Il conflitto tra cittadini europei e profughi non è un fatto “naturale”; è il prodotto dei tagli alla spesa pubblica e della restrizione di diritti, redditi e sicurezza di chi lavora. Non si può cambiare politiche dell’immigrazione senza cambiare quelle di bilancio.
Il manifesto, 8 settembre 2015
Lungo l’autostrada Budapest-Vienna si è dissolto il futuro dell’Unione europea e ha fatto la sua comparsa una Europa nuova, fondata su una cittadinanza condivisa con profughi e migranti. La mossa di Angela Merkel è stata abile — le ha restituito una popolarità che l’attacco alla Grecia aveva compromesso — e sacrosanta: ha permesso a migliaia di profughi di raggiungere la loro meta e a migliaia di cittadini europei — austriaci, tedeschi e soprattutto ungheresi — di dimostrare il loro vero sentire: rendendo felici milioni di europei. Ma dopo la promessa di accogliere tutti, sono arrivati i distinguo tra paesi di provenienza sicuri e insicuri e tra profughi e migranti economici e l’assicurazione che si tratta di una misura temporanea.
Ma quella decisione unilaterale autorizza ogni governo ad andare per conto proprio: Cameron ha subito raccolto l’invito; i paesi del gruppo di Visegrad si sono opposti alle quote obbligatorie; i paesi baltici li seguiranno. E già si parla di sostituire all’accoglienza un “contributo” in denaro: si pagheranno i respingimenti un tanto al chilo? Èstato fatto così un altro passo nel dissolvere l’identità dell’Unione europea: ci sono paesi dell’Unione fuori dall’area Schengen e paesi Schengen fuori dall’Unione; paesi dell’Unione fuori della Nato e paesi della Nato furi dall’Unione; paesi nell’Unione dall’euro; paesi virtuosi e paesi dissoluti, ecc. Ora ci saranno paesi dell’Unione con le quote obbligatorie e paesi senza. E ciascuno si sceglierà la nazionalità che preferisce?
L’accoglienza divide tra loro gli Stati dell’Unione, impegnati a rimpallarsi le quote di profughi, e fomenta al loro interno lo scontro di cui si alimenta la xenofobia. Ma l’Unione non avrà una politica comune su profughi e migranti perché ha adottato da anni politiche che negano l’accoglienza — casa, lavoro, reddito e sicurezza — a una quota crescente dei suoi cittadini. Se la disoccupazione giovanile è al 20 per cento, e in alcuni paesi al 50, è a un’intera generazione che viene negata la cittadinanza. In queste condizioni è difficile varare una politica di inclusione per centinaia di migliaia o milioni di migranti: quanti se ne possono realisticamente aspettare sia aprendo le porte, sia puntando su respingimenti inefficaci e spietati. Il conflitto tra cittadini europei e profughi su cui ingrassa la destra xenofoba, ma a cui i governi non sanno offrire alternative, finendo per restarne succubi, non è un fatto “naturale”; è il prodotto dei tagli alla spesa pubblica e della restrizione di diritti, redditi e sicurezza di chi lavora. Non si può cambiare politiche dell’immigrazione senza cambiare quelle di bilancio.
Ma la vera ragione della dissoluzione dell’Unione è un’altra: per anni i suoi governi hanno assistito ignavi, o hanno partecipato a massacri e guerre ai confini dell’Europa come se la cosa non li riguardasse, perché impegnati a perseguire politiche di bilancio sempre più prive di respiro, di prospettive, di futuro. Per anni, a parte gli accordi commerciali per procurarsi petrolio e metano, nessuna forza politica europea ha mai formulato un disegno sensato sui rapporti con l’area mediorientale, mediterranea e nordafricana: che si andava avvitando in crisi e conflitti che non potevano che sfociare nella dissoluzione delle rispettive compagini sociali. Il flusso di migranti in cerca di sopravvivenza in terra europea è la prima — ma non l’unica — conseguenza di questa politica tirchia e insipiente. Ma ogni giorno che passa spegnere quegli incendi è più difficile. È più facile attizzarli: Francia e Regno Unito già pensano a unirsi alla guerra in Siria, come se non fossero stati loro a scatenare quella in Libia, dove hanno creato un caos di cui nessuno riesce più a venire a capo.
Ora che a risolvere il problema di centinaia di migliaia di esseri umani alla ricerca della sopravvivenza siano i vertici dell’Unione e i suoi governi è del tutto irrealistico. Vorrebbero respingerne la maggioranza, ma non riescono: troppo alto è il prezzo di sofferenze e di vite che stanno già facendo pagare alle loro vittime per potersene assumere la responsabilità. Così cercano di nascondere il problema dietro la falsa distinzione tra profughi e migranti economici: come se una ragazza sfuggita alle bande di Boko Haram in Nigeria fosse diversa da un siriano che scappa dalle bombe dell’Isis, o di Assad, o di Erdogan, o degli Usa.
Ma le politiche di respingimento, oggi impersonate da Orban, ma anche da tante forze politiche non solo di destra, e programmate, solo in modo un po’ meno esplicito, da molti governi, sono state rovesciate e sconfitte, anche se solo per qualche giorno, dalla straordinaria mobilitazione di un popolo europeo solidale con i profughi in marcia sull’autostrada per Vienna o nelle stazioni austriache e tedesche; un popolo che da qualche giorno ha occupato la scena in un tutt’uno con quei profughi. Papa Francesco ha aggiunto la sua voce, ma i protagonisti restano loro. Accanto a quelle manifestazioni che hanno bucato lo schermo ci sono altre migliaia di volontari che cercano, senza distinguere tra profughi e migranti economici, di alleviare le sofferenze di una moltitudine immensa respinta o abbandonata a se stessa: a Calais, a Ventimiglia, a Kos, a Lampedusa, a Subotica, a Milano e in mille altri luoghi a cui i media non hanno dedicato un decimo dello spazio riservato ogni giorno alle infamie di Salvini.
Laici e cristiani, di destra (ci sono anche quelli) e di sinistra, giovani e anziani, occupati e disoccupati (senza timore che gli portino via un posto che non c’è più per nessuno), zingari perseguitati da Orban e musulmani già insediati in Europa hanno costruito con la loro mobilitazione le basi di una nuova cittadinanza europea che include, senza mediazioni, quei profughi in marcia dietro la bandiera europea. Un unico popolo consapevole che l’accoglienza affettuosa di coloro che sono in fuga da guerre e fame è condizione irrinunciabile della convivenza civile nelle comunità e nei territori in cui vivono; e che lo sviluppo sociale dell’Europa non può prescindere dalla creazione di una cittadinanza europea comune a tutti coloro che ne condividono l’aspirazione. In questo melting pot si possono creare anche le premesse di una riconquista alla pace e alla democrazia dei paesi da cui profughi e migranti sono fuggiti: con organizzazioni comuni che individuino le condizioni di una loro pacificazione e i programmi per la loro ricostruzione; che conquistino il diritto di sedere al tavolo delle trattative diplomatiche; che siano punto di riferimento per le comunità dei loro paesi di origine. Nel gesto con cui migliaia di volontari hanno aiutato i profughi ad attraversare l’Ungheria c’è, senza ancora le parole per dirlo, il nuovo manifesto di Ventotene di un’Europa interamente da ricostruire.
«
C’è fretta di prendere decisioni e dalla Germania il vice-cancelliere, Sigmar Gabriel, approva la proposta del primo ministro austriaco, Werner Faymann, che vuole tagliare i fondi ai paesi recalcitranti della Ue che rifiutano le quote: «Penso che il cancelliere austriaco abbia assolutamente ragione quando dice che i soldi devono cessare di circolare se non arriviamo a una politica comune sui rifugiati». I paesi del gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca), che hanno il chiaro appoggio dei Baltici, sono ormai sotto pressione.
L’Europa socchiude la porta, permette solo ai rifugiati da zone di guerre di mettersi in coda e ribadisce che respingerà con determinazione tutti coloro che pretendono di entrare provenendo da «paesi sicuri». Ma qualcosa si sta muovendo, dopo mesi di blocco.
I cittadini europei cominciano a muoversi, come se il muro ideologico dietro il quale in cui si erano volontariamente chiusi, stesse anch’esso aprendo delle brecce.
Ieri, in Francia – dove un sondaggio (fatto però prima della foto di Aylan che ha scosso le coscienze) dice che il 52% non vuole profughi – ci sono state varie manifestazioni a favore dell’accoglienza. A Parigi (con la bandiera siriana sulle statue a place de la République), Tolosa, Bordeaux, Montpellier, Nantes, Strasburgo dei cittadini sono scesi in piazza per chiedere un cambiamento di politica, «welcome», «aprite le frontiere».
Migliaia di persone hanno risposto agli appelli delle organizzazioni umanitarie, pronti ad accogliere dei profughi a casa, per qualche giorno o settimana. Jean-Claude Mas, segretario generale della Cimade, spera: «forse ci sono le condizioni emotive e politiche per un elettrochoc».
In altri termini, una breccia sembra essersi aperta nell’egemonia ideologica dell’estrema destra, che sembrava aver preso i sopravvento. I Repubblicani, il partito di Sarkozy, si arrocca sulla linea dura, accusa Hollande di «voltafaccia» per aver accettato il «meccanismo di redistribuzione», cioè le quote, mostra un volto triste ma già alcuni (persino François Fillon) cominciano a prendere le distanze da una posizione che non fa che ricalcare quella del Fronte nazionale, nel frattempo riunito per la sua Università d’estate, impantanato nella querelle famigliare dei Le Pen. Il primo ministro, Manuel Valls, riprende qualche colore respingendo tutta la destra in un «blocco reazionario».
Nell’intervista di Antonello Caporale il più accreditato demografo italiano, Massimo Livi Bacci, spiega perché l’Italia, per rimanere tale, abbia bisogno di immigrati che si integrino nella nostra società.
Il Fatto quotidiano, 5 settembre 2015
Massimo Livi Bacci è il più noto e accreditato studioso italiano di demografia. Scienza che illustra il futuro con i numeri e non predice...
«No, la Sibilla predice! Il demografo, che deve conoscere bene i meccanismi e le cause dello sviluppo della popolazione, si limita a fare delle ipotesi ragionevoli circa il futuro e trarne le conseguenze numeriche. In genere, data la relativa gradualità dei fenomeni demografici, si riesce a fornire un ragionevole quadro previsivo a qualche decennio di distanza. Diciamo per l’intervallo di una generazione, spingiamoci pure fino alla metà del secolo. Andare oltre non si può. O meglio: si può, ma è bene non crederci! »
Sappiamo che gli italiani nel 2050 saranno più vecchi e più soli. Quanto più vecchi e quanto più soli?
«Le ultime ragionevoli previsioni delle Nazioni Unite (rese note alla fine di luglio) assegnano all’Italia, nel 2050, una popolazione di 56,5 milioni di abitanti (3,5 milioni meno di oggi), nonostante una modesta ripresa della natalità, e il proseguire di una consistente immigrazione (anche se ridotta rispetto agli anni trascorsi) e un ulteriore aumento della speranza di vita. Saremo sicuramente più “vecchi”; l’età media crescerà dai 46 anni di oggi a 52 anni nel 2050; oggi una persona su 14 ha più di 80 anni, nel 2050 una su sei, Sicuramente il fortissimo aumento dei molto anziani implicherà anche una crescita delle persone che vivono sole».
Le metropoli continueranno a gonfiarsi a dismisura e il crinale appenninico subirà una desertificazione ancor più accentuata?
«Direi di no. La popolazione delle grandi città – Roma, Milano, Napoli, Torino – ha toccato il suo massimo negli Anni Settanta, per poi decrescere. Questa diminuzione è stata poi compensata dalla crescita dei Comuni delle cinture, che integrano le aree metropolitane, ma anche questi hanno finito di espandersi. Il miglioramento della mobilità consentirà una rivalutazione dei centri minori, dove la qualità della vita è spesso migliore e i costi più abbordabili».
L’osso d’Italia, diceva Manlio Rossi Doria, sono le aree interne del Mezzogiorno. Lì si muore e non si nasce. Tra cinquant’anni sarà un cimitero all'aperto?
«I rapporti dello Svimez, da qualche anno, documentano con precisione il processo di desertificazione, anche demografica del Mezzogiorno. Le regioni dove si fanno meno figli stanno nel Sud del paese, l’immigrazione dall’estero non compensa l’emigrazione verso le altre regioni, l’invecchiamento è più rapido, la qualità del “capitale umano” si contrae per la partenza dei più scolarizzati. Si sta erodendo la base sulla quale si innestano lo sviluppo e la crescita».
La forza lavoro straniera ci ha già salvati nel saldo demografico. Tutti pensiamo che la triste invasione di barconi
sia però insosteni
bile per il futuro della nostra condizione
di civiltà. È così oppure abbia-mo bisogno di
altra gente, di
altri e nuovi italiani?
«L’ondata dei rifugiati è collegata alle catastrofi e ai conflitti che segnano un arco che va dall’Ucraina al Medio Oriente, dal Corno d’Africa alla Libia. È un fenomeno che nulla ha a che fare con il normale sviluppo, così come una esplosione nucleare è estranea alla normale dinamica climatica a . Al netto dell’irrisolto problema dei rifugiati, l’Italia continuerà ad aver necessità di immigrazione, per rinsanguare una forza lavoro invecchiata e in declino, per contrastare se non la desertificazione, l’impoverimento della società».
I nuovi italiani, quelli che abiteranno le nostre case nel 2050, chi saranno? E quale lingua parleranno? Saranno più colti di noi? Più civili di noi, più rigorosi di noi?
«Parleranno l’italiano – male le prime generazioni, benissimo le seconde – se la scuola funzionerà come deve. E se noi, italiani di nascita, saremo colti, civili e rigorosi, lo saranno anche loro. Sempre che la politica, la società, la cittadinanza si convinca che gli immigrati non devono essere braccia in affitto temporaneo, protesi di cui disfarsi cessato il loro utilizzo, ma innesti duraturi da curare e far crescere».
Lei come giudica gli italiani? Aperti al nuovo oppure intimamente razzisti o ancora campioni di una furberia nazionale a proposito di stranieri (ci vanno bene solo quando risolvono problemi e accettano lavori che noi non vogliamo più).
«Gli italiani, nel complesso, hanno accettato in modo ragionevolmente aperto un fortissimo flusso di immigrazione. Ragionano sull’esempio del muratore albanese che ha riparato il tetto, la signora moldava che accompagna la vecchia nonna, l’egiziano che sforna le pizze in fondo alla strada, la filippina che fa i lavori domestici... Facciamo sì che questi rimangano i metri di giudizi, e che il velenoso e colpevole opportunismo di alcuni politici non riesca a deformarli».
Ma non doveva, la foto del piccolo Aylan Kurdi e la sua morte, cambiare tutto? Quell’atto d’accusa vuole dire: accoglieteci o i colpevoli siete voi. Chiaro come le parole di un altro ragazzo siriano che ha gridato: «Fermate la guerra e torniamo in Siria». Inequivocabili. E invece l’«innocente» Pentagono avverte che la foto di Aylan dovrebbe persuadere (come per Sarajevo?) a farne un’altra: dove già si combatte, come in Libia o in Siria. Lì dove Pentagono ed Europa hanno istruito quattro ani fa la guerra che ha innescato la spirale stragi, jihadismo, profughi. Il nuovo sentiero dei disperati: dice che la misura delle guerre sulla pelle altrui è colma.
Ieri mattina la stazione Keleti ha riaperto le porte e si è di nuovo riempita di migranti in cerca di un treno in partenza per la Germania e l’Austria. Niente. L’altoparlante annunciava a intervalli regolari la soppressione di tutti i treni internazionali diretti più a ovest per motivi di sicurezza. All’inizio è stata la calca verso i binari e verso l’unico treno presente, con la polizia schierata sulla banchina. Momenti concitati, povera gente che si ammassava davanti al convoglio su cui c’era scritto, ironia della sorte «Un’Europa senza frontiere». Il treno si è riempito di migranti in cerca di una via di fuga dalla Keleti, è partito verso mezzogiorno, ma diretto a Sopron, nella parte occidentale del paese, vicino all’Austria, sì, ma dentro i confini magiari. Il fatto è che il convoglio si è fermato a Bicske , 60 chilometri da Budapest, dove esiste un campo profughi, gli agenti di polizia hanno cercato di far scendere quanti erano senza documenti, ma i migranti si sono rifiutati e hanno scandito in coro «No camp». Uua coppia con un neonato si è sdraiata su binari minacciando il suicidio ma è stata strattonata via dagli agenti che anno ammanettato l’uomo.
Intanto alla Keleti giovani siriani mostravano i biglietti comprati per andare in Germania. «Abbiamo speso un sacco di soldi per niente», dicevano, «e ora che facciamo?». «Non sapete niente dei treni?» chiedevano altri migranti ai giornalisti. «Quelli che vi interessano sono stati cancellati. Tutti», è stata la risposta dolente degli interpellati.
Dopo la calca verificatasi alla riapertura della stazione è tornata una relativa calma, tutt’al più c’era chi fra gli ospiti forzati della Keleti andava avanti e indietro a cercare informazioni sulle possibilità di partire prima o poi; quando, come. Perché sul dove la maggioranza non ha dubbi: «Germania! Germania!», l’ha detto tante volte in coro durante le manifestazioni sul piazzale antistante la stazione. C’erano poi quelli che stavano seduti sulle banchine a mangiare qualcosa, a riposare. Le donne col fazzoletto in testa vicino ai bambini: chi cambiava il pannolino, chi dava da mangiare a quello più piccolo. Gli occhi bassi, i gesti veloci mentre lì vicino il personale dello scalo rimuoveva carte, contenitori vuoti di succhi di frutta e bicchieri di plastica schiacciati, lasciati sulla banchina o fra i binari.
Anche quella di ieri alla Keleti è stata una giornata lunga. Nel pomeriggio, raccontano i media locali, i migranti hanno dato vita a una manifestazione pacifica all’interno della stazione di fronte ai poliziotti schierati a garanzia dell’ordine pubblico. Il tutto è durato una ventina di minuti che non sono stati caratterizzati dalle tensioni e dai disordini di Bicske, ma di fatto la situazione diventa ogni ora più difficile. Il «popolo della Keleti» esprime giorno dopo giorno una richiesta corale, sempre più pressante di essere lasciato libero di partire e di raggiungere il paese nel quale ricominciare. Le autorità ungheresi insistono sulla necessità di rispettare le norme, il regolamento di Dublino, e di non poter lasciare andare in giro per l’Europa persone che non sono state registrate, che non hanno ottenuto lo status di rifugiati. Piuttosto le tengono alla stazione orientale di fronte alla quale sono state approntate, su ordine del consiglio comunale, delle zone nelle quali gli accampati possono ricevere acqua da bere e da usare per l’igiene personale. La cosa però non piace agli estremisti di destra, alcuni dei quali si sarebbero avvicinati due sere fa alla stazione con bandiere e vessilli nazionali. Li ritrae una foto pubblicata dall’agenzia di stampa ungherese MTI. Non condividono la scelta delle autorità comunali e vogliono l’allontanamento dei migranti dal centro cittadino. Secondo gli ultranazionalisti la loro presenza minaccia l’ordine pubblico, l’igiene pubblica. I sottopassaggi della stazione, l’antistante piazza Baross e lo scalo ferroviario devono essere restituiti alla cittadinanza.
Quest’ultima è in sostanza spiazzata dallo scenario inconsueto che quel luogo offre in questi giorni. «Sono qui da due mesi», dice la proprietaria di un chiosco situato nel sottopassaggio. Sì, ma allora non erano così tanti, il loro numero è cresciuto a vista d’occhio in poco tempo, del resto il flusso di migranti che giungono al confine non sembra voglia diminuire; in un commento rilasciato ieri al giornale conservatore Frankfurter Allgemeine Zeitung, il primo ministro Orbán ha detto che dall’inizio dell’anno, secondo le statistiche più aggiornate, il paese è stato raggiunto da circa 150 mila migranti illegali, molti di più di quelli registrati l’anno scorso. Un’emergenza in piena regola alla quale il governo ungherese ha reagito con una campagna e con iniziative concrete stigmatizzate dall’opposizione di centro-sinistra e dagli ambienti progressisti della società civile. Mercoledì sera diverse migliaia di persone hanno partecipato a una manifestazione concepita da diverse organizzazioni come Migrants Aid e Amnesty International Hungary in segno di solidarietà verso i migranti.
Il corteo è partito dalla stazione Nyugati (Occidentale) e si è fermato sulla piazza antistante il parlamento dove si è svolto un sit-in. «Not in my name-Az én nevemben ne», lo slogan dell’iniziativa. I dimostranti, diversi dei quali stranieri, sfilavano tenendo alti cartelli con su scritto «Anche noi eravamo dei migranti», «Abbiamo bisogno di ponti, non di barriere» e ancora «I migranti sono esseri umani». Sul marciapiede, a poco meno di metà percorso, due contromanifestanti con la bandiera tricolore completa di simbolo nazionale e un cartello con su scritto «In my name» e «No illegal immigration». Nessuna delle persone impegnate nella marcia li ha degnati di troppa attenzione.
«Questa manifestazione è importante – dice un giovane – perché è la prima occasione pubblica per testimoniare la nostra solidarietà ai migranti e stigmatizzare la politica del governo e il suo approccio privo di umanità al problema».
Attenti a come si maneggiano gli strumenti della democrazia. Un loro uso sbagliato è controproducente. Lavorare male, sbadatamente, senza riflettere e studiare quando si vuole contrastare qualcosa significa far vincere l'avversario.
Il manifesto, 3 settembre 2015
E dunque il voto popolare può essere l’unico strumento utile a manifestare un dissenso che — pur di massa — non riesce diversamente a farsi ascoltare. Ma è uno strumento non facile da utilizzare.
Come va formulato un quesito? Bisogna anzitutto considerare che il referendum cancella una legge o parti di essa, non la scrive. E la cancellazione non fa rivivere la legge prima vigente. Questo punto è ormai consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale (da ultimo con la sentenza 12/2014). Quindi, l’abrogazione lascia un vuoto nell’ordinamento giuridico. Per la Corte, taluni vuoti sono tollerabili, altri no e determinano l’inammissibilità del quesito. Questo accade quando la legge è essenziale per il funzionamento di organi costituzionali o l’attuazione di diritti costituzionalmente protetti, ed è dunque «costituzionalmente necessaria».
I principi richiamati sono stati elaborati a partire dalle leggi elettorali, e poi estesi ad altre fattispecie, come la fecondazione assistita, e la riorganizzazione degli uffici giudiziari, per cui la Corte ha dichiarato inammissibili i quesiti in tutto o in parte abrogativi (sentenze 45/2005; 5/2015). Uguale sorte potrebbe toccare a un quesito totalmente abrogativo della legge 107/2015. Il vuoto normativo conseguente probabilmente lascerebbe il servizio scolastico — certo essenziale non meno di quello per la giustizia — privo del fondamento organizzativo indispensabile. E ne verrebbe leso il diritto costituzionalmente protetto all’istruzione.
Quindi, solo quesiti abrogativi parziali e mirati. Ma anche il singolo quesito va guardato con attenzione. Pensiamo al preside-sceriffo. Se viene ridotto nei poteri con un quesito accortamente indirizzato - ad esempio, alla discrezionalità nelle chiamate - non c’è problema. Ma se il quesito, ancorché parziale rispetto alla legge, fosse tale da cancellare la figura del dirigente scolastico o da renderla simulacro del tutto vuoto, l’esito potrebbe essere l’inammissibilità. Un dirigente in grado di gestire effettivamente l’istituto scolastico è pur sempre indispensabile per il servizio. Anche il quesito parziale potrebbe cadere sotto la mannaia della «legge costituzionalmente necessaria». Questa è la tecnica complessivamente osservata dal quesito di "Possibile" sul dirigente, quale che sia poi l’opinione sui tempi e i modi dell’iniziativa.
Quesiti parziali e mirati, dunque, che siano - come la Corte costituzionale richiede - chiari, omogenei, univoci. Con questo si intende che su tutte le disposizioni oggetto di ciascun quesito chi vota possa determinarsi univocamente per il sì o per il no. Ogni quesito deve avere un punto focale. Nelle parole della Corte, una «matrice razionalmente unitaria».
Quali quesiti? La scelta è politica, ed è la prima da fare. Una volta assunta, si può guardare alla formulazione tecnica. Per la scuola, possiamo ad esempio pensare al preside-sceriffo, all’alternanza scuola-lavoro, al bonus scolastico (da formulare con particolare cautela, soprattutto per la possibile interferenza con la finanza pubblica), o altri che l’assemblea del 5–6 settembre voglia scegliere. Saggezza vuole che si guardi a quesiti che non siano divisivi nel movimento promotore, e parlino anche al di fuori. Il sapore del corporativismo può uccidere un referendum già nella raccolta delle firme. Mentre va favorito l’incontro con movimenti volti a obiettivi diversi, ma potenzialmente sinergici in una comune strategia referendaria (legge elettorale, Jobs Act, ambiente). Al tempo stesso, l’iniziativa referendaria non preclude la diversa e autonoma via della questione di costituzionalità sollevata in sede di impugnativa di provvedimenti amministrativi adottati in applicazione della riforma.
La scelta di quali quesiti e quando deve considerare sia la raccolta di 500.000 firme (per sicurezza, 600.000) secondo la legge 352/1970, sia la necessità di portare al voto oltre 25 milioni di italiani. Passaggi non impossibili, ma certo non facili. Soprattutto considerando che Renzi tradurrà ogni referendum in un plebiscito su se stesso e sul cambiamento. Bisognerà trovare parole d’ordine chiare, semplici, vicine all’animo di chi firma per i referendum, e di chi vota.
Il referendum ex articolo 75 era per i costituenti un correttivo marginale in un sistema centrato sulle assemblee elettive e sulla rappresentanza politica. La riduzione degli spazi di democrazia alla quale oggi assistiamo spinge a una nuova stagione, che può trovare nel referendum un punto essenziale del complessivo sistema di checks and balances. La via è già oggi difficile. E capiamo anche meglio quanto sia pericoloso il disegno della riforma costituzionale in discussione in senato, che rende il percorso referendario - a mio avviso - ancora più impervio. Al populismo leaderistico e autocratico dobbiamo contrappore la democrazia dei gufi.
L'illustre dissacratore del mostro del decennio scorso lo riprende oggi sotto la sua lente rivelatrice, insieme al suo delfino Matteo. «Rivediamo l’Italia descritta da Leopardi, parolaia, bigotta, sguaiata, inerte». La Repubblica, 3 settembre 2015
“GAFFE”, vocabolo nautico, è l’asta munita d’un ferro a uncino per l’accosto; nonché l’atto inopportuno; e Matteo Renzi, è gaffeur nei due sensi. Tale l’abbiamo visto in varie occasioni, da quando saltava sul palco allontanando un dolente predecessore; «togliti, mi metto io». Nel Nazareno, santuario Pd ( febbraio 2014), dichiara «piena sintonia» con Silvio Berlusconi. Così prende le parti d’un avventuriero la cui stella vola bassa (cortigiani di lungo corso cambiano cautamente divisa): stupore in platea; ma che la peripezia del sindaco fiorentino non finisca qui, è segno d’uno stato morboso nell’organismo politico. Il Colle soffiava lo sciagurato vento delle “larghe intese”.
Dalla fine secolo oligarchi della pseudosinistra baciavano la pantofola berlusconiana, dando a intendere che fosse Realpolitik. Era egemone, pifferaio ricco da scoppiare, e lo rimane quando va al governo il centrosinistra: ex comunisti garantiscono intangibili i fondamenti del conflitto d’interesse; manovre camerali lo riqualificano aprendogli la via d’una doppia rivincita. Fosse meno malaccorto, con rudimenti d’ ars gubernardi , in mano sua saremmo una monarchia caraibica. Siamo quasi salvi perché gli mancano le abilità dei maiali nell’Animal Farm.
Qui filtra il significato etimologico del bisillabo “gaffe”, l’uncino. L’ingordo rampante s’è impadronito del Pd: era la prima mossa e non basta; cercando sostegni meno malsicuri (mancava poco che un redivivo strappasse il premio a Montecitorio), s’è visto erede naturale dell’ormai ottuagenario; e agisce quale futuro autocrate d’un partito “nazionale” (l’aggettivo figurava nelle sigle fascista e nazista). La scandalosa «piena sintonia» era gesto rassicurante verso i “moderati”: «non vengo da sinistra»; e che l’idea abbia radici profonde, lo dicono Rimini e Pesaro. Comunione e Liberazione non regala favori. Erano applausi sviscerati. Re Lanterna ha un Delfino.
Esistono gaffe perdonabili, anche se gravi ad litteram , quando l’atto o l’emissione verbale siano accidenti del comportamento. Non pare il nostro caso. Nel predetto meeting (26 agosto) lo strenuo parlatore condanna vent’anni della storia d’Italia, presupponendo che Berlusco Magnus fosse uno statista con le carte in regola, e chi lo nega disseminasse peste giacobina. Forse viveva sulla luna ignorando conflitto d’interessi, illegalismo sfrenato, abuso dello strumento legislativo: quindi non sa come l’Olonese abbia dissestato la macchina penale instaurando aree d’impunità; con che toupet tentasse tre volte d’arrogarsi l’immunità mediante leggi invalide; e quanto una devastante criminofilia incidesse nelle sventure economiche d’Italia. L’aveva portata a due dita dalla bancarotta. O sa l’accaduto e lo ritiene fisiologico, quasi fosse prassi politica svenare un Paese istupidendolo: l’inquinamento sapeva d’epidemia cinquecentesca (morbo gallico o ispanico); se è così, l’indifferenza indica vuoto morale. L’ascesa berlusconiana è malaffare: corrompe, falsifica, plagia, froda; l’impunità della quale gode, fa scuola; ancora qualche anno e lo scenario sarebbe molto triste.
Matteo Renzi non ha gli spiriti animali del caimano, né issa bandiera nera, ma la successione a Re Lanterna presuppone delle affinità. Una è l’impulso a esibirsi. Stavolta svelava un disegno: battere cento teatri con musiche, film, scene dal vivo, raccontando mirabilia governativi; e sarebbe visione allucinatoria mussoliniana; l’animavano divise, sfilate, armi finte, parole ipnotiche (una molto spesa era “impero”). L’inconveniente delle fantasmagorie è che non resistano al vaglio empirico.
Ad esempio, nessuno può abolire l’imposta sulla casa dall’anno 2016, lasciando intatti i quadri della spesa e l’enorme debito pubblico, quando la crescita resta un desiderio. Il ministro competente, sgomento, domanda sotto voce dove scovare i soldi. Lo scilinguato Delfino non se ne preoccupa. Nel gesto autocratico supera l’ancora quasi regnante (non s’illuda d’una devoluzione spontanea). Davanti ai ministri sta in posa napoleonica. Tra le dicerie fornite dal meeting adriatico eccone una: li convoca in colloqui a due voci; ognuno dica in qual modo magnificare l’opera governativa nelle predette messinscene. Quintino Sella e Giolitti inorridirebbero.
Non è più tempo d’ en plein alle urne. Sette Regioni davano MR declinante. Grazie all’Italicum, monumento d’insigne furberia, può darsi che per il rotto della cuffia esca autocrate d’un “partito nazionale”, disponendo dei numeri nella monocamera: avrebbe vinto la componente berlusconoide d’un elettorato ibrido; non è apporto gratuito né duraturo. Corrono dei patti. I partner esigono quel che garantiva il predecessore ossia affari facili e rendite comode, quindi privilegi, linea criminofila (la chiamano garantismo), norme malleabili, condoni; e risorsa sine qua non , la prescrizione qual è assurdamente congegnata, che inghiotta uno o due processi su tre. La calcolava sulla misura delle sue pendenze penali. Confessando «piena sintonia », li rassicura, ma la politica morbida ha dei costi.
Il patto elettorale include un volatile dal nome melodioso, “vampiro”: corruzione, evasione fiscale, economia criminale sommersa dissanguano lo sventurato Paese, divorandogli il futuro; tengono banchetto i parassiti e non se ne esce perché la crisi economica innesca circoli perversi (causando declino intellettuale e atonia morale, esaspera l’impoverimento). Rivediamo l’Italia descritta da Leopardi, parolaia, bigotta, sguaiata, inerte. Sa d’imbonimento che l’impresario le mandi una compagnia ministeriale in cento teatri con musica e recite.
Dal Job's Act all'abolizione del contratto nazionale. Bisogna riconoscere la piena coerenza di Matteo Renzi nel raggiungere progressivamente il suo.obiettivo: eliminare tutte le protezioni che in due secoli di lotte erano state ottenute per limitare lo strapotere dei padroni
www.sbilanciamoci.info, 3 settembre 2015
Dei ritorni al passato è l’esempio più clamoroso: un lavoratore di Brescia e uno che faccia lo stesso lavoro a Catania saranno pagati diversamente, e già la stampa aggiunge che è giusto perché mille euro al nord valgono meno che al sud, o almeno così si dice. Siamo al ritorno delle vecchie gabbie salariali che un governo diretto dal Pd ripropone. È la risposta a Saviano e ai dati pubblicati dalla Svimez: al sud i padroni potranno pagare di meno. Perché non riconoscere per legge il caporalato? Anzi la schiavitù? Non ci sarebbe nulla di più flessibile. Anzi le stesse gabbie salariali possono non essere troppo rigide, meglio che la contrattazione del lavoro e relativi rapporti di forza diventino variabili in campagna e in città, dove il sindacato è forte e dove è debole. E le donne, alcune leader delle quali lo propongono in nome della differenza femminile, si mettono alla testa di questo ulteriore passo in avanti nella modernizzazione dei rapporti sociali.
Il Jobs Act ha dimostrato che la sinistra [sic] non sa più neanche leggere, e del resto era scritto in modo ingarbugliato; questa misura sarà invece più semplice e del resto nella mente dei proletari è diventato corrente il pensiero che gli operai non esistano più; e nemmeno l’insistenza a pagarli di meno del governo Renzi dimostra che non siano puri fantasmi di una passata ideologia.
La Repubblica, 2 settembre 2015
Ora forse qualcuno penserà che papa Francesco abbia proclamato il “libero aborto in libera Chiesa”. Non è così. L’intreccio fra rispetto della tradizione dottrinale e innovative aperture strategiche è un tratto ormai abituale della predicazione di questo pontefice. La dottrina tradizionale papa Francesco l’aveva ribadita nell’udienza del 15 novembre 2014 ai ginecologi cattolici. Allora usò parole severissime contro l’eliminazione di esseri umani «soprattutto se fisicamente o socialmente più deboli », i bambini non nati, i vecchi e malati. Ma — attenzione — non li condannò come peccati ma come esito sociale obbligato di quella che definì «cultura dello scarto», vale a dire il distorto funzionamento della società dei consumi, il conflitto radicale fra ricchezza e povertà estreme che sperimentiamo oggi nel mondo.
Allora usò immagini toccanti: «Ogni bambino non nato, ma condannato ingiustamente a essere abortito — disse — ha il volto del Signore che prima ancora di nascere... ha sperimentato il rifiuto del mondo ». Certo, pensare che cosa sarebbe accaduto nel mondo e del mondo se Gesù non fosse nato o fosse stato ucciso subito dopo la nascita è effettivamente meditare su di una controfattualità storica assai impegnativa, una vera fantascienza. Ma non c’è bisogno di essere cristiani e cattolici per capire come il volto ordinario dell’esperienza dell’aborto possa essere il pensare al figlio che si sta per rifiutare come un possibile messia, un portatore di salvezza anche solo nel privato ambito dei propri affetti.
Di fatto la lettera a monsignor Fisichella segna un passaggio importante nello stile proposto al corpo ecclesiastico e ai suoi figli obbedienti perché lo adottino da ora in poi, nei tempi corti del Giubileo e in quelli lunghi del futuro: qui c’è l’invito a chiudere l’epoca della faccia feroce, della guerra indetta da singoli, associazioni, partiti e Stati contro le donne e contro i medici che praticano l’interruzione volontaria della gravidanza. È una guerra antica che ha conosciuto secoli di scontri fra le donne e una Chiesa spalleggiata dagli Stati, quando gli aborti si praticavano di nascosto coi ferri da calza e spesso portavano a morte madre e figlio.
Questa guerra ha una precisa data di nascita, non è coetanea col cristianesimo e con la storia della Chiesa cattolica come immaginano i fanatici: è bene tenerlo presente perché com’è nata può anche terminare. Per secoli la dottrina e la pratica della confessione hanno oscillato in materia, colpendo con la scomunica solo l’aborto del feto già formato, uno stadio che si credeva atteso da Dio per insufflare nel corpo l’anima immortale. Era un peccato contro la vita eterna dell’anima immortale del non nato, condannata così a stazionare eternamente nel Limbo, nei pressi dell’Inferno.
Solo in tempi recenti si è formata la dottrina che definisce l’aborto un peccato puramente e semplicemente contro la vita: una svolta copernicana per la Chiesa, diventata così una forza schierata a difesa di questa terrena esistenza come pozione da sorbire sempre e comunque e fino in fondo, e determinata a usare tutta la sua influenza per impedire ogni forma di uscita anzitempo dal mondo — il suicidio, l’eutanasia. Perciò in Italia bisognava andare all’estero per abortire, così come oggi bisogna andare all’estero per morire: scelte di classe tutt’e due. Quanto all’aborto, una volta che con libera scelta referendaria gli italiani hanno voltato le spalle ai secoli dell’ortodossia obbligatoria e della guerra dei poteri ecclesiastici contro la donna, è cominciata la fase di guerra fredda: scontri pubblici, astuzie di medici “obiettori” che praticavano in segreto a caro prezzo quello che si rifiutavano di fare nell’ospedale, interventi normativi per rendere quella scelta già così dolorosa un calvario (sempre che si possa usare questa parola cristiana per il percorso di chi ha voluto abortire da noi).
Oggi papa Francesco guarda al mondo intero, alla disperata condizione dei poveri, all’esodo morale e religioso delle moltitudini dalla Chiesa e decide di spostare il fronte delle urgenze. Vedremo l’esito. Ma intanto va pur detto che uno sguardo altrettanto libero e umano vorremmo vederlo gettare da uno Stato veramente e compiutamente sovrano a tante strozzature civili — matrimonio, scuola, aborto e concepimento, scelta di morire — finora conservate per malintese sintonie coi poteri ecclesiastici.
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Il manifesto, 1 settembre 2015
Il crollo della Borsa di Shangai non è stato un incidente di percorso, ma il segno tangibile che anche il modello di accumulazione cinese è ormai subalterno alle dinamiche della finanza globalizzata. Nel modo di produzione capitalistico i crolli finanziari sono fisiologici e servono a redistribuire la ricchezza finanziaria dal basso verso l’alto, a contribuire decisamente a quel processo di concentrazione/centralizzazione del capitale che a metà del XIX secolo Marx aveva genialmente intuito.
Nel caso cinese, per spiegarci meglio, sono i novanta milioni di piccoli e medi risparmiatori che avevano investito nella Borsa di Shanghai ad averci rimesso le penne: colti dal panico hanno svenduto i titoli su cui avevano investito i propri risparmi. Di contro, i grandi gruppi finanziari, cinesi e non, hanno avuto l’opportunità di comprare queste azioni a prezzi stracciati e lucrare sulla loro risalita, come puntualmente si è verificato in questi ultimi giorni. Ma, la crisi finanziaria non si è chiusa e il mondo trema perché l’economia cinese ha avuto finora un ruolo di locomotiva rispetto al resto dell’economia-mondo.
I mass media occidentali hanno molto apprezzato l’intervento della Banca Centrale cinese che ha abbassato i tassi d’interesse e le riserve obbligatorie delle banche ed immesso una liquidità di circa 20 miliardi di dollari. Alcuni analisti hanno usato l’espressione di Quantitative Easing (Q.E.) alla cinese per indicare la scelta del governo di Pechino di aumentare la liquidità del sistema, evitando che si innesti un processo deflazionistico che porterebbe ad una brusca frenata dell’economia reale. Ed è qui la questione di fondo: il capitalismo globalizzato non può sopportare una crescita lenta o addirittura la recessione.
Secondo David Harvey, noto geografo ed economista inglese, per mantenere un livello accettabile del tasso di profitto medio la crescita economica globale deve viaggiare ad un tasso medio di almeno il 3 per cento l’anno. E gli Usa da soli non bastano: il ruolo della Cina è centrale per il sistema capitalistico su scala mondiale — insieme ad India, Brasile e Russia — per mantenere alto il livello della domanda aggregata a livello globale.
Ma, la Cina per mantenere elevato il suo tasso di crescita avrebbe bisogno di rilanciare la domanda interna, e questo richiede una redistribuzione della ricchezza e quindi un altro modello sociale e politico. E’ quello auspicato da Jeremy Corbyn, leader emergente del partito laburista inglese, che ha messo al centro del suo programma elettorale il Q.E. for the people. Questione centrale, ineludibile, se si vuole affrontare seriamente la crisi in corso. La sola immissione di liquidità in grande quantità decisa prima dalla Fed e poi dalla Bce non risolve la crisi da domanda o meglio da sovraproduzione di cui soffre l’economia-mondo. Solo una grande redistribuzione della ricchezza potrebbe risollevare le sorti dell’economia mondiale, dando la possibilità a centinaia di milioni di persone di accedere a beni e servizi essenziali.
Basti pensare che 1,2 miliardi di persone sono prive di acqua potabile e oltre 1,5 miliardi vivono in zone urbane o rurali senza fogne e canalizzazione delle acque, con conseguenti malattie (come la dissenteria, il colera, il tifo, ecc,) causa prima della mortalità infantile in queste aree. Senza contare l’alimentazione e i farmaci essenziali di cui sono privati circa un quinto degli abitanti del nostro pianeta.
Ma, una grande iniezione di liquidità monetaria a favore delle fasce più deboli della popolazione, classica ricetta keynesiana, non può avvenire puntando solamente sