loader
menu
© 2025 Eddyburg

«Non distinguere le responsabilità di quanto avvenuto negli ultimi decenni e accomunare tutti in un magma indistinto non solo fa torto alla realtà dei fatti ma riporta a galla una visione del mondo “irresponsabile”, del tutti a casa perché nessuno è colpevole». La Repubblica, 27 agosto 2015

NON C’È ombra di dubbio che gli ultimi vent’anni siano stati “anni perduti” per lo sviluppo socio-economico e civile italiano. Ma, contrariamente a quanto detto da Matteo Renzi, la responsabilità non è di tutta la classe politica, destra e sinistra confuse e accomunate, quasi fossero una sola casta, à la mode di Grillo.

Questo ventennio ha avuto un dominus, una figura che lo ha incarnato a tutto tondo, tenendo ben stretto il bandolo degli eventi grazie alle ramificazioni dei suoi interessi e alle connivenze intessute nei decenni; ed è Silvio Berlusconi. La sinistra ha fatto argine in qualche circostanza ma sono stati brevi intervalli, di cui solo alcuni luminosi: il primo governo Prodi con il riallineamento dei conti pubblici e l’entrata nell’euro, e i primi passi del secondo governo Prodi con le liberalizzazioni promosse da Pierluigi Bersani. Per il resto, divisioni interne, astenia culturale e una latente sindrome di Stoccolma hanno fatto, spesso, troppo spesso, accucciare la sinistra ai piedi del Cavaliere. Berlusconi è diventato così l’alfa e l’omega di questi anni. Altro che contrapposizione bilanciata.

Il Cavaliere ha potuto dedicarsi tranquillamente alla cura dei propri affari riservando una attenzione residuale ai problemi centrali della modernizzazione del paese. Quasi tutti gli indicatori socio-economici e culturali di questi vent’anni, messi a confronto con quelli degli altri paesi dell’Ue, per non dire del G7, mostrano una perdita di terreno. E in più, è stato inquinato lo spirito civico di questo paese.

Quando un primo ministro irride alle leggi, le stravolge e violenta per suo tornaconto, quando sollecita i cassaintegrati a frodare le norme facendo lavoretti in nero, quando proclama di fronte alla Guardia di finanza che l’evasione fiscale oltre una certa soglia di imposizione fiscale è un diritto, quando un primo ministro agisce così, inocula ulteriore veleno su un corpo civile già debilitato per storiche tare.

La diffidenza-ostilità per l’imperio della legge, la torsione personalistica delle norme, il fastidio per le regole hanno profondamente minato la legittimità delle istituzioni. E, più sottilmente, il berlusconismo ha favorito la diffusione di una visione del mondo a-razionale, dove i “fattoidi”, come li chiamava Edmondo Berselli, diventavano realtà e solo l’apparenza contava; e così, venivano favorite fughe in avanti e aspettative miracolistiche che solo l’intervento salvifico di un capo poteva risolvere.

Di fronte a tutto questo gli argini sono stati deboli e mal curati. L’opposizione a Berlusconi e al suo mondo si attivava a corrente alternata: un giorno faceva la voce grossa, un altro trattava sulle frequenze televisive, un giorno gridava al golpe, un altro cedeva sul “processo giusto”. E così via. Mancava la costanza del resistere, resistere, resistere. E l’accusa di antiberlusconismo veicolata dalla destra diventava quasi uno stigma da cui difendersi. Non una onorevole connotazione etico-politica. Sorprende, allora, che Matteo Renzi, quasi fosse un flaianesco marziano a Roma, equipari l’antiberlusconismo al suo contrario, come chi accomuna partigiani e repubblichini in uno stesso calderone.

Al contrario, proprio la fiacchezza dell’opposizione a Berlusconi, con punte di connivenza, i cui ultimi rigurgiti si ritrovano anche nei 101 voti contro Romano Prodi alla Presidenza della Repubblica, ha mandato alla deriva questo paese. La mancanza di rigore e fermezza di fonte alle devastazioni del diritto e all’imposizione dell’arbitrio e dell’interesse personale e di clan, hanno permesso ad una cultura politica populista e anti- istituzionale di debordare. Mentre Berlusconi incantava con la promessa di una “rivoluzione liberale”, che non ha lasciato che macerie, l’opposizione aveva il dovere di opporsi con il massimo di impegno.

Non distinguere le responsabilità di quanto avvenuto negli ultimi decenni e accumunare tutti in un magma indistinto non solo fa torto alla realtà dei fatti ma riporta a galla una visione del mondo “irresponsabile”, del tutti a casa perché nessuno è colpevole. L’Italia è arretrata paurosamente su tutti i fronti non per la contrapposizione dura tra due schieramenti, ma proprio per il suo contrario: perché l’opposizione al berlusconismo è stata inconsistente e quindi la sua sconfitta tardiva, troppo tardiva.

Le tre facce della crisi dell'Europa, I modi per uscirne, in Europa e in Italia.

iMEC, sito web della Fiom-Cgil, 21 agosto 2015

A otto anni di distanza dall’inizio della crisi economica in USA e in Europa, e a sei della sua fittizia trasformazione, per mano delle istituzioni e dei governi UE, da crisi del sistema finanziario privato a crisi del debito pubblico, l’Italia si ritrova con un governo che da un lato è allineato con le posizioni più regressive della Troika (la quale forma di fatto una quadriglia con Berlino); dall’altro non ha evidentemente la minima idea circa le cause reali della crisi, e meno che mai delle strade da provare o da costruire per uscirne. Il gioco dei numeretti che i suoi ministri fanno circa la ripresa o l’occupazione, con la risonanza che vi danno quasi tutti i media, senza che questi tradiscano mai da parte loro un’ombra di spirito critico, appare penoso. In realtà la situazione del paese è drammatica, e l’inanità dilettantesca del governo non fa che peggiorarla. L’Italia ha bisogno urgente di un altro governo che abbia compreso le cause strutturali della crisi quale si presenta in Italia, nel quadro della crisi europea, e possegga per conto suo e sappia mobilitare nel paese le competenze per superarle. È una missione impossibile, è vero, ma è meglio immaginare l’impossibile che darsi alla disperazione.

La crisi ha tre facce. Proverò a delineare i loro tratti principali.

1. La crisi della UE e dell’euro.

La UE è stata fondata sulla base di una serie di gravi errori. Sbagliarono gli intellettuali e i politici che per primi concepirono l’unione come un sorta di abbraccio tra popoli che secondo loro avevano più cose in comune che differenze, a partire da una presunta “identità” o “cultura europea”, nonché dal comune orrore per le due “guerre civili” intervenute nel continente in poco più di trent’anni. Sbagliarono gli economisti nel credere e far credere che le grandi differenze di struttura industriale, produttività, composizione delle forze di lavoro, relazioni sindacali, ricerca e sviluppo, scambi con l’estero ecc. esistenti tra i vari stati membri sarebbero state colmate verso l’alto grazie ai benefici effetti di una moneta unica, l’euro. Infine sbagliarono i capi di stato e di governo nel credere che l’Unione, in quanto fondata sul principio “uno stato (piccolo o grande che fosse) uguale un voto”, sarebbe servita a contenere il predominio economico e politico della Germania.

Beninteso, non ci furono soltanto errori. In generale, a porre le basi del trattato di Maastricht sin dai primi anni del secondo dopoguerra fu il potere economico-finanziario europeo, tramite fior di associazioni neoliberali che rappresentavano e tuttora ne rappresentano la voce e il braccio politico. Tra di esse: la Società Mont Pelérin, la Trilaterale, la Bildeberg, la Tavola Rotonda degli Industriali, la Adam Smith Society, alle quali si è aggiunto più tardi il Forum Mondiale di Davos. Istituzioni internazionali come la Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), insediata a Parigi nel 1961, si sono impegnate senza tregua sin dall’inizio per far sì che il Trattato UE contenesse le più incisive norme possibili a favore della liberalizzazione dei movimenti di capitale.

La componente monetaria dell’Unione, fondamentale per il suo funzionamento, è stata dettata sin nei particolari dalla Germania. Nei suoi colloqui con il presidente francese Mitterrand, il cancelliere Kohl fu irremovibile nel pretendere che l’euro fosse il più possibile simile al marco; che la BCE fosse dichiarata per statuto indipendente dai governi, una clausola mai vista negli statuti delle banche centrali di tutto il mondo: tant’è vero che essa si è presto rivelata essere un organo prettamente politico, che invia lettere durissime agli stati membri, Italia compresa, affinché taglino sanità, pensioni e salari; che la BCE stessa avesse sede in una città tedesca (Francoforte). Su queste basi l’euro è stato giustamente definito il più efficace strumento mai inventato per tenere bassi i salari, demolire lo stato sociale e liquidare il diritto del lavoro.

A meno di venticinque anni dalla sua fondazione e meno di quindici dall’introduzione dell’euro, la UE sta andando verso il disastro. Tra il 2008 e il 2010 i governi UE hanno speso o impegnato 4.500 miliardi di euro per salvare le banche, ma non sono riusciti a trovarne 300 per salvare la Grecia, la cui uscita incontrollata dall’euro potrebbe far implodere l’intera UE. Gli squilibri tra gli stati membri sono aumentati anziché diminuire. Ad onta della normativa UE che impone di limitare l’eccedenza export-import, la Germania continua ad avere eccedenze dell’ordine di 160-170 miliardi l’anno, uno squilibrio che potrebbe contribuire al fallimento dell’Unione. La disoccupazione colpisce 25 milioni di persone. Le persone a rischio povertà sono oltre 100 milioni. In vari paesi – Grecia, Italia, Spagna - la inoccupazione giovanile oscilla tra il 40 e il 50 per cento, un tasso mai visto da quando essa viene censita. Le politiche di austerità imposte dai governi per conto delle istituzioni UE, nel mentre si sono rivelate fallimentari, hanno colpito con durezza i sistemi di protezione sociale e l’istruzione; bloccata pericolosamente la manutenzione delle infrastrutture di base (ponti, dighe, strade, trasporti locali, viadotti, corsi d’acqua: per risanarli ci vorranno migliaia di miliardi); spinto nella povertà altre masse di persone, anche in Germania che proprio dell’impoverimento dei vicini aveva fatto il perno della sua politica economica.

Non basta: le politiche di austerità, secondo molti giuristi, hanno violato decine di articoli di tutte le leggi riguardanti i diritti umani e i crimini contro l’umanità, dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 ad oggi: leggi, si noti bene, che i trattati UE hanno a suo tempo fatto proprie. La popolazione reagisce a quanto avviene in due modi: non andando a votare nella misura del 60 per cento per l’unico organo UE democraticamente eletto, il Parlamento europeo, con punte dell’80 per cento nei nuovi stati membri (dati 2014); e dando invece un largo e crescente consenso alle formazioni di estrema destra, in Francia, Italia, Polonia, Ungheria, ecc. Il che farebbe pensare che gli elettori non abbiano memoria del pericolo che esse rappresentano per la democrazia – se non fosse che nella UE la democrazia è stata già da tempo svuotata di senso dalla oligarchia politico-finanziaria di Bruxelles e dintorni.

Data la situazione attuale della UE, se non si fa nulla per affrontarla il futuro propone soltanto due scenari, al momento ugualmente probabili:

a) la UE crolla all’improvviso e in malo modo a causa di un incidente che trascina con sé tutta la barcollante struttura dell’Unione: ad esempio, un paese è costretto a uscire dall’euro perché a causa del suo bilancio pubblico strangolato dalle politiche di austerità non riesce a pagare i suoi creditori privati. I quali sono tanto stupidi da non rendersi conto che è sempre meglio un debitore che paga poco, in ritardo e a rate, di un debitore che non può pagare niente perché è stato imprigionato a causa del suo debito. (Lo scrittore Daniel Defoe, ch’era stato imprigionato per debito nel 1692, verso il 1705 riuscì a convincere con un suo scritto il governo inglese a introdurre una riforma che permetteva al debitore di continuare a lavorare e produrre reddito, in modo da poter rimborsare almeno in parte i suoi creditori piuttosto che marcire inoperoso in prigione. Al confronto, la Troika è in ritardo di tre secoli). Oppure potrebbe accadere che una grande banca europea fallisca, trascinandone altre con sé. Dall’inizio della crisi alcune delle maggiori banche europee, a cominciare dalla britannica HSBC, hanno pagato in complesso decine di miliardi di dollari a causa di varie penalità che hanno accettato di pagare alle autorità americane ed europee per non arrivare a un processo relativo a innumeri violazioni delle leggi finanziarie che esse hanno compiuto in mezzo mondo. Ma è possibile che a un certo punto un processo arrivi, e le sue conseguenze siano tali che la banca interessata fallisce perché né il suo governo né le istituzioni europee dispongono più dei mezzi per salvarla, da cui un effetto domino che travolge sia la UE che l’euro.

b) Il secondo scenario prevede che la UE e l’euro sopravvivano alla meglio per altri venti o trent’anni, cucendo rappezzo su rappezzo istituzionale per far fronte ai sempre più diffusi segni di malcontento di nove decimi della popolazione, impoverita e tartassata dal lavoro che manca, dalla distruzione dei sistemi di protezione sociale, dai continui diktat oligarchici della Commissione Europea e delle BCE che esautorano totalmente i governi nazionali senza dare nulla in cambio. Intanto il decimo al vertice della stratificazione sociale continua ad arricchirsi a spese degli altri nove: dopotutto, è per esso che i trattati UE sono stati confezionati.

Nel caso invece che qualcosa si volesse fare, una soluzione potrebbe esserci. La UE convoca una Conferenza sul Sistema Monetario Europeo, il cui punto principale all’ordine del giorno dovrebbe essere la soppressione consensuale dell’euro, ed il ritorno alle monete nazionali con parità iniziale di 1 rispetto all’euro. Altri punti dovrebbero riguardare la preparazione tecnica della transizione, e una estesa campagna di informazione pubblica prolungata per mesi. Si potrebbe anche prevedere che l’uscita dall’euro sia decisa paese per paese, di modo che se qualche stato membro lo volesse fare ne avrebbe facoltà, mentre altri potrebbero tenersi l’euro.

È innegabile che anche la soppressione consensuale dell’euro presenta dei rischi. Com’è vero che in ogni caso essi sarebbero inferiori a quelli che oggi corre la UE sia per i suoi difetti strutturali, sia per la possibilità che l’uscita improvvisa di un paese – si tratti della Grexit, della Brexit (sebbene la Gran Bretagna non abbia l’euro) o altro – rechi seri danni agli altri. Ma di certo i rischi sarebbero accentuati dai paesi – in primo luogo la Germania – che dall’euro hanno tratto i maggiori vantaggi. Una variante che ridurrebbe i rischi potrebbe consistere nel mantenere in vita l’euro, mentre ogni stato emette e fa circolare sul proprio territorio una moneta fiscale parallela. Da moneta unica l’euro diventerebbe così una moneta comune. Il predicato “fiscale” significa qui che il valore della nuova moneta sarebbe assicurato dal fatto che essa verrebbe accettata per il pagamento delle imposte – il maggior riconoscimento che una moneta possa ottenere dallo stato – e sarebbe comunque garantita dalle entrate fiscali. Si noti che progetti di una moneta parallela all’euro che ogni stato emette per conto proprio sono assai numerosi in Francia, nel Regno Unito, e soprattutto in Germania.

La richiesta di una Conferenza sull’Unione Monetaria dovrebbe essere presentata alla UE da alcuni paesi di primo piano, con il sottinteso che un rifiuto netto potrebbe indurre ognuno di essi o all’uscita dall’euro o al disconoscimento di numerose norme UE che violano i diritti umani o addirittura si configurano come foriere di crimini contro l’umanità. Non mancano nella UE i giuristi in grado di predisporre la documentazione necessaria. Al presente, i soli paesi disponibili a tal fine sono forse la Grecia, ammesso che “al presente” essa sia ancora nell’euro o il governo Tsipras non sia stato strangolato dalla Troika; e la Spagna, nel caso di una vittoria di Podemos alle elezioni dell’autunno 2015. Da parte del governo italiano in carica un atto simile è inimmaginabile, essendo il medesimo del tutto allineato sui rovinosi dogmi di Bruxelles. Per questo è necessario sostituirlo al più presto con un governo orientato diversamente, e dotato di competenze post-neoliberali di cui nel governo attuale non v’è la minima traccia.

2. La crisi economica ed occupazionale.

Nei paesi più sviluppati del mondo, USA e UE, che da soli producono circa la metà del Pil globale, l’economia capitalistica ha imboccato da tempo un periodo di stagnazione che secondo molti esperti potrebbe durare anche cinquant’anni. In Usa, nel decennio degli anni 50 i trimestri in cui il Pil reale cresceva di almeno il 6 per cento l’anno sono stati 40. Negli anni 70 erano scesi a 25. Nei ’90, a meno di dieci. Infine nel periodo 2000-2013 sono stati in tutto tre. Sebbene sia difficile fare una stima aggregata del Pil dei paesi oggi membri della UE, visto che in settant’anni hanno avuto storie politiche ed economiche diverse, si stima che l’andamento del Pil nella UE sia stato all’incirca il medesimo. Al presente, un altro indicatore di stagnazione è il forte e prolungato rallentamento degli investimenti nell’economia reale. Essi rendono poco rispetto alle attività speculative svolte nel sistema finanziario, il quale peraltro all’economia reale non reca alcun beneficio (al punto che in realtà non ha nessun senso chiamarli “investimenti”). Risultato numero uno: si stima che circa il 70% dei capitali circolanti sia destinato alle seconde. Il capitalismo ha posto così le premesse per una sorta di suicidio al rallentatore. Mediante l’automazione ha ridotto drasticamente il numero dei produttori nell’economia reale (servizi compresi). Con la forsennata compressione dei salari reali, (in aggiunta alla riduzione dei produttori) ha ridotto il potere d’acquisto dei consumatori. Per investire l’impresa capitalistica deve poter stimare quanti sono quelli a cui venderà i suoi beni o servizi, e più o meno per quanto tempo. Nei nostri paesi si è messa in condizione di non poterlo più fare.

La riduzione degli investimenti è anche dovuta al fatto che da decenni il capitalismo non inventa più nulla che possa diventare un consumo di massa. Al contrario di quanto asseriscono gli economisti neoclassici, il capitalismo non vive affatto di una continua innovazione endogena. Ha bisogno di robusti e ripetuti stimoli esterni. Negli anni 50 e 60 li hanno forniti, nei nostri paesi, i consumi di massa di auto, elettrodomestici, televisori. La diffusione in atto dei cellulari, dei tablets, dei PC – tutti fabbricati in Asia – non ha avuto né potrà mai avere effetti paragonabili sulla crescita e sull’occupazione di un paese europeo. Inoltre tanto la produzione quanto il consumo dei beni e dei servizi proposti dall’attuale modello produttivo si fondano su energie tratte da risorse fossili, mentre gli scienziati del mondo intero avvertono che l’inversione dell’attacco all’ambiente, che presuppone una drastica riduzione di tali fonti energetiche, dovrebbe avvenire ormai entro breve tempo se si vuole evitare una catastrofe. In sintesi: l’idea di una ripresa paragonabile al passato – la famosa luce in fondo al tunnel – è una illusione priva di fondamento. E se mai dovesse verificarsi, sarebbe ancora peggio, perché avvicinerebbe il momento di un disastro ambientale irreversibile.

Non basta. Il termine “automazione” si riferisce da cinquant’anni alla sostituzione di lavoro fisico da parte di macchine. Ma la microinformatica ha anche enormemente esteso sia le capacità delle macchine operatrici, sia le capacità dei computer di svolgere attività intellettuali che fino a pochi anni fa si sosteneva non fossero automatizzabili. Risultato numero tre: in Usa si stima che il 47 per cento degli attuali posti di lavoro, finora occupati da esseri umani a causa del loro contenuto intellettuale e professionale medio-alto, possano venire svolte entro pochi anni da una qualche combinazione di macchine, computer e programmi intelligenti. In altre parole potrebbero scomparire più di 60 milioni di lavoro. Un processo analogo di sostituzione di esseri umani da parte dei computer è in corso anche in Europa. Una politica che non si occupi primariamente di questo problema, come avviene nella UE e in modo ancor più marcato in Italia, non soltanto è da buttare per la sua inefficienza; è una minaccia per milioni di cittadini.

Da quanto precede se ne trae che l’Italia dovrebbe progettare al più presto un piano pluriennale di transizione a un diverso modello produttivo, che abbia come caratteristiche principali l’essere fondato su progetti o settori ad alta intensità di lavoro; elevata qualificazione; tecnologie avanzate; consumi ridotti di energie fossili; elevata utilità pubblica; massima attenzione ai beni comuni. Esso dovrebbe inoltre prevedere il passaggio regolato di milioni di lavoratori dai settori in declino ai nuovi settori. Non è il caso per ora di inoltrarsi in un elenco di questi ultimi: si rimanda alla ragguardevole letteratura esistente sulla trasformazione industrial-ecologica dell’economia. Qui basti dire che il riassetto idrogeologico dell’intero territorio, il miglioramento del rendimento energetico delle abitazioni, gli interventi antisismici nelle zone più a rischio, la tutela dei beni culturali assorbirebbero da soli milioni di posti di lavoro. La complessità e l’ampiezza di un simile piano renderebbe necessario l’impiego delle migliori competenze tecniche ed economiche, pubbliche e private, di cui il paese disponga. E soltanto un governo totalmente rinnovato quanto a cultura politica e competenze professionali sarebbe capace di guidarne la realizzazione. Inutile aggiungere che un simile piano deve poter iniziare entro pochi mesi, per essere via via sviluppato e rettificato.

3. Il caso italiano. Una delle cause strutturali per cui la crisi europea ha colpito l’Italia più di altri paesi sono le sue antiche carenze quanto a istruzione e ricerca e sviluppo (R&S). In vista di una transizione a un diverso modello produttivo e occupazionale sarebbe essenziale aumentare in misura considerevole la spesa pubblica per la scuola secondaria e l’università. Con il 22 per cento dei diplomati contro una media del 36 per l’intera UE l’Italia occupa l’ultimo posto in tale classifica. È una percentuale scandalosamente bassa; e ancora più scandaloso è il fatto che dinanzi all’obbiettivo proposto dalla Commissione Europea di raggiungere il 40 per cento entro il 2020 come media UE, uno dei nostri recenti governi abbia risposto che l’Italia punta nientemeno che al 27 per cento. Dati analoghi valgono per i laureati. L’obiezione per cui diplomare o laureare un maggior numero di giovani non serve allo sviluppo, o è addirittura un danno, perché tanto non trovano lavoro, è priva di senso. I giovani non trovano lavoro perché non esistono politiche economiche capaci di creare nuovo lavoro nel momento in cui il lavoro tradizionale scompare.

Anche in tema di R&S siamo messi male. Tra i 32 paesi Ocse l’Italia occupa il penultimo posto quanto a spesa in R&S, con un misero 1,25 per cento tra pubblico e privato. Le statistiche delle richieste di brevetto depositate presso l’Ufficio Brevetti europeo, che vedono l’Italia in coda ai maggiori paesi UE sia quanto a numero sia quanto a contenuto tecnologico, riflettono tale povertà di spesa. Come minimo occorrerebbe raddoppiare quest’ultima nel più breve tempo possibile.

Di fronte ai problemi sopra richiamati, alla pericolosità della crisi UE, ed alla addizionale gravità di quella italiana, il governo Renzi non esiste. Non che, per ora, le opposizioni offrano gran che di meglio. Moltiplicare invettive contro il dominio della finanza, oggi ben rappresentato dall’euro, non serve: anche il Mein Kampf ne era pieno (dieci anni dopo, non a caso, il suo autore giunto al potere impiegò poche settimane per accordarsi con la grande finanza). Il dominio bisogna prima seriamente studiarlo, per poi smontarlo pezzo per pezzo con strumenti politici e legislativi appropriati. Né serve a molto inveire contro la casta. Una volta stabilito che si tratta di una intera classe politica che ha fatto da decenni il suo tempo, nonché di buona parte della classe imprenditoriale, si tratta di sostituirla con una classe avente una concezione del mondo diversa e opposta, che sappia amministrare il paese e ogni sua parte in nome dei diritti al lavoro e del lavoro; dell’uguaglianza (in una economia dove gli amministratori delegati guadagnino magari 50 volte i loro dipendenti e facciano bene il loro mestiere invece di guadagnare 500 volte e farlo male); dei beni comuni da sottrarre alle privatizzazioni; di una economia che non distrugga l’ambiente nel quale dovrebbero vivere e prosperare i nostri discendenti.

Allo scopo di far emergere dal paese, che da più di un segno appare in grado di farlo, una nuova classe dirigente all’altezza del compito, occorrono i voti. Per moltiplicare i voti necessari occorre che il maggior numero possibile di elettori comprenda qual è l’enormità della posta in gioco, in Italia come nella UE, e la relativa urgenza. E se è vero che l’opinione politica si forma per la massima parte sotto l’irradiazione dei media, è di lì che bisogna partire. Supponendo che la traccia proposta sopra sia qualcosa di assimilabile a uno schema di programma politico a largo raggio, bisognerebbe quindi avviare una campagna di comunicazione estesa, incessante, capillare, volta a mostrare che la rappresentazione che il governo e i media fanno di quanto avviene è una deformazione della realtà, e poco importa se non è intenzionale. Insistendo su pochi punti essenziali, siano essi quelli qui indicati o altri – purché siano pochi e di peso analogo. Lo scopo è semplice: ottenere che alle prossime elezioni parecchi milioni di cittadini votino per una società migliore di quella verso cui stiamo rotolando, a causa dei nostri governi passati e presenti, non meno che della deriva programmata della UE verso una oligarchia ottusa quanto brutale.

Intervista di Carlo Di Foggia a Barbara Spinelli. Un'analisi sofferta e preoccupata delle conseguenze della necessità di Alexis Tsipras di scegliere tra la due soluzioni entrambe inaccettabili.

Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2015

La riflessione più amara, Barbara Spinelli la riserva al mantra più forte degli europeisti: «Pensare che la soluzione al disastro antidemocratico che è stata la vicenda greca, sia una integrazione più forte dell’Unione così com’è, con i presenti Trattati, non significa rendere l’Europa più forte. Significa il contrario».

Tsipras ha annunciato le dimissioni e chiesto le elezioni anticipate per il prossimo 20 settembre.
«Era prevedibile che Syriza si sfaldasse dopo l’umiliazione che il governo ha dovuto subire. Resta il profondo atto democratico: dimettersi e dare voce agli elettori».

Non è solo una mossa furba per evitare che l’ala sinistra di Syriza abbia il tempo di organizzarsi?
«La sinistra ha un forte peso nell’elettorato e il referendum del 5 luglio lo ha dimostrato. Quel voto rafforzerà i dissidenti ma non darà loro una maggioranza. L’elezione è rischiosa: può costringere il premier ad allearsi con socialisti e liberali. Ma anche questi ultimi sono stati indeboliti dal referendum, avendo lottato per il Sì. Più che furba, la mossa nasce da uno scacco e propone l’uscita democratica da un golpe post moderno. Ad Alexis Tsipras è stata lasciata la scelta tra la morte e la morte, tra Grexit e sottomissione».

Chi sono i responsabili dello “scacco”?«I dirigenti dell’Unione. Ormai tutti lo sanno: senza un’Unione politica solidale, l’euro divide l’Europa, la riporta a rapporti di forza tra nazioni potenti e non. Il contrario di quello che si pensò nel dopoguerra».

La soluzione, illustrata da molti commentatori, è l’omeopatica “ci vuole più Europa ”…
«Lo spirito europeista non sta né con i sovranisti che propongono il Grexit – e non tutti gli elettori del No la vogliono – né con i dirigenti che vogliono rafforzare l’Europa presente, dominata dalla Germania, fondata su un’austerità rigettata da gran parte dei cittadini europei. Rafforzare tutto questo significa avere un equilibrio tra potenze nazionali, non un’Europa più federale».

La parabola di Tsipras ha mostrato che il sistema non si cambia dall’interno?
«Le prime battute sono state disastrose. Ma la battaglia è appena cominciata. Tsipras vuol tuttora portare la Ue verso forme più solidali e regole diverse. Proprio in questi giorni ha chiesto che il Parlamento europeo partecipi al “quartetto dei creditori”. Persa la battaglia, la guerra continua, anche se il prezzo è già stato altissimo».

Quale?
«Il premier ha perso gran parte delle truppe. È però convinto che un Paese come la Grecia, nella globalizzazione, non ce la faccia da solo. Rifiuta per ora la soluzione sovranista e scommette sul fatto che anche Berlino riconosca che da sola non ce la farebbe.

Oltre alle truppe non ha perso anche l’anima politica originaria del progetto Syriza?

«Non sono sicura che tutta la sinistra di Syriza sia sovranista. Molto dipenderà anche da quello che succederà in Spagna e Irlanda. Podemos ha fatto alleanze municipali con i socialisti. Pur chiedendo un cambiamento radicale dell’Ue, governerà con i socialisti, senza uscire dall’euro. Ma spero che dissidenti come Varoufakis siano ascoltati».

Che succede se vince la destra?
«Le forze alternative europee si indebolirebbero, ma non credo che vincerà».

Se vincesse la Piattaforma di sinistra, la definirebbe una sconfitta?
«Se vincesse avrebbe due scelte: o il Grexit, ed è talmente costoso che ci dovrà pensare otto volte. O negoziare come Varoufakis, e si troverà davanti alla scelta di Tsipras: o la morte o la morte. I tedeschi non cambiano idea.

Concordare un’uscita ordinata, con aiuti europei, anche per ristrutturare il debito, come aveva proposto Schäuble, è la morte?
«Non so quali aiuti verrebbero dall’Ue: nelle condizioni economiche attuali il Grexit sarebbe un quarto memorandum. Un disastro, nel breve periodo».

Nel medio?
«Nel medio termine saremo tutti morti, diceva Keynes».

«In ogni caso Renzi non indietreggia e rilancia: o ci sono i numeri o ne trarrà le conseguenze». È quello che in molti speriamo. Ma alla fine troveranno un compromesso che salverà capra e cavoli: e il lupo Renzi mangerà tutti.

La Repubblica, 27 agosto 2015

. A decidere sulla querelle che contrappone il presidente del Senato Pietro Grasso e la maggioranza del Pd potrebbe essere un “tribunale”. Le parole della seconda carica dello Stato dalla festa nazionale de L’Unità di Milano - con l’invito a trovare una soluzione politica per superare “l’impasse”- scuotono gli animi del Nazareno. Parole che avrebbero infastidito i maggiorenti del Pd in Senato. Il dilemma è sempre lo stesso: alla ripresa dei lavori il presidente Grasso dovrà decidere se ammettere o no la mole di emendamenti sull’articolo 2 della riforma del Senato.

Tutto si gioca attorno all’articolo che costituisce il cuore della riforma Boschi, quello che determina la composizione della futura Camera Alta. Al momento la contesa è lessicale. La minoranza del Pd si appella alla sostituzione di una preposizione - “nei” era diventata “dai” nel passaggio del testo dal Senato alla Camera che - secondo i 26 senatori dem dissidenti - «rende la modifica sostanziale e rilevante». Se così fosse, la maggioranza potrebbe non superare la prova del voto. In sostanza, il testo - essendo emendabile- rischierebbe di essere seppellito dagli emendamenti delle opposizioni, che hanno già superato quota mezzo milione.
A difendere le ragioni della minoranza è il senatore Pd, Federico Fornaro: «Come per tutte le leggi, essendo un sistema bicamerale, il testo deve essere approvato alla stessa maniera sia alla Camera che al Senato. Altrimenti si può ritenere emendabile». Una posizione che non fa certo retrocedere la maggioranza renziana. «La modifica - dicono - non è sostanziale, quindi l’articolo non è emendabile».
«Grasso dovrebbe apertamente in aula contraddire la decisione di Anna Finocchiaro », spiega un dirigente dem chiarendo il senso della sfida. La presidente della I commissione, il 5 agosto, nel testo che sarà base per la discussione della ripresa, aveva assicurato che non se ne parla «di rimettere la riforma di nuovo sulla linea di prima partenza». Non perché l’art.2 non sia modificabile ma perché dopo due letture non si può stravolgere l’impianto della legge. Debora Serracchiani, vice segretaria nazionale del Nazareno, avverte: «Se siamo tutti d’accordo che bisogna superare il bicameralismo perfetto - ha detto che bisogna ridurre il numero dei parlamentari, che bisogna semplificare questo Paese con una riforma che la sinistra italiana aspettava da troppo tempo. Non ci sta ha concluso - che il Partito democratico si divida e che metta in pericolo la sicurezza di questo Paese».
La partita è ancora aperta. L’uomo a cui tutti guardano è Pietro Grasso, arbitro della riforma. Tocca a lui stabilire il calendario dei lavori , e, soprattutto, decidere se accogliere le richieste di opposizione e minoranza, oppure saltare gli esami degli emendementi portando la riforma in aula. Ma, secondo quanto riferiscono dal Pd, Grasso avrebbe a disposizione una terza via. Quale? È nella sue prerogative rivolgersi a un “tribunale”. «Per evitare di scontentare maggioranza e opposizione - spiegano - Grasso potrebbe rimandare tutto alla Giunta per il regolamento». Il match, dunque, si sposterebbe in Giunta per il regolamento, dove però l’area di governo non può contare su una maggioranza certa. La resa dei conti si avvicina.
I lavori d’aula riprenderanno l’8 settembre, e in quella data si saprà che ne sarà dell cammino di una riforma che l’esecutivo considera “decisiva” per la tenuta e le sorti di Palazzo Chigi. Nell’attesa i dissidenti del Pd affilano le armi. E si preparano alla battaglia. Anche se al Nazareno sono convinti che il drappello dei 26 senatori di minoranza si ridurrà. In ogni caso Renzi non indietreggia e rilancia: o ci sono i numeri o ne trarrà le conseguenze.

«Il capitalismo non esiste senza lo stato. Ce lo chiarisce la congiuntura drammatica nella quale viviamo, con buona pace dell’integralismo neoliberista. Ma pensare di cambiarlo a partire solo dallo stato è un’illusione».

Il manifesto, 26 agosto 2015, con piccola postilla

Ricordate lo slogan lanciato da Deng Xiaoping nel 1978: “Cittadini, arricchitevi”? Su quella falsariga ne seguirono altri, come “Spendere è glorioso”, a cavallo degli anni Dieci del millennio, con l’obiettivo di lanciare il mercato interno rovesciando i pilastri etici della rivoluzione maoista. A tal punto che l’esperienza comunista in Cina è apparsa a molti – e non a torto – una parentesi tra una società precapitalistica ed una capace di fare della Cina il vero competitor degli Usa per il posto di prima potenza economica mondiale. Una levatrice della storia votata a una eterogenesi dei fini. Del resto, secondo alcuni economisti e statistici, tale primazia sarebbe già stata conquistata dal Dragone nel 2014.

Ora se ne vedono bene le conseguenze. La Cina non è vicina ma è ovunque, dentro tutte le cose del mondo globalizzato. Il crollo della borsa di Shanghai fa tremare la finanza mondiale. In Europa le Borse bruciano nello spazio di poche ore più dell’equivalente dell’intero debito greco.

La leadership cinese aveva fin qui retto più che bene alla crisi economica mondiale scoppiata negli Usa nel 2007. I cinesi sono stati i primi ad attuare quello che dall’altra parte del mondo viene chiamato Quantitative Easing, su cui torna a insistere come fosse una nuova ricetta il direttore del Sole24Ore. Hanno tentato una conversione da un’economia esportatrice di prodotti di bassa o modesta qualità, ad un’altra che privilegiasse lo sviluppo dell’enorme mercato interno. In questo quadro hanno ingaggiato una guerra dichiarata contro la corruzione, non lesinando nemmeno sulle condanne a morte. Da ultimo hanno favorito lo sviluppo di una bolla immobiliare e cercato di canalizzare il risparmio privato verso la Borsa. Al punto che molti cinesi dai modesti redditi si sono dovuti indebitare pur di potere comprare qualche azione.

Ora però l’apprendista stregone è nudo. La sua creatura appare indomabile e rischia di rivolgersi contro di lui. Anche quel po’ di redistribuzione che è stata attuata - come riconosce l’economista indiana Jayati Ghosh - con l’incremento dei salari, punto di incontro tra concessioni dall’altro e l’inizio di una lotta di classe rivendicativa nei settori produttivi, non è stata affatto sufficiente per rilanciare il mercato interno. Né poteva esserlo. Sia perché quei salari restano comunque troppo bassi, infatti la Ghosh ne invoca un nuovo aumento, sia perché ci vorrebbe ciò che manca, una rinnovata capacità programmatoria in economia costruita con la partecipazione e il consenso popolari.

Ma se da un lato le aziende di stato sono centri di potere per una potente burocrazia, attorno a cui si avvolge il serpente della corruzione diffusa, e dall’altro i sindacati non ritengono che lo sciopero, benché legislativamente previsto, sia un utile strumento di lotta (come mi sentii rispondere durante una visita in Cina di dieci anni fa) è ben difficile che il mercato interno trovi respiro. Questo non si costruisce dall’alto, né partendo (solo) dal punto di vista dell’impresa, ma è il risultato di un percorso politico-economico da cui è tutt’altro che estraneo lo sviluppo del conflitto sociale. Nelle attuali condizioni continua a piovere sul bagnato, gli investimenti insistono prevalentemente sui settori più sperimentati (cosa lo è più del vecchio mattone?) o guidati dalla competizione internazionale, rischiando così di trasformarsi in una nuova bolla finanziaria oppure di contraddire la svolta postmercantilista, o tutte e due le cose insieme.

Krugman afferma che siamo di fronte ad una bolla finanziaria che ondeggia e rimbalza nel mondo. Nel 2007 l’epicentro della crisi furono gli States, ora lo è la Cina. Poi la bolla tornerà – sta già tornando – verso gli Usa, vista la recente direzione del flusso dei capitali. Larry Summers ha ragione a dire che la Fed non deve cedere alla tentazione di rialzare i tassi di interesse. Ma anche questo non sarà sufficiente neppure per l’America, se la crisi si cronicizza a livello mondiale, a causa del coinvolgimento cinese.

Il capitalismo non esiste senza lo stato. Ce lo ripetevano gli storici delle Annales. Ce lo chiarisce la congiuntura drammatica nella quale viviamo, con buona pace dell’integralismo neoliberista. Ma pensare di cambiarlo a partire solo dallo stato è un’illusione, sempre che di questo si tratti, e non di una gigantesca finzione.

postilla

L'icona che contrassegna questo articolo è l'immagine di copertina del libro di David Harvey, A Brief History of Neoliberalism (2005). Vi si intravede inseriva Deng Tsiaoping, che Harvey collocava tra i "quattro cavalieri dell'apocalisse" fondatori del neoliberismo (in inglese: neoliberalismo), insieme a Tatcher, Reagan e Pinochet. Il libro di Harvey è una lettura molto utile a chi voglia comprendere la recente mutazione della città, della società e della politica.

Il manifesto, 25 agosto 2015

L’Europa deve “uni­fi­care” il diritto d’asilo e le pro­ce­dure di acco­glienza, per arri­vare a una “poli­tica migra­to­ria comune, con regole comuni” per far fronte a “una situa­zione ecce­zio­nale, desti­nata a durare”. Lo ha detto a Ber­lino Fra­nçois Hol­lande, alla con­clu­sione della prima parte dell’incontro con Angela Mer­kel, che è poi pro­se­guito sulla crisi ucraina, con la pre­senza del pre­si­dente Piotr Poro­shenko, altra que­stione sem­pre aperta in Europa ma messa in secondo piano a causa dell’emergenza migranti. Fran­cia e Ger­ma­nia pre­ve­dono di “dare un nuovo impulso” con­giunto per arri­vare a una rispo­sta euro­pea, per­ché “per il momento”, dicono all’Eliseo, le deci­sioni della Ue sono “non suf­fi­cienti, non abba­stanza rapide e non all’altezza” nella loro appli­ca­zione. Nel mirino di Hol­lande e Mer­kel, prima di tutto, c’è l’inerzia dei paesi di primo sbarco – Ita­lia e Gre­cia – nell’apertura di cen­tri di regi­stra­zione dei migranti: il prin­ci­pio era stato appro­vato nel giu­gno scorso, ma per il momento nes­suno è stato aperto. “Non pos­siamo tol­le­rare que­sto ritardo”, ha aggiunto Mer­kel, che ha sot­to­li­neato che i paesi euro­pei devono appli­care “il più rapi­da­mente pos­si­bile” le regole del diritto d’asilo, che solo sulla carta sono più o meno simili nella Ue. Poi, ha pre­ci­sato Hol­lande, seguirà una “ripar­ti­zione equa” dei rifu­giati, come pre­vede la Com­mis­sione. Ma il pre­si­dente fran­cese ha già messo le mani avanti: con un sistema uni­fi­cato di asilo nella zona Schen­gen si evi­terà che “alcuni paesi ne accol­gano più di altri”.

Non c’era da aspet­tarsi una pro­po­sta di solu­zione dall’incontro tra Mer­kel e Hol­lande, ma Ber­lino ieri è stata una nuova occa­sione per con­fer­mare l’approccio domi­nante in Europa, con­cen­trato sull’improbabile sepa­ra­zione tra “rifu­giati” e “migranti” (eco­no­mici, cli­ma­tici ecc.), i primi uffi­cial­mente da acco­gliere da parte della “gene­ro­sità” euro­pea, i secondi da respin­gere e riman­dare a casa, “riac­com­pa­gnati con dignità” ha pre­ci­sato Hol­lande. Ger­ma­nia e Fran­cia pre­ve­dono di aggior­nare una lista comune per indi­vi­duare i paesi “non a rischio”, i cui cit­ta­dini ver­reb­bero cosi’ auto­ma­ti­ca­mente esclusi dal diritto d’asilo (con­trav­ve­nendo la Con­ven­zione del ’51, che prende in con­si­de­ra­zione situa­zioni di per­se­cu­zione indi­vi­duale). Un’armonizzazione euro­pea di que­sta lista sarà desti­nata a “fare chia­rezza” sulle dif­fe­renze di trat­ta­mento a cui sono sot­to­po­sti in par­ti­co­lare i cit­ta­dini di paesi bal­ca­nici nei vari paesi Ue. Il mini­stro degli esteri fran­cese, Lau­rent Fabius, ha annun­ciato che “nei pros­simi giorni” ci sarà una riu­nione dei mini­stri degli Interni e degli Esteri della Ue sulla que­stione dei migranti. Dovranno tro­vare un deli­cato equi­li­brio per con­ci­liare i timori che alcuni governi in carica hanno dell’estrema destra (altri, come in Unghe­ria, hanno già pas­sato il Rubi­cone) e la paura che l’Europa perda “l’anima”, come ha affer­mato il mini­stro degli esteri Gentiloni.

La Ger­ma­nia acco­glie oggi di più della Fran­cia, ma Parigi ribatte di avere su que­sto fronte un pas­sato più pesante alle spalle. Mer­kel ha con­dan­nato ieri le vio­lenze degli “ubria­coni” neo-nazi in Sas­so­nia, il vice-cancelliere Sig­mar Gabriel accusa l’Europa di essere caduta in un “sonno pro­fondo” e punta il dito con­tro i paesi che vol­tano le spalle a pro­blema e dicono “non ci riguarda”. Finora, i paesi euro­pei hanno cer­cato di sca­ri­carsi il “far­dello”, come la Fran­cia verso l’Italia a Ven­ti­mi­glia o la Gran Bre­ta­gna verso la Fran­cia a Calais. La ten­denza è di libe­rarsi del “far­dello” dando dei soldi (Lon­dra per esem­pio ha deciso di ver­sare 10 milioni di euro in più alla Fran­cia oltre ai 15 stan­ziati nel 2014 su tre anni per dele­gare a Parigi i respin­gi­menti a Calais).

La minac­cia dell’estrema destra sta para­liz­zando i governi euro­pei. Secondo Fron­tex, 340mila per­sone sono entrate senza visto nella Ue nei primi sette mesi di quest’anno. La Ue avrà sem­pre un mag­gior biso­gno di immi­grati per far fronte al dram­ma­tico calo demo­gra­fico, pro­blema a cui sfugge pra­ti­ca­mente solo la Fran­cia (con 1,9 bam­bini per donna, men­tre in Europa la media è di 1,55, con punte minime in Spa­gna con 1,27, men­tre in Ita­lia in 35 anni la popo­la­zione con più di 65 anni sarà mol­ti­pli­cata per sei)

«Sono aiuti di Stato diretti o indi­retti quelli che tol­le­rano il capo­ra­lato, l’economia cri­mi­nale o in nero, i danni ambien­tali, l’evasione fiscale e con­tri­bu­tiva. Accon­ten­tate su tutto, anche sulla licenza di licen­ziare le imprese vivono in una con­di­zione para­di­siaca». Il manifesto, 25 agosto 2015

Alle parole del pre­si­dente del Con­si­glio, per una volta, comin­ciano a seguire i fatti. In molte occa­sioni, egli aveva lamen­tato un ecces­sivo carico di con­trolli fiscali, di vin­coli ammi­ni­stra­tivi che si abbat­te­vano su sei milioni di imprese, impe­dendo loro di pro­durre ric­chezza. Come Tre­monti, anche Renzi, nei suoi discorsi pub­blici, ha evo­cato lo spet­tro di uno Stato di poli­zia che opprime le aziende e per que­sto ha pro­cla­mato una grande guerra con­tro la buro­cra­zia inva­siva. E almeno que­ste solenni sfide con­tro i vigili, le fiamme gialle che indi­screti bus­sano alle porte delle offi­cine non sono rima­sti let­tera morta. I dati for­niti dai con­su­lenti del lavoro sono molto signi­fi­ca­tivi. Nel 2014, i con­trolli sono stati 221 mila 476 (e nel 35,9% delle aziende rag­giunte, sono emerse irre­go­la­rità). Nel 2015, le visite degli ispet­tori sono scese a 106 mila 849 (con il 29,3% delle imprese pescate in situa­zioni irregolari).

I con­trolli in un anno sono dimez­zati, seb­bene l’entità dell’economia som­mersa (due milioni di lavo­ra­tori in nero) e l’ampiezza delle per­dite fiscali per lo Stato (ben 25 miliardi l’anno sfu­mano per l’evasione di con­tri­buti pre­vi­den­ziali e di impo­ste), siano ingenti. Il governo fa di tutto per man­te­nere alta la sod­di­sfa­zione delle imprese, entu­sia­ste per il suo ope­rato che sfor­bi­cia diritti e taglia beni pub­blici per dirot­tare risorse alle casse azien­dali. Oltre ai miliardi di decon­tri­bu­zioni, di sgravi fiscali, di tagli Irap, le imprese cor­sare pos­sono con­tare anche sulla bene­vola chiu­sura di un occhio da parte dello Stato sulle loro pra­ti­che ille­cite.

Sono aiuti di Stato diretti o indi­retti quelli che tol­le­rano il capo­ra­lato, l’economia cri­mi­nale o in nero, i danni ambien­tali, l’evasione fiscale e con­tri­bu­tiva. Accon­ten­tate su tutto, anche sulla licenza di licen­ziare, pre­vio modico inden­nizzo mone­ta­rio, le imprese vivono in una con­di­zione para­di­siaca, con il pre­mier che per giunta si dichiara «gasa­tis­simo» da Mar­chionne. Si spa­lanca un con­ti­nuum politica-impresa che fa impal­li­dire la meta­fora del «mec­ca­ni­smo unico» agi­tata dai mar­xi­sti in anni ormai lontani.

Eppure, nono­stante il legame di ferro tra il governo e l’impresa, e l’indebolimento per­se­guito con acca­ni­mento del lavoro e del sin­da­cato, la ripresa non c’è e i cupi segnali di declino non spa­ri­scono dall’orizzonte. Gli inve­sti­tori scel­gono altri mer­cati rispetto a quello ita­liano, dove anche i pro­dotti finan­ziari e assi­cu­ra­tivi navi­gano fuori con­trollo e certi gio­chi d’azzardo si man­ten­gono lon­tani da ogni effi­cace atti­vità san­zio­na­to­ria.

Il grande impe­di­mento, al supe­ra­mento della crisi, risiede in ciò che la poli­tica è diven­tata in que­sti anni di deca­denza e in quello che il capi­ta­li­smo è sem­pre stato in Ita­lia. Una poli­tica senza auto­no­mia, e un’impresa senza capa­cità com­pe­ti­tive, stroz­zano la vita eco­no­mica. Un governo che si fa largo con il pro­gramma della Con­fin­du­stria (al punto che Squinzi cer­ti­fica: «Que­sto governo è una for­mula uno»), non fa bene all’economia. Per­ché non è ingros­sando il som­merso, gon­fiando il nero e abro­gando i diritti sim­bo­lici del lavoro che si guida la ripresa.

Con le nuove misure taglia tasse, annun­ciate per set­tem­bre, il governo ordi­nerà un ulte­riore dima­gri­mento del pub­blico, cioè un ridi­men­sio­na­mento della spesa per la sanità, i ser­vizi, i tra­sporti, la scuola, la ricerca senza in alcun modo creare nuova occu­pa­zione, senza sti­mo­lare inve­sti­menti pro­dut­tivi. Il lau­ri­smo 2.0 lascerà solo mace­rie.

Que­sto è, a tutti gli effetti, un governo della sta­gna­zione che, per vin­cere le ele­zioni, disperde le risorse scarse dispo­ni­bili. Per accon­ten­tare le imprese che incas­sano soldi in con­tanti, l’esecutivo rinun­cia a dise­gnare poli­ti­che pub­bli­che per lo svi­luppo soste­ni­bile, accan­tona ogni pro­getto per poli­ti­che indu­striali basate sull’innovazione. Men­tre con il Jobs Act invoca con­trolli a distanza sulla vita pri­vata dei lavo­ra­tori, il governo allon­tana la vigi­lanza sulle pra­ti­che tri­bu­ta­rie e con­tri­bu­tive delle imprese, che indi­stur­bate pro­se­guono nelle loro opa­che pra­ti­che cri­mi­no­gene. Un governo di classe.

Una critica argomentata e severa alla responsabilità della "sinistra tremula" nel favorire la trasformazione dell'Italia da repubblica democratica in repubblica totalitaria.

La Repubblica, 25 agosto 2015

Negli ultimi tempi stiamo assistendo ad un crescendo di dichiarazioni da parte di studiosi e commentatori che definiscono la linea politico- istituzionale di Matteo Renzi plebiscitaria, presidenzialista, autocratica, da uomo solo al comando, autoritaria. Quel che colpisce in queste dichiarazioni è che spesso provengono da persone che, quando nel marzo dell’anno scorso alcuni si permisero di mettere in guardia contro il rischio della nascita di un sistema autoritario, si stracciarono le vesti, gridarono all’intollerabile forzatura, mostrando tra l’altro di non conoscere la distinzione tra “autoritario” e “totalitario”.

Si potrebbe essere soddisfatti di queste tardive resipiscenze, se non fosse che in politica i tempi contano per chi agisce e per chi discute. Non è irragionevole pensare che la tempestiva creazione di un fronte culturale critico avrebbe potuto indirizzare le riforme istituzionali verso risultati più accettabili, considerando che erano venute proposte che andavano oltre il muro contro muro. L’occasione è stata perduta da parte di quelli che furono silenziosi o compiacenti. Ma pure da Renzi, che aveva a disposizione indicazioni che avrebbero consentito di ridurre il tasso antidemocratico dell’accoppiata tra legge elettorale e riforma del Senato.

Grandi le responsabilità della cultura, ma grandi pure quelle di chi, nelle sedi politiche, ha conosciuto un tardivo risveglio. Oggi la minoranza del Pd si è convertita all’intransigenza, si ingegna nel cercare varchi regolamentari nei quali far passare le sue proposte di modifica, ma è stata incapace di mettere a punto una ragionevole strategia nel momento in cui si approvava la legge elettorale e si avviava la lettura della riforma del Senato. Di nuovo incapacità di cogliere la rilevanza del tempo in politica. Non basta fare la buona battaglia, bisogna farla al momento giusto.

Comunque si valutino le vicende passate, è difficile negare che siamo di fronte ad una modifica della forma di governo, non accompagnata, come dovrebbe essere in democrazia, da una adeguata considerazione degli equilibri costituzionali complessivi. Problema non nuovo, perché il funzionamento del sistema era stato già gravemente alterato soprattutto attraverso le varie manipolazioni delle leggi elettorali. L’urgenza vera, allora, dovrebbe essere la ricostruzione di rapporti tra gli organi dello Stato tale da restaurare almeno gli equilibri perduti. Questa strada non è stata neppure presa in considerazione; i suggerimenti di modificare almeno alcuni aspetti del nuovo Senato per recuperare qualche brandello di garanzia sono stati respinti persino con tracotanza. Oggi la residua “battaglia” per tornare solo all’elezione diretta dei senatori può essere poca cosa, se non accompagnata da altre modifiche. Siamo in presenza di un effetto a cascata. Il Presidente del Consiglio finisce d’essere un primus inter pares e acquista un potere di pieno controllo del Governo. Il Governo declassa il Parlamento a luogo di registrazione.

La nuova combinazione Presidente del Consiglio-Governo-Parlamento consente al partito di governo, grazie al doppio effetto maggioritario della legge elettorale, di impadronirsi del controllo di organi di garanzia come la Presidenza della Repubblica e la Corte costituzionale. L’accentramento di poteri così realizzato rende superflua, almeno nelle intenzioni dichiarate dal Presidente del Consiglio, ogni forma di mediazione politico-sociale – dei sindacati, degli stessi partiti ridotti a macchine elettorali, delle istituzioni culturali, del sistema dell’informazione – e viene così cancellata la rilevanza di quel potere di controllo diffuso nella società che ha sempre giocato un ruolo essenziale nella vita delle democrazie.

Proprio negli ultimi tempi, e di nuovo dopo le ultimissime vicende romane, si è lamentata la perdita degli anticorpi civile e sociali che sono indispensabili per contrastare criminalità, corruzione, privatizzazione delle risorse pubbliche, fuga dal dovere di pagar le tasse. Ma quella perdita è andata di pari passo con l’indebolimento degli anticorpi istituzionali, rappresentati persino con ostentazione come un intralcio all’efficienza e alla rapidità delle decisioni. Qui hanno giocato un ruolo decisivo una cultura politica e una cultura costituzionale che non sono state capaci di declinare quei temi al di là della risposta sbrigativa e pericolosa dell’accentramento dei poteri. Non si sono degnate della minima attenzione le ricerche sulle difficoltà profonde della democrazia, sì che nella proclamata riforma costituzionale manca ogni significativo cenno alla partecipazione e a quella nuova organizzazione dei poteri sociali che va sotto il nome di “controdemocrazia”.

Tutto questo ha fatto sì che l’impresa riformatrice goda oggi di una legittimazione decrescente, che si aggiunge ad una delegittimazione più radicale di cui non si è voluto temer conto. Un cambiamento costituzionale così profondo viene realizzato da un Parlamento eletto con una legge dichiarata illegittima, constatazione che avrebbe dovuto almeno indurre alla massima prudenza e a muoversi sempre con il massimo consenso. Acqua passata? Niente affatto, perché si è costituito un precedente per modifiche costituzionali costruite come esercizio della forza.

A chi intende trasformare la critica in azione politica si oppone, con sempre maggiore insistenza, un solo argomento. State preparando il terreno propizio al successo di Salvini o di Grillo. Lasciamo da parte la non onorata storia di questo argomento, sempre sospetto di intenti ricattatori. Si deve riflettere, invece, sul modo in cui è stata concepita e attuata l’azione di governo. Non vi sono alternative – si è detto e si continua a dire. Muovendo da questa incerta certezza, si è adoperato il muro contro muro, tutti gli interlocutori critici sono stati considerati nemici. Una strategia che fatalmente erode il consenso per il Governo. La democrazia non può essere separata dall’esistenza di alternative, soffre ogni monolitismo e, quando si rende difficile il dialogo o non si accetta la costruzione di nuovi soggetti, si è responsabili dell’astensione di massa, della democrazia senza popolo, o del rivolgersi a chiunque sul mercato si presenti come alternativa.

Il manifesto, 25 agosto 2015)

I crolli di Borsa tra­smessi dalla Cina a tutto il mondo, pur matu­rati nell’ambito della dece­le­ra­zione annun­ciata di quel sistema eco­no­mico, segna­lano anche che la crisi delle eco­no­mie occi­den­tali ini­ziata nel 2007–2008 sta esten­dendo i suoi effetti, rice­ven­done a sua volta inte­ra­zioni nega­tive. Quando nel 2008 si mani­fe­stò quella che fu defi­nita “crisi glo­bale”, veniva pre­ci­sato che si faceva rife­ri­mento ai “soli” paesi svi­lup­pati dell’Occidente capi­ta­li­stico, in par­ti­co­lare agli Usa e all’Europa; il Giap­pone era in sta­gna­zione già da tempo.

Nelle eco­no­mie emer­genti non si avver­ti­rono pro­blemi, anzi, gli indi­ca­tori eco­no­mici con­ti­nua­rono a essere posi­tivi. Però, suc­ces­si­va­mente — men­tre nell’Eurozona l’ottusità della “auste­rità espan­siva” aggra­vava i danni — la cre­scita si è ridotta o annul­lata anche in quasi tutti i paesi Brics. Rima­neva la Cina, che con i suoi ele­vati volumi di cre­scita del Pil e del com­mer­cio con in paesi occi­den­tali atte­nuava i pro­blemi di quest’ultimi.

Ma adesso anche in Cina è sem­pre più evi­dente la fre­nata dello svi­luppo tra­vol­gente degli ultimi anni (dal 14% di cre­scita del Pil nel 2007, le pre­vi­sioni per il 2015 sono anche infe­riori al 5%; le espor­ta­zioni cinesi nel 2014 hanno regi­strato un calo fino al 26% rispetto al 2008 e sono dimi­nuite del 7,3% nei primi sette mesi del 2015).

In Cina emer­gono i limiti di un modello che, pur molto diverso da quello domi­nante nei paesi capi­ta­li­stici occi­den­tali nell’ultimo tren­ten­nio, ha in comune il con­te­ni­mento dei salari e la carenza dei con­sumi interni (pur se a livelli molto più bassi).

C’è stata una accu­mu­la­zione for­zosa volta a recu­pe­rare la sua arre­tra­tezza (capi­ta­li­stica), ali­men­tata con una distri­bu­zione favo­re­vole ai pro­fitti (pub­blici e pri­vati) cana­liz­zati in nuova capa­cità e inno­va­zione pro­dut­tiva, spin­gendo gli stessi red­diti da lavoro a finan­ziare in Borsa le imprese e lo stato (il cui debito è pari al 280% del Pil).

L’elevato aumento della capa­cità pro­dut­tiva e i bassi con­sumi interni hanno deter­mi­nato anche un ele­vato sur­plus nel com­mer­cio estero e il rein­ve­sti­mento dei pro­venti valu­tari in titoli stra­nieri, soprat­tutto Usa. Il modello di svi­luppo cinese ha dun­que con­tri­buito al feno­meno mon­diale della forte cre­scita di debiti e cre­diti che ha con­tri­buito alla crisi glo­bale, ma in modo diverso (e for­te­mente con­trol­lato dallo stato) dalla finan­zia­riz­za­zione delle eco­no­mie occi­den­tali. In que­ste ultime gli squi­li­bri nel set­tore reale erano attu­titi dal cre­scente inter­scam­bio con la Cina. Tut­ta­via, le per­si­stenti cause della crisi dei paesi capi­ta­li­sti­ca­mente svi­lup­pati hanno finito per tra­smet­tere i loro effetti nega­tivi anche al sistema cinese.

La dece­le­ra­zione dell’economia cinese ha cause pro­prie, ma un con­tri­buto è ascri­vi­bile alla per­se­ve­rante crisi delle eco­no­mie occi­den­tali che ha finito per assu­mere una dimen­sione effet­ti­va­mente glo­bale. Que­sta evo­lu­zione nega­tiva è stata accen­tuata dalle poli­ti­che pre­va­lenti nell’Euro zona, da mesi con­cen­trate sui vin­coli da imporre alla Gre­cia (ma con intenti dimo­stra­tivi per gli altri paesi peri­fe­rici e la stessa Fran­cia) per assi­sterla con un inter­vento da 86 miliardi di euro (in buona parte da uti­liz­zare per la resti­tu­zione di debiti alla stessa Troika) che, tut­ta­via, rap­pre­senta circa un decimo di quanto le Borse euro­pee hanno perso nella sola set­ti­mana scorsa e ieri per effetto della “sin­drome cinese”.

Una simi­li­tu­dine signi­fi­ca­tiva sulla quale dovreb­bero riflet­tere sia i fau­tori del modello tede­sco sia chi auspica la rot­tura dell’euro è che nell’Unione euro­pea e in Cina si stanno evi­den­ziando i pur pre­ve­di­bili pro­blemi gene­rati dalla ina­de­gua­tezza — pur se a livelli diversi — dei salari e dei con­sumi, e dalla dif­fi­coltà di com­pen­sarne l’effetto nega­tivo sulla domanda con le espor­ta­zioni. Di fronte alla peri­co­losa ten­denza delle sva­lu­ta­zioni com­pe­ti­tive tra grandi aree — Usa, Cina, Giap­pone, Unione euro­pea – i paesi mem­bri di quest’ultima rischiano di par­te­ci­parvi, per di più, in ordine sparso, se tor­ne­ranno dall’euro alle valute nazionali.

La con­cen­tra­zione degli intenti espan­sivi sulla poli­tica mone­ta­ria sta ali­men­tando una ingente offerta di liqui­dità che, per­ma­nendo gli osta­coli di natura reale alla ripresa e alla sua riqua­li­fi­ca­zione, rifor­ni­sce la spe­cu­la­zione finan­zia­ria e crea nuove “bolle”, anche in Cina, dove ini­ziano ad esplo­dere. Nel dibat­tito teo­rico si è tor­nati a valu­tare l’ipotesi che sia in atto una “sta­gna­zione seco­lare” (come nella grande crisi degli anni ’30 del secolo scorso, con moti­va­zioni arric­chite dalle spe­ci­fi­cità della crisi attuale), ma lo si fa – per lo più — nei con­gressi acca­de­mici e in una “ras­si­cu­rante” ottica di lungo periodo che sem­bra defi­nire un piano paral­lelo di discus­sione scon­nesso dalle vicende e dalla poli­ti­che eco­no­mi­che correnti.

Come da tempo suc­cede i poli­tici cre­dono di avere altro cui pen­sare, ma — avver­tiva Key­nes — «sono di solito schiavi di qual­che eco­no­mi­sta defunto».

Con una lettera al direttore del giornale la presidente della Camera dei deputati replica al presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, con garbo, ma con fermezza.

La Repubblica, 25 agosto 2015, con postilla

Caro direttore, ha ragione Jean-Claude Juncker: l’Europa che vogliamo non è quella dei muri. Apprezzo molto il fatto che il Presidente della Commissione europea abbia preso una posizione così netta. Una posizione così chiara a proposito di un tema tanto delicato e importante, che rappresenta uno dei cardini del nostro sistema comunitario e dell’Europa di domani.

Concordo con Juncker: neanche io voglio l’Europa dei muri. E non solo perché sarebbe davvero una bruttissima Europa. Un’Europa che rinnega i valori che l’hanno resa una grande protagonista della storia e un’esperienza unica agli occhi del mondo. Ma anche perché la politica dei muri sarebbe fallimentare. Non solo moralmente inaccettabile, ma politicamente impraticabile e perdente. Nessun muro — né quelli d’acqua del Canale di Sicilia e dell’Egeo, né quelli di filo spinato tra Grecia e Macedonia e tra Ungheria e Serbia — può infatti impedire a donne e uomini che lasciano contesti di guerra e regimi dittatoriali di conquistare un diritto al quale nessuno di noi sarebbe disposto a rinunciare: il diritto a vivere in pace e sicurezza. È questo che non capiscono, anzi fingono di non capire, gli “spacciatori” di paura e di demagogia che, un po’ ovunque in Europa, lucrano consensi elettorali chiedendo in modo ipocrita che i rifugiati vengano “aiutati a casa loro”: come se non sapessero che quella casa non c’è più, distrutta dalle bombe o presidiata dagli aguzzini di regime. Gli stessi “spacciatori” che, in Italia, vogliono far credere che gli immigrati “vengono tutti da noi”: tacendo che, a fronte delle 30mila domande d’asilo registrate qui nei primi 7 mesi del 2015, la Germania ha già quasi raggiunto quota 200mila.

