Questo ventennio ha avuto un dominus, una figura che lo ha incarnato a tutto tondo, tenendo ben stretto il bandolo degli eventi grazie alle ramificazioni dei suoi interessi e alle connivenze intessute nei decenni; ed è Silvio Berlusconi. La sinistra ha fatto argine in qualche circostanza ma sono stati brevi intervalli, di cui solo alcuni luminosi: il primo governo Prodi con il riallineamento dei conti pubblici e l’entrata nell’euro, e i primi passi del secondo governo Prodi con le liberalizzazioni promosse da Pierluigi Bersani. Per il resto, divisioni interne, astenia culturale e una latente sindrome di Stoccolma hanno fatto, spesso, troppo spesso, accucciare la sinistra ai piedi del Cavaliere. Berlusconi è diventato così l’alfa e l’omega di questi anni. Altro che contrapposizione bilanciata.
Il Cavaliere ha potuto dedicarsi tranquillamente alla cura dei propri affari riservando una attenzione residuale ai problemi centrali della modernizzazione del paese. Quasi tutti gli indicatori socio-economici e culturali di questi vent’anni, messi a confronto con quelli degli altri paesi dell’Ue, per non dire del G7, mostrano una perdita di terreno. E in più, è stato inquinato lo spirito civico di questo paese.
Quando un primo ministro irride alle leggi, le stravolge e violenta per suo tornaconto, quando sollecita i cassaintegrati a frodare le norme facendo lavoretti in nero, quando proclama di fronte alla Guardia di finanza che l’evasione fiscale oltre una certa soglia di imposizione fiscale è un diritto, quando un primo ministro agisce così, inocula ulteriore veleno su un corpo civile già debilitato per storiche tare.
La diffidenza-ostilità per l’imperio della legge, la torsione personalistica delle norme, il fastidio per le regole hanno profondamente minato la legittimità delle istituzioni. E, più sottilmente, il berlusconismo ha favorito la diffusione di una visione del mondo a-razionale, dove i “fattoidi”, come li chiamava Edmondo Berselli, diventavano realtà e solo l’apparenza contava; e così, venivano favorite fughe in avanti e aspettative miracolistiche che solo l’intervento salvifico di un capo poteva risolvere.
Di fronte a tutto questo gli argini sono stati deboli e mal curati. L’opposizione a Berlusconi e al suo mondo si attivava a corrente alternata: un giorno faceva la voce grossa, un altro trattava sulle frequenze televisive, un giorno gridava al golpe, un altro cedeva sul “processo giusto”. E così via. Mancava la costanza del resistere, resistere, resistere. E l’accusa di antiberlusconismo veicolata dalla destra diventava quasi uno stigma da cui difendersi. Non una onorevole connotazione etico-politica. Sorprende, allora, che Matteo Renzi, quasi fosse un flaianesco marziano a Roma, equipari l’antiberlusconismo al suo contrario, come chi accomuna partigiani e repubblichini in uno stesso calderone.
Al contrario, proprio la fiacchezza dell’opposizione a Berlusconi, con punte di connivenza, i cui ultimi rigurgiti si ritrovano anche nei 101 voti contro Romano Prodi alla Presidenza della Repubblica, ha mandato alla deriva questo paese. La mancanza di rigore e fermezza di fonte alle devastazioni del diritto e all’imposizione dell’arbitrio e dell’interesse personale e di clan, hanno permesso ad una cultura politica populista e anti- istituzionale di debordare. Mentre Berlusconi incantava con la promessa di una “rivoluzione liberale”, che non ha lasciato che macerie, l’opposizione aveva il dovere di opporsi con il massimo di impegno.
Non distinguere le responsabilità di quanto avvenuto negli ultimi decenni e accumunare tutti in un magma indistinto non solo fa torto alla realtà dei fatti ma riporta a galla una visione del mondo “irresponsabile”, del tutti a casa perché nessuno è colpevole. L’Italia è arretrata paurosamente su tutti i fronti non per la contrapposizione dura tra due schieramenti, ma proprio per il suo contrario: perché l’opposizione al berlusconismo è stata inconsistente e quindi la sua sconfitta tardiva, troppo tardiva.
Le tre facce della crisi dell'Europa, I modi per uscirne, in Europa e in Italia.
iMEC, sito web della Fiom-Cgil, 21 agosto 2015
La crisi ha tre facce. Proverò a delineare i loro tratti principali.
1. La crisi della UE e dell’euro.
Beninteso, non ci furono soltanto errori. In generale, a porre le basi del trattato di Maastricht sin dai primi anni del secondo dopoguerra fu il potere economico-finanziario europeo, tramite fior di associazioni neoliberali che rappresentavano e tuttora ne rappresentano la voce e il braccio politico. Tra di esse: la Società Mont Pelérin, la Trilaterale, la Bildeberg, la Tavola Rotonda degli Industriali, la Adam Smith Society, alle quali si è aggiunto più tardi il Forum Mondiale di Davos. Istituzioni internazionali come la Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), insediata a Parigi nel 1961, si sono impegnate senza tregua sin dall’inizio per far sì che il Trattato UE contenesse le più incisive norme possibili a favore della liberalizzazione dei movimenti di capitale.
A meno di venticinque anni dalla sua fondazione e meno di quindici dall’introduzione dell’euro, la UE sta andando verso il disastro. Tra il 2008 e il 2010 i governi UE hanno speso o impegnato 4.500 miliardi di euro per salvare le banche, ma non sono riusciti a trovarne 300 per salvare la Grecia, la cui uscita incontrollata dall’euro potrebbe far implodere l’intera UE. Gli squilibri tra gli stati membri sono aumentati anziché diminuire. Ad onta della normativa UE che impone di limitare l’eccedenza export-import, la Germania continua ad avere eccedenze dell’ordine di 160-170 miliardi l’anno, uno squilibrio che potrebbe contribuire al fallimento dell’Unione. La disoccupazione colpisce 25 milioni di persone. Le persone a rischio povertà sono oltre 100 milioni. In vari paesi – Grecia, Italia, Spagna - la inoccupazione giovanile oscilla tra il 40 e il 50 per cento, un tasso mai visto da quando essa viene censita. Le politiche di austerità imposte dai governi per conto delle istituzioni UE, nel mentre si sono rivelate fallimentari, hanno colpito con durezza i sistemi di protezione sociale e l’istruzione; bloccata pericolosamente la manutenzione delle infrastrutture di base (ponti, dighe, strade, trasporti locali, viadotti, corsi d’acqua: per risanarli ci vorranno migliaia di miliardi); spinto nella povertà altre masse di persone, anche in Germania che proprio dell’impoverimento dei vicini aveva fatto il perno della sua politica economica.
Data la situazione attuale della UE, se non si fa nulla per affrontarla il futuro propone soltanto due scenari, al momento ugualmente probabili:
a) la UE crolla all’improvviso e in malo modo a causa di un incidente che trascina con sé tutta la barcollante struttura dell’Unione: ad esempio, un paese è costretto a uscire dall’euro perché a causa del suo bilancio pubblico strangolato dalle politiche di austerità non riesce a pagare i suoi creditori privati. I quali sono tanto stupidi da non rendersi conto che è sempre meglio un debitore che paga poco, in ritardo e a rate, di un debitore che non può pagare niente perché è stato imprigionato a causa del suo debito. (Lo scrittore Daniel Defoe, ch’era stato imprigionato per debito nel 1692, verso il 1705 riuscì a convincere con un suo scritto il governo inglese a introdurre una riforma che permetteva al debitore di continuare a lavorare e produrre reddito, in modo da poter rimborsare almeno in parte i suoi creditori piuttosto che marcire inoperoso in prigione. Al confronto, la Troika è in ritardo di tre secoli). Oppure potrebbe accadere che una grande banca europea fallisca, trascinandone altre con sé. Dall’inizio della crisi alcune delle maggiori banche europee, a cominciare dalla britannica HSBC, hanno pagato in complesso decine di miliardi di dollari a causa di varie penalità che hanno accettato di pagare alle autorità americane ed europee per non arrivare a un processo relativo a innumeri violazioni delle leggi finanziarie che esse hanno compiuto in mezzo mondo. Ma è possibile che a un certo punto un processo arrivi, e le sue conseguenze siano tali che la banca interessata fallisce perché né il suo governo né le istituzioni europee dispongono più dei mezzi per salvarla, da cui un effetto domino che travolge sia la UE che l’euro.
b) Il secondo scenario prevede che la UE e l’euro sopravvivano alla meglio per altri venti o trent’anni, cucendo rappezzo su rappezzo istituzionale per far fronte ai sempre più diffusi segni di malcontento di nove decimi della popolazione, impoverita e tartassata dal lavoro che manca, dalla distruzione dei sistemi di protezione sociale, dai continui diktat oligarchici della Commissione Europea e delle BCE che esautorano totalmente i governi nazionali senza dare nulla in cambio. Intanto il decimo al vertice della stratificazione sociale continua ad arricchirsi a spese degli altri nove: dopotutto, è per esso che i trattati UE sono stati confezionati.
Nel caso invece che qualcosa si volesse fare, una soluzione potrebbe esserci. La UE convoca una Conferenza sul Sistema Monetario Europeo, il cui punto principale all’ordine del giorno dovrebbe essere la soppressione consensuale dell’euro, ed il ritorno alle monete nazionali con parità iniziale di 1 rispetto all’euro. Altri punti dovrebbero riguardare la preparazione tecnica della transizione, e una estesa campagna di informazione pubblica prolungata per mesi. Si potrebbe anche prevedere che l’uscita dall’euro sia decisa paese per paese, di modo che se qualche stato membro lo volesse fare ne avrebbe facoltà, mentre altri potrebbero tenersi l’euro.
È innegabile che anche la soppressione consensuale dell’euro presenta dei rischi. Com’è vero che in ogni caso essi sarebbero inferiori a quelli che oggi corre la UE sia per i suoi difetti strutturali, sia per la possibilità che l’uscita improvvisa di un paese – si tratti della Grexit, della Brexit (sebbene la Gran Bretagna non abbia l’euro) o altro – rechi seri danni agli altri. Ma di certo i rischi sarebbero accentuati dai paesi – in primo luogo la Germania – che dall’euro hanno tratto i maggiori vantaggi. Una variante che ridurrebbe i rischi potrebbe consistere nel mantenere in vita l’euro, mentre ogni stato emette e fa circolare sul proprio territorio una moneta fiscale parallela. Da moneta unica l’euro diventerebbe così una moneta comune. Il predicato “fiscale” significa qui che il valore della nuova moneta sarebbe assicurato dal fatto che essa verrebbe accettata per il pagamento delle imposte – il maggior riconoscimento che una moneta possa ottenere dallo stato – e sarebbe comunque garantita dalle entrate fiscali. Si noti che progetti di una moneta parallela all’euro che ogni stato emette per conto proprio sono assai numerosi in Francia, nel Regno Unito, e soprattutto in Germania.
La richiesta di una Conferenza sull’Unione Monetaria dovrebbe essere presentata alla UE da alcuni paesi di primo piano, con il sottinteso che un rifiuto netto potrebbe indurre ognuno di essi o all’uscita dall’euro o al disconoscimento di numerose norme UE che violano i diritti umani o addirittura si configurano come foriere di crimini contro l’umanità. Non mancano nella UE i giuristi in grado di predisporre la documentazione necessaria. Al presente, i soli paesi disponibili a tal fine sono forse la Grecia, ammesso che “al presente” essa sia ancora nell’euro o il governo Tsipras non sia stato strangolato dalla Troika; e la Spagna, nel caso di una vittoria di Podemos alle elezioni dell’autunno 2015. Da parte del governo italiano in carica un atto simile è inimmaginabile, essendo il medesimo del tutto allineato sui rovinosi dogmi di Bruxelles. Per questo è necessario sostituirlo al più presto con un governo orientato diversamente, e dotato di competenze post-neoliberali di cui nel governo attuale non v’è la minima traccia.
2. La crisi economica ed occupazionale.
La riduzione degli investimenti è anche dovuta al fatto che da decenni il capitalismo non inventa più nulla che possa diventare un consumo di massa. Al contrario di quanto asseriscono gli economisti neoclassici, il capitalismo non vive affatto di una continua innovazione endogena. Ha bisogno di robusti e ripetuti stimoli esterni. Negli anni 50 e 60 li hanno forniti, nei nostri paesi, i consumi di massa di auto, elettrodomestici, televisori. La diffusione in atto dei cellulari, dei tablets, dei PC – tutti fabbricati in Asia – non ha avuto né potrà mai avere effetti paragonabili sulla crescita e sull’occupazione di un paese europeo. Inoltre tanto la produzione quanto il consumo dei beni e dei servizi proposti dall’attuale modello produttivo si fondano su energie tratte da risorse fossili, mentre gli scienziati del mondo intero avvertono che l’inversione dell’attacco all’ambiente, che presuppone una drastica riduzione di tali fonti energetiche, dovrebbe avvenire ormai entro breve tempo se si vuole evitare una catastrofe. In sintesi: l’idea di una ripresa paragonabile al passato – la famosa luce in fondo al tunnel – è una illusione priva di fondamento. E se mai dovesse verificarsi, sarebbe ancora peggio, perché avvicinerebbe il momento di un disastro ambientale irreversibile.
Non basta. Il termine “automazione” si riferisce da cinquant’anni alla sostituzione di lavoro fisico da parte di macchine. Ma la microinformatica ha anche enormemente esteso sia le capacità delle macchine operatrici, sia le capacità dei computer di svolgere attività intellettuali che fino a pochi anni fa si sosteneva non fossero automatizzabili. Risultato numero tre: in Usa si stima che il 47 per cento degli attuali posti di lavoro, finora occupati da esseri umani a causa del loro contenuto intellettuale e professionale medio-alto, possano venire svolte entro pochi anni da una qualche combinazione di macchine, computer e programmi intelligenti. In altre parole potrebbero scomparire più di 60 milioni di lavoro. Un processo analogo di sostituzione di esseri umani da parte dei computer è in corso anche in Europa. Una politica che non si occupi primariamente di questo problema, come avviene nella UE e in modo ancor più marcato in Italia, non soltanto è da buttare per la sua inefficienza; è una minaccia per milioni di cittadini.
Da quanto precede se ne trae che l’Italia dovrebbe progettare al più presto un piano pluriennale di transizione a un diverso modello produttivo, che abbia come caratteristiche principali l’essere fondato su progetti o settori ad alta intensità di lavoro; elevata qualificazione; tecnologie avanzate; consumi ridotti di energie fossili; elevata utilità pubblica; massima attenzione ai beni comuni. Esso dovrebbe inoltre prevedere il passaggio regolato di milioni di lavoratori dai settori in declino ai nuovi settori. Non è il caso per ora di inoltrarsi in un elenco di questi ultimi: si rimanda alla ragguardevole letteratura esistente sulla trasformazione industrial-ecologica dell’economia. Qui basti dire che il riassetto idrogeologico dell’intero territorio, il miglioramento del rendimento energetico delle abitazioni, gli interventi antisismici nelle zone più a rischio, la tutela dei beni culturali assorbirebbero da soli milioni di posti di lavoro. La complessità e l’ampiezza di un simile piano renderebbe necessario l’impiego delle migliori competenze tecniche ed economiche, pubbliche e private, di cui il paese disponga. E soltanto un governo totalmente rinnovato quanto a cultura politica e competenze professionali sarebbe capace di guidarne la realizzazione. Inutile aggiungere che un simile piano deve poter iniziare entro pochi mesi, per essere via via sviluppato e rettificato.
3. Il caso italiano. Una delle cause strutturali per cui la crisi europea ha colpito l’Italia più di altri paesi sono le sue antiche carenze quanto a istruzione e ricerca e sviluppo (R&S). In vista di una transizione a un diverso modello produttivo e occupazionale sarebbe essenziale aumentare in misura considerevole la spesa pubblica per la scuola secondaria e l’università. Con il 22 per cento dei diplomati contro una media del 36 per l’intera UE l’Italia occupa l’ultimo posto in tale classifica. È una percentuale scandalosamente bassa; e ancora più scandaloso è il fatto che dinanzi all’obbiettivo proposto dalla Commissione Europea di raggiungere il 40 per cento entro il 2020 come media UE, uno dei nostri recenti governi abbia risposto che l’Italia punta nientemeno che al 27 per cento. Dati analoghi valgono per i laureati. L’obiezione per cui diplomare o laureare un maggior numero di giovani non serve allo sviluppo, o è addirittura un danno, perché tanto non trovano lavoro, è priva di senso. I giovani non trovano lavoro perché non esistono politiche economiche capaci di creare nuovo lavoro nel momento in cui il lavoro tradizionale scompare.
