanità senza patria né asilo che invano cerca salvezza.

E se è una guerra, una guerra non dichia­rata e non tute­lata da alcun diritto, nem­meno uma­ni­ta­rio, gli atti che vi si com­piono sono cri­mini di guerra. E que­sto vale per le vit­time in fuga dalla Bir­ma­nia nell’Oceano Indiano, a cui il papa spe­ci­fi­ca­mente si rife­riva, e vale per le vit­time che non rie­scono ad attra­ver­sare senza soc­com­bere la fossa comune del Mediterraneo.

Sono mesi e mesi che i siti non­vio­lenti, paci­fi­sti, o sem­pli­ce­mente umani, denun­ciano que­sti delitti per­pe­trati dai governi euro­pei, com­preso il nostro, sol­le­ci­tano appelli e firme dei cit­ta­dini per­ché ci si risolva a dare l’unica solu­zione vera al pro­blema, che è quella di aprire le fron­tiere, rico­no­scere l’antico diritto umano uni­ver­sale di migrare, per­met­tere ai pro­fu­ghi e ai fug­gia­schi di viag­giare al sicuro su treni, navi e aerei di linea. E sono mesi che siti nostal­gici e inte­gra­li­sti, invi­diosi di papa Fran­ce­sco, cer­cano di scre­di­tarlo lamen­tan­done la popo­la­rità, e ral­le­gran­dosi se quando parla ai poveri e ai movi­menti popo­lari, come ha fatto in Boli­via, il mondo per bene con i suoi media nean­che lo ascolta.

La verità è che papa Fran­ce­sco è l’unico che oggi ha parole all’altezza del dramma sto­rico che stiamo vivendo. Gli scar­tati della terra sono i veri sog­getti sto­rici attorno a cui si deve costruire la nuova con­vi­venza, sono il ful­cro dell’umanità di domani. E la giu­sti­zia e il diritto devono garan­tire la «casa comune» e tutti i suoi abi­tanti, a comin­ciare dal diritto a vivere, a pren­dere terra, a ripo­sarsi sotto qual­siasi sole. Que­sto dice il papa, e non è una cosa impos­si­bile, è solo una cosa non ancora avvenuta.

Commenti sull'ennesimo episodio della guerra condotta dal Primo mondo (l'Europa e gli europei in testa, con qualche nobile eccezione) contro i popoli che fuggono dalle persecuzioni, dalle torture e dalle carestie che il Primo mondo ha contribuito a provocare.

La Repubblica, 8 agosto 2015

IL PAPA DOPO LA TRAGEDIA
“RESPINGEREI MIGRANTI È UN ATTO DI GUERRA”
di Paolo Rodari

Francesco: “Questo è uccidere”. Arrestati gli scafisti. Arrivi record in Grecia,Tsipras chiede aiuto all’Ue

Tensioni e conflitti si risolvono «con il dialogo» e «il rispetto delle identità». Respingere i migranti è «guerra, significa uccidere». Così Papa Francesco, ieri, incontrando i ragazzi del Movimento eucaristico giovanile (Meg). Bergoglio, che segue le notizie provenienti dal Mediterraneo, si è poi soffermato sul dramma dei profughi birmani ricordando che respingere chi lascia la propria terra via mare in cerca di una vita dignitosa è un atto criminoso: «Questo si chiama violenza», ha detto. «Speriamo che i naufragi di questi giorni e l’irresponsabilità di istituzioni e politici rimangano una pagina nera di cui fare memoria perché tali tragedie non si ripetano più», ha detto invece padre Camillo Ripamonti, presidente Centro Astalli, il servizio dei gesuiti per i rifugiati in Italia.

Fu proprio visitando il Centro Astalli nel 2013 che Francesco chiese ai conventi italiani di aprirsi all’accoglienza dei rifugiati, un appello a cui poi hanno risposto in molti. Negli ultimi tre giorni sono stati tratti in salvo oltre duemila migranti nel Mediterraneo, mentre martedì ventisei sono stati i morti e duecento i dispersi in un naufragio al largo delle coste libiche. I circa 400 sopravvissuti, sbarcati ieri a Palermo dalla nave irlandese Le Niham, hanno raccontato di terribili violenze e sevizie subite a bordo e diversificate a seconda delle etnie. Nella mattinata di oggi è previsto invece l’arrivo nel porto di Reggio Calabria della motonave Siem Pilot con a bordo 800 migranti.
Nel frattempo altri dati drammatici arrivano dalla Grecia dove nel mese di luglio si è registrato il record di arrivi di migranti: con 49.550 registrati, in un solo mese è stato superato il totale del 2014 (41.700). Da gennaio a luglio 2015, sono così 130.500 gli arrivi in Grecia, cinque volte più dello stesso periodo del 2014. Lo ha comunicato Frontex: «perché, nonostante i flussi verso l’Italia, da alcuni mesi la rotta greca è più battuta». Atene si affianca a Roma nel lanciare un appello all’Ue: «È quella della solidarietà o quella che cerca di proteggere i suoi confini?», ha chiesto Alexis Tsipras. In Italia le parole del Papa hanno provocato reazioni diverse dalla politica. Salvini, segretario leghista, ha attaccato ancora Francesco: «Respingere i clandestini un crimine? No, un dovere», ha detto. Eppure, al di là dei proclami, l’Italia continua a fare la sua parte nel lavoro di accoglienza. Nella prima mattinata di oggi, infatti, è previsto l’arrivo nel porto di Reggio Calabria della motonave Siem Pilot con a bordo 800 migranti, di cui 658 uomini, 94 donne (di cui due in stato di gravidanza) e 48 minori, di varie etnie. Al momento dello sbarco i migranti verranno sottoposti alle prime cure sanitarie da parte del personale medico presente sul posto. I migranti saranno trasferiti in base al piano di riparto predisposto dal Ministero dell’Interno.


I PUNTINI NEL MARE
GLI ANNEGATI EQUEGLI AGUZZINI
di Adriano Sofri
Le autorità, ma anche i comuni cittadini hanno una preziosa distanza da quel Mediterraneo, mezzo pieno o mezzo vuoto, dove gli esseri umani continuano a morire
La prima fotografia è presa da più lontano: il mare blu appena increspato e tanti puntini neri o colorati sparpagliati, forse uccelli marini, forse esseri umani.

Esseri umani? Se ne può dubitare, una volta che si sia saputo che cosa c’è sotto la fotografia. Sotto, invisibili, tanti altri puntini ammassati e andati a fondo, forse duecento, senza vedere un’ultima luce. Dicono alcuni sopravvissuti che gli scafisti li hanno costretti, per impedire ai dannati della stiva di arrampicarsi fino alla luce, a sedersi sulla botola chiusa.

In una foto successiva, più ravvicinata, c’è uno che sembra un ragazzino, ha un salvagente e batte forte i piedi, dallo spruzzo. Più indietro c’è un altro che sembra un bambino, e un adulto che lo sorregge. E altri, alla rinfusa. Stavano su un peschereccio di ferraglia, hanno ondeggiato verso il lato dal quale arrivavano i canotti di soccorso e l’hanno capovolto: è colato a picco in un momento. È il momento peggiore, quello in cui la salvezza arriva a portata di mano. Sono annegati in 26,
tre bambini, oltre alle centinaia della stiva.

Poi ci sono le fotografie di 5 scafisti arrestati, algerini e libici, tra i 21 e i 26 anni. La polizia li ha lasciati fotografare con pieno agio, e ha fatto bene: ma non si legge sulle loro facce la ferocia che i passeggeri hanno raccontato. Con le stesse facce, avrebbero potuto annegare anche loro o cercare un’altra vita. Uno è a torso nudo, uno, barba nera e lunga, gambe nude e maglietta verde che recita: Original Timberline. Crafted for toda ”. Uno ha la canottiera celeste, uno la t-shirt bianca con un marchio italiano famoso. L’ultimo ha i capelli rasta e la maglietta col manifesto di Full Metal Jacket, con la scritta spagnola — La chaqueta metálica — e l’elmetto famoso con il motto Born to kill . Che siano disgustosi, è fin troppo facile. Sono scafisti, cioè l’unica risorsa per chi ha attraversato i deserti e deve ancora attraversare il mare — e poi avrà tante altre traversate ancora da compiere a rischio della vita, fino alla più surreale, sotto il mare della Manica. Che siano anche aguzzini, è un eccesso di zelo, e anche un incerto del mestiere, dato che bisogna tener in equilibrio una mandria umana che sbandando può rovesciare la carretta. C’è poi la questione degli esseri umani, e della vita dichiarata sacra. Le autorità costituite europee e internazionali, anche quando hanno un nome e un cognome, e pure loro una faccia e magari una barba una camicia una cravatta, tengono una distanza accuratamente misurata dall’acqua in cui si annega. La distanza, e tutti i suoi gradi intermedi, impediscono che ci sia qualcuno cui incombe il doveroso compito di fissare il numero di migranti da far annegare nel Canale di Sicilia all’anno o al mese: non troppo pochi, per tentare almeno una dissuasione fra le centinaia di migliaia che premono sulle coste meridionali del Mediterraneo; e non troppi, perché non ne esca sfregiata la figurina di un’Europa civile.

