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Il con­flitto tra cit­ta­dini euro­pei e pro­fu­ghi non è un fatto “natu­rale”; è il pro­dotto dei tagli alla spesa pub­blica e della restri­zione di diritti, red­diti e sicu­rezza di chi lavora. Non si può cam­biare poli­ti­che dell’immigrazione senza cam­biare quelle di bilancio.

Il manifesto, 8 settembre 2015

Lungo l’autostrada Budapest-Vienna si è dis­solto il futuro dell’Unione euro­pea e ha fatto la sua com­parsa una Europa nuova, fon­data su una cit­ta­di­nanza con­di­visa con pro­fu­ghi e migranti. La mossa di Angela Mer­kel è stata abile — le ha resti­tuito una popo­la­rità che l’attacco alla Gre­cia aveva com­pro­messo — e sacro­santa: ha per­messo a migliaia di pro­fu­ghi di rag­giun­gere la loro meta e a migliaia di cit­ta­dini euro­pei — austriaci, tede­schi e soprat­tutto unghe­resi — di dimo­strare il loro vero sen­tire: ren­dendo felici milioni di euro­pei. Ma dopo la pro­messa di acco­gliere tutti, sono arri­vati i distin­guo tra paesi di pro­ve­nienza sicuri e insi­curi e tra pro­fu­ghi e migranti eco­no­mici e l’assicurazione che si tratta di una misura temporanea.

Ma quella deci­sione uni­la­te­rale auto­rizza ogni governo ad andare per conto pro­prio: Came­ron ha subito rac­colto l’invito; i paesi del gruppo di Vise­grad si sono oppo­sti alle quote obbli­ga­to­rie; i paesi bal­tici li segui­ranno. E già si parla di sosti­tuire all’accoglienza un “con­tri­buto” in denaro: si paghe­ranno i respin­gi­menti un tanto al chilo? Èstato fatto così un altro passo nel dis­sol­vere l’identità dell’Unione euro­pea: ci sono paesi dell’Unione fuori dall’area Schen­gen e paesi Schen­gen fuori dall’Unione; paesi dell’Unione fuori della Nato e paesi della Nato furi dall’Unione; paesi nell’Unione dall’euro; paesi vir­tuosi e paesi dis­so­luti, ecc. Ora ci saranno paesi dell’Unione con le quote obbli­ga­to­rie e paesi senza. E cia­scuno si sce­glierà la nazio­na­lità che preferisce?

L’accoglienza divide tra loro gli Stati dell’Unione, impe­gnati a rim­pal­larsi le quote di pro­fu­ghi, e fomenta al loro interno lo scon­tro di cui si ali­menta la xeno­fo­bia. Ma l’Unione non avrà una poli­tica comune su pro­fu­ghi e migranti per­ché ha adot­tato da anni poli­ti­che che negano l’accoglienza — casa, lavoro, red­dito e sicu­rezza — a una quota cre­scente dei suoi cit­ta­dini. Se la disoc­cu­pa­zione gio­va­nile è al 20 per cento, e in alcuni paesi al 50, è a un’intera gene­ra­zione che viene negata la cit­ta­di­nanza. In que­ste con­di­zioni è dif­fi­cile varare una poli­tica di inclu­sione per cen­ti­naia di migliaia o milioni di migranti: quanti se ne pos­sono rea­li­sti­ca­mente aspet­tare sia aprendo le porte, sia pun­tando su respin­gi­menti inef­fi­caci e spie­tati. Il con­flitto tra cit­ta­dini euro­pei e pro­fu­ghi su cui ingrassa la destra xeno­foba, ma a cui i governi non sanno offrire alter­na­tive, finendo per restarne suc­cubi, non è un fatto “natu­rale”; è il pro­dotto dei tagli alla spesa pub­blica e della restri­zione di diritti, red­diti e sicu­rezza di chi lavora. Non si può cam­biare poli­ti­che dell’immigrazione senza cam­biare quelle di bilancio.

Ma la vera ragione della dis­so­lu­zione dell’Unione è un’altra: per anni i suoi governi hanno assi­stito ignavi, o hanno par­te­ci­pato a mas­sa­cri e guerre ai con­fini dell’Europa come se la cosa non li riguar­dasse, per­ché impe­gnati a per­se­guire poli­ti­che di bilan­cio sem­pre più prive di respiro, di pro­spet­tive, di futuro. Per anni, a parte gli accordi com­mer­ciali per pro­cu­rarsi petro­lio e metano, nes­suna forza poli­tica euro­pea ha mai for­mu­lato un dise­gno sen­sato sui rap­porti con l’area medio­rien­tale, medi­ter­ra­nea e nor­da­fri­cana: che si andava avvi­tando in crisi e con­flitti che non pote­vano che sfo­ciare nella dis­so­lu­zione delle rispet­tive com­pa­gini sociali. Il flusso di migranti in cerca di soprav­vi­venza in terra euro­pea è la prima — ma non l’unica — con­se­guenza di que­sta poli­tica tir­chia e insi­piente. Ma ogni giorno che passa spe­gnere que­gli incendi è più dif­fi­cile. È più facile attiz­zarli: Fran­cia e Regno Unito già pen­sano a unirsi alla guerra in Siria, come se non fos­sero stati loro a sca­te­nare quella in Libia, dove hanno creato un caos di cui nes­suno rie­sce più a venire a capo.

Ora che a risol­vere il pro­blema di cen­ti­naia di migliaia di esseri umani alla ricerca della soprav­vi­venza siano i ver­tici dell’Unione e i suoi governi è del tutto irrea­li­stico. Vor­reb­bero respin­gerne la mag­gio­ranza, ma non rie­scono: troppo alto è il prezzo di sof­fe­renze e di vite che stanno già facendo pagare alle loro vit­time per poter­sene assu­mere la respon­sa­bi­lità. Così cer­cano di nascon­dere il pro­blema die­tro la falsa distin­zione tra pro­fu­ghi e migranti eco­no­mici: come se una ragazza sfug­gita alle bande di Boko Haram in Nige­ria fosse diversa da un siriano che scappa dalle bombe dell’Isis, o di Assad, o di Erdo­gan, o degli Usa.

Ma le poli­ti­che di respin­gi­mento, oggi imper­so­nate da Orban, ma anche da tante forze poli­ti­che non solo di destra, e pro­gram­mate, solo in modo un po’ meno espli­cito, da molti governi, sono state rove­sciate e scon­fitte, anche se solo per qual­che giorno, dalla straor­di­na­ria mobi­li­ta­zione di un popolo euro­peo soli­dale con i pro­fu­ghi in mar­cia sull’autostrada per Vienna o nelle sta­zioni austria­che e tede­sche; un popolo che da qual­che giorno ha occu­pato la scena in un tutt’uno con quei pro­fu­ghi. Papa Fran­ce­sco ha aggiunto la sua voce, ma i pro­ta­go­ni­sti restano loro. Accanto a quelle mani­fe­sta­zioni che hanno bucato lo schermo ci sono altre migliaia di volon­tari che cer­cano, senza distin­guere tra pro­fu­ghi e migranti eco­no­mici, di alle­viare le sof­fe­renze di una mol­ti­tu­dine immensa respinta o abban­do­nata a se stessa: a Calais, a Ven­ti­mi­glia, a Kos, a Lam­pe­dusa, a Subo­tica, a Milano e in mille altri luo­ghi a cui i media non hanno dedi­cato un decimo dello spa­zio riser­vato ogni giorno alle infa­mie di Salvini.

Laici e cri­stiani, di destra (ci sono anche quelli) e di sini­stra, gio­vani e anziani, occu­pati e disoc­cu­pati (senza timore che gli por­tino via un posto che non c’è più per nes­suno), zin­gari per­se­gui­tati da Orban e musul­mani già inse­diati in Europa hanno costruito con la loro mobi­li­ta­zione le basi di una nuova cit­ta­di­nanza euro­pea che include, senza media­zioni, quei pro­fu­ghi in mar­cia die­tro la ban­diera euro­pea. Un unico popolo con­sa­pe­vole che l’accoglienza affet­tuosa di coloro che sono in fuga da guerre e fame è con­di­zione irri­nun­cia­bile della con­vi­venza civile nelle comu­nità e nei ter­ri­tori in cui vivono; e che lo svi­luppo sociale dell’Europa non può pre­scin­dere dalla crea­zione di una cit­ta­di­nanza euro­pea comune a tutti coloro che ne con­di­vi­dono l’aspirazione. In que­sto mel­ting pot si pos­sono creare anche le pre­messe di una ricon­qui­sta alla pace e alla demo­cra­zia dei paesi da cui pro­fu­ghi e migranti sono fug­giti: con orga­niz­za­zioni comuni che indi­vi­duino le con­di­zioni di una loro paci­fi­ca­zione e i pro­grammi per la loro rico­stru­zione; che con­qui­stino il diritto di sedere al tavolo delle trat­ta­tive diplo­ma­ti­che; che siano punto di rife­ri­mento per le comu­nità dei loro paesi di ori­gine. Nel gesto con cui migliaia di volon­tari hanno aiu­tato i pro­fu­ghi ad attra­ver­sare l’Ungheria c’è, senza ancora le parole per dirlo, il nuovo mani­fe­sto di Ven­to­tene di un’Europa inte­ra­mente da ricostruire.

«

C’è fretta di pren­dere deci­sioni e dalla Ger­ma­nia il vice-cancelliere, Sig­mar Gabriel, approva la pro­po­sta del primo mini­stro austriaco, Wer­ner Fay­mann, che vuole tagliare i fondi ai paesi recal­ci­tranti della Ue che rifiu­tano le quote: «Penso che il can­cel­liere austriaco abbia asso­lu­ta­mente ragione quando dice che i soldi devono ces­sare di cir­co­lare se non arri­viamo a una poli­tica comune sui rifu­giati». I paesi del gruppo di Vise­grad (Polo­nia, Unghe­ria, Slo­vac­chia, Repub­blica Ceca), che hanno il chiaro appog­gio dei Bal­tici, sono ormai sotto pressione.

L’Europa soc­chiude la porta, per­mette solo ai rifu­giati da zone di guerre di met­tersi in coda e riba­di­sce che respin­gerà con deter­mi­na­zione tutti coloro che pre­ten­dono di entrare pro­ve­nendo da «paesi sicuri». Ma qual­cosa si sta muo­vendo, dopo mesi di blocco.

I cit­ta­dini euro­pei comin­ciano a muo­versi, come se il muro ideo­lo­gico die­tro il quale in cui si erano volon­ta­ria­mente chiusi, stesse anch’esso aprendo delle brecce.

Ieri, in Fran­cia – dove un son­dag­gio (fatto però prima della foto di Aylan che ha scosso le coscienze) dice che il 52% non vuole pro­fu­ghi – ci sono state varie mani­fe­sta­zioni a favore dell’accoglienza. A Parigi (con la ban­diera siriana sulle sta­tue a place de la Répu­bli­que), Tolosa, Bor­deaux, Mont­pel­lier, Nan­tes, Stra­sburgo dei cit­ta­dini sono scesi in piazza per chie­dere un cam­bia­mento di poli­tica, «wel­come», «aprite le frontiere».

Migliaia di per­sone hanno rispo­sto agli appelli delle orga­niz­za­zioni uma­ni­ta­rie, pronti ad acco­gliere dei pro­fu­ghi a casa, per qual­che giorno o set­ti­mana. Jean-Claude Mas, segre­ta­rio gene­rale della Cimade, spera: «forse ci sono le con­di­zioni emo­tive e poli­ti­che per un elettrochoc».

In altri ter­mini, una brec­cia sem­bra essersi aperta nell’egemonia ideo­lo­gica dell’estrema destra, che sem­brava aver preso i soprav­vento. I Repub­bli­cani, il par­tito di Sar­kozy, si arrocca sulla linea dura, accusa Hol­lande di «vol­ta­fac­cia» per aver accet­tato il «mec­ca­ni­smo di redi­stri­bu­zione», cioè le quote, mostra un volto tri­ste ma già alcuni (per­sino Fra­nçois Fil­lon) comin­ciano a pren­dere le distanze da una posi­zione che non fa che rical­care quella del Fronte nazio­nale, nel frat­tempo riu­nito per la sua Uni­ver­sità d’estate, impan­ta­nato nella que­relle fami­gliare dei Le Pen. Il primo mini­stro, Manuel Valls, riprende qual­che colore respin­gendo tutta la destra in un «blocco reazionario».

La sini­stra sem­bra respi­rare di nuovo un po’. Il Ps orga­nizza mar­tedì un «grande mee­ting» a Parigi «in soste­gno della città soli­dali con i rifu­giati», che offrono ospi­ta­lità. Mar­tedì ci sarà un’altra mani­fe­sta­zione della sini­stra per il diritto d’asilo.

Sono dei primi segnali. La legi­sla­zione della Ue per­mette la pro­te­zione tem­po­ra­nea in caso di afflusso mas­sic­cio di per­sone che chie­dono asilo. Il governo fran­cese potrebbe tro­vare qui la pos­si­bi­lità di recu­pe­rare nel pro­prio elet­to­rato, più che deluso dalle scelte di poli­tica eco­no­mica, non distin­gui­bili da quelle della destra. In Austria e in Ger­ma­nia dei cit­ta­dini hanno mostrato soli­da­rietà, come mai nel recente passato.

A Lus­sem­burgo, i mini­stri degli esteri, in una riu­nione che Mrs.Pesc Fede­rica Moghe­rini ha defi­nito «dif­fi­cile», hanno cer­cato di tro­vare una solu­zione per la redi­stri­bu­zione dei rifu­giati. Il clima è stato «pesante», rias­sume un diplo­ma­tico. La spac­ca­tura tra est e ovest dell’Europa resta, il gruppo di Vise­grad, in un lungo comu­ni­cato, la vigi­lia ha rifiu­tato quote e solidarietà.

La crisi dei rifu­giati potrebbe però por­tare anche a deci­sioni estre­ma­mente rischiose. Se ne saprà di più domani, alla con­fe­renza stampa di Fra­nçois Hol­lande, ma secondo Le Monde la Fran­cia si pre­para a inter­ve­nire in Siria. Finora, l’aviazione fran­cese era solo pre­sente nei cieli dell’Iraq e in Siria for­niva un mode­sto soste­gno ai demo­cra­tici, con­tro Isis e con­tro Assad. Ma, da otto­bre, i Mirage 2000 potreb­bero par­te­ci­pare a mis­sioni in Siria, a fianco degli Usa, Gran Bre­ta­gna e Canada,
Nell’intervista di Antonello Caporale il più accreditato demografo italiano, Massimo Livi Bacci, spiega perché l’Italia, per rimanere tale, abbia bisogno di immigrati che si integrino nella nostra società.

Il Fatto quotidiano, 5 settembre 2015

Massimo Livi Bacci è il più noto e accreditato studioso italiano di demografia. Scienza che illustra il futuro con i numeri e non predice...

«No, la Sibilla predice! Il demografo, che deve conoscere bene i meccanismi e le cause dello sviluppo della popolazione, si limita a fare delle ipotesi ragionevoli circa il futuro e trarne le conseguenze numeriche. In genere, data la relativa gradualità dei fenomeni demografici, si riesce a fornire un ragionevole quadro previsivo a qualche decennio di distanza. Diciamo per l’intervallo di una generazione, spingiamoci pure fino alla metà del secolo. Andare oltre non si può. O meglio: si può, ma è bene non crederci! »

Sappiamo che gli italiani nel 2050 saranno più vecchi e più soli. Quanto più vecchi e quanto più soli?
«Le ultime ragionevoli previsioni delle Nazioni Unite (rese note alla fine di luglio) assegnano all’Italia, nel 2050, una popolazione di 56,5 milioni di abitanti (3,5 milioni meno di oggi), nonostante una modesta ripresa della natalità, e il proseguire di una consistente immigrazione (anche se ridotta rispetto agli anni trascorsi) e un ulteriore aumento della speranza di vita. Saremo sicuramente più “vecchi”; l’età media crescerà dai 46 anni di oggi a 52 anni nel 2050; oggi una persona su 14 ha più di 80 anni, nel 2050 una su sei, Sicuramente il fortissimo aumento dei molto anziani implicherà anche una crescita delle persone che vivono sole».

Le metropoli continueranno a gonfiarsi a dismisura e il crinale appenninico subirà una desertificazione ancor più accentuata?
«Direi di no. La popolazione delle grandi città – Roma, Milano, Napoli, Torino – ha toccato il suo massimo negli Anni Settanta, per poi decrescere. Questa diminuzione è stata poi compensata dalla crescita dei Comuni delle cinture, che integrano le aree metropolitane, ma anche questi hanno finito di espandersi. Il miglioramento della mobilità consentirà una rivalutazione dei centri minori, dove la qualità della vita è spesso migliore e i costi più abbordabili».

L’osso d’Italia, diceva Manlio Rossi Doria, sono le aree interne del Mezzogiorno. Lì si muore e non si nasce. Tra cinquant’anni sarà un cimitero all'aperto?
«I rapporti dello Svimez, da qualche anno, documentano con precisione il processo di desertificazione, anche demografica del Mezzogiorno. Le regioni dove si fanno meno figli stanno nel Sud del paese, l’immigrazione dall’estero non compensa l’emigrazione verso le altre regioni, l’invecchiamento è più rapido, la qualità del “capitale umano” si contrae per la partenza dei più scolarizzati. Si sta erodendo la base sulla quale si innestano lo sviluppo e la crescita».

La forza lavoro straniera ci ha già salvati nel saldo demografico. Tutti pensiamo che la triste invasione di barconi 
sia però insosteni
bile per il futuro della nostra condizione 
di civiltà. È così oppure abbia-mo bisogno di
altra gente, di
altri e nuovi italiani?
«L’ondata dei rifugiati è collegata alle catastrofi e ai conflitti che segnano un arco che va dall’Ucraina al Medio Oriente, dal Corno d’Africa alla Libia. È un fenomeno che nulla ha a che fare con il normale sviluppo, così come una esplosione nucleare è estranea alla normale dinamica climatica a . Al netto dell’irrisolto problema dei rifugiati, l’Italia continuerà ad aver necessità di immigrazione, per rinsanguare una forza lavoro invecchiata e in declino, per contrastare se non la desertificazione, l’impoverimento della società».

I nuovi italiani, quelli che abiteranno le nostre case nel 2050, chi saranno? E quale lingua parleranno? Saranno più colti di noi? Più civili di noi, più rigorosi di noi?
«Parleranno l’italiano – male le prime generazioni, benissimo le seconde – se la scuola funzionerà come deve. E se noi, italiani di nascita, saremo colti, civili e rigorosi, lo saranno anche loro. Sempre che la politica, la società, la cittadinanza si convinca che gli immigrati non devono essere braccia in affitto temporaneo, protesi di cui disfarsi cessato il loro utilizzo, ma innesti duraturi da curare e far crescere».

Lei come giudica gli italiani? Aperti al nuovo oppure intimamente razzisti o ancora campioni di una furberia nazionale a proposito di stranieri (ci vanno bene solo quando risolvono problemi e accettano lavori che noi non vogliamo più).
«Gli italiani, nel complesso, hanno accettato in modo ragionevolmente aperto un fortissimo flusso di immigrazione. Ragionano sull’esempio del muratore albanese che ha riparato il tetto, la signora moldava che accompagna la vecchia nonna, l’egiziano che sforna le pizze in fondo alla strada, la filippina che fa i lavori domestici... Facciamo sì che questi rimangano i metri di giudizi, e che il velenoso e colpevole opportunismo di alcuni politici non riesca a deformarli».

Ogni azione, gesto, espediente, avventura che i profughi dalla guerra, dall'oppressione e dalla miseria compiono e compiranno sono atti d'accusa che pesano sulla nostra coscienza e additano i veri colpevoli alla vergogna del mondo. Il manifesto, 4 settembre 2015
Scri­ve­ranno di «lunga mar­cia», di «cam­mino della spe­ranza» e di «fuga per la libertà», ma nes­suna mito­lo­gia può descri­vere quello che accade. A piedi, da soli, sulle pro­prie gambe s’incamminano in migliaia i rifu­giati; gli stessi che già hanno attra­ver­sato i con­fini riscri­vendo la tri­ste geo­gra­fia del Vec­chio Con­ti­nente pas­sando il muro di razza unghe­rese, quello della nostra coscienza sporca.
Men­tre un ver­tice Ue richiama l’altro e nulla accade, a piedi si incam­mi­nano per sfug­gire a inter­na­menti e fili spi­nati, a nuovi uni­versi con­cen­tra­zio­nari. Via dall’Ungheria che li ha umi­liati, bef­fati e depor­tati, men­tre Orbán dichiara lo stato d’emergenza. E men­tre il cuore d’Europa, da Praga, rifiuta ogni acco­glienza. Da un sum­mit all’altro l’Europa, appesa ad una moneta, con­ferma il suo vuoto poli­tico e sociale. Resta solo il para­digma siriano di Angela Mer­kel. Ma che ne sarà degli «altri» disperati?

Ma non doveva, la foto del pic­colo Aylan Kurdi e la sua morte, cam­biare tutto? Quell’atto d’accusa vuole dire: acco­glie­teci o i col­pe­voli siete voi. Chiaro come le parole di un altro ragazzo siriano che ha gri­dato: «Fer­mate la guerra e tor­niamo in Siria». Ine­qui­vo­ca­bili. E invece l’«innocente» Pen­ta­gono avverte che la foto di Aylan dovrebbe per­sua­dere (come per Sara­jevo?) a farne un’altra: dove già si com­batte, come in Libia o in Siria. Lì dove Pen­ta­gono ed Europa hanno istruito quat­tro ani fa la guerra che ha inne­scato la spi­rale stragi, jiha­di­smo, pro­fu­ghi. Il nuovo sen­tiero dei dispe­rati: dice che la misura delle guerre sulla pelle altrui è colma.

Ieri mat­tina la sta­zione Keleti ha ria­perto le porte e si è di nuovo riem­pita di migranti in cerca di un treno in par­tenza per la Ger­ma­nia e l’Austria. Niente. L’altoparlante annun­ciava a inter­valli rego­lari la sop­pres­sione di tutti i treni inter­na­zio­nali diretti più a ovest per motivi di sicu­rezza. All’inizio è stata la calca verso i binari e verso l’unico treno pre­sente, con la poli­zia schie­rata sulla ban­china. Momenti con­ci­tati, povera gente che si ammas­sava davanti al con­vo­glio su cui c’era scritto, iro­nia della sorte «Un’Europa senza fron­tiere». Il treno si è riem­pito di migranti in cerca di una via di fuga dalla Keleti, è par­tito verso mez­zo­giorno, ma diretto a Sopron, nella parte occi­den­tale del paese, vicino all’Austria, sì, ma den­tro i con­fini magiari. Il fatto è che il con­vo­glio si è fer­mato a Bic­ske , 60 chi­lo­me­tri da Buda­pest, dove esi­ste un campo pro­fu­ghi, gli agenti di poli­zia hanno cer­cato di far scen­dere quanti erano senza docu­menti, ma i migranti si sono rifiu­tati e hanno scan­dito in coro «No camp». Uua cop­pia con un neo­nato si è sdra­iata su binari minac­ciando il sui­ci­dio ma è stata strat­to­nata via dagli agenti che anno amma­net­tato l’uomo.

Intanto alla Keleti gio­vani siriani mostra­vano i biglietti com­prati per andare in Ger­ma­nia. «Abbiamo speso un sacco di soldi per niente», dice­vano, «e ora che fac­ciamo?». «Non sapete niente dei treni?» chie­de­vano altri migranti ai gior­na­li­sti. «Quelli che vi inte­res­sano sono stati can­cel­lati. Tutti», è stata la rispo­sta dolente degli interpellati.

Dopo la calca veri­fi­ca­tasi alla ria­per­tura della sta­zione è tor­nata una rela­tiva calma, tutt’al più c’era chi fra gli ospiti for­zati della Keleti andava avanti e indie­tro a cer­care infor­ma­zioni sulle pos­si­bi­lità di par­tire prima o poi; quando, come. Per­ché sul dove la mag­gio­ranza non ha dubbi: «Ger­ma­nia! Ger­ma­nia!», l’ha detto tante volte in coro durante le mani­fe­sta­zioni sul piaz­zale anti­stante la sta­zione. C’erano poi quelli che sta­vano seduti sulle ban­chine a man­giare qual­cosa, a ripo­sare. Le donne col faz­zo­letto in testa vicino ai bam­bini: chi cam­biava il pan­no­lino, chi dava da man­giare a quello più pic­colo. Gli occhi bassi, i gesti veloci men­tre lì vicino il per­so­nale dello scalo rimuo­veva carte, con­te­ni­tori vuoti di suc­chi di frutta e bic­chieri di pla­stica schiac­ciati, lasciati sulla ban­china o fra i binari.

Anche quella di ieri alla Keleti è stata una gior­nata lunga. Nel pome­rig­gio, rac­con­tano i media locali, i migranti hanno dato vita a una mani­fe­sta­zione paci­fica all’interno della sta­zione di fronte ai poli­ziotti schie­rati a garan­zia dell’ordine pub­blico. Il tutto è durato una ven­tina di minuti che non sono stati carat­te­riz­zati dalle ten­sioni e dai disor­dini di Bic­ske, ma di fatto la situa­zione diventa ogni ora più dif­fi­cile. Il «popolo della Keleti» esprime giorno dopo giorno una richie­sta corale, sem­pre più pres­sante di essere lasciato libero di par­tire e di rag­giun­gere il paese nel quale rico­min­ciare. Le auto­rità unghe­resi insi­stono sulla neces­sità di rispet­tare le norme, il rego­la­mento di Dublino, e di non poter lasciare andare in giro per l’Europa per­sone che non sono state regi­strate, che non hanno otte­nuto lo sta­tus di rifu­giati. Piut­to­sto le ten­gono alla sta­zione orien­tale di fronte alla quale sono state appron­tate, su ordine del con­si­glio comu­nale, delle zone nelle quali gli accam­pati pos­sono rice­vere acqua da bere e da usare per l’igiene per­so­nale. La cosa però non piace agli estre­mi­sti di destra, alcuni dei quali si sareb­bero avvi­ci­nati due sere fa alla sta­zione con ban­diere e ves­silli nazio­nali. Li ritrae una foto pub­bli­cata dall’agenzia di stampa unghe­rese MTI. Non con­di­vi­dono la scelta delle auto­rità comu­nali e vogliono l’allontanamento dei migranti dal cen­tro cit­ta­dino. Secondo gli ultra­na­zio­na­li­sti la loro pre­senza minac­cia l’ordine pub­blico, l’igiene pub­blica. I sot­to­pas­saggi della sta­zione, l’antistante piazza Baross e lo scalo fer­ro­via­rio devono essere resti­tuiti alla cittadinanza.

Quest’ultima è in sostanza spiaz­zata dallo sce­na­rio incon­sueto che quel luogo offre in que­sti giorni. «Sono qui da due mesi», dice la pro­prie­ta­ria di un chio­sco situato nel sot­to­pas­sag­gio. Sì, ma allora non erano così tanti, il loro numero è cre­sciuto a vista d’occhio in poco tempo, del resto il flusso di migranti che giun­gono al con­fine non sem­bra voglia dimi­nuire; in un com­mento rila­sciato ieri al gior­nale con­ser­va­tore Frank­fur­ter All­ge­meine Zei­tung, il primo mini­stro Orbán ha detto che dall’inizio dell’anno, secondo le sta­ti­sti­che più aggior­nate, il paese è stato rag­giunto da circa 150 mila migranti ille­gali, molti di più di quelli regi­strati l’anno scorso. Un’emergenza in piena regola alla quale il governo unghe­rese ha rea­gito con una cam­pa­gna e con ini­zia­tive con­crete stig­ma­tiz­zate dall’opposizione di centro-sinistra e dagli ambienti pro­gres­si­sti della società civile. Mer­co­ledì sera diverse migliaia di per­sone hanno par­te­ci­pato a una mani­fe­sta­zione con­ce­pita da diverse orga­niz­za­zioni come Migrants Aid e Amne­sty Inter­na­tio­nal Hun­gary in segno di soli­da­rietà verso i migranti.

Il cor­teo è par­tito dalla sta­zione Nyu­gati (Occi­den­tale) e si è fer­mato sulla piazza anti­stante il par­la­mento dove si è svolto un sit-in. «Not in my name-Az én nevem­ben ne», lo slo­gan dell’iniziativa. I dimo­stranti, diversi dei quali stra­nieri, sfi­la­vano tenendo alti car­telli con su scritto «Anche noi era­vamo dei migranti», «Abbiamo biso­gno di ponti, non di bar­riere» e ancora «I migranti sono esseri umani». Sul mar­cia­piede, a poco meno di metà per­corso, due con­tro­ma­ni­fe­stanti con la ban­diera tri­co­lore com­pleta di sim­bolo nazio­nale e un car­tello con su scritto «In my name» e «No ille­gal immi­gra­tion». Nes­suna delle per­sone impe­gnate nella mar­cia li ha degnati di troppa attenzione.

«Que­sta mani­fe­sta­zione è impor­tante – dice un gio­vane – per­ché è la prima occa­sione pub­blica per testi­mo­niare la nostra soli­da­rietà ai migranti e stig­ma­tiz­zare la poli­tica del governo e il suo approc­cio privo di uma­nità al problema».

L’esecutivo però ritiene di agire cor­ret­ta­mente e Orbán ha affer­mato a Bru­xel­les che que­sti flussi migra­tori sono una minac­cia per le radici cri­stiane dell’Europa. Lui è uno di quelli che vuole difen­dere que­sto patri­mo­nio per­ché — dice — è la sua stessa gente a chie­der­glielo. Il suo par­tito ha perso voti dal 2010, que­sto è vero, ma sono ancora in buon numero coloro i quali cre­dono ancora in Orbán, «l’uomo forte d’Ungheria».
Attenti a come si maneggiano gli strumenti della democrazia. Un loro uso sbagliato è controproducente. Lavorare male, sbadatamente, senza riflettere e studiare quando si vuole contrastare qualcosa significa far vincere l'avversario.

Il manifesto, 3 settembre 2015

E dun­que il voto popo­lare può essere l’unico stru­mento utile a mani­fe­stare un dis­senso che — pur di massa — non rie­sce diver­sa­mente a farsi ascol­tare. Ma è uno stru­mento non facile da uti­liz­zare.