Anche in tema di R&S siamo messi male. Tra i 32 paesi Ocse l’Italia occupa il penultimo posto quanto a spesa in R&S, con un misero 1,25 per cento tra pubblico e privato. Le statistiche delle richieste di brevetto depositate presso l’Ufficio Brevetti europeo, che vedono l’Italia in coda ai maggiori paesi UE sia quanto a numero sia quanto a contenuto tecnologico, riflettono tale povertà di spesa. Come minimo occorrerebbe raddoppiare quest’ultima nel più breve tempo possibile.
Di fronte ai problemi sopra richiamati, alla pericolosità della crisi UE, ed alla addizionale gravità di quella italiana, il governo Renzi non esiste. Non che, per ora, le opposizioni offrano gran che di meglio. Moltiplicare invettive contro il dominio della finanza, oggi ben rappresentato dall’euro, non serve: anche il Mein Kampf ne era pieno (dieci anni dopo, non a caso, il suo autore giunto al potere impiegò poche settimane per accordarsi con la grande finanza). Il dominio bisogna prima seriamente studiarlo, per poi smontarlo pezzo per pezzo con strumenti politici e legislativi appropriati. Né serve a molto inveire contro la casta. Una volta stabilito che si tratta di una intera classe politica che ha fatto da decenni il suo tempo, nonché di buona parte della classe imprenditoriale, si tratta di sostituirla con una classe avente una concezione del mondo diversa e opposta, che sappia amministrare il paese e ogni sua parte in nome dei diritti al lavoro e del lavoro; dell’uguaglianza (in una economia dove gli amministratori delegati guadagnino magari 50 volte i loro dipendenti e facciano bene il loro mestiere invece di guadagnare 500 volte e farlo male); dei beni comuni da sottrarre alle privatizzazioni; di una economia che non distrugga l’ambiente nel quale dovrebbero vivere e prosperare i nostri discendenti.
Allo scopo di far emergere dal paese, che da più di un segno appare in grado di farlo, una nuova classe dirigente all’altezza del compito, occorrono i voti. Per moltiplicare i voti necessari occorre che il maggior numero possibile di elettori comprenda qual è l’enormità della posta in gioco, in Italia come nella UE, e la relativa urgenza. E se è vero che l’opinione politica si forma per la massima parte sotto l’irradiazione dei media, è di lì che bisogna partire. Supponendo che la traccia proposta sopra sia qualcosa di assimilabile a uno schema di programma politico a largo raggio, bisognerebbe quindi avviare una campagna di comunicazione estesa, incessante, capillare, volta a mostrare che la rappresentazione che il governo e i media fanno di quanto avviene è una deformazione della realtà, e poco importa se non è intenzionale. Insistendo su pochi punti essenziali, siano essi quelli qui indicati o altri – purché siano pochi e di peso analogo. Lo scopo è semplice: ottenere che alle prossime elezioni parecchi milioni di cittadini votino per una società migliore di quella verso cui stiamo rotolando, a causa dei nostri governi passati e presenti, non meno che della deriva programmata della UE verso una oligarchia ottusa quanto brutale.
Intervista di Carlo Di Foggia a Barbara Spinelli. Un'analisi sofferta e preoccupata delle conseguenze della necessità di Alexis Tsipras di scegliere tra la due soluzioni entrambe inaccettabili.
Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2015
La riflessione più amara, Barbara Spinelli la riserva al mantra più forte degli europeisti: «Pensare che la soluzione al disastro antidemocratico che è stata la vicenda greca, sia una integrazione più forte dell’Unione così com’è, con i presenti Trattati, non significa rendere l’Europa più forte. Significa il contrario».
Tsipras ha annunciato le dimissioni e chiesto le elezioni anticipate per il prossimo 20 settembre.
«Era prevedibile che Syriza si sfaldasse dopo l’umiliazione che il governo ha dovuto subire. Resta il profondo atto democratico: dimettersi e dare voce agli elettori».
Non è solo una mossa furba per evitare che l’ala sinistra di Syriza abbia il tempo di organizzarsi?
«La sinistra ha un forte peso nell’elettorato e il referendum del 5 luglio lo ha dimostrato. Quel voto rafforzerà i dissidenti ma non darà loro una maggioranza. L’elezione è rischiosa: può costringere il premier ad allearsi con socialisti e liberali. Ma anche questi ultimi sono stati indeboliti dal referendum, avendo lottato per il Sì. Più che furba, la mossa nasce da uno scacco e propone l’uscita democratica da un golpe post moderno. Ad Alexis Tsipras è stata lasciata la scelta tra la morte e la morte, tra Grexit e sottomissione».
Chi sono i responsabili dello “scacco”?«I dirigenti dell’Unione. Ormai tutti lo sanno: senza un’Unione politica solidale, l’euro divide l’Europa, la riporta a rapporti di forza tra nazioni potenti e non. Il contrario di quello che si pensò nel dopoguerra».
La soluzione, illustrata da molti commentatori, è l’omeopatica “ci vuole più Europa ”…
«Lo spirito europeista non sta né con i sovranisti che propongono il Grexit – e non tutti gli elettori del No la vogliono – né con i dirigenti che vogliono rafforzare l’Europa presente, dominata dalla Germania, fondata su un’austerità rigettata da gran parte dei cittadini europei. Rafforzare tutto questo significa avere un equilibrio tra potenze nazionali, non un’Europa più federale».
La parabola di Tsipras ha mostrato che il sistema non si cambia dall’interno?
«Le prime battute sono state disastrose. Ma la battaglia è appena cominciata. Tsipras vuol tuttora portare la Ue verso forme più solidali e regole diverse. Proprio in questi giorni ha chiesto che il Parlamento europeo partecipi al “quartetto dei creditori”. Persa la battaglia, la guerra continua, anche se il prezzo è già stato altissimo».
Quale?
«Il premier ha perso gran parte delle truppe. È però convinto che un Paese come la Grecia, nella globalizzazione, non ce la faccia da solo. Rifiuta per ora la soluzione sovranista e scommette sul fatto che anche Berlino riconosca che da sola non ce la farebbe.
Oltre alle truppe non ha perso anche l’anima politica originaria del progetto Syriza?
«Non sono sicura che tutta la sinistra di Syriza sia sovranista. Molto dipenderà anche da quello che succederà in Spagna e Irlanda. Podemos ha fatto alleanze municipali con i socialisti. Pur chiedendo un cambiamento radicale dell’Ue, governerà con i socialisti, senza uscire dall’euro. Ma spero che dissidenti come Varoufakis siano ascoltati».
Che succede se vince la destra?
«Le forze alternative europee si indebolirebbero, ma non credo che vincerà».
Se vincesse la Piattaforma di sinistra, la definirebbe una sconfitta?
«Se vincesse avrebbe due scelte: o il Grexit, ed è talmente costoso che ci dovrà pensare otto volte. O negoziare come Varoufakis, e si troverà davanti alla scelta di Tsipras: o la morte o la morte. I tedeschi non cambiano idea.
Concordare un’uscita ordinata, con aiuti europei, anche per ristrutturare il debito, come aveva proposto Schäuble, è la morte?
«Non so quali aiuti verrebbero dall’Ue: nelle condizioni economiche attuali il Grexit sarebbe un quarto memorandum. Un disastro, nel breve periodo».
Nel medio?
«Nel medio termine saremo tutti morti, diceva Keynes».
«In ogni caso Renzi non indietreggia e rilancia: o ci sono i numeri o ne trarrà le conseguenze». È quello che in molti speriamo. Ma alla fine troveranno un compromesso che salverà capra e cavoli: e il lupo Renzi mangerà tutti.
La Repubblica, 27 agosto 2015
. A decidere sulla querelle che contrappone il presidente del Senato Pietro Grasso e la maggioranza del Pd potrebbe essere un “tribunale”. Le parole della seconda carica dello Stato dalla festa nazionale de L’Unità di Milano - con l’invito a trovare una soluzione politica per superare “l’impasse”- scuotono gli animi del Nazareno. Parole che avrebbero infastidito i maggiorenti del Pd in Senato. Il dilemma è sempre lo stesso: alla ripresa dei lavori il presidente Grasso dovrà decidere se ammettere o no la mole di emendamenti sull’articolo 2 della riforma del Senato.
«Il capitalismo non esiste senza lo stato. Ce lo chiarisce la congiuntura drammatica nella quale viviamo, con buona pace dell’integralismo neoliberista. Ma pensare di cambiarlo a partire solo dallo stato è un’illusione».
Il manifesto, 26 agosto 2015, con piccola postilla
Ora se ne vedono bene le conseguenze. La Cina non è vicina ma è ovunque, dentro tutte le cose del mondo globalizzato. Il crollo della borsa di Shanghai fa tremare la finanza mondiale. In Europa le Borse bruciano nello spazio di poche ore più dell’equivalente dell’intero debito greco.
La leadership cinese aveva fin qui retto più che bene alla crisi economica mondiale scoppiata negli Usa nel 2007. I cinesi sono stati i primi ad attuare quello che dall’altra parte del mondo viene chiamato Quantitative Easing, su cui torna a insistere come fosse una nuova ricetta il direttore del Sole24Ore. Hanno tentato una conversione da un’economia esportatrice di prodotti di bassa o modesta qualità, ad un’altra che privilegiasse lo sviluppo dell’enorme mercato interno. In questo quadro hanno ingaggiato una guerra dichiarata contro la corruzione, non lesinando nemmeno sulle condanne a morte. Da ultimo hanno favorito lo sviluppo di una bolla immobiliare e cercato di canalizzare il risparmio privato verso la Borsa. Al punto che molti cinesi dai modesti redditi si sono dovuti indebitare pur di potere comprare qualche azione.
Ora però l’apprendista stregone è nudo. La sua creatura appare indomabile e rischia di rivolgersi contro di lui. Anche quel po’ di redistribuzione che è stata attuata - come riconosce l’economista indiana Jayati Ghosh - con l’incremento dei salari, punto di incontro tra concessioni dall’altro e l’inizio di una lotta di classe rivendicativa nei settori produttivi, non è stata affatto sufficiente per rilanciare il mercato interno. Né poteva esserlo. Sia perché quei salari restano comunque troppo bassi, infatti la Ghosh ne invoca un nuovo aumento, sia perché ci vorrebbe ciò che manca, una rinnovata capacità programmatoria in economia costruita con la partecipazione e il consenso popolari.
Ma se da un lato le aziende di stato sono centri di potere per una potente burocrazia, attorno a cui si avvolge il serpente della corruzione diffusa, e dall’altro i sindacati non ritengono che lo sciopero, benché legislativamente previsto, sia un utile strumento di lotta (come mi sentii rispondere durante una visita in Cina di dieci anni fa) è ben difficile che il mercato interno trovi respiro. Questo non si costruisce dall’alto, né partendo (solo) dal punto di vista dell’impresa, ma è il risultato di un percorso politico-economico da cui è tutt’altro che estraneo lo sviluppo del conflitto sociale. Nelle attuali condizioni continua a piovere sul bagnato, gli investimenti insistono prevalentemente sui settori più sperimentati (cosa lo è più del vecchio mattone?) o guidati dalla competizione internazionale, rischiando così di trasformarsi in una nuova bolla finanziaria oppure di contraddire la svolta postmercantilista, o tutte e due le cose insieme.
Krugman afferma che siamo di fronte ad una bolla finanziaria che ondeggia e rimbalza nel mondo. Nel 2007 l’epicentro della crisi furono gli States, ora lo è la Cina. Poi la bolla tornerà – sta già tornando – verso gli Usa, vista la recente direzione del flusso dei capitali. Larry Summers ha ragione a dire che la Fed non deve cedere alla tentazione di rialzare i tassi di interesse. Ma anche questo non sarà sufficiente neppure per l’America, se la crisi si cronicizza a livello mondiale, a causa del coinvolgimento cinese.
Il capitalismo non esiste senza lo stato. Ce lo ripetevano gli storici delle Annales. Ce lo chiarisce la congiuntura drammatica nella quale viviamo, con buona pace dell’integralismo neoliberista. Ma pensare di cambiarlo a partire solo dallo stato è un’illusione, sempre che di questo si tratti, e non di una gigantesca finzione.
postilla
L'icona che contrassegna questo articolo è l'immagine di copertina del libro di David Harvey, A Brief History of Neoliberalism (2005). Vi si intravede inseriva Deng Tsiaoping, che Harvey collocava tra i "quattro cavalieri dell'apocalisse" fondatori del neoliberismo (in inglese: neoliberalismo), insieme a Tatcher, Reagan e Pinochet. Il libro di Harvey è una lettura molto utile a chi voglia comprendere la recente mutazione della città, della società e della politica.
Il manifesto, 25 agosto 2015
L’Europa deve “unificare” il diritto d’asilo e le procedure di accoglienza, per arrivare a una “politica migratoria comune, con regole comuni” per far fronte a “una situazione eccezionale, destinata a durare”. Lo ha detto a Berlino François Hollande, alla conclusione della prima parte dell’incontro con Angela Merkel, che è poi proseguito sulla crisi ucraina, con la presenza del presidente Piotr Poroshenko, altra questione sempre aperta in Europa ma messa in secondo piano a causa dell’emergenza migranti. Francia e Germania prevedono di “dare un nuovo impulso” congiunto per arrivare a una risposta europea, perché “per il momento”, dicono all’Eliseo, le decisioni della Ue sono “non sufficienti, non abbastanza rapide e non all’altezza” nella loro applicazione. Nel mirino di Hollande e Merkel, prima di tutto, c’è l’inerzia dei paesi di primo sbarco – Italia e Grecia – nell’apertura di centri di registrazione dei migranti: il principio era stato approvato nel giugno scorso, ma per il momento nessuno è stato aperto. “Non possiamo tollerare questo ritardo”, ha aggiunto Merkel, che ha sottolineato che i paesi europei devono applicare “il più rapidamente possibile” le regole del diritto d’asilo, che solo sulla carta sono più o meno simili nella Ue. Poi, ha precisato Hollande, seguirà una “ripartizione equa” dei rifugiati, come prevede la Commissione. Ma il presidente francese ha già messo le mani avanti: con un sistema unificato di asilo nella zona Schengen si eviterà che “alcuni paesi ne accolgano più di altri”.
Non c’era da aspettarsi una proposta di soluzione dall’incontro tra Merkel e Hollande, ma Berlino ieri è stata una nuova occasione per confermare l’approccio dominante in Europa, concentrato sull’improbabile separazione tra “rifugiati” e “migranti” (economici, climatici ecc.), i primi ufficialmente da accogliere da parte della “generosità” europea, i secondi da respingere e rimandare a casa, “riaccompagnati con dignità” ha precisato Hollande. Germania e Francia prevedono di aggiornare una lista comune per individuare i paesi “non a rischio”, i cui cittadini verrebbero cosi’ automaticamente esclusi dal diritto d’asilo (contravvenendo la Convenzione del ’51, che prende in considerazione situazioni di persecuzione individuale). Un’armonizzazione europea di questa lista sarà destinata a “fare chiarezza” sulle differenze di trattamento a cui sono sottoposti in particolare i cittadini di paesi balcanici nei vari paesi Ue. Il ministro degli esteri francese, Laurent Fabius, ha annunciato che “nei prossimi giorni” ci sarà una riunione dei ministri degli Interni e degli Esteri della Ue sulla questione dei migranti. Dovranno trovare un delicato equilibrio per conciliare i timori che alcuni governi in carica hanno dell’estrema destra (altri, come in Ungheria, hanno già passato il Rubicone) e la paura che l’Europa perda “l’anima”, come ha affermato il ministro degli esteri Gentiloni.