Il numero giusto -tra i 3.279 del 2014 e i 4.000 previsti per quest’anno, che già ne conta già 2.400 -si fissa per così dire da sé, come succede con le statistiche. Si può essere responsabili di una morte o cinque, non di una statistica. La quale si consola col versante opposto, la statistica sui salvati dell’anno scorso, e i salvati di questo: già 88 mila, un netto progresso.

È la solita questione del Mediterraneo mezzo pieno o mezzo vuoto. Le autorità possono essere ottimiste o pessimiste, sono comunque innocenti. Intendiamoci, non solo le autorità, anche i cittadini hanno la loro preziosa distanza dall’acqua in cui si affoga, benché la televisione faccia vedere la cosa, prima più da lontano, puntini che forse sono gabbiani, forse esseri umani, poi più da vicino, fino ad avere la sensazione di tendere la mano da casa propria a una ragazzina intirizzita, e avvolgerla in una carta d’oro e una d’argento, e attaccarla a una flebo, e ringraziare il cielo per lei.

Ieri un commento alle foto (lo so, i commenti non si devono leggere) ammoniva gli imbarcati, vivi e morti: “Il volo Tunisi-Roma costa 160 euro!” E quelli che sono andati a picco serrati nella stiva, i più poveri, avevano pagato 1200. Che lezione! In realtà, si può volare a Tunisi anche per meno, e in meno di un’ora. La Tunisia, che resta il meno dispotico dei Paesi del Maghreb, per ostacolare i reclutamenti jihadisti, è arrivata a vietare ai suoi giovani (fino ai 35 anni!) di espatriare verso i Paesi a rischio — cioè, dalla Tunisia, tutti — con qualche eccezione autorizzata dai genitori (dei figli di 35 anni!). E figuriamoci i somali, i sudanesi, i siriani, gli eritrei, che al barcone arrivano dopo aver distrutto i documenti e magari limato i polpastrelli. Domanda: appartengono alla stessa specie vivente, sono ambedue animali umani, quello che con qualche decina di euro vola a Tunisi e a bordo ordina un succo di ananas, e quello che per 1.200 euro si guadagna uno spazio nella stiva di una carcassa di peschereccio, come in una camera a gas? Quello che viaggia col bagaglio a mano, e quello che crepa asfissiato dentro una valigia tra Melilla e la Spagna? Quello che arriva fino a Calais e, respinto per l’ennesima volta, getta la sua bambina di là dalla barriera, che almeno lei ce la faccia?

Lo so, bisogna stare attenti a non fare i demagoghi, a non vellicare sensi di colpa e buoni sentimenti del proprio prossimo. Ma non sto mettendo a confronto la foto dei 400 puntini sul mare blu, e dei 200 puntini che mancano, con quella delle caviglie di una signora che, sulla stessa homepage di ieri, aveva la didascalia: “300mila dollari per i sandali di diamanti”. Lo so che non è per permettere a quella signora il paio di scarpe che tante donne incinte di stupri vanno a fondo nel Canale di Sicilia. Che paragonare i naufragi nel Canale di Sicilia al raddoppio del Canale di Suez è populista: non sono vasi, né canali comunicanti. Si può però paragonare una parte di mondo, compresa la gran maggioranza dei suoi poveri, che non può sopportare di sentire la propria incolumità fisica minacciata, e un’altra parte di mondo che scappa dalla morte a rischio della morte e viaggia incontro a tante morti successive, non per rifarsi una vita, ma per farsela, e se non a sé almeno alla propria creatura.


Riferimenti
Sull'argomento abbiamo pubblicato numerosi articoli. Li trovate dispersi nella varie cartelle della sezione Società e politica, oppure digitando le parole profughi, o migranti. Segnaliamo in partoicolatr quello recente di Guido Viale, L'Europa dei profughi

La Repubblica, 7 agosto 2015

«Non li conosco, non li ho mai sentiti nominare. Ho anche guardato le fotine pubblicate dai giornali: ricordano quei tizi scomparsi di Chi l’ha visto. Invece sono i responsabili della principale azienda culturale del paese: davvero non mi capacito». Ugo Gregoretti, per la Rai, ha inventato un sacco di cose. Il “giornalismo faceto” di Controfagotto.La regia provocatoria del Circolo Pickwick . Il documentarismo di Sottotraccia. «Sì, facevamo cultura, che poi vuole dire far bene le cose, nel modo più innovativo possibile. Ma da tempo in Rai alla qualità non si bada più».

È ancora la principale fabbrica di cultura?
«Vorrei subito chiarire questo equivoco. Dopo l’epoca aurea di Bernabei la Rai ha continuato a esercitare un primato che attiene alla quantità più che alla qualità. Il primato della qualità è rimasto in altri posti: alla Scala, al festival di Spoleto o alla Normale di Pisa. Il nuovo consiglio d’amministrazione rivela l’imbroglio».

In che senso?
«L’Italia non ama la cultura. Siamo i cittadini più ignoranti dell’Occidente. Enfatizziamo in modo trombonesco la nozione di cultura e di culturale, vantando il settanta per cento del patrimonio artistico mondiale. Ma si tratta di un innamoramento finto e ridicolo. Quanti sanno distinguere Borromini da Berlusconi? Temo che la Rai sia lo specchio di tutto questo. Un elefante imbalsamato, privo di un intimo e reale anelito alla cultura. Salvo pochi stravaganti».

A chi si riferisce?
«A quei bei programmi di storia che vanno in onda in tarda serata. Esiste una ragnatela di nicchie aziendali, che però non modifica l’impronta generale della Tv pubblica. La cultura abita altrove. E non mi pare che il nuovo vertice rappresenti l’ambizione del cambiamento ».

Lei ha conosciuto un’altra azienda.
«Quando cominciai, negli anni Cinquanta, non erano certo rose e fiori. La politica esercitava un controllo ferreo. Però eravamo invitati tutti a fare bene. A inventare. E ci garantivano le condizioni per farlo. Ci si chiedeva uno stile, un’eleganza, una correttezza che oggi non vedo».

Cosa vede?
«Inquadrature sbagliate, sciatteria, errori a non finire. Ma chi sa più insegnare? La Rai era un grande centro sperimentale dove si imparava».

Era una Tv dal chiaro intento pedagogico.
«Sì, gli obiettivi erano morali più che estetici. Non contava tanto la belluria ma il fare bene, nella scelta dei temi e nel modo di affrontarli. Dovevamo essere un modello per l’Europa. Un documentario sul Gattopardo cambiò le mie sorti televisive: riuscii a battere la Bbc per la finale del Prix Italia e finalmente mi fecero fare Controfagotto» .

I direttori generali controllavano le mutande delle ballerine.
«Sì, Filippo Guala ordinava di allungare l’orlo. Però fu lo stesso dirigente che con un falso concorso fece entrare in Rai i migliori cervelli della nostra generazione. Umberto Eco. Fabiano Fabiani. Furio Colombo. Gianni Vattimo. Una trasfusione di sangue di cui la Rai avrebbe beneficiato a lungo».

La Rai produceva cultura quando eravamo un paese arretrato. Oggi che gli spettatori sono molto più alfabetizzati c’è meno attenzione.
«La regola era quella di rendere potabili i temi più complessi. Bisognava spiegare Gadamer alle portinaie».

Cosa la fa più arrabbiare della Tv di oggi?
«Le fiction. Io feci il Circolo Pickwick con pochi mezzi e “inventando” Gigi Proietti. Oggi prevale il divismo, la tv ha preso il peggio della maleducazione cinematografica » .

Uno studio del

Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung può trionfalmente rivelare che la grande maggioranza dei lavoratori tedeschi, anche in condizioni di precarietà, bassi salari e scarsi diritti, è ben contenta del lavoro che ha. Gli insoddisfatti naturalmente esistono, ma sono pochi e di cattivo carattere. Il manifesto, 6 agosto 2015 (m.p.r.)

Pochi giorni fa, incontrando fortunatamente una diffusa resistenza, la Confindustria tedesca chiedeva di superare il limite di 8 ore della giornata lavorativa, in nome della flessibilità. E’ il segno inequivocabile di come la dottrina della competitività non contempli alcun principio di equilibrio o di autoregolazione. Non da ieri, numerosi economisti sottolineano come l’avanzo commerciale e di bilancio tedesco (8% del Pil quest’anno) costituiscano per l’Europa un problema ben più serio del debito greco.

L’eccesso di risparmio comincia a preoccupare perfino i vertici della Deutsche Bank. Come è possibile che una economia fiorente si arrocchi nel respingere qualsiasi ripresa della dinamica salariale, qualsiasi miglioramento dei diritti e dei redditi del lavoro precario, qualsiasi ripresa della spesa pubblica, tali da ridurre i fortissimi squilibri che affliggono il Vecchio continente, oltre a migliorare il livello di vita dei tedeschi? A partire da questa domanda, in molti lamentano un antigermanesimo di comodo che imputerebbe a Berlino ciò che in realtà è l’essenza del capitalismo globale.

La Germania, insomma, sottostà, sia pure con qualche eccesso di zelo e qualche specifica ossessione, alle leggi del neoliberismo, non le crea. Il pericolo non proverrebbe dunque da una ripresa del nazionalismo tedesco (del tutto evidente nei toni del dibattito pubblico in Germania) ma dalla dittatura dei mercati. Inutile prendersela con una presunta vocazione storica della Germania al comando. Se questa affermazione non teme smentite definitive, essa contiene tuttavia una ingenuità e un pericolo. La prima consiste in una idea del tutto astratta e disincarnata del mercato (dimentica del fatto che quest’ultimo è un rapporto sociale con le sue espressioni politiche) che non esisterebbe nelle forme attuali senza i suoi interpreti "sovrani", i suoi guardiani e i suoi retori.
Il successo di pubblico della politica teutonica in Europa deriva dall’aver convinto i cittadini tedeschi a considerarsi in primo luogo "azionisti" del ministero guidato da Wolfgang Schaeuble. Il secondo risiede nell’insidiosa illusione che la sovranità nazionale (e dunque il nazionalismo che frequentemente ne discende) possa essere contrapposta alla globalizzazione capitalistica, sia pure come argine parziale. L’illusione riverbera sulla questione della moneta distinguendo tra paesi con la vocazione all’export e paesi orientati al mercato interno. Gli uni favoriti, gli altri svantaggiati dalla moneta unica. Fatto sta che non si tratta affatto di "vocazioni", o di "caratteri nazionali", ma di rapporti di forza tra le classi che non dipendono dall’appartenenza o meno all’Unione europea e dai suoi trattati, come dimostra, per esempio, l’esplosione dell’export made in China con le condizioni politiche e poliziesche che la hanno resa possibile.
Il nazionalismo tedesco, dunque, è una delle condizioni del meccanismo di accumulazione in Europa, tanto è vero che esso è perfino in grado di riproporsi in una versione più federale e integrata, che ha tra i suoi promotori lo stesso Wolfgang Schaeuble, a condizione che la governance venga messa al riparo da qualunque interferenza di carattere democratico e si attenga strettamente alle regole date. Regole saldamente radicate nella tradizione ordoliberale tedesca. Questa forma di integrazione saprebbe avvantaggiarsi, inoltre, di uno sfoltimento dell’unione monetaria senza nessuna perdita significativa di egemonia o di sovranità, continuando a condizionare pesantemente le economie europee sospinte ai margini dell’eurozona. In queste condizioni un "atterraggio morbido" fuori dalla moneta unica non è che il sogno malsano dei nostalgici della sovranità nazionale. Il paracadute non si aprirà, come il governo di Tsipras sembra avere intuito per tempo. Del resto, la stessa alternativa tra la permanenza nell’euro o l’abbandono volontario della moneta unica si presenta come una operazione di decisionismo governativo, estraneo a qualsivoglia movimento di massa, come ci suggerisce l’esigua minoranza di greci disposti a uscire dall’euro.
La messa in scena di una rivincita, del tutto illusoria, della politica sull’economia, nel cui campo e secondo i cui schemi si gioca per intero la partita. Fuori dall’ eurozona, non meno che al suo interno, non c’è infatti libertà di azione, c’è il terreno minato dell’economia globale. Di fronte alla quale, sulla scala ridotta dello stato nazionale (perfino la Germania è troppo piccola per il “grande gioco”), si aprono due strade. O quella di uno sfruttamento intenso del lavoro e uno smantellamento radicale dello stato sociale, se possibile ancor più draconiano di quello preteso da Bruxelles, ma questa volta sotto il segno infetto dell’"orgoglio nazionale", per sostenere la competitività, oppure la via del protezionismo, dell’isolazionismo, delle politiche dirigiste di sviluppo nazionale, degli ateliers natonaux e del lavoro fittizio. Per non voler pensare a vere e proprie derive di natura autarchica.
Da destra e da sinistra vi sono in Europa diverse tendenze che sembrano convergere verso simili esiti. Gli uni nella speranza di restaurare un’idea forte di "Nazione", gli altri nell’illusione che questo passaggio conduca a una trasformazione in senso più democratico e ugualitario della società. Questi ultimi muovono da un tragico errore di fondo: il socialismo europeo non è fallito perché si è convertito al neoliberismo, ma si è convertito al neoliberismo perché era fallito. Perché il modello di stato, di welfare, di lavoro, di identità singolari e collettive che esso proponeva non corrispondevano più alle aspirazioni di soggettività sociali profondamente trasformate. Se non si parte da questo presupposto la partita con le promesse, sia pur disattese, del neoliberismo è irrimediabilmente perduta. E uno studio del Deutsches Institut fuür Wirtschaftsforschung può trionfalmente rivelare che la grande maggioranza dei lavoratori tedeschi, anche in condizioni di precarietà, bassi salari e scarsi diritti, è ben contenta del lavoro che ha. Gli insoddisfatti naturalmente esistono, ma sono pochi e di cattivo carattere.
«Il Senato approva una riforma ultra-verticistica e disciplinare. Nelle 15 deleghe rafforzati i poteri della presidenza del Consiglio. Le critiche dei sindacati». Saranno solo i sindacati e qualche gufo a protestare contro la sostituzione di un regime democratico con un regime feudale? Ma in cima non c'è Carlo Magno, c'è Attila.

Il manifesto, 5 agosto 2015

La riforma della pub­blica ammi­ni­stra­zione è stata appro­vata ieri in maniera defi­ni­tiva dal Senato gra­zie alle oppo­si­zioni. Il governo Renzi è stato gra­ziato da Forza Ita­lia che ha votato con­tro il prov­ve­di­mento, garan­tendo il numero legale. Se i voti a favore sono stati 145, 97 sono stati quelli con­trari, senza aste­nuti. Se qual­cuno avesse voluto fare male a Renzi – che ieri dal Giap­pone ha esul­tato a modo suo «abbrac­ciando i gufi» via twit­ter – sarebbe bastato votare con­tro e l’esecutivo si sarebbe schian­tato con­tro il muro del numero legale: 150 i voti neces­sari. Così non è stato e il par­la­mento ha dato carta bianca al governo di fare quello che gli pare con le 15 dele­ghe con­te­nute in una legge com­po­sta da 23 articoli.

Den­tro c’è di tutto: al governo è stata dele­gata la riscrit­tura del testo unico sul pub­blico impiego che inter­verrà sulla «respon­sa­bi­lità» dei dipen­denti pub­blici, cioè dovrà ren­dere con­creta la pos­si­bi­lità di con­durre a ter­mine le azioni disci­pli­nari; modi­fi­cherà il ruolo dei diri­genti vin­co­lan­doli ancora più stret­ta­mente alla poli­tica, reste­ranno in carica quat­tro anni, più due di pro­roga, e dovranno accet­tare il deman­sio­na­mento a fun­zio­nari, all’occorrenza. In caso con­tra­rio saranno licen­ziati. La legge raf­forza oltre modo i poteri di inter­vento della pre­si­denza del con­si­glio nell’ambito delle con­tese tra le ammi­ni­stra­zioni cen­trali che riguar­dano la tutela pae­sag­gi­stica e la salute. Sarà il pre­si­dente del con­si­glio a deci­dere, sen­tito il parere for­male del con­si­glio dei mini­stri. Poteri raf­for­zati anche sulla rior­ga­niz­za­zione degli uffici dei mini­steri sui quali Renzi, o chi per lui, potrà intervenire.