Come va for­mu­lato un que­sito? Biso­gna anzi­tutto con­si­de­rare che il refe­ren­dum can­cella una legge o parti di essa, non la scrive. E la can­cel­la­zione non fa rivi­vere la legge prima vigente. Que­sto punto è ormai con­so­li­data giu­ri­spru­denza della Corte costi­tu­zio­nale (da ultimo con la sen­tenza 12/2014). Quindi, l’abrogazione lascia un vuoto nell’ordinamento giu­ri­dico. Per la Corte, taluni vuoti sono tol­le­ra­bili, altri no e deter­mi­nano l’inammissibilità del que­sito. Que­sto accade quando la legge è essen­ziale per il fun­zio­na­mento di organi costi­tu­zio­nali o l’attuazione di diritti costi­tu­zio­nal­mente pro­tetti, ed è dun­que «costi­tu­zio­nal­mente necessaria».

I prin­cipi richia­mati sono stati ela­bo­rati a par­tire dalle leggi elet­to­rali, e poi estesi ad altre fat­ti­spe­cie, come la fecon­da­zione assi­stita, e la rior­ga­niz­za­zione degli uffici giu­di­ziari, per cui la Corte ha dichia­rato inam­mis­si­bili i que­siti in tutto o in parte abro­ga­tivi (sen­tenze 45/2005; 5/2015). Uguale sorte potrebbe toc­care a un que­sito total­mente abro­ga­tivo della legge 107/2015. Il vuoto nor­ma­tivo con­se­guente pro­ba­bil­mente lasce­rebbe il ser­vi­zio sco­la­stico — certo essen­ziale non meno di quello per la giu­sti­zia — privo del fon­da­mento orga­niz­za­tivo indi­spen­sa­bile. E ne ver­rebbe leso il diritto costi­tu­zio­nal­mente pro­tetto all’istruzione.

Quindi, solo que­siti abro­ga­tivi par­ziali e mirati. Ma anche il sin­golo que­sito va guar­dato con atten­zione. Pen­siamo al preside-sceriffo. Se viene ridotto nei poteri con un que­sito accor­ta­mente indi­riz­zato - ad esem­pio, alla discre­zio­na­lità nelle chia­mate - non c’è pro­blema. Ma se il que­sito, ancor­ché par­ziale rispetto alla legge, fosse tale da can­cel­lare la figura del diri­gente sco­la­stico o da ren­derla simu­la­cro del tutto vuoto, l’esito potrebbe essere l’inammissibilità. Un diri­gente in grado di gestire effet­ti­va­mente l’istituto sco­la­stico è pur sem­pre indi­spen­sa­bile per il ser­vi­zio. Anche il que­sito par­ziale potrebbe cadere sotto la man­naia della «legge costi­tu­zio­nal­mente neces­sa­ria». Que­sta è la tec­nica com­ples­si­va­mente osser­vata dal que­sito di "Pos­si­bile" sul diri­gente, quale che sia poi l’opinione sui tempi e i modi dell’iniziativa.

Que­siti par­ziali e mirati, dun­que, che siano - come la Corte costi­tu­zio­nale richiede - chiari, omo­ge­nei, uni­voci. Con que­sto si intende che su tutte le dispo­si­zioni oggetto di cia­scun que­sito chi vota possa deter­mi­narsi uni­vo­ca­mente per il sì o per il no. Ogni que­sito deve avere un punto focale. Nelle parole della Corte, una «matrice razio­nal­mente uni­ta­ria».

Quali que­siti? La scelta è poli­tica, ed è la prima da fare. Una volta assunta, si può guar­dare alla for­mu­la­zione tec­nica. Per la scuola, pos­siamo ad esem­pio pen­sare al preside-sceriffo, all’alternanza scuola-lavoro, al bonus sco­la­stico (da for­mu­lare con par­ti­co­lare cau­tela, soprat­tutto per la pos­si­bile inter­fe­renza con la finanza pub­blica), o altri che l’assemblea del 5–6 set­tem­bre voglia sce­gliere. Sag­gezza vuole che si guardi a que­siti che non siano divi­sivi nel movi­mento pro­mo­tore, e par­lino anche al di fuori. Il sapore del cor­po­ra­ti­vi­smo può ucci­dere un refe­ren­dum già nella rac­colta delle firme. Men­tre va favo­rito l’incontro con movi­menti volti a obiet­tivi diversi, ma poten­zial­mente siner­gici in una comune stra­te­gia refe­ren­da­ria (legge elet­to­rale, Jobs Act, ambiente). Al tempo stesso, l’iniziativa refe­ren­da­ria non pre­clude la diversa e auto­noma via della que­stione di costi­tu­zio­na­lità sol­le­vata in sede di impu­gna­tiva di prov­ve­di­menti ammi­ni­stra­tivi adot­tati in appli­ca­zione della riforma.

La scelta di quali que­siti e quando deve con­si­de­rare sia la rac­colta di 500.000 firme (per sicu­rezza, 600.000) secondo la legge 352/1970, sia la neces­sità di por­tare al voto oltre 25 milioni di ita­liani. Pas­saggi non impos­si­bili, ma certo non facili. Soprat­tutto con­si­de­rando che Renzi tra­durrà ogni refe­ren­dum in un ple­bi­scito su se stesso e sul cam­bia­mento. Biso­gnerà tro­vare parole d’ordine chiare, sem­plici, vicine all’animo di chi firma per i refe­ren­dum, e di chi vota.

Il refe­ren­dum ex arti­colo 75 era per i costi­tuenti un cor­ret­tivo mar­gi­nale in un sistema cen­trato sulle assem­blee elet­tive e sulla rap­pre­sen­tanza poli­tica. La ridu­zione degli spazi di demo­cra­zia alla quale oggi assi­stiamo spinge a una nuova sta­gione, che può tro­vare nel refe­ren­dum un punto essen­ziale del com­ples­sivo sistema di checks and balan­ces. La via è già oggi dif­fi­cile. E capiamo anche meglio quanto sia peri­co­loso il dise­gno della riforma costi­tu­zio­nale in discus­sione in senato, che rende il per­corso refe­ren­da­rio - a mio avviso - ancora più imper­vio. Al popu­li­smo lea­de­ri­stico e auto­cra­tico dob­biamo con­trap­pore la demo­cra­zia dei gufi.

L'illustre dissacratore del mostro del decennio scorso lo riprende oggi sotto la sua lente rivelatrice, insieme al suo delfino Matteo. «Rivediamo l’Italia descritta da Leopardi, parolaia, bigotta, sguaiata, inerte». La Repubblica, 3 settembre 2015

“GAFFE”, vocabolo nautico, è l’asta munita d’un ferro a uncino per l’accosto; nonché l’atto inopportuno; e Matteo Renzi, è gaffeur nei due sensi. Tale l’abbiamo visto in varie occasioni, da quando saltava sul palco allontanando un dolente predecessore; «togliti, mi metto io». Nel Nazareno, santuario Pd ( febbraio 2014), dichiara «piena sintonia» con Silvio Berlusconi. Così prende le parti d’un avventuriero la cui stella vola bassa (cortigiani di lungo corso cambiano cautamente divisa): stupore in platea; ma che la peripezia del sindaco fiorentino non finisca qui, è segno d’uno stato morboso nell’organismo politico. Il Colle soffiava lo sciagurato vento delle “larghe intese”.

Dalla fine secolo oligarchi della pseudosinistra baciavano la pantofola berlusconiana, dando a intendere che fosse Realpolitik. Era egemone, pifferaio ricco da scoppiare, e lo rimane quando va al governo il centrosinistra: ex comunisti garantiscono intangibili i fondamenti del conflitto d’interesse; manovre camerali lo riqualificano aprendogli la via d’una doppia rivincita. Fosse meno malaccorto, con rudimenti d’ ars gubernardi , in mano sua saremmo una monarchia caraibica. Siamo quasi salvi perché gli mancano le abilità dei maiali nell’Animal Farm.

Qui filtra il significato etimologico del bisillabo “gaffe”, l’uncino. L’ingordo rampante s’è impadronito del Pd: era la prima mossa e non basta; cercando sostegni meno malsicuri (mancava poco che un redivivo strappasse il premio a Montecitorio), s’è visto erede naturale dell’ormai ottuagenario; e agisce quale futuro autocrate d’un partito “nazionale” (l’aggettivo figurava nelle sigle fascista e nazista). La scandalosa «piena sintonia» era gesto rassicurante verso i “moderati”: «non vengo da sinistra»; e che l’idea abbia radici profonde, lo dicono Rimini e Pesaro. Comunione e Liberazione non regala favori. Erano applausi sviscerati. Re Lanterna ha un Delfino.

Esistono gaffe perdonabili, anche se gravi ad litteram , quando l’atto o l’emissione verbale siano accidenti del comportamento. Non pare il nostro caso. Nel predetto meeting (26 agosto) lo strenuo parlatore condanna vent’anni della storia d’Italia, presupponendo che Berlusco Magnus fosse uno statista con le carte in regola, e chi lo nega disseminasse peste giacobina. Forse viveva sulla luna ignorando conflitto d’interessi, illegalismo sfrenato, abuso dello strumento legislativo: quindi non sa come l’Olonese abbia dissestato la macchina penale instaurando aree d’impunità; con che toupet tentasse tre volte d’arrogarsi l’immunità mediante leggi invalide; e quanto una devastante criminofilia incidesse nelle sventure economiche d’Italia. L’aveva portata a due dita dalla bancarotta. O sa l’accaduto e lo ritiene fisiologico, quasi fosse prassi politica svenare un Paese istupidendolo: l’inquinamento sapeva d’epidemia cinquecentesca (morbo gallico o ispanico); se è così, l’indifferenza indica vuoto morale. L’ascesa berlusconiana è malaffare: corrompe, falsifica, plagia, froda; l’impunità della quale gode, fa scuola; ancora qualche anno e lo scenario sarebbe molto triste.

Matteo Renzi non ha gli spiriti animali del caimano, né issa bandiera nera, ma la successione a Re Lanterna presuppone delle affinità. Una è l’impulso a esibirsi. Stavolta svelava un disegno: battere cento teatri con musiche, film, scene dal vivo, raccontando mirabilia governativi; e sarebbe visione allucinatoria mussoliniana; l’animavano divise, sfilate, armi finte, parole ipnotiche (una molto spesa era “impero”). L’inconveniente delle fantasmagorie è che non resistano al vaglio empirico.

Ad esempio, nessuno può abolire l’imposta sulla casa dall’anno 2016, lasciando intatti i quadri della spesa e l’enorme debito pubblico, quando la crescita resta un desiderio. Il ministro competente, sgomento, domanda sotto voce dove scovare i soldi. Lo scilinguato Delfino non se ne preoccupa. Nel gesto autocratico supera l’ancora quasi regnante (non s’illuda d’una devoluzione spontanea). Davanti ai ministri sta in posa napoleonica. Tra le dicerie fornite dal meeting adriatico eccone una: li convoca in colloqui a due voci; ognuno dica in qual modo magnificare l’opera governativa nelle predette messinscene. Quintino Sella e Giolitti inorridirebbero.

Non è più tempo d’ en plein alle urne. Sette Regioni davano MR declinante. Grazie all’Italicum, monumento d’insigne furberia, può darsi che per il rotto della cuffia esca autocrate d’un “partito nazionale”, disponendo dei numeri nella monocamera: avrebbe vinto la componente berlusconoide d’un elettorato ibrido; non è apporto gratuito né duraturo. Corrono dei patti. I partner esigono quel che garantiva il predecessore ossia affari facili e rendite comode, quindi privilegi, linea criminofila (la chiamano garantismo), norme malleabili, condoni; e risorsa sine qua non , la prescrizione qual è assurdamente congegnata, che inghiotta uno o due processi su tre. La calcolava sulla misura delle sue pendenze penali. Confessando «piena sintonia », li rassicura, ma la politica morbida ha dei costi.

Il patto elettorale include un volatile dal nome melodioso, “vampiro”: corruzione, evasione fiscale, economia criminale sommersa dissanguano lo sventurato Paese, divorandogli il futuro; tengono banchetto i parassiti e non se ne esce perché la crisi economica innesca circoli perversi (causando declino intellettuale e atonia morale, esaspera l’impoverimento). Rivediamo l’Italia descritta da Leopardi, parolaia, bigotta, sguaiata, inerte. Sa d’imbonimento che l’impresario le mandi una compagnia ministeriale in cento teatri con musica e recite.

Dal Job's Act all'abolizione del contratto nazionale. Bisogna riconoscere la piena coerenza di Matteo Renzi nel raggiungere progressivamente il suo.obiettivo: eliminare tutte le protezioni che in due secoli di lotte erano state ottenute per limitare lo strapotere dei padroni

www.sbilanciamoci.info, 3 settembre 2015

Bisogna riconoscere che nel zigazagare di Renzi fra un annuncio e l’altro c’è una stella polare che indica una rotta costante: ridurre per l’impresa il costo del lavoro, costringere per legge i salariati ad accettarlo. Non è bastato il Jobs Act? Adesso senza il nome inglese c’è il tentativo di far fuori la contrattazione nazionale riducendo l’orizzonte del negoziato all’impresa. Insomma di far fuori finalmente il contratto nazionale.

Dei ritorni al passato è l’esempio più clamoroso: un lavoratore di Brescia e uno che faccia lo stesso lavoro a Catania saranno pagati diversamente, e già la stampa aggiunge che è giusto perché mille euro al nord valgono meno che al sud, o almeno così si dice. Siamo al ritorno delle vecchie gabbie salariali che un governo diretto dal Pd ripropone. È la risposta a Saviano e ai dati pubblicati dalla Svimez: al sud i padroni potranno pagare di meno. Perché non riconoscere per legge il caporalato? Anzi la schiavitù? Non ci sarebbe nulla di più flessibile. Anzi le stesse gabbie salariali possono non essere troppo rigide, meglio che la contrattazione del lavoro e relativi rapporti di forza diventino variabili in campagna e in città, dove il sindacato è forte e dove è debole. E le donne, alcune leader delle quali lo propongono in nome della differenza femminile, si mettono alla testa di questo ulteriore passo in avanti nella modernizzazione dei rapporti sociali.

Il Jobs Act ha dimostrato che la sinistra [sic] non sa più neanche leggere, e del resto era scritto in modo ingarbugliato; questa misura sarà invece più semplice e del resto nella mente dei proletari è diventato corrente il pensiero che gli operai non esistano più; e nemmeno l’insistenza a pagarli di meno del governo Renzi dimostra che non siano puri fantasmi di una passata ideologia.

La Repubblica, 2 settembre 2015

IN OCCASIONE del prossimo Giubileo della Misericordia, papa Francesco scrive di aver «deciso, nonostante qualsiasi cosa in contrario, di concedere a tutti i sacerdoti per l’Anno Giubilare la facoltà di assolvere dal peccato di aborto quanti lo hanno procurato e pentiti di cuore ne chiedono il perdono». Questo è quanto si legge in una lettera a monsignor Rino Fisichella, presidente del pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. È una misura speciale, che spicca insieme ad alcune altre — una tregua coi lefebvriani, un’offerta di amnistia dei peccati ai carcerati, auspicio — pensiamo — di una svolta simile nell’uso insensato e criminogeno dell’istituzione carceraria. Questa lettera complica e arricchisce il disegno generale proposto mesi fa con la bolla di indizione Misericordiae vultus . Là si parlava di un corpo speciale di “missionari della misericordia”, sacerdoti col potere di assolvere da ogni peccato. Ma ora si estende a ogni confessore il potere finora riservato ai vescovi, di assolvere dal peccato di aborto e dalla scomunica che comporta.
Non è la prima volta che questo Papa mostra quale uso si possa fare ai nostri tempi della storica strategia gesuitica della confessione come momento della misericordia accogliente e non della condanna severa. Ma il passo della lettera a monsignor Fisichella sulla questione dell’aborto introduce una variante non piccola e merita speciale attenzione.