Le migrazioni forzate come quelle che si sviluppano oggi in molte parti del mondo non si impediscono con i muri, ma con le soluzioni. Cioè con la politica, mobilitandosi per porre fine ai conflitti. Le guerre si possono fermare, se c’è la volontà di farlo. Ma non sembra che oggi il mondo sia interessato a fare di più per evitare i massacri in Siria e in Iraq, la violenza in Somalia, la dittatura in Eritrea, per citare alcuni casi. Eppure noi Europei, più degli altri, dovremmo aver memoria degli orrori delle guerre. Non ce ne ricordiamo abbastanza, ma è l’Europa che ci ha garantito 70 anni di pace. Siamo figli di conflitti mondiali che per due volte in 30 anni avevano ridotto il continente ad un cumulo di macerie, con decine di milioni di morti e altrettanti di rifugiati e sfollati. È l’Europa che ci ha dato sicurezza, libertà e benessere, proprio ciò che manca a coloro che oggi ci chiedono protezione.

Certo, il presidente Juncker fa bene a sottolineare che nessuno Stato può regolare questo flusso da solo e che per farlo ci vuole un approccio europeo da mettere in atto senza indugi. È apprezzabile lo sforzo della Commissione, che per la prima volta ha indotto gli Stati membri ad una gestione condivisa degli arrivi dei rifugiati.

Ma non basta. L’asilo è uno dei terreni sui quali è più evidente la necessità di una maggiore integrazione politica, per arrivare ad un unico sistema di regole e di standard di assistenza. Contro i costruttori di muri, bisogna uscire da una timorosa subalternità psicologica e rivendicare più Europa. Ma un’Europa diversa, che “cambi marcia”, che la smetta di farsi additare come problema quando è invece la soluzione, l’unica possibile: per l’immigrazione come per l’economia, per la difesa come per la politica energetica. Un’Europa che sia attenta ai bisogni dei cittadini, che non trascuri più l’impatto sociale delle misure finanziarie, che ponga crescita ed occupazione come obiettivi prioritari delle proprie scelte. Perché se le persone sono gravate dalla disoccupazione, dai sacrifici e dalla mancanza di futuro, dell’Europa e dei valori che l’hanno ispirata non sanno che farsene. E risuona lontana, incomprensibile, la passione che animò appena poche generazioni fa i padri fondatori, capaci di concepire sotto il frastuono delle bombe il sogno di un continente unito.
Verso quel progetto abbiamo tutti un debito, che è nostro interesse saldare al più presto. Ma farlo spetta soprattutto ai leader politici, se avranno la lungimiranza di accelerare nel processo di integrazione europea e di non farsi schiacciare dal quotidiano sondaggio nazionale. La solidarietà - tra gli europei, e con gli altri esseri umani che bussano ai nostri confini — non cresce spontanea, soprattutto ai tempi di una crisi economica tanto prolungata. È un sentimento che la politica e le istituzioni - comunitarie, ma anche dei singoli Stati membri — devono saper coltivare e far crescere, dimostrando che solo insieme si esce da problemi complessi e sovranazionali. A dispetto dei demagoghi e delle loro semplicistiche ed ingannevoli ricette.
Delle parole di Boldrini vogliamo sottolineare due aspetti: il forte richiamo alla necessita di costruire un'Europa diversa da quella che i poteri dominanti stanno costruendo, e l'impossibilità di distinguere, tra i soggetti dell'esodo biblico in atto, i "profughi", dai "migranti", gli uni e gli altri dai "richiedenti asilo", e via via discriminando per ridurre l'entità della tragedia in corso, e con essa le colpe e le responsabilità del Primo mondo. Come abbiamo scritto ieri a proposito dell'orazione di Jean-Claude Juncker.

Grecia docet. Privatizzazioni, riforme del lavoro, riforme delle pensioni, accentramento dei poteri deci­sio­nali in mano ad orga­ni­smi demo­cra­ti­ca­mente irre­spon­sa­bili: questi gli strumenti con i quali vogliono imporre la prevalenza del potere finanziario su quello dei popoli. Il manifesto, 25 agosto 2015
Il capo­la­voro reto­rico delle classi diri­genti tra­di­zio­nali, dall’inizio della crisi, è stato quello di tra­sfi­gu­rare nel senso comune una crisi del capi­ta­li­smo finan­zia­rio in una crisi del debito pub­blico. Ne è deri­vato che non sono tanto le éli­tes a dover rispon­dere della loro dis­sen­nata gestione del potere, ma sono i popoli a essere messi sul banco degli impu­tati per aver vis­suto “al di sopra delle pro­prie pos­si­bi­lità”. Su que­sta nar­ra­zione fit­ti­zia sono state costruite poli­ti­che reali, la cui natura è stata ben nasco­sta dagli appa­rati ege­mo­nici del capitalismo.

Que­sti appa­rati hanno fatto pas­sare come neces­sità ogget­tive scelte che da un lato hanno avuto un forte impatto redi­stri­bu­tivo verso l’alto, dall’altro hanno dise­gnato un nuovo ordine con­ti­nen­tale asim­me­trico a van­tag­gio dei cen­tri forti dell’economia euro­pea.

All’interno dei sin­goli paesi si è deter­mi­nato un ingente spo­sta­mento di risorse dal sala­rio – reale e dif­fe­rito – al capi­tale, e un’ulteriore con­cen­tra­zione del potere nelle mani delle éli­tes oli­gar­chi­che a sca­pito del con­trollo demo­cra­tico. Su scala con­ti­nen­tale si è giunti al con­tempo a una con­fi­gu­ra­zione gerar­chica dell’Unione euro­pea, con una divi­sione del lavoro sostan­zial­mente duale, sul modello di quella che ha con­dotto all’esplosione, nel nostro Paese, della que­stione meri­dio­nale. Le forze popo­lari e pro­gres­si­ste hanno il com­pito di sma­sche­rare l’artificio reto­rico attorno al quale le classi domi­nanti hanno costruito la nar­ra­zione della crisi: un’operazione indi­spen­sa­bile per il rilan­cio di un dise­gno contro-egemonico su scala con­ti­nen­tale.

È stata la haute finance a trarre bene­fi­cio dalle dina­mi­che della crisi, lucrando sulla “scar­sità” di risorse da essa stessa pro­dotta con la com­pli­cità dei governi. Nel caso della Gre­cia i cosid­detti “sal­va­taggi” non sono stati altro in realtà che uno stru­mento per garan­tire la ren­dita finan­zia­ria, ali­men­tando il potere di ricatto delle éli­tes del denaro. Le ban­che euro­pee, a comin­ciare da quelle tede­sche, hanno sin qui pre­stato denaro ad Atene, che, pri­vata della libertà di indi­riz­zare que­sti fondi verso reali poli­ti­che espan­sive, si è tro­vata costretta ad ulte­rior­mente inde­bi­tarsi. I prov­ve­di­menti impo­sti dalla Tro­jka hanno quindi rea­liz­zato, mediante una par­tita di giro, un raf­for­za­mento delle ban­che pri­vate, favo­rendo al con­tempo un colos­sale spo­sta­mento di risorse dal wel­fare alla ren­dita finan­zia­ria.

Le con­di­zioni impo­ste per il “sal­va­tag­gio” della Gre­cia hanno ripro­po­sto uno schema uni­ver­sa­liz­zato, dove al primo posto, imman­ca­bile, si è col­lo­cata la rac­co­man­da­zione di varare un ampio piano di pri­va­tiz­za­zioni. Que­ste ultime hanno por­tato con sé due con­se­guenze. Da un lato, la sven­dita al capi­tale metro­po­li­tano di asset pre­giati delle peri­fe­rie scon­volte dalla crisi (è di que­sti giorni la noti­zia che il gruppo tede­sco Fra­port si è acca­par­rato la gestione qua­ran­ten­nale di 14 aero­porti greci). Dall’altro, spe­cie in realtà in cui il capi­ta­li­smo nazio­nale dimo­stra ten­denze seco­lari verso la tra­sfor­ma­zione in ren­dita, una dein­du­stria­liz­za­zione fun­zio­nale alla ricon­fi­gu­ra­zione in senso gerar­chico della divi­sione con­ti­nen­tale del lavoro.

Alle pri­va­tiz­za­zioni hanno poi fatto seguito un po’ ovun­que le “riforme del lavoro”. Lungi dall’aver deter­mi­nato una ripresa dell’occupazione, attra­verso di esse si è sta­bi­liz­zato un enorme eser­cito indu­striale di riserva, tra le file del quale pescare mano­do­pera dequa­li­fi­cata e a basso costo per la pro­du­zione di semi-lavorati, desti­nati ad essere assem­blati dai grandi gruppi indu­striali metro­po­li­tani. Con l’artificio reto­rico dell’invecchiamento della popo­la­zione, infine, i governi nazio­nali sono stati costretti a varare “riforme delle pen­sioni” che hanno pro­lun­gato nel tempo la con­di­zione di sfrut­ta­mento della forza-lavoro, garan­tendo allo stesso tempo lauti divi­dendi ai grandi gruppi assi­cu­ra­tivi pri­vati.

Senza una netta inver­sione di ten­denza, que­sta serie di misure è desti­nata ad avere un impatto di lun­ghis­simo periodo e a tra­sfor­mare in pro­fon­dità lo spa­zio eco­no­mico con­ti­nen­tale. La crisi modella la costru­zione dell’Europa gerar­chica, men­tre lo stru­mento del memo­ran­dum, moderna Magna Charta, la “costi­tu­zio­na­lizza”.

Dopo la Gre­cia è lecito sup­porre l’aggressione del grande capi­tale euro­peo ad altri anelli deboli dell’eurozona. Alcuni segnali in que­sta dire­zione si hanno già. Si pensi alla cre­scita dei colossi finan­ziari tede­schi, Allianz e Deu­tsche Bank, i quali stanno acqui­sendo anche in paesi come il nostro quote cre­scenti di mer­cato, al punto che Allianz è il secondo ope­ra­tore in Ita­lia nel campo delle assi­cu­ra­zioni. Anche per quanto riguarda il nostro mer­cato finan­zia­rio si pone quindi un pro­blema di subal­ter­nità al gigante tede­sco. Ma l’aspetto deter­mi­nante per il dispie­garsi dell’egemonia tede­sca è la dein­du­stria­liz­za­zione del sud Europa, una delle emer­genze che andreb­bero affron­tate nella pro­spet­tiva di un’alternativa.

Chi pensa che il futuro della Gre­cia o dell’Italia possa essere trai­nato dall’agricoltura o dal turi­smo, se non è in mala fede, rischia comun­que di pren­dere un abba­glio. Non farebbe male ogni tanto rispol­ve­rare il pen­siero dei nostri grandi sta­ti­sti del pas­sato. Ripren­dendo una valu­ta­zione di Cavour, all’inizio del Nove­cento Fran­ce­sco Save­rio Nitti affer­mava che «l’industria dei fore­stieri, l’industria degli alber­ghi sono grandi indu­strie: ma non pos­sono con­si­de­rarsi come la base del red­dito nazio­nale. Inol­tre un paese che vive dei fore­stieri tende in certa guisa ad abbas­sare il suo carat­tere: tende à un esprit d’astuce et de ser­vi­li­sme fune­ste au carac­tère natio­nal. L’industria dei fore­stieri invece è bene­fica invece in un paese già indu­striale che può trat­tare i fore­stieri su le pied d’une par­faite éga­lité».

Rispetto alla situa­zione in atto un’inversione di ten­denza coin­ci­derà solo con un ribal­ta­mento degli attuali equi­li­bri. Il nodo di fondo da affron­tare è sem­pre lo stesso, il rap­porto fra Stato e mer­cato: il primo deve tor­nare come in pas­sato ad avere l’ultima parola sulla deci­sione su cosa, come e per chi pro­durre, comin­ciando con il recu­pe­rare quella che Beve­ridge avrebbe chia­mato una “signo­ria sul denaro”, ossia una sot­to­mis­sione della finanza al con­trollo demo­cra­tico. Sol­tanto così sarà pos­si­bile per­se­guire poli­ti­che espan­sive e rilan­ciare la pro­du­zione indu­striale e ter­zia­ria in tutte le aree d’Europa.

L’accentramento dei poteri deci­sio­nali in mano ad orga­ni­smi demo­cra­ti­ca­mente irre­spon­sa­bili ed un’asimmetrica divi­sione con­ti­nen­tale del lavoro hanno pro­ce­duto fin qui di pari passo nella costru­zione dell’Europa gerar­chica. Solo un pro­cesso coor­di­nato di rico­stru­zione dell’apparato pro­dut­tivo della peri­fe­ria con­ti­nen­tale potrà inne­scare un pro­cesso oppo­sto e vir­tuoso di ricon­fi­gu­ra­zione demo­cra­tica dell’Europa.

La Repubblica, 24 agosto 2015, con postilla

CONSIDERO l’Europa una comunità di valori di cui possiamo andar fieri, ma raramente lo siamo. In Europa vantiamo i massimi standard mondiali di accoglienza dei profughi, mai rifiuteremmo asilo a chi necessita della nostra tutela, lo stabiliscono le nostre leggi e gli accordi stipulati. Mi preoccupa però il fatto che l’accoglienza sia sempre meno radicata nei nostri animi.

Quando parliamo di migrazioni parliamo di esseri umani, come noi, solo che queste persone non possono vivere come noi perché non hanno avuto la fortuna di essere nati in una delle regioni più ricche e più stabili del mondo. Parliamo di persone costrette a fuggire dalla guerra in Siria, dal terrore dell’Is in Libia, o dalla dittatura in Eritrea.

Mi preoccupa vedere che una parte della popolazione le respinge. Campi profughi dati alle fiamme, barconi rimandati indietro, violenze contro i richiedenti asilo o semplicemente l’indifferenza di fronte alla miseria e al bisogno. Non è questa l’Europa.

Mi preoccupa quando i politici di estrema destra e di estrema sinistra alimentano un populismo che produce astio soltanto e nessuna soluzione. Discorsi pieni di odio e esternazioni avventate che mettono a rischio una delle nostre maggiori conquiste – la libertà di circolazione nell’area Schengen e il superamento delle frontiere al suo interno. Non è questa l’Europa.

La questione dei confini

C’è però fortunatamente anche l’Europa dei pensionati di Calais che mettono a disposizione i generatori così che i profughi possano ascoltare un po’ di musica e ricaricare i cellulari. L’Europa degli studenti di Sigen che hanno aperto il campus della loro università ai richiedenti asilo. L’Europa del fornaio di Kos che ha distribuito pane alla gente affamata e spossata. Questa è l’Europa in cui voglio vivere. Naturalmente non esiste una risposta unica e tantomeno semplice al problema dei flussi migratori. Come sarebbe poco realistico pensare di aprire semplicemente i confini dell’Europa a tutti i vicini, è altrettanto fuori dalla realtà credere di poter chiudere le frontiere di fronte al bisogno, alla paura e alla miseria.

È però chiara una cosa: non esistono soluzioni nazionali efficaci. Nessuno stato membro può regolare le migrazioni efficacemente per suo conto. L’approccio deve essere più europeo e non c’è tempo da perdere. Per questo la Commissione Europea sotto la mia presidenza ha avanzato, già nel maggio scorso, proposte dettagliate per una politica comune nei confronti dei profughi e dei richiedenti asilo.

Solidarietà con i paesi vicini

Abbiamo triplicato la nostra presenza nel Mediterraneo per contribuire a salvare vite e a catturare gli scafisti. Sosteniamo gli stati membri inviando nelle regioni più interessate dal fenomeno squadre della Frontex (Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne) dell’Easo (Ufficio europeo di sostegno per l’asilo) e della Polizia europea.

Le nostre squadre aiutano le autorità locali, spesso oberate, a stabilire l’identità dei profughi, a registrarli e prelevarne le impronte digitali, nonché ad accelerare il disbrigo burocratico delle richieste di asilo. Interveniamo contro le reti dei trafficanti stroncando poco a poco la loro spietata attività commerciale.

Dimostriamo solidarietà ai nostri vicini, come la Turchia, la Giordania e il Libano, ospitando 20mila profughi da paesi extraeuropei. Collaboriamo con i paesi di provenienza o attraversati dai profughi. In questo modo intendiamo aprire vie legali, sicure e controllabili per i migranti.

Concludiamo accordi di rimpatrio che agevolano il ritorno al paese d’origine delle persone cui non viene riconosciuto il diritto di re- stare in Europa. E insistiamo perché sia posto in atto il sistema comune di asilo europeo deliberato recentemente da tutti gli stati membri – a partire dalle condizioni di accoglienza e dalla procedura di asilo fino all’obbligo di prelevare le impronte digitali dei profughi al loro arrivo in Europa.

La distribuzione dei migranti

La Commissione vuole “distribuire equamente” 40.000 migranti. In maggio la Commissione ha proposto un sistema per distribuire equamente in seno all’Ue una parte delle persone che arrivano in Italia e in Grecia e necessitano di tutela. Era intenzione della Commissione smistarne 40mila, gli stati membri sono già stati in grado di accettarne più di 32mila. Vogliamo essere ancor più incisivi creando un meccanismo stabile, che in situazioni di emergenza possa entrare in funzione in automatico ogni volta che uno stato membro ne abbia necessità.

L’esistenza di confini esterni comuni ci impone di non abbandonare al loro destino i paesi membri che si trovano in prima linea, bensì di affrontare le sfide delle migrazioni con spirito di solidarietà. Alcune delle misure proposte dalla Commissione hanno già trovato sostegno. Tutte le altre devono essere affrontate con urgenza dai 28 stati membri, anche da quelli che finora si sono rifiutati. I drammatici avvenimenti di quest’estate ci hanno dimostrato che ormai dobbiamo mettere in atto senza indugio la politica comune europea nei confronti dei profughi e dei richiedenti asilo.

Non servono solo i vertici straordinari dei capi di Stato e di governo. Si è già tenuto un vertice sulle migrazioni, a novembre ci rincontreremo a Malta. Dobbiamo far si che tutti gli stati dell’Ue approvino subito le norme europee necessarie, dando loro immediata attuazione.

L'ingresso nella UE

I paesi balcanici aspirano all’ingresso nella UE, ma non devono essere sicuri? Già nove anni fa la Commissione ha proposto una lista dei paesi di provenienza sicuri. Gran parte dei governi all’epoca bocciò l’iniziativa considerandola un’ingerenza nella propria sfera di competenza . Non è logico però che i paesi membri approvino la candidatura all’ingresso nella Ue dei paesi dei Balcani occidentali se al contempo non li classificano come sicuri. Quindi a settembre la Commissione degli stati membri presenterà una lista comune dei paesi di provenienza sicuri.

Ciò di cui abbiamo bisogno e ancora ci manca è il coraggio collettivo di adempiere alle norme del diritto europeo e ai nostri obblighi nei confronti degli individui anche se farlo non è semplice e certo spesso impopolare.

Invece vedo che si punta il dito contro gli altri in un gioco a scaricabarile che può forse servire a guadagnare attenzione e voti ma non risolve i problemi.

La cancelliera tedesca recentemente mi ha segnalato come in Germania certi Länder e comuni considerino le norme europee sull’assegnazione di appalti pubblici di ostacolo alla pronta realizzazione di alloggi per i profughi.

L'Europa è un continente resistente

Abbiamo subito controllato e abbiamo potuto stabilire che non è esatto. L’Europa contribuisce alla sistemazione dei profughi e io sono pronto, a inviare i miei collaboratori a Berlino e nei vari Länder se dovessero insorgere problemi concreti.

L’Europa fallisce se la paura prende il sopravvento. L’Europa fallisce quando gli egoismi hanno più voce della solidarietà presente in ampie porzioni della nostra società. L’Europa ha successo quando superiamo in maniera pragmatica e non burocratica le sfide del nostro tempo.

Spero che assieme – gli stati membri, le istituzioni e le agenzie Ue, le organizzazioni internazionali e i nostri vicini – riusciamo a dimostrare che siamo all’altezza delle sfide. Sono convinto che possiamo farcela.

La nostra storia comune lo dimostra: l’Europa è un continente resistente, che di fronte alla minaccia di essere spaccato finisce per unirsi. Questo dovrebbe esserci di incoraggiamento per le prossime settimane e mesi.
Traduzione di Emilia Benghi

postilla

Chissà se Juncker si rende conto di quattro fatti che solo a un sordo, cieco e muto possono sfuggire:
(1) Il problema non è adoperasi di fare un po’ di beneficienza per qualche decina di migliaia di disgraziati, facendo sgocciolare giù un po’ delle ricchezze dei benestanti, ma è quello di consentire condizioni umane di vita a milioni di profughi provenienti da un’area che comprende un intero continente (l’Africa) e un bel pezzo d’un altro continente (l’Asia). Non si tratta di mitigare le conseguenze di una calamità naturale, ma di governare un “esodo biblico”.
(2) i profughi (chiamiamoli quello che sono, non distinguiamoli sulla base di tassonomie insensate) fuggono dalle guerre e dalle carestie derivate dallo sfruttamento rapace variamente esercitato nei secoli di dominio dai governi (e dai popoli) del mondo Nordatlantico, un mondo di cui l’Europa fa parte da mezzo millennio.
(3) Lo sfruttamento di una parte dell’umanità da parte di un’altra si è fortemente accentuato nella fase, per ora terminale, del capitalismo, la cui ideologia e le cui pratiche sono variamente definite (chiamiamole, se volete, neoliberistiche).
(4) L’Unione Europea, di cui Junker è uno dei leader, è tenacemente abbarbicata, nella sua stragrande maggioranza, a quella ideologia e alle sue pratiche, come è finalmente chiaro a tutti grazie alla ferocia con cui Juncker, i suoi complici e i loro succubi ai si sono opposti ai ragionevoli sforzi della Grecia di Tsipras per indicare la direzione in cui muoversi per iniziare la costruzione di un’Altra Europa.

Predicatori complici di ingiustificabili assassini, ma i giovani che cascano nella loro rete «vedono immagini – per lo più autentiche – di uomini, donne e bambini orribilmente straziati o uccisi da droni o bombardamenti, oppure umiliati a Guantanamo o Abu Ghraib».

La Repubblica, 23 agosto 2015

ORMAI tutti i più importanti stati europei sono multietnici: alcuni più, altri meno; alcuni di buon grado, altri malvolentieri. Dalla piccola Irlanda a Occidente, che ha acconsentito ad aumentare la propria quota di migranti all’altrettanto piccola Estonia a Est, che ne ha accolti pochi ma è sotto pressione per accoglierne di più; dalla Germania nel centro d’Europa che ha aperto le porte e continua a farlo per decine di migliaia di migranti, alla Grecia e all’Italia nel Meridione, che hanno afflussi enormi di disperati in arrivo e in transito nelle loro città. E sempre più spesso, i nuovi europei sono musulmani in arrivo da Medio Oriente, Africa, Pakistan e India.

La minaccia jihadista, germogliata in casa, proviene per lo più dall’interno di queste comunità musulmane, la stragrande maggioranza delle quali è pacifica. Un numero significativo di immigrati musulmani è ben integrato nella cultura del paese che ha scelto; una piccola élite occupa posti influenti e di potere nel mondo degli affari, della cultura, della politica.

Ma un gruppetto di donne e uomini, per lo più giovani, è diventato jihadista: a centinaia si sono uniti allo Stato Islamico, e già in cinquecento hanno lasciato il Regno Unito per combattere a fianco dell’Is in Siria. Alcuni, come il britannico Jihadi John – il cui vero nome è Mohammed Emwazi – sono diventati famigerati assassini. Emwazi – tra molti quello che gode della peggior fama – ha decapitato almeno otto ostaggi occidentali l’anno scorso: in un filmato con audio ottenuto dal Mail on Sunday , si vanta del fatto che tornerà nel Regno Unito per uccidere ancora.

Le gesta di Jihadi John e dei suoi compagni sono concepite per seminare il terrore, ma anche la diffidenza. Per coloro che hanno abbracciato il terrorismo e lo impugnano come un’arma contro tutti gli infedeli – e spesso i musulmani che credono in “modo sbagliato” sono le loro prime vittime – le pacifiche società multietniche e multireligiose sono un abominio. Nel migliore dei casi, nella visione del mondo dei jihadisti le altre religioni quali il Cristianesimo, l’Induismo, l’Ebraismo e il Buddismo devono essere sottomesse alla legge musulmana. Nel peggiore, devono essere costrette a convertirsi all’Islam con la forza. Non devono convivere in armonia, perché l’armonia non è tollerata.

Per quale motivo giovani donne e giovani uomini che vivono in società confortevoli come quelle dell’Europa occidentale – dove le loro famiglie hanno trovato casa e lavoro, dove possono praticare liberamente la loro fede, dove sono in vigore leggi che vietano di discriminarli – si interessano a un gruppo violento ed estremista come l’Is e in qualche caso arrivano a scagliarsi contro i loro stessi concittadini nei paesi d’adozione? Ciascun individuo è unico: ma alcuni hanno caratteristiche comuni.

L’Is, come Al Qaeda e altri gruppi terroristici, ha imparato bene come sfruttare la Rete, e i contenuti che trasmette riescono a essere persuasivi. Più di ogni altra cosa, il messaggio lanciato sottolinea sempre una medesima cosa: che il vero Islam è sotto attacco da parte dei crudeli infedeli – americani, britannici, francesi, altri ancora – che aspirano a massacrare i musulmani e a distruggere l’Islam.

Coloro che si collegano a questi siti vedono immagini – per lo più autentiche – di uomini, donne e bambini orribilmente straziati o uccisi da droni o bombardamenti, oppure umiliati a Guantanamo o Abu Ghraib. Le immagini e il commento sonoro sono ingegnosamente concepiti per risvegliare l’odio nelle menti dei giovani che potrebbero sentirsi estraniati dalle società che li ospitano e anche dai loro genitori, e che considerano i militanti dell’Is una legione di soldati puri e coraggiosi, dediti alla creazione di uno stato divino. Ecco perchè alcuni giovani musulmani si abbandonano all’odio e in alcuni casi si lanciano nella violenza attiva. E così, le comunità in senso più ampio iniziano a temere il nemico che hanno dentro di sé. E così, un numero crescente di cittadini chiede che si ponga fine all’immigrazione, che potrebbe far arrivare altri jihadisti. Il virus dell’odio inter-etnico in questo modo attecchisce e cresce, e le società iniziano a disintegrarsi. L’Is così potrebbe vincere, a meno di essere fermato.

(Traduzione di Anna Bissanti)
«Voglio allora dirlo nel modo più netto pos­si­bile: io credo che la deci­sione di andare a ele­zioni anti­ci­pate da parte del Governo di sini­stra greco sia un esem­pio di "Grande poli­tica"» Il problema è «come ren­dere più forte la nostra ini­zia­tiva, in Ita­lia e in Europa, in modo da non lasciare più a lungo Atene sola».

Il manifesto, 23 agosto 2015

Mi stu­pi­sce che i media main­stream, a comin­ciare da Repub­blica e com­preso il Fatto quo­ti­diano, pre­sen­tino la deci­sione del Governo Tsi­pras di andare alle ele­zioni come una scon­fitta o addi­rit­tura la fine di quella espe­rienza. Non fanno che aspet­tar­selo da gen­naio e di dirlo in ogni occa­sione. Mi col­pi­sce piut­to­sto che tra di noi qual­cuno la pensi così, per lamen­tare un’esperienza finita o per get­tare la croce sul cedi­mento di luglio. Due posi­zioni che mi sem­brano entrambe orfane della politica.

Credo che chi la pensa così in realtà ignori del tutto il con­te­sto in cui la par­tita si gioca (quello euro­peo, segnato da un feroce rap­porto di forza), la dimen­sione dina­mica di essa (non c’è una mossa defi­ni­tiva, fine a se stessa, in cui si vince o si perde tutto, ma un qua­dro in movi­mento in cui la mossa di ognuno influi­sce sulle posi­zioni degli altri), la natura dei pro­ta­go­ni­sti in campo (si pensa dav­vero che Ale­xis Tsi­pras da eroe ome­rico sia diven­tato di colpo un rinun­cia­ta­rio o addi­rit­tura un «traditore»?).

Voglio allora dirlo nel modo più netto pos­si­bile: io credo che la deci­sione di andare a ele­zioni anti­ci­pate da parte del Governo di sini­stra greco sia un esem­pio di «Grande poli­tica». Anzi­ché per­dersi in alam­bic­chi e cam­pa­gne acqui­sti per rosic­chiare con­sensi tra le com­po­nenti di Syriza (com­prese quelle che hanno rifiu­tato il Con­gresso pun­tando alla scis­sione), Tsi­pras ha scelto di tagliare i nodi e di rivol­gersi all’elettorato greco come «sovrano», con una prova di spi­rito demo­cra­tico assente in tutte le altre classi poli­ti­che euro­pee, e insieme di corag­gio. Non si è dimesso per­ché «ha perso», ma per­ché «vuole vincere».

La ragione non solo tat­tica ma stra­te­gica delle dimis­sioni non è la «fine della sua mag­gio­ranza» — che pro­ba­bil­mente avrebbe potuto rag­gra­nel­lare in qual­che modo — ma al con­tra­rio il biso­gno di una più chiara e più forte mag­gio­ranza: la volontà di essere pronto, nelle migliori con­di­zioni pos­si­bili (cioè con una «pro­pria» mag­gio­ranza, coesa e deter­mi­nata) per le sfide d’autunno, che saranno dure e alte: la que­stione del debito in Europa — messa in agenda glo­bale gra­zie alla sua poli­tica -, la gestione della crisi sociale in Gre­cia, la neces­sità di allar­gare il fronte dell’opposizione al neo­li­be­ri­smo e all’austerità nello spa­zio euro­peo, fuori da ogni ten­ta­zione sovra­ni­sta o nazio­na­li­sta, con una poli­tica intel­li­gente, prag­ma­tica ed effi­cace (l’opposto dello sche­ma­ti­smo ideo­lo­gico dei suoi cri­tici, di destra e di sini­stra).

Lungi dall’arretrare o «riti­rarsi» a me sem­bra che passi all’offensiva, alzando la posta e quindi, di con­se­guenza, cer­cando di por­tare la pro­pria forza poli­tica all’altezza di essa.

In autunno si gio­che­ranno molte sfide in Europa e non solo. E si potranno pro­durre molti cam­bia­menti: nel Regno Unito, dove Cor­byn pro­mette di sep­pel­lire defi­ni­ti­va­mente la deso­lante ere­dità blai­riana, negli stessi Stati Uniti dove una can­di­da­tura socia­li­sta minac­cia da vicino la stra­po­tenza dei Clin­ton, in Spa­gna natu­ral­mente e in Por­to­gallo… I cri­tici di Tsi­pras fareb­bero bene a riflet­tere meglio piut­to­sto che sulle debo­lezze della sini­stra greca, sulle con­trad­di­zioni, ben più poten­zial­mente esplo­sive, dell’establishment euro­peo, appa­ren­te­mente onni­po­tente in realtà dai piedi d’argilla (a comin­ciare dalla Ger­ma­nia, tanto più dopo la «sin­drome cinese»).

E magari anche a capire, anzi­ché come ren­dere più acida la dam­na­tio memo­riae dell’esperienza greca, a come ren­dere più forte la nostra ini­zia­tiva, in Ita­lia e in Europa, in modo da non lasciare più a lungo Atene sola (tanto sola quanto fu lasciata Praga nel ’68, come è stato giu­sta­mente scritto).
«Nel momento in cui i piazzisti politici europei hanno deciso, più o meno all’unisono, di fare la voce grossissima contro i migranti, decretando che la misura è colma, “e ora basta!”, ci si accorge, in un solo sabato, che la misura non fa che crescere, e che tutti i record sono destinati a essere aggiornati di ora in ora».

La Repubblica, 23 agosto 2015

Gli annegati nel Mare Nostro sono già più di 2.300, in nemmeno 8 mesi. Gli arrivati, più di 255mila – Un bellissimo sabato d’estate al mare, pieno di barche. Il numero cresce di ora in ora: mentre scrivo sono 23, fra barconi e gommoni, e circa 3mila esseri umani, ad aver chiesto aiuto, e una dozzina i bastimenti, fra navi della Guardia Costiera e della Marina italiana e norvegese, motovedette, imbarcazioni della Guardia di Finanza e di associazioni di buona volontà, e qualche volonteroso mezzo di diporto, ad aver risposto.
Questo sulla rotta per le nostre coste. Appena più in là, si è guadagnata il primato la rotta fra Turchia e Grecia, favorita dalla vicinanza delle isole, dove sono i siriani i più numerosi. Fra gli sbarcati, le baruffe e a volte le risse di Kos si sono trasferite negli scontri al confine con la polizia macedone. A Kos e nelle altre isole delle vacanze, gli iracheni scappati da Anbar si fingono siriani invidiando la loro precedenza – anche gli afgani, ma li beccano subito. Lì il tragitto è breve: neanche mezz’ora con una barca normale. I migranti ci mettono anche una notte nei gommoni da strapazzo, e all’arrivo si sbrigano a forarli, per non essere rimandati indietro: la versione aggiornata del bruciarsi le navi alle spalle. Hanno lasciato tutto e per sempre, alle spalle.

Venti giorni fa, a Calais, un padre disperato, dopo chissà quanti tentativi ricacciati, aveva spinto la propria bambina oltre il reticolato, verso una salvezza di orfana. Da due giorni, alla frontiera greco- macedone di Gevgeljia, altri padri tendevano i loro piccoli verso le guardie macedoni, e ieri hanno infranto la barriera, in una esasperata Schengen alla rovescia, andando contro lacrimogeni e bombe assordanti. Che cosa volete che siano le bombe assordanti per chi viene dalla Siria dei barili esplosivi sganciati dal cielo e delle bombe chimiche. E i poliziotti macedoni, descritti come impassibili da qualche cronaca- “Sono gli ordini” - hanno sperimentato anche loro la differenza fra “il problema della migrazione” e una faccia di bambina spaventata che piange. Una storia del progresso umano dovrà tenere in gran conto l’invenzione del filo spinato (1874) e la sua evoluzione nel filo a lama di rasoio, quello attraverso il quale vedete insinuarsi i bambini nelle fotografie di ieri.

Nel momento in cui i piazzisti politici europei hanno deciso, più o meno all’unisono, di fare la voce grossissima contro i migranti, decretando che la misura è colma, “e ora basta!”, ci si accorge, in un solo sabato, che la misura non fa che crescere, e che tutti i record sono destinati a essere aggiornati di ora in ora. Gli annegati nel Mare Nostro sono già più di 2.300, in nemmeno 8 mesi. Gli arrivati, più di 255mila – 105mila in Italia, quasi 150mila in Grecia. Perfino il record delle vacanze estive sulle nostre località balneari va annotato nello stesso registro di entrate e uscite, avvantaggiato com’è dal crollo del turismo tunisino (la metà dei posti perduti), dalle paure per l’Egitto, dalle incertezze greche...

Siamo agli inizi: e come potrebbe essere diversamente, se la guerra in Siria, dopo 4 anni, infuria come la più tragica e incurata delle pesti? Come si può pensare che i due milioni di profughi siriani in Turchia pazientino nel fango e nell’umiliazione dei campi in attesa di tornare alle loro case, quando quelle case non esistono più, né le città? Al contrario, crescono i luoghi ai quali non si farà ritorno: i cristiani di Ninive hanno già contato 14 mesi dalla conquista del califfato nero. I cittadini europei, in quello che hanno di responsabile, dovranno presto smetterla di illudere e illudersi sulla possibilità di metter fine all’avvento, o anche solo di arginarlo – di arginare il mare. La Grecia, dannata a fare i conti, li fa ora con la sua cifra spropositata di fuggiaschi, e la signora Merkel, titolare del Paese finora più aperto verso rifugiati e stranieri (con la Svezia, mentre i meriti dell’Italia riguardano il soccorso e non l’accoglienza), ha ragione di dirsi preoccupata dalla migrazione ben più che dalla Grecia. Anche la Germania profonda rumoreggia, e ha i suoi piazzisti, benché offra anche degli esempi luminosi, come la decisione congiunta di alcune università di offrire corsi di studio gratuiti a richiedenti asilo destinati a diventarne cittadini.

Le Monde) Inizia la campagna politica europea dell'ex ministro di Tsipras. L’ex ministro è convinto e, insieme a Tsipras, ha fatto capire a tutti: «Schäuble e i creditori non vogliono salvarci, la Grecia è un laboratorio, poi attaccheranno lo Stato sociale europeo». La Repubblica, 23 agosto 2015

Le elezioni rischiano di slittare al 27 settembre, una settimana dopo a quanto preventivato da Alexis Tsipras. Né Nuova Democrazia (il secondo gruppo parlamentare) né Unità Popolare (terzo come numero, appena nato da una scissione di Syriza) rinunceranno ai tre giorni di mandato esplorativo concesso dalla Costituzione. Oggi scade il tempo per Nd. Il premier uscente ha commentato la fuoriscita da Syriza spiegando che «non è un atto rivoluzionario spaccare un partito per collocarsi all’opposizione». La replica: «Tsipras confonde la dittatura del memorandum con il funzionamento democratico». Schermaglie elettorali, di sfondo resta l’Europa con, Klaus Regling capo dell’Esm, che ricorda: «Il denaro sarà erogato solo dopo l’attuazione delle riforme»

ATENE . Provocatorio, idealista, arrogante. Yanis Varoufakis, l’ex ministro delle Finanze greco, è tanto affascinante quanto fastidioso. Il terzo piano di aiuti alla Grecia, che lui definisce come una “capitolazione” di fronte ai creditori, porterà il suo paese nel baratro, spiega. Denuncia l’opacità dell’Eurogruppo, che, secondo lui, prende le decisioni più importanti per il futuro della zona euro senza che i cittadini ne siano informati.

Arnaud Montebourg l’ha invitata alla Fête de la Rose, (parlerà oggi ndr ). A che punto è la sinistra europea?
«Ha un grande lavoro davanti a sé. L’unione monetaria, costruita in origine per unire i popoli europei, li ha invece divisi, mettendoli gli uni contro gli altri. C’è un urgente bisogno di ridare vita al dialogo democratico. In questo senso, mi sembra essenziale creare una rete europea dei progressisti, al di là delle divisioni politiche tradizionali e dei confini, pronta a perseguire un obiettivo radicale: democratizzare l’euro e le sue istituzioni, con tutti coloro che sono convinti che nulla di buono può venire dai tecnocrati di Francoforte o di Bruxelles che depoliticizzano la moneta».

Chi potrebbe dirigere questo movimento?Lei?
«Non si tratta di sapere chi lo potrebbe dirigere, è una decisione che non può venire dall’alto, né può essere ridotta a un leader, chiunque sia».

La Francia è stata un’alleata del governo di Alexis Tsipras nel corso dei negoziati con i partner della Grecia?
«La maggior parte degli europei immagina che negli ultimi mesi la Grecia abbia negoziato con i suoi partner della zona euro. Non è così. Durante i cinque mesi in cui sono stato coinvolto, i miei omologhi mi rimandavano sistematicamente ai rappresentanti di Commissione, Bce e Fmi. Non ho mai negoziato direttamente con Michel Sapin. Né con Wolfgang Schaeuble, che mi assicurava di non poter fare nulla per me. Anche quando Schaeuble ed io abbiamo finalmente aperto un dialogo, poco prima del mio ritiro, era chiaro che qualsiasi grado di convergenza tra noi non poteva essere espresso formalmente».

Rimprovera al governo greco di aver firmato il terzo piano di aiuti?
«Ho votato contro questo programma. Purtroppo, il primo Ministro alla fine ha accettato ciò che lui stesso ha definito non buono. L’Europa intera ne uscirà perdente».

Eppure ha evitato il “Grexit”
«Questo è il modo in cui la stampa presenta le cose, ma io non condivido. Se la Grecia tenta, a dispetto del buon senso e delle leggi elementari dell’economia, di applicare questo memorandum e le riforme che lo accompagnano, corre dritta verso il Grexit. Perché questo programma è stato concepito per affondare la nostra economia. Risultato: non potremo mantenere i nostri impegni, e Schaeuble potrà puntare il dito contro di noi e tagliare gli aiuti al nostro paese. L’obiettivo che persegue è molto chiaramente il Grexit».

Lei sostiene che il ministro Schaeuble vuole spingere la Grecia fuori dall’euro. Per quale motivo?
«Per colpire la Francia. Lo stato sociale francese, il suo diritto del lavoro, le sue imprese nazionali sono il vero obiettivo del ministro delle finanze tedesco. Egli considera la Grecia come un laboratorio di austerità, dove sperimentare il memorandum prima di esportarlo. La paura del Grexit mira a far crollare le resistenze francesi, né più né meno».

Lei chiede di creare nuove istituzioni nella zona euro, di dare più potere al Parlamento europeo?
«Ritengo che non abbiamo un Parlamento europeo. L’istituzione di oggi non compie la sua missione. È un insieme di interessi nazionali che insulta il concetto stesso di democrazia ».

Se potesse tornare indietro, al mese di gennaio, quando Syriza è andato al potere ed è stato nominato ministro delle Finanze, che cosa cambierebbe?
«Molte cose. Ma soprattutto una. Il 20 febbraio, avevamo raggiunto un accordo importante con i creditori. Non menzionava più il memorandum, ma spiegava che il governo greco avrebbe presentato un elenco di riforme, convalidate dai partner che lo avrebbe sostituito. Solo che, due giorni dopo, i dirigenti delle istituzioni, Pierre Moscovici, per la Commissione, Christine Lagarde, per il Fmi e Mario Draghi, per la Bce, hanno reintrodotto il riferimento al memorandum durante una conferenza telefonica. A quel punto, avremmo dovuto rifiutare di continuare la discussione ».

Nei sei mesi in cui è stato a capo del ministero delle Finanze, non ha preso alcuna decisione per lottare contro la corruzione e gli oligarchi, che denuncia con vigore.
«Questo è un ottimo esempio della disinformazione contro cui mi batto. Abbiamo preso, nonostante tutto, dei provvedimenti, in particolare sull’evasione fiscale, uno dei principali mali del paese. Uno di essi consiste nell’uso di un software con un algoritmo che consente di confrontare i trasferimenti di denaro tra conti bancari degli ultimi venti anni con le dichiarazioni dei redditi. Si tratta di un progetto notevole. Tanto più tenendo conto che la troika non ci ha facilitato le cose. Ma ci siamo riusciti. Se tutto va bene, più di seicentomila evasori fiscali verranno identificati grazie a questo algoritmo a settembre o ottobre. Sarebbe un grande successo».

Perché la “troika” non vi ha aiutato?
«Il suo vero obiettivo non è mai stato quello di riformare il nostro paese, né di recuperare il denaro prestato alla Grecia. Altrimenti, avrebbe accettato le nostre proposte, vale a dire di ridurre il debito pubblico, di istituire una struttura di riscatto per gestire i crediti in sofferenza, e lanciare una banca d’investimento in grado di rafforzare l’economia e la crescita potenziale. Al contrario, ha preferito imporci delle condizioni che garantiscono che non saremo mai in grado di ripagarlo».

Ma a quale scopo?
«Perché la Grecia è solo una battaglia in una guerra molto più ampia per il controllo dell’unione monetaria. Nel 2010, il primo piano di aiuti aveva come obiettivo salvare le banche francesi e tedesche. Oggi, i creditori cercano semplicemente di controllare il governo greco, per neutralizzare gli altri paesi che potrebbero sfidare l’ordine costituito, questo è il progetto di Schaeuble».

In queste circostanze, la Grecia deve malgrado tutto rimanere nell’euro?
«Alexis Tspiras mi ha nominato ministro delle Finanze perché sono e sono sempre stato convinto che, nonostante i difetti iniziali dell’unione monetaria, non è possibile né opportuno uscirne. Dobbiamo cercare, invece, di risolvere ciò che non funziona al suo interno.

Non sono, d’altra parte, un feticista dell’euro, né della dracma. Le monete, come i mercati finanziari, sono degli strumenti al servizio di un obiettivo: migliorare la vita dei cittadini. Ma negli ultimi vent’anni, abbiamo avuto la tendenza a dimenticarlo. I mercati, come l’euro, sono diventati delle religioni».

Continuerà a impegnarsi nella vita politica greca?
Assolutamente sì. Quando, dopo una lunga riflessione, sono sceso nell’arena politica, l’ho fatto per restarci. Voglio rappresentare i greci che hanno votato per me e lottare per loro con tutti i mezzi possibili. La missione che sento di dover compiere oggi è quella di rendere pubblico a livello internazionale ciò che è accaduto in Grecia negli ultimi mesi».

Lei ha dato il suo sostegno a Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, che cerca di far svelare il trattato di libero scambio transatlantico. Renderebbe pubblici anche dei documenti dell’ Eurogruppo?
«Il mio rapporto con Julian Assange va oltre le pure questioni europee. La mia esperienza dell’Eurogruppo, dove si prendono decisioni importanti senza che i cittadini ne siano informati, senza documentazione scritta, riecheggia la guerra di Wikileaks, contro un mondo in cui i potenti dispongono di tutte le informazioni e i cittadini non hanno nulla».

copyright Le Monde traduzione di Luis E. Moriones

Jorgos Stathakis, ministro uscente dell’economia: «L’alleggerimento del debito insieme alle risorse per investimenti e welfare potranno consentirci di sostenere i cittadini più deboli. Il popolo greco ci darà un mandato chiaro». Ilmanifesto, 23agosto 2015

«Syriza è e rimane una forza di sini­stra», dice con forza al mani­fe­sto Jor­gos Sta­tha­kis, mini­stro dell’economia uscente del governo Tsi­pras, tra i prin­ci­pali rap­pre­sen­tanti della Gre­cia alle trat­ta­tive con i cre­di­tori. Chiede un nuovo man­dato popo­lare per poter ridurre, il più pos­si­bile, gli effetti nega­tivi del memo­ran­dum, le con­se­guenze di un accordo che «crea pro­blemi, ma ha sal­vato il paese dal pre­ci­pi­zio». Quanto ad Ale­xis Tsi­pras, ritiene che la sua popo­la­rità, anche ora, sia dovuta alla sin­ce­rità dell’agire poli­tico e pro­mette che Syriza con­ti­nuerà a lot­tare per­ché si arrivi alla rot­tura defi­ni­tiva con le poli­ti­che di auste­rità impo­ste all’Europa.

Crede che Syriza possa porsi come obiet­tivo la mag­gio­ranza asso­luta, come dicono molti suoi com­pa­gni di par­tito? E su cosa basate il vostro ottimismo?

«Il periodo dif­fi­cile delle trat­ta­tive si è con­cluso con il nuovo accordo e con la riscos­sione della prima tran­che del nuovo pre­stito. A con­clu­sione di que­sto periodo si sono esau­riti anche i ter­mini del man­dato popo­lare che abbiamo rice­vuto il 25 gen­naio. Poi­ché cre­diamo fer­ma­mente nelle pro­ce­dure demo­cra­ti­che e abbiamo piena fidu­cia nel giu­di­zio del popolo, fac­ciamo di nuovo ricorso ad esso, per­ché possa dire se abbiamo rap­pre­sen­tato cor­ret­ta­mente il nostro paese, se abbiamo dato la giu­sta riso­nanza alla dimen­sione euro­pea e mon­diale della que­stione, se l’accordo rag­giunto offre le pre­con­di­zioni affin­ché si pos­sano supe­rare le vie senza uscita in cui ci si trova oggi, e — infine — chi e in che modo può gui­dare il paese nel futuro.

«Abbiamo la coscienza a posto e siamo fieri della bat­ta­glia che abbiamo con­dotto, e sono otti­mi­sta, pre­vedo che i cit­ta­dini sce­glie­ranno nuo­va­mente Syriza. L’insistenza, la sin­ce­rità e la deter­mi­na­zione con la quale abbiamo trat­tato, come anche le prove date con le nostre ini­zia­tive poli­ti­che, riguardo a molte que­stioni su cui abbiamo legi­fe­rato sul piano interno, ver­ranno giu­di­cate, io credo, posi­ti­va­mente. È quello che mostrano, poi, anche le più recenti inda­gini demo­sco­pi­che. Non stiamo più vivendo, inol­tre, nel clima di allar­mi­smo sul quale si era basata la pole­mica creata con­tro di noi, alle ele­zioni di gen­naio. I cit­ta­dini non hanno motivo di essere titu­banti nel dare nuo­va­mente a Syriza il man­dato chiaro, neces­sa­rio a gover­nare. Sanno che gestirà nel miglior modo pos­si­bile il pro­gramma con­cor­dato con i cre­di­tori, che è indub­bia­mente dif­fi­cile, e al tempo stesso garan­tirà impor­tanti cam­bia­menti e un vero rin­no­va­mento, basati, prin­ci­pal­mente, sulla giu­sti­zia e i diritti sociali».

Le forze di oppo­si­zione met­te­ranno sicu­ra­mente l’accento sul fatto che a gen­naio vi era­vate schie­rati con­tro i memo­ran­dum, men­tre la set­ti­mana scorsa avete fir­mato un nuovo com­pro­messo, un nuovo memo­ran­dum. Cosa rispondete?

«Abbiamo esau­rito tutto lo spa­zio di una trat­ta­tiva dura e dolo­rosa, arri­vando anche a delle situa­zioni –limite. Davanti al ricatto e al peri­colo imme­diato di una cata­strofe senza pre­ce­denti, per il paese e prima di tutto per le classi più deboli, abbiamo scelto il miglior com­pro­messo che pote­vamo otte­nere. Ora chie­diamo nuo­va­mente la legit­ti­ma­zione popo­lare per poter gestire que­sto accordo, per ridurre al minimo le con­se­guenze nega­tive di que­sto accordo e usare al meglio le frat­ture che abbiamo creato nel campo dell’«armata dell’austerità» in Europa».

Cosa prova, sul piano poli­tico e per­so­nale, riguardo alla scis­sione di Syriza? Com­prende una parte delle posi­zioni dell’ex Piat­ta­forma di Sini­stra, o i vostri approcci sono, ormai, total­mente differenti?

«Una scis­sione costi­tui­sce sem­pre un pro­cesso dolo­roso. Spero che la nostra espe­rienza comune di eventi trau­ma­tici del pas­sato e il per­corso comune fatto assieme, sino ad ora, aiu­tino ad evi­tare gli aspetti peg­giori che potreb­bero esserci, riguardo ad even­tuali svi­luppi. Devo con­fes­sare, tut­ta­via, che non com­prendo l’approccio degli ex com­pa­gni, visto che l’esperienza della trat­ta­tiva ha mostrato i limiti ogget­tivi dello scon­tro. Ci siamo tro­vati, real­mente, sull’orlo del pre­ci­pi­zio e credo che que­sto avrebbe dovuto aiu­tare, tutti noi, a com­pren­dere l’ambito nel quale dob­biamo por­tare avanti le nostre riven­di­ca­zioni. La solu­zione alter­na­tiva dell’uscita dall’ Europa — dalla moneta comune o anche dalla stessa Unione euro­pea– non è, in nes­sun caso, un pro­getto poli­tico sostenibile».

Ale­xis Tsi­pras con­ti­nua a godere di grande popo­la­rità, anche dopo la firma dell’accordo con i cre­di­tori. Lei che col­la­bora con lui quo­ti­dia­na­mente, a cosa lo attribuisce?

«Indub­bia­mente, il primo mini­stro greco gode di una grande popo­la­rità che supera anche i con­fini del paese. Credo che sia evi­dente anche in Ita­lia e tra i let­tori del vostro gior­nale, dal momento che una grande parte della sini­stra ita­liana ha mostrato di tro­vare ispi­ra­zione nello sforzo di Ale­xis Tsi­pras e di Syriza. Ale­xis Tsi­pras ispira i cit­ta­dini, in Gre­cia e anche all’estero, e credo che que­sto sia dovuto alla sin­ce­rità del suo agire poli­tico, al fatto che metta in risalto i valori della sini­stra, al suo for­tis­simo impe­gno nella lotta con­tro la cor­ru­zione, gli intrecci tra la poli­tica e gli inte­ressi eco­no­mici con­so­li­dati, e alla sua azione con­tro le poli­ti­che che hanno por­tato al vicolo cieco in cui siamo finiti».

È mini­stro dell’economia, uno dei prin­ci­pali cono­sci­tori e respon­sa­bili del set­tore. Quanto nega­ti­va­mente influi­ranno sull’economia reale e la vita delle fami­glie le misure del nuovo memo­ran­dum? Esi­ste una pos­si­bi­lità reale di soste­nere le classi sociali più deboli?

«Non intendo certo rispon­derle che si tratta di un accordo privo di pro­blemi. Offre, tut­ta­via, una base di sta­bi­lità per fare in modo che ci sia la ripresa, dal momento che la dina­mica di svi­luppo dell’economia, in pas­sato, è stata sem­pre fre­nata. Il poter riu­scire a far svi­lup­pare, appunto, que­sta dina­mica, l’alleggerimento del debito (che è già ini­ziato per quel che riguarda le sca­denze imme­diate e con­ti­nuerà per quelle a più lungo ter­mine), assieme alle risorse per gli inve­sti­menti che arri­ve­ranno nel pros­simo periodo (dai fondi comu­ni­tari, dai finan­zia­menti da ban­che di inve­sti­menti e piano Junc­ker) e riforme-base (dal sistema fiscale sino allo stato sociale) pos­sono creare le con­di­zioni per il soste­gno di chi è più in dif­fi­coltà. Chie­diamo il man­dato popo­lare esat­ta­mente per rea­liz­zare que­ste condizioni».

Syriza con­ti­nua ad essere un par­tito della sini­stra o potrebbe tra­sfor­marsi in una forza di cen­tro­si­ni­stra, in un «Pasok 2.0»? Lotta ancora con­tro l’onnipresente finanza e il pre­do­mi­nio tede­sco in Europa?

«Syriza era e rimane un par­tito di sini­stra, che lotta per gli inte­ressi dei più deboli, e defi­ni­sce se stessa con chia­rezza nei con­fronti della social­de­mo­cra­zia. Siamo riu­sciti a creare delle crepe nel fronte euro­peo dell’austerità. Dopo le ele­zioni, con la forza che ci darà il popolo greco, con­ti­nue­remo a lot­tare affin­ché que­ste crepe diven­tino una frat­tura, e in una rot­tura defi­ni­tiva con le poli­ti­che che hanno por­tato alle vie senza uscita in cui si è tro­vata la Gre­cia ma anche tutta l’Europa».

«L'impresa di Tsipras può non apparire e non essere disperata dipende anche e molto dalla capacità di rompere quell'isolamento internazionale che nella trattativa l'ha vista fronteggiare da sola 18 avversari. I quali non sono più uniti come prima. A maggiore ragione l'altra Europa deve stringersi attorno a Tsipras, o meglio a quello che rappresenta.».

Huffington post, 22 agosto 2015

La decisione di Alexis Tsipras di dimettersi e di andare alle elezioni anticipate fa parecchio discutere e qualcuno dice di essere stato colto di sorpresa. Non c'è da stupirsi che questo accada in un continente come il nostro così disabituato ormai a frequenti pronunciamenti popolari diretti. Eppure Tsipras non aveva mai nascosto la probabilità di una soluzione del genere.

Aveva di fronte due scelte: o accettare l'invito di Schauble a una Grexit che in realtà avrebbe significato l'uscita definitiva della Grecia dall'euro o compiere parecchie rinunce pur di rilanciare la discussione sul debito greco nel suo complesso.

Ha scelto questa seconda strada. L'accordo è tutt'altro che bello e gli spazi per resistere ai suoi lati peggiori e più invasivi sono davvero stretti. Ma questo la leadership greca, eccezione si può dire unica rispetto alla retorica dominante dei governi europei, non lo ha nascosto né al popolo né al parlamento.

Il prezzo pagato è probabilmente quello di una scissione di Syriza, tutt'altro che indispensabile e auspicabile. Proprio nel momento in cui il fronte avversario si divideva, con il Fmi a sostenere che è necessario un taglio nominale del debito greco altrimenti insostenibile (tesi affermata dai greci fin dall'inizio); con Olanda e Finlandia che da falchi si son fatte colombe (almeno per ora); con le preoccupazioni tedesche ed europee che si spostano, o dovrebbero farlo, assai più sulle conseguenze della tripla svalutazione della divisa monetaria cinese (basta vedere che l'auto tedesca già esporta un 30% in meno in Cina).

Ma ha ragione Tsipras: una fase si è chiusa, se ne apre un'altra e il governo ha bisogno di un mandato popolare forte e rinnovato. In autunno il punto sarà l'apertura della trattativa sulla ristrutturazione /riduzione del debito. E' una questione che non riguarda solo la Grecia ma i debiti sovrani di tutti paesi europei. Anche il nostro, se avessimo un governo all'altezza.

Ha ragione, tra l'altro, il governo greco a chiedere una presenza nella trattativa del Parlamento europeo in quanto tale, unica istituzione effettivamente elettiva della Ue.

Ma una trattativa di questo genere, come la resistenza agli aspetti più odiosi dell'accordo che ha sbloccato gli 86 miliardi (che in gran parte tornano ai creditori istituzionali), non si può fare senza un popolo e un paese coesi. Tsipras lo sa bene, perché lì è sempre stata la sua forza. Un conto è aprire e reggere una divergenza con Varoufakis - che peraltro, a quanto si sa, non ha voluto fare parte del nuovo schieramento che si sta formando contro Tsipras - nel pieno rispetto delle opinioni di ognuno, un altro è caricarsi sulle spalle un paese e traghettarlo oltre la peggiore crisi economica e sociale della su storia. Per questa ragione il passaggio elettorale era ed è ineludibile.

Del resto questo è il modo migliore e più inequivocabile per rispondere a chi tentava di delegittimare la leadership di Tsipras, mettendone in dubbio la effettiva rappresentatività - come le élite europee che hanno cercato in ogni modo di "farlo fuori" - e nello stesso tempo di replicare nei fatti a chi - all'interno stesso di Syiriza - avanzava accuse di cedimento se non di tradimento.

Ora ognuna e ognuno è di fronte alle proprie responsabilità. Anche la sinistra europea. Non certo la socialdemocrazia che, come nel caso tedesco, ha fatto a gara ad essere più realista del re nel bastonare il debitore greco. Non certo il partito di Renzi che nella sostanza e al dunque ha sempre appoggiato la Merkel. Ma quella che si è venuta raccogliendo attorno alle nuove esperienze di verticalizzazione politica di movimenti sociali che tornano a tormentare i sonni delle oligarchie di governo, dalla Spagna all'Inghilterra, pur con diverso peso e incidenza politico-sociale.

Se l'impresa di Tsipras può non apparire e non essere disperata dipende anche e molto dalla capacità di rompere quell'isolamento internazionale che nella trattativa l'ha vista fronteggiare da sola 18 avversari. I quali non sono più uniti come prima. A maggiore ragione l'altra Europa deve stringersi attorno a Tsipras, o meglio a quello che rappresenta. Se vuole vincere nelle prossime prove nei rispettivi paesi, cambiando così il volto politico e sociale dell'Europa stessa e salvandola da una sua implosione.

Tutto vero, tutto giusto. Parole condivisibili, gioielli in un mare di chiacchiere. Ma un risvolto rivelatore d'una situazione drammatica: per combattere l'antistato non si fa ricorso alla laicità della politica e all'autorità di chi abbiamo eletto, ma alla religione e all'autorità del papa. L

a Repubblica, 22 agosto 2015

GRAN rumore per il funerale di Vittorio Casamonica. Ma sono scene che non dovrebbero sorprendere. Stupore per cosa? Perché un boss viene celebrato come un re? Perché il rito del funerale si trasforma in una oscena manifestazione di potere?

Non bisogna farsi illusioni. La partecipazione di quella piccola folla nella periferia romana è stata sincera, non è stata costretta né spinta dalla curiosità per la morte di una celebrità o dalla voglia di partecipare a un evento. Si va ad omaggiare don Vittorio Casamonica perché don Vittorio anzi Zio Vittorio ha saputo “governare” il suo regno nascosto, è stato presente nelle vite di chi lo va a salutare.

Le organizzazioni criminali sono strutture serie in grado di organizzare il consenso, mantenere la parola, distribuire ricchezze, intervenire nel momento in cui non solo gli affiliati ma il proprio territorio ha necessità. Nel vuoto dello Stato esiste un anti-Stato criminale che riesce a generare consenso tra la sua gente anche se il suo “governo” vuol dire estorsioni, usura, droga, violenza. È un anti-Stato in grado di portare soldi, e molti, ai capi ma anche diffusione di benessere e controllo del territorio. È paradossale dirlo, ma è vero: se domani l’economia criminale sparisse da questo Paese, il Paese ne avrebbe un contraccolpo non solo economico ma organizzativo. La classe dirigente mafiosa in Italia ha una sua terribile efficienza.

Ecco perché il funerale di un capo-clan non è semplicemente una messa in scena, un’ostentazione kitsch di opulenza e dominio. Tutt’altro: i Casamonica sono una mafia emergente, emergente non perché sono dei novizi ma perché dopo decenni di crimine subalterno e gangsteristico hanno cercato di strutturarsi in regole e gerarchie e hanno quindi costruito una cultura ed un’economia mafiosa attorno al proprio sangue e al proprio gruppo. L’ambiguità di criminali di piccolo cabotaggio ma tutto sommato in grado di farsi ascoltare in borgata li ha resi interlocutori della politica (la cena con Poletti e le foto con Alemanno) al punto da potersi permettere di sedersi al tavolo stesso del Palazzo come borderline tra la strada — il carcere e il (finto) impegno sociale. Quindi i Casamonica come tutti i gruppo neo-mafiosi hanno bisogno come ossigeno di queste celebrazioni. Anche la musica del Padrino è il riferimento più chiaro a chi vuole in tutti modi mostrare che è uscito dal marciapiede e dai campi e si è eletto a gruppo mafioso.

La chiesa di papa Francesco ha scomunicato i mafiosi, ha spinto ‘ndranghetisti in carcere a non presentarsi alla messa temendo che il solo partecipare potesse significare agli occhi dei vertici dell’organizzazione una dichiarazione di distanza dalle cosche. Ora la chiesa di Francesco deve fare un nuovo passo: commissariare la chiesa di San Giovanni Bosco. Non so se le regole vaticane prevedono misure simili, non so se è il termine adatto, non mi riferisco al diritto canonico. Sarebbe però un gesto in grado di interrompere il legame tra sacramenti religiosi e sacramenti mafiosi. Il sacramento mafioso è l’utilizzo dei rituale religioso per avere un’investitura pubblica, per trovare uno spazio legittimo per manifestare se stessi e la propria forza e autorità. Don Peppino Diana ne fece la sua battaglia: quella di impedire che battesimi, comunioni, cresime divenissero occasioni di autocelebrazione criminale. Fu proprio questa sua scelta che lo condannò a morte.

Il parroco che ha celebrato il funerale di Vittorio Casamonica, don Giancarlo Mattei, risponde nel più classico dei modi: «Non sapevo chi fosse». E ha aggiunto: «Il perdono c’è per tutti. La chiesa non discrimina, io l’assoluzione la do a tutti». Strano: la stessa chiesa che ha spalancato le porte al clan Casamonica le ha chiuse invece a Welby “colpevole” di aver scelto di lasciare una vita diventata per lui insopportabile. Questa volta il sacerdote ha deciso invece di celebrare il funerale. Bene. Ma avrebbe dovuto rifiutarsi di farlo quando si è trovato di fronte ad un teatro del genere. La scomunica di papa Francesco non è contro l’uomo, non si rivolge all’individuo. La scomunica non è all’assassino, all’estorsore, all’affiliato, al sindaco corrotto, al giudice compromesso, al boss, la scomunica è contro chi continua a sostenere l’organizzazione. La scomunica è all’assassinio, all’estorsione, alla tangente, alla corruzione quindi alla prassi mafiosa.

Ieri quel funerale è apparso come pura prassi mafiosa. L’assoluzione che doveva andare all’uomo è stata estesa, di fatto, al suo sistema di potere criminale.

Roma è una città impreparata. La trasformazione è accaduta raccontandosi la menzogna di essere territorio immune, semplicemente “invaso” da rubagalline e bande. La stessa favola che vede piangere miseria le donne dei Casamonica nella perfetta tradizione mafiosa, nella quale i grandi capi risultavano essere dipendenti di fruttivendoli, si dichiaravano semplici contadini con una giovinezza di rubamacchine. Roma ha sempre creduto di essere estranea alle dinamiche mafiose. Del resto il suo gruppo più forte si chiamava appunto “Banda della Magliana”, banda è qualcosa di molto diverso da una cosca mafiosa. Ma l’inchiesta su Mafia capitale ha obbligato la città a un brusco risveglio. I funerali di giovedì sono una allarmante conferma di cosa rischia di diventare la prima città d’Italia. Anzi di cosa è già: terra di mafia.

Se domani l’economia criminale sparisse l’Italia accuserebbe il colpo

Ora la Chiesa di Francesco deve occuparsi della chiesa romana di Don Bosco

”Ó


Tsipras: «realisti E rivoluzionari»
di Teodoro Andreadis Syngellakis

Atene. La Prossima Settimana s'insedia, Venire Prevede la Procedura costituzionale, il Governo elettorale Affidato alla presidente della Corte di Cassazione. Nuova Democrazia Tenta un'azione di Disturbo per allungare i Tempi. Anche Lafazanis sfrutterà la Consultazione per ritardare la delle Elezioni Dati. Per ora resta Quella del 20 settembre

Le consultazioni del Presidente della Repubblica, Prokopis Pavlopoulos, Sono Già iniziate. Alexis Tsipras ha rinunciato. Ovviamente, provare UN UN Formare un nuovo Governo, per iniziare Lontano, invece, il prima possibile, la campagna elettorale. Il presidente di Nuova Democrazia, tuttavia, Vanghelis Meimarakis, ha Scelto di Fare l'Esatto contrario e di Tenere l'Incarico per Tutti e tre giorni Previsti, Anche sino a domenica.

Meimarakis sta provando, per Quanto Gli Possa riuscire, un Mettere Tsipras in difficolta, Conscio del fatto che la compagine dei Conservatori non ha nessuna reale possibilita di Vincere le Elezioni.

Ha incontrato, quindi, Zoì Konsantopoulou, (la presidente del parlamento Che ha espresso la ferma contrarietà SUA all'accordo con i creditori), «per esplorare Vai Vai EVENTUALI vie Che portino alla Formazione di un nuovo Governo, senza dover Tornare alle urne». Ha parlato con il responsabile del nuovo Partito Anche centrista, Il Fiume, Stavros Theodorakis, e domani si Incontrera con i Socialisti e il capo della nuova Formazione di Sinistra, Unità Popolare, di Panajotis Lafazanis.

Un'azione di Disturbo, quindi, priva di reali possibilita i Successo, ma finalizzata al Tentativo di gran lunga Guadagnare un po 'di Visibilità Una Nuova Democrazia, priva di una leadership carismatica Una Una e collegata, nell'immaginario collettivo, in un fallimentare Gestione della Crisi economica. «Inviterò Tsipras nel mio ufficio e Gli chiederò Perché, alla fine, non ha Seguito la via del voto di Fiducia, e cosa intenda la cavano DOPO EVENTUALI Le Elezioni anticipare», Così Meimarakis ÅI giornalisti.

E Evidente Che anche Lafazanis, sfrutterà L'occasione e accetterà l'Incarico Che, Secondo quanto Prevede la Costituzione, Gli dovra Essere conferito dal presidente greco. Unità Popolare, infatti, conta Venticinque Deputati, e Il terzo gruppo Parlamentare e ha diritto Una Ricevere l'Incarico, dal Momento Che la Costituzione greca Prevede Che Passano provare un Formare un nuovo Governo i leader di di delle tre Principali Forze Politiche del paese.

Con La nascita di Laiki Enotita - Unità Popolare, rimangono fuori Dai giochi SIA Il Fiume, SIA i neonazisti di Alba Dorata, che contano, entrambi, diciassette Deputati. Fonti Vicine al primo ministro greco, ritengono comunque possibile Ancora Andare al voto il 20 settembre, con La Creazione, Entro La Prossima Settimana, di un Governo elettorale, presieduto Dalla presidente della Corte di Cassazione.

Per Quel che riguarda La strategia di Syriza, Alexis Tsipras ha Preso parte, ieri, alla Riunione della segreteria politica del Partito, nel corso della quale ha sottolineato che sì DEVE puntare ad un nuovo, profondo rapporto con la Società, Utenti privatizzazione il video Silla forza dell 'ideologia della sinistra radicale, ma senza Coltivare volutamente delle illusioni.

«Essere rivoluzionari non significa ignorare o negare la Realtà, ma APRIRE Nuove strade in cui non esistono», ha Detto Tsipras. Insiste, cioè, nel Voler coniugare realismo ed Azione La politica di Sinistra, per cercare di cambiare Gli equilibri in Europa, "dall'Interno", senza rinunciare alla Responsabilità Ed alla sfida di Governo. E Syriza Mantiene i Suoi strettissimi legami con Podemos.

Il numero uno causa della Formazione della Sinistra spagnola, Íñigo Errejón, in Una Conferenza stampa convocata per commentare la decisione del premier greco di Andare annuncio Elezioni anticipare, ha ribadito il Che «Alexis Tsipras ha data Una lezione di coraggio, Responsabilità e Fiducia al Suo popolo », Anche se ha Definito Una« cattiva notizia », la scissione all'interno della Coalizione della Sinistra radicale Ellenica.

D'altronde, Gia Pablo Iglesias, Nei giorni scorsi, AVEVA ribadito l'appoggio ad Alexis Tsipras, DOPO Che parte della stampa greca AVEVA scritto Che il trentaseienne politico spagnolo, DOPO il compromesso della Grecia con i creditori, avrebbe DECISO di TOGLIERE dal Suo Profilo Twitter, Una SUA foto con il primo ministro greco.

La comunanza di intenti ed il forte rapporto con Podemos, sta un confermare la Volontà di Syriza di non perdere le Caratteristiche Di Una forza radicale, Che continuerà Una Tariffa tutto il possibile per Combattere il predominio della Finanza e l'Europa un predominio Tedesco.

La questione, tuttavia, vieni Fanno Notare stretti collaboratori del capo del Greco E Essere Capaci di creare- giorno per giorno- le Condizioni Perché questo Possa avvenire Realmente, e non Voler Giocare Il Ruolo della Vittima sacrificale, da solista per difendere la propria purezza ideologica .



VAROUFAKIS: «NON Staro CON SYRIZA,
LAVORO A UNA SINISTRA EUROPEA ANTI-MEMORANDUM»
di Andrea Mastrandrea
Grecia. 25 Deputati con Unità popolare di Lafazanis: pronti Anche un Uscire dall'euro. Sono la terza forza in Parlamento
Nel giorno in cui da Una costola di Syriza nasce la terza forza Parlamentare della Grecia, Yanis Varoufakis se ne va Una tessere la tela SUA politica in Francia, alla tradizionale festa estiva del Partito socialista a Frangy-en-Bresse. A invitarlo e La Sinistra anti-austerità capeggiata dall'ex ministro dell'Economia Arnauld Montebourg, Che Vuole Tariffa la guerra all'ala liberale del premier Manuel Valls. Dichiarazione d'intenti Una, forse, che parla un Valls Perché Tsipras intenda, ma forse pure alla neonata Unione popolare di Panagiotis Lafazanis, più Apertamente antieuropeista.

La Domanda del Giorno e infatti con chi staranno Varoufakis e Un'altra protagonista dei Mesi di Governo Syriza: La Presidente del Parlamento Zoe Konstantopoulou. Nella lista dei 25 Deputati finiti nel nuovo gruppo Messo in Piedi Dalla Piattaforma di Sinistra spiccano infatti le Loro assenze. Vuol dire Che rimarranno dentro Syriza, pur su POSIZIONI contrarie ad Alexis Tsipras? Non proprio. Konstantopoulou E bloccata dal Suo Ruolo istituzionale, ma difficilmente rimarra al Seguito del primo ministro, con il quale e entrata Più Volte in rotta di collisione.

Diverso Il discorso per Varoufakis: l'ex ministro delle Finanze Non è mai Stato Vicino Alle POSIZIONI DEGLI anti-europeisti e non ha Fatto mistero di Voler Lavorare alla costruzione di Una Sinistra Europea anti-austerità (e non nazionale), Venire Dimostra la Partecipazione Al meeting francese. Anche se alla multa le POSIZIONI potrebbero Anche convergere, Visto Quanto Varoufakis ha detto ieri in un'intervista Pubblicata ieri dal Nouvel Observateur (ma probabilmente rilasciata quando il Governo Tsipras epoca Ancora in sella). «ABBIAMO tradito la grande Maggioranza del popolo greco. Non potrei Lontano parte di un Governo e di un Partito Che chiedono un Mandato popolare per applicare l'Accordo del 13 luglio », ha Detto con la consueta chiarezza.

Per Quel che riguarda il Suo impegno politico, invece, l'economista greco ha spiegato: «Rimarrò Attivo politicamente Perché le Questioni del Debito e dell'austerità devono Essere pensate al Livello Europeo. Se Non C'è un Movimento Europeo per democratizzare la zona euro, Nessun popolo Europeo Vedrà giorni Migliori. Ci Rimane da Combattere Una battaglia Fondamentale ».

Una Prospettiva Diversa da Quella enunciata da Lafazanis. L'ex ministro dell'Energia, annunciando ieri la scissione da Syriza e La nascita di Unità Popolare, ha Annunciato esplicitamente Che «per sbarazzarci del Memorandum siamo pronti anche annuncio Uscire dall'euro in maniera controllata» e per Loro Che «non c ' E L'inferno fuori dall'Eurozona ». Poi ha Fatto appello al popolo del no («non Sarà Orfano in QUESTE Elezioni») e alle Altre Forze Politiche anti-Memorandum, Dai Comunisti del Kke alla piccola Formazione della Sinistra antagonista Antarsya, per Entrare un Lontano parte del fronte anti-Memorandum costruzione . Un appello Già respinto al mittente Dai primi e il Che con OGNI Probabilità Sarà Raccolto Dai Secondi.

Ma il vero Fatto negativo per le sinistre europee Il Il Rinascenti E L'esplosione di Syriza. Oltre ai 25 di Deputati finiti in Unità Popolare e AI Dubbi su Konstantopoulou e Varoufakis, Altri quattro Parlamentari ieri si Sono dichiarati Indipendenti (TRA QUESTI l'ex viceministro Nadia Valavani), MENTRE L'emorragia si diffonde ora Agli organi dirigenti del Partito e inevitabilmente si allargherà alla base: già ieri si Sono dimessi tre Esponenti del Comitato centrale in quota Piattaforma di Sinistra. Ho Mal di pancia, anche nell'era Quella Che la Maggioranza di Syriza, Sono MOLTI: si imputa un Tsipras Il Fatto di non Aver voluto Incontrare Gli organi dirigenti di Syriza DOPO L'Accordo di luglio e di Aver DECISO in autonomia, con un ristretto Personale, la strada da SEGUIRE. E la decisione di Andare alle urne Azzera puro il Previsto congresso, il Che però difficilmente sarebbe riuscito a Portare indietro le lancette degli orologi.

Del resto, era lo Stato Stesso premier alla multa di luglio un dichiarare esaurito Il Progetto della Coalizione della Sinistra radicale, «pluralista e polifonico», radio un'intervista Kokkino, Nella quale AVEVA sostenuto Che «Syriza Non E Fatta per Governare» e anticipando Così la SUA Evoluzione in forza di Governo. Comunque vada a finire, il RISULTATO Che ci consegna questa prova di forza agostano e La Probabile multa del "modello Syriza" venire l'ABBIAMO conosciuto finora, un Esempio vincente di Ricostruzione Di Una Sinistra dal basso (le lotte Sociali, le Esperienze di Mutuo Soccorso, il radicamento territoriale) e Che riesce a farsi forza delle Diversità. Un esperimento COSTRUITO NEGLI anni della Crisi e Guardato con interesse nel resto d'Europa, Ma che sì E sciolto vengono Sole Neve al nel Pochi mesi di Governo. Debutta Un'altra stagione, e siamo Assolo Agli Inizi.

Dopo le critiche di un prelato alla politica dei nostri anni, ecco una voce ragionevole da una stanza del Palazzo. Maria Cristina Carratù intervista Enrico Rossi.

La Repubblica, 22 agosto 2015

FIRENZE. «Trovo stupefacente la reazione della politica alle osservazioni di monsignor Galantino, neanche le avesse fatto un esorcismo... Invece il segretario della Cei l’ha semplicemente richiamata al suo compito alto e nobile, fuori dal teatrino di tutti i giorni». Enrico Rossi, governatore della Toscana, è una delle poche voci che in questi giorni hanno difeso il segretario dei vescovi italiani, attaccato da destra e da sinistra per le sue critiche all’attuale modo di fare politica (“un puzzle di ambizioni personali all’interno di un piccolo harem di cooptati e di furbi”) e che ieri ha battuto un altro colpo al Meeting di Rimini. E ci tiene a sottolinearlo: «Non sono cattolico, non sono mai stato un democristiano, ma vengo da una tradizione comunista, e sarà forse per questo che col mondo cattolico sono capace di dialogare senza demonizzarlo». Cosa che, dice Rossi, «dovrebbe fare anche una sinistra a cui stesse davvero a cuore il cambiamento».

Le parole di Galantino sono state lette anche come un attacco al governo guidato Renzi.«Reagire come se tutto fosse riducibile a una questione di lesa maestà non ha senso. Non a caso Renzi, giustamente, ha taciuto».

E allora quale significato hanno le “stoccate” del segretario della Cei?
«Basta leggere tutto il discorso su De Gasperi per capire che non ce l’aveva affatto con la politica in sé, ma con la politica ridotta a ricerca del consenso, a marketing, puro pragmatismo. E che, anzi, proprio riconoscendo il ruolo cruciale della politica nella società, l’ha invitata a rimettere al centro il bene comune, ritrovare una forte dimensione ideale ed etica, che è poi quello che chiede la gente, e direi anche gran parte degli elettori del Pd. E’ una sfida lanciata a tutti, nessuno escluso, non a un governo o a una parte politica».

Molti hanno però avvertito una ingerenza dei vescovi, con un cambio di rotta rispetto allo stile “neutralista” di papa Francesco.
«Una vera bestialità. La Chiesa ha tutto il diritto di dire la sua, anche quando si attesta su posizioni arretrate, e di ricevere risposte di merito, anziché di annientamento dell’avversario, come invece è avvenuto. La destra è stata sguaiata. Ma anche dal Pd sono venute repliche segnate dal risentimento. Dobbiamo invece riconoscere che Galantino ha ragione: la politica non ha più una prospettiva ideale, pensa solo a difendere se stessa. Vogliamo accusare i vescovi di ingerenza anche quando parlano di immigrazione, lavoro, ambiente? Al contrario, se la sinistra non si misurerà con questi temi proprio nel senso indicato dalla Chiesa, è destinata ad assomigliare sempre più alla destra».

Articoli di Teodoro Syngellakis e Angelo Mastrandrea sulla crisi di Syriza e le dimissioni di Tsipras. le divisioni sono il prezzo che tutte le sinistre sembrano dover pagare tutte peri loro ritardi storici.

Il manifesto, 21 agosto 2015


TSIPRAS LASCIA:
«PER UNA GRECIA PIÙ GIUSTA»
di Teodoro Syngellakis

Provaci ancora. Un’altra svolta, dopo il summit con ministri e Syriza. Dimissioni da premier e urne aperte il 20 settembre. La «transizione» a una donna magistrato. Sette mesi dopo il voto che lo ha portato al governo e a un mese dal referendum, il leader greco incassa i prestiti e chiede al paese di rinnovargli il mandato per governare

Ale­xis Tsi­pras ha voluto seguire con deci­sione la via che porta alle ele­zioni anti­ci­pate, il pros­simo 20 set­tem­bre. Alla riu­nione in cui si è deciso il ricorso anti­ci­pato alle urne hanno preso parte tutti i più stretti col­la­bo­ra­tori del pre­mier greco: il mini­stro alla pre­si­denza Nikos Pap­pàs, il capo­gruppo di Syriza alla camera, Nikos Filis, il mini­stro per il rias­setto pro­dut­tivo Panos Skourletis.

«Non si tratta dell’accordo che avremmo voluto, ma senza il soste­gno e la resi­stenza dimo­strata dal popolo greco, i cre­di­tori ci avreb­bero por­tato alla cata­strofe, o avreb­bero impo­sto total­mente la loro linea», ha sot­to­li­neato Tsi­pras, nel suo discorso di quat­tor­dici minuti, tra­smesso ieri sera dalla tele­vi­sione pub­blica Ert.

Secondo il lea­der greco, il paese sta ini­ziando ad uscire da una situa­zione molto dif­fi­cile, e «lot­terà per ridurre al minimo gli effetti nega­tivi del com­pro­messo, dirà no a tagli lineari, alle bar­ba­rie nella legi­sla­zione sul lavoro, com­piendo ogni sforzo per ricon­qui­stare pie­na­mente la pro­pria sovra­nità nazio­nale». Una forte stoc­cata è anche arri­vata all’indirizzo della mino­ranza interna del par­tito, che non ha soste­nuto, in par­la­mento, l’accordo con le isti­tu­zioni cre­di­trici: «Con il voto giu­di­che­rete anche chi vor­rebbe dei pre­stiti pas­sando alla dracma e, con incoe­renza, ha tra­sfor­mato un governo eletto pochi mesi fa, in una mino­ranza parlamentare».

Tsi­pras, infine, ha ricor­dato gran parte delle misure adot­tate in que­sti sette mesi di governo. Dalla ria­per­tura della tele­vi­sione pub­blica Ert, alla pos­si­bi­lità, per i cit­ta­dini, di sal­dare in cento rate men­sili i debiti verso lo stato, fino alla legge che dà la cit­ta­di­nanza greca ai figli degli immigrati.

Nel suo com­plesso, la stra­te­gia è chiara: gio­care l’effetto sor­presa, potersi gio­vare del vasto appog­gio popo­lare di cui con­ti­nua a godere Tsi­pras, rite­nuto da gran parte dei greci un poli­tico one­sto, che cerca di fare del suo meglio per uscire da una situa­zione al limite della dispe­ra­zione Una situa­zione in cui il paese si è venuto a tro­vare, prin­ci­pal­mente, per respon­sa­bi­lità del cen­tro­de­stra di Nuova Demo­cra­zia, ma anche dei socia­li­sti del Pasok, che si sono alter­nati al governo per quarant’anni. Ovvia­mente, la scelta di dimet­tersi per andare, così, ad ele­zioni anti­ci­pate, secondo molti osser­va­tori, è con­di­zio­nata anche dal altri due ele­menti : cer­care di ridurre la pos­si­bi­lità della mino­ranza interna di Syriza– della Piat­ta­forma di Sini­stra– di potersi orga­niz­zare in vista delle ele­zioni e cogliere di sor­presa, per quanto pos­si­bile, anche tutti i par­titi dell’opposizione.

Secondo quanto fil­tra dall’ambiente dell’ex mini­stro Pana­jo­tis Lafa­za­nis, la Piat­ta­forma di Sini­stra ha già avviato, comun­que, molti con­tatti per la for­ma­zione delle liste di un movi­mento auto­nomo, il quale dovrebbe avere come punto car­dine l’opposizione alle poli­ti­che di auste­rità e dei memo­ran­dum di intesa con i cre­di­tori. Biso­gnerà vedere, ovvia­mente, quali spazi poli­tici pos­sono venirsi a creare, nello spa­zio tra Syriza e il par­tito comu­ni­sta “orto­dosso” Kke, per una nuova for­ma­zione come questa.

Secondo quanto ripor­tano molti ana­li­sti greci, Ale­xis Tsi­pras avrebbe voluto andare ad ele­zioni anche il 13 set­tem­bre, ma, dopo una breve veri­fica, si è con­sta­tato che non ci sareb­bero stati i tempi tec­nici neces­sari. Lunedì dovrebbe giu­rare un governo pre­sie­duto, molto pro­ba­bil­mente, dalla pre­si­dente della Corte di Cas­sa­zione, che por­terà il paese alle urne, come pre­vede la costi­tu­zione greca. Va inol­tre ricor­dato un altro ele­mento di pri­ma­ria impor­tanza: in caso di ele­zioni legi­sla­tive anti­ci­pate, con­vo­cate entro diciotto mesi dall’ultima tor­nata elet­to­rale, i tre­cento depu­tati del par­la­mento greco non si eleg­gono con le pre­fe­renze, ma con delle liste pre­pa­rate dai par­titi. È chiaro, quindi, che i dis­si­denti che doves­sero deci­dere, al momento, di non uscire da Syriza, avreb­bero, comun­que, ben poche pos­si­bi­lità di venire rican­di­dati. Tutti gli espo­nenti vicini a Tsi­pras, nelle ultime ore hanno fatto sen­tire il loro soste­gno, riguardo alla neces­sità di andare nuo­va­mente alle urne. «Ci vuole una nuova legit­ti­ma­zione popo­lare», secondo il mini­stro dell’interno Nikos Vou­tsis, men­tre anche il respon­sa­bile del dica­stero per la rior­ga­niz­za­zione pro­dut­tiva, Skour­le­tis, ha ricor­dato che la fidu­cia popo­lare deve essere rin­no­vata, dal momento che «Syriza, in que­sta fase, è chia­mata ad attuare un pro­gramma per il quale non è stata eletta».

Quanto al fronte dell’opposizione, il cen­tro­de­stra di Nuova Demo­cra­zia ed i socia­li­sti del Pasok potreb­bero cer­care di indi­vi­duare alcuni punti pro­gram­ma­tici da su cui insi­stere di comune accordo, ma è stata esclusa a priori qua­lun­que forma di col­la­bo­ra­zione a livello di liste e can­di­dati, dal momento che, secondo quanto dispone la legge elet­to­rale greca, non potreb­bero, comun­que, gio­varsi del pre­mio di maggioranza.

Si torna alle urne, quindi, dopo la vit­to­ria di Syriza del 25 gen­naio scorso, con il 36,3% dei voti e 149 seggi. Dopo una trat­ta­tiva di quasi sette mesi, inter­rotta per­ché si potesse tenere il refe­ren­dum del 5 luglio scorso, quando il 61,3% dei greci ha chie­sto la fine delle poli­ti­che di auste­rità. Ora Tsi­pras chiede ai greci di rin­no­var­gli la fidu­cia, «per­ché i giorni migliori non li abbiamo ancora vissuti».

L’ALTRA SYRIZA: «UN NUOVO INIZIO»di Angelo Mastrandrea

Grecia. Lafazanis durissimo contro Tsipras. L’incognita Konstantopoulou e Varoufakis. Non ci sarà neppure un congresso. Da oggi gruppi separati, nascerà un «Fronte anti-Memorandum»

Il primo passo dei dis­si­denti sarà l’uscita dai ran­ghi di Syriza e la for­ma­zione di un auto­nomo gruppo par­la­men­tare. Paral­le­la­mente vedrà la luce, nei tempi rapidi indotti dal pre­ci­pi­tare della crisi di governo, quel fronte anti-Memorandum al quale ave­vano fatto appello, appena una set­ti­mana fa, dodici per­so­naggi di altret­tante orga­niz­za­zioni della sini­stra isti­tu­zio­nale ed extra­par­la­men­tare. Sarà il «nuovo ini­zio» del quale ha par­lato l’altro ieri il lea­der della Piat­ta­forma di sini­stra Pana­io­tis Lafa­za­nis, una forza poli­tica «di sini­stra e patriot­tica» che si rivol­gerà a tutto il popolo che ha votato «no» al refe­ren­dum. Le parole duris­sime dell’ex mini­stro dell’Energia hanno rap­pre­sen­tato forse la goc­cia che ha fatto tra­boc­care il vaso per Ale­xis Tsi­pras, indu­cen­dolo a rom­pere gli indugi e spiaz­zare tutti indi­cendo ele­zioni anti­ci­pate subito dopo aver rim­bor­sato 3,2 miliardi di euro alla Bce e aver rica­pi­ta­liz­zato le ban­che per dieci miliardi, met­tendo in sicu­rezza la Gre­cia. «Il governo ha vol­tato le spalle ai prin­cipi e alle lotte di migliaia di mem­bri e fun­zio­nari di Syriza, non­ché alle spe­ranze del mondo demo­cra­tico pro­gres­si­sta», aveva detto Lafazanis.

Una rot­tura che era nell’aria, che spacca tra­sver­sal­mente Syriza e pro­vo­cherà lace­ra­zioni umane forti e pro­blemi pra­tici di non poco conto, per un par­tito all’antica, com­po­sto di sezioni e mili­tanti, molto radi­cato nei quar­tieri così come nelle orga­niz­za­zioni sociali (basti pen­sare alle decine di ambu­la­tori e far­ma­cie autor­ga­niz­zate nate negli anni della crisi). Non è solo una forza poli­tica che va in crisi, ma un modello vin­cente sia sul piano interno che per le rie­mer­genti sini­stre euro­pee: una coa­li­zione «poli­fo­nica e con­trad­dit­to­ria» come ama­vano defi­nirla, capace in pochi anni di diven­tare il primo par­tito della Grecia.

A poco è ser­vito l’appello del novan­ta­duenne ex par­ti­giano Mano­lis Gle­zos, che pur cri­ti­cando radi­cal­mente le deci­sioni della diri­genza aveva invi­tato il par­tito a «rin­sa­vire» e discu­tere, con­vinto che un punto di media­zione si sarebbe tro­vato. Con chi si schie­rerà ora l’uomo che tirò giù la ban­diera nazi­sta dal Par­te­none? Cosa faranno la Pre­si­dente del Par­la­mento Zoe Kon­stan­to­pou­lou e l’ex mini­stro delle Finanze Yanis Varou­fa­kis, iper­cri­tici con il Memo­ran­dum fir­mato? Nomi pesanti che potreb­bero fare la dif­fe­renza, se schie­rati dall’una o dall’altra parte.

La deci­sione di Tsi­pras ha spaz­zato via pure i pon­tieri del par­tito, chi pen­sava fosse ancora rea­liz­za­bile la mis­sione impos­si­bile di man­te­nere unita la Coa­li­zione della sini­stra radi­cale. Ora sono chia­mati tutti a schie­rarsi o a tirarsi indie­tro, come ha annun­ciato ieri la depu­tata Maria Kanel­lo­pou­los, che non si rican­di­derà per­ché «non voglio par­te­ci­pare all’inevitabile guerra civile tra eser­citi di parte che si sca­te­nerà» e, dice, tor­nerà all’attivismo sociale. Le due Syriza si divi­de­ranno senza nep­pure con­fron­tarsi in un con­gresso: chie­sto da Tsi­pras all’indomani dell’Eurogruppo del 12 luglio (quello del «water­boa­ding men­tale»), è rima­sto stri­to­lato dal muro con­tro muro e dalla pro­ba­bile diser­zione della sini­stra interna. «Per­ché un’elezione indetta ad ago­sto, a tempo di record?» si chie­deva ieri il sito Iskra, house organ della mino­ranza, «la ragione è sem­plice e intui­tiva: il governo è pre­oc­cu­pato per le con­se­guenze del Memo­ran­dum, che si faranno sen­tire giorno dopo giorno. Ma c’è un altro motivo non tra­scu­ra­bile: sor­pren­dere la Piat­ta­forma di sini­stra, che non ha avuto il tempo di pre­pa­rarsi alle ele­zioni, e sba­raz­zarsi del no al referendum».

Chi non si dichiara sor­preso è l’inossidabile Kke: anche il segre­ta­rio del par­tito comu­ni­sta Kou­tsou­bias ha detto che un voto a così breve ter­mine serve per non far orga­niz­zare gli avver­sari, ma loro si dicono «pronti in qual­siasi momento». D’altronde sono stati tra i pochi a non andare in vacanza nep­pure un giorno: i suoi mili­tanti affi­liati al sin­da­cato Pame sono scesi in piazza sia nel giorno del voto del primo accordo, a luglio, che in quello di fer­ra­go­sto sul Memo­ran­dum.

Ma a pre­oc­cu­pare lo staff di Tsi­pras, e forse a spin­gerlo a for­zare i tempi, sono soprat­tutto i son­daggi: l’ormai ex pre­mier è ancora forte, ma i con­sensi sareb­bero un po’ in calo e l’applicazione delle
misure più dure del Memo­ran­dum rischie­rebbe solo di nuo­cer­gli. Da qui la deci­sione di gio­care d’anticipo e chie­dere ai greci un con­senso pieno.

Terminata la prima fase dell'avventura della Grecia si Tsipras di aprire un varco nell'Europa della finanza e svelarne il volto. Il seguito non può essere lasciato alla Grecia. Articoli di Valentina Conte ed Ettore Livini.

La Repubblica, 21 agosto 2015

SI È DIMESSO TSIPRAS
GRECIA AL VOTO TRA UN MESE
“HO LA COSCIENZA A POSTO”

di Valentina Conte
Il premier:la parola al popolo,decida se siamo nel giusto La Ue auspica ampio consenso.Arriva prima tranche aiuti
«Sono orgoglioso di quello che abbiamo fatto al governo», ha rivendicato Tsipras in tv. «L’Europa non è più la stessa dopo che Syriza è andata al potere», alla fine di gennaio. «Abbiamo portato il caso greco in tutto il mondo, siamo stati esempio per altri popoli. L’idea di porre fine alle misure di austerità sta prendendo piede, anche grazie a noi».
Il premier greco ha poi rivelato di aver chiesto al presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, con una lettera, «la sua partecipazione nel programma greco per affrontare in modo più democratico le nuove misure di austerità».
Proprio ieri, alcune ore prime delle dimissioni di Tsipras, nelle casse di Atene è arrivato il versamento da 13 miliardi del nuovo piano di salvataggio, un pezzetto della prima tranche approvata dal fondo salva-Stati Esm da 16 miliardi. Di questi, 3,2 miliardi sono serviti a rimborsare la rata con la Banca centrale europea, in scadenza ieri. Altri 7,16 miliardi per ripagare un prestito ponte concesso dai 28 paesi Ue a luglio. I restanti 3 miliardi giungeranno «al più tardi entro fine novembre, una volta che la Grecia avrà completato ulteriori azioni prioritarie». E serviranno per il rifinanziamento del debito e del bilancio dello Stato.

«Ho la coscienza a posto, in questi mesi ho combattuto per il mio popolo». Con queste parole ieri all’ora di cena, in diretta tv, Alexis Tsipras ha annunciato le sue dimissioni. L’ingegnere quarantenne, da neanche sette mesi alla guida del governo greco e a capo di una coalizione sinistra-destra Syriza-Anel, ha così deciso di ridare la parola ai cittadini, sperando di incassarne un mandato pieno. «I greci devono decidere se li ho rappresentati con coraggio davanti ai creditori e se questo accordo è sufficiente per una ripresa», ha poi spiegato il premier ateniese, riferendosi al terzo piano di salvataggio in cinque anni da 86 miliardi firmato con la troika (Bce-Fmi-Ue), approvato anche dai parlamenti di Germania e Olanda giusto due giorni fa, e ora sottoposto al giudizio degli elettori. «Non è quello che volevamo, ma il migliore possibile che potevamo ottenere, date le circostanze» e che «siamo obbligati a rispettare, ma combatteremo per mitigarne le conseguenze avverse», ha promesso Tsipras, visto che «potremmo essere entrati nella fase finale di questa difficile situazione».

D’altro canto «il mandato che ho ricevuto il 25 gennaio ha esaurito il suo limite, ora il popolo deve decidere di nuovo». E l’«obbligo morale a sottoporre quello che ho fatto al vostro giudizio» ha come unico obiettivo quello di ottenere «un forte mandato, un governo stabile e la solidarietà con la società che vuole le riforme in senso progressista».

La Commissione europea «prende nota dell’annuncio» in serata via twitter, dall’account della portavoce Annika Breidthardt. E sottolinea che «un ampio sostegno per il memorandum d’intesa» sul terzo piano di aiuti «e il rispetto degli impegni saranno chiave per il successo». Così anche il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem: «È cruciale che la Grecia mantenga gli impegni stretti con l’Eurozona». Più drastica l’agenzia di rating Moody’s, convinta che le dimissioni del premier greco e la convocazione di elezioni anticipate - con ogni probabilità previste per il 20 settembre - «potrebbero aumentare le preoccupazioni sull’attuazione del programma e potenzialmente metterne a rischio gli esborsi futuri».

COSÌ HA GIOCATO D’ANTICIPO
PER NON ESSERE TRAVOLTO
DAL CROLLO DI SYRIZA
di Ettore Livini

Il tempo, a volte, è tutto. E Alexis Tsipras, per evitare ai ribelli di Syriza (Yanis Varoufakis e Zoe Konstantopoulou compresi) e al centrodestra di organizzarsi, ha deciso di rompere gli indugi e portare la Grecia alle urne. A Bruxelles e Berlino in molti storcono il naso. Atene si era impegnata ad approvare entro ottobre un pacchetto di riforme pesanti, dalle pensioni ai tagli al welfare. E le elezioni accorciano i tempi a disposizione per l’ok e rendono più incerto il sì alle misure.

Il premier però aveva poche alternative. Il governo si è dissolto il 10 luglio, quando 39 deputati dell’ala radicale del suo partito hanno detto “no” al memorandum obbligandolo ad affidarsi a Pasok, Nea Demokratia e To Potami (da allora è successo a ogni voto) per ottenere il via libera in aula. La Ue e parte dell’esecutivo spingevano per tirare avanti così per qualche settimana, contando sull’appoggio dell’opposizione e formalizzando più avanti la scissione della sinistra con un congresso straordinario. Obiettivo: varare i primi provvedimenti d’austerità, superare lo scoglio della verifica con la Troika a ottobre e avviare i negoziati per la riduzione del debito, in modo da presentarsi poi alle urne forti dell’impegno dei creditori al taglio dell’esposizione.

Alla fine però, Tsipras ha preferito sparigliare le carte. L’arrivo dei primi 23 miliardi di aiuti mette il paese in sicurezza per qualche tempo. E gli uomini del suo cerchio magico l’hanno convinto che le elezioni a settembre, malgrado i mal di pancia di Schaeuble & c., sono la scelta giusta per capitalizzare sulla sua (presunta) popolarità prima che i greci sentano sulla loro pelle il peso dell’austerità targata Syriza.

Le incognite delle prossime settimane sono tante e il primo ministro - questa è la sua vera forza - è l’unico ad avere l’idee chiare: si presenterà ai cittadini dicendo che ha combattuto come poteva (cosa che sotto il Partenone gli riconoscono tutti) e che è stato costretto ad accettare un’intesa che non condivide. Promettendo che il giorno dopo le elezioni lotterà per ammorbidire l’austerità e combattere contro evasori e oligarchi per far pagare la crisi della Grecia a chi finora non ha sborsato un centesimo di tasca sua.

Gli crederanno i suoi concittadini? Gli ultimi sondaggi che risalgono a inizio luglio, dicono di sì: Syriza viaggia oltre il 30% dei consensi, a un soffio dalla maggioranza assoluta, Nea Demokratia è seconda ma al 18%. Numeri figli del carisma del presidente del Consiglio, più forte in apparenza delle promesse elettorali tradite e di una strategia negoziale suicida che ha ripiombato Atene in recessione.

I suoi avversari viaggiano in ordine sparso. I dissidenti della Piattaforma di sinistra guidati da Panagiotis Lafazanis avranno pochissimo tempo per organizzarsi. Difficile si arrivi a una pace tra le due anime di Syriza. Anche perchè la Costituzione consente a Tsipras di scegliere i candidati in lista, tagliando così fuori - se vuole - tutta l’opposizione interna. La probabile scissione darà vita così a un nuovo soggetto politico che per alcuni sondaggi informali è attorno al 5%. Varoufakis e Konstantopoulou, i due più carismatici rivali del pemier, hanno pochi punti di contatto con Lafazanis e potrebbero decidere di corre- re in proprio.

Nel caos è anche l’opposizione, che non è stata in grado di mettere sul piatto un leader alternativo. Nea Demokratia, spaccata in un conflitto generazionale e di correnti, ha affidato il dopo-Samaras a un reggente -Evangelis Meimarakis- affabile ma di scarso appeal elettorale. Stesso discorso per il Pasok, ridotto a percentuali da prefisso telefonico e guidato da Fofi Gennimata, che non pare essere riuscita a invertire la tendenza al ribasso dei consensi. To Potami, il partito riformista di centro di Stavros Theodorakis, naviga in terza posizione nei sondaggi ma senza troppo sprint. Mentre Alba Dorata, senza contributi pubblici e con i leader sotto processo, non dovrebbe riuscire questa volta (sperano tutti) a guadagnare dai fallimenti altrui.

La somma di queste debolezze è il motivo per cui, malgrado tutto, Tsipras potrebbe riuscire a far saltare il banco nelle urne. Dando vita a quel punto a un governo molto più compatto in grado di far passare il memorandum nella speranza che la stabilità faccia ripartire l’economia. L’unico vero rischio è che l’opposizione - conscia di partire battuta - unisca le forze in un fronte pro-Europa riunito sotto un unico simbolo. Konstantinos Mitsotsakis, uno degli uomini forti di Nd, ha già buttato là l’idea. Che di sicuro non dispiace nemmeno alla Troika. Il problema è uno solo: la legge elettorale greca attribuisce il premio di maggioranza di 50 seggi al partito (e non alla coalizione) vincitore alle elezioni. Per ottenerlo, dunque, il centrodestra, Pasok e To Potami dovrebbero sciogliersi per dare vita a una nuova formazione con un suo statuto. Missione quasi impossibile se al voto si andrà il 20 settembre.

Il vero nodo è se la Grecia, alle prese pure con l’emergenza immigrati, sarà in grado di assorbire un mese di campagna elettorale. Il Pil, previsto al rialzo del 2,5% a inizio anno, viaggia ora verso un -2,3% nel 2015. E il rischio Grexit uscito dalla porta rischia di rientrare dalla finestra se dalle urne non uscirà un quadro chiaro.

MATTARELLA: «DAI TERRORISTI
NUOVI CONFLITTI GLOBALI»

di Silvio Buzzanca
Mattarella al Meeting: fanatiche distorsioni della fede possono preparare la terza guerra mondiale
Richiamo all’“umanità nell’accogliere i profughi disperati”. “Fermezza contro i trafficanti di uomini

«Il terrorismo alimentato anche da fanatiche distorsioni della fede in Dio sta cercando di introdurre nel Mediterraneo, in Medio Oriente, in Africa i germi di una terza guerra mondiale». Sergio Mattarella invia agli organizzatori del Meeting di Rimini che parte oggi, dedicato al dialogo frale religioni, un messaggio tutt’altro che formale. Il capo dello Stato, infatti, interviene nel vivo del dibattito di questi giorni su guerra, immigrazione e accoglienza dei profughi.

Mattarella, dopo avere lanciato l’allarme sullo scontro armato, scrive infatti che «dalla capacità di dialogo, di comprensione reciproca, di collaborazione tra le religioni monoteiste dipenderà la pace nel mondo». E in questo processo, prosegue il presidente della Repubblica, «sta a noi prosciugare l’odio, far crescere la fiducia e la cooperazione, mostrare i vantaggi della pace». E in Europa «può svilupparsi ildalogo fra le religioni monoteiste già all’interno delle nostre società, divenute plurali e multietniche».

Per Mattarella un altro momento fondamentale di questo percorso è l’accoglienza ai migranti. Scrive infatti il capo dello Stato che «l’umanità che dimostreremo nell’accogliere i profughi disperati, l’intelligenza con cui affronteremo i fenomeni migratori, la fermezza con cui combatteremo i trafficanti di esseri umani saranno il modo con il quale mostreremo al mondo la qualità della vita democratica». Parole che non piacciono a Matteo Salvini. «Mattarella chiede “umanità” per i profughi. Ma un po’ di umanità per gli italiani massacrati da clandestini e tasse, no?», scrive il leader leghista. Replica il deputato pd Matteo Colaninno: «In queste ore così delicate, mi auguro che le parole del presidente Mattarella costituiscano un punto di riferimento imprescindibile».

CACCIARI:«UN'IPOTESI REALE»
intervista di Giovanna Casadio a Massimo Cacciari

Siamo su un vulcano, l’eversione è solo una parte del problema


«Dire che una terza guerra mondiale possa derivare dal terrorismo è una affermazione ridicola». Massimo Cacciari, il filosofo ex sindaco di Venezia, affronta la questione da un’altra angolatura. Aggiunge che la chiusura davanti ai flussi di migranti invocata da Salvini, è prima di tutto «irrealistica».

Cacciari, lei non condivide l’allarme del presidente Mattarella?
«Lo condivido nel senso che penso che stiamo vivendo su un vulcano. Ma sono le grandi potenze, ancorché integrate e interdipendenti – l’economia Usa e quella cinese ad esempio, la Russia che rivendica un suo ruolo imperiale e entra in conflitto con l’America – che possono scatenare conflitti di interessi. Crescono i pericoli e gli squilibri e nessuno può escludere che si arrivi a un punto in cui qualcuno può pensare che l’unica soluzione sia bellica ».

E il terrorismo che viene dal mondo musulmano?
«È il 10% del problema. Va detto che per l’Isis non è più possibile parlare di terrorismo, perché lì si tratta di uno Stato che conduce la guerra anche con armi terroristiche. Direi che prima di parlare di terrorismo, occorre che questo vada definito».

La democrazia occidentale racconta di società aperte. Ma la reazione di Salvini e dei populisti è chiedere di chiudersi.
«Sono utopie reazionarie. A Salvini prima ancora delle questioni morali è da contestare l’irrealismo totale della sua posizione. Una utopia regressiva. Nel mondo attuale è totalmente impossibile chiudersi, i flussi dei migranti sono inevitabili. Sono da governare certo. I discorsi di Salvini e della Le Pen si contraddicono solo con una strategia europea».

Nel giorno della decapitazione del capo archeologo di Palmira, la paura di un terrorismo islamico alle porte è ancora più forte?
«Siamo davanti a questioni di natura diversa. Il problema delle migrazioni è epocale e va affrontato con una politica di integrazione e accoglienza. Il terrorismo non c’entra nulla. C’è poi un movimento amplissimo di rivendicazione di maggiore autonomia forza e potenza da parte della totalità del mondo musulmano conseguenza di madornali errori commessi dall’Occidente. Ma ora sarebbe persino riduttivo limitarci a denunciare i nostri errori. Il mondo musulmano sta cercando di recuperare la colossale catastrofe subita tra Ottocento e Novecento. Un movimento di risarcimento. Revanscista, diremmo. Era nella natura delle cose che accadesse e sta avvenendo in modi diversi, perché i Fratelli musulmani non sono l’Isis».

Una guerra mondiale potrebbe derivare da questo?
«No. Potrebbe derivare solo da un attacco di alcune di queste potenze o di alcuni di questi movimenti a Israele e questo potrebbe scatenare un conflitto di proporzioni mondiali. Impossibile? Non è impossibile».
©
© 2025 Eddyburg