Nei decreti dele­gati, che saranno pre­sen­tati da set­tem­bre, il governo potrà inter­ve­nire su una voce impor­tante della ex-spending review voluta dall’ex com­mis­sa­rio Carlo Cot­ta­relli: la ridu­zione delle par­te­ci­pate. La deci­sione di ridurle da «8 mila a mille» verrà presa nelle segrete stanze di palazzo Chigi. Se sarà presa. Le pre­fet­ture saranno rior­ga­niz­zate, e non ce ne sarà più una per pro­vin­cia. Nascerà l’ufficio ter­ri­to­riale unico dello Stato. Con­ti­nua nel frat­tempo l’opera di ridu­zione delle camere di com­mer­cio vagheg­giata sin dai tempi di Monti: saranno tagliate da 105 a 60. Con­fer­mata la can­cel­la­zione del Corpo fore­stale che sarà assor­bito in un’altra poli­zia, si ritiene dai Cara­bi­nieri. Tra i molti dettagli-spot di una legge-lenzuolo c’è il wi-fi obbli­ga­to­rio per gli uffici pub­blici, scuole e biblio­te­che. Dopo la chiu­sura, diven­te­ranno hot-spot per la cit­ta­di­nanza; la pos­si­bi­lità di pagare via app multe fino a 50 euro; stop a 113, 118 e 115, pre­vi­sto un unico numero per le emer­genze, il 112. Intro­dotto la pro­fi­la­zione per ogni cit­ta­dino che avrà una carta digitale.

Se dal lato Pd si festeg­gia la «moder­niz­za­zione» pra­ti­cata dalla riforma (Piero Fas­sino, sin­daco di Torino e pre­si­dente Anci), a dir poco cri­tici sono i sin­da­cati del pub­blico impiego. Il fuoco della loro cri­tica resta l’assenza di ogni rife­ri­mento al con­tratto di lavoro nazio­nale, e quindi alla qua­lità e alla retri­bu­zione dei dipen­denti. In una nota con­giunta Fp-Cgil, Cisl-Fp, Uil Fpl e Uil-Pa, la «riforma anti-gufi» di Renzi viene defi­nita «illu­so­ria». Non è con nuove norme che si cam­bierà la P.A. In com­penso la cosid­detta «riforma Madia» (dal nome della mini­stra depu­tata) «riduce gli spazi di nego­zia­zione e ina­spri­sce i con­trolli di merito e com­pa­ti­bi­lità economico-finanziaria dei con­tratti» Non inve­ste sulle pro­fes­sio­na­lità, ma le disci­plina e pensa, even­tual­mente, a punirle. «Il governo man­tiene una Pa auto­re­fe­ren­ziale — scri­vono i segre­tari di cate­go­ria Det­tori, Fave­rin, Tor­luc­cio e Turco — volu­ta­mente disor­ga­niz­zata. Vogliamo il rin­novo del con­tratto subito».

Dal fronte poli­tico delle oppo­si­zioni, Lore­dana De Petris (Sel) appro­fon­di­sce la cri­tica alla con­fe­renza dei ser­vizi e al «silenzio-assenso»: «Que­sta riforma sacri­fica la ter­zietà della P.A., la tra­sforma in una pira­mide la sacri­fica al potere poli­tico. è l’esatto oppo­sto di quello che biso­gnava fare».

«Nella lunga intervista non abbiamo sentito menzionare i temi che a noi di Italia Nostra stanno più a cuore: la protezione del paesaggio, dell'arte e della cultura in città e in terraferma, la qualità dell'aria e dell'acqua, l'esodo dei cittadini e il proliferare di strutture alberghiere ed extra-alberghiere, la chiusura dei negozi di quartiere, l'eccesso dei plateatici concessi, la ressa di turisti nelle calli, sui ponti e sui mezzi di trasporto».

Italianostra-venezia.org, 4 agosto 2015 (m.p.r.)

Sul canale televisivo Televenezia (canali 19 e 71) è apparsa venerdì scorso 31 luglio una trasmissione di un'ora che consisteva in un'intervista al nuovo sindaco Luigi Brugnaro. Invitiamo i nostri lettori a darvi un'occhiata, per farsi un'idea sempre più precisa del carattere e delle idee del nuovo sindaco di Venezia. Brugnaro ha dichiarato al pubblico che la trasmissione diventerà una presenza fissa settimanale. Il sito di Televenezia annuncia che il programma andrà in onda ogni giovedì alle 21 e alle 23 e ogni venerdì alle 7.

Nella prima trasmissione il sindaco ha illustrato questa sua iniziativa, che chiama "l'ora della verità", come parte del suo programma di un percorso di "democrazia partecipativa", nel quale sono inclusi anche gli incontri con le categorie economiche e associazioni di cittadini chiamate "tavoli di consultazione" (i primi tre hanno già avuto luogo). L'attività della sua giunta, ha dichiarato Brugnaro, dev'essere "sostenuta dalla consultazione con i cittadini". Durante quella prima ora Brugnaro si è soffermato su alcuni temi in particolare:
- Sul bilancio del Comune ha ribadito l'esistenza di un rosso di 62 milioni ("ho trovato una macchina in corsa lanciata verso il disastro") e i suoi progetti per affrontare la cosa.
- Sul Turismo ha sottolineato una distinzione tra turisti pernottanti ed escursionisti. Ha anche menzionato l'esistenza di proposte per ridurre le presenze giornaliere. Ha dichiarato di volerle esaminare assieme ai cittadini nei tavoli di consultazione (ai minuti 10 - 14).
- Sugli stipendi dei dipendenti del Comune ha illustrato i suoi criteri di meritocrazia.
- "Non voglio essere il sindaco dei grandi lavori; voglio essere il sindaco delle manutenzioni, delle piccole cose", tra cui la lotta al moto ondoso .
- Sulla Ztl si Mestre annuncia di volerla "spegnere", perché "Mestre deve tornare ad essere accessibile".
- Sul Lido, vuole che l'Ospedale al mare mantenga la sua funzione sanitaria e che i grandi alberghi rimangano tali. Vuole una pista ciclabile e un prolungamento dell'apertura delle spiagge fino alle 20 invece che fino alle 19 come oggi.
Abbiamo sintetizzato solo i temi principali. Nella lunga intervista non abbiamo sentito menzionare i temi che a noi di Italia Nostra stanno più a cuore: la protezione del paesaggio, dell'arte e della cultura in città e in terraferma, la qualità dell'aria e dell'acqua, l'esodo dei cittadini e il proliferare di strutture alberghiere ed extra-alberghiere, la chiusura dei negozi di quartiere, l'eccesso dei plateatici concessi, la ressa di turisti nelle calli, sui ponti e sui mezzi di trasporto. Ma possiamo sperare che con l'intensificarsi degli incontri con la cittadinanza, e con le insistenze anche nostre, questi temi comincino ad affiorare e ad imporsi come parte essenziale del programma amministrativo.
Quando l'arrogante e incolta inettitudine del governo centrale si aggiunge all'inettitudine dei poteri locali, e per di più la regola generale diventa "io per me e nessuno per tutti", allora è ovvio che gli squilibri tra forti e deboli si accrescano. <articoli di Carmelo Papa e Valentina Conte. La Repubblica, 4 agosto 2015


90 MILIARDI BLOCCATI E QUELLI SPESI
SI SONO DISPERSI IN 907MILAMICROPROGETTI
di Valentina Conte

Vecchie risorse inutilizzate, nuovi fondi senza delibere Nessun sottosegretario con delega e l’Agenzia resta fantasma

Un mare di soldi bloccato. Fermo. Centoquattro miliardi da spendere subito. E di questi, oltre 87 col bollino del Sud. Destinati cioè a quel meridione d’Italia «a rischio di sottosviluppo permanente» e che cresce la metà della Grecia, ricorda lo Svimez. Com’è possibile? Colpa solo delle amministrazioni locali lente e incapaci, magari sin troppo propense ai «piagnistei » rimproverati da Renzi? In parte, certo. Ma la macchina mi-liardaria dei fondi, europei e nazionali, si è inceppata dalla testa. Burocrazia, ma anche e soprattutto politica.

L’analisi cruda dei numeri racconta un «piano Marshall» per il Mezzogiorno, evocato ieri dalla ministra dello Sviluppo Federica Guidi nell’intervista a Repubblica , che nei fatti e nei denari già esiste. Non solo. Si scopre che la metà del non speso, ben 50 miliardi, si riferisce addirittura al periodo 2007-2013. In questi nove anni l’Italia è riuscita a utilizzare appena il 46% delle risorse a disposizione, polverizzandole tra l’altro in un milione di progetti. Per la precisione, 907 mila 372. Dall’America’s Cup di Napoli (5,8 milioni) alla campagna “Voglio vivere così” della Toscana (13,4 milioni). Avanzano dunque 50 miliardi della vecchia programmazione (dei 91 totali iniziali). E se non si corre, una parte andrà restituita.

Entro Capodanno, il governo deve difatti spedire a Bruxelles un maxi-scontrino da 12,3 miliardi di fondi europei (cofinanziati dall’Italia) con la data di scadenza. Il resto dei 50 miliardi - fondi nazionali, questi - non rischia invece il binario morto, dunque non andranno perduti né saranno richieste fatture. Ma la stasi sì. Si tratta del Fondo sviluppo e coesione e del Piano di azione e coesione. Sigle non certo popolari (Fsc e Pac), ma fondamentali bacini per gli investimenti nel Sud in infrastrutture, inclusione, formazione, occupazione. Eredi di quel fondo Fas per le aree sottoutilizzate ( dunque il meridione), saccheggiato nel recente passato come bancomat di Stato da governi d’ogni colore, per alimentare un po’ di tutto: cassa integrazione in deroga, multe per le quote latte, la Brebemi, il G8 doppio (Maddalena e L’Aquila). Da buona ultima, anche la legge di Stabilità per il 2015 ne ha prelevato una fettina da tre miliardi e mezzo per finanziare gli sgravi contributivi (soldi del Sud che hanno di fatto beneficiato soprattutto il Nord, il più vivace nelle assunzioni).
Centoquattro miliardi fermi, si diceva. Cinquanta per il passato, come visto. Altri 54 per il nuovo periodo di programmazione, 2014-2020. Parliamo dell’Fsc (Fondo sviluppo e coesione): soldi nazionali tradizionalmente destinati alle grandi opere, le infrastrutture strategiche del Paese. L’ultima legge di Stabilità ne ha cambiato la mission , dirottandoli alla «specializzazione intelligente», dunque ricerca e innovazione e agenda digitale. Non riusciamo a spendere i denari per fare le strade, mettiamoli sulle infrastrutture immateriali, è stato il ragionamento. Tra marzo e aprile, però, l’iter si è congelato. Il Cipe avrebbe dovuto procedere con le delibere (la torta di questo Fondo è gestita in toto dal Comitato interministeriale per la programmazione economica). Ma non l’ha fatto. Graziano Delrio, l’allora sottosegretario di Palazzo Chigi con delega proprio ai fondi europei, è stato spostato alla guida del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (ha giurato il 2 aprile). Ottenendo di portarsi dietro proprio quel fondo, l’Fsc con i suoi 54 miliardi (e sperando di tornare alla mission originaria, cioè le infrastrutture). Una promessa politica del premier Renzi, ad oggi ancora non attuata. Come pure la delega ai fondi Ue, in teoria slittata nelle mani del nuovo sottosegretario Claudio De Vincenti, mai formalizzata. Tutto fermo.

Chi sovraintende da Roma dunque i fondi Ue? Non certo l’Agenzia della coesione, diretta da Maria Ludovica Agrò, di fatto insediata da appena tre mesi (dopo un anno di gestazione). E ancora alle prese con le assunzioni. Dunque Palazzo Chigi. Il premier Renzi ha ereditato il buon lavoro impostato da Delrio, ma poi forse l’ha un po’ accantonato. Di qui la stasi. Certo, va detto che 40 dei 50 programmi di spesa dei nuovi fondi Ue sono stati già approvati da Bruxelles e il governo intende accelerare sui restanti 10. La partita per il 2014-2020 vale in tutto però 138 miliardi (fondi europei più nazionali, Fsc incluso). Una cifra davvero enorme. Da governare.

«Un Paese normale si può permettere di avere ancora il 50% di vecchi fondi da spendere a meno di sei mesi dalla scadenza, con la più grande area depressa d’Europa?», si chiede Guglielmo Loy, segretario confederale Uil. La Uil tra l’altro calcola che dei 12 miliardi di fondi Ue in scadenza, almeno 2 sono a rischio concreto di restituzione. Si vedrà.

SAVIANO A RENZI:“ADDOLORA SENTIR PARLARE DI PIAGNISTEI
Carmelo Lopapa

TOKYO . «Serve più consapevolezza e amor proprio, voler bene all’Italia significa smettere di spararle e sparlarle contro». Matteo Renzi la sua battaglia all’insegna dell’ottimismo taumaturgico contro i “gufi” che dall’Italia continuano a minacciare (Vietnam parlamentari) o a lamentare (crisi economica e sottosviluppo) la combatte ormai colpo su colpo anche dal Giappone. La seconda giornata a Tokyo che sarà segnata dalla visita all’imperatore Akihito e dall’incontro col premier Shinzo Abe - comincia con un post su Facebook quando in italia è ancora notte. Nessun riferimento esplicito a Roberto Saviano, al suo appello per il Sud in ginocchio, certo è che le parole del presidente del Consiglio risuonano come una risposta a 360 gradi: «Bisogna fare di tutto per guardarci con gli occhi di chi ci vuole bene, non di chi si lamenta soltanto». Poche ore prima, aveva rivolto proprio al Mezzogiorno l’invito a «rimboccarsi le maniche», con quel sonoro «basta piagnistei».

Roberto Saviano non lascia cadere il guanto di sfida, benché non rivolto direttamente a lui. E su Twitter rilancia: «Mi addolora che raccontare la tragica situazione del Sud Italia sia così facilmente definito piagnisteo». Rincara via Facebook ricordando «il numero degli occupati al livello più basso dal 1977, la natalità ai minimi storici, i meridioncosì he fuggono ». Per concludere che «questo è un urlo di dolore, non un piagnisteo che sembra invece somigliare di più alla cantilena del ‘va tutto bene’». La polemica aperta con la lettera a Repubblica della scorsa settimana adesso si fa frontale, diretta. Dalla capitale nipponica Renzi non risponde. Quel che doveva dire lo ha detto e sul Mezzogiorno, ricordano da Palazzo Chigi, è stata convocata un’apposita direzione del Pd venerdì. Sarà in quell’occasione che il premier dirà la sua. «Ha ragione Saviano e torto Renzi, c’è un Sud che sta morendo» attacca Nichi Vendola. Bene la direzione «ma dopo le parole l’azione» dice dalla sinistra pd Roberto Speranza. La giornata del presidente del Consiglio a Tokyo era cominciata con una lecture ai giovani dell’Universitá delle Belle arti: lotta al terrorismo, cultura e citazione ad hoc di Leonardo (“Tristo è quel discepol che non sorpassa il suo maestro”) per concludere che certo «non è semplice fare meglio di chi ci ha preceduti, ma in politica in alcuni casi si può far tesoro degli errori del passato». E ogni riferimento personale (e a chi lo ha preceduto a Palazzo Chigi) è lasciato cadere lì, con un sorriso ammiccante. Poi pranzo con la business community di Tokyo e la visita privata con la moglie Agnese e la figlia Ester all’imperatore Akihito. Il bilaterale serale nella residenza Kantei col premier Abe spalanca tra l’altro le porte agli investimenti Finmeccanica nel prolifico mercato Giapponese. «Ti porterò a Napoli a mangiare la pizza» dice a cena Renzi al collega, che regala un kimono rosa alla piccola dell’ospite.

«Se Renzi è un male asso­luto con le sue poli­ti­che costi­tu­zio­nali, con le sue scelte sulla scuola, il lavoro, la sanità, l’informazione, la giu­sti­zia, accen­nare ogni volta a un dis­senso rias­sor­bi­bile signi­fica aiu­tarlo a coprire l’intero spa­zio poli­tico».

Il manifesto, 4 agosto 2015.

Per nascon­dere il suo fal­li­mento, il pre­si­dente del con­si­glio sposa la dot­trina Picierno. La stu­diosa dei con­sumi volut­tuari, aveva sco­perto, con teo­remi ad ele­vata sofi­sti­ca­zione mate­ma­tica che, con 80 euro, una fami­glia naviga nel lusso per almeno 15 giorni. E, ben prima di Renzi, aveva get­tato fango sulla Cgil. Ora, il segre­ta­rio di un par­tito coin­volto fino al collo con i guai di mafia capi­tale, con le pri­ma­rie liguri che nar­rano di un tarif­fa­rio per recarsi ai gazebo, con iscri­zioni false e con il Pd della capi­tale sotto com­mis­sa­rio, accusa i sin­da­cati di avere più tes­sere che idee.

Si tratta di colpi di fumo per coprire il disa­stro del governo. Dopo la chiac­chiera, ven­gono i fatti a con­fu­tare la favola bella della comu­ni­ca­zione che rac­con­tava di mira­coli a colpi di tweet. Le cifre smon­tano l’effetto nar­co­tiz­zante dei media e par­lano di un sot­to­svi­luppo per­ma­nente per il sud. Di intere gene­ra­zioni per­dute. Di lavoro che non c’è. Di grandi città del silen­zio e di giunte del malaffare.

Il fia­sco colos­sale del governo non può essere occul­tato con il ron­zio della nar­ra­zione che pro­mette nuovi fan­ta­stici tagli di tasse. La corte dei conti ha appena sve­lato che il trucco di Renzi è sem­plice: il governo taglia le impo­ste per farsi bello e poi i comuni sono costretti a spre­mere la capa­cità fiscale dei ter­ri­tori. In tre anni la tas­sa­zione locale è cre­sciuta del 22 per cento.

Stretto nella morsa del disa­stro annun­ciato, Renzi cerca di soprav­vi­vere inven­tando nemici, utili per con­ser­vare il soste­gno dei poteri influenti. A sug­ge­rire al pre­mier cat­tivi pen­sieri non è certo la mino­ranza Pd.

Con i suoi pic­coli graffi, la mino­ranza è molto utile al gioco del par­tito della nazione. Pro­prio i suoi colpi spa­rati a salve, con­fer­mano che nel Pd ci può stare di tutto. Il Pd è governo e oppo­si­zione al tempo stesso.

E pro­prio que­sto bal­letto osta­cola la costru­zione di un’alternativa poli­tica, che è un bene per il sistema.

La tra­spa­renza del con­flitto governo-opposizione viene osta­co­lata dai distin­guo infi­niti della mino­ranza, che con affondi privi di con­se­guenze aggrava il males­sere del qua­dro politico.

Se Renzi è un male asso­luto con le sue poli­ti­che costi­tu­zio­nali, con le sue scelte sulla scuola, il lavoro, la sanità, l’informazione, la giu­sti­zia, accen­nare ogni volta a un dis­senso rias­sor­bi­bile signi­fica aiu­tarlo a coprire l’intero spa­zio poli­tico. Il par­tito della nazione non è uno spet­tro inde­fi­nito, è quella pra­tica informe che esi­ste già e che vede sotto lo stesso tetto con­vi­vere idee in appa­renza inconciliabili.

Per cogliere il destino di Renzi non è nel con­flitto interno al suo par­tito che occorre guar­dare. Un lea­der che ha con­qui­stato lo scet­tro gra­zie al soc­corso di potenze esterne, può essere disar­cio­nato solo dallo sgre­to­la­mento delle cen­trali economico-mediatiche che l’hanno forag­giato. Per tenere il nulla osta di quel mondo Renzi aggre­di­sce il sin­da­cato. Cosa si muove nei piani alti del potere? Si nota Squinzi che esulta per i tagli alla sanità pub­blica e che quindi brinda per il lucro che si pro­spetta per le imprese pri­vate di assi­cu­ra­zione. E però qual­che timido segnale di insof­fe­renza si coglie.

Sul Cor­riere della Sera il giu­ri­sta Sabino Cas­sese para­gona il gua­scone Renzi a un attore comico fran­cese, Jac­ques Tati. Più che il cinea­sta d’oltralpe, che recu­pe­rava il cinema muto di Kea­ton e non spri­gio­nava un tratto ver­bale osses­sivo, è l’atmosfera di una certa Toscana minore che rie­cheg­gia in Renzi. Il pre­mier è un misto tra la comi­cità pop, senza acuti e nessi crea­tivi pun­genti, di Pana­riello e il gusto infi­nito per il gioco, per il rischio, per l’azzardo di Pupo.

Ma, a parte le rica­dute este­ti­che dell’accostamento del pre­si­dente del con­si­glio a un comico, il pro­blema che Cas­sese segnala potrebbe spin­gere una parte delle élite a ten­tare di sosti­tuire l’esuberanza del comu­ni­ca­tore con la sobrietà di uno sta­ti­sta.

La ripro­po­si­zione di un pen­dolo antico tra il tec­nico e il comico non pare però avere molte chance. E poi Renzi è di sicuro un comico, come indica Cas­sese, ma con un pro­gramma che è simile a quello dei tec­nici. Per que­sto è da esclu­dere una sua rimo­zione ordi­nata dalle can­cel­le­rie euro­pee e rati­fi­cata dai ver­tici delle isti­tu­zioni italiane.

Un capi­ta­li­smo ita­liano ancora più debole, con i suoi beni scarsi messi in ven­dita, accre­sce gli appe­titi di appro­pria­zione col­ti­vati dai mer­cati inter­na­zio­nali. A certe aree spe­cu­la­tive e imprese cor­sare, un sistema eco­no­mico in affanno stuz­zica mire espan­sive, per­ché il declino con­sente di con­trol­lare i resi­dui pezzi pre­giati del made in Italy con un tarif­fa­rio di acqui­si­zione molto a buon mer­cato.

La depo­si­zione di Renzi, in que­sto sce­na­rio, non pare pro­pe­deu­tica al ritorno in cat­te­dra di per­so­na­lità delle aree tec­ni­che, di spez­zoni respon­sa­bili delle isti­tu­zioni. Lo spe­gni­mento del ren­zi­smo può coin­ci­dere solo con l’autodissoluzione di una mag­gio­ranza imbelle dinanzi alla crisi che si appro­fon­di­sce e spa­venta la coa­li­zione sociale di supporto.

Per que­sto Renzi attacca il sin­da­cato che gli ricorda i dati impie­tosi sulla disoc­cu­pa­zione di lungo ter­mine. Costrui­sce un nemico e spera che i signori dei media, del denaro, della finanza sap­piano distin­guere i loro com­plici nelle isti­tu­zioni, ed essere loro grati. All’impresa del resto il governo ha tagliato di ben 10 punti le tasse sui pro­fitti, e inol­tre ha desti­nato ad essa decon­tri­bu­zioni ghiotte in caso di assun­zione a tempo inde­ter­mi­nato (almeno triennale).

E però Renzi non si sente tran­quillo gio­cando a biliar­dino. Avverte che il disa­gio sociale potrebbe costruire dal basso delle alter­na­tive poli­ti­che impre­ve­di­bili, capaci anche di espu­gnare le for­tezze edi­fi­cate per lui da media e capitale.

Alex Zanotelli lancia un allarme e propone un appello a un'iniziativa: «La guerra è alle porte. Non arriva con l’avanzata delle bandiere nere dell’Isis ma con quelle della Nato. E si fa largo sul fronte ucraino come su quello mediterraneo».

Comune.info, 4 agosto 2015

La guerra è alle porte. Non arriva con l’avanzata delle bandiere nere dell’Isis ma con quelle della Nato. E si fa largo sul fronte ucraino come su quello mediterraneo. Così le forze di reazione rapida passano da tredici a quarantamila uomini. Si prepara l'”inevitabile” intervento in Libia e s’intensifica l’utilizzo dei droni con la scusa di combattere i trafficanti di esseri umani. A fine settembre, poi, comincia la più grande esercitazione militare dal tempo della caduta del muro di Berlino. Coinvolgerà 35 mila soldati Nato, 200 aerei e 50 navi da guerra. Sarà pilotata dalla nuova base di Lago Patria a Napoli. Giochiamo in casa e giochiamo con il fuoco. Come credente nel Dio della vita, scrive Alex Zanotelli, non posso accettare un sistema di morte pagato da miliardi di persone impoverite. Come seguace di Gesù di Nazareth non posso accettare che il mio paese faccia parte della Nato. A settembre, durante l’esercitazione, dobbiamo farci sentire

Siamo di nuovo sul piede di guerra anche in Europa, sia sul fronte Ucraina come nel Mediterraneo. E questo grazie alla Nato. È stata la Nato a far precipitare lo scontro con la Russia perché vuole che l’Ucraina entri nell’Alleanza al fine di poter sparare i suoi missili direttamente su Mosca. La Russia ha reagito ed ecco la drammatica guerra civile di quel paese che rischia di diventare guerra atomica. “Ho le armi nucleari,” ha detto Putin. E infatti ha piazzato 50 missili con testate nucleari sui confini baltici della Ue, puntandoli verso la Svezia per dissuaderla a entrare nella Nato.

Vista la grave crisi, è stato convocato a Bruxelles il vertice NATO con la presenza del nuovo segretario Usa alla difesa, Ashton Carter. All’ordine del giorno: potenziare la forza di reazione rapida della Nato portandola da tredicimila soldati a quarantamila uomini (il triplo!), piazzare 5 mila soldati (a rotazione) nei Paesi Baltici e in Polonia ed infine spingere tutti i paesi NATO a spendere il 2 per cento del Pil nella Difesa.

Ma ora si apre anche il Fronte Sud: il Mediterraneo. Il 22 giugno la UE ha dato il via libera (senza il benestare dell’Onu!) alla prima fase della missione navale EuNavForMed con cinque navi militari, due sottomarini, due droni e tre elicotteri e un “migliaio” di soldati per tentare di bloccare la partenza dei migranti dalla Libia. L’uso dei droni militari (a Sigonella operano da anni i droni Global Hawk) si intensificherà con questa missione UE “contro i trafficanti di esseri umani”, grimaldello di un’operazione sotto regia Nato per un intervento militare in Libia. Sia il governo di Tobruk come quello di Tripoli hanno risposto che reagiranno contro questo attacco.

È in questo pesante scenario di guerra che si terrà in Europa, dal 28 settembre al 6 novembre, la più grande esercitazione militare dalla caduta del muro di Berlino che coinvolgerà 35.000 soldati NATO, 200 aerei, 50 navi da guerra.Questa gigantesca esercitazione “Trident Juncture 2015”, sarà pilotata dalla nuova base NATO di Lago Patria a Napoli. Giochiamo in casa e giochiamo con il fuoco.

Una domanda sorge spontanea: ma cosa ci stiamo a fare ancora nella Nato? Ma a che serve, se non a portarci in sempre nuove guerre? La Nato è sorta come alleanza difensiva degli Usa e dei paesi europei contro l’Urss e i paesi comunisti del Patto di Varsavia. Il Patto di Varsavia e i paesi comunisti non ci sono più, ma la Nato continua ad esserci.

La Nato infatti avrebbe dovuto cessare con la caduta del muro di Berlino (1989). Non solo c’è, ma da alleanza militare difensiva è diventata offensiva per difendere gli interessi economici dei paesi membri ovunque essi siano minacciati. Questo è avvenuto nel vertice di Washington (1999). Mentre nel vertice di Praga (2009) la Nato ha fatto un altro salto: ha sposato la strategia della ‘guerra preventiva. La Nato è una potenza militare che nessun avversario può eguagliare, basata anche sulle armi nucleari, che la “Nato deve mantenere finchè vi saranno nel mondo tali armi”, ha detto l’ex-segretario generale Nato Anders Rasmussen. E per evitare attacchi terroristici e missilistici, è stato annunziato al Vertice di Lisbona (2009) il progetto di uno Scudo antimissile. “La sola esistenza della Nato come alleanza cui aderiscono i paesi europei – ci rammenta giustamente il fisico Angelo Baracca – implica un’ipoteca pesantissima che vanificherebbe la migliore costituzione europea che si potesse concepire sia per gli aspetti della difesa, ma anche della democrazia effettiva e della libertà”.

Infatti sulla spinta della Nato, l’Italia in questi due decenni, ha partecipato alle guerre del Golfo (1991), Somalia (1994-’95), Bosnia-Herzegovina (1996-99), Congo(1996-99), Jugoslavia (1999), Afghanistan (2001), Iraq (2003), Libia (2011). Milioni di morti! Solo nella guerra in Congo, quattro milioni di morti. E miliardi di dollari per fare queste guerre. Solo la guerra in Iraq (un milione di morti!) ci è costata almeno tremila miliardi di dollari, secondo le stime di J. Stiglitz (premio Nobel per l’Economia), fornite nel suo volume The Trillion Dollars War.

Guerre di tutti i tipi, da quella ‘umanitaria’ a quella contro il ‘terrorismo’, ma il cui unico scopo è il controllo delle fonti energetiche e delle materie prime, per permettere al 20 per cento del mondo di continuare a vivere da nababbi, consumando il 90 per cento delle risorse del pianeta. “Lo stile di vita del popolo americano – aveva detto Bush senior nel 1991 – non è negoziabile.” E se non è negoziabile, allora non rimane altro che armarsi fino ai denti. Soprattutto con la Bomba Atomica, la Regina che domina questo immenso arsenale di morte che serve a proteggere i privilegi e lo stile di vita di pochi a dispetto dei troppo impoveriti.

Gli Usa/Nato hanno l’arsenale più potente e affidabile al mondo con ottomila testate nucleari, di cui circa duecento dislocate in Europa. Settanta bombe atomiche sono in Italia: una cinquantina a Ghedi (Brescia) e una trentina ad Aviano (Pordenone). E questo in un Paese che ha detto, con un Referendum, no al nucleare civile! La Nato, sempre sotto comando Usa, resterà “un’alleanza nucleare – ha ribadito Obama al vertice di Lisbona – e gli Usa manterranno un efficiente arsenale nucleare per assicurare la difesa dei loro alleati”.

E tutto questo ci costa caro. “Il bilancio civile della Nato per il mantenimento del quartiere generale di Bruxelles – scrive M. Dinucci – ammonta a circa mezzo miliardo di dollari all’anno, di cui l’80 per cento viene pagato dagli alleati. Il bilancio militare della Nato per il mantenimento dei quartieri generali subordinati ammonta a circa un miliardo di dollari l’anno, di cui circa l’80 per cento è pagato dagli alleati. Il budget militare della Nato per il mantenimento dei quartieri generali subordinati ammonta a quasi due miliardi di dollari l’anno, pagati per il 75 per cento dagli europei.”

Secondo i dati aggiornati al 2011, le “spese per la difesa dei 28 stati membri della Nato ammontano a 1.038 miliardi di dollari l’anno, una cifra equivalente a circa il 60 per cento della spesa mondiale per le armi.”

E l’Italia gioca un ruolo cruciale per la Nato: siamo un paese chiave nello scacchiere militare dell’Alleanza Atlantica. A Napoli è stato da poco inaugurata una sede NATO a Lago Patria con 1.500 militari. A Sigonella (Catania) entrerà in funzione il sistema Ags definito da Manlio Dinucci “il più sofisticato sistema di spionaggio elettronico, non in difesa del territorio dell’Alleanza, ma per il potenziamento della sua capacità offensiva fuori area, soprattutto in quella medio-orientale.” Per di più, nel 2016, Sigonella diventerà la capitale mondiale dei droni. E per pilotare i droni, entrerà in funzione nella vicina Niscemi, il sistema MUOS di telecomunicazioni satellitari di nuova generazione. Niscemi diventerà così la quarta capitale mondiale delle comunicazioni militari.

Non possiamo accettare una tale militarizzazione del nostro territorio, né tantomeno possiamo tollerare, a livello morale, la guerra con i droni. “Questa guerra con i droni porta gli Usa in una pericolosa china morale”- scrive Jim Rice, direttore della rivista ecumenica Usa Sojourners. C’è solo un nome per tali uccisioni con i droni, sono veri e propri omicidi, non giustificati né moralmente né legalmente.

E sempre in questo contesto, il governo italiano ha “accettato” sul nostro territorio anche Africom, il supremo comando americano per l’Africa con due basi: una a Vicenza per le forze aeree e l’altra a Napoli per le forze navali. Non possiamo accettare che il nostro paese ospiti qu<ello che nessun paese africano ha accettato di ospitare. Non è questa la politica estera che l’Italia deve intrattenere con un continente crocifisso come l’Africa.

Da credente e da seguace di Gesù di Nazareth, non posso accettare un mondo così assurdo: un sistema economico-finanziario che permette a pochi di vivere da nababbi a spese di molti morti di fame e questo grazie a una NATO che spende oltre mille miliardi di dollari l’anno in armi e soprattutto con arsenali ripieni di spaventose armi atomiche. “La pace e la giustizia procedono insieme – diceva, negli anni della Guerra Fredda, l’arcivescovo di Seattle, R. Hunthausen. – Sulla strada che perseguiamo attualmente la nostra politica economica verso gli altri Paesi, ha bisogno delle armi atomiche. Abbandonare queste armi significherebbe di più di abbandonare i nostri strumenti di terrore globale. Significherebbe abbandonare il nostro posto privilegiato in questo mondo.”

Come credente nel Dio della vita, non posso accettare un Sistema di morte come il nostro pagato da miliardi di impoveriti, milioni di morti di fame oltre che da milioni e milioni di morti per le guerre che facciamo. E come seguace di Gesù di Nazareth, che ci ha insegnato la via della nonviolenza attiva, non posso accettare che il mio paese faccia parte della Nato, una realtà che doveva già essere scomparsa con la caduta del Muro di Berlino e che invece continua a forzarci ad armarci per sempre nuove guerre ‘ovunque i nostri interessi vitali’ siano minacciati.

Lo aveva già capito Giuseppe Dossetti quando, nel 1948, votò in Parlamento contro l’adesione alla NATO, mentre tutta la DC era schierata per il Sì. Lo fece in ossequio alla sua coscienza e al Vangelo. E’ quanto tocca a noi fare oggi, se vogliamo salvarci da questa follia collettiva. “La guerra è una follia – ha gridato papa Francesco al Sacrario militare di Redipuglia – Anche oggi, dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale, forse si può parlare di una terza guerra combattuta a’pezzi’, con crimini, massacri, distruzioni…..”

E allora mobilitiamoci tutti, credenti e non, uniamoci al di là di ideologie o credi, contro questa gigantesca esercitazione militare Nato “Trident Juncture 2015” che si terrà in autunno.
Lo chiedo da Napoli, il centro comando di questa operazione, insieme al comitato napoletano “Pace e Disarmo”.

Perché non pensare a una manifestazione nazionale a Napoli o altrove, promossa da tutte le realtà del movimento per la pace, dalla Rete della pace come dal Tavolo della Pace, dai No Muos come dai No Nato? Tutti insieme perché vinca la vita!

«La Repubblica, 3 agosto 2015
IL PREMIER Matteo Renzi prosegue nella sua marcia solitaria. Un giorno dopo l’altro, una parola dopo l’altra, disegna una democrazia personale e immediata. Centrata sulla sua persona. Refrattaria alle “mediazioni”. Diffdente verso i “mediatori”. Si tratti di organizzazioni, associazioni o di soggetti istituzionali. Così, in pochi giorni, è intervenuto “direttamente” contro i sindaci e, prima ancora, contro il sindacato. Colpevoli, entrambi, di ostacolare, in modo diverso, il turismo e, quindi, l’economia italiana.

Il sindacato. Con le iniziative che hanno reso difficile l’ingresso agli scavi di Pompei. E con lo sciopero dei piloti Alitalia, che ha generato disagio ai passeggeri. A Pompei come negli aeroporti le iniziative sono state condotte da sigle autonome e singoli comitati. D’altronde, nei servizi, poche persone, collocate in posizione strategica, possono generare grandi disagi pubblici. Tuttavia, il premier ha polemizzato, esplicitamente, contro il sindacato. Senza specificazioni.
D’altronde, Renzi, da tempo, conduce la sua polemica contro il sindacato. Che ha il volto di Landini, leader della Fiom e di “Coesione Sociale”, che nello scorso autunno ha promosso manifestazioni e scioperi contro il Jobs act e le politiche del lavoro del governo. Il sindacato evocato da Renzi. Chiama in causa Susanna Camusso, che, non per caso, ieri, su , ha replicato che la «la Cgil non ci sta a essere usata in modo strumentale dal premier per recuperare il voto moderato».

Ma l’intento di Renzi non sembra semplicemente “politico” ma “di strategia istituzionale”. Anche se le preoccupazioni di “marketing politico” sono sempre presenti negli interventi del premier. Che, per questo, agisce e inter-agisce in rapporto diretto con gli elettori. E dialoga di continuo con l’Opinione Pubblica. Che contribuisce, a sua volta, a modellare e a orientare. Intervenendo sui temi sensibili. Per esempio, in questa stagione, sui servizi e i disservizi pubblici, appunto. In un periodo nel quale i flussi turistici sono il principale antidoto contro gli altri flussi che affollano e attraversano l’Italia. Ad opera dei migranti. Il turismo, attratto dall’immensa risorsa artistica e ambientale offerta dal nostro Bel Paese. Non sempre valorizzato adeguatamente.

Come ha rammentato, di nuovo, il premier, in visita a Tokio. Da dove ha auspicato che «nei prossimi mesi i nostri sindaci lavorino di più». Per rendere le nostre città più attraenti. Per restituire appeal a un territorio troppo spesso degradato. Più che un invito: un rimprovero. Un messaggio e un ammonimento esplicito. Rivolto ai primi cittadini. Fra i principali protagonisti della democrazia rappresentativa. Eletti direttamente su base territoriale. Renzi stesso, d’altra parte, è stato sindaco. Di Firenze. Anzi, il sindaco è la più importante carica elettiva che abbia ricoperto. Visto che la sua ascesa alla guida del governo è avvenuta attraverso le primarie del Pd. Una consultazione di partito — per quanto aperta. E ciò ribadisce la singolare fase che attraversa la nostra democrazia rappresentativa.

Ribadita, polemicamente, dalla minoranza del Pd, che ha minacciato di contrastare le riforme costituzionali in Senato, nel prossimo settembre, scatenando una sorta di “Vietnam parlamentare”. Una formula che è stata apertamente condannata dal presidente del Pd, Matteo Orfini. Tuttavia, si tratta di una sfida significativa. Sul piano del linguaggio, oltre che della pratica e dell’azione. Perché sposta, decisamente, in ambito “parlamentare” un confronto che, nel frattempo, si è trasferito altrove. All’esterno. Nelle piazze e sui media — vecchi e nuovi.

D’altronde, il capo del governo — e del partito di maggioranza — è un leader “non eletto” in Parlamento. Come i suoi principali oppositori. Beppe Grillo, leader — pardon: portavoce e megafono — del M5s. E Matteo Salvini, segretario della Lega: parlamentare europeo. Insomma, Renzi è, per ora, il premier di una Repubblica extra-parlamentare. Impegnato a costruire uno specifico modello di democrazia. Maggioritaria e personalizzata. Come prevedono le riforme istituzionali (in particolare, il monocameralismo) e la stessa riforma elettorale. L’Italicum. Che non delineano un “presidenzialismo di fatto” (come ha sottolineato il costituzionalista Stefano Ceccanti sull’ Huffington Post ).

Piuttosto, una Repubblica ancora “indistinta” (per citare Edmondo Berselli). Ma fondata sul premier. Renzi, d’altronde, nel frattempo agisce “come se” fosse già premier-presidente. Agisce e decide — o meglio: promette di agire — in fretta. Veloce. Così, dal Giappone annuncia l’approvazione della riforma della pubblica Amministrazione. «Entro giovedì». E si rivolge ai cittadini e agli elettori. Saltando mediazioni e mediatori. Sindacati e sindacalisti. Sindaci e governatori. Scavalca perfino il Parlamento e, soprattutto, i partiti. Compreso il “proprio”. Che, d’altronde, costituisce il principale luogo, il principale soggetto-oggetto del suo esperimento.

Il Pd. Tradotto e trasformato nel PDR. Il Partito Democratico di Renzi. O, più semplicemente, nel PdR. Il Partito di Renzi. Un post-partito, veicolo e portabandiera della PDR. La Post-Democrazia di Renzi. Fondata sul premier.

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