Ora forse qualcuno penserà che papa Francesco abbia proclamato il “libero aborto in libera Chiesa”. Non è così. L’intreccio fra rispetto della tradizione dottrinale e innovative aperture strategiche è un tratto ormai abituale della predicazione di questo pontefice. La dottrina tradizionale papa Francesco l’aveva ribadita nell’udienza del 15 novembre 2014 ai ginecologi cattolici. Allora usò parole severissime contro l’eliminazione di esseri umani «soprattutto se fisicamente o socialmente più deboli », i bambini non nati, i vecchi e malati. Ma — attenzione — non li condannò come peccati ma come esito sociale obbligato di quella che definì «cultura dello scarto», vale a dire il distorto funzionamento della società dei consumi, il conflitto radicale fra ricchezza e povertà estreme che sperimentiamo oggi nel mondo.

Allora usò immagini toccanti: «Ogni bambino non nato, ma condannato ingiustamente a essere abortito — disse — ha il volto del Signore che prima ancora di nascere... ha sperimentato il rifiuto del mondo ». Certo, pensare che cosa sarebbe accaduto nel mondo e del mondo se Gesù non fosse nato o fosse stato ucciso subito dopo la nascita è effettivamente meditare su di una controfattualità storica assai impegnativa, una vera fantascienza. Ma non c’è bisogno di essere cristiani e cattolici per capire come il volto ordinario dell’esperienza dell’aborto possa essere il pensare al figlio che si sta per rifiutare come un possibile messia, un portatore di salvezza anche solo nel privato ambito dei propri affetti.

Di fatto la lettera a monsignor Fisichella segna un passaggio importante nello stile proposto al corpo ecclesiastico e ai suoi figli obbedienti perché lo adottino da ora in poi, nei tempi corti del Giubileo e in quelli lunghi del futuro: qui c’è l’invito a chiudere l’epoca della faccia feroce, della guerra indetta da singoli, associazioni, partiti e Stati contro le donne e contro i medici che praticano l’interruzione volontaria della gravidanza. È una guerra antica che ha conosciuto secoli di scontri fra le donne e una Chiesa spalleggiata dagli Stati, quando gli aborti si praticavano di nascosto coi ferri da calza e spesso portavano a morte madre e figlio.

Questa guerra ha una precisa data di nascita, non è coetanea col cristianesimo e con la storia della Chiesa cattolica come immaginano i fanatici: è bene tenerlo presente perché com’è nata può anche terminare. Per secoli la dottrina e la pratica della confessione hanno oscillato in materia, colpendo con la scomunica solo l’aborto del feto già formato, uno stadio che si credeva atteso da Dio per insufflare nel corpo l’anima immortale. Era un peccato contro la vita eterna dell’anima immortale del non nato, condannata così a stazionare eternamente nel Limbo, nei pressi dell’Inferno.

Solo in tempi recenti si è formata la dottrina che definisce l’aborto un peccato puramente e semplicemente contro la vita: una svolta copernicana per la Chiesa, diventata così una forza schierata a difesa di questa terrena esistenza come pozione da sorbire sempre e comunque e fino in fondo, e determinata a usare tutta la sua influenza per impedire ogni forma di uscita anzitempo dal mondo — il suicidio, l’eutanasia. Perciò in Italia bisognava andare all’estero per abortire, così come oggi bisogna andare all’estero per morire: scelte di classe tutt’e due. Quanto all’aborto, una volta che con libera scelta referendaria gli italiani hanno voltato le spalle ai secoli dell’ortodossia obbligatoria e della guerra dei poteri ecclesiastici contro la donna, è cominciata la fase di guerra fredda: scontri pubblici, astuzie di medici “obiettori” che praticavano in segreto a caro prezzo quello che si rifiutavano di fare nell’ospedale, interventi normativi per rendere quella scelta già così dolorosa un calvario (sempre che si possa usare questa parola cristiana per il percorso di chi ha voluto abortire da noi).

Oggi papa Francesco guarda al mondo intero, alla disperata condizione dei poveri, all’esodo morale e religioso delle moltitudini dalla Chiesa e decide di spostare il fronte delle urgenze. Vedremo l’esito. Ma intanto va pur detto che uno sguardo altrettanto libero e umano vorremmo vederlo gettare da uno Stato veramente e compiutamente sovrano a tante strozzature civili — matrimonio, scuola, aborto e concepimento, scelta di morire — finora conservate per malintese sintonie coi poteri ecclesiastici.

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Il manifesto, 1 settembre 2015

Il crollo della Borsa di Shan­gai non è stato un inci­dente di per­corso, ma il segno tan­gi­bile che anche il modello di accu­mu­la­zione cinese è ormai subal­terno alle dina­mi­che della finanza glo­ba­liz­zata. Nel modo di pro­du­zione capi­ta­li­stico i crolli finan­ziari sono fisio­lo­gici e ser­vono a redi­stri­buire la ric­chezza finan­zia­ria dal basso verso l’alto, a con­tri­buire deci­sa­mente a quel pro­cesso di concentrazione/centralizzazione del capi­tale che a metà del XIX secolo Marx aveva genial­mente intuito.

Nel caso cinese, per spie­garci meglio, sono i novanta milioni di pic­coli e medi rispar­mia­tori che ave­vano inve­stito nella Borsa di Shan­ghai ad averci rimesso le penne: colti dal panico hanno sven­duto i titoli su cui ave­vano inve­stito i pro­pri risparmi. Di con­tro, i grandi gruppi finan­ziari, cinesi e non, hanno avuto l’opportunità di com­prare que­ste azioni a prezzi strac­ciati e lucrare sulla loro risa­lita, come pun­tual­mente si è veri­fi­cato in que­sti ultimi giorni. Ma, la crisi finan­zia­ria non si è chiusa e il mondo trema per­ché l’economia cinese ha avuto finora un ruolo di loco­mo­tiva rispetto al resto dell’economia-mondo.

I mass media occi­den­tali hanno molto apprez­zato l’intervento della Banca Cen­trale cinese che ha abbas­sato i tassi d’interesse e le riserve obbli­ga­to­rie delle ban­che ed immesso una liqui­dità di circa 20 miliardi di dol­lari. Alcuni ana­li­sti hanno usato l’espressione di Quan­ti­ta­tive Easing (Q.E.) alla cinese per indi­care la scelta del governo di Pechino di aumen­tare la liqui­dità del sistema, evi­tando che si inne­sti un pro­cesso defla­zio­ni­stico che por­te­rebbe ad una bru­sca fre­nata dell’economia reale. Ed è qui la que­stione di fondo: il capi­ta­li­smo glo­ba­liz­zato non può sop­por­tare una cre­scita lenta o addi­rit­tura la reces­sione.

Secondo David Har­vey, noto geo­grafo ed eco­no­mi­sta inglese, per man­te­nere un livello accet­ta­bile del tasso di pro­fitto medio la cre­scita eco­no­mica glo­bale deve viag­giare ad un tasso medio di almeno il 3 per cento l’anno. E gli Usa da soli non bastano: il ruolo della Cina è cen­trale per il sistema capi­ta­li­stico su scala mon­diale — insieme ad India, Bra­sile e Rus­sia — per man­te­nere alto il livello della domanda aggre­gata a livello globale.

Ma, la Cina per man­te­nere ele­vato il suo tasso di cre­scita avrebbe biso­gno di rilan­ciare la domanda interna, e que­sto richiede una redi­stri­bu­zione della ric­chezza e quindi un altro modello sociale e poli­tico. E’ quello auspi­cato da Jeremy Cor­byn, lea­der emer­gente del par­tito labu­ri­sta inglese, che ha messo al cen­tro del suo pro­gramma elet­to­rale il Q.E. for the peo­ple. Que­stione cen­trale, ine­lu­di­bile, se si vuole affron­tare seria­mente la crisi in corso. La sola immis­sione di liqui­dità in grande quan­tità decisa prima dalla Fed e poi dalla Bce non risolve la crisi da domanda o meglio da sovra­pro­du­zione di cui sof­fre l’economia-mondo. Solo una grande redi­stri­bu­zione della ric­chezza potrebbe risol­le­vare le sorti dell’economia mon­diale, dando la pos­si­bi­lità a cen­ti­naia di milioni di per­sone di acce­dere a beni e ser­vizi essenziali.

Basti pen­sare che 1,2 miliardi di per­sone sono prive di acqua pota­bile e oltre 1,5 miliardi vivono in zone urbane o rurali senza fogne e cana­liz­za­zione delle acque, con con­se­guenti malat­tie (come la dis­sen­te­ria, il colera, il tifo, ecc,) causa prima della mor­ta­lità infan­tile in que­ste aree. Senza con­tare l’alimentazione e i far­maci essen­ziali di cui sono pri­vati circa un quinto degli abi­tanti del nostro pianeta.

Ma, una grande inie­zione di liqui­dità mone­ta­ria a favore delle fasce più deboli della popo­la­zione, clas­sica ricetta key­ne­siana, non può avve­nire pun­tando sola­mente sull’aumento quan­ti­ta­tivo di moneta in cir­co­la­zione. Il motivo è noto: il debito mon­diale — pub­blico e pri­vato — vale più di tre volte il Pil ed in molti paesi indu­stria­liz­zati ha rag­giunto livelli di inso­ste­ni­bi­lità. E la Cina non fa ecce­zione: il solo inde­bi­ta­mento delle imprese pri­vate è pari al 200 per cento del Pil, men­tre quello pub­blico, pur miglio­rando nell’ultimo decen­nio, è pari ad oltre il 120 per cento. In breve, la Cina sof­fre di tutti i mali dell’Occidente con un’aggravante: il modello di neo­li­be­ri­smo auto­ri­ta­rio (spesso con­fuso con il capi­ta­li­smo di Stato) è gui­dato dal più grande par­tito comu­ni­sta del mondo, che ha impe­dito finora l’emergere di una alternativa.

Un modello di svi­luppo che ha por­tato la Cina ad un tasso di cre­scita che non ha uguali nella sto­ria dello svi­luppo eco­no­mico: negli ultimi quin­dici anni il Pil cinese è cre­sciuto del 300 per cento, con un tasso medio annuo di oltre il 10 per cento. E que­sta inso­ste­ni­bile acce­le­ra­zione, come è noto, ha pro­dotto gua­sti sul piano sociale ed ambien­tale che sono stati coperti dalla pol­vere del tasso di cre­scita dell’economia reale.

Come Simone Pie­ranni ed altri hanno spie­gato più volte su que­sto gior­nale, il gruppo diri­gente del Pcc ha un biso­gno vitale di un tasso di cre­scita soste­nuto per man­te­nere il con­senso. Ma, il modello di svi­luppo export orien­ted non basta più: la crisi delle eco­no­mie mature dell’Occidente lo impe­di­sce. Solo la cre­scita del mer­cato interno — che avrebbe un bacino di circa 600 milioni tra con­ta­dini ed ope­rai che vivono sotto la soglia di povertà — potrebbe ancora per­met­tere alla Cina di cre­scere, ma richie­de­rebbe una redi­stri­bu­zione del red­dito che col­pi­rebbe la «classe agiata» cinese che ha un peso rile­vante nello stesso par­tito comunista.

Insomma, per far ripar­tire il paese la Cina avrebbe biso­gno di una inie­zione di socia­li­smo più che di liqui­dità mone­ta­ria. Né più né meno che noi euro­pei. Ormai i prin­ci­pali feno­meni eco­no­mici, sociali ed ambien­tali si pre­sen­tano allo stesso modo in tutti i paesi del mondo: il pro­cesso di glo­ba­liz­za­zione capi­ta­li­stica si è com­piuto. Il che signi­fica che non è più pos­si­bile spo­stare sulle future gene­ra­zioni il peso della crisi eco­no­mica ed eco­lo­gica. Signi­fica altresì che dob­biamo pun­tare ad un Q.E. for the Peo­ple, ma nel rispetto degli equi­li­bri ambien­tali se non vogliamo cadere in una trap­pola peg­giore. Que­sta potrebbe essere la nuova ban­diera della Sini­stra Europea.

«Alla Conferenza nazionale del partito tra governisti e critici. Tsipras dà il via alla campagna elettorale Tsakalotos resta, critiche dal "gruppo dei 53": "Linee rosse da non valicare"». Il manifesto

Syriza non ha abban­do­nato i suoi ideali e i suoi prin­cipi di sini­stra» ha riba­dito Ale­xis Tsi­pras, rivol­gen­dosi ai mem­bri del par­tito che hanno par­te­ci­pato alla prima gior­nata della Con­fe­renza nazio­nale orga­niz­zata ad Atene per deci­dere la linea e le prio­rità della sini­stra radi­cale elle­nica. Il lea­der greco ha chia­ri­to­che non intende cedere ad altri il ruolo ed il pri­vi­le­gio di poter rap­pre­sen­tare «la vera sini­stra». «Siamo noi, il governo di Syriza, che abbiamo aperto le porte al refe­ren­dum, assu­men­doci rischi e respon­sa­bi­lità. Il no, la sua vit­to­ria, appar­tiene soprat­tutto a noi», ha sot­to­li­neato con forza. Il mes­sag­gio è chiaro: quello su cui insi­sterà la Coa­li­zione della sini­stra radi­cale elle­nica, in que­sta cam­pa­gna elet­to­rale, è cer­care di porre cia­scuno davanti alla realtà, con una alter­na­tiva e una domanda molto chiara: «Chi volete che gesti­sca la trat­ta­tiva sulla ridu­zione del debito? Di chi vi fidate?». Non a caso, Tsi­pras ricorda che i socia­li­sti e il cen­tro­de­stra hanno sem­pre ripe­tuto che il debito greco era gesti­bile.

Quanto alla sini­stra e alla deci­sione di 25 depu­tati di Syriza di uscire dal par­tito e dare vita a Unità Popo­lare, Tsi­pras ha chia­rito che non intende aprire «una guerra civile a sini­stra», anche se «il suo governo è caduto a causa di colpi inferti dall’interno». L’avversario, insomma, rimane la destra, e tutti coloro che hanno appog­giato un sistema poli­tico cor­rotto e clien­te­lare. Men­tre la lotta con­tro l’austerità non è stata asso­lu­ta­mente archi­viata.

Secondo quanto fil­tra dal quar­tier gene­rale di Syriza, nelle pros­sime tre set­ti­mane ci si con­cen­trerà prin­ci­pal­mente su tre punti: riforma della pub­blica ammi­ni­stra­zione per ren­derla più effi­ciente, ma senza licen­zia­menti, misure alter­na­tive ai tagli che col­pi­reb­bero le classi sociali più deboli e pro­po­ste det­ta­gliate sulla ridu­zione o alleg­ge­ri­mento del debito. Tsi­pras, ovvia­mente, punta anche sul cari­sma della sua lea­der­ship, nella con­vin­zione che il mar­gine di van­tag­gio sui con­ser­va­tori possa aumen­tare in modo sostan­ziale, bat­ten­dosi con forza chi vor­rebbe far pas­sare alla sto­ria il governo della sini­stra in Gre­cia come una breve paren­tesi.

Nella gior­nata di oggi sono attesi gli inter­venti di tutto il gruppo diri­gente del par­tito, in modo da per­met­tere a Syriza di tro­vare spunti e idee per aprirsi nuo­va­mente alla società e «con­ti­nuare il cam­mino appena intra­preso», per dirla con le parole del lea­der greco.

Alla Con­fe­renza nazio­nale è arri­vata una let­tera di soste­gno a Syriza da parte dei Verdi (già al governo) e pure il mini­stro delle Finanze Euclid Tsa­ka­lo­tos, dato in bilico, ha sciolto la riserva: «Dob­biamo com­bat­tere col­let­ti­va­mente la bat­ta­glia per supe­rare l’isolamento», ha detto, rice­vendo molti applausi dalla pla­tea del mini-congresso. In un inter­vento a una con­fe­renza orga­niz­zata dall’Istituto Levy ad Atene, il vice­pre­mier Yanis Dra­ga­sa­kis (l’economista che ha sosti­tuito Yanis Varou­fa­kis nei nego­ziati con i cre­di­tori prima che que­sti si dimet­tesse), ha detto che «il Memo­ran­dum dovrebbe essere eli­mi­nato, non solo per le sue con­se­guenze sociali ma per­ché viola i prin­cipi demo­cra­tici» e che «Syriza è un punto di rife­ri­mento in Europa», per que­sto non sarà sola nella sua bat­ta­glia, e che la solu­zione non è in un «ripe­ga­mento nazio­na­li­stico», come vor­reb­bero i fuo­riu­sciti di Unità popo­lare. Poi, in un’intervista al Quo­ti­diano dei redat­tori, ha spie­gato che «il pro­gramma non sarà solo anti-Memorandum, ma mirerà a com­bat­tere la disoc­cu­pa­zione, alla rico­stru­zione isti­tu­zio­nale dello Stato e a pro­muo­vere un diverso modello di pro­du­zione».

Le cri­ti­che più forti al gruppo diri­gente del par­tito sono arri­vate invece dal cosid­detto «gruppo dei 53», la mino­ranza di sini­stra che soste­neva Tsi­pras ma con­tra­ria alla firma del Memo­ran­dum. Il por­ta­voce Panos Lam­brou ha comin­ciato il suo inter­vento alla Con­fe­renza nazio­nale dicendo «non siamo qui per applau­dire», ha segna­lato il rischio di una «muta­zione» della Syriza di governo, ha cri­ti­cato il pre­ce­dente governo per alcune cose non fatte, come la «man­cata demo­cra­tiz­za­zione delle forze di poli­zia», e ha segnato alcune «linee rosse» che la com­po­nente interna con­si­dera inva­li­ca­bili: «Nes­suna coo­pe­ra­zione con Nea Demo­cra­tia, Pasok e Potami, non accet­te­remo l’applicazione di quelle parti del Memo­ran­dum che con­si­de­riamo offen­sive, diremo no a un pro­gramma in cui non è pre­vi­sto un piano di disim­pe­gno dall’accordo».

Assenti, natu­ral­mente, i dis­si­denti con­fluiti in Unità popo­lare, che ieri fatto appello a tutte le orga­niz­za­zioni della sini­stra radi­cale. Parola d’ordine: «Rom­pere con le poli­ti­che neo­li­be­rali dell’Ue» e se neces­sa­rio arri­vare a un refe­ren­dum per chie­dere alla popo­la­zione se vuole rima­nere nell’euro o tor­nare alla dracma.

L'indignazione non ha mai fine. Soprattutto per chi sa che i beneficiari della miseria da cui fuggono quelli che oggi respingiamo siamo stati noi stessi, per qualche secolo.

Il Fatto quotidiano, 30 agosto 2015

La parola “Olocausto” è quella giusta per raccontare ciò che sta succedendo intono a noi in tempo reale: gente morta annegata, gente morta asfissiata, gente condannata a strisciare sotto barriere di filo spinato, gente ammanettata per essere riuscita a passare, navi piene di morti, camion pieni di morti, spiagge piene di morti, bambini perduti, soli per sempre (non ci sono più i genitori o sono finiti altrove). Oppure i loro corpi galleggiano a faccia in giù, in acqua e benzina nel sottofondo di un barcone. La miglior polizia francese e inglese garantisce il blocco a Calais, a Ventimiglia o sulla bianche scogliere di Dover. La migliore forza militare d’Ungheria usa gas e mezzi blindati casomai i siriani che tentano di salvarsi dal massacro riuscissero ad avvicinarsi.

La parola “Olocausto” l’ha detta Marco Pannella. Sapeva benissimo che era ovvia, ma i
leader europei, impegnati e mobilitati a esigere certi debiti dalla Grecia, avevano altro a cui pensare. Se la Grecia non paga i debiti, la sua cacciata immediata dall'Europa (Grexit) è invitabile . S e l’U ngheria alza una barriera di strati di filo spinato, alta quattro metri e lunga centinaia di chilometri, per impedire ogni passaggio umano dalla Serbia (dunque dalla Siria) il fatto è ordinaria politica interna. E benché sia il confine dell’Europa (pensate, l’Europa di Spinelli, Colorni, Rossi), all’Europa non importa nulla di essere complice di strage. Persino l’America, in un modo non proprio esemplare, ci manda un appello alla lotta contro i perfidi trasportatori di morte (i famosi trafficanti) e non una parola sui nostri confini di morte e sul blocco totale e assoluto di qualunque corridoio umanitario.

Sì, la parola Olocausto è la parola giusta. Talmente giusta che Angela Merkel, che fino ad ora si era dedicata solo al debito greco, si è svegliata di soprassalto e ha ordinato l’accoglienza, la più larga possibile, per i siriani. Ma finora neppure lei ha avuto qualcosa da dire sull’immorale e vergognoso blocco ungherese, che ha trasformato in un lager i confini dell’Unione Europea. Neanche il presidente Junker ha avuto da obiettare, E la ice presidente Mogherini, che è l'Alto rappresentante per la politica estera europea dell’Ue, non si è mai presentata alla frontiera di morte ungherese, per aprire la porta sbarrata dell’Europa.

Sapete perché un decente intervento di chi rappresenta l'Europa non c'è stato ? Perché gli scafisti e i trafficanti di esseri umani sono tra noi. Sono i Salvini, i Le Pen, gli Orbán, i ministri degli interni dei migliori Paesi europei, che scatenano le loro polizie per stanare gli esseri umani che potrebbero salvarsi, che sono già salvi, per ricacciarli o imprigionarli per il reato di avere cercato di garantire la vita a se stessi e ai propri bambini. Trafficanti e scafisti esistono, come esiste una costosissima flotta militare che occupa il Mediterraneo, e avrebbe già sparato agli scafisti, se non fosse tenuta a bada da navi come la “Phoenix” della famiglia Catambrone, che ha salvato, da sola, migliaia di naufraghi, o la nave dei Medici senza frontiere. Infatti è in vigore il blocco assoluto voluto con forza dai “piazzisti di morte” di cui ha parlato il vescovo Galantino.

Ma qui occorre tornare alle ossessioni di Pannella. Perché tanta criminalità e un così immensoguadagno intorno alla droga? Perchè il proibizionismo ha creato il paradiso della malavita organizzata. Ecco ripetuto il modello, a cura dei nuovi piazzisti: bloccare, proibire, chiudere. Se non esiste alcun modo di accostarsi legalmente all’Europa (salvo il visto in consolati già devastati e abbandonati da anni), perché non dovrebbe nascere un reticolato illegale, pericoloso e privo di scrupoli, per quel passaggio verso la salvezza che non può aspettare la prossima stagione e un cambiamento del torvo umore europeo?

E poiché i “buoni”, in Europa, non hanno il coraggio che ha avuto Monsignor Galantino (redarguito per settimane) e continuano a trattare con i piazzisti di morte come fossero politici e come se la condanna a morte di milioni di profughi fosse una delle opzioni possibili, ecco che l’Ue, e ciascuno dei suoi governi, è forzata a non avere alcuna politica, dedicandosi a danzare intorno al palo degli scafisti cattivi e dei trafficanti spietati, senza badare al fatto che quella gente non è che una agenzia criminale creata da noi. E anzi siamo noi stessi, con la nostra assenza, ignavia e tolleranza del male.

L’intera organizzazione del traffico umano sarebbe sciolta, prima da un corridoio umanitario nei Balcani e da un traghetto legale e protetto da tutta quella flotta armata, verso l’Europa. È meglio che vengano tra noi (comunque lo fanno) coloro che abbiamo condannato a morte e che nella traversata hanno perso figli o genitori, o coloro che abbiamo portato in salvo con i loro bambini? L’Onu si è fatta viva. Ci sarà un summit dedicato all’immenso esodo il 30 settembre. Non ci resta che la finta meraviglia di fronte ad ogni nuovo carico di morti.

«I verbali dell’eritreo che collabora con i pm su Ermias Ghermay: lui è in Libia, i soldi in Europa “La moglie riscuote le quote degli imbarchi con trasferimenti di denaro estero su estero”».

LaRepubblica, 30 luglio 2015

È una verità scomoda, una verità che adesso fa paura quella che va emergendo in una stanza blindata, dentro un carcere da qualche parte in Sicilia. Un uomo parla e rivela che il cuore pulsante dell’ultimo esodo senza precedenti attraverso il mare non è nelle spiagge della Libia, e neanche dentro i barconi dove i disperati vengono caricati a frotte. Il cuore pulsante dell’organizzazione più agguerrita dei trafficanti di uomini è in un tesoro. Che non sta in Africa, ma in Germania. Lì - dice l’uomo che parla nella stanza più protetta del carcere- è nascosto il tesoro costruito sulla pelle dei migranti, quelli che pagano 1.500 anche 2.000 dollari per salire su un barcone.

Questo sta ripetendo ai pubblici ministeri di Palermo e ai poliziotti dello Sco un uomo che fino ad aprile era pure lui un trafficante di esseri umani, uno dei più esperti. Dopo essere stato arrestato, è diventato il primo pentito della tratta. Nuredin Wehabrebi Atta, nato ad Asmara, Eritrea, il 12 dicembre 1984. E questa è la sua verità: i soldi del signore dei trafficanti, Ermias Ghermay, sono nascosti nel cuore dell’Europa. L’Europa che per tanto tempo ha fatto finta di non vedere l’esodo. L’Europa che ancora discute sul da farsi.

Adesso, le parole di un uomo che racconta sottovoce di aver visto troppo orrore, troppo sangue, sono quasi un atto d’accusa contro l’Europa che non si è accorta, che non ha fermato i trafficanti. Dice Atta: «Dovete cercarli in Germania tutti i soldi che Ermias guadagna». Aggiunge: «Lui resta in Libia per gestire gli affari, che a Tripoli vengono spartiti fra quattro gruppi. Lì non lo prenderete, perché gode di protezioni nella polizia. Potete però cercare i suoi soldi, e dovete seguire la moglie, si chiama Mana Ibrahim ». Il pentito la segnala «nella zona di Francoforte, dopo essere stata a Stoccolma». E spiega il suo ruolo nell’organizzazione: «Raccoglie il denaro per conto del marito, attraverso il me- todo hawala ». Ovvero, quel sistema di trasferimento di denaro fondato sulle legge islamica tradizionale che prevede una rete di mediatori a cui consegnare il denaro. «Perché soltanto il 5 per cento dei 1.500 dollari richiesto per il viaggio viene pagato in contanti dai migranti - chiarisce Atta - il resto arriva ad Ermias attraverso hawala , dentro una rete di fiducia che si sviluppa estero su estero». Una rete attorno alla Germania, un’indicazione precisa che orienta le indagini e corregge le ipotesi fatte in questi mesi sui forzieri del superlatitante Ermias, ipotesi che parlavano di Svizzera e Israele.

Ma com’è costituita la rete finanziaria dei trafficanti? Per il pool coordinato dal procuratore Franco Lo Voi e dall’aggiunto Maurizio Scalia è diventata la chiave dell’indagine, la chiave per tentare di fermare o indebolire, almeno questo, i trafficanti di uomini. «Bisogna seguire i soldi, era il metodo del giudice Falcone», ha ribadito il pm Geri Ferrara nella sede dell’Aja di Eurojust, alla più grande riunione di coordinamento fra magistrati europei organizzata negli ultimi anni. Cinquanta partecipanti provenienti da otto paesi. E dopo la plenaria, a luglio, si sono susseguiti incontri bilaterali fra i pm di Palermo e i colleghi di Norvegia, Svezia, Olanda, Gran Bretagna, Germania, Francia. Le rivelazioni di Atta e le indagini del servizio centrale operativo della polizia diretto da Renato Cortese sono già diventate spunto per tante altre inchieste in giro per l’Europa. Per stringere il cerchio attorno ai trafficanti.

Non è affatto facile. Chi ha ascoltato Atta dice però che i suoi verbali sono diventati molto di più di un documento giudiziario. Sono come i verbali dei primi pentiti di mafia, molto di più di un’elencazione di nomi e fatti. Sono la chiave per comprendere un fenomeno sconosciuto.

Ora, il cittadino straniero più protetto d’Italia fornisce agli inquirenti il nome di un amico di Ermias che collabora con la moglie. E spiega: «I fiduciari, quelli che movimentano il denaro, sono generalmente dei commercianti ». Un indizio per cercare di intercettare il flusso dei soldi in Germania. E un altro indizio ancora. «So pure che Ermias ha una società in Etiopia, che si occupa di vendere auto». Il tesoro dei trafficanti è ben protetto.

Anche Atta è stato in Germania. «Per un certo periodo i migranti mi contattavano a Roma, il numero gli veniva dato in Libia, e io li portavo in Nord Europa ». Prezzo del servizio, da 400 a 800 euro. «Ero io a decidere le modalità più sicure del viaggio. Bus, treno o auto». Atta andava spesso a Monaco, per quei viaggi prendeva il massimo della tariffa, che poi versava all’organizzazione. A lui restava uno stipendio, come fosse un normalissimo dipendente: «Mi davano 4000 euro al mese. E mi bastavano per vivere».

Grazie allo spettacolo massmediatico, men­tre aumenta la tra­ge­dia si dilata la pas­si­vità e l’abitudine alla noti­zia. Cosí dimentichiamo che è nostra la respon­sa­bi­lità di que­sto esodo. Fug­gono dalle nostre guerre e dalla nostra ridu­zione in mise­ria di paesi in realtà ric­chis­simi di mate­rie prime e terra.

Il manifesto, 30 agosto 2015
Quanti morti oggi? Intanto lo spet­ta­tore mass­me­dia­tico, di fronte alle stragi di migranti nel Medi­ter­ra­neo e — sco­prono adesso — nel cuore d’Europa dalla rotta bal­ca­nica, gira pagina o cam­bia canale per­ché è il solito spet­ta­colo, estre­miz­zato «solo» dal numero delle vit­time che cre­sce ogni giorno di più.

Così, para­dos­sal­mente, men­tre aumenta la tra­ge­dia si dilata la pas­si­vità e l’abitudine alla noti­zia. Del resto sem­pre più acco­mu­nata ad un pro­gramma seriale e rac­con­tata con le moda­lità del rea­lity: ogni canale tv ormai si prende in con­se­gna sotto le tele­ca­mere siglate la sua fami­glia di pro­fu­ghi, la segue fin dove la vuole seguire e poi tanti auguri (senza dire che la mag­gior parte dei dispe­rati non arri­verà a desti­na­zione e allora le tele­ca­mere saranno spente). Sem­bra addi­rit­tura giornalismo-verità, invece altro non è che la macra­bra rie­di­zione di un rea­lity, di un «asso nella manica» gior­na­li­stico. Certo si può per­fino avere l’illusione, guar­dando o rac­con­tando, che quel fram­mento di noti­zia o di imma­gine, siano il solo soste­gno imma­gi­na­rio che pos­siamo dare, almeno in assenza di un inter­vento reale del potere poli­tico che non fa nulla o peg­gio, alle­stendo respin­gi­menti, restrin­gendo diritti d’asilo, sele­zio­nando, anche per nazio­na­lità, pro­fu­ghi sicuri (dalle guerre) e quelli insi­curi (dalla fame), ester­na­liz­zando l’accoglienza in nuovi uni­versi con­cen­tra­zio­nari, cioè tanti campi di con­ce­tra­mento nel Sud del mondo, pre­pa­rando nuove avven­ture belliche.

Ma non è un rea­lity quello che accade sotto i nostri occhi stan­chi. Qui è stra­volto lo stesso prin­ci­pio di realtà e il gior­na­li­smo fin qui rea­liz­zato — tan­to­meno quello embed­ded — non può bastare. Siamo di fronte ad una svolta epo­cale che si con­suma nella tra­ge­dia di cen­ti­naia e cen­ti­naia di milioni di esseri umani, i nuovi dan­nati della terra, in fuga da guerre e mise­ria. E lo spet­ta­colo a lieto fine non c’è. C’è solo la pas­si­vità dila­gante. Da che deriva? Dal sem­plice fatto che ha vinto l’ideologia della guerra uma­ni­ta­ria che, tra gli altri cri­mi­nali effetti col­la­te­rali, non solo assume la guerra come merito ma can­cella le respon­sa­bi­lità dei risul­tati disastrosi.

Invece è nostra la respon­sa­bi­lità di que­sto esodo. Fug­gono dalle nostre guerre e dalla nostra ridu­zione in mise­ria di paesi in realtà ric­chis­simi di mate­rie prime e terra.

Non siamo di fronte a cata­cli­smi natu­rali, sui quali peral­tro comin­ciamo ad indi­vi­duare anche respon­sa­bi­lità spe­ci­fi­che. Per­ché le guerre ame­ri­cane ed euro­pee, deva­stando tre paesi cen­trali dell’area nor­da­fri­cana e medio­rien­tale, nell’ordine tem­po­rale, Iraq, Libia e Siria (senza dimen­ti­care la Soma­lia diven­tata sim­bolo dell’attuale bal­ca­niz­za­zione del mondo) ha pro­vo­cato la can­cel­la­zione di almeno tre società fino ad allora inte­grate, con una con­vi­venza etnico-religiosa mil­le­na­ria; oltre ad atti­vare il pro­ta­go­ni­smo jiha­di­sta, adesso nemico giu­rato ma alleato, finan­ziato e adde­strato in un primo tempo dell’Occidente con­tro regimi e despoti fin lì, anche loro, alleati dell’Occidente e dei suoi equi­li­bri inter­na­zio­nali, alla fine spre­muti e occu­pati mili­tar­mente. Se non si afferma la con­vin­zione che la respon­sa­bi­lità è delle guerre degli Stati uniti e dell’Europa, nes­suno sen­tirà dav­vero il biso­gno di inter­ve­nire a ripa­rare o almeno a rac­co­gliere i cocci.

Vale allora la pena ricor­dare che sono un milione e 300mila le vit­time di alcune delle «nostre» guerre al ter­rore dopo l’11 set­tem­bre 2001 in Afgha­ni­stan, Iraq e Paki­stan, secondo i dati del pre­sti­gioso «Inter­na­tio­nal Phy­si­cian for the Pre­ven­tion of Nuclear War», orga­ni­smo Nobel per la pace negli anni ’80. Un rap­porto per difetto che esclude le guerre più recenti, la Libia, la Siria, l’ultima di Gaza. Che la terza guerra mon­diale non sia già comin­ciata? È una vera ecatombe.

Ora non con­tenti di tutto que­sto pre­pa­riamo con il governo Renzi e per bocca del gri­gio Gen­ti­loni e dell’annunciatrice Ue Moghe­rini, dimen­ti­chi dei risul­tati dell’ultima del 2011, una nuova guerra in Libia «con l’appoggio Onu» e «con­tro gli sca­fi­sti» con tanto di pre­vi­sione di «effetti col­la­te­rali che pos­sono coin­vol­gere inno­centi». Il tutto per finan­ziare da lon­tano nuovi campi di con­cen­tra­mento, come già con Ghed­dafi e poi con il governo degli insorti di Jibril. A que­sto serve l’impegno ambi­guo della diplo­ma­zia ita­liana per­ché nasca l’improbabile governo uni­ta­rio libico per un paese diviso ormai in quat­tro fazioni e con L’Isis all’offensiva. Dimen­ti­cando altresì che l’ultima guerra oltre ai pro­fu­ghi di oggi pro­dusse subito la fuga di due milioni di lavo­ra­tori sub­sa­ha­riani, afri­cani e asia­tici che lì lavo­ra­vano e che ancora vagano nell’area. Ecco dun­que che l’ideologia della «guerra uma­ni­ta­ria» pro­se­gue il suo corso quasi in auto­ma­tico. È così vero che in pieno fer­ra­go­sto il Cor­riere della Sera — la cui sto­ria guer­ra­fon­daia sarebbe da stu­diare a scuola — ha sen­tito il dovere di sco­mo­dare il punto di vista cri­tico di Ser­gio Romano. Anche lui — che resta comun­que «il miglior fab­bro» — alla fine, con mille e ragio­ne­voli riserve, con­viene che «sì la guerra si può fare»: soprat­tutto per­ché in gioco c’è l’approvvigionamento del petro­lio dell’Eni. I conti tor­nano. Ma se la guerra deve essere «uma­ni­ta­ria» che cos’è dun­que la disu­ma­nità che abbiamo pro­dotto e che muore affo­gata o chiusa nei Tir come carne da macello ava­riata men­tre in cam­mino tenta di ridi­se­gnare, abbat­tere, sor­pas­sare le nuove fron­tiere e muri del Vec­chis­simo continente?

Qui forse le ragioni dell’assuefazione gene­rale. Resta insop­por­ta­bile la pas­si­vità di chi si con­si­dera alter­na­tivo e di sini­stra. Chi lavora per un mondo di liberi ed eguali si tra­sformi in cor­ri­doio uma­ni­ta­rio, pre­pari l’accoglienza, attivi il soste­gno, diventi cam­mi­nante, defi­ni­sca la sua sede orga­niz­za­tiva final­mente euro­pea tra Lam­pe­dusa, i porti del Sud, Ven­ti­mi­glia, Calais, Melilla e la fron­tiera unghe­rese da abbat­tere. il mani­fe­sto ha lan­ciato in piena estate il dibat­tito che con­si­de­riamo neces­sa­rio se non deci­sivo C’è vita a sini­stra? Spe­riamo di non tro­varla solo a chiacchiere.

«Il diritto di asilo è soluzione necessaria ma non risolutiva, perchè lascia in ombra le ragioni dei non-rifugiati, di chi cerca vita migliore e scappa dalla fame. Il passo successivo dovrà essere di impegnarsi a promuovere una giustizia redistributiva globale»

La Repubblica, 29 agosto 2015, con postilla

LA questione dell’immigrazione sarà, più della crisi economica, determinante per i destini del progetto di integrazione politica europea. Un nesso nel quale si scontrano beni non mercanteggiabili, come le ragioni della prudenza politica, che è alla base delle frontiere e non può non preoccuparsi della stabilità della popolazione degli stati, e le ragioni di umanità che impongono a tutti il soccorso ma anche la consapevolezza che la giustizia redistributiva globale non è più procrastinabile.

Questa immigrazione è però anche un terreno di semina per la criminalità organizzata internazionale che ha trovato nella disperazione dei migranti una fonte ricca e infinita di guadagno, schiavizzandoli con debiti che una vita di lavoro non basterà ad appianare. Infine, essa diventa il bersaglio facile di una propaganda xenofoba che in alcuni paesi si tinge senza vergogna di nazismo. Queste diverse e contraddittorie implicazioni fanno della più massiccia crisi migratoria dalla Seconda guerra mondiale una questione di emergenza che richiede iniziative non solo umanitarie, ma politiche e giuridiche.

Alla fine della guerra venne fondata l’agenzia dell’Onu per i rifugiati proprio per aiutare i milioni di europei sradicati dal conflitto a ritornare a casa e riacquistare uno status legale e politico che li proteggesse e li tutelasse. Quali sono le iniziative oggi per accogliere i migranti dai Paesi non europei? Questa crisi migratoria, all’opposto di quella del dopoguerra, provoca la chiusura delle frontiere, i respingimenti con interventi militari contro persone che cercano scampo in questo continente dalla morte certa nei loro Paesi.

Certo, tra i migranti ci sono non solo i rifugiati ma anche gli immigrati economici. E nonostante le convenzioni internazionali abbiano cercato di fare rispettare agli Stati questa distinzione, i guardiani delle frontiere la ignorano spesso. Qui sta la responsabilità di quei Paesi europei che alzano i muri di filo spinato per fermare tutti, senza distinzione. Come ha detto il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, in un’intervista a Repubblica , il populismo di Stato stravolge i valori per cui è nata l’Europa e deve essere contrastato.

«Dimostriamo solidarietà ai nostri vicini, come la Turchia, la Giordania e il Libano, ospitando 20mila profughi», ha detto, e soprattutto «concordiamo misure per il rimpatrio che agevolino il ritorno al paese d’origine delle persone cui non viene riconosciuto il diritto di restare in Europa». Ecco il nodo della politica europea dell’immigrazione: decidere chi merita e chi non merita di restare e imporre ai paesi questa distinzione, per evitare la chiusura indiscriminata.

La discussione in corso fra i governi europei ha in progetto pertanto la ricerca di una soluzione giuridica a questo nodo, per legittimare la costituenda polizia europea di frontiera con un diritto che discenda dall’Europa direttamente, non dai governi nazionali. Una definizione europea del diritto di asilo dunque, e non solo per ragioni umanitarie. Ma anche per meglio fronteggiare l’altra immigrazione, quella “economica” come suggerisce Juncker.

Una politica europea delle frontiere è necessaria perché è ormai chiaro a tutti che questa emergenza migratoria non è governabile dai singoli Paesi. Come quella economica anche questa crisi mette a nudo l’impotenza delle sovranità nazionali e il bisogno di un’Europa politica. Dunque, muovere l’arma del diritto per governare un’emergenza che ha sempre più i caratteri della sicurezza europea.

La dichiarazione di un diritto europeo d’asilo è un fatto di grandissima importanza. Lo è innanzi tutto per le persone che ne godranno.

Ma anche per l’Europa, poiché scrivendo un diritto di asilo essa aggiunge un tassello decisivo alla costruzione di una cittadinanza europea. Infatti, lo stato di rifugiato è definito in relazione non solo all’umanità da proteggere, ma anche al soggetto che dà rifugio - il quale non è un ente morale assistenziale, ma uno Stato politico - sono i cittadini europei che si impegnano a livello sia di Stati membri che di Europa. La decisione di istituire un diritto europeo di asilo è politica a tutti gli effetti dunque, anche se l’autorità che la mette in essere non è a tutti gli effetti un sovrano democratico.

E come decisione politica essa ha due facce, sulle quali si deve riflettere: da un lato, il diritto di asilo dà all’Europa un’arma per potersi imporre al di sopra delle legislazioni dei paesi e quindi superare la discrepanza tra i vari codici nazionali; dall’altro, questo diritto dà alla polizia europea di frontiera lo strumento per distinguere tra i rifugiati e gli immigranti economici (da respingere se non entrano con regolari permessi di lavoro). E ciò prova come il diritto di asilo diventi un importante tassello nella costruzione della cittadinanza europea perché consente di legittimare esclusioni e rimpatri, non solo accettazioni.

In conformità con la natura della cittadinanza, che mentre stabilisce l’inclusione determina altresì le condizioni dell’esclusione. E a tutt’oggi, la povertà e la destituzione non sono ragioni sufficienti a dare rifugio.

Il diritto di asilo è quindi una soluzione necessaria ma non risolutiva, perchè lascia in ombra le ragioni dei non-rifugiati, di chi cerca una vita migliore e scappa dalla fame. Il passo successivo per un’Europa coerente ai suoi fondamenti dovrà dunque essere quello di impegnarsi a promuovere una giustizia redistributiva globale.

postilla

Il problema è che assumere le ragioni dell'emergenza rinviando al domani «le ragioni dei "non rifugiti"»significa non affrontare il problema reale: che è quella della invivibilità di vasta regioni del pianeta (dall'intera Africa all'Asia minore), regioni nelle quali per di più rimangono attive le forze e i meccanismi che ne hanno determinato l'immiserimento. Se non si affronterà in questo quadro la stessa questione dell'emergenza diverrà cronica, perciò stesso ingovernabile. Occorre dire che vedere solo l'emergenza, e discriminare i "richiedenti asilo" dagli altri è l'atteggiamento più conforme all'indole degli attuali governanti, nei quali la miopia è divenuta una minorazione così consistente da essere entrata nel loro patrimonio biologico.

Combattere per evitare che il rullo mediatico, macinando morti a pranzo e cena, completi l'assuefazione ai profughi ammazzati; impegnarsi per gestire l'accoglienza, soprattutto sulle frontiere più esposte.

Il manifesto, 29 agosto 2015

Come muore un bam­bino asfis­siato den­tro un Tir? In attesa di cam­biare il mondo e met­tere fine alle guerre post-coloniali dell’Occidente e a quelle che ora com­bat­tono le pre­tro­mo­nar­chie in Medio Oriente, dovremmo ingag­giare una guerra di resi­stenza, che già ci coin­volge tutti: l’assuefazione alle stragi quo­ti­diane dei migranti.

Il rischio di dige­rire sem­pre più rapi­da­mente le noti­zie che ogni giorno la tele­vi­sione porta nei nostri tinelli è for­tis­simo. Il rullo media­tico macina i morti a pranzo e a cena e, lo sap­piamo, l’abitudine è capace di ren­dere sop­por­ta­bili cose spa­ven­tose. Del resto bastava sfo­gliare i gior­nali di ieri per vedere che l’eccitazione della grande stampa era tutta per la “que­stione romana”, men­tre le decine di morti asfis­siati sul Tir che tra­spor­tava uomini, donne e bam­bini dall’Ungheria all’Austria fati­cava a gua­da­gnare i grandi titoli di prima pagine. Per­fino gior­nali pro­gres­si­sti e sem­pre in prima linea con­tro le male­fatte della casta, rele­ga­vano la strage del camion in poche righe. Natu­ral­mente con le ecce­zioni del caso, a con­fer­mare la regola, e fatti salvi i gior­nali della destra che con­tro i migranti spa­rano titoli for­ca­ioli per lucrare qual­che copia lisciando il pelo ai peg­giori sen­ti­menti xeno­fobi e raz­zi­sti di let­tori e elettori.