La Germania accoglie oggi di più della Francia, ma Parigi ribatte di avere su questo fronte un passato più pesante alle spalle. Merkel ha condannato ieri le violenze degli “ubriaconi” neo-nazi in Sassonia, il vice-cancelliere Sigmar Gabriel accusa l’Europa di essere caduta in un “sonno profondo” e punta il dito contro i paesi che voltano le spalle a problema e dicono “non ci riguarda”. Finora, i paesi europei hanno cercato di scaricarsi il “fardello”, come la Francia verso l’Italia a Ventimiglia o la Gran Bretagna verso la Francia a Calais. La tendenza è di liberarsi del “fardello” dando dei soldi (Londra per esempio ha deciso di versare 10 milioni di euro in più alla Francia oltre ai 15 stanziati nel 2014 su tre anni per delegare a Parigi i respingimenti a Calais).
La minaccia dell’estrema destra sta paralizzando i governi europei. Secondo Frontex, 340mila persone sono entrate senza visto nella Ue nei primi sette mesi di quest’anno. La Ue avrà sempre un maggior bisogno di immigrati per far fronte al drammatico calo demografico, problema a cui sfugge praticamente solo la Francia (con 1,9 bambini per donna, mentre in Europa la media è di 1,55, con punte minime in Spagna con 1,27, mentre in Italia in 35 anni la popolazione con più di 65 anni sarà moltiplicata per sei)
Alle parole del presidente del Consiglio, per una volta, cominciano a seguire i fatti. In molte occasioni, egli aveva lamentato un eccessivo carico di controlli fiscali, di vincoli amministrativi che si abbattevano su sei milioni di imprese, impedendo loro di produrre ricchezza. Come Tremonti, anche Renzi, nei suoi discorsi pubblici, ha evocato lo spettro di uno Stato di polizia che opprime le aziende e per questo ha proclamato una grande guerra contro la burocrazia invasiva. E almeno queste solenni sfide contro i vigili, le fiamme gialle che indiscreti bussano alle porte delle officine non sono rimasti lettera morta. I dati forniti dai consulenti del lavoro sono molto significativi. Nel 2014, i controlli sono stati 221 mila 476 (e nel 35,9% delle aziende raggiunte, sono emerse irregolarità). Nel 2015, le visite degli ispettori sono scese a 106 mila 849 (con il 29,3% delle imprese pescate in situazioni irregolari).
I controlli in un anno sono dimezzati, sebbene l’entità dell’economia sommersa (due milioni di lavoratori in nero) e l’ampiezza delle perdite fiscali per lo Stato (ben 25 miliardi l’anno sfumano per l’evasione di contributi previdenziali e di imposte), siano ingenti. Il governo fa di tutto per mantenere alta la soddisfazione delle imprese, entusiaste per il suo operato che sforbicia diritti e taglia beni pubblici per dirottare risorse alle casse aziendali. Oltre ai miliardi di decontribuzioni, di sgravi fiscali, di tagli Irap, le imprese corsare possono contare anche sulla benevola chiusura di un occhio da parte dello Stato sulle loro pratiche illecite.
Sono aiuti di Stato diretti o indiretti quelli che tollerano il caporalato, l’economia criminale o in nero, i danni ambientali, l’evasione fiscale e contributiva. Accontentate su tutto, anche sulla licenza di licenziare, previo modico indennizzo monetario, le imprese vivono in una condizione paradisiaca, con il premier che per giunta si dichiara «gasatissimo» da Marchionne. Si spalanca un continuum politica-impresa che fa impallidire la metafora del «meccanismo unico» agitata dai marxisti in anni ormai lontani.
Eppure, nonostante il legame di ferro tra il governo e l’impresa, e l’indebolimento perseguito con accanimento del lavoro e del sindacato, la ripresa non c’è e i cupi segnali di declino non spariscono dall’orizzonte. Gli investitori scelgono altri mercati rispetto a quello italiano, dove anche i prodotti finanziari e assicurativi navigano fuori controllo e certi giochi d’azzardo si mantengono lontani da ogni efficace attività sanzionatoria.
Il grande impedimento, al superamento della crisi, risiede in ciò che la politica è diventata in questi anni di decadenza e in quello che il capitalismo è sempre stato in Italia. Una politica senza autonomia, e un’impresa senza capacità competitive, strozzano la vita economica. Un governo che si fa largo con il programma della Confindustria (al punto che Squinzi certifica: «Questo governo è una formula uno»), non fa bene all’economia. Perché non è ingrossando il sommerso, gonfiando il nero e abrogando i diritti simbolici del lavoro che si guida la ripresa.
Con le nuove misure taglia tasse, annunciate per settembre, il governo ordinerà un ulteriore dimagrimento del pubblico, cioè un ridimensionamento della spesa per la sanità, i servizi, i trasporti, la scuola, la ricerca senza in alcun modo creare nuova occupazione, senza stimolare investimenti produttivi. Il laurismo 2.0 lascerà solo macerie.
Questo è, a tutti gli effetti, un governo della stagnazione che, per vincere le elezioni, disperde le risorse scarse disponibili. Per accontentare le imprese che incassano soldi in contanti, l’esecutivo rinuncia a disegnare politiche pubbliche per lo sviluppo sostenibile, accantona ogni progetto per politiche industriali basate sull’innovazione. Mentre con il Jobs Act invoca controlli a distanza sulla vita privata dei lavoratori, il governo allontana la vigilanza sulle pratiche tributarie e contributive delle imprese, che indisturbate proseguono nelle loro opache pratiche criminogene. Un governo di classe.
Una critica argomentata e severa alla responsabilità della "sinistra tremula" nel favorire la trasformazione dell'Italia da repubblica democratica in repubblica totalitaria.
La Repubblica, 25 agosto 2015
Si potrebbe essere soddisfatti di queste tardive resipiscenze, se non fosse che in politica i tempi contano per chi agisce e per chi discute. Non è irragionevole pensare che la tempestiva creazione di un fronte culturale critico avrebbe potuto indirizzare le riforme istituzionali verso risultati più accettabili, considerando che erano venute proposte che andavano oltre il muro contro muro. L’occasione è stata perduta da parte di quelli che furono silenziosi o compiacenti. Ma pure da Renzi, che aveva a disposizione indicazioni che avrebbero consentito di ridurre il tasso antidemocratico dell’accoppiata tra legge elettorale e riforma del Senato.
Grandi le responsabilità della cultura, ma grandi pure quelle di chi, nelle sedi politiche, ha conosciuto un tardivo risveglio. Oggi la minoranza del Pd si è convertita all’intransigenza, si ingegna nel cercare varchi regolamentari nei quali far passare le sue proposte di modifica, ma è stata incapace di mettere a punto una ragionevole strategia nel momento in cui si approvava la legge elettorale e si avviava la lettura della riforma del Senato. Di nuovo incapacità di cogliere la rilevanza del tempo in politica. Non basta fare la buona battaglia, bisogna farla al momento giusto.
Comunque si valutino le vicende passate, è difficile negare che siamo di fronte ad una modifica della forma di governo, non accompagnata, come dovrebbe essere in democrazia, da una adeguata considerazione degli equilibri costituzionali complessivi. Problema non nuovo, perché il funzionamento del sistema era stato già gravemente alterato soprattutto attraverso le varie manipolazioni delle leggi elettorali. L’urgenza vera, allora, dovrebbe essere la ricostruzione di rapporti tra gli organi dello Stato tale da restaurare almeno gli equilibri perduti. Questa strada non è stata neppure presa in considerazione; i suggerimenti di modificare almeno alcuni aspetti del nuovo Senato per recuperare qualche brandello di garanzia sono stati respinti persino con tracotanza. Oggi la residua “battaglia” per tornare solo all’elezione diretta dei senatori può essere poca cosa, se non accompagnata da altre modifiche. Siamo in presenza di un effetto a cascata. Il Presidente del Consiglio finisce d’essere un primus inter pares e acquista un potere di pieno controllo del Governo. Il Governo declassa il Parlamento a luogo di registrazione.
La nuova combinazione Presidente del Consiglio-Governo-Parlamento consente al partito di governo, grazie al doppio effetto maggioritario della legge elettorale, di impadronirsi del controllo di organi di garanzia come la Presidenza della Repubblica e la Corte costituzionale. L’accentramento di poteri così realizzato rende superflua, almeno nelle intenzioni dichiarate dal Presidente del Consiglio, ogni forma di mediazione politico-sociale – dei sindacati, degli stessi partiti ridotti a macchine elettorali, delle istituzioni culturali, del sistema dell’informazione – e viene così cancellata la rilevanza di quel potere di controllo diffuso nella società che ha sempre giocato un ruolo essenziale nella vita delle democrazie.
Proprio negli ultimi tempi, e di nuovo dopo le ultimissime vicende romane, si è lamentata la perdita degli anticorpi civile e sociali che sono indispensabili per contrastare criminalità, corruzione, privatizzazione delle risorse pubbliche, fuga dal dovere di pagar le tasse. Ma quella perdita è andata di pari passo con l’indebolimento degli anticorpi istituzionali, rappresentati persino con ostentazione come un intralcio all’efficienza e alla rapidità delle decisioni. Qui hanno giocato un ruolo decisivo una cultura politica e una cultura costituzionale che non sono state capaci di declinare quei temi al di là della risposta sbrigativa e pericolosa dell’accentramento dei poteri. Non si sono degnate della minima attenzione le ricerche sulle difficoltà profonde della democrazia, sì che nella proclamata riforma costituzionale manca ogni significativo cenno alla partecipazione e a quella nuova organizzazione dei poteri sociali che va sotto il nome di “controdemocrazia”.
Tutto questo ha fatto sì che l’impresa riformatrice goda oggi di una legittimazione decrescente, che si aggiunge ad una delegittimazione più radicale di cui non si è voluto temer conto. Un cambiamento costituzionale così profondo viene realizzato da un Parlamento eletto con una legge dichiarata illegittima, constatazione che avrebbe dovuto almeno indurre alla massima prudenza e a muoversi sempre con il massimo consenso. Acqua passata? Niente affatto, perché si è costituito un precedente per modifiche costituzionali costruite come esercizio della forza.
A chi intende trasformare la critica in azione politica si oppone, con sempre maggiore insistenza, un solo argomento. State preparando il terreno propizio al successo di Salvini o di Grillo. Lasciamo da parte la non onorata storia di questo argomento, sempre sospetto di intenti ricattatori. Si deve riflettere, invece, sul modo in cui è stata concepita e attuata l’azione di governo. Non vi sono alternative – si è detto e si continua a dire. Muovendo da questa incerta certezza, si è adoperato il muro contro muro, tutti gli interlocutori critici sono stati considerati nemici. Una strategia che fatalmente erode il consenso per il Governo. La democrazia non può essere separata dall’esistenza di alternative, soffre ogni monolitismo e, quando si rende difficile il dialogo o non si accetta la costruzione di nuovi soggetti, si è responsabili dell’astensione di massa, della democrazia senza popolo, o del rivolgersi a chiunque sul mercato si presenti come alternativa.
Il manifesto, 25 agosto 2015)
Nelle economie emergenti non si avvertirono problemi, anzi, gli indicatori economici continuarono a essere positivi. Però, successivamente — mentre nell’Eurozona l’ottusità della “austerità espansiva” aggravava i danni — la crescita si è ridotta o annullata anche in quasi tutti i paesi Brics. Rimaneva la Cina, che con i suoi elevati volumi di crescita del Pil e del commercio con in paesi occidentali attenuava i problemi di quest’ultimi.
Ma adesso anche in Cina è sempre più evidente la frenata dello sviluppo travolgente degli ultimi anni (dal 14% di crescita del Pil nel 2007, le previsioni per il 2015 sono anche inferiori al 5%; le esportazioni cinesi nel 2014 hanno registrato un calo fino al 26% rispetto al 2008 e sono diminuite del 7,3% nei primi sette mesi del 2015).
In Cina emergono i limiti di un modello che, pur molto diverso da quello dominante nei paesi capitalistici occidentali nell’ultimo trentennio, ha in comune il contenimento dei salari e la carenza dei consumi interni (pur se a livelli molto più bassi).
C’è stata una accumulazione forzosa volta a recuperare la sua arretratezza (capitalistica), alimentata con una distribuzione favorevole ai profitti (pubblici e privati) canalizzati in nuova capacità e innovazione produttiva, spingendo gli stessi redditi da lavoro a finanziare in Borsa le imprese e lo stato (il cui debito è pari al 280% del Pil).
L’elevato aumento della capacità produttiva e i bassi consumi interni hanno determinato anche un elevato surplus nel commercio estero e il reinvestimento dei proventi valutari in titoli stranieri, soprattutto Usa. Il modello di sviluppo cinese ha dunque contribuito al fenomeno mondiale della forte crescita di debiti e crediti che ha contribuito alla crisi globale, ma in modo diverso (e fortemente controllato dallo stato) dalla finanziarizzazione delle economie occidentali. In queste ultime gli squilibri nel settore reale erano attutiti dal crescente interscambio con la Cina. Tuttavia, le persistenti cause della crisi dei paesi capitalisticamente sviluppati hanno finito per trasmettere i loro effetti negativi anche al sistema cinese.
La decelerazione dell’economia cinese ha cause proprie, ma un contributo è ascrivibile alla perseverante crisi delle economie occidentali che ha finito per assumere una dimensione effettivamente globale. Questa evoluzione negativa è stata accentuata dalle politiche prevalenti nell’Euro zona, da mesi concentrate sui vincoli da imporre alla Grecia (ma con intenti dimostrativi per gli altri paesi periferici e la stessa Francia) per assisterla con un intervento da 86 miliardi di euro (in buona parte da utilizzare per la restituzione di debiti alla stessa Troika) che, tuttavia, rappresenta circa un decimo di quanto le Borse europee hanno perso nella sola settimana scorsa e ieri per effetto della “sindrome cinese”.
Una similitudine significativa sulla quale dovrebbero riflettere sia i fautori del modello tedesco sia chi auspica la rottura dell’euro è che nell’Unione europea e in Cina si stanno evidenziando i pur prevedibili problemi generati dalla inadeguatezza — pur se a livelli diversi — dei salari e dei consumi, e dalla difficoltà di compensarne l’effetto negativo sulla domanda con le esportazioni. Di fronte alla pericolosa tendenza delle svalutazioni competitive tra grandi aree — Usa, Cina, Giappone, Unione europea – i paesi membri di quest’ultima rischiano di parteciparvi, per di più, in ordine sparso, se torneranno dall’euro alle valute nazionali.
La concentrazione degli intenti espansivi sulla politica monetaria sta alimentando una ingente offerta di liquidità che, permanendo gli ostacoli di natura reale alla ripresa e alla sua riqualificazione, rifornisce la speculazione finanziaria e crea nuove “bolle”, anche in Cina, dove iniziano ad esplodere. Nel dibattito teorico si è tornati a valutare l’ipotesi che sia in atto una “stagnazione secolare” (come nella grande crisi degli anni ’30 del secolo scorso, con motivazioni arricchite dalle specificità della crisi attuale), ma lo si fa – per lo più — nei congressi accademici e in una “rassicurante” ottica di lungo periodo che sembra definire un piano parallelo di discussione sconnesso dalle vicende e dalla politiche economiche correnti.
Come da tempo succede i politici credono di avere altro cui pensare, ma — avvertiva Keynes — «sono di solito schiavi di qualche economista defunto».
Con una lettera al direttore del giornale la presidente della Camera dei deputati replica al presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, con garbo, ma con fermezza.
La Repubblica, 25 agosto 2015, con postilla
Le migrazioni forzate come quelle che si sviluppano oggi in molte parti del mondo non si impediscono con i muri, ma con le soluzioni. Cioè con la politica, mobilitandosi per porre fine ai conflitti. Le guerre si possono fermare, se c’è la volontà di farlo. Ma non sembra che oggi il mondo sia interessato a fare di più per evitare i massacri in Siria e in Iraq, la violenza in Somalia, la dittatura in Eritrea, per citare alcuni casi. Eppure noi Europei, più degli altri, dovremmo aver memoria degli orrori delle guerre. Non ce ne ricordiamo abbastanza, ma è l’Europa che ci ha garantito 70 anni di pace. Siamo figli di conflitti mondiali che per due volte in 30 anni avevano ridotto il continente ad un cumulo di macerie, con decine di milioni di morti e altrettanti di rifugiati e sfollati. È l’Europa che ci ha dato sicurezza, libertà e benessere, proprio ciò che manca a coloro che oggi ci chiedono protezione.
Certo, il presidente Juncker fa bene a sottolineare che nessuno Stato può regolare questo flusso da solo e che per farlo ci vuole un approccio europeo da mettere in atto senza indugi. È apprezzabile lo sforzo della Commissione, che per la prima volta ha indotto gli Stati membri ad una gestione condivisa degli arrivi dei rifugiati.
Questi apparati hanno fatto passare come necessità oggettive scelte che da un lato hanno avuto un forte impatto redistributivo verso l’alto, dall’altro hanno disegnato un nuovo ordine continentale asimmetrico a vantaggio dei centri forti dell’economia europea.
All’interno dei singoli paesi si è determinato un ingente spostamento di risorse dal salario – reale e differito – al capitale, e un’ulteriore concentrazione del potere nelle mani delle élites oligarchiche a scapito del controllo democratico. Su scala continentale si è giunti al contempo a una configurazione gerarchica dell’Unione europea, con una divisione del lavoro sostanzialmente duale, sul modello di quella che ha condotto all’esplosione, nel nostro Paese, della questione meridionale. Le forze popolari e progressiste hanno il compito di smascherare l’artificio retorico attorno al quale le classi dominanti hanno costruito la narrazione della crisi: un’operazione indispensabile per il rilancio di un disegno contro-egemonico su scala continentale.
È stata la haute finance a trarre beneficio dalle dinamiche della crisi, lucrando sulla “scarsità” di risorse da essa stessa prodotta con la complicità dei governi. Nel caso della Grecia i cosiddetti “salvataggi” non sono stati altro in realtà che uno strumento per garantire la rendita finanziaria, alimentando il potere di ricatto delle élites del denaro. Le banche europee, a cominciare da quelle tedesche, hanno sin qui prestato denaro ad Atene, che, privata della libertà di indirizzare questi fondi verso reali politiche espansive, si è trovata costretta ad ulteriormente indebitarsi. I provvedimenti imposti dalla Trojka hanno quindi realizzato, mediante una partita di giro, un rafforzamento delle banche private, favorendo al contempo un colossale spostamento di risorse dal welfare alla rendita finanziaria.
Le condizioni imposte per il “salvataggio” della Grecia hanno riproposto uno schema universalizzato, dove al primo posto, immancabile, si è collocata la raccomandazione di varare un ampio piano di privatizzazioni. Queste ultime hanno portato con sé due conseguenze. Da un lato, la svendita al capitale metropolitano di asset pregiati delle periferie sconvolte dalla crisi (è di questi giorni la notizia che il gruppo tedesco Fraport si è accaparrato la gestione quarantennale di 14 aeroporti greci). Dall’altro, specie in realtà in cui il capitalismo nazionale dimostra tendenze secolari verso la trasformazione in rendita, una deindustrializzazione funzionale alla riconfigurazione in senso gerarchico della divisione continentale del lavoro.
Alle privatizzazioni hanno poi fatto seguito un po’ ovunque le “riforme del lavoro”. Lungi dall’aver determinato una ripresa dell’occupazione, attraverso di esse si è stabilizzato un enorme esercito industriale di riserva, tra le file del quale pescare manodopera dequalificata e a basso costo per la produzione di semi-lavorati, destinati ad essere assemblati dai grandi gruppi industriali metropolitani. Con l’artificio retorico dell’invecchiamento della popolazione, infine, i governi nazionali sono stati costretti a varare “riforme delle pensioni” che hanno prolungato nel tempo la condizione di sfruttamento della forza-lavoro, garantendo allo stesso tempo lauti dividendi ai grandi gruppi assicurativi privati.
Senza una netta inversione di tendenza, questa serie di misure è destinata ad avere un impatto di lunghissimo periodo e a trasformare in profondità lo spazio economico continentale. La crisi modella la costruzione dell’Europa gerarchica, mentre lo strumento del memorandum, moderna Magna Charta, la “costituzionalizza”.
Dopo la Grecia è lecito supporre l’aggressione del grande capitale europeo ad altri anelli deboli dell’eurozona. Alcuni segnali in questa direzione si hanno già. Si pensi alla crescita dei colossi finanziari tedeschi, Allianz e Deutsche Bank, i quali stanno acquisendo anche in paesi come il nostro quote crescenti di mercato, al punto che Allianz è il secondo operatore in Italia nel campo delle assicurazioni. Anche per quanto riguarda il nostro mercato finanziario si pone quindi un problema di subalternità al gigante tedesco. Ma l’aspetto determinante per il dispiegarsi dell’egemonia tedesca è la deindustrializzazione del sud Europa, una delle emergenze che andrebbero affrontate nella prospettiva di un’alternativa.
Chi pensa che il futuro della Grecia o dell’Italia possa essere trainato dall’agricoltura o dal turismo, se non è in mala fede, rischia comunque di prendere un abbaglio. Non farebbe male ogni tanto rispolverare il pensiero dei nostri grandi statisti del passato. Riprendendo una valutazione di Cavour, all’inizio del Novecento Francesco Saverio Nitti affermava che «l’industria dei forestieri, l’industria degli alberghi sono grandi industrie: ma non possono considerarsi come la base del reddito nazionale. Inoltre un paese che vive dei forestieri tende in certa guisa ad abbassare il suo carattere: tende à un esprit d’astuce et de servilisme funeste au caractère national. L’industria dei forestieri invece è benefica invece in un paese già industriale che può trattare i forestieri su le pied d’une parfaite égalité».
Rispetto alla situazione in atto un’inversione di tendenza coinciderà solo con un ribaltamento degli attuali equilibri. Il nodo di fondo da affrontare è sempre lo stesso, il rapporto fra Stato e mercato: il primo deve tornare come in passato ad avere l’ultima parola sulla decisione su cosa, come e per chi produrre, cominciando con il recuperare quella che Beveridge avrebbe chiamato una “signoria sul denaro”, ossia una sottomissione della finanza al controllo democratico. Soltanto così sarà possibile perseguire politiche espansive e rilanciare la produzione industriale e terziaria in tutte le aree d’Europa.
L’accentramento dei poteri decisionali in mano ad organismi democraticamente irresponsabili ed un’asimmetrica divisione continentale del lavoro hanno proceduto fin qui di pari passo nella costruzione dell’Europa gerarchica. Solo un processo coordinato di ricostruzione dell’apparato produttivo della periferia continentale potrà innescare un processo opposto e virtuoso di riconfigurazione democratica dell’Europa.
La Repubblica, 24 agosto 2015, con postilla
CONSIDERO l’Europa una comunità di valori di cui possiamo andar fieri, ma raramente lo siamo. In Europa vantiamo i massimi standard mondiali di accoglienza dei profughi, mai rifiuteremmo asilo a chi necessita della nostra tutela, lo stabiliscono le nostre leggi e gli accordi stipulati. Mi preoccupa però il fatto che l’accoglienza sia sempre meno radicata nei nostri animi.
Quando parliamo di migrazioni parliamo di esseri umani, come noi, solo che queste persone non possono vivere come noi perché non hanno avuto la fortuna di essere nati in una delle regioni più ricche e più stabili del mondo. Parliamo di persone costrette a fuggire dalla guerra in Siria, dal terrore dell’Is in Libia, o dalla dittatura in Eritrea.
Mi preoccupa vedere che una parte della popolazione le respinge. Campi profughi dati alle fiamme, barconi rimandati indietro, violenze contro i richiedenti asilo o semplicemente l’indifferenza di fronte alla miseria e al bisogno. Non è questa l’Europa.
Mi preoccupa quando i politici di estrema destra e di estrema sinistra alimentano un populismo che produce astio soltanto e nessuna soluzione. Discorsi pieni di odio e esternazioni avventate che mettono a rischio una delle nostre maggiori conquiste – la libertà di circolazione nell’area Schengen e il superamento delle frontiere al suo interno. Non è questa l’Europa.
La questione dei confini
C’è però fortunatamente anche l’Europa dei pensionati di Calais che mettono a disposizione i generatori così che i profughi possano ascoltare un po’ di musica e ricaricare i cellulari. L’Europa degli studenti di Sigen che hanno aperto il campus della loro università ai richiedenti asilo. L’Europa del fornaio di Kos che ha distribuito pane alla gente affamata e spossata. Questa è l’Europa in cui voglio vivere. Naturalmente non esiste una risposta unica e tantomeno semplice al problema dei flussi migratori. Come sarebbe poco realistico pensare di aprire semplicemente i confini dell’Europa a tutti i vicini, è altrettanto fuori dalla realtà credere di poter chiudere le frontiere di fronte al bisogno, alla paura e alla miseria.
È però chiara una cosa: non esistono soluzioni nazionali efficaci. Nessuno stato membro può regolare le migrazioni efficacemente per suo conto. L’approccio deve essere più europeo e non c’è tempo da perdere. Per questo la Commissione Europea sotto la mia presidenza ha avanzato, già nel maggio scorso, proposte dettagliate per una politica comune nei confronti dei profughi e dei richiedenti asilo.
Solidarietà con i paesi vicini
Abbiamo triplicato la nostra presenza nel Mediterraneo per contribuire a salvare vite e a catturare gli scafisti. Sosteniamo gli stati membri inviando nelle regioni più interessate dal fenomeno squadre della Frontex (Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne) dell’Easo (Ufficio europeo di sostegno per l’asilo) e della Polizia europea.
Le nostre squadre aiutano le autorità locali, spesso oberate, a stabilire l’identità dei profughi, a registrarli e prelevarne le impronte digitali, nonché ad accelerare il disbrigo burocratico delle richieste di asilo. Interveniamo contro le reti dei trafficanti stroncando poco a poco la loro spietata attività commerciale.
Dimostriamo solidarietà ai nostri vicini, come la Turchia, la Giordania e il Libano, ospitando 20mila profughi da paesi extraeuropei. Collaboriamo con i paesi di provenienza o attraversati dai profughi. In questo modo intendiamo aprire vie legali, sicure e controllabili per i migranti.
Concludiamo accordi di rimpatrio che agevolano il ritorno al paese d’origine delle persone cui non viene riconosciuto il diritto di re- stare in Europa. E insistiamo perché sia posto in atto il sistema comune di asilo europeo deliberato recentemente da tutti gli stati membri – a partire dalle condizioni di accoglienza e dalla procedura di asilo fino all’obbligo di prelevare le impronte digitali dei profughi al loro arrivo in Europa.
La distribuzione dei migranti
La Commissione vuole “distribuire equamente” 40.000 migranti. In maggio la Commissione ha proposto un sistema per distribuire equamente in seno all’Ue una parte delle persone che arrivano in Italia e in Grecia e necessitano di tutela. Era intenzione della Commissione smistarne 40mila, gli stati membri sono già stati in grado di accettarne più di 32mila. Vogliamo essere ancor più incisivi creando un meccanismo stabile, che in situazioni di emergenza possa entrare in funzione in automatico ogni volta che uno stato membro ne abbia necessità.
L’esistenza di confini esterni comuni ci impone di non abbandonare al loro destino i paesi membri che si trovano in prima linea, bensì di affrontare le sfide delle migrazioni con spirito di solidarietà. Alcune delle misure proposte dalla Commissione hanno già trovato sostegno. Tutte le altre devono essere affrontate con urgenza dai 28 stati membri, anche da quelli che finora si sono rifiutati. I drammatici avvenimenti di quest’estate ci hanno dimostrato che ormai dobbiamo mettere in atto senza indugio la politica comune europea nei confronti dei profughi e dei richiedenti asilo.
Non servono solo i vertici straordinari dei capi di Stato e di governo. Si è già tenuto un vertice sulle migrazioni, a novembre ci rincontreremo a Malta. Dobbiamo far si che tutti gli stati dell’Ue approvino subito le norme europee necessarie, dando loro immediata attuazione.
L'ingresso nella UE
I paesi balcanici aspirano all’ingresso nella UE, ma non devono essere sicuri? Già nove anni fa la Commissione ha proposto una lista dei paesi di provenienza sicuri. Gran parte dei governi all’epoca bocciò l’iniziativa considerandola un’ingerenza nella propria sfera di competenza . Non è logico però che i paesi membri approvino la candidatura all’ingresso nella Ue dei paesi dei Balcani occidentali se al contempo non li classificano come sicuri. Quindi a settembre la Commissione degli stati membri presenterà una lista comune dei paesi di provenienza sicuri.
Ciò di cui abbiamo bisogno e ancora ci manca è il coraggio collettivo di adempiere alle norme del diritto europeo e ai nostri obblighi nei confronti degli individui anche se farlo non è semplice e certo spesso impopolare.
Invece vedo che si punta il dito contro gli altri in un gioco a scaricabarile che può forse servire a guadagnare attenzione e voti ma non risolve i problemi.
La cancelliera tedesca recentemente mi ha segnalato come in Germania certi Länder e comuni considerino le norme europee sull’assegnazione di appalti pubblici di ostacolo alla pronta realizzazione di alloggi per i profughi.
L'Europa è un continente resistente
Abbiamo subito controllato e abbiamo potuto stabilire che non è esatto. L’Europa contribuisce alla sistemazione dei profughi e io sono pronto, a inviare i miei collaboratori a Berlino e nei vari Länder se dovessero insorgere problemi concreti.
L’Europa fallisce se la paura prende il sopravvento. L’Europa fallisce quando gli egoismi hanno più voce della solidarietà presente in ampie porzioni della nostra società. L’Europa ha successo quando superiamo in maniera pragmatica e non burocratica le sfide del nostro tempo.
Spero che assieme – gli stati membri, le istituzioni e le agenzie Ue, le organizzazioni internazionali e i nostri vicini – riusciamo a dimostrare che siamo all’altezza delle sfide. Sono convinto che possiamo farcela.
La nostra storia comune lo dimostra: l’Europa è un continente resistente, che di fronte alla minaccia di essere spaccato finisce per unirsi. Questo dovrebbe esserci di incoraggiamento per le prossime settimane e mesi.
Traduzione di Emilia Benghi
postilla
Chissà se Juncker si rende conto di quattro fatti che solo a un sordo, cieco e muto possono sfuggire:
(1) Il problema non è adoperasi di fare un po’ di beneficienza per qualche decina di migliaia di disgraziati, facendo sgocciolare giù un po’ delle ricchezze dei benestanti, ma è quello di consentire condizioni umane di vita a milioni di profughi provenienti da un’area che comprende un intero continente (l’Africa) e un bel pezzo d’un altro continente (l’Asia). Non si tratta di mitigare le conseguenze di una calamità naturale, ma di governare un “esodo biblico”.
(2) i profughi (chiamiamoli quello che sono, non distinguiamoli sulla base di tassonomie insensate) fuggono dalle guerre e dalle carestie derivate dallo sfruttamento rapace variamente esercitato nei secoli di dominio dai governi (e dai popoli) del mondo Nordatlantico, un mondo di cui l’Europa fa parte da mezzo millennio.
(3) Lo sfruttamento di una parte dell’umanità da parte di un’altra si è fortemente accentuato nella fase, per ora terminale, del capitalismo, la cui ideologia e le cui pratiche sono variamente definite (chiamiamole, se volete, neoliberistiche).
(4) L’Unione Europea, di cui Junker è uno dei leader, è tenacemente abbarbicata, nella sua stragrande maggioranza, a quella ideologia e alle sue pratiche, come è finalmente chiaro a tutti grazie alla ferocia con cui Juncker, i suoi complici e i loro succubi ai si sono opposti ai ragionevoli sforzi della Grecia di Tsipras per indicare la direzione in cui muoversi per iniziare la costruzione di un’Altra Europa.
Predicatori complici di ingiustificabili assassini, ma i giovani che cascano nella loro rete «vedono immagini – per lo più autentiche – di uomini, donne e bambini orribilmente straziati o uccisi da droni o bombardamenti, oppure umiliati a Guantanamo o Abu Ghraib».
La Repubblica, 23 agosto 2015
ORMAI tutti i più importanti stati europei sono multietnici: alcuni più, altri meno; alcuni di buon grado, altri malvolentieri. Dalla piccola Irlanda a Occidente, che ha acconsentito ad aumentare la propria quota di migranti all’altrettanto piccola Estonia a Est, che ne ha accolti pochi ma è sotto pressione per accoglierne di più; dalla Germania nel centro d’Europa che ha aperto le porte e continua a farlo per decine di migliaia di migranti, alla Grecia e all’Italia nel Meridione, che hanno afflussi enormi di disperati in arrivo e in transito nelle loro città. E sempre più spesso, i nuovi europei sono musulmani in arrivo da Medio Oriente, Africa, Pakistan e India.
La minaccia jihadista, germogliata in casa, proviene per lo più dall’interno di queste comunità musulmane, la stragrande maggioranza delle quali è pacifica. Un numero significativo di immigrati musulmani è ben integrato nella cultura del paese che ha scelto; una piccola élite occupa posti influenti e di potere nel mondo degli affari, della cultura, della politica.
Ma un gruppetto di donne e uomini, per lo più giovani, è diventato jihadista: a centinaia si sono uniti allo Stato Islamico, e già in cinquecento hanno lasciato il Regno Unito per combattere a fianco dell’Is in Siria. Alcuni, come il britannico Jihadi John – il cui vero nome è Mohammed Emwazi – sono diventati famigerati assassini. Emwazi – tra molti quello che gode della peggior fama – ha decapitato almeno otto ostaggi occidentali l’anno scorso: in un filmato con audio ottenuto dal Mail on Sunday , si vanta del fatto che tornerà nel Regno Unito per uccidere ancora.
Le gesta di Jihadi John e dei suoi compagni sono concepite per seminare il terrore, ma anche la diffidenza. Per coloro che hanno abbracciato il terrorismo e lo impugnano come un’arma contro tutti gli infedeli – e spesso i musulmani che credono in “modo sbagliato” sono le loro prime vittime – le pacifiche società multietniche e multireligiose sono un abominio. Nel migliore dei casi, nella visione del mondo dei jihadisti le altre religioni quali il Cristianesimo, l’Induismo, l’Ebraismo e il Buddismo devono essere sottomesse alla legge musulmana. Nel peggiore, devono essere costrette a convertirsi all’Islam con la forza. Non devono convivere in armonia, perché l’armonia non è tollerata.
Per quale motivo giovani donne e giovani uomini che vivono in società confortevoli come quelle dell’Europa occidentale – dove le loro famiglie hanno trovato casa e lavoro, dove possono praticare liberamente la loro fede, dove sono in vigore leggi che vietano di discriminarli – si interessano a un gruppo violento ed estremista come l’Is e in qualche caso arrivano a scagliarsi contro i loro stessi concittadini nei paesi d’adozione? Ciascun individuo è unico: ma alcuni hanno caratteristiche comuni.
L’Is, come Al Qaeda e altri gruppi terroristici, ha imparato bene come sfruttare la Rete, e i contenuti che trasmette riescono a essere persuasivi. Più di ogni altra cosa, il messaggio lanciato sottolinea sempre una medesima cosa: che il vero Islam è sotto attacco da parte dei crudeli infedeli – americani, britannici, francesi, altri ancora – che aspirano a massacrare i musulmani e a distruggere l’Islam.
Coloro che si collegano a questi siti vedono immagini – per lo più autentiche – di uomini, donne e bambini orribilmente straziati o uccisi da droni o bombardamenti, oppure umiliati a Guantanamo o Abu Ghraib. Le immagini e il commento sonoro sono ingegnosamente concepiti per risvegliare l’odio nelle menti dei giovani che potrebbero sentirsi estraniati dalle società che li ospitano e anche dai loro genitori, e che considerano i militanti dell’Is una legione di soldati puri e coraggiosi, dediti alla creazione di uno stato divino. Ecco perchè alcuni giovani musulmani si abbandonano all’odio e in alcuni casi si lanciano nella violenza attiva. E così, le comunità in senso più ampio iniziano a temere il nemico che hanno dentro di sé. E così, un numero crescente di cittadini chiede che si ponga fine all’immigrazione, che potrebbe far arrivare altri jihadisti. Il virus dell’odio inter-etnico in questo modo attecchisce e cresce, e le società iniziano a disintegrarsi. L’Is così potrebbe vincere, a meno di essere fermato.
«Voglio allora dirlo nel modo più netto possibile: io credo che la decisione di andare a elezioni anticipate da parte del Governo di sinistra greco sia un esempio di "Grande politica"» Il problema è «come rendere più forte la nostra iniziativa, in Italia e in Europa, in modo da non lasciare più a lungo Atene sola».
Il manifesto, 23 agosto 2015
Credo che chi la pensa così in realtà ignori del tutto il contesto in cui la partita si gioca (quello europeo, segnato da un feroce rapporto di forza), la dimensione dinamica di essa (non c’è una mossa definitiva, fine a se stessa, in cui si vince o si perde tutto, ma un quadro in movimento in cui la mossa di ognuno influisce sulle posizioni degli altri), la natura dei protagonisti in campo (si pensa davvero che Alexis Tsipras da eroe omerico sia diventato di colpo un rinunciatario o addirittura un «traditore»?).
Voglio allora dirlo nel modo più netto possibile: io credo che la decisione di andare a elezioni anticipate da parte del Governo di sinistra greco sia un esempio di «Grande politica». Anziché perdersi in alambicchi e campagne acquisti per rosicchiare consensi tra le componenti di Syriza (comprese quelle che hanno rifiutato il Congresso puntando alla scissione), Tsipras ha scelto di tagliare i nodi e di rivolgersi all’elettorato greco come «sovrano», con una prova di spirito democratico assente in tutte le altre classi politiche europee, e insieme di coraggio. Non si è dimesso perché «ha perso», ma perché «vuole vincere».
La ragione non solo tattica ma strategica delle dimissioni non è la «fine della sua maggioranza» — che probabilmente avrebbe potuto raggranellare in qualche modo — ma al contrario il bisogno di una più chiara e più forte maggioranza: la volontà di essere pronto, nelle migliori condizioni possibili (cioè con una «propria» maggioranza, coesa e determinata) per le sfide d’autunno, che saranno dure e alte: la questione del debito in Europa — messa in agenda globale grazie alla sua politica -, la gestione della crisi sociale in Grecia, la necessità di allargare il fronte dell’opposizione al neoliberismo e all’austerità nello spazio europeo, fuori da ogni tentazione sovranista o nazionalista, con una politica intelligente, pragmatica ed efficace (l’opposto dello schematismo ideologico dei suoi critici, di destra e di sinistra).
Lungi dall’arretrare o «ritirarsi» a me sembra che passi all’offensiva, alzando la posta e quindi, di conseguenza, cercando di portare la propria forza politica all’altezza di essa.
In autunno si giocheranno molte sfide in Europa e non solo. E si potranno produrre molti cambiamenti: nel Regno Unito, dove Corbyn promette di seppellire definitivamente la desolante eredità blairiana, negli stessi Stati Uniti dove una candidatura socialista minaccia da vicino la strapotenza dei Clinton, in Spagna naturalmente e in Portogallo… I critici di Tsipras farebbero bene a riflettere meglio piuttosto che sulle debolezze della sinistra greca, sulle contraddizioni, ben più potenzialmente esplosive, dell’establishment europeo, apparentemente onnipotente in realtà dai piedi d’argilla (a cominciare dalla Germania, tanto più dopo la «sindrome cinese»).
«Nel momento in cui i piazzisti politici europei hanno deciso, più o meno all’unisono, di fare la voce grossissima contro i migranti, decretando che la misura è colma, “e ora basta!”, ci si accorge, in un solo sabato, che la misura non fa che crescere, e che tutti i record sono destinati a essere aggiornati di ora in ora».
La Repubblica, 23 agosto 2015
Venti giorni fa, a Calais, un padre disperato, dopo chissà quanti tentativi ricacciati, aveva spinto la propria bambina oltre il reticolato, verso una salvezza di orfana. Da due giorni, alla frontiera greco- macedone di Gevgeljia, altri padri tendevano i loro piccoli verso le guardie macedoni, e ieri hanno infranto la barriera, in una esasperata Schengen alla rovescia, andando contro lacrimogeni e bombe assordanti. Che cosa volete che siano le bombe assordanti per chi viene dalla Siria dei barili esplosivi sganciati dal cielo e delle bombe chimiche. E i poliziotti macedoni, descritti come impassibili da qualche cronaca- “Sono gli ordini” - hanno sperimentato anche loro la differenza fra “il problema della migrazione” e una faccia di bambina spaventata che piange. Una storia del progresso umano dovrà tenere in gran conto l’invenzione del filo spinato (1874) e la sua evoluzione nel filo a lama di rasoio, quello attraverso il quale vedete insinuarsi i bambini nelle fotografie di ieri.
Nel momento in cui i piazzisti politici europei hanno deciso, più o meno all’unisono, di fare la voce grossissima contro i migranti, decretando che la misura è colma, “e ora basta!”, ci si accorge, in un solo sabato, che la misura non fa che crescere, e che tutti i record sono destinati a essere aggiornati di ora in ora. Gli annegati nel Mare Nostro sono già più di 2.300, in nemmeno 8 mesi. Gli arrivati, più di 255mila – 105mila in Italia, quasi 150mila in Grecia. Perfino il record delle vacanze estive sulle nostre località balneari va annotato nello stesso registro di entrate e uscite, avvantaggiato com’è dal crollo del turismo tunisino (la metà dei posti perduti), dalle paure per l’Egitto, dalle incertezze greche...
Le Monde) Inizia la campagna politica europea dell'ex ministro di Tsipras. L’ex ministro è convinto e, insieme a Tsipras, ha fatto capire a tutti: «Schäuble e i creditori non vogliono salvarci, la Grecia è un laboratorio, poi attaccheranno lo Stato sociale europeo». La Repubblica, 23 agosto 2015
Le elezioni rischiano di slittare al 27 settembre, una settimana dopo a quanto preventivato da Alexis Tsipras. Né Nuova Democrazia (il secondo gruppo parlamentare) né Unità Popolare (terzo come numero, appena nato da una scissione di Syriza) rinunceranno ai tre giorni di mandato esplorativo concesso dalla Costituzione. Oggi scade il tempo per Nd. Il premier uscente ha commentato la fuoriscita da Syriza spiegando che «non è un atto rivoluzionario spaccare un partito per collocarsi all’opposizione». La replica: «Tsipras confonde la dittatura del memorandum con il funzionamento democratico». Schermaglie elettorali, di sfondo resta l’Europa con, Klaus Regling capo dell’Esm, che ricorda: «Il denaro sarà erogato solo dopo l’attuazione delle riforme»
ATENE . Provocatorio, idealista, arrogante. Yanis Varoufakis, l’ex ministro delle Finanze greco, è tanto affascinante quanto fastidioso. Il terzo piano di aiuti alla Grecia, che lui definisce come una “capitolazione” di fronte ai creditori, porterà il suo paese nel baratro, spiega. Denuncia l’opacità dell’Eurogruppo, che, secondo lui, prende le decisioni più importanti per il futuro della zona euro senza che i cittadini ne siano informati.
Arnaud Montebourg l’ha invitata alla Fête de la Rose, (parlerà oggi ndr ). A che punto è la sinistra europea?
«Ha un grande lavoro davanti a sé. L’unione monetaria, costruita in origine per unire i popoli europei, li ha invece divisi, mettendoli gli uni contro gli altri. C’è un urgente bisogno di ridare vita al dialogo democratico. In questo senso, mi sembra essenziale creare una rete europea dei progressisti, al di là delle divisioni politiche tradizionali e dei confini, pronta a perseguire un obiettivo radicale: democratizzare l’euro e le sue istituzioni, con tutti coloro che sono convinti che nulla di buono può venire dai tecnocrati di Francoforte o di Bruxelles che depoliticizzano la moneta».
Chi potrebbe dirigere questo movimento?Lei?
«Non si tratta di sapere chi lo potrebbe dirigere, è una decisione che non può venire dall’alto, né può essere ridotta a un leader, chiunque sia».
La Francia è stata un’alleata del governo di Alexis Tsipras nel corso dei negoziati con i partner della Grecia?
«La maggior parte degli europei immagina che negli ultimi mesi la Grecia abbia negoziato con i suoi partner della zona euro. Non è così. Durante i cinque mesi in cui sono stato coinvolto, i miei omologhi mi rimandavano sistematicamente ai rappresentanti di Commissione, Bce e Fmi. Non ho mai negoziato direttamente con Michel Sapin. Né con Wolfgang Schaeuble, che mi assicurava di non poter fare nulla per me. Anche quando Schaeuble ed io abbiamo finalmente aperto un dialogo, poco prima del mio ritiro, era chiaro che qualsiasi grado di convergenza tra noi non poteva essere espresso formalmente».
Rimprovera al governo greco di aver firmato il terzo piano di aiuti?
«Ho votato contro questo programma. Purtroppo, il primo Ministro alla fine ha accettato ciò che lui stesso ha definito non buono. L’Europa intera ne uscirà perdente».
Eppure ha evitato il “Grexit”
«Questo è il modo in cui la stampa presenta le cose, ma io non condivido. Se la Grecia tenta, a dispetto del buon senso e delle leggi elementari dell’economia, di applicare questo memorandum e le riforme che lo accompagnano, corre dritta verso il Grexit. Perché questo programma è stato concepito per affondare la nostra economia. Risultato: non potremo mantenere i nostri impegni, e Schaeuble potrà puntare il dito contro di noi e tagliare gli aiuti al nostro paese. L’obiettivo che persegue è molto chiaramente il Grexit».
Lei sostiene che il ministro Schaeuble vuole spingere la Grecia fuori dall’euro. Per quale motivo?
«Per colpire la Francia. Lo stato sociale francese, il suo diritto del lavoro, le sue imprese nazionali sono il vero obiettivo del ministro delle finanze tedesco. Egli considera la Grecia come un laboratorio di austerità, dove sperimentare il memorandum prima di esportarlo. La paura del Grexit mira a far crollare le resistenze francesi, né più né meno».
Lei chiede di creare nuove istituzioni nella zona euro, di dare più potere al Parlamento europeo?
«Ritengo che non abbiamo un Parlamento europeo. L’istituzione di oggi non compie la sua missione. È un insieme di interessi nazionali che insulta il concetto stesso di democrazia ».
Se potesse tornare indietro, al mese di gennaio, quando Syriza è andato al potere ed è stato nominato ministro delle Finanze, che cosa cambierebbe?
«Molte cose. Ma soprattutto una. Il 20 febbraio, avevamo raggiunto un accordo importante con i creditori. Non menzionava più il memorandum, ma spiegava che il governo greco avrebbe presentato un elenco di riforme, convalidate dai partner che lo avrebbe sostituito. Solo che, due giorni dopo, i dirigenti delle istituzioni, Pierre Moscovici, per la Commissione, Christine Lagarde, per il Fmi e Mario Draghi, per la Bce, hanno reintrodotto il riferimento al memorandum durante una conferenza telefonica. A quel punto, avremmo dovuto rifiutare di continuare la discussione ».
Nei sei mesi in cui è stato a capo del ministero delle Finanze, non ha preso alcuna decisione per lottare contro la corruzione e gli oligarchi, che denuncia con vigore.
«Questo è un ottimo esempio della disinformazione contro cui mi batto. Abbiamo preso, nonostante tutto, dei provvedimenti, in particolare sull’evasione fiscale, uno dei principali mali del paese. Uno di essi consiste nell’uso di un software con un algoritmo che consente di confrontare i trasferimenti di denaro tra conti bancari degli ultimi venti anni con le dichiarazioni dei redditi. Si tratta di un progetto notevole. Tanto più tenendo conto che la troika non ci ha facilitato le cose. Ma ci siamo riusciti. Se tutto va bene, più di seicentomila evasori fiscali verranno identificati grazie a questo algoritmo a settembre o ottobre. Sarebbe un grande successo».
Perché la “troika” non vi ha aiutato?
«Il suo vero obiettivo non è mai stato quello di riformare il nostro paese, né di recuperare il denaro prestato alla Grecia. Altrimenti, avrebbe accettato le nostre proposte, vale a dire di ridurre il debito pubblico, di istituire una struttura di riscatto per gestire i crediti in sofferenza, e lanciare una banca d’investimento in grado di rafforzare l’economia e la crescita potenziale. Al contrario, ha preferito imporci delle condizioni che garantiscono che non saremo mai in grado di ripagarlo».
Ma a quale scopo?
«Perché la Grecia è solo una battaglia in una guerra molto più ampia per il controllo dell’unione monetaria. Nel 2010, il primo piano di aiuti aveva come obiettivo salvare le banche francesi e tedesche. Oggi, i creditori cercano semplicemente di controllare il governo greco, per neutralizzare gli altri paesi che potrebbero sfidare l’ordine costituito, questo è il progetto di Schaeuble».
In queste circostanze, la Grecia deve malgrado tutto rimanere nell’euro?
«Alexis Tspiras mi ha nominato ministro delle Finanze perché sono e sono sempre stato convinto che, nonostante i difetti iniziali dell’unione monetaria, non è possibile né opportuno uscirne. Dobbiamo cercare, invece, di risolvere ciò che non funziona al suo interno.
Non sono, d’altra parte, un feticista dell’euro, né della dracma. Le monete, come i mercati finanziari, sono degli strumenti al servizio di un obiettivo: migliorare la vita dei cittadini. Ma negli ultimi vent’anni, abbiamo avuto la tendenza a dimenticarlo. I mercati, come l’euro, sono diventati delle religioni».
Continuerà a impegnarsi nella vita politica greca?
Assolutamente sì. Quando, dopo una lunga riflessione, sono sceso nell’arena politica, l’ho fatto per restarci. Voglio rappresentare i greci che hanno votato per me e lottare per loro con tutti i mezzi possibili. La missione che sento di dover compiere oggi è quella di rendere pubblico a livello internazionale ciò che è accaduto in Grecia negli ultimi mesi».
Lei ha dato il suo sostegno a Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, che cerca di far svelare il trattato di libero scambio transatlantico. Renderebbe pubblici anche dei documenti dell’ Eurogruppo?
«Il mio rapporto con Julian Assange va oltre le pure questioni europee. La mia esperienza dell’Eurogruppo, dove si prendono decisioni importanti senza che i cittadini ne siano informati, senza documentazione scritta, riecheggia la guerra di Wikileaks, contro un mondo in cui i potenti dispongono di tutte le informazioni e i cittadini non hanno nulla».
copyright Le Monde traduzione di Luis E. Moriones
Crede che Syriza possa porsi come obiettivo la maggioranza assoluta, come dicono molti suoi compagni di partito? E su cosa basate il vostro ottimismo?
«Il periodo difficile delle trattative si è concluso con il nuovo accordo e con la riscossione della prima tranche del nuovo prestito. A conclusione di questo periodo si sono esauriti anche i termini del mandato popolare che abbiamo ricevuto il 25 gennaio. Poiché crediamo fermamente nelle procedure democratiche e abbiamo piena fiducia nel giudizio del popolo, facciamo di nuovo ricorso ad esso, perché possa dire se abbiamo rappresentato correttamente il nostro paese, se abbiamo dato la giusta risonanza alla dimensione europea e mondiale della questione, se l’accordo raggiunto offre le precondizioni affinché si possano superare le vie senza uscita in cui ci si trova oggi, e — infine — chi e in che modo può guidare il paese nel futuro.
«Abbiamo la coscienza a posto e siamo fieri della battaglia che abbiamo condotto, e sono ottimista, prevedo che i cittadini sceglieranno nuovamente Syriza. L’insistenza, la sincerità e la determinazione con la quale abbiamo trattato, come anche le prove date con le nostre iniziative politiche, riguardo a molte questioni su cui abbiamo legiferato sul piano interno, verranno giudicate, io credo, positivamente. È quello che mostrano, poi, anche le più recenti indagini demoscopiche. Non stiamo più vivendo, inoltre, nel clima di allarmismo sul quale si era basata la polemica creata contro di noi, alle elezioni di gennaio. I cittadini non hanno motivo di essere titubanti nel dare nuovamente a Syriza il mandato chiaro, necessario a governare. Sanno che gestirà nel miglior modo possibile il programma concordato con i creditori, che è indubbiamente difficile, e al tempo stesso garantirà importanti cambiamenti e un vero rinnovamento, basati, principalmente, sulla giustizia e i diritti sociali».
Le forze di opposizione metteranno sicuramente l’accento sul fatto che a gennaio vi eravate schierati contro i memorandum, mentre la settimana scorsa avete firmato un nuovo compromesso, un nuovo memorandum. Cosa rispondete?
«Abbiamo esaurito tutto lo spazio di una trattativa dura e dolorosa, arrivando anche a delle situazioni –limite. Davanti al ricatto e al pericolo immediato di una catastrofe senza precedenti, per il paese e prima di tutto per le classi più deboli, abbiamo scelto il miglior compromesso che potevamo ottenere. Ora chiediamo nuovamente la legittimazione popolare per poter gestire questo accordo, per ridurre al minimo le conseguenze negative di questo accordo e usare al meglio le fratture che abbiamo creato nel campo dell’«armata dell’austerità» in Europa».
Cosa prova, sul piano politico e personale, riguardo alla scissione di Syriza? Comprende una parte delle posizioni dell’ex Piattaforma di Sinistra, o i vostri approcci sono, ormai, totalmente differenti?
«Una scissione costituisce sempre un processo doloroso. Spero che la nostra esperienza comune di eventi traumatici del passato e il percorso comune fatto assieme, sino ad ora, aiutino ad evitare gli aspetti peggiori che potrebbero esserci, riguardo ad eventuali sviluppi. Devo confessare, tuttavia, che non comprendo l’approccio degli ex compagni, visto che l’esperienza della trattativa ha mostrato i limiti oggettivi dello scontro. Ci siamo trovati, realmente, sull’orlo del precipizio e credo che questo avrebbe dovuto aiutare, tutti noi, a comprendere l’ambito nel quale dobbiamo portare avanti le nostre rivendicazioni. La soluzione alternativa dell’uscita dall’ Europa — dalla moneta comune o anche dalla stessa Unione europea– non è, in nessun caso, un progetto politico sostenibile».
Alexis Tsipras continua a godere di grande popolarità, anche dopo la firma dell’accordo con i creditori. Lei che collabora con lui quotidianamente, a cosa lo attribuisce?
«Indubbiamente, il primo ministro greco gode di una grande popolarità che supera anche i confini del paese. Credo che sia evidente anche in Italia e tra i lettori del vostro giornale, dal momento che una grande parte della sinistra italiana ha mostrato di trovare ispirazione nello sforzo di Alexis Tsipras e di Syriza. Alexis Tsipras ispira i cittadini, in Grecia e anche all’estero, e credo che questo sia dovuto alla sincerità del suo agire politico, al fatto che metta in risalto i valori della sinistra, al suo fortissimo impegno nella lotta contro la corruzione, gli intrecci tra la politica e gli interessi economici consolidati, e alla sua azione contro le politiche che hanno portato al vicolo cieco in cui siamo finiti».
È ministro dell’economia, uno dei principali conoscitori e responsabili del settore. Quanto negativamente influiranno sull’economia reale e la vita delle famiglie le misure del nuovo memorandum? Esiste una possibilità reale di sostenere le classi sociali più deboli?
«Non intendo certo risponderle che si tratta di un accordo privo di problemi. Offre, tuttavia, una base di stabilità per fare in modo che ci sia la ripresa, dal momento che la dinamica di sviluppo dell’economia, in passato, è stata sempre frenata. Il poter riuscire a far sviluppare, appunto, questa dinamica, l’alleggerimento del debito (che è già iniziato per quel che riguarda le scadenze immediate e continuerà per quelle a più lungo termine), assieme alle risorse per gli investimenti che arriveranno nel prossimo periodo (dai fondi comunitari, dai finanziamenti da banche di investimenti e piano Juncker) e riforme-base (dal sistema fiscale sino allo stato sociale) possono creare le condizioni per il sostegno di chi è più in difficoltà. Chiediamo il mandato popolare esattamente per realizzare queste condizioni».
Syriza continua ad essere un partito della sinistra o potrebbe trasformarsi in una forza di centrosinistra, in un «Pasok 2.0»? Lotta ancora contro l’onnipresente finanza e il predominio tedesco in Europa?
«Syriza era e rimane un partito di sinistra, che lotta per gli interessi dei più deboli, e definisce se stessa con chiarezza nei confronti della socialdemocrazia. Siamo riusciti a creare delle crepe nel fronte europeo dell’austerità. Dopo le elezioni, con la forza che ci darà il popolo greco, continueremo a lottare affinché queste crepe diventino una frattura, e in una rottura definitiva con le politiche che hanno portato alle vie senza uscita in cui si è trovata la Grecia ma anche tutta l’Europa».
«L'impresa di Tsipras può non apparire e non essere disperata dipende anche e molto dalla capacità di rompere quell'isolamento internazionale che nella trattativa l'ha vista fronteggiare da sola 18 avversari. I quali non sono più uniti come prima. A maggiore ragione l'altra Europa deve stringersi attorno a Tsipras, o meglio a quello che rappresenta.».
Huffington post, 22 agosto 2015
Aveva di fronte due scelte: o accettare l'invito di Schauble a una Grexit che in realtà avrebbe significato l'uscita definitiva della Grecia dall'euro o compiere parecchie rinunce pur di rilanciare la discussione sul debito greco nel suo complesso.
Ha scelto questa seconda strada. L'accordo è tutt'altro che bello e gli spazi per resistere ai suoi lati peggiori e più invasivi sono davvero stretti. Ma questo la leadership greca, eccezione si può dire unica rispetto alla retorica dominante dei governi europei, non lo ha nascosto né al popolo né al parlamento.
Il prezzo pagato è probabilmente quello di una scissione di Syriza, tutt'altro che indispensabile e auspicabile. Proprio nel momento in cui il fronte avversario si divideva, con il Fmi a sostenere che è necessario un taglio nominale del debito greco altrimenti insostenibile (tesi affermata dai greci fin dall'inizio); con Olanda e Finlandia che da falchi si son fatte colombe (almeno per ora); con le preoccupazioni tedesche ed europee che si spostano, o dovrebbero farlo, assai più sulle conseguenze della tripla svalutazione della divisa monetaria cinese (basta vedere che l'auto tedesca già esporta un 30% in meno in Cina).
Ma ha ragione Tsipras: una fase si è chiusa, se ne apre un'altra e il governo ha bisogno di un mandato popolare forte e rinnovato. In autunno il punto sarà l'apertura della trattativa sulla ristrutturazione /riduzione del debito. E' una questione che non riguarda solo la Grecia ma i debiti sovrani di tutti paesi europei. Anche il nostro, se avessimo un governo all'altezza.
Ha ragione, tra l'altro, il governo greco a chiedere una presenza nella trattativa del Parlamento europeo in quanto tale, unica istituzione effettivamente elettiva della Ue.
Ma una trattativa di questo genere, come la resistenza agli aspetti più odiosi dell'accordo che ha sbloccato gli 86 miliardi (che in gran parte tornano ai creditori istituzionali), non si può fare senza un popolo e un paese coesi. Tsipras lo sa bene, perché lì è sempre stata la sua forza. Un conto è aprire e reggere una divergenza con Varoufakis - che peraltro, a quanto si sa, non ha voluto fare parte del nuovo schieramento che si sta formando contro Tsipras - nel pieno rispetto delle opinioni di ognuno, un altro è caricarsi sulle spalle un paese e traghettarlo oltre la peggiore crisi economica e sociale della su storia. Per questa ragione il passaggio elettorale era ed è ineludibile.
Del resto questo è il modo migliore e più inequivocabile per rispondere a chi tentava di delegittimare la leadership di Tsipras, mettendone in dubbio la effettiva rappresentatività - come le élite europee che hanno cercato in ogni modo di "farlo fuori" - e nello stesso tempo di replicare nei fatti a chi - all'interno stesso di Syiriza - avanzava accuse di cedimento se non di tradimento.
Ora ognuna e ognuno è di fronte alle proprie responsabilità. Anche la sinistra europea. Non certo la socialdemocrazia che, come nel caso tedesco, ha fatto a gara ad essere più realista del re nel bastonare il debitore greco. Non certo il partito di Renzi che nella sostanza e al dunque ha sempre appoggiato la Merkel. Ma quella che si è venuta raccogliendo attorno alle nuove esperienze di verticalizzazione politica di movimenti sociali che tornano a tormentare i sonni delle oligarchie di governo, dalla Spagna all'Inghilterra, pur con diverso peso e incidenza politico-sociale.
Se l'impresa di Tsipras può non apparire e non essere disperata dipende anche e molto dalla capacità di rompere quell'isolamento internazionale che nella trattativa l'ha vista fronteggiare da sola 18 avversari. I quali non sono più uniti come prima. A maggiore ragione l'altra Europa deve stringersi attorno a Tsipras, o meglio a quello che rappresenta. Se vuole vincere nelle prossime prove nei rispettivi paesi, cambiando così il volto politico e sociale dell'Europa stessa e salvandola da una sua implosione.
Tutto vero, tutto giusto. Parole condivisibili, gioielli in un mare di chiacchiere. Ma un risvolto rivelatore d'una situazione drammatica: per combattere l'antistato non si fa ricorso alla laicità della politica e all'autorità di chi abbiamo eletto, ma alla religione e all'autorità del papa. L
a Repubblica, 22 agosto 2015
Non bisogna farsi illusioni. La partecipazione di quella piccola folla nella periferia romana è stata sincera, non è stata costretta né spinta dalla curiosità per la morte di una celebrità o dalla voglia di partecipare a un evento. Si va ad omaggiare don Vittorio Casamonica perché don Vittorio anzi Zio Vittorio ha saputo “governare” il suo regno nascosto, è stato presente nelle vite di chi lo va a salutare.
Le organizzazioni criminali sono strutture serie in grado di organizzare il consenso, mantenere la parola, distribuire ricchezze, intervenire nel momento in cui non solo gli affiliati ma il proprio territorio ha necessità. Nel vuoto dello Stato esiste un anti-Stato criminale che riesce a generare consenso tra la sua gente anche se il suo “governo” vuol dire estorsioni, usura, droga, violenza. È un anti-Stato in grado di portare soldi, e molti, ai capi ma anche diffusione di benessere e controllo del territorio. È paradossale dirlo, ma è vero: se domani l’economia criminale sparisse da questo Paese, il Paese ne avrebbe un contraccolpo non solo economico ma organizzativo. La classe dirigente mafiosa in Italia ha una sua terribile efficienza.
Ecco perché il funerale di un capo-clan non è semplicemente una messa in scena, un’ostentazione kitsch di opulenza e dominio. Tutt’altro: i Casamonica sono una mafia emergente, emergente non perché sono dei novizi ma perché dopo decenni di crimine subalterno e gangsteristico hanno cercato di strutturarsi in regole e gerarchie e hanno quindi costruito una cultura ed un’economia mafiosa attorno al proprio sangue e al proprio gruppo. L’ambiguità di criminali di piccolo cabotaggio ma tutto sommato in grado di farsi ascoltare in borgata li ha resi interlocutori della politica (la cena con Poletti e le foto con Alemanno) al punto da potersi permettere di sedersi al tavolo stesso del Palazzo come borderline tra la strada — il carcere e il (finto) impegno sociale. Quindi i Casamonica come tutti i gruppo neo-mafiosi hanno bisogno come ossigeno di queste celebrazioni. Anche la musica del Padrino è il riferimento più chiaro a chi vuole in tutti modi mostrare che è uscito dal marciapiede e dai campi e si è eletto a gruppo mafioso.
La chiesa di papa Francesco ha scomunicato i mafiosi, ha spinto ‘ndranghetisti in carcere a non presentarsi alla messa temendo che il solo partecipare potesse significare agli occhi dei vertici dell’organizzazione una dichiarazione di distanza dalle cosche. Ora la chiesa di Francesco deve fare un nuovo passo: commissariare la chiesa di San Giovanni Bosco. Non so se le regole vaticane prevedono misure simili, non so se è il termine adatto, non mi riferisco al diritto canonico. Sarebbe però un gesto in grado di interrompere il legame tra sacramenti religiosi e sacramenti mafiosi. Il sacramento mafioso è l’utilizzo dei rituale religioso per avere un’investitura pubblica, per trovare uno spazio legittimo per manifestare se stessi e la propria forza e autorità. Don Peppino Diana ne fece la sua battaglia: quella di impedire che battesimi, comunioni, cresime divenissero occasioni di autocelebrazione criminale. Fu proprio questa sua scelta che lo condannò a morte.
Il parroco che ha celebrato il funerale di Vittorio Casamonica, don Giancarlo Mattei, risponde nel più classico dei modi: «Non sapevo chi fosse». E ha aggiunto: «Il perdono c’è per tutti. La chiesa non discrimina, io l’assoluzione la do a tutti». Strano: la stessa chiesa che ha spalancato le porte al clan Casamonica le ha chiuse invece a Welby “colpevole” di aver scelto di lasciare una vita diventata per lui insopportabile. Questa volta il sacerdote ha deciso invece di celebrare il funerale. Bene. Ma avrebbe dovuto rifiutarsi di farlo quando si è trovato di fronte ad un teatro del genere. La scomunica di papa Francesco non è contro l’uomo, non si rivolge all’individuo. La scomunica non è all’assassino, all’estorsore, all’affiliato, al sindaco corrotto, al giudice compromesso, al boss, la scomunica è contro chi continua a sostenere l’organizzazione. La scomunica è all’assassinio, all’estorsione, alla tangente, alla corruzione quindi alla prassi mafiosa.
Ieri quel funerale è apparso come pura prassi mafiosa. L’assoluzione che doveva andare all’uomo è stata estesa, di fatto, al suo sistema di potere criminale.
Roma è una città impreparata. La trasformazione è accaduta raccontandosi la menzogna di essere territorio immune, semplicemente “invaso” da rubagalline e bande. La stessa favola che vede piangere miseria le donne dei Casamonica nella perfetta tradizione mafiosa, nella quale i grandi capi risultavano essere dipendenti di fruttivendoli, si dichiaravano semplici contadini con una giovinezza di rubamacchine. Roma ha sempre creduto di essere estranea alle dinamiche mafiose. Del resto il suo gruppo più forte si chiamava appunto “Banda della Magliana”, banda è qualcosa di molto diverso da una cosca mafiosa. Ma l’inchiesta su Mafia capitale ha obbligato la città a un brusco risveglio. I funerali di giovedì sono una allarmante conferma di cosa rischia di diventare la prima città d’Italia. Anzi di cosa è già: terra di mafia.
“
Se domani l’economia criminale sparisse l’Italia accuserebbe il colpo
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Ora la Chiesa di Francesco deve occuparsi della chiesa romana di Don Bosco
Atene. La Prossima Settimana s'insedia, Venire Prevede la Procedura costituzionale, il Governo elettorale Affidato alla presidente della Corte di Cassazione. Nuova Democrazia Tenta un'azione di Disturbo per allungare i Tempi. Anche Lafazanis sfrutterà la Consultazione per ritardare la delle Elezioni Dati. Per ora resta Quella del 20 settembre
Le consultazioni del Presidente della Repubblica, Prokopis Pavlopoulos, Sono Già iniziate. Alexis Tsipras ha rinunciato. Ovviamente, provare UN UN Formare un nuovo Governo, per iniziare Lontano, invece, il prima possibile, la campagna elettorale. Il presidente di Nuova Democrazia, tuttavia, Vanghelis Meimarakis, ha Scelto di Fare l'Esatto contrario e di Tenere l'Incarico per Tutti e tre giorni Previsti, Anche sino a domenica.
Meimarakis sta provando, per Quanto Gli Possa riuscire, un Mettere Tsipras in difficolta, Conscio del fatto che la compagine dei Conservatori non ha nessuna reale possibilita di Vincere le Elezioni.
Ha incontrato, quindi, Zoì Konsantopoulou, (la presidente del parlamento Che ha espresso la ferma contrarietà SUA all'accordo con i creditori), «per esplorare Vai Vai EVENTUALI vie Che portino alla Formazione di un nuovo Governo, senza dover Tornare alle urne». Ha parlato con il responsabile del nuovo Partito Anche centrista, Il Fiume, Stavros Theodorakis, e domani si Incontrera con i Socialisti e il capo della nuova Formazione di Sinistra, Unità Popolare, di Panajotis Lafazanis.
Un'azione di Disturbo, quindi, priva di reali possibilita i Successo, ma finalizzata al Tentativo di gran lunga Guadagnare un po 'di Visibilità Una Nuova Democrazia, priva di una leadership carismatica Una Una e collegata, nell'immaginario collettivo, in un fallimentare Gestione della Crisi economica. «Inviterò Tsipras nel mio ufficio e Gli chiederò Perché, alla fine, non ha Seguito la via del voto di Fiducia, e cosa intenda la cavano DOPO EVENTUALI Le Elezioni anticipare», Così Meimarakis ÅI giornalisti.
E Evidente Che anche Lafazanis, sfrutterà L'occasione e accetterà l'Incarico Che, Secondo quanto Prevede la Costituzione, Gli dovra Essere conferito dal presidente greco. Unità Popolare, infatti, conta Venticinque Deputati, e Il terzo gruppo Parlamentare e ha diritto Una Ricevere l'Incarico, dal Momento Che la Costituzione greca Prevede Che Passano provare un Formare un nuovo Governo i leader di di delle tre Principali Forze Politiche del paese.
Con La nascita di Laiki Enotita - Unità Popolare, rimangono fuori Dai giochi SIA Il Fiume, SIA i neonazisti di Alba Dorata, che contano, entrambi, diciassette Deputati. Fonti Vicine al primo ministro greco, ritengono comunque possibile Ancora Andare al voto il 20 settembre, con La Creazione, Entro La Prossima Settimana, di un Governo elettorale, presieduto Dalla presidente della Corte di Cassazione.
Per Quel che riguarda La strategia di Syriza, Alexis Tsipras ha Preso parte, ieri, alla Riunione della segreteria politica del Partito, nel corso della quale ha sottolineato che sì DEVE puntare ad un nuovo, profondo rapporto con la Società, Utenti privatizzazione il video Silla forza dell 'ideologia della sinistra radicale, ma senza Coltivare volutamente delle illusioni.
«Essere rivoluzionari non significa ignorare o negare la Realtà, ma APRIRE Nuove strade in cui non esistono», ha Detto Tsipras. Insiste, cioè, nel Voler coniugare realismo ed Azione La politica di Sinistra, per cercare di cambiare Gli equilibri in Europa, "dall'Interno", senza rinunciare alla Responsabilità Ed alla sfida di Governo. E Syriza Mantiene i Suoi strettissimi legami con Podemos.
Il numero uno causa della Formazione della Sinistra spagnola, Íñigo Errejón, in Una Conferenza stampa convocata per commentare la decisione del premier greco di Andare annuncio Elezioni anticipare, ha ribadito il Che «Alexis Tsipras ha data Una lezione di coraggio, Responsabilità e Fiducia al Suo popolo », Anche se ha Definito Una« cattiva notizia », la scissione all'interno della Coalizione della Sinistra radicale Ellenica.
D'altronde, Gia Pablo Iglesias, Nei giorni scorsi, AVEVA ribadito l'appoggio ad Alexis Tsipras, DOPO Che parte della stampa greca AVEVA scritto Che il trentaseienne politico spagnolo, DOPO il compromesso della Grecia con i creditori, avrebbe DECISO di TOGLIERE dal Suo Profilo Twitter, Una SUA foto con il primo ministro greco.
La comunanza di intenti ed il forte rapporto con Podemos, sta un confermare la Volontà di Syriza di non perdere le Caratteristiche Di Una forza radicale, Che continuerà Una Tariffa tutto il possibile per Combattere il predominio della Finanza e l'Europa un predominio Tedesco.
La questione, tuttavia, vieni Fanno Notare stretti collaboratori del capo del Greco E Essere Capaci di creare- giorno per giorno- le Condizioni Perché questo Possa avvenire Realmente, e non Voler Giocare Il Ruolo della Vittima sacrificale, da solista per difendere la propria purezza ideologica .
La Domanda del Giorno e infatti con chi staranno Varoufakis e Un'altra protagonista dei Mesi di Governo Syriza: La Presidente del Parlamento Zoe Konstantopoulou. Nella lista dei 25 Deputati finiti nel nuovo gruppo Messo in Piedi Dalla Piattaforma di Sinistra spiccano infatti le Loro assenze. Vuol dire Che rimarranno dentro Syriza, pur su POSIZIONI contrarie ad Alexis Tsipras? Non proprio. Konstantopoulou E bloccata dal Suo Ruolo istituzionale, ma difficilmente rimarra al Seguito del primo ministro, con il quale e entrata Più Volte in rotta di collisione.
Diverso Il discorso per Varoufakis: l'ex ministro delle Finanze Non è mai Stato Vicino Alle POSIZIONI DEGLI anti-europeisti e non ha Fatto mistero di Voler Lavorare alla costruzione di Una Sinistra Europea anti-austerità (e non nazionale), Venire Dimostra la Partecipazione Al meeting francese. Anche se alla multa le POSIZIONI potrebbero Anche convergere, Visto Quanto Varoufakis ha detto ieri in un'intervista Pubblicata ieri dal Nouvel Observateur (ma probabilmente rilasciata quando il Governo Tsipras epoca Ancora in sella). «ABBIAMO tradito la grande Maggioranza del popolo greco. Non potrei Lontano parte di un Governo e di un Partito Che chiedono un Mandato popolare per applicare l'Accordo del 13 luglio », ha Detto con la consueta chiarezza.
Una Prospettiva Diversa da Quella enunciata da Lafazanis. L'ex ministro dell'Energia, annunciando ieri la scissione da Syriza e La nascita di Unità Popolare, ha Annunciato esplicitamente Che «per sbarazzarci del Memorandum siamo pronti anche annuncio Uscire dall'euro in maniera controllata» e per Loro Che «non c ' E L'inferno fuori dall'Eurozona ». Poi ha Fatto appello al popolo del no («non Sarà Orfano in QUESTE Elezioni») e alle Altre Forze Politiche anti-Memorandum, Dai Comunisti del Kke alla piccola Formazione della Sinistra antagonista Antarsya, per Entrare un Lontano parte del fronte anti-Memorandum costruzione . Un appello Già respinto al mittente Dai primi e il Che con OGNI Probabilità Sarà Raccolto Dai Secondi.
Ma il vero Fatto negativo per le sinistre europee Il Il Rinascenti E L'esplosione di Syriza. Oltre ai 25 di Deputati finiti in Unità Popolare e AI Dubbi su Konstantopoulou e Varoufakis, Altri quattro Parlamentari ieri si Sono dichiarati Indipendenti (TRA QUESTI l'ex viceministro Nadia Valavani), MENTRE L'emorragia si diffonde ora Agli organi dirigenti del Partito e inevitabilmente si allargherà alla base: già ieri si Sono dimessi tre Esponenti del Comitato centrale in quota Piattaforma di Sinistra. Ho Mal di pancia, anche nell'era Quella Che la Maggioranza di Syriza, Sono MOLTI: si imputa un Tsipras Il Fatto di non Aver voluto Incontrare Gli organi dirigenti di Syriza DOPO L'Accordo di luglio e di Aver DECISO in autonomia, con un ristretto Personale, la strada da SEGUIRE. E la decisione di Andare alle urne Azzera puro il Previsto congresso, il Che però difficilmente sarebbe riuscito a Portare indietro le lancette degli orologi.
Del resto, era lo Stato Stesso premier alla multa di luglio un dichiarare esaurito Il Progetto della Coalizione della Sinistra radicale, «pluralista e polifonico», radio un'intervista Kokkino, Nella quale AVEVA sostenuto Che «Syriza Non E Fatta per Governare» e anticipando Così la SUA Evoluzione in forza di Governo. Comunque vada a finire, il RISULTATO Che ci consegna questa prova di forza agostano e La Probabile multa del "modello Syriza" venire l'ABBIAMO conosciuto finora, un Esempio vincente di Ricostruzione Di Una Sinistra dal basso (le lotte Sociali, le Esperienze di Mutuo Soccorso, il radicamento territoriale) e Che riesce a farsi forza delle Diversità. Un esperimento COSTRUITO NEGLI anni della Crisi e Guardato con interesse nel resto d'Europa, Ma che sì E sciolto vengono Sole Neve al nel Pochi mesi di Governo. Debutta Un'altra stagione, e siamo Assolo Agli Inizi.
Dopo le critiche di un prelato alla politica dei nostri anni, ecco una voce ragionevole da una stanza del Palazzo. Maria Cristina Carratù intervista Enrico Rossi.
La Repubblica, 22 agosto 2015
FIRENZE. «Trovo stupefacente la reazione della politica alle osservazioni di monsignor Galantino, neanche le avesse fatto un esorcismo... Invece il segretario della Cei l’ha semplicemente richiamata al suo compito alto e nobile, fuori dal teatrino di tutti i giorni». Enrico Rossi, governatore della Toscana, è una delle poche voci che in questi giorni hanno difeso il segretario dei vescovi italiani, attaccato da destra e da sinistra per le sue critiche all’attuale modo di fare politica (“un puzzle di ambizioni personali all’interno di un piccolo harem di cooptati e di furbi”) e che ieri ha battuto un altro colpo al Meeting di Rimini. E ci tiene a sottolinearlo: «Non sono cattolico, non sono mai stato un democristiano, ma vengo da una tradizione comunista, e sarà forse per questo che col mondo cattolico sono capace di dialogare senza demonizzarlo». Cosa che, dice Rossi, «dovrebbe fare anche una sinistra a cui stesse davvero a cuore il cambiamento».
Le parole di Galantino sono state lette anche come un attacco al governo guidato Renzi.«Reagire come se tutto fosse riducibile a una questione di lesa maestà non ha senso. Non a caso Renzi, giustamente, ha taciuto».
E allora quale significato hanno le “stoccate” del segretario della Cei?
«Basta leggere tutto il discorso su De Gasperi per capire che non ce l’aveva affatto con la politica in sé, ma con la politica ridotta a ricerca del consenso, a marketing, puro pragmatismo. E che, anzi, proprio riconoscendo il ruolo cruciale della politica nella società, l’ha invitata a rimettere al centro il bene comune, ritrovare una forte dimensione ideale ed etica, che è poi quello che chiede la gente, e direi anche gran parte degli elettori del Pd. E’ una sfida lanciata a tutti, nessuno escluso, non a un governo o a una parte politica».
Molti hanno però avvertito una ingerenza dei vescovi, con un cambio di rotta rispetto allo stile “neutralista” di papa Francesco.
«Una vera bestialità. La Chiesa ha tutto il diritto di dire la sua, anche quando si attesta su posizioni arretrate, e di ricevere risposte di merito, anziché di annientamento dell’avversario, come invece è avvenuto. La destra è stata sguaiata. Ma anche dal Pd sono venute repliche segnate dal risentimento. Dobbiamo invece riconoscere che Galantino ha ragione: la politica non ha più una prospettiva ideale, pensa solo a difendere se stessa. Vogliamo accusare i vescovi di ingerenza anche quando parlano di immigrazione, lavoro, ambiente? Al contrario, se la sinistra non si misurerà con questi temi proprio nel senso indicato dalla Chiesa, è destinata ad assomigliare sempre più alla destra».
Articoli di Teodoro Syngellakis e Angelo Mastrandrea sulla crisi di Syriza e le dimissioni di Tsipras. le divisioni sono il prezzo che tutte le sinistre sembrano dover pagare tutte peri loro ritardi storici.
Il manifesto, 21 agosto 2015
Provaci ancora. Un’altra svolta, dopo il summit con ministri e Syriza. Dimissioni da premier e urne aperte il 20 settembre. La «transizione» a una donna magistrato. Sette mesi dopo il voto che lo ha portato al governo e a un mese dal referendum, il leader greco incassa i prestiti e chiede al paese di rinnovargli il mandato per governare
Alexis Tsipras ha voluto seguire con decisione la via che porta alle elezioni anticipate, il prossimo 20 settembre. Alla riunione in cui si è deciso il ricorso anticipato alle urne hanno preso parte tutti i più stretti collaboratori del premier greco: il ministro alla presidenza Nikos Pappàs, il capogruppo di Syriza alla camera, Nikos Filis, il ministro per il riassetto produttivo Panos Skourletis.
«Non si tratta dell’accordo che avremmo voluto, ma senza il sostegno e la resistenza dimostrata dal popolo greco, i creditori ci avrebbero portato alla catastrofe, o avrebbero imposto totalmente la loro linea», ha sottolineato Tsipras, nel suo discorso di quattordici minuti, trasmesso ieri sera dalla televisione pubblica Ert.
Secondo il leader greco, il paese sta iniziando ad uscire da una situazione molto difficile, e «lotterà per ridurre al minimo gli effetti negativi del compromesso, dirà no a tagli lineari, alle barbarie nella legislazione sul lavoro, compiendo ogni sforzo per riconquistare pienamente la propria sovranità nazionale». Una forte stoccata è anche arrivata all’indirizzo della minoranza interna del partito, che non ha sostenuto, in parlamento, l’accordo con le istituzioni creditrici: «Con il voto giudicherete anche chi vorrebbe dei prestiti passando alla dracma e, con incoerenza, ha trasformato un governo eletto pochi mesi fa, in una minoranza parlamentare».
Tsipras, infine, ha ricordato gran parte delle misure adottate in questi sette mesi di governo. Dalla riapertura della televisione pubblica Ert, alla possibilità, per i cittadini, di saldare in cento rate mensili i debiti verso lo stato, fino alla legge che dà la cittadinanza greca ai figli degli immigrati.
Nel suo complesso, la strategia è chiara: giocare l’effetto sorpresa, potersi giovare del vasto appoggio popolare di cui continua a godere Tsipras, ritenuto da gran parte dei greci un politico onesto, che cerca di fare del suo meglio per uscire da una situazione al limite della disperazione Una situazione in cui il paese si è venuto a trovare, principalmente, per responsabilità del centrodestra di Nuova Democrazia, ma anche dei socialisti del Pasok, che si sono alternati al governo per quarant’anni. Ovviamente, la scelta di dimettersi per andare, così, ad elezioni anticipate, secondo molti osservatori, è condizionata anche dal altri due elementi : cercare di ridurre la possibilità della minoranza interna di Syriza– della Piattaforma di Sinistra– di potersi organizzare in vista delle elezioni e cogliere di sorpresa, per quanto possibile, anche tutti i partiti dell’opposizione.
Secondo quanto filtra dall’ambiente dell’ex ministro Panajotis Lafazanis, la Piattaforma di Sinistra ha già avviato, comunque, molti contatti per la formazione delle liste di un movimento autonomo, il quale dovrebbe avere come punto cardine l’opposizione alle politiche di austerità e dei memorandum di intesa con i creditori. Bisognerà vedere, ovviamente, quali spazi politici possono venirsi a creare, nello spazio tra Syriza e il partito comunista “ortodosso” Kke, per una nuova formazione come questa.
Secondo quanto riportano molti analisti greci, Alexis Tsipras avrebbe voluto andare ad elezioni anche il 13 settembre, ma, dopo una breve verifica, si è constatato che non ci sarebbero stati i tempi tecnici necessari. Lunedì dovrebbe giurare un governo presieduto, molto probabilmente, dalla presidente della Corte di Cassazione, che porterà il paese alle urne, come prevede la costituzione greca. Va inoltre ricordato un altro elemento di primaria importanza: in caso di elezioni legislative anticipate, convocate entro diciotto mesi dall’ultima tornata elettorale, i trecento deputati del parlamento greco non si eleggono con le preferenze, ma con delle liste preparate dai partiti. È chiaro, quindi, che i dissidenti che dovessero decidere, al momento, di non uscire da Syriza, avrebbero, comunque, ben poche possibilità di venire ricandidati. Tutti gli esponenti vicini a Tsipras, nelle ultime ore hanno fatto sentire il loro sostegno, riguardo alla necessità di andare nuovamente alle urne. «Ci vuole una nuova legittimazione popolare», secondo il ministro dell’interno Nikos Voutsis, mentre anche il responsabile del dicastero per la riorganizzazione produttiva, Skourletis, ha ricordato che la fiducia popolare deve essere rinnovata, dal momento che «Syriza, in questa fase, è chiamata ad attuare un programma per il quale non è stata eletta».
Quanto al fronte dell’opposizione, il centrodestra di Nuova Democrazia ed i socialisti del Pasok potrebbero cercare di individuare alcuni punti programmatici da su cui insistere di comune accordo, ma è stata esclusa a priori qualunque forma di collaborazione a livello di liste e candidati, dal momento che, secondo quanto dispone la legge elettorale greca, non potrebbero, comunque, giovarsi del premio di maggioranza.
Si torna alle urne, quindi, dopo la vittoria di Syriza del 25 gennaio scorso, con il 36,3% dei voti e 149 seggi. Dopo una trattativa di quasi sette mesi, interrotta perché si potesse tenere il referendum del 5 luglio scorso, quando il 61,3% dei greci ha chiesto la fine delle politiche di austerità. Ora Tsipras chiede ai greci di rinnovargli la fiducia, «perché i giorni migliori non li abbiamo ancora vissuti».
Grecia. Lafazanis durissimo contro Tsipras. L’incognita Konstantopoulou e Varoufakis. Non ci sarà neppure un congresso. Da oggi gruppi separati, nascerà un «Fronte anti-Memorandum»
Il primo passo dei dissidenti sarà l’uscita dai ranghi di Syriza e la formazione di un autonomo gruppo parlamentare. Parallelamente vedrà la luce, nei tempi rapidi indotti dal precipitare della crisi di governo, quel fronte anti-Memorandum al quale avevano fatto appello, appena una settimana fa, dodici personaggi di altrettante organizzazioni della sinistra istituzionale ed extraparlamentare. Sarà il «nuovo inizio» del quale ha parlato l’altro ieri il leader della Piattaforma di sinistra Panaiotis Lafazanis, una forza politica «di sinistra e patriottica» che si rivolgerà a tutto il popolo che ha votato «no» al referendum. Le parole durissime dell’ex ministro dell’Energia hanno rappresentato forse la goccia che ha fatto traboccare il vaso per Alexis Tsipras, inducendolo a rompere gli indugi e spiazzare tutti indicendo elezioni anticipate subito dopo aver rimborsato 3,2 miliardi di euro alla Bce e aver ricapitalizzato le banche per dieci miliardi, mettendo in sicurezza la Grecia. «Il governo ha voltato le spalle ai principi e alle lotte di migliaia di membri e funzionari di Syriza, nonché alle speranze del mondo democratico progressista», aveva detto Lafazanis.
Una rottura che era nell’aria, che spacca trasversalmente Syriza e provocherà lacerazioni umane forti e problemi pratici di non poco conto, per un partito all’antica, composto di sezioni e militanti, molto radicato nei quartieri così come nelle organizzazioni sociali (basti pensare alle decine di ambulatori e farmacie autorganizzate nate negli anni della crisi). Non è solo una forza politica che va in crisi, ma un modello vincente sia sul piano interno che per le riemergenti sinistre europee: una coalizione «polifonica e contraddittoria» come amavano definirla, capace in pochi anni di diventare il primo partito della Grecia.
A poco è servito l’appello del novantaduenne ex partigiano Manolis Glezos, che pur criticando radicalmente le decisioni della dirigenza aveva invitato il partito a «rinsavire» e discutere, convinto che un punto di mediazione si sarebbe trovato. Con chi si schiererà ora l’uomo che tirò giù la bandiera nazista dal Partenone? Cosa faranno la Presidente del Parlamento Zoe Konstantopoulou e l’ex ministro delle Finanze Yanis Varoufakis, ipercritici con il Memorandum firmato? Nomi pesanti che potrebbero fare la differenza, se schierati dall’una o dall’altra parte.
Chi non si dichiara sorpreso è l’inossidabile Kke: anche il segretario del partito comunista Koutsoubias ha detto che un voto a così breve termine serve per non far organizzare gli avversari, ma loro si dicono «pronti in qualsiasi momento». D’altronde sono stati tra i pochi a non andare in vacanza neppure un giorno: i suoi militanti affiliati al sindacato Pame sono scesi in piazza sia nel giorno del voto del primo accordo, a luglio, che in quello di ferragosto sul Memorandum.
Ma a preoccupare lo staff di Tsipras, e forse a spingerlo a forzare i tempi, sono soprattutto i sondaggi: l’ormai ex premier è ancora forte, ma i consensi sarebbero un po’ in calo e l’applicazione delle
misure più dure del Memorandum rischierebbe solo di nuocergli. Da qui la decisione di giocare d’anticipo e chiedere ai greci un consenso pieno.
Terminata la prima fase dell'avventura della Grecia si Tsipras di aprire un varco nell'Europa della finanza e svelarne il volto. Il seguito non può essere lasciato alla Grecia. Articoli di Valentina Conte ed Ettore Livini.
La Repubblica, 21 agosto 2015
Il tempo, a volte, è tutto. E Alexis Tsipras, per evitare ai ribelli di Syriza (Yanis Varoufakis e Zoe Konstantopoulou compresi) e al centrodestra di organizzarsi, ha deciso di rompere gli indugi e portare la Grecia alle urne. A Bruxelles e Berlino in molti storcono il naso. Atene si era impegnata ad approvare entro ottobre un pacchetto di riforme pesanti, dalle pensioni ai tagli al welfare. E le elezioni accorciano i tempi a disposizione per l’ok e rendono più incerto il sì alle misure.
Il premier però aveva poche alternative. Il governo si è dissolto il 10 luglio, quando 39 deputati dell’ala radicale del suo partito hanno detto “no” al memorandum obbligandolo ad affidarsi a Pasok, Nea Demokratia e To Potami (da allora è successo a ogni voto) per ottenere il via libera in aula. La Ue e parte dell’esecutivo spingevano per tirare avanti così per qualche settimana, contando sull’appoggio dell’opposizione e formalizzando più avanti la scissione della sinistra con un congresso straordinario. Obiettivo: varare i primi provvedimenti d’austerità, superare lo scoglio della verifica con la Troika a ottobre e avviare i negoziati per la riduzione del debito, in modo da presentarsi poi alle urne forti dell’impegno dei creditori al taglio dell’esposizione.
Alla fine però, Tsipras ha preferito sparigliare le carte. L’arrivo dei primi 23 miliardi di aiuti mette il paese in sicurezza per qualche tempo. E gli uomini del suo cerchio magico l’hanno convinto che le elezioni a settembre, malgrado i mal di pancia di Schaeuble & c., sono la scelta giusta per capitalizzare sulla sua (presunta) popolarità prima che i greci sentano sulla loro pelle il peso dell’austerità targata Syriza.
Le incognite delle prossime settimane sono tante e il primo ministro - questa è la sua vera forza - è l’unico ad avere l’idee chiare: si presenterà ai cittadini dicendo che ha combattuto come poteva (cosa che sotto il Partenone gli riconoscono tutti) e che è stato costretto ad accettare un’intesa che non condivide. Promettendo che il giorno dopo le elezioni lotterà per ammorbidire l’austerità e combattere contro evasori e oligarchi per far pagare la crisi della Grecia a chi finora non ha sborsato un centesimo di tasca sua.
Gli crederanno i suoi concittadini? Gli ultimi sondaggi che risalgono a inizio luglio, dicono di sì: Syriza viaggia oltre il 30% dei consensi, a un soffio dalla maggioranza assoluta, Nea Demokratia è seconda ma al 18%. Numeri figli del carisma del presidente del Consiglio, più forte in apparenza delle promesse elettorali tradite e di una strategia negoziale suicida che ha ripiombato Atene in recessione.
I suoi avversari viaggiano in ordine sparso. I dissidenti della Piattaforma di sinistra guidati da Panagiotis Lafazanis avranno pochissimo tempo per organizzarsi. Difficile si arrivi a una pace tra le due anime di Syriza. Anche perchè la Costituzione consente a Tsipras di scegliere i candidati in lista, tagliando così fuori - se vuole - tutta l’opposizione interna. La probabile scissione darà vita così a un nuovo soggetto politico che per alcuni sondaggi informali è attorno al 5%. Varoufakis e Konstantopoulou, i due più carismatici rivali del pemier, hanno pochi punti di contatto con Lafazanis e potrebbero decidere di corre- re in proprio.
Nel caos è anche l’opposizione, che non è stata in grado di mettere sul piatto un leader alternativo. Nea Demokratia, spaccata in un conflitto generazionale e di correnti, ha affidato il dopo-Samaras a un reggente -Evangelis Meimarakis- affabile ma di scarso appeal elettorale. Stesso discorso per il Pasok, ridotto a percentuali da prefisso telefonico e guidato da Fofi Gennimata, che non pare essere riuscita a invertire la tendenza al ribasso dei consensi. To Potami, il partito riformista di centro di Stavros Theodorakis, naviga in terza posizione nei sondaggi ma senza troppo sprint. Mentre Alba Dorata, senza contributi pubblici e con i leader sotto processo, non dovrebbe riuscire questa volta (sperano tutti) a guadagnare dai fallimenti altrui.
La somma di queste debolezze è il motivo per cui, malgrado tutto, Tsipras potrebbe riuscire a far saltare il banco nelle urne. Dando vita a quel punto a un governo molto più compatto in grado di far passare il memorandum nella speranza che la stabilità faccia ripartire l’economia. L’unico vero rischio è che l’opposizione - conscia di partire battuta - unisca le forze in un fronte pro-Europa riunito sotto un unico simbolo. Konstantinos Mitsotsakis, uno degli uomini forti di Nd, ha già buttato là l’idea. Che di sicuro non dispiace nemmeno alla Troika. Il problema è uno solo: la legge elettorale greca attribuisce il premio di maggioranza di 50 seggi al partito (e non alla coalizione) vincitore alle elezioni. Per ottenerlo, dunque, il centrodestra, Pasok e To Potami dovrebbero sciogliersi per dare vita a una nuova formazione con un suo statuto. Missione quasi impossibile se al voto si andrà il 20 settembre.
Il vero nodo è se la Grecia, alle prese pure con l’emergenza immigrati, sarà in grado di assorbire un mese di campagna elettorale. Il Pil, previsto al rialzo del 2,5% a inizio anno, viaggia ora verso un -2,3% nel 2015. E il rischio Grexit uscito dalla porta rischia di rientrare dalla finestra se dalle urne non uscirà un quadro chiaro.
«Il terrorismo alimentato anche da fanatiche distorsioni della fede in Dio sta cercando di introdurre nel Mediterraneo, in Medio Oriente, in Africa i germi di una terza guerra mondiale». Sergio Mattarella invia agli organizzatori del Meeting di Rimini che parte oggi, dedicato al dialogo frale religioni, un messaggio tutt’altro che formale. Il capo dello Stato, infatti, interviene nel vivo del dibattito di questi giorni su guerra, immigrazione e accoglienza dei profughi.
Mattarella, dopo avere lanciato l’allarme sullo scontro armato, scrive infatti che «dalla capacità di dialogo, di comprensione reciproca, di collaborazione tra le religioni monoteiste dipenderà la pace nel mondo». E in questo processo, prosegue il presidente della Repubblica, «sta a noi prosciugare l’odio, far crescere la fiducia e la cooperazione, mostrare i vantaggi della pace». E in Europa «può svilupparsi ildalogo fra le religioni monoteiste già all’interno delle nostre società, divenute plurali e multietniche».
CACCIARI:«UN'IPOTESI REALE»
intervista di Giovanna Casadio a Massimo Cacciari
«Dire che una terza guerra mondiale possa derivare dal terrorismo è una affermazione ridicola». Massimo Cacciari, il filosofo ex sindaco di Venezia, affronta la questione da un’altra angolatura. Aggiunge che la chiusura davanti ai flussi di migranti invocata da Salvini, è prima di tutto «irrealistica».