«L’Europa unita nel nome del filo spinato é l’immagine che i nuovi reazionari stanno edificando.» Nella cultura e nella politica dell'estrema destra degli stati europei il rovesciamento dell'ispirazione cosmopolita e universalista dell'Europa dei nostri sogni.
La Repubblica, 19 agosto 2015 (testo integrale)
L’Europa sta diventando un continente blindato con filo spinato e muri di respingimento. Lo é già nelle sue frontiere a Nord e a Est – il Mediterraneo impedisce di fare altrettanto al Sud. A Calais, da dove i migranti cercano passare il Canale della Manica per raggiungere la Gran Bretagna, si assiste quotidianamente a scene di caos e deportazioni che il governo conservatore di David Cameron benedice come sacrosante se il paese vuole “difendersi dall’invasione” dei migranti, invertendo la politica liberale e umanitaria dei precedenti governi labouristi. L’Inghilterra ha solcato tutti i mari del mondo per invadere terre e rapinare risorse. E ora si sente oltraggiata dal viaggio all’incontrario dei colonizzati.
Il paradosso del quale é oggi urgente occuparsi e preoccupasi é dunque questo: da anti-europei che erano, i movimenti e le ideologie dei partiti di estrema destra sono diventati i più radicali europeisti. L’Europa che difendono (difendendo le frontiere dei loro paesi con le quali spesso quelle del continente coincidono) é esattamente opposta a quella della tradizione universalista e cosmopolita sulla quale l’Unione europea é nata. Ci può essere un euronazionalismo che traduce in chiave continentale quella cultura comunitaria e proprietaria che ha caratterizzato l’ideologia reazionaria dal tempo della Rivoluzione francese. Allora, la reazione contro l’universalismo dei diritti e l’ideale cosmopolita di cooperazione tra i popoli veniva fatta nel nome delle nazioni e le loro ataviche tradizioni, delle identità linguistiche e dei costumi morali e religiosi dei singoli paesi. Edmund Burke diceva in polemica con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino di non aver mai incontrato “uomini” ma solo tedeschi, francesi, inglesi e italiani. Per la nuova destra, l’europeo si appresta a diventare l’alternativa all’uomo in generale.
L’Europa unita nel nome del filo spinato é l’immagine che i nuovi reazionari stanno edificando. Non più italiani o francesi o ungheresi contro Bruxelles, dunque, ma tutti loro contro quella che essi rappresentano come un’espropriazione dell’Europa da parte dei migranti, con l’avvallo dalla cultura europea dei diritti, laica e religiosa. Alla quale questa Europa nazionalista dovrebbe opporre una politica sistematica di espulsione di tutti coloro che non sono cittadini. L’Europa di destra contro l’Europa che avevano proposto Spinelli e Schumann: é questa oggi la sfida culturale e politica più radicale. Destra e sinistra passano di qui, da due visioni di Europa e di cittadinanza, due visioni del diritto, due visioni dello spazio politico continentale: una che é consapevole delle difficoltà che l’immigrazione pone al modello occidentale di vita e che tuttavia non rinuncia a cercare soluzioni (in Europa e nei paesi d’origine dei migranti) che siano coerenti con i principi del diritto e di quella che Habermas ha chiamato cultura democratica cosmopolita; e un’altra che adatta al continente il nazionalismo xenofobo praticato da generazioni nei singoli paesi.
Tale papa Bergoglio tale cardinale Galantino. Parole sante sulla politica d'oggi, e tutto l'arco costituzionale s'arrabbia. La cronaca di Silvio Buzzanca. e un commento di Francesco Bei e Paolo Rodari. La Repubblica, 19 agosto 2015
GALANTINO ACCUSA TUTTI
“POLITICAHAREM DI FURBI
I POPULISMI UN CRIMINE”
di Silvio Buzzanca
Il segretario Cei: voglio evitare di esasperare il clima Ma poi la relazione su De Gasperi scatena la bufera
Monsignor Nunzio Galantino ha pensato, soppesato, valutato, e alla fine, per evitare nuove polemiche con il mondo politico, ha deciso di disertare l’appuntamento trentino di Pieve Tesino. Doveva tenere una lectio magistralis su Alcide De Gasperi, ma il segretario della Cei ha optato per il passo indietro.
Ha spiegato agli organizzatori di volere evitare «con la mia sola presenza, di contribuire a rafforzare polemiche o anche semplicemente di allontanare il momento del rasserenamento di un clima invano esasperato». Così ha deciso di affidare l’intervento che aveva preparato alla lettura del professore Giuseppe Tognon. Ma quando in sala si è ascoltato il passo dove monsigno Galantino scrive che politica di De Gasperi «non è quella che siamo stati abituati a vedere oggi, vale a dire un puzzle di ambizioni personali all’interno di un piccolo harem di cooptati e di furbi», la strategia della distensione è andata in frantumi. Ancor di più quando il prelato ha spiegato che «il popolo da solo sbanda e i populismi sono un crimine di lesa maestà di pochi capi spregiudicati nei confronti di un popolo che freme e che chiede di essere portato a comprendere meglio la complessità dei passaggi della storia».
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Galantino ha maturato la scelta di non presentarsi a Trento da solo. Non ha chiesto il placet del Vaticano e nemmeno della presidenza della Cei. E l’ha fatto proprio per essere fedele alla linea del Papa. Dal suo punto di vista, infatti, se fosse andato a Trento non si sarebbe potuto sottrarre alle domande dei media presenti e il contenuto di una lectio studiata a tavolino da giorni avrebbe corso il rischio di passare in secondo piano. Il messaggio è chiaro: per la Cei la politica, tutta la politica, non ha a cuore gli interessi del popolo, ma soltanto i propri. Una condotta che deve avere una fine.
Certo, a parlare in questo modo c’è il rischio di farsi non pochi nemici. Ma così fu anche per De Gasperi, indicato ieri da Galantino come un «modello» da seguire. Patì l’incomprensione di Pio XII che, nel 1952, non capì l’opposizione netta dello statista all’idea di don Luigi Sturzo di un’ampia alleanza elettorale che coinvolgesse, oltre ai quattro partiti governativi, anche il Movimento Sociale Italiano e il Partito Nazionale Monarchico. Soffrì per l’ostracismo pontificio, ma rimase fermo sulle sue idee.
La bomba sganciata ieri da Galantino ha comunque prodotto scosse che sono arrivate fino a Roma. Anche se Renzi ha impartito ordine di non replicare, preferendo mantenere il governo fuori dalla polemica, il malumore nel Pd è palpabile per un giudizio considerato «ingeneroso » e soprattutto espresso in maniera grossolana, senza fare distinzioni.
Risposta a Sergio Staino. «Dobbiamo occuparci soprattutto della parte principale del problema: quella che si chiama Matteo Renzi. Perché questa Sinistra Dem ci stia "scassando i coglioni", come scrivi tu: ma Renzi e il suo governo ci stanno scassando il Paese». La Repubblica, blog "Articolo 9",15 agosto 2015
Carissimo Sergio,
E' sempre più chiaro: non si supera il ferreo neoliberismo europeo di Merkel e dei suoi alleati o succubi se ci si affida a un solo paese. L'impegno non deve essere volto a criticare Tsipras perchè non ha voluto salvare i greci dalla catastrofe ,ma a far sì che si sveglino anche gli sfruttati degli altri paesi.
La Repubblica, 16 agosto 2015
«Il piano approvato con tanta fanfara è una vergogna per l’Europa e per l’intera comunità internazionale ». L’irritazione di James Galbraith, economista dell’università del Texas, supera ogni immaginazione. «Leggete il documento approvato. E’ una menzogna fin dalla prima riga: “La Grecia – c’è scritto – ha chiesto aiuto ai suoi partner europei per risolvere i suoi problemi“. Niente di più falso. La Grecia è stata ricattata, spinta alla disperazione e poi costretta ad approvare un piano del genere, che va contro il volere del suo popolo espresso col referendum».
Professore, non le sembrano un po’ forti, per usare un eufemismo, questi giudizi?
«Macché. Lo scopo, quasi dichiarato, della Germania e del potere costituito in Europa, era dimostrare che non c’è alternativa alla linea politico- economica prevalente, e che nessun Paese si può permettere di deviare perché viene schiacciato. Era sbarazzarsi di Syriza, e forse ci sono riusciti. Ma, la prego, continui a scorrere con me il documento...».
Andiamo avanti, allora.
«Stiamo sempre sulle prime righe. C’è scritto che l’accordo servirà per ritrovare la crescita, per creare posti di lavoro, per ridurre le disuguaglianze e scongiurare i pericolo di instabilità finanziaria. Sono sconcertato. I risultati saranno esattamente l’opposto. Rilegga punto per punto e s’immagini il risultato opposto. La crescita sarà abbattuta, il lavoro diminuirà, le diseguaglianze si accentueranno, eccetera ».
Però come negare che l’instabilità della Grecia costituisca un problema?
«Ma certo. Però il modo per risolverlo era tutt’altro. Lo sanno tutti: andava finanziato un grande piano di investimenti in Grecia senza inseguire una solidità fiscale che comunque era perduta, solo allora si poteva pensare alla crescita. Ora tutto diventa più difficile. Ma l’ha letto il paragrafo successivo?
Ancora?
«Legga con me. Il successo del piano richiederà “ ownership” delle misure da parte del governo greco. Vuol dire che Atene sarà padrona delle sue azioni e le deciderà liberamente. “Il governo perciò è pronto a prendere tutte le misure che riterrà opportune a seconda delle circostanze”. Quale menzogna. Per colmo d’ironia poche righe più sotto c’è scritto: “Il governo si impegna a consultarsi e concordare con l’Ue, l’Fmi e la Bce tutte le azioni rilevanti”. Eccola qui, la verità: a comandare sarà la Troika».
Perché Tsipras ha accettato?
«Perché non aveva scelta. Voleva tenere la Grecia nell’euro ma era ricattato dalla Bce che minacciava di confiscare tutti i risparmi bancari e lasciare il Paese sul lastrico».
Si chiama Jeremy proprio come Clarkson, la controversa celebrità televisiva, ma le similitudini per fortuna finiscono qui. Politicamente, somiglia assai di più a Ken Livingstone, l’ex sindaco di Londra e anche lui famosa spina del fianco del partito laburista: una mina vagante a sinistra con grosso seguito personale, e quindi imbarazzo per la maggioranza centrista.
Deputato al parlamento nella circoscrizione londinese di Islington North, entrato quasi controvoglia nella rosa dei candidati al posto di un altro tanto per far vedere che il partito era pluralista, Corbyn presenta pericolose eterodossie (a parte naturalmente il socialismo): dal repubblicanesimo, che dalla maggioranza paese è ancora visto come commovente e velleitario, al più grave rifiuto di condannare l’Ira, visto come un gesto chiaramente antinazionale.
Eppure queste primarie per la leadership del partito laburista che, apertesi venerdì, chiuderanno il 10 settembre con lo spoglio due giorni dopo, Jeremy Corbyn rischia di vincerle davvero.
Almeno stando ai sondaggisti di YouGov, che prevedono per lui una vittoria del 53% addirittura al primo turno. Già il mese scorso, l’outsider Corbyn godeva di ben 17 punti di vantaggio sul suo rivale, Andy Burnham, ex-ministro del tesoro nel governo di Gordon Brown e attualmente ministro ombra alla sanità. Ora ci si aspetta un suo trionfo.
Sin dalla disastrosa sconfitta del maggio scorso, il partito vagola in un caos calmo d’indeterminatezza. Gli altri tre candidati centristi — Liz Kendall, Andy Burnham e Yvette Cooper — bizantineggiano su linee alternative alla tremebonda propensione a sinistra di Ed Miliband che sono virtualmente indistinguibili. Ed è proprio la crescente insofferenza della base per la percepita vacuità delle loro argomentazioni, diffusa e amplificata attraverso i network sociali, ad aver innescato un consenso a slavina per Corbyn, i cui comizi e incontri con l’elettorato ormai lasciano puntualmente centinaia di persone fuori per la capienza limitata degli spazi a disposizione.
È dunque un terremoto che sta scuotendo le fondamenta laburiste e mandando un brivido gelido lungo molte schiene. Prima fra tutte quella del convitato di pietra Tony Blair, dalla reputazione a brandelli eppure — grazie alla formidabile tripletta di vittorie che condussero alla più lunga permanenza Labour al timone del paese — considerato da molti ancora un faro di realpolitik.
Supportato da dichiarazioni altrettanto cupe del suo famigerato ex spin doctor Alastair Campbell, Blair ha scelto le colonne del Guardian per lanciare un duro e accorato monito a dirigenti, iscritti e attivisti perché non seguano Corbyn in quello che definisce un vero e proprio rischio di estinzione del partito. «Anche se mi odiate, vi prego di non votare per Corbyn» ha scritto Tony nel suo appello grondante panico.
Gli ha fatto eco Yvette Cooper rompendo un silenzio dei candidati centristi sul fenomeno Corbyn, mantenuto finora per timore di un’escalation delle divisioni interne. «Jeremy propone soluzioni vecchie a problemi vecchi», ha detto Cooper che, al pari di Blair non si cura del possibile effetto boomerang di simili attacchi.
Questo Cincinnato socialista di vecchia scuola sta dunque togliendo il sonno all’establishment economico finanziario. Potrebbe cancellarne la finora idilliaca frequentazione con i vertici del partito, dovuta alla sapiente tessitura di Blair il quale, coadiuvato da Gordon Brown e Peter Mandelson, ne cominciava entusiasticamente a frequentare i panfili negli anni Novanta. Quando lui, Jeremy, al massimo frequentava il salotto di Tony Benn, di cui era giovane seguace negli anni in cui il grande vecchio della sinistra Labour falliva la propria scalata alla leadership.
Ma è lo «spostamento fondamentale» in politica economica da lui propugnato l’incubo per l’ortodossia neoliberista: che potrebbe addirittura portare al ripudio dell’emblematica clausola IV che impegnava il partito alla nazionalizzazione dell’industria, quella di cui Blair si liberò precipitosamente vent’anni fa onde rendere il partito «eleggibile» e «di governo». E che lo vincola a realizzare davvero la proprietà comune dei mezzi di produzione.
Posizioni di sinistra socialista classica non dissimili da quelle del partito portato al potere nel 1945 da Clement Attlee: fine dell’austerity, più tasse ai ricchi, più corporation tax, protezione dello stato sociale, un giro di vite sull’evasione fiscale e soprattutto una ventata di opere pubbliche finanziate con denaro stampato dalla Banca d’Inghilterra ribattezzato «quantitative easing popolare».
Resta il proposito di ridurre il deficit, ma a un ritmo dal volto umano, e non attraverso tagli selvaggi.
Ancora più ambiziose le scelte in politica estera. Le sue posizioni su Putin, considerate esageratamente soft, gli hanno immediatamente attratto le accuse di essere l’utile idiota del grande orso russo; in medio oriente raccomanda un dialogo equilibrato tra le parti; cesserebbero gli attacchi aerei all’Isis e in Siria e le posture muscolar-militari di cui la Gran Bretagna è stata assidua praticante sin dal dopoguerra, qualunque fosse la maggioranza al governo.
La pubblica istruzione tornerebbe davvero pubblica: via le «free schools» e le academies; salterebbero le asfissianti tasse universitarie e le scuole private perderebbero i propri finanziamenti privilegiati. Il diritto alla casa sarebbe difeso calmierando i prezzi del mercato immobiliare londinese, in perpetua levitazione fino al prossimo crash.
Tutte misure che improvvisamente si vedono restituire lo status di possibilità dopo essere state a lungo relegate a dibattiti sull’archeologia delle idee. E proprio per questo enormemente destabilizzanti.
Tanto che, complice un meccanismo elettivo che permette teoricamente a chiunque di iscriversi al voto (nelle ultime 24 ore prima della chiusura ci sono state ben 160.000 domande d’iscrizione ) si è tornato a parlare di entrismo, la strategia di infiltrazione del Labour party da parte di frange radicali trotzkiste a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta. Insomma, che anche il rischio scissione sia palpabile è suffragato dalle voci di un putsch per esautorare Corbyn. E sempre venerdì il Guardian si è prodotto in un endorsement a Yvette Cooper entusiasmante come solo quelli scritti sotto la minaccia delle armi sanno essere.
«Il manifesto, 14 agosto 2015)
Mentre le miopi e ingorde elite europee si accaniscono contro la pagliuzza greca, la trave cinese è penetrata nell’occhio della finanza mondiale. Due svalutazioni dello yuan stanno mettendo in fibrillazione il mondo intero e le Borse vanno in picchiata. Solo l’Europa “brucia” circa 230 miliardi nello spazio di un mattino. Praticamente i due terzi dell’intero debito greco. E non è finita.
Indubbiamente la mossa della Banca centrale cinese si iscrive nel capitolo delle “svalutazioni competitive”, come giustamente ha qui scritto Pieranni. Pechino doveva reagire in qualche modo al crollo del proprio export che a Luglio ha maturato una flessione dell’8%. D’altro canto il tentativo di svoltare nelle politiche economiche, puntando sulla valorizzazione e il potenziamento del mercato interno, era ed è obiettivo troppo ambizioso per potersi realizzare in breve tempo. Ma da qui a dire che è fallito, ce ne corre. Almeno per il momento ed in base ai dati disponibili. Alcuni commenti letti in queste ore peccano di una evidente sottovalutazione delle capacità proteiformi del capitalismo, di quello cinese in particolare. Troppo presto per suonare le campane a morto, anche se lo si vorrebbe.
La mossa cinese ha più motivazioni. C’è innanzitutto un fatto in controtendenza al quadro mondiale che va messo in evidenza. In Cina si è venuta realizzando negli ultimi anni una crescita dei salari medi, come ha registrato anche la stampa economica mainstream. Niente di eccezionale, visto che partivano da livelli molto bassi. Ma pur sempre un elemento significativo, soprattutto perché non deriva solo da una maggiore capacità nel prevenire e nel fronteggiare gli effetti della crisi mondiale da parte delle classi dirigenti cinesi rispetto a quelle di altri paesi – basta pensare alla Unione europea -, ma soprattutto da una presa di coscienza da parte delle classi lavoratrici cinesi nei settori manifatturieri. Ovvero la crescita dei salari e qualche miglioria nelle prestazioni lavorative è il frutto ancora acerbo, dell’incontro tra una rinascente lotta di classe in Cina e una qualche disponibilità ad allentare i cordoni delle borse – visti i margini esistenti – da parte delle classi dirigenti. In altre parole si aprono spazi di riformismo reale, che però la recente decisione della Bank of China rimette fortemente in discussione.
Infatti l’aumento delle retribuzioni è già sufficiente per intaccare la proverbiale competitività delle merci cinesi, ma non ancora in grado di fare da volano alla domanda interna, ovvero all’incremento dei consumi. La crisi mondiale impedisce che questa venga sostituita, senza interventi di tipo monetario, dalla domanda estera. Nello stesso tempo le previsioni sulla crescita quantitativa cinese non sono ottimali. Alcuni centri di analisi le stimano inferiori persino di parecchio a quelle ufficiali, tenendo conto dell’andamento dei consumi energetici e della stessa produzione industriale.
Lo stupore dei cinesi di fronte alle reazioni stizzite internazionali, ma non di tutti, non deriva solo dalla tradizionale astuta doppiezza orientale. Non hanno torto quando affermano che non hanno fatto altro che quello che il resto del mondo capitalistico chiedeva loro, ovvero aprirsi al mercato. L’obiettivo non è dunque una generica e confusa guerra valutaria – peraltro già in corso con altri mezzi– quanto quello di rispondere positivamente alle condizioni poste dallo stesso Fmi – che infatti ha gradito - per permettere allo yuan di affiancare le altre monete importanti nel paniere dei Diritti speciali di prelievo (SDR nell’acronimo inglese). Questo farebbe dello yuan una moneta di riserva globale. Il che la renderebbe più stabile e ridurrebbe il bisogno di detenere riserve massicce, liberalizzandone l’uso.
I primi a subire le conseguenze negative della decisione cinese sono i paesi del sud est asiatico, come il Vietnam (mai amato, come è noto, dai cinesi) che ha provveduto anch’esso ad allargare la banda di oscillazione della propria moneta per reggere la concorrenza internazionale. Anche qui la mossa cinese ha una logica tutt’altro che imprevedibile. Vuole rispondere al tentativo americano di stringerle attorno un cappio con il TPP, l’accordo commerciale con i paesi del Pacifico, che non a caso la esclude. La stessa massiccia immissione di liquidità (il quantitative easing) da parte della Fed ha reso ipercompetitivo il dollaro. Se di qualcosa ci saremmo dovuti stupire è che prima o poi non si manifestasse una reazione cinese.
Ma chi rischia veramente grosso è come al solito la nostra Europa. Da un lato le merci cinesi diventeranno più competitive e probabilmente i cinesi spenderanno meno da noi. Il tutto potrebbe tramutarsi persino in un campanello d’allarme utile a smorzare i toni trionfalistici della Germania, molto interessata al mercato orientale, ma ci verrebbe un’altra politica a Berlino. La crisi sta cambiando gli assetti del mondo. Anche l’eterogenesi dei fini gioca il suo ruolo. The Times They Are a-Changin’, anche se in una direzione ben diversa da quella auspicata da Bob Dylan più di 50 anni fa.
Prima puntata di un viaggio lungo il confine che separa Ungheria, Serbia e Romania a pochi giorni dall’inizio della costruzione della barriera lunga 175 km con cui il governo Orbán intende fermare il flusso dei profughi. Per capire quanto è corta la memoria nella fortezza Europa.
Il manifesto, 12 agosto 2015
«Dove ci troviamo?» – chiede uno di loro.
«Sì, dove ci troviamo?» – insiste l’amico.
«Non sanno neanche dove sono!» – esclama uno di noi, sorpreso.
«Io vengo dalla Siria, sono scappato dall’Isis».
«Io dall’Iraq, dal Kurdistan».
«Dove ci troviamo?», ripete ancora, più tardi, una ragazza afghana di dodici anni. È scappata dai talebani, ha lavorato un anno in Turchia con la madre, ora arrivano insieme alle porte d’Europa. Nessun padre, almeno non qui e non ora.
Non sono in pochi a non sapere nemmeno come si chiama questo luogo. Siamo — noi e loro — alla stazione ferroviaria di Seghedino (Szegede), Ungheria, come alcuni hanno scoperto grazie al GPS dei loro smartphone, gli stessi telefoni che sono serviti da guida per passare alla cieca l’ultima frontiera, tra la Serbia e l’Ungheria. Con i sistemi di navigazione sono riusciti a localizzare le coordinate trasmesse dai trafficanti in uno degli ultimi sms — segnali verso il futuro. E il futuro, che fino a questo punto è già costato centinaia o migliaia di euro, non è ancora qui, in questa stazione della periferia europea in cui trascorriamo insieme le prime ore dell’alba.
Ma sappiamo davvero dove ci troviamo, in questo selfie della “storia del presente”, mentre una nuova cortina di ferro lunga 175 chilometri sembra poter nascere nel cuore d’Europa? Le 4 e 36 minuti: risuona l’altoparlante: «In partenza, dal binario 1, treno con destinazione…». «Dove ci troviamo, e dove stiamo andando?». «E noi?».
Il senso della vita ingabbiato
«Il senso della vita è scavalcare frontiere», diceva il reporter-viaggiatore polacco Ryszard Kapuscinski, frase che risuona amplificata quando la frontiera converge su tre punti. Qui, dove Ungheria, Serbia e Romania si toccano, al Triplex Confinium, sorgerà l’estremità orientale della struttura di filo spinato, di tre o quattro metri d’altezza, la cui costruzione è stata annunciata dalle autorità ungheresi a fine primavera 2015, come misura per arrestare quella che minaccia di diventare la più grande onda migratoria verso l’Unione europea degli ultimi quarant’anni. I due principali punti d’ingresso: l’Italia meridionale e – appunto — il sud dell’Ungheria, con Grecia o Bulgaria, e poi Macedonia e Serbia come paesi di transito.
Questo “Occidente Express” attraverso i Balcani è già diventato la principale via d’accesso all’Unione europea, ancor più movimentata delle vie marittime del Mediterraneo fino alle spiagge di Lampedusa.
E per fermare i migranti, innalzano reti: il tracciato previsto dalle autorità di Budapest per la barriera si estende da qui, punto di partenza del nostro viaggio, fino a un’altra frontiera tripla (tra Ungheria, Serbia e Croazia), a gomito su un braccio del Danubio, nostra destinazione finale.
Alcuni lo chiamano muro, altri dicono che è soltanto una «recinzione»: e così viene definita ufficialmente. Non c’è ancora bisogno di dargli un nome definitivo, finché nel paesaggio l’orizzonte rimane vergine e lo sguardo sorvola la pianura sconfinata, come un’aquila che fluttua sopra a una vecchia e ormai abbandonata torre di controllo dell’esercito jugoslavo. La gigantesca torre resiste alla ruggine del tempo, come simbolo archeologico di un’antica frattura che non ha mai smesso di essere frontiera e che ora lo diventerà ancora di più.
È stata la frontiera di Tito, ed è stata anche la frontiera di Kádár e di Mosca, e ora sarà la frontiera di Orbán. È stata la frontiera non allineata del socialismo «dal volto umano» jugoslavo e ora sarà la neo-frontiera del capitalismo, anch’esso «dal volto umano», di un’Unione europea che, più o meno imbellettata, sta incorporando i volti dei neo-nazionalismi che vincono alle urne da queste parti. Camaleonti all’interno del paesaggio retorico, gli «ismi» si toccano sempre, sfumano le frontiere, mordono la coda gli uni agli altri.
Uno storico pic-nic paneuropeo
Aquile qui, che attraversano i cieli, gabbiani là nel Mediterraneo sulla Sicilia e su Lampedusa. Anche qui ci sono state isole un tempo, in un’altra era geologica, prima dell’Uomo, quando tutto quest’infinito, ora verde come il mais, ora biondo come il grano, era il Mare di Pannonia. Da un campo di girasoli, una lepre salta all’improvviso davanti alla nostra auto. Neanche un poliziotto, neanche un rifugiato, soltanto noi. «Qui si potrebbe fare un bel pic-nic!». A parlare è stata Móni Bense, professoressa universitaria e traduttrice, che è scesa da Budapest fino alla Terra Bassa per accompagnarmi in questo percorso, mentre io salivo da Belgrado alla volta della Vojvodina.
La Terra Bassa ungherese e la Vojvodina serba si mescolano, siamesi nella geografia, sorelle su una mappa umana che la storia ha tagliato varie volte. Anche se molto più piccolo della torre di Tito, il segno della tripla frontiera è qui, in questo campo sterminato, e potrebbe fare da rendez-vous per il pic-nic che voleva fare Móni. Si sarebbe stesa la tovaglia lì… in piena terra di nessuno. È in tavola per tutti, goulash per favore!
Lei non c’era, ma le sarebbe piaciuto partecipare allo storico pic-nic del 19 agosto 1989, vicino alla frontiera austro-ungarica tra Sankt Margarethen im Burgenland e Sopronkhida, a Sopronpuszta, dove ungheresi e austriaci hanno organizzato l’incontro che il giornale francese Le Monde ha definito «il pic-nic che ha fatto oscillare la storia». Il primo luogo, in tutta l’Europa, in cui qualche settimana prima la cortina di ferro venne simbolicamente cancellata era lì vicino, ma in quel giorno d’estate, nel corso del «pic-nic paneuropeo», centinaia di tedeschi dell’est (sarebbero stati decine di migliaia nei mesi successivi) attraversarono il confine verso l’Austria, per poi rincontrarsi con le proprie famiglie in quella che allora era la Germania Occidentale.
Non riuscire più a ricordare
Il muro che era cominciato a cadere da quelle parti sarebbe crollato a Berlino soltanto tre mesi dopo, e con lui il resto del recinto di ferro che, in mezzo all’Europa, divideva il mondo. Móni allora era un’adolescente, e forse cresceva ridendo di Gusztáv, il mitico cartone animato degli anni Sessanta e Settanta, prodotto dal Pannónia Filmstúdió, in pieno «comunismo goulash». Gusztáv era venerato in Ungheria (ma anche fuori dalla Pannonia, in Jugoslavia e non solo) dove c’è chi ha visto e rivisto all’infinito lo stesso episodio, cinque o sei minuti ripetuti fino a sfinirsi dalle risate.
Ma su altri schermi, i ricordi sembrano essere più sfumati: «La storia si ripete così rapidamente che la generazione che ha vissuto i suoi episodi più tragici qui è ancora viva, ma pare non riuscire più a ricordare», dice rassegnata Móni, lamentandosi dell’amnesia parziale di molti suoi compatrioti, immemori dell’eterno status di migranti e rifugiati, se non di prima, di seconda o terza generazione, che ha accompagnato il popolo ungherese ritornando indietro solo di un secolo, fino al trattato di pace di Trianon.
Forse una rilettura delle opere dello psicanalista ungherese Sándor Ferenczi, contemporaneo di quegli eventi, potrebbe aiutarci a capire come sia possibile iscrivere un vuoto sui traumi vissuti, un’apparente paralisi del pensiero, in grado di lasciare l’individuo, quindi anche il cittadino e l’elettore, più indifeso. In effetti, se la storia si ripete in qualche modo, Ferenczi ci aveva già spiegato il perché.
È probabile che anche Robert Molnár sia cresciuto con le peripezie di Gusztáv. Scommetto che sarebbe piaciuto anche a lui partecipare a quel «pic-nic paneuropeo» dell’agosto ’89. In quell’estate che ha preceduto l’«Autunno dei Popoli», Molnár aveva 18 anni, fatti a Kübekháza, la cittadina che dista poco più di un chilometro dal Triplex Confinium, di cui oggi è il sindaco. Quando lasciamo la linea di confine e tracciamo l’azimut, attraverso i campi, diretti al centro del villaggio, sappiamo già che non lo incontreremo, né a casa, né in Comune, né alla kocsma, il bar-taverna locale. È all’estero da qualche giorno, per lavoro, ma nonostante tutto conversa a lungo con noi al telefono.
Non è facile trovare, in Ungheria, soprattutto nel panorama politico di centro-destra, una voce così diretta contro la costruzione della nuova barriera. «Conoscendo la Storia — dice lui — in passato, quando un Paese ha deciso di costruire un recinto o un muro, come ad Auschwitz-Birkenau, a Berlino o nel resto della frontiera del blocco comunista, è sempre diventata una piaga per chi l’ha costruito». Per Molnár, «l’Ungheria è già un Paese isolato a livello intellettuale e psicologico. Questo avrà come conseguenza la sua ghettizzazione. L’Ungheria si circonchiude, il che significa che non esiste né uscita né entrata, né da fuori né da dentro. Siamo in mezzo all’Europa, se non riusciamo a navigare in acque pacifiche, ne deriva che lo spazio d’azione degli ungheresi andrà riducendosi», finché «le persone non perderanno la speranza e fuggiranno dal Paese». Più che trasformarsi in un’isola, «l’Ungheria si ghettizzerà», sottolinea quest’uomo politico che, fino al 2002, era stato deputato a Budapest per lo Szerz (Partito Indipendente dei Piccoli Agricoltori e Cittadini). In quel periodo venne espulso dal partito e uscì dal Parlamento. È tornato nella terra in cui è cresciuto e da allora, come indipendente, dirige i destini di questo municipio frontaliero in cui vivono circa 1500 persone.
Al Triplex Confinium, un orecchio acuto riesce forse a sentire tre campane, a seconda dalla rosa dei venti: quella della chiesa di Kübekháza, qui in Ungheria, quella di Beba Veche, in Romania, o quella di Rabe, in Serbia, tre paesini che, quasi equidistanti, formano questo triangolo (si riuniscono tutti una volta all’anno, per una festa transfrontaliera). Róbert Molnár ci tiene a dichiararsi cristiano praticante per ribadire che «c’è bisogno di prendersi cura dei forestieri», il messaggio di Stefano I, re d’Ungheria, poi Santo Stefano per i credenti. «Lo dice la Bibbia: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso», ricorda, e subito profetizza che «la cattiveria ci verrà restituita. Se non vogliamo essere maltrattati, non possiamo maltrattare gli altri. Perché come dice un’espressione che ci ricorda un mio collega, tu lecchi il gelato, ma anche lui ti può leccare».
Nella kocsma della via principale, le birre e le pálinke sono molto più popolari dei gelati. Un uomo, appoggiato all’entrata, si tiene in equilibrio con una birra per ogni mano e continua a bere, ora una, ora l’altra. I tavolini della taverna si estendono tra la casa e la strada, come succede per ogni casa, per ogni strada, nella Terra Bassa o nella Vojvodina. Di fronte a ogni casa, questa fascia che sembra un giardino di cinque o dieci metri, a volte quindici, crea una bella transizione, un’armonia, invece di una frontiera brusca, tra il legno della porta e l’asfalto della strada – una terra di nessuno che tutti coltivano come se fosse il proprio giardino, una terra di tutti. Quel che nasce o è piantato in questa fascia è pubblico; anzi, nel mondo rurale, sembra impossibile pensare a un esempio migliore di spazio pubblico. Lì di fianco, un bambino, sorretto dalle braccia del padre, coglie ciliegie.
Un’immagine quasi uguale ci verrà descritta, in un’altra kocsma, in un altro paesino, dalla padrona del locale. Si era detta testimone «dell’allegria di un gruppo di rifugiati che raccoglieva frutta da un albero». Qui all’entrata della kocsma di Kübekháza, la padrona racconta un altro episodio, qualcosa di simile, che ha visto in televisione. Anzi, fino alla nostra visita, alla fine di giugno, i rifugiati passavano davvero soltanto in televisione e lei stessa non aveva ancora visto nessuno transitare di lì. L’unico problema concreto di cui lei aveva sentito parlare era il seguente: un rifugiato aveva rubato dei pomodori a un agricoltore che si lamentava del fatto, nel reportage televisivo, come se fosse la fine del mondo. «Poveri», si sente una voce sullo sfondo, con tono empatico, «avevano fame, nella stessa situazione, ognuno di noi farebbe la stessa cosa».
Kübekháza non è ancora una nuova Lampedusa, alla fine della rotta balcanica dei migranti dell’est e del sud, ma sia il sindaco della città, sia la signora della kocsma intuiscono come finirà. Entrambi concordano, quando dicono che, con la barriera frontaliera che sta per iniziare nel Triplex Confinium, a poco più di un chilometro dalla città, «è chiaro che i rifugiati faranno il giro dalla Romania e poi passeranno nuovamente di qui». A questa deduzione, ovvia per chi guarda la cartina, ha risposto Péter Szijjártó, il giovane ministro degli Esteri e dell’Investimento Estero, affermando a vari media che «in tutte le sezioni di frontiera su cui non esiste nessuna altra forma efficace ad impedire l’immigrazione illegale [oltre alla linea di divisione tra la Serbia e l’Ungheria], verrà utilizzato lo strumento sicuro della chiusura della frontiera», ovvero, il prolungamento del muro-recinto.
Finché il filo spinato non gli taglia l’orizzonte, Robert Molnár, il politico al governo di questa cittadina frontaliera, sostiene che tocca «alla ricca Europa occidentale trovare unanimemente una risposta e che non si può dare la responsabilità solo all’Ungheria, perché questa è una catastrofe umanitaria che riguarda il mondo intero”. Ma poi torna a guardare verso l’interno, quando parla del muro come di una decisione del governo nell’interesse dello stesso partito che forma l’esecutivo, il Fidesz (della destra populista; 44,5% alle legislative del 2014).
Uno spot nazionalista
Mólnar classifica la decisione come un «mero atto di campagna politica interna», per cui lo Stato dovrà sborsare più di 20 milioni di euro. La struttura sarebbe così un enorme poster di propaganda nazionalista, con i suoi quattro metri d’altezza e 175 chilometri di lunghezza. Continuando a passare i fatti al setaccio, l’ex-deputato conclude che questa misura «non è contro l’immigrazione, ma serve solo a Viktor Orbán e al Fidesz per togliere vento alle vele dello Jobbik (considerato un partito di estrema destra; 20,5% alle legislative 2014), perché ci sono già dei radar termici installati su tutta la frontiera e il 98% dei rifugiati vengono presi».
«Dove ci troviamo?». In un giardino in cui Orbán semina muri, che è anche un giardino dell’Europa. Qui, ai tavolini dellakocsma, il giorno scorre lentamente come il Tisza o il Danubio, come le due birre nelle mani di quell’uomo di Kübekháza. Sull’albero di fronte a noi, il bambino ha lasciato molti grappoli di ciliegie per il primo rifugiato che passerà la frontiera in questo paesino tranquillo. Domani o più avanti, non tarderanno a passare di qui. Forse Sharbat, forse Mohammed, gente che incontreremo alla stazione di Seghedino una notte di questo viaggio, o forse Rafiq, che aspetta ancora, in una fabbrica abbandonata di Subotica, senza passaporto, che un trafficante gli dia le coordinate per continuare il viaggio.
Nel frattempo, nella memoria della taverna, rimbomba la voce di quell’agricoltore ungherese che si lamenta in televisione che «loro» gli hanno «rubato i pomodori».
«Loro» sono quelli che sono scappati dalla fine del mondo sperando di trovare un posto nell’eden-fortezza dell’Unione europea. In ungherese, in serbo e in croato (i due lati della lingua serbo-croata), pomodoro e paradiso sono parole sorelle, con la stessa radice, che indica sia il frutto-verdura che il luogo dell’idillio:paradiscom/paradiscom, paradajz/raj, rajica/raj. Ci uscirebbe un bell’episiodio di Gusztáv, penso io, Gusztáv trasformato in rifugiato-ladro di paradisi, un selfie-caricatura di cui l’Ungheria e l’Europa probabilmente hanno bisogno.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso, traduzione dal portoghese di Serena Cacchioli
Il partito delle discariche e degli inceneritori segue una strategia lineare. Rallenta come può il passaggio alla raccolta differenziata porta a porta ed enfatizza l’incipienza delle inevitabili emergenze». Il Fatto Quotidiano, 12 agosto 2015 (m.p.r.)
È una guerra. Guerra economica, ma guerra vera, feroce. E il governo, con il ministro dell’Ambiente Gianluca Galletti, impegnatissimo, non è neutrale. La preda in palio è l’immondizia, in gergo tecnico Rsu (rifiuti solidi urbani), un tesoro attorno al quale si muovono interessi miliardari. Da una parte c’è il partito della raccolta differenziata, del trattamento e del riciclaggio. Un partito fatto da aziende specializzate con i loro interessi, spalleggiato dagli ambientalisti. Dall’altra c’è il partito delle discariche e degli inceneritori: grandi aziende (molte municipalizzate), grandi interessi e collegamenti densi con i partiti di governo, quali che siano. Le regole del gioco, in nome del bon ton istituzionale, impongono di ignorare l’esistenza della criminalità organizzata, che della partita è protagonista sempre più ingombrante e sfrontato.
L’Assemblea regionale siciliana approva la legge che applica il referendum del 2011: «minimo vitale» di 50 litri a persona e fondo per i poveri, invertendo un processo di privatizzazioni nei servizi pubblici che data dagli anni ’90».
Il manifesto 12 agosto 2015 (m.p.r.)
Fossimo in Grecia, la potremmo tranquillamente attribuire ad Alexis Tsipras e a Syriza. Ma la legge sull’acqua pubblica approvata l’altra notte a Palazzo dei Normanni porta la firma del governatore siciliano Rosario Crocetta, si spinge oltre i risvolti umanitari (il minimo di 50 litri garantiti a ogni cittadino, un fondo di sostegno per chi non riesce a pagare le bollette) e si presenta come la prima in Italia ad applicare il referendum del 2011, invertendo un processo di privatizzazioni nei servizi pubblici che data dagli anni ’90. Fatta eccezione per la giunta guidata da Luigi de Magistris a Napoli (che ha ripubblicizzato integralmente l’azienda comunale con una delibera comunale all’avanguardia, grazie all’aiuto dell’allora assessore Alberto Lucarelli e del giurista Ugo Mattei, poi silurato dalla presidenza della neonata azienda Abc, Acqua bene comune), il voto di quattro anni fa era rimasto lettera morta. Ma ora c’è un ulteriore passo in avanti: per la prima volta l’acqua ridiventa «prevalentemente pubblica» per legge.