Ma l’informazione ai tempi della rete può anche essere l’antidoto al pre­va­lere di assue­fa­zione e abi­tu­dine. Come dimo­stra il caso dell’attivista islan­dese, pro­mo­tore di una rac­co­gliere fondi a favore di un uomo, rifu­giato pale­sti­nese, pro­ve­niente dal campo pro­fu­ghi siriano di Yar­muk, a Dama­sco. Gra­zie all’immagine di Abdul che vende penne biro all’incrocio di una strada di Bei­rut con la figlio­letta in brac­cio, il web ha pro­dotto un felice cor­to­cir­cuito e sca­te­nato una gara di solidarietà.

Tut­ta­via non è solo l’informazione a essere chia­mata in causa. Subito dopo viene la poli­tica e in primo luogo quella che si richiama ai prin­cipi di libertà e ugua­glianza della sinistra.

Come è pos­si­bile che lungo i muri che l’Europa costrui­sce sulle fron­tiere di terra non ci siano mani­fe­sta­zioni di pro­te­sta accanto all’esodo di chi fugge e muore? Per­ché davanti a quel filo spi­nato pian­tato dal regime rea­zio­na­rio del pre­mier unghe­rese Orbàn non c’è una caro­vana di quei mili­tanti che dicono di bat­tersi per favo­rire final­mente l’apertura delle fron­tiere della For­tezza– Europa?

Al punto in cui siamo nes­suno più può dire di non sapere per­ché tutto l’orrore e il dolore è in onda, e non siamo più in pochi a vedere quel che accade. Per­sino lea­der euro­pei come Mer­kel devono scen­dere in campo poli­ti­ca­mente e per­so­nal­mente per dire che i vec­chi trat­tati (Dublino) sono da rive­dere.

La sini­stra dovrebbe fare dell’immigrazione la sua bat­ta­glia prin­ci­pale, gio­can­dola all’offensiva, nei sin­goli paesi di appar­te­nenza e nei punti caldi dell’esodo. I con­ve­gni sono utili ma non bastano. Meno talk-show e più mobi­li­ta­zioni per mani­fe­stare con­cre­ta­mente pre­senza e soli­da­rietà. Per esem­pio sulla nostra grande fron­tiera del Mez­zo­giorno, la prima linea per i comuni che cer­cano di acco­gliere come pos­sono i soprav­vis­suti ai viaggi della morte. Il Sud dovrebbe essere anche la fron­tiera della sinistra.

E intanto, in attesa di can­cel­lare leggi cri­mi­no­gene come la Bossi-Fini, a chi fugge per mare e per terra su un gom­mone o nel cas­sone di un Tir, per non morire baste­rebbe salire su una nave o su un treno. Con un sem­plice, rego­lare biglietto.

Intervista di Giovanna Casadio a Romano Prodi. Stoccata sulle tasse: “Se ne discute solo su Twitter e si promette tutto a tutti. E così addio analisi”. La Repubblica, 29 agosto 2015

CAPALBIO. «Renzi parla di vent’anni di stallo tra berlusconismo e anti berlusconismo? Allora ‘l s’è sbaiè ... ». Romano Prodi lo dice in dialetto emiliano. Il Professore evita accuratamente polemiche con il governo («Chi deve governare credo che vada lasciato in pace»), però quando ci vuole, ci vuole. Difende i suoi due governi e quello che hanno fatto. E anche sulla riforma costituzionale, su cui il premier tiene premuto l’acceleratore, avrebbe più di qualcosa da dire. «Mi pare però che non sia il momento delle riflessioni serene - premette - da rivedere e da ripensare c’è tanto. Ma oggi ci si muove per contrapposizioni e così non riusciremo a fare una riforma seria. Occorre vedere cosa fare e cosa no. La prima parte della Costituzione ha validità totale, la seconda non ha funzionato bene. Però non mettiamoci mano in modo sguaiato e scoordinato, perché non si arriverebbe a capo di nulla. Ritengo che per questa modifica ci vorrebbe del tempo». L’ex presidente della Commissione Ue è venuto a Pescia Fiorentina per ritirare il premio internazionale Capalbio-Piazza Magenta insieme con Marco Damilano per il libro “Missione incompiuta”. Glielo consegna Nicola Caracciolo, è accolto da amici di vecchia data, tiene una lectio su “La fragile Europa nel tempo della confusione globale”. Il luogo è così bello, nel verde di Villa Pietromarchi, che il due volte premier (vincitore su Berlusconi), il fondatore dell’Ulivo, il “padre” del Pd che ha mancato per 101 franchi tiratori del suo stesso partito il Quirinale, è disposto a scherzarci su: «I traditori furono 120 e non 101... Ma quello è il passato. Sto vivendo un periodo interessante della mia vita insegnando in diversi paesi. Mi volto avanti, non indietro».
Di interventi sulla politica internazionale, sull’Europa dopo l’avventura greca, sul ruolo della Cina e la questione epocale dell’immigrazione, Prodi ne ha fatti diversi nell’ultimo periodo. Dall’agone della politica italiana vuole restare fuori. «Non vado alle feste dell’Unità da anni, non partecipo più ad attività di partito. Ho rinunciato alla mia iscrizione al Pd e mi sembra giusto avere lasciato».
Tuttavia, se punto sul vivo sull’attività dei suoi governi, i vent’anni alle nostre spalle e quel giudizio errato di Renzi, precisa: «Il debito pubblico si è formato prima degli anni ‘90 e tutti e due i miei governi l’hanno abbattuto. Le disfunzioni quindi sono cominciate prima ».
Un “affondo” lo riserva sulla questione delle tasse. Ormai è una gara a promettere di abbatterle. «Dopo Ronald Reagan e Margaret Thatcher, chi parla di tasse perde le elezioni. E su questo non c’è più nessuna distinzione tra destra, centro e sinistra. Ecco che si promettono meno tasse, meno tasse e si favorisce l’irrazionalità... a furia di promettere tutto a tutti chi promette di più, vince. E comunque sulle tasse un tempo si facevano analisi politiche serie per valutare tra l’altro dove destinare le imposte, se sulla sanità o sul welfare». Ora? «Se c’è chi ti impedisce l’analisi è Twitter ».
Il riferimento non è per niente casuale, dal momento che il dibattito su quante tasse, quali tasse, per quale costo sul bilancio dello Stato, perché proprio Imu e Tasi, si è svolto su Twitter, il mezzo più usato da Renzi per comunicare.

Batte molto sull’immigrazione, Prodi, e sulla complessità della risposta da dare più che urgentemente a una questione epocale e che ci interpella tutti, come Paesi, come istituzioni e come persone. Nei progetti del Professore, oltre all’attività internazionale, c’è comunque «una riflessioni sui rapporti tra Stato e Regioni». Roma, Palazzo Chigi, la mancata elezione alla presidenza della Repubblica («Non avevo nessun desiderio e non ci ho mai creduto»), sono davvero lontani dalla “ferriera” di Pescia Fiorentina con i suoi alberi secolari. Casomai è al respiro lungo della Costituzione che viene da pensare. Tra dieci giorni a Palazzo Madama si entra nel vivo della legge Boschi e al presidente Grasso spetta la decisione se tornare sull’articolo 2 oppure “blindarlo”.
In Germania qualcosa si muove nella direzione giusta. Ma consolidando una credenza profondamente erronea e operando una gravissima discriminazione: la credenza che si tratti di un'emergenza umanitaria e non di un esodo biblico, la discriminazione di salvare solo i siriani, come se le carestie non avessero le stesse cause e gli stessi effetti.

Il manifesto, 28 agosto 2015

I ger­ma­ni­sti ci spe­rano sem­pre. In un qual­che pic­colo segnale di ripresa dell’etica e della cul­tura tede­sca. A mag­gior ragione dopo una lunga sequenza di aspre cri­ti­che con­tro le forme che andava assu­mendo l’egemonia ger­ma­nica sull’Europa: dall’ultimo pam­phlet di Ulrich Beck alla pesan­tis­sima accusa rivolta da Jür­gen Haber­mas al governo di Ber­lino di aver dis­si­pato in una sola notte (quella dell’imposizione del Memo­ran­dum ad Atene) l’intero patri­mo­nio di aper­tura e affi­da­bi­lità euro­pei­sta accu­mu­lato dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Sarebbe di fronte all’ «immane tra­ge­dia» dell’immigrazione che alla Ger­ma­nia si offri­rebbe ora l’occasione del riscatto, l’opportunità di cor­reg­gere l’egemonia finan­zia­ria con una «ege­mo­nia morale tede­sca», come si inti­tola l’editoriale di Gian Enrico Rusconi su La Stampa del 27 agosto.

Del resto quel grande feno­meno sto­rico che nei nostri libri di testo viene desi­gnato con l’espressione alquanto sprez­zante di «inva­sioni bar­ba­ri­che» nelle scuole di lin­gua ger­ma­nica è chia­mato die Völ­ker­wan­de­rung, ossia la migra­zione dei popoli.

Una espres­sione che però dif­fi­cil­mente vedremmo oggi appli­cata al gigan­te­sco spo­sta­mento di popo­la­zioni da nume­rose aree deva­state del pia­neta verso i più ric­chi paesi d’Europa. Sarà per­ché que­sti uomini e que­ste donne non sono gui­dati dai rispet­tivi monar­chi, dai quali, al con­tra­rio, rifug­gono o per­ché l’unica arma di cui dispon­gono è quella del numero, di uno squi­li­brio intol­le­ra­bile e, infine, di una neces­sità storica.

Di qui l’illusione che si tratti di una «emer­genza uma­ni­ta­ria» e non di un pro­cesso incon­te­ni­bile desti­nato a mutare radi­cal­mente la com­po­si­zione e la cul­tura delle società euro­pee. Certo, l’ecatombe quo­ti­diana, via terra e via mare, e le sue orri­pi­lanti cir­co­stanze (i sepolti vivi nelle stive dei bar­coni e nei camion), rive­lano e celano al tempo stesso.

Rive­lano la vio­lenza spro­po­si­tata delle con­di­zioni di «viag­gio» impo­ste ai migranti da traf­fi­canti e guar­die con­fi­na­rie e dun­que l’«emergenza uma­ni­ta­ria», ma celano la natura strut­tu­rale e affatto con­tin­gente dei flussi migratori.

Ma vediamo più da vicino in che cosa con­si­ste l’ «esem­pio morale» di Angela Mer­kel. Sfi­dando i fischi e gli insulti di un gruppo di con­te­sta­tori ultra­na­zio­na­li­sti in quel di Hei­de­nau, cit­ta­dina tea­tro di ripe­tute vio­lenze dell’estrema destra, la can­cel­liera ha con­dan­nato con toni duri raz­zi­smo e xenofobia.

Qua­lun­que altro gover­nante euro­peo non avrebbe potuto fare altri­menti. A mag­gior ragione di fronte a una esca­la­tion di atten­tati e aggres­sioni di matrice raz­zi­sta o neo­na­zi­sta come quella che la Ger­ma­nia ha lasciato cre­scere al suo interno, spesso civet­tando con l’ideologia della «prio­rità nazionale».

Fin qui, dun­que, nulla di straor­di­na­rio. Più rile­vante, invece, la deci­sione di sospen­dere la regola di Dublino che impone ai richie­denti asilo di rima­nere nel primo paese dell’Unione in cui sono arri­vati. Un buon motivo per far tirare il fiato ai paesi di con­fine come il nostro. Ma c’è un però.

La Ger­ma­nia apre le porte ai soli siriani, con­si­de­rati la punta dell’iceberg «uma­ni­ta­rio». Così facendo pro­pone un modello che di morale non ha pro­prio nulla.

Se anche si assu­messe come solo motivo di legit­tima fuga la guerra guer­reg­giata, in che cosa si distin­gue­rebbe chi fugge da Mosul da chi fugge da Aleppo, da Kan­da­har o dallo Yemen?

Se il «para­digma siriano» può alleg­ge­rire una con­tin­genza esso intro­duce tut­ta­via una deli­rante tas­so­no­mia dei migranti, suscet­ti­bile di con­ti­nue par­ti­zioni: pro­fu­ghi di guerra (da sud­di­vi­dere sulla base di un qual­che indice bel­lico?), rifu­giati poli­tici (da ripar­tire secondo un dia­gramma della repres­sione?), rifu­giati cli­ma­tici ( da indi­vi­duare sulle sta­ti­sti­che meteo?), per­se­gui­tati reli­giosi (da defi­nire secondo una misura della libertà di culto?) migranti eco­no­mici (tanto peg­gio per loro).

Infine la distin­zione più assurda di tutte: quella tra paesi sicuri e paesi insi­curi. Un paese, infatti, non è pari­menti sicuro o insi­curo per tutti. Per un omo­ses­suale l’Iran non è, per esem­pio, un paese sicuro, come non lo è l’Arabia sau­dita per una donna desi­de­rosa di gui­dare un’automobile e l’elencazione potrebbe pro­ce­dere all’infinito.

Pos­siamo imma­gi­nare i buro­crati dei cen­tri di iden­ti­fi­ca­zione e regi­stra­zione alle prese con que­sto gine­praio. Così, di fronte a tanta com­pli­ca­zione che manda in pezzi la stessa dimen­sione «uma­ni­ta­ria», il modello tede­sco pro­cede verso una ulte­riore restri­zione del diritto di asilo (del resto più volte ridi­men­sio­nato nel corso degli ultimi anni) alla quale sta ala­cre­mente lavo­rando il mini­stro degli interni Tho­mas de Mazière.

A que­sto si affianca una poli­tica di restri­zione del wel­fare e degli stru­menti assi­sten­ziali (per i migranti in primo luogo, ma non solo) tali da ren­dere il paese sem­pre meno appe­ti­bile per chi inten­desse stabilirvisi.

Quanto a «ege­mo­nia morale» non c’è dav­vero che dire. Rispar­mio e deter­renza in un colpo solo. Ogni brec­cia nei muri visi­bili e invi­si­bili che divi­dono l’Europa è per molti un’occasione di sal­vezza, ma non biso­gna per­dere di vista il fatto che il «para­digma siriano» risponde a una logica di governo e di con­trollo del «diritto di fuga» che, sia pure sotto la pres­sione di eventi estremi ( fomen­tati da poli­ti­che glo­bali senza scru­poli), risponde pur sem­pre alla volontà di garan­tire l’impiego pro­fit­te­vole e com­pe­ti­tivo delle «risorse umane».
Un corretto riepilogo delle malefatte della fase berlusconiana del disastro italiano. Singolare però che il valente storico dell'Italia contemporanea si rivolga a Matteo Renzi come se non avesse compreso che l'attuale premier/segretario è l'erede e continuatore di Silvio.

La Repubblica, 28 agosto 2015

HA AVUTO uno sguardo un po’ distratto negli ultimi vent’anni, Matteo Renzi, se dell’antiberlusconismo ha colto solo qualche settarismo e qualche semplificazione. Ed è grave se si è fermato ad essi senza riflettere realmente su quel che è stata la “stagione di Berlusconi”: con il prepotente emergere di deformazioni culturali, sociali e politiche già riconoscibili negli anni Ottanta. Con una irresponsabilità di governo che nel 2011 ci ha portati sull’orlo del crollo, con uno stravolgimento delle istituzioni che ha inciso in profondità sul loro concreto funzionamento ed è stato fermato appena in tempo. Prima che riuscisse ad intaccare quell’equilibrio fra i tre poteri dello stato che è il fondamento della democrazia.

Non si liquida con una battuta quella fase: «Questa settimana - scriveva appunto nel 2011 un commentatore del New York Times - mi sono trovato a pensare che anche il valore della mia pensione potrebbe dipendere da Silvio Berlusconi». Non vi può essere una vera rifondazione del Paese (un “cambiar verso”) senza fare realmente i conti con l’Italia che è confluita nella stagione berlusconiana e che in essa si è consolidata. Raccoglieva molti umori fermentati negli anni ottanta il Berlusconi della “discesa in campo”, e lo segnalarono via via - inascoltati - non pochi commentatori. Dietro la predicazione di “un nuovo, grande, straordinario miracolo italiano” vi era la rimozione del macigno economico ed etico che pesava sul Paese: un debito pubblico che ne aveva minato l’economia e lo stesso modo di essere, abituandolo a vivere a credito; abituandolo a dissipare ricchezza e a lasciare il conto alle generazioni future. Rimarrà questa fino all’ultimo la cifra del berlusconismo, dalla “finanza creativa” di Tremonti sino agli ultimi scampoli del suo governo, con la ostinata negazione della crisi che incombeva. E con un atteggiamento di fondo «che guardava con indulgenza sottaciuta alla indole degli italiani. Alla loro diffidenza verso la dimensione pubblica, ai loro egoismi di corporazione, alle elusioni fiscali, all’irritazione provocata dalle norme» (Edmondo Berselli lo sottolineò più volte con corrosiva lucidità). E ampi settori sociali percepirono e condivisero il suo “liberalismo” per quel che era, profonda insofferenza alle regole.

Si pensi anche al populismo berlusconiano, capace di intercettare un “antistatalismo” di antica data e al tempo stesso umori fermentati nella crisi dei partiti novecenteschi (e nel passaggio dalla “rappresentanza” alla rappresentazione mediatica). Capace di riproporre in forme nuove le vecchie culture «dell’anti-partito e dell’anti-politica, un desiderio di nuovo che faccia piazza pulita dei metodi di mediazione democratica per cercare in un leaderismo forte il momento demiurgico della decisione». E «il processo agli inquilini corrotti del “palazzo” si trasformava nella denigrazione di oltre quarant’anni di democrazia» (sono parole del 1994 di Mario Pirani). Si trasformava, anche, in quella “diseducazione civica” nei più diversi campi che Piero Ignazi ieri ha ben ricordato: dal fisco alla scuola, dalla magistratura a una Costituzione bollata talora come frutto ideologico del comunismo. Su questo terreno confluivano sia umori tradizionali della “destra smoderata” italiana sia abiti mentali sedimentati appunto negli anni Ottanta in non pochi settori sociali e politici: «Insofferenti alle tradizionali austerità democratiche, amanti del denaro e del potere, infastiditi dagli egualitarismi » (sono parole di Mariella Gramaglia dedicate allora ai socialisti craxiani). È nell’azione di governo però che la “diseducazione civica” dell’ex Cavaliere si è concentrata in modo potente, svilendo il senso delle istituzioni ed entrando in conflitto con le più elementari norme dello stato di diritto. Ed aprendo quei conflitti con gli altri poteri dello Stato e con lo stesso dettato costituzionale che i diari e le memorie di Carlo Azeglio, pubblicati a cura di Umberto Gentiloni, hanno ulteriormente documentato. Non è possibile sorvolare sui guasti delle leggi ad personam o sulla corruzione accertata (dai fondi neri per alimentarla ai giudici e ai parlamentari comprati): senza questi aspetti non si comprenderebbe neppure il colossale salto di qualità compiuto rispetto agli anni di Tangentopoli. E quindi la assoluta necessità e urgenza di una radicale inversione di tendenza: consapevolezza che è sembrata progressivamente mancare a Renzi in questi mesi. Si consideri infine lo stravolgimento istituzionale avviato da Berlusconi nel 2001 e giunto al culmine alla vigilia della sua caduta: il premier — annotava Scalfari nel 2010 — vuol riscrivere la Costituzione “mettendo al vertice una sorta di “conducator” eletto direttamente dal popolo (…) e subordinando alla sua volontà il potere legislativo, i magistrati, la Corte Costituzionale e le autorità di controllo e di garanzia». Era difficile dargli torto: a meno di non essere, appunto, molto distratti.

Certo, un antiberlusconismo urlato ha coperto talora un vuoto di contenuti (lo aveva sottolineato già Walter Veltroni) e sono state molte le responsabilità del centrosinistra, incapace in primo luogo di un rinnovamento radicale della politica: a quest’opera si era candidato Matteo Renzi ma anche quell’impegno si è molto sbiadito con lo scorrer del tempo. Si pensi poi a un altro nodo, la sostanziale inadeguatezza nel contrastare la berlusconiana “illusione del miracolo”. Certo, in nome dell’emergenza il centrosinistra si è trovato ad adottare responsabilmente politiche di rigore (dal primo governo Prodi sino al governo Monti): non sostenute però da una reale visione di futuro e prive così di una reale capacità di convinzione. E contrastate con forza dalla sinistra estrema, consonante in questo con la berlusconiana “cultura del miracolo”. Da questo nodo irrisolto discende anche la vaghezza estrema con cui oggi si parla di “ripresa”, quasi si pensi ad un tranquillo ritorno agli scenari precedenti la crisi. Quasi si consideri superfluo riflettere a fondo sulle trasformazioni globali che sono intervenute, e che esigono scelte inedite: ma forse proprio questo una forza riformatrice dovrebbe fare, risparmiandosi battute ad effetto.

Forse una svolta nella Fortezza Europa: si apre qualche spiraglio. Ma resta l'illusione che si tratti solo di "emergenza umanitaria" e non di sconvolgimento globale nel rapporto tra popoli e continenti.

Il manifesto, 28 agosto 2015

Set­tem­bre potrebbe essere il mese deci­sivo per l’Unione euro­pea per cam­biare rotta sull’immigrazione. «Tro­ve­remo il modo di distri­buire il carico e le sfide in modo equo» ha detto ieri Angela Mer­kel, e le parole della can­cel­liera tede­sca più che un invito sono sem­brate indi­care la nuova dire­zione da seguire. L’alternativa, per l’Europa, è quella di essere tra­volta dall’onda sem­pre più impo­nente di pro­fu­ghi in arrivo sia dal Medi­ter­ra­neo che via terra lungo la rotta dei Bal­cani occi­den­tali.

Quat­tro gli obiet­tivi prin­ci­pale da rag­giun­gere: ripri­sti­nare l’obbligatorietà per i 28 di pren­dere una quota di richie­denti asilo, prin­ci­pio pre­vi­sto a mag­gio dalla Com­mis­sione euro­pea ma boi­cot­tato dai Paesi del Nord che sono riu­sciti a imporre la volon­ta­rietà; alzare il numero dei pro­fu­ghi siriani ed eri­trei da ricol­lo­care (ini­zial­mente 40 mila tra Ita­lia e Gre­cia, poi scesi a 35 mila) e avviare una discus­sione che porti a una nor­ma­tiva comune sul diritto di asilo. Ma, soprat­tutto, arri­vare final­mente a una revi­sione del rego­la­mento di Dublino che oggi obbliga i migranti a stare nel primo paese in cui sbar­cano. Una cosa che l’Italia chiede da mesi ma che adesso vuole anche la Ger­ma­nia al punto da averlo già sospeso tem­po­ra­nea­mente per i siriani.

Sep­pure ancora labili, le pos­si­bi­lità per­ché si arrivi final­mente a una svolta ci sono. Oltre a Ger­ma­nia e Ita­lia, sosten­gono le quat­tro richie­ste anche Fran­cia e Gre­cia, ma non è escluso che si accodi anche l’Ungheria, sotto pres­sione in que­sti giorni pro­prio per il forte flusso di richie­denti asilo alla fron­tiera con la Ser­bia. E in futuro, pas­sata la tor­nata elet­to­rale in cui alcuni Paesi sono impe­gnati nel pros­simo autunno-inverso, l’elenco potrebbe allun­garsi. «L’Europa è un con­ti­nente ricco ed è in grado di affron­tare que­sto pro­blema», ha aggiunto la Mer­kel

A que­sto blocco di Paesi va poi aggiunta la Com­mis­sione euro­pea il cui resi­dente Jean Claude Junc­ker si è bat­tuto per met­tere mano a Dublino e per­ché i 28 si assu­mes­sero quote di pro­fu­ghi. Ieri Junc­ker ha repli­cato a quanti accu­sano la com­mis­sione di non aver fatto molto per risol­vere la crisi dei migranti: «Alcuni mini­stri di Stati mem­bri ci cri­ti­cano per una nostra inat­ti­vità, Ma sono cri­ti­che ingiu­sti­fi­cate — ha detto -. La colpa va data agli Stati mem­bri, non alla com­mis­sione che ha pre­sen­tato la sua Agenda sull’immigrazione a mag­gio».

Il fatto è che da mag­gio a oggi è cam­biato tutto. La pres­sione dei pro­fu­ghi alle fron­tiere euro­pee è sem­pre più forte e coin­volge sem­pre più Paesi. Come i sei Paesi del Bal­cani occi­den­tali, che ieri hanno tenuto a Vienna un ver­tice al quale hanno par­te­ci­pato anche Ita­lia, Ger­ma­nia, Austria Croa­zia e Slo­ve­nia nel quale nel quale alla Ue di met­tere a punto un piano d’azione in grado di rispon­dere alla crisi di que­ste settimane.

Dell'importanza della creatività per lo sviluppo di un'economia capace di progredire. Il grave ritardo dell'Italia come una delle ragioni del declino del suo apparato industriali.

La Repubblica, 28 agosto 2015L’EUROPA è un continente rimasto senza idee»: a lanciare l’allarme sul Financial Times è stato Edmund Phelps, Nobel per l’economia. Nel braccio di ferro sulle misure di austerità che hanno messo alla gogna la Grecia (e domani altri Paesi), la parola “creatività” non ricorre mai.
Stagnazione delle economie nazionali, il Pil che da anni, quando va bene, sale (come in Italia) di qualche misero decimale: in questo gioco al massacro entrano le borse, i mercati, la troika, l’invadenza tedesca, le influenze americane o asiatiche. Ma che vi sia un qualche rapporto fra creatività ed economia non viene mai in mente. Secondo Phelps, «gli italiani trovano del tutto accettabile che la loro economia sia quasi del tutto priva di innovazioni autoctone da vent’anni, e sia capace solo di reagire alle forze del mercato globale, come se una nazione non avesse bisogno di dinamismo per essere felice».

Ma può esserci felicità senza creatività? Secondo un’indagine del Pew Research Center di Washington ( ottobre 2014), in Italia “l’indice di felicità” si ferma a 48 punti (Spagna 54, Grecia 37), mentre i Paesi emergenti, assai più creativi, volano alto: Messico 79, Brasile 73, Argentina 66, Cina 59.

L’Italia è fra i Paesi che Phelps sceglie a esempio di un’economia «meccanica, robotizzata, che ha per ingredienti la ricchezza, i tassi di interesse, i salari; ma ne manca uno, l’abilità e l’inventività degli esseri umani». L’efficienza (spesso sinonimo di ubbidienza) viene confusa con il dinamismo, l’alternanza ai vertici viene scambiata per innovazione, lo storytelling del successo prende il posto di ogni vero sviluppo. Una nuvola di parole occulta il destino dei cittadini e lo subordina alle decisioni, spesso incompetenti, di chi si insedia nella stanza dei bottoni. Il pensiero unico di una scienza economica spacciata per la sola possibile (come se non ne esistessero versioni e correnti alternative) alimenta la rassegnazione fatalistica alle “forze del mercato”, che come una fede religiosa non vacilla davanti alla perpetua crisi, ai continui fallimenti.

Rimettere al centro la creatività come rimedio alla stagnazione e alla crisi è oggi più che mai necessario. In questo senso va la distinzione, proposta dallo stesso Phelps nel suo recente Mass Flourishing (2013), fra la “prosperità” dei cittadini (far bene un mestiere per ottenere migliori salari) e la loro “fioritura” (coltivare l’immaginazione, esercitare la curiosità intellettuale, praticare la creatività). Una società può esser prospera senza essere fiorente, ma una società fiorente è sempre prospera: ed è solo nei periodi di massima fioritura della comunità civica che scatta l’innovazione, come si è visto dal Rinascimento al Novecento. Solo in una società fiorente, dove la creatività è un valore riconosciuto, vi sono le condizioni-base per una vita soddisfacente; solo chi può appagare la propria curiosità e inventiva avrà pieno rispetto per se stesso e si sentirà a pieno titolo parte di una comunità. Questo e non altro è il “vivere bene” che sbandieriamo come slogan, ma senza saperlo tradurre in progetto.

La categoria-chiave di questo ragionamento, la “fioritura” ( flourishing ), viene dalla filosofia morale (basti ricordare Martha Nussbaum e Julia Annas), che ne ha indicato le radici nel pensiero di Aristotele. L’eudaimonia di cui parla l’antico filosofo non è felicità effimera (il “successo”), ma senso di realizzazione della propria vita, delle proprie potenzialità: un sentimento che incardina l’individuo nella comunità (polis) di cui fa parte. La “fioritura” degli individui e delle comunità è precondizione indispensabile per lo sviluppo della creatività ad ogni livello, e dunque componente vitale dell’economia e della società, ma anche della democrazia, dell’equità, della giustizia. È necessario interrompere, volando alto, il circolo vizioso di cui siamo prigionieri: l’Italia e l’Europa davvero sono a corto di idee, e perciò segnano il passo. La prosperità raggiunta (insieme al timore di perderla) produce più stagnazione che progresso: anzi, la pressione dei mercati e la concentrazione della ricchezza erodono i diritti (all’istruzione, alla salute, alla cultura, al lavoro) generando crescenti ineguaglianze. L’illusione della crescita si limita a qualche success story che riunisce in poche mani gli incrementi di produzione e di ricchezza; ma intanto il lavoro (dei più) diminuisce, e la produttività totale (i cui fattori sono capitale e lavoro) s’inceppa.

“Tasso di inventiva” e “tasso di felicità” sono strettamente collegati, perciò entrambi sono in calo in Italia (e in Europa). La scuola, devastata da riforme che puntano a educare non cittadini ma esecutori ossequienti, taglia le gambe alla creatività potenziale dei giovani, li induce ad appiattirsi sugli ideali aziendalistici di una superficiale efficienza e li spinge a reprimere il proprio talento per inseguire i mestieri e i mantra di un immutabile ordine costituito. La sgangherata discussione sui “conti salati degli studi umanistici”, considerati un lusso in tempo di crisi, elude il loro ruolo essenziale nella consapevolezza dei valori umani, nella capacità di esplorare criticamente il mondo e se stessi, nell’educazione a pensare fuori dal coro. Anche l’economia non è necessariamente perpetuazione dell’esistente, ma dev’essere sperimentazione del nuovo. E solo la “fioritura” degli individui e della comunità garantisce la «pari dignità sociale» dei cittadini prescritta dalla Costituzione (art.3). Come ha scritto uno storico inglese, David Kynaston, «se la bandiera del thatcherismo era in ultima analisi la libertà dell’individuo, allora dobbiamo ammettere che negli ultimi anni tale libertà è stata così violentemente travolta, che è venuta l’ora di far ricomparire la sua antica compagna di scena: l’eguaglianza».

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