A Crocetta è riuscita l’impresa di condurre in porto un cavallo di battaglia della sua campagna elettorale, sfruttando le divisioni interne alle forze politiche e incassando un sostegno trasversale, a partire dai 5 Stelle all’opposizione, forte del fallimento delle privatizzazioni alla siciliana, che non hanno migliorato il servizio né ridotto le bollette ai cittadini, e della spinta di un movimento alimentato da decine di sindaci espropriati della gestione delle risorse idriche e dai comitati che si riconoscono nel Forum dei movimenti per l’acqua.
Per ottenere il via libera definitivo è stato necessario un ultimo compromesso: l’assessore ai Servizi di pubblica utilità, l’ex magistrata renziana Vania Contrafatto, ha preteso l’inserimento della possibilità di avere anche gestioni miste o private, pena l’accusa di incostituzionalità e un probabile conflitto con lo Stato. Ma la partecipazione dei privati è stata imbrigliata da fortissime limitazioni: dovranno offrire servizi a prezzi inferiori a quelli forniti dal pubblico, a «condizioni bloccate per tutta la durata dell’affidamento», che non può superare i nove anni (contro i quaranta, ad esempio, dell’attuale concessione a Siciliacque spa), e con multe salatissime in caso di disservizi, dai 100 ai 300 milioni al giorno (da pagare all’Ato di riferimento), fino alla rescissione del contratto in caso di mancata erogazione per più di quattro giorni in almeno il due per cento del bacino idrico.
Per questi motivi nei giorni scorsi, mentre infuriava la bufera intercettazioni sulla sanità siciliana e si prospettava il rischio di un ritorno anticipato alle urne, il Forum dei movimenti per l’acqua pubblica invitava ad approvare la legge che recepisce diverse loro proposte, dal riconoscimento di un «minimo vitale» di 50 litri al giorno a persona, come stabilisce il Contratto mondiale dell’acqua, alle tariffe scontate del 50 per cento laddove l’acqua non è potabile e non può essere usata neppure per cucinare, a un fondo di sostegno per il pagamento delle bollette delle persone meno abbienti. Saranno gli Ambiti territoriali ottimali (Ato), che rimangono nove e non vengono accorpati come aveva chiesto il plenipotenziario renziano (e grande rivale di Crocetta) Davide Faraone appena tre giorni fa, a decidere, attraverso «procedure di evidenza pubblica», a chi affidare la gestione delle risorse idriche.
Un’altra norma prevede che si valuti «la sussistenza dei presupposti per l’eventuale esercizio del diritto di recesso dalla convenzione con Siciliacque ed in ogni caso avvia le procedure per la revisione della stessa al fine di allinearla ai principi generali dell’ordinamento giuridico statale e comunitario diretti a garantire la possibilità di accesso, secondo criteri di solidarietà, all’acqua in quanto bene pubblico primario». Siciliacque è il cavallo di Troia della transizione dal pubblico al privato in Sicilia: è la concessionaria che nel 2004 è subentrata al vecchio Ente acquedotti siciliano (Eas), interamente di diritto pubblico. Si tratta di una società per azioni (dunque di diritto privato) partecipata al 25 per cento dalla Regione, che all’inizio deteneva solo il 5 per cento ed ha poi rilevato le quote del disciolto Eas. Il rimanente 75 per cento è nelle mani di Idrosicilia spa, composta al 60 per cento dalla multinazionale francese Veolia e dal 40 per cento dall’Enel. A Siciliacque è stato garantito un contratto quarantennale, che scadrà nel 2044, ma ora la nuova legge prevede la possibilità di recedere, pur se già viene agitato lo spauracchio di salate penali da pagare nel caso tutto venga rimesso in discussione. Ma alla Regione Sicilia, che nomina tre consiglieri d’amministrazione su cinque della spa, sono convinti di avere in mano gli strumenti giuridici per garantire una transizione al contrario, dal privato al pubblico. Anche se sono consapevoli che non sarà una passeggiata.
Matteo Renzi che della Tatcher condivide l'ideologia neoliberista, lo schierarsi sul versante destro, la subalternità ai poteri economici, ha però una marcia e un'ambizione in più.
Huffington post, blog , 10 agosto 2015, con postilla
Margaret Thatcher al colmo del potere dichiarò: "So che la Bbc mi attacca ma non posso farci niente". E non mosse un dito contro la Bbc. Matteo Renzi invece partecipa attivamente alle scelte del nuovo CdA della Rai e prima di partire per il Giappone riceve a Palazzo Chigi il candidato al ruolo di amministratore unico Antonio Campo Dall'Orto protagonista della Leopolda renziana. Una investitura personale, chiaramente. Il direttore generale di Bbc rimane in carica anni scelto per meriti professionali dai 12 "governors" della Fondazione i quali tutelano l'autonomia della Tv pubblica.
Renzi continua a parlare di Fondazione tipo Bbc e fa l'esatto contrario. Il CdA della Rai viene nominato con una accurata spartizione partitica, anzi correntizia. Lo stesso accade per la presidente che al Tg1 fu paladina della svolta di centrodestra del suo direttore Minzolini. E sì che aveva promesso: "Fuori i partiti dalla Rai!".
In Italia no. Però esisteva anni fa un primo filtro rappresentato dalla nomina di 5 consiglieri da parte dei presidenti di Camera e Senato e fra essi il CdA eleggeva il presidente. Sistema travolto da Berlusconi con la legge Gasparri.
Con Renzi il presidente lo nomina il governo e gli mette accanto come consigliere del Tesoro (proprietario dell'azienda) il suo suggeritore per la comunicazione. L'omologazione fra presidente/segretario e radio e tv pubblica appare totale. Si sono levate critiche per un CdA di basso profilo. Infatti il Consiglio conterà assai poco e il rapporto strategico sarà quello che correrà fra Matteo Renzi e Antonio Campo Dall'Orto. Il resto è figura. Succede in qualche alto Paese di democrazia compiuta? Non mi pare. E pensare che nel 1945 venne nominato dal CLN alla presidenza della Rai, ex Eiar, un personaggio del livello politico e culturale di Carlo Arturo Jemolo.
postilla
Matteo Renzi che condivide l'ideologia neoliberista della Tatcher, ha però l'ambizione di fare un passo più deciso verso passato. Vuole costruire (e sta costruendo) una strutturs statale neofeudale nella quale in ogni settore della vita pubblica (la scuola, la salute, la cultura, l'informazione, l'uso dei beni culturali e in generale del territorio) ove non sia di stretta competenza dei potentati economici, sia assoggettato al Monarca tramite una catena di comando di vassalli, valvassori e valvassini, gerarchicamente ordinati e da lui prescelti. Ci sta riuscendo, e giàsi potrebbero individuare i nomi dei feudatari da lui già investiti.
Un grande nebbione deve essere calato sull'Italia se Sergio Staino, e tante altre persone che hanno storie simili, possono pensare ancora che Matteo Renzi possa dirsi "di sinistra". È proprio arrivata l'ora di andar via da questo paese. LaRepubblica, 10 agosto 2015
«Gianni [Cuperlo], vai fra la gente, vai in un cinema affollato, in una trattoria, in un autobus e ur-la: “Questa sinistra Dem ci sta veramente scassando i coglioni”. Avrai come risposta una standing ovation, non vi sopporta più nessuno tranne, ovviamente, Renzi...». Sergio Staino attacca Gianni Cuperlo. Lo fa dalle pagine dell’Unità , nuova gestione D’Angelis. Una lettera di fuoco, in un primo tempo privata e indirizzata all’esponente della minoranza Pd, e poi resa pubblica «perché non ho ancora ricevuto risposta». Non c’è l’ironia di Bobo, ma la rabbia e il livore dell’ex «amico fraterno». Così si definisce Staino nei confronti di Cuperlo per poi infilargli il coltello nel costato: «State uccidendo la sinistra, date di voi stessi un’immagine di estremisti disperati che urlano su tutto e tutti senza sapere cosa proporre... Cosa stai offrendo di concreto allo smarrimento dei nostri elettori? Nulla. Solo la coscienza che Renzi è una m....».
Per Cuperlo, una sorpresa dolorosa, come ci dice al telefono: «Sono profondamente colpito dai toni e dal linguaggio usati e anche dall’enfasi con cui è stata pubblicata la lettera». Il direttore dell’ Unità , Erasmo D’Angelis, confidava ieri in una sua risposta pubblica: «L’ho chiamato al cellulare ma è irrintracciabile ».
Accusare uno come l’ex presidente (per 38 giorni) del Pd di volere la morte della sinistra è come dire a Don Ciotti che non sta facendo tutto per combattere la mafia. Perché tanta virulenza? Proprio per i rapporti pregressi. Staino, andato e tornato (era con Sel alle europee del 2009), considerava Gianni «un grande compagno». Ora non condivide nulla di quel che fa. Di qui, per proprietà transitoria, uno Staino «renziano» ( non è una novità, già mesi fa aveva lodato «la furbizia e l’intelligenza » del premier, ndr). Il segretario c’è ed è Renzi: «Lo considero un frutto amaro del nostro partito ». Tradotto: Renzi si è materializzato sui vostri errori, sugli errori di una dirigenza (leggi tutto il vecchio establishment)che dovrebbe ritirarsi a vita privata: «Sono ormai fuori dalla storia, finiti».
Ma perché prendersela tanto con Cuperlo, che di tutto il gruppo è sempre stato quello dai toni più riflessivi e meno demagogici? D’Angelis ha la versione del padre di Bobo: «A fine luglio c’è stato a Roma, alla Festa dell’Unità, un dibattito in cui Staino le ha cantate pubblicamente a Gianni il quale poi gli avrebbe mandato degli sms infastiditi ». Segue lettera privata, trasformata in attacco frontale pubblico: «Comportandovi così state tirando la volata a Grillo e Salvini».
Cuperlo è sconcertato: «Staino dice cose non vere. Non ho mai detto, per esempio, che Renzi e Berlusconi sono simili. Il mio problema non è Renzi, è di capire dove va il Pd».
Piovono commenti al giornale. D’Angelis: «La gran parte vengono dalla prima minoranza Pd, quella che adesso si è allontanata... Danno ragione a Staino». Orfini, infatti, detta la linea sobria sull’ Huffington : giusto criticare la minoranza (“Staino coglie un punto vero”, però «Matteo deve fare qualcosa più di sinistra».
Alla fine della giornata, resta soprattutto la pesantezza di Staino che non ne passa una all’ex amico: «Sei stato altezzoso e arrogante a non accettare la direzione dell’ Unità». D’Angelis concorda «sull’atteggiamento complessivo » di Cuperlo: «Si è dimesso da presidente del partito e non ha accettato la direzione del quotidiano, che non è poca cosa...».
La Repubblica, 9 agosto 2015.
LA LETTURA dei giornali in questo inizio d’agosto è piena di fatti drammatici o comici, talvolta comici per la loro drammaticità, soprattutto quando toccano non più la cronaca ma la politica. «Hanno distrutto la Rai», ha detto Walter Veltroni dopo le nomine fatte dal governo e dai partiti. «Mi viene da ridere pensando alla Rai», ha detto Renzo Arbore che cinquant’anni fa la rinnovò da capo a fondo. A leggere queste cose ti viene da pensare.
Ma ancora di più il turbamento aumenta su temi che riguardano la struttura di fondo del paese: il Mezzogiorno, l’occupazione, le tasse. Tre ferite aperte e purulente che concorrono alla mancata crescita del paese, antiche quasi come l’unità d’Italia. La nostra storia nazionale ha avuto anche aspetti positivi, altri pessimi, ma Mezzogiorno, occupazione e fisco sono state tre zavorre permanenti che hanno ostacolato il nostro cammino verso la modernità facendo aumentare la corruzione, le mafie, la tendenza verso regimi autocratici e addirittura dittatoriali.
Cristo si è fermato ad Eboli? Purtroppo no, se con la parola Cristo intendiamo il bene pubblico; si è fermato molto prima, a Cuneo, come disse alcuni anni fa il sindaco di quella città, oppure a Verona, a Bergamo, a Bologna, ma non più oltre. E adesso stiamo attraversando un guado assai rischioso. L’ha scritto Roberto Saviano su questo giornale a proposito di mafie e di corruzione, l’ha detto Ezio Mauro valutando la fragilità della nostra democrazia, l’hanno raccontato Michele Ainis e Angelo Panebianco sul Corriere della Sera: siamo ad una svolta, ad un passaggio cruciale.
Ed è forse una delle rare occasioni che la maggioranza dei cittadini ne è consapevole, sia pure da posizioni diverse ed anche opposte.
Mi sono spesso domandato — fuor di metafora — perché lo fa e me lo chiedo ancora una volta dopo aver letto la lettera da lui inviata qualche giorno fa al Corriere della sera. Il tema — di capitale importanza — è la legge costituzionale di riforma del Senato che arriverà in terza lettura ai primi di settembre a palazzo Madama. Sarà, così sembra, la battaglia decisiva che vede quasi tutte le opposizioni ed anche i dissidenti del partito democratico contrari, con un Berlusconi in posizione di attesa, decisiva ai fini del risultato.
La tesi di Napolitano è radicale: la legge deve essere approvata così com’è, nel testo già approvato da Camera e Senato nelle prime due letture: il Senato trasformato in una Autorità di controllo e di rappresentanza territoriale senza più alcun potere legislativo nazionale, ridotto a cento componenti. Questo suggerisce il Presidente emerito e per lui non è certo un’improvvisazione: è su questa posizione da molti anni ed ora gli preme più che mai vederla portata a buon fine da Renzi che di un appoggio così autorevole ha certo molto bisogno.
Personalmente ho grande stima e amicizia per Napolitano. Ma su questo tema sono in totale disaccordo. L’ho già scritto in numerose occasioni perché si tratta di un tema che domina da mesi la politica italiana insieme alla riforma elettorale che vi è strettamente connessa. Purtroppo debbo ripetermi perché la lettera di Napolitano ripropone l’argomento e riapre il dibattito.
È senz’altro opportuno che il Senato sia privato del potere di votare la fiducia al governo, ma tutti gli altri poteri legislativi debbono restare integri. La nostra è una Repubblica parlamentare e la linea politica è indicata dal Parlamento mentre al potere esecutivo spetta — come dice il nome — il mandato di tradurre in atti esecutivi coerenti con la linea indicata dal Parlamento, che rappresenta il popolo sovrano. In Parlamento si approvano le leggi che attuano la linea indicata dalla maggioranza che il Parlamento esprime; sicché il sistema elettorale deve essere analogo in entrambe le Camere. Analogo ma non identico, a cominciare dall’età dei componenti e da altre accettabili difformità.
Naturalmente è anche possibile che il Senato scompaia e si attui un sistema monocamerale; in gran parte d’Europa è così. In tal caso però le elezioni alla Camera debbono essere totalmente libere e rappresentare fedelmente il popolo sovrano. Il sistema monocamerale previsto dall’“Italicum” di Renzi è in larga misura un monocamerale di “nominati” dal governo in carica; la conseguenza è evidente: il potere legislativo è declassato e subordinato all’esecutivo, il presidente del Consiglio diventa così il personaggio che “comanda da solo” esattamente il contrario della democrazia parlamentare.
Mi pare molto singolare che Napolitano non veda questo risvolto della abolizione di fatto del Senato. Un monocamerale in gran parte “nominato” dall’esecutivo ci avvia inevitabilmente all’autocrazia. E questo che si vuole?
Non sono in grado ovviamente di conoscere in proposito il parere del presidente Mattarella, ma supponiamo per pura ipotesi che egli ravvisi un’illegalità in questa soluzione e rinvii la legge costituzionale alle Camere. La posizione di Napolitano sarebbe in quel caso estremamente imbarazzante e sarebbe come se il papa emerito Benedetto XVI facesse pubblicamente affermazioni teologiche diverse da quelle di papa Francesco. Vi sembra possibile una situazione simile? *** Naturalmente la dissidenza del Pd si rende ben conto che la posizione critica che ha deciso di assumere di fronte alla legge del governo può portare ad uno strappo e addirittura ad una scissione del partito. Perché lo fa? Perché non si limita ad astenersi dal voto o a non presentare emendamenti profondamente diversi dal testo della legge in discussione? Se il motivo fosse soltanto quello connesso alla legge sul Senato, la dissidenza del Pd potrebbe ancora una volta chiuder gli occhi ed accettare l’amaro boccone che Renzi ha deciso di farle trangugiare, ma in realtà ci sono due altri motivi: la vocazione autocratica che si esprime attraverso le due leggi elettorale e costituzionale e lo spostamento in corso del Pd da partito di centrosinistra a partito di centro. Non a caso Renzi ha come punto di riferimento storico Tony Blair, che trasformò il partito laburista inglese e proseguì portandola a compimento la politica di Margaret Thatcher.
Quello spostamento consentì a Blair di governare per due legislature di seguito e ancora ne mena vanto sostenendo che i voti in una società moderna si prendono al centro e non a sinistra.
Sarà pur vero, ma quella che allora si chiamava Inghilterra non sembra abbia fatto passi da gigante dopo i lunghi anni di governo di Tony Blair; è rimasta un ex impero coloniale senza più colonie, ai margini dell’Europa e ormai diviso in una federazione dove l’Inghilterra convive con le sovranità della Scozia, del Galles e dell’Irlanda. Tony Blair ha un bel passato personale ma storicamente è stato una foglia al vento e il suo Paese conta ben poco nell’Europa di oggi; nella società globale, conta niente del tutto. Ha scritto a questo proposito Angelo Panebianco: «Il partito della Nazione ha bisogno di sostituire il mancato radicamento sociale con la crescita di potere dell’esecutivo. Per questo la riforma del Senato è oggi così importante e per questo la minoranza intende fare di tutto per batterlo e garantire la propria sopravvivenza. Sa che Renzi è uno che non fa prigionieri».
Tutto comprensibile. Ma che fine farà la democrazia parlamentare? Che fine farà la sinistra? E soprattutto che fine farà un Paese che sembra ricordarsi dell’Europa solo per ottenere libertà di “deficit spending”? Il “deficit spending” è importante, ma gli Stati Uniti d’Europa lo sono ancora di più. Quel tema però interessa assai poco. Gli immigrati interessano molto di più, ma sul quel tema non è stato compiuto nessun passo avanti e l’altro ieri sono morte in mare altre centinaia di persone. Sono questi i risultati?
Per rovesciare questo trend, Gramsci suggeriva di cominciare proprio da dove si era arenato il progetto liberale: incorporare il Sud nello Stato nazionale. Oggi l’Italia è una democrazia solida, eppure il degrado nel quale versa il Sud conferma integralmente il senso delle parole gramsciane: non considerare il Sud come un problema locale, perché il Meridione rappresenta l’intera nazione, le sue sconfitte come i suoi successi. L’Italia non riparte se non tutta insieme.
Per un laico è amaro ammetterlo: l'unico tra i potenti che esprime parole di saggezza politica (anche perché umane) appartiene alla sfera della religione. Se non fosse un potente qualcuno si direbbe "stai sereno".
Il manifesto, 8 agosto 2015
Papa Francesco aveva già detto, dopo un’ennesima strage di migranti al largo di Lampedusa: «È una vergogna». Questa vergogna non ha fatto che ripetersi, per mesi, e c’è anche qualcuno che si rallegra perché l’Europa adesso mostrerebbe un po’ più di sensibilità, c’è perfino una nave irlandese che partecipa alle operazioni di tumulazione nel Mediterraneo di centinaia e centinaia di profughi, mentre una parte ne salva.
Intanto la Francia sigilla la frontiera di Ventimiglia, l’Inghilterra stabilisce una linea Maginot all’ingresso dell’Eurotunnel della Manica, l’Ungheria alza un muro e l’Italia è tutta contenta perché ha posto fine all’unica cosa buona che era riuscita a fare, l’operazione «Mare Nostrum», ed è rientrata nei ranghi dell’Europa perché sia chiaro che la vita negata ai profughi non è una scelta solo dell’Italia, ma è un sacrificio collettivo che tutta l’Europa offre a se stessa avendo cessato di essere umana.
Ed ecco che il papa Francesco dà il nome alla cosa: respingere i profughi è guerra, e cacciare via da un Paese, da un porto, da una sponda i migranti abbandonati al mare, è violenza omicida.
Lo dice nell’anniversario del delitto fondatore di questa fase della modernità, lo dice nei giorni di Hiroshima e Nagasaki.
Quando aveva denunciato che la guerra mondiale non era finita, perché nella globalizzazione si sta combattendo una guerra mondiale «a pezzi», era sembrato che parlasse per metafore; ma oggi mette le cose in chiaro: la guerra è questa, i garantiti contro i disperati, un mondo che voleva abolire le frontiere e ne ha alzate altre più spietate e invalicabili, contro un’umanità senza patria né asilo che invano cerca salvezza.
E se è una guerra, una guerra non dichiarata e non tutelata da alcun diritto, nemmeno umanitario, gli atti che vi si compiono sono crimini di guerra. E questo vale per le vittime in fuga dalla Birmania nell’Oceano Indiano, a cui il papa specificamente si riferiva, e vale per le vittime che non riescono ad attraversare senza soccombere la fossa comune del Mediterraneo.
Sono mesi e mesi che i siti nonviolenti, pacifisti, o semplicemente umani, denunciano questi delitti perpetrati dai governi europei, compreso il nostro, sollecitano appelli e firme dei cittadini perché ci si risolva a dare l’unica soluzione vera al problema, che è quella di aprire le frontiere, riconoscere l’antico diritto umano universale di migrare, permettere ai profughi e ai fuggiaschi di viaggiare al sicuro su treni, navi e aerei di linea. E sono mesi che siti nostalgici e integralisti, invidiosi di papa Francesco, cercano di screditarlo lamentandone la popolarità, e rallegrandosi se quando parla ai poveri e ai movimenti popolari, come ha fatto in Bolivia, il mondo per bene con i suoi media neanche lo ascolta.
La verità è che papa Francesco è l’unico che oggi ha parole all’altezza del dramma storico che stiamo vivendo. Gli scartati della terra sono i veri soggetti storici attorno a cui si deve costruire la nuova convivenza, sono il fulcro dell’umanità di domani. E la giustizia e il diritto devono garantire la «casa comune» e tutti i suoi abitanti, a cominciare dal diritto a vivere, a prendere terra, a riposarsi sotto qualsiasi sole. Questo dice il papa, e non è una cosa impossibile, è solo una cosa non ancora avvenuta.
Commenti sull'ennesimo episodio della guerra condotta dal Primo mondo (l'Europa e gli europei in testa, con qualche nobile eccezione) contro i popoli che fuggono dalle persecuzioni, dalle torture e dalle carestie che il Primo mondo ha contribuito a provocare.
La Repubblica, 8 agosto 2015
Tensioni e conflitti si risolvono «con il dialogo» e «il rispetto delle identità». Respingere i migranti è «guerra, significa uccidere». Così Papa Francesco, ieri, incontrando i ragazzi del Movimento eucaristico giovanile (Meg). Bergoglio, che segue le notizie provenienti dal Mediterraneo, si è poi soffermato sul dramma dei profughi birmani ricordando che respingere chi lascia la propria terra via mare in cerca di una vita dignitosa è un atto criminoso: «Questo si chiama violenza», ha detto. «Speriamo che i naufragi di questi giorni e l’irresponsabilità di istituzioni e politici rimangano una pagina nera di cui fare memoria perché tali tragedie non si ripetano più», ha detto invece padre Camillo Ripamonti, presidente Centro Astalli, il servizio dei gesuiti per i rifugiati in Italia.
Esseri umani? Se ne può dubitare, una volta che si sia saputo che cosa c’è sotto la fotografia. Sotto, invisibili, tanti altri puntini ammassati e andati a fondo, forse duecento, senza vedere un’ultima luce. Dicono alcuni sopravvissuti che gli scafisti li hanno costretti, per impedire ai dannati della stiva di arrampicarsi fino alla luce, a sedersi sulla botola chiusa.
In una foto successiva, più ravvicinata, c’è uno che sembra un ragazzino, ha un salvagente e batte forte i piedi, dallo spruzzo. Più indietro c’è un altro che sembra un bambino, e un adulto che lo sorregge. E altri, alla rinfusa. Stavano su un peschereccio di ferraglia, hanno ondeggiato verso il lato dal quale arrivavano i canotti di soccorso e l’hanno capovolto: è colato a picco in un momento. È il momento peggiore, quello in cui la salvezza arriva a portata di mano. Sono annegati in 26,
tre bambini, oltre alle centinaia della stiva.
Poi ci sono le fotografie di 5 scafisti arrestati, algerini e libici, tra i 21 e i 26 anni. La polizia li ha lasciati fotografare con pieno agio, e ha fatto bene: ma non si legge sulle loro facce la ferocia che i passeggeri hanno raccontato. Con le stesse facce, avrebbero potuto annegare anche loro o cercare un’altra vita. Uno è a torso nudo, uno, barba nera e lunga, gambe nude e maglietta verde che recita: Original Timberline. Crafted for toda ”. Uno ha la canottiera celeste, uno la t-shirt bianca con un marchio italiano famoso. L’ultimo ha i capelli rasta e la maglietta col manifesto di Full Metal Jacket, con la scritta spagnola — La chaqueta metálica — e l’elmetto famoso con il motto Born to kill . Che siano disgustosi, è fin troppo facile. Sono scafisti, cioè l’unica risorsa per chi ha attraversato i deserti e deve ancora attraversare il mare — e poi avrà tante altre traversate ancora da compiere a rischio della vita, fino alla più surreale, sotto il mare della Manica. Che siano anche aguzzini, è un eccesso di zelo, e anche un incerto del mestiere, dato che bisogna tener in equilibrio una mandria umana che sbandando può rovesciare la carretta. C’è poi la questione degli esseri umani, e della vita dichiarata sacra. Le autorità costituite europee e internazionali, anche quando hanno un nome e un cognome, e pure loro una faccia e magari una barba una camicia una cravatta, tengono una distanza accuratamente misurata dall’acqua in cui si annega. La distanza, e tutti i suoi gradi intermedi, impediscono che ci sia qualcuno cui incombe il doveroso compito di fissare il numero di migranti da far annegare nel Canale di Sicilia all’anno o al mese: non troppo pochi, per tentare almeno una dissuasione fra le centinaia di migliaia che premono sulle coste meridionali del Mediterraneo; e non troppi, perché non ne esca sfregiata la figurina di un’Europa civile.
Il numero giusto -tra i 3.279 del 2014 e i 4.000 previsti per quest’anno, che già ne conta già 2.400 -si fissa per così dire da sé, come succede con le statistiche. Si può essere responsabili di una morte o cinque, non di una statistica. La quale si consola col versante opposto, la statistica sui salvati dell’anno scorso, e i salvati di questo: già 88 mila, un netto progresso.
È la solita questione del Mediterraneo mezzo pieno o mezzo vuoto. Le autorità possono essere ottimiste o pessimiste, sono comunque innocenti. Intendiamoci, non solo le autorità, anche i cittadini hanno la loro preziosa distanza dall’acqua in cui si affoga, benché la televisione faccia vedere la cosa, prima più da lontano, puntini che forse sono gabbiani, forse esseri umani, poi più da vicino, fino ad avere la sensazione di tendere la mano da casa propria a una ragazzina intirizzita, e avvolgerla in una carta d’oro e una d’argento, e attaccarla a una flebo, e ringraziare il cielo per lei.
Ieri un commento alle foto (lo so, i commenti non si devono leggere) ammoniva gli imbarcati, vivi e morti: “Il volo Tunisi-Roma costa 160 euro!” E quelli che sono andati a picco serrati nella stiva, i più poveri, avevano pagato 1200. Che lezione! In realtà, si può volare a Tunisi anche per meno, e in meno di un’ora. La Tunisia, che resta il meno dispotico dei Paesi del Maghreb, per ostacolare i reclutamenti jihadisti, è arrivata a vietare ai suoi giovani (fino ai 35 anni!) di espatriare verso i Paesi a rischio — cioè, dalla Tunisia, tutti — con qualche eccezione autorizzata dai genitori (dei figli di 35 anni!). E figuriamoci i somali, i sudanesi, i siriani, gli eritrei, che al barcone arrivano dopo aver distrutto i documenti e magari limato i polpastrelli. Domanda: appartengono alla stessa specie vivente, sono ambedue animali umani, quello che con qualche decina di euro vola a Tunisi e a bordo ordina un succo di ananas, e quello che per 1.200 euro si guadagna uno spazio nella stiva di una carcassa di peschereccio, come in una camera a gas? Quello che viaggia col bagaglio a mano, e quello che crepa asfissiato dentro una valigia tra Melilla e la Spagna? Quello che arriva fino a Calais e, respinto per l’ennesima volta, getta la sua bambina di là dalla barriera, che almeno lei ce la faccia?
Lo so, bisogna stare attenti a non fare i demagoghi, a non vellicare sensi di colpa e buoni sentimenti del proprio prossimo. Ma non sto mettendo a confronto la foto dei 400 puntini sul mare blu, e dei 200 puntini che mancano, con quella delle caviglie di una signora che, sulla stessa homepage di ieri, aveva la didascalia: “300mila dollari per i sandali di diamanti”. Lo so che non è per permettere a quella signora il paio di scarpe che tante donne incinte di stupri vanno a fondo nel Canale di Sicilia. Che paragonare i naufragi nel Canale di Sicilia al raddoppio del Canale di Suez è populista: non sono vasi, né canali comunicanti. Si può però paragonare una parte di mondo, compresa la gran maggioranza dei suoi poveri, che non può sopportare di sentire la propria incolumità fisica minacciata, e un’altra parte di mondo che scappa dalla morte a rischio della morte e viaggia incontro a tante morti successive, non per rifarsi una vita, ma per farsela, e se non a sé almeno alla propria creatura.
La Repubblica, 7 agosto 2015
«Non li conosco, non li ho mai sentiti nominare. Ho anche guardato le fotine pubblicate dai giornali: ricordano quei tizi scomparsi di Chi l’ha visto. Invece sono i responsabili della principale azienda culturale del paese: davvero non mi capacito». Ugo Gregoretti, per la Rai, ha inventato un sacco di cose. Il “giornalismo faceto” di Controfagotto.La regia provocatoria del Circolo Pickwick . Il documentarismo di Sottotraccia. «Sì, facevamo cultura, che poi vuole dire far bene le cose, nel modo più innovativo possibile. Ma da tempo in Rai alla qualità non si bada più».
È ancora la principale fabbrica di cultura?
«Vorrei subito chiarire questo equivoco. Dopo l’epoca aurea di Bernabei la Rai ha continuato a esercitare un primato che attiene alla quantità più che alla qualità. Il primato della qualità è rimasto in altri posti: alla Scala, al festival di Spoleto o alla Normale di Pisa. Il nuovo consiglio d’amministrazione rivela l’imbroglio».
In che senso?
«L’Italia non ama la cultura. Siamo i cittadini più ignoranti dell’Occidente. Enfatizziamo in modo trombonesco la nozione di cultura e di culturale, vantando il settanta per cento del patrimonio artistico mondiale. Ma si tratta di un innamoramento finto e ridicolo. Quanti sanno distinguere Borromini da Berlusconi? Temo che la Rai sia lo specchio di tutto questo. Un elefante imbalsamato, privo di un intimo e reale anelito alla cultura. Salvo pochi stravaganti».
A chi si riferisce?
«A quei bei programmi di storia che vanno in onda in tarda serata. Esiste una ragnatela di nicchie aziendali, che però non modifica l’impronta generale della Tv pubblica. La cultura abita altrove. E non mi pare che il nuovo vertice rappresenti l’ambizione del cambiamento ».
Lei ha conosciuto un’altra azienda.
«Quando cominciai, negli anni Cinquanta, non erano certo rose e fiori. La politica esercitava un controllo ferreo. Però eravamo invitati tutti a fare bene. A inventare. E ci garantivano le condizioni per farlo. Ci si chiedeva uno stile, un’eleganza, una correttezza che oggi non vedo».
Cosa vede?
«Inquadrature sbagliate, sciatteria, errori a non finire. Ma chi sa più insegnare? La Rai era un grande centro sperimentale dove si imparava».
Era una Tv dal chiaro intento pedagogico.
«Sì, gli obiettivi erano morali più che estetici. Non contava tanto la belluria ma il fare bene, nella scelta dei temi e nel modo di affrontarli. Dovevamo essere un modello per l’Europa. Un documentario sul Gattopardo cambiò le mie sorti televisive: riuscii a battere la Bbc per la finale del Prix Italia e finalmente mi fecero fare Controfagotto» .
I direttori generali controllavano le mutande delle ballerine.
«Sì, Filippo Guala ordinava di allungare l’orlo. Però fu lo stesso dirigente che con un falso concorso fece entrare in Rai i migliori cervelli della nostra generazione. Umberto Eco. Fabiano Fabiani. Furio Colombo. Gianni Vattimo. Una trasfusione di sangue di cui la Rai avrebbe beneficiato a lungo».
La Rai produceva cultura quando eravamo un paese arretrato. Oggi che gli spettatori sono molto più alfabetizzati c’è meno attenzione.
«La regola era quella di rendere potabili i temi più complessi. Bisognava spiegare Gadamer alle portinaie».
Cosa la fa più arrabbiare della Tv di oggi?
«Le fiction. Io feci il Circolo Pickwick con pochi mezzi e “inventando” Gigi Proietti. Oggi prevale il divismo, la tv ha preso il peggio della maleducazione cinematografica » .
Uno studio del
Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung può trionfalmente rivelare che la grande maggioranza dei lavoratori tedeschi, anche in condizioni di precarietà, bassi salari e scarsi diritti, è ben contenta del lavoro che ha. Gli insoddisfatti naturalmente esistono, ma sono pochi e di cattivo carattere. Il manifesto, 6 agosto 2015 (m.p.r.)
Pochi giorni fa, incontrando fortunatamente una diffusa resistenza, la Confindustria tedesca chiedeva di superare il limite di 8 ore della giornata lavorativa, in nome della flessibilità. E’ il segno inequivocabile di come la dottrina della competitività non contempli alcun principio di equilibrio o di autoregolazione. Non da ieri, numerosi economisti sottolineano come l’avanzo commerciale e di bilancio tedesco (8% del Pil quest’anno) costituiscano per l’Europa un problema ben più serio del debito greco.
L’eccesso di risparmio comincia a preoccupare perfino i vertici della Deutsche Bank. Come è possibile che una economia fiorente si arrocchi nel respingere qualsiasi ripresa della dinamica salariale, qualsiasi miglioramento dei diritti e dei redditi del lavoro precario, qualsiasi ripresa della spesa pubblica, tali da ridurre i fortissimi squilibri che affliggono il Vecchio continente, oltre a migliorare il livello di vita dei tedeschi? A partire da questa domanda, in molti lamentano un antigermanesimo di comodo che imputerebbe a Berlino ciò che in realtà è l’essenza del capitalismo globale.
«Il Senato approva una riforma ultra-verticistica e disciplinare. Nelle 15 deleghe rafforzati i poteri della presidenza del Consiglio. Le critiche dei sindacati». Saranno solo i sindacati e qualche gufo a protestare contro la sostituzione di un regime democratico con un regime feudale? Ma in cima non c'è Carlo Magno, c'è Attila.
Il manifesto, 5 agosto 2015
La riforma della pubblica amministrazione è stata approvata ieri in maniera definitiva dal Senato grazie alle opposizioni. Il governo Renzi è stato graziato da Forza Italia che ha votato contro il provvedimento, garantendo il numero legale. Se i voti a favore sono stati 145, 97 sono stati quelli contrari, senza astenuti. Se qualcuno avesse voluto fare male a Renzi – che ieri dal Giappone ha esultato a modo suo «abbracciando i gufi» via twitter – sarebbe bastato votare contro e l’esecutivo si sarebbe schiantato contro il muro del numero legale: 150 i voti necessari. Così non è stato e il parlamento ha dato carta bianca al governo di fare quello che gli pare con le 15 deleghe contenute in una legge composta da 23 articoli.
Dentro c’è di tutto: al governo è stata delegata la riscrittura del testo unico sul pubblico impiego che interverrà sulla «responsabilità» dei dipendenti pubblici, cioè dovrà rendere concreta la possibilità di condurre a termine le azioni disciplinari; modificherà il ruolo dei dirigenti vincolandoli ancora più strettamente alla politica, resteranno in carica quattro anni, più due di proroga, e dovranno accettare il demansionamento a funzionari, all’occorrenza. In caso contrario saranno licenziati. La legge rafforza oltre modo i poteri di intervento della presidenza del consiglio nell’ambito delle contese tra le amministrazioni centrali che riguardano la tutela paesaggistica e la salute. Sarà il presidente del consiglio a decidere, sentito il parere formale del consiglio dei ministri. Poteri rafforzati anche sulla riorganizzazione degli uffici dei ministeri sui quali Renzi, o chi per lui, potrà intervenire.
Nei decreti delegati, che saranno presentati da settembre, il governo potrà intervenire su una voce importante della ex-spending review voluta dall’ex commissario Carlo Cottarelli: la riduzione delle partecipate. La decisione di ridurle da «8 mila a mille» verrà presa nelle segrete stanze di palazzo Chigi. Se sarà presa. Le prefetture saranno riorganizzate, e non ce ne sarà più una per provincia. Nascerà l’ufficio territoriale unico dello Stato. Continua nel frattempo l’opera di riduzione delle camere di commercio vagheggiata sin dai tempi di Monti: saranno tagliate da 105 a 60. Confermata la cancellazione del Corpo forestale che sarà assorbito in un’altra polizia, si ritiene dai Carabinieri. Tra i molti dettagli-spot di una legge-lenzuolo c’è il wi-fi obbligatorio per gli uffici pubblici, scuole e biblioteche. Dopo la chiusura, diventeranno hot-spot per la cittadinanza; la possibilità di pagare via app multe fino a 50 euro; stop a 113, 118 e 115, previsto un unico numero per le emergenze, il 112. Introdotto la profilazione per ogni cittadino che avrà una carta digitale.
Se dal lato Pd si festeggia la «modernizzazione» praticata dalla riforma (Piero Fassino, sindaco di Torino e presidente Anci), a dir poco critici sono i sindacati del pubblico impiego. Il fuoco della loro critica resta l’assenza di ogni riferimento al contratto di lavoro nazionale, e quindi alla qualità e alla retribuzione dei dipendenti. In una nota congiunta Fp-Cgil, Cisl-Fp, Uil Fpl e Uil-Pa, la «riforma anti-gufi» di Renzi viene definita «illusoria». Non è con nuove norme che si cambierà la P.A. In compenso la cosiddetta «riforma Madia» (dal nome della ministra deputata) «riduce gli spazi di negoziazione e inasprisce i controlli di merito e compatibilità economico-finanziaria dei contratti» Non investe sulle professionalità, ma le disciplina e pensa, eventualmente, a punirle. «Il governo mantiene una Pa autoreferenziale — scrivono i segretari di categoria Dettori, Faverin, Torluccio e Turco — volutamente disorganizzata. Vogliamo il rinnovo del contratto subito».
Dal fronte politico delle opposizioni, Loredana De Petris (Sel) approfondisce la critica alla conferenza dei servizi e al «silenzio-assenso»: «Questa riforma sacrifica la terzietà della P.A., la trasforma in una piramide la sacrifica al potere politico. è l’esatto opposto di quello che bisognava fare».
«Nella lunga intervista non abbiamo sentito menzionare i temi che a noi di Italia Nostra stanno più a cuore: la protezione del paesaggio, dell'arte e della cultura in città e in terraferma, la qualità dell'aria e dell'acqua, l'esodo dei cittadini e il proliferare di strutture alberghiere ed extra-alberghiere, la chiusura dei negozi di quartiere, l'eccesso dei plateatici concessi, la ressa di turisti nelle calli, sui ponti e sui mezzi di trasporto».
Italianostra-venezia.org, 4 agosto 2015 (m.p.r.)
Sul canale televisivo Televenezia (canali 19 e 71) è apparsa venerdì scorso 31 luglio una trasmissione di un'ora che consisteva in un'intervista al nuovo sindaco Luigi Brugnaro. Invitiamo i nostri lettori a darvi un'occhiata, per farsi un'idea sempre più precisa del carattere e delle idee del nuovo sindaco di Venezia. Brugnaro ha dichiarato al pubblico che la trasmissione diventerà una presenza fissa settimanale. Il sito di Televenezia annuncia che il programma andrà in onda ogni giovedì alle 21 e alle 23 e ogni venerdì alle 7.
Un mare di soldi bloccato. Fermo. Centoquattro miliardi da spendere subito. E di questi, oltre 87 col bollino del Sud. Destinati cioè a quel meridione d’Italia «a rischio di sottosviluppo permanente» e che cresce la metà della Grecia, ricorda lo Svimez. Com’è possibile? Colpa solo delle amministrazioni locali lente e incapaci, magari sin troppo propense ai «piagnistei » rimproverati da Renzi? In parte, certo. Ma la macchina mi-liardaria dei fondi, europei e nazionali, si è inceppata dalla testa. Burocrazia, ma anche e soprattutto politica.
L’analisi cruda dei numeri racconta un «piano Marshall» per il Mezzogiorno, evocato ieri dalla ministra dello Sviluppo Federica Guidi nell’intervista a Repubblica , che nei fatti e nei denari già esiste. Non solo. Si scopre che la metà del non speso, ben 50 miliardi, si riferisce addirittura al periodo 2007-2013. In questi nove anni l’Italia è riuscita a utilizzare appena il 46% delle risorse a disposizione, polverizzandole tra l’altro in un milione di progetti. Per la precisione, 907 mila 372. Dall’America’s Cup di Napoli (5,8 milioni) alla campagna “Voglio vivere così” della Toscana (13,4 milioni). Avanzano dunque 50 miliardi della vecchia programmazione (dei 91 totali iniziali). E se non si corre, una parte andrà restituita.
Chi sovraintende da Roma dunque i fondi Ue? Non certo l’Agenzia della coesione, diretta da Maria Ludovica Agrò, di fatto insediata da appena tre mesi (dopo un anno di gestazione). E ancora alle prese con le assunzioni. Dunque Palazzo Chigi. Il premier Renzi ha ereditato il buon lavoro impostato da Delrio, ma poi forse l’ha un po’ accantonato. Di qui la stasi. Certo, va detto che 40 dei 50 programmi di spesa dei nuovi fondi Ue sono stati già approvati da Bruxelles e il governo intende accelerare sui restanti 10. La partita per il 2014-2020 vale in tutto però 138 miliardi (fondi europei più nazionali, Fsc incluso). Una cifra davvero enorme. Da governare.
«Un Paese normale si può permettere di avere ancora il 50% di vecchi fondi da spendere a meno di sei mesi dalla scadenza, con la più grande area depressa d’Europa?», si chiede Guglielmo Loy, segretario confederale Uil. La Uil tra l’altro calcola che dei 12 miliardi di fondi Ue in scadenza, almeno 2 sono a rischio concreto di restituzione. Si vedrà.
TOKYO . «Serve più consapevolezza e amor proprio, voler bene all’Italia significa smettere di spararle e sparlarle contro». Matteo Renzi la sua battaglia all’insegna dell’ottimismo taumaturgico contro i “gufi” che dall’Italia continuano a minacciare (Vietnam parlamentari) o a lamentare (crisi economica e sottosviluppo) la combatte ormai colpo su colpo anche dal Giappone. La seconda giornata a Tokyo che sarà segnata dalla visita all’imperatore Akihito e dall’incontro col premier Shinzo Abe - comincia con un post su Facebook quando in italia è ancora notte. Nessun riferimento esplicito a Roberto Saviano, al suo appello per il Sud in ginocchio, certo è che le parole del presidente del Consiglio risuonano come una risposta a 360 gradi: «Bisogna fare di tutto per guardarci con gli occhi di chi ci vuole bene, non di chi si lamenta soltanto». Poche ore prima, aveva rivolto proprio al Mezzogiorno l’invito a «rimboccarsi le maniche», con quel sonoro «basta piagnistei».
Roberto Saviano non lascia cadere il guanto di sfida, benché non rivolto direttamente a lui. E su Twitter rilancia: «Mi addolora che raccontare la tragica situazione del Sud Italia sia così facilmente definito piagnisteo». Rincara via Facebook ricordando «il numero degli occupati al livello più basso dal 1977, la natalità ai minimi storici, i meridioncosì he fuggono ». Per concludere che «questo è un urlo di dolore, non un piagnisteo che sembra invece somigliare di più alla cantilena del ‘va tutto bene’». La polemica aperta con la lettera a Repubblica della scorsa settimana adesso si fa frontale, diretta. Dalla capitale nipponica Renzi non risponde. Quel che doveva dire lo ha detto e sul Mezzogiorno, ricordano da Palazzo Chigi, è stata convocata un’apposita direzione del Pd venerdì. Sarà in quell’occasione che il premier dirà la sua. «Ha ragione Saviano e torto Renzi, c’è un Sud che sta morendo» attacca Nichi Vendola. Bene la direzione «ma dopo le parole l’azione» dice dalla sinistra pd Roberto Speranza. La giornata del presidente del Consiglio a Tokyo era cominciata con una lecture ai giovani dell’Universitá delle Belle arti: lotta al terrorismo, cultura e citazione ad hoc di Leonardo (“Tristo è quel discepol che non sorpassa il suo maestro”) per concludere che certo «non è semplice fare meglio di chi ci ha preceduti, ma in politica in alcuni casi si può far tesoro degli errori del passato». E ogni riferimento personale (e a chi lo ha preceduto a Palazzo Chigi) è lasciato cadere lì, con un sorriso ammiccante. Poi pranzo con la business community di Tokyo e la visita privata con la moglie Agnese e la figlia Ester all’imperatore Akihito. Il bilaterale serale nella residenza Kantei col premier Abe spalanca tra l’altro le porte agli investimenti Finmeccanica nel prolifico mercato Giapponese. «Ti porterò a Napoli a mangiare la pizza» dice a cena Renzi al collega, che regala un kimono rosa alla piccola dell’ospite.
«Se Renzi è un male assoluto con le sue politiche costituzionali, con le sue scelte sulla scuola, il lavoro, la sanità, l’informazione, la giustizia, accennare ogni volta a un dissenso riassorbibile significa aiutarlo a coprire l’intero spazio politico».
Il manifesto, 4 agosto 2015.
Si tratta di colpi di fumo per coprire il disastro del governo. Dopo la chiacchiera, vengono i fatti a confutare la favola bella della comunicazione che raccontava di miracoli a colpi di tweet. Le cifre smontano l’effetto narcotizzante dei media e parlano di un sottosviluppo permanente per il sud. Di intere generazioni perdute. Di lavoro che non c’è. Di grandi città del silenzio e di giunte del malaffare.
Il fiasco colossale del governo non può essere occultato con il ronzio della narrazione che promette nuovi fantastici tagli di tasse. La corte dei conti ha appena svelato che il trucco di Renzi è semplice: il governo taglia le imposte per farsi bello e poi i comuni sono costretti a spremere la capacità fiscale dei territori. In tre anni la tassazione locale è cresciuta del 22 per cento.
Stretto nella morsa del disastro annunciato, Renzi cerca di sopravvivere inventando nemici, utili per conservare il sostegno dei poteri influenti. A suggerire al premier cattivi pensieri non è certo la minoranza Pd.
Con i suoi piccoli graffi, la minoranza è molto utile al gioco del partito della nazione. Proprio i suoi colpi sparati a salve, confermano che nel Pd ci può stare di tutto. Il Pd è governo e opposizione al tempo stesso.
E proprio questo balletto ostacola la costruzione di un’alternativa politica, che è un bene per il sistema.
La trasparenza del conflitto governo-opposizione viene ostacolata dai distinguo infiniti della minoranza, che con affondi privi di conseguenze aggrava il malessere del quadro politico.
Se Renzi è un male assoluto con le sue politiche costituzionali, con le sue scelte sulla scuola, il lavoro, la sanità, l’informazione, la giustizia, accennare ogni volta a un dissenso riassorbibile significa aiutarlo a coprire l’intero spazio politico. Il partito della nazione non è uno spettro indefinito, è quella pratica informe che esiste già e che vede sotto lo stesso tetto convivere idee in apparenza inconciliabili.
Per cogliere il destino di Renzi non è nel conflitto interno al suo partito che occorre guardare. Un leader che ha conquistato lo scettro grazie al soccorso di potenze esterne, può essere disarcionato solo dallo sgretolamento delle centrali economico-mediatiche che l’hanno foraggiato. Per tenere il nulla osta di quel mondo Renzi aggredisce il sindacato. Cosa si muove nei piani alti del potere? Si nota Squinzi che esulta per i tagli alla sanità pubblica e che quindi brinda per il lucro che si prospetta per le imprese private di assicurazione. E però qualche timido segnale di insofferenza si coglie.
Sul Corriere della Sera il giurista Sabino Cassese paragona il guascone Renzi a un attore comico francese, Jacques Tati. Più che il cineasta d’oltralpe, che recuperava il cinema muto di Keaton e non sprigionava un tratto verbale ossessivo, è l’atmosfera di una certa Toscana minore che riecheggia in Renzi. Il premier è un misto tra la comicità pop, senza acuti e nessi creativi pungenti, di Panariello e il gusto infinito per il gioco, per il rischio, per l’azzardo di Pupo.
Ma, a parte le ricadute estetiche dell’accostamento del presidente del consiglio a un comico, il problema che Cassese segnala potrebbe spingere una parte delle élite a tentare di sostituire l’esuberanza del comunicatore con la sobrietà di uno statista.
La riproposizione di un pendolo antico tra il tecnico e il comico non pare però avere molte chance. E poi Renzi è di sicuro un comico, come indica Cassese, ma con un programma che è simile a quello dei tecnici. Per questo è da escludere una sua rimozione ordinata dalle cancellerie europee e ratificata dai vertici delle istituzioni italiane.
Un capitalismo italiano ancora più debole, con i suoi beni scarsi messi in vendita, accresce gli appetiti di appropriazione coltivati dai mercati internazionali. A certe aree speculative e imprese corsare, un sistema economico in affanno stuzzica mire espansive, perché il declino consente di controllare i residui pezzi pregiati del made in Italy con un tariffario di acquisizione molto a buon mercato.
La deposizione di Renzi, in questo scenario, non pare propedeutica al ritorno in cattedra di personalità delle aree tecniche, di spezzoni responsabili delle istituzioni. Lo spegnimento del renzismo può coincidere solo con l’autodissoluzione di una maggioranza imbelle dinanzi alla crisi che si approfondisce e spaventa la coalizione sociale di supporto.
Per questo Renzi attacca il sindacato che gli ricorda i dati impietosi sulla disoccupazione di lungo termine. Costruisce un nemico e spera che i signori dei media, del denaro, della finanza sappiano distinguere i loro complici nelle istituzioni, ed essere loro grati. All’impresa del resto il governo ha tagliato di ben 10 punti le tasse sui profitti, e inoltre ha destinato ad essa decontribuzioni ghiotte in caso di assunzione a tempo indeterminato (almeno triennale).
E però Renzi non si sente tranquillo giocando a biliardino. Avverte che il disagio sociale potrebbe costruire dal basso delle alternative politiche imprevedibili, capaci anche di espugnare le fortezze edificate per lui da media e capitale.
Alex Zanotelli lancia un allarme e propone un appello a un'iniziativa: «La guerra è alle porte. Non arriva con l’avanzata delle bandiere nere dell’Isis ma con quelle della Nato. E si fa largo sul fronte ucraino come su quello mediterraneo».
Comune.info, 4 agosto 2015
La guerra è alle porte. Non arriva con l’avanzata delle bandiere nere dell’Isis ma con quelle della Nato. E si fa largo sul fronte ucraino come su quello mediterraneo. Così le forze di reazione rapida passano da tredici a quarantamila uomini. Si prepara l'”inevitabile” intervento in Libia e s’intensifica l’utilizzo dei droni con la scusa di combattere i trafficanti di esseri umani. A fine settembre, poi, comincia la più grande esercitazione militare dal tempo della caduta del muro di Berlino. Coinvolgerà 35 mila soldati Nato, 200 aerei e 50 navi da guerra. Sarà pilotata dalla nuova base di Lago Patria a Napoli. Giochiamo in casa e giochiamo con il fuoco. Come credente nel Dio della vita, scrive Alex Zanotelli, non posso accettare un sistema di morte pagato da miliardi di persone impoverite. Come seguace di Gesù di Nazareth non posso accettare che il mio paese faccia parte della Nato. A settembre, durante l’esercitazione, dobbiamo farci sentire
Siamo di nuovo sul piede di guerra anche in Europa, sia sul fronte Ucraina come nel Mediterraneo. E questo grazie alla Nato. È stata la Nato a far precipitare lo scontro con la Russia perché vuole che l’Ucraina entri nell’Alleanza al fine di poter sparare i suoi missili direttamente su Mosca. La Russia ha reagito ed ecco la drammatica guerra civile di quel paese che rischia di diventare guerra atomica. “Ho le armi nucleari,” ha detto Putin. E infatti ha piazzato 50 missili con testate nucleari sui confini baltici della Ue, puntandoli verso la Svezia per dissuaderla a entrare nella Nato.
Vista la grave crisi, è stato convocato a Bruxelles il vertice NATO con la presenza del nuovo segretario Usa alla difesa, Ashton Carter. All’ordine del giorno: potenziare la forza di reazione rapida della Nato portandola da tredicimila soldati a quarantamila uomini (il triplo!), piazzare 5 mila soldati (a rotazione) nei Paesi Baltici e in Polonia ed infine spingere tutti i paesi NATO a spendere il 2 per cento del Pil nella Difesa.
Ma ora si apre anche il Fronte Sud: il Mediterraneo. Il 22 giugno la UE ha dato il via libera (senza il benestare dell’Onu!) alla prima fase della missione navale EuNavForMed con cinque navi militari, due sottomarini, due droni e tre elicotteri e un “migliaio” di soldati per tentare di bloccare la partenza dei migranti dalla Libia. L’uso dei droni militari (a Sigonella operano da anni i droni Global Hawk) si intensificherà con questa missione UE “contro i trafficanti di esseri umani”, grimaldello di un’operazione sotto regia Nato per un intervento militare in Libia. Sia il governo di Tobruk come quello di Tripoli hanno risposto che reagiranno contro questo attacco.
È in questo pesante scenario di guerra che si terrà in Europa, dal 28 settembre al 6 novembre, la più grande esercitazione militare dalla caduta del muro di Berlino che coinvolgerà 35.000 soldati NATO, 200 aerei, 50 navi da guerra.Questa gigantesca esercitazione “Trident Juncture 2015”, sarà pilotata dalla nuova base NATO di Lago Patria a Napoli. Giochiamo in casa e giochiamo con il fuoco.
Una domanda sorge spontanea: ma cosa ci stiamo a fare ancora nella Nato? Ma a che serve, se non a portarci in sempre nuove guerre? La Nato è sorta come alleanza difensiva degli Usa e dei paesi europei contro l’Urss e i paesi comunisti del Patto di Varsavia. Il Patto di Varsavia e i paesi comunisti non ci sono più, ma la Nato continua ad esserci.
La Nato infatti avrebbe dovuto cessare con la caduta del muro di Berlino (1989). Non solo c’è, ma da alleanza militare difensiva è diventata offensiva per difendere gli interessi economici dei paesi membri ovunque essi siano minacciati. Questo è avvenuto nel vertice di Washington (1999). Mentre nel vertice di Praga (2009) la Nato ha fatto un altro salto: ha sposato la strategia della ‘guerra preventiva. La Nato è una potenza militare che nessun avversario può eguagliare, basata anche sulle armi nucleari, che la “Nato deve mantenere finchè vi saranno nel mondo tali armi”, ha detto l’ex-segretario generale Nato Anders Rasmussen. E per evitare attacchi terroristici e missilistici, è stato annunziato al Vertice di Lisbona (2009) il progetto di uno Scudo antimissile. “La sola esistenza della Nato come alleanza cui aderiscono i paesi europei – ci rammenta giustamente il fisico Angelo Baracca – implica un’ipoteca pesantissima che vanificherebbe la migliore costituzione europea che si potesse concepire sia per gli aspetti della difesa, ma anche della democrazia effettiva e della libertà”.
Infatti sulla spinta della Nato, l’Italia in questi due decenni, ha partecipato alle guerre del Golfo (1991), Somalia (1994-’95), Bosnia-Herzegovina (1996-99), Congo(1996-99), Jugoslavia (1999), Afghanistan (2001), Iraq (2003), Libia (2011). Milioni di morti! Solo nella guerra in Congo, quattro milioni di morti. E miliardi di dollari per fare queste guerre. Solo la guerra in Iraq (un milione di morti!) ci è costata almeno tremila miliardi di dollari, secondo le stime di J. Stiglitz (premio Nobel per l’Economia), fornite nel suo volume The Trillion Dollars War.
Guerre di tutti i tipi, da quella ‘umanitaria’ a quella contro il ‘terrorismo’, ma il cui unico scopo è il controllo delle fonti energetiche e delle materie prime, per permettere al 20 per cento del mondo di continuare a vivere da nababbi, consumando il 90 per cento delle risorse del pianeta. “Lo stile di vita del popolo americano – aveva detto Bush senior nel 1991 – non è negoziabile.” E se non è negoziabile, allora non rimane altro che armarsi fino ai denti. Soprattutto con la Bomba Atomica, la Regina che domina questo immenso arsenale di morte che serve a proteggere i privilegi e lo stile di vita di pochi a dispetto dei troppo impoveriti.
Gli Usa/Nato hanno l’arsenale più potente e affidabile al mondo con ottomila testate nucleari, di cui circa duecento dislocate in Europa. Settanta bombe atomiche sono in Italia: una cinquantina a Ghedi (Brescia) e una trentina ad Aviano (Pordenone). E questo in un Paese che ha detto, con un Referendum, no al nucleare civile! La Nato, sempre sotto comando Usa, resterà “un’alleanza nucleare – ha ribadito Obama al vertice di Lisbona – e gli Usa manterranno un efficiente arsenale nucleare per assicurare la difesa dei loro alleati”.
E tutto questo ci costa caro. “Il bilancio civile della Nato per il mantenimento del quartiere generale di Bruxelles – scrive M. Dinucci – ammonta a circa mezzo miliardo di dollari all’anno, di cui l’80 per cento viene pagato dagli alleati. Il bilancio militare della Nato per il mantenimento dei quartieri generali subordinati ammonta a circa un miliardo di dollari l’anno, di cui circa l’80 per cento è pagato dagli alleati. Il budget militare della Nato per il mantenimento dei quartieri generali subordinati ammonta a quasi due miliardi di dollari l’anno, pagati per il 75 per cento dagli europei.”
Secondo i dati aggiornati al 2011, le “spese per la difesa dei 28 stati membri della Nato ammontano a 1.038 miliardi di dollari l’anno, una cifra equivalente a circa il 60 per cento della spesa mondiale per le armi.”
E l’Italia gioca un ruolo cruciale per la Nato: siamo un paese chiave nello scacchiere militare dell’Alleanza Atlantica. A Napoli è stato da poco inaugurata una sede NATO a Lago Patria con 1.500 militari. A Sigonella (Catania) entrerà in funzione il sistema Ags definito da Manlio Dinucci “il più sofisticato sistema di spionaggio elettronico, non in difesa del territorio dell’Alleanza, ma per il potenziamento della sua capacità offensiva fuori area, soprattutto in quella medio-orientale.” Per di più, nel 2016, Sigonella diventerà la capitale mondiale dei droni. E per pilotare i droni, entrerà in funzione nella vicina Niscemi, il sistema MUOS di telecomunicazioni satellitari di nuova generazione. Niscemi diventerà così la quarta capitale mondiale delle comunicazioni militari.
Non possiamo accettare una tale militarizzazione del nostro territorio, né tantomeno possiamo tollerare, a livello morale, la guerra con i droni. “Questa guerra con i droni porta gli Usa in una pericolosa china morale”- scrive Jim Rice, direttore della rivista ecumenica Usa Sojourners. C’è solo un nome per tali uccisioni con i droni, sono veri e propri omicidi, non giustificati né moralmente né legalmente.
E sempre in questo contesto, il governo italiano ha “accettato” sul nostro territorio anche Africom, il supremo comando americano per l’Africa con due basi: una a Vicenza per le forze aeree e l’altra a Napoli per le forze navali. Non possiamo accettare che il nostro paese ospiti qu<ello che nessun paese africano ha accettato di ospitare. Non è questa la politica estera che l’Italia deve intrattenere con un continente crocifisso come l’Africa.
Da credente e da seguace di Gesù di Nazareth, non posso accettare un mondo così assurdo: un sistema economico-finanziario che permette a pochi di vivere da nababbi a spese di molti morti di fame e questo grazie a una NATO che spende oltre mille miliardi di dollari l’anno in armi e soprattutto con arsenali ripieni di spaventose armi atomiche. “La pace e la giustizia procedono insieme – diceva, negli anni della Guerra Fredda, l’arcivescovo di Seattle, R. Hunthausen. – Sulla strada che perseguiamo attualmente la nostra politica economica verso gli altri Paesi, ha bisogno delle armi atomiche. Abbandonare queste armi significherebbe di più di abbandonare i nostri strumenti di terrore globale. Significherebbe abbandonare il nostro posto privilegiato in questo mondo.”
Come credente nel Dio della vita, non posso accettare un Sistema di morte come il nostro pagato da miliardi di impoveriti, milioni di morti di fame oltre che da milioni e milioni di morti per le guerre che facciamo. E come seguace di Gesù di Nazareth, che ci ha insegnato la via della nonviolenza attiva, non posso accettare che il mio paese faccia parte della Nato, una realtà che doveva già essere scomparsa con la caduta del Muro di Berlino e che invece continua a forzarci ad armarci per sempre nuove guerre ‘ovunque i nostri interessi vitali’ siano minacciati.
Lo aveva già capito Giuseppe Dossetti quando, nel 1948, votò in Parlamento contro l’adesione alla NATO, mentre tutta la DC era schierata per il Sì. Lo fece in ossequio alla sua coscienza e al Vangelo. E’ quanto tocca a noi fare oggi, se vogliamo salvarci da questa follia collettiva. “La guerra è una follia – ha gridato papa Francesco al Sacrario militare di Redipuglia – Anche oggi, dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale, forse si può parlare di una terza guerra combattuta a’pezzi’, con crimini, massacri, distruzioni…..”
E allora mobilitiamoci tutti, credenti e non, uniamoci al di là di ideologie o credi, contro questa gigantesca esercitazione militare Nato “Trident Juncture 2015” che si terrà in autunno.
Lo chiedo da Napoli, il centro comando di questa operazione, insieme al comitato napoletano “Pace e Disarmo”.
Perché non pensare a una manifestazione nazionale a Napoli o altrove, promossa da tutte le realtà del movimento per la pace, dalla Rete della pace come dal Tavolo della Pace, dai No Muos come dai No Nato? Tutti insieme perché vinca la vita!
«La Repubblica, 3 agosto 2015
IL PREMIER Matteo Renzi prosegue nella sua marcia solitaria. Un giorno dopo l’altro, una parola dopo l’altra, disegna una democrazia personale e immediata. Centrata sulla sua persona. Refrattaria alle “mediazioni”. Diffdente verso i “mediatori”. Si tratti di organizzazioni, associazioni o di soggetti istituzionali. Così, in pochi giorni, è intervenuto “direttamente” contro i sindaci e, prima ancora, contro il sindacato. Colpevoli, entrambi, di ostacolare, in modo diverso, il turismo e, quindi, l’economia italiana.
Ma l’intento di Renzi non sembra semplicemente “politico” ma “di strategia istituzionale”. Anche se le preoccupazioni di “marketing politico” sono sempre presenti negli interventi del premier. Che, per questo, agisce e inter-agisce in rapporto diretto con gli elettori. E dialoga di continuo con l’Opinione Pubblica. Che contribuisce, a sua volta, a modellare e a orientare. Intervenendo sui temi sensibili. Per esempio, in questa stagione, sui servizi e i disservizi pubblici, appunto. In un periodo nel quale i flussi turistici sono il principale antidoto contro gli altri flussi che affollano e attraversano l’Italia. Ad opera dei migranti. Il turismo, attratto dall’immensa risorsa artistica e ambientale offerta dal nostro Bel Paese. Non sempre valorizzato adeguatamente.
Ribadita, polemicamente, dalla minoranza del Pd, che ha minacciato di contrastare le riforme costituzionali in Senato, nel prossimo settembre, scatenando una sorta di “Vietnam parlamentare”. Una formula che è stata apertamente condannata dal presidente del Pd, Matteo Orfini. Tuttavia, si tratta di una sfida significativa. Sul piano del linguaggio, oltre che della pratica e dell’azione. Perché sposta, decisamente, in ambito “parlamentare” un confronto che, nel frattempo, si è trasferito altrove. All’esterno. Nelle piazze e sui media — vecchi e nuovi.
D’altronde, il capo del governo — e del partito di maggioranza — è un leader “non eletto” in Parlamento. Come i suoi principali oppositori. Beppe Grillo, leader — pardon: portavoce e megafono — del M5s. E Matteo Salvini, segretario della Lega: parlamentare europeo. Insomma, Renzi è, per ora, il premier di una Repubblica extra-parlamentare. Impegnato a costruire uno specifico modello di democrazia. Maggioritaria e personalizzata. Come prevedono le riforme istituzionali (in particolare, il monocameralismo) e la stessa riforma elettorale. L’Italicum. Che non delineano un “presidenzialismo di fatto” (come ha sottolineato il costituzionalista Stefano Ceccanti sull’ Huffington Post ).
Piuttosto, una Repubblica ancora “indistinta” (per citare Edmondo Berselli). Ma fondata sul premier. Renzi, d’altronde, nel frattempo agisce “come se” fosse già premier-presidente. Agisce e decide — o meglio: promette di agire — in fretta. Veloce. Così, dal Giappone annuncia l’approvazione della riforma della pubblica Amministrazione. «Entro giovedì». E si rivolge ai cittadini e agli elettori. Saltando mediazioni e mediatori. Sindacati e sindacalisti. Sindaci e governatori. Scavalca perfino il Parlamento e, soprattutto, i partiti. Compreso il “proprio”. Che, d’altronde, costituisce il principale luogo, il principale soggetto-oggetto del suo esperimento.
Il Pd. Tradotto e trasformato nel PDR. Il Partito Democratico di Renzi. O, più semplicemente, nel PdR. Il Partito di Renzi. Un post-partito, veicolo e portabandiera della PDR. La Post-Democrazia di Renzi. Fondata sul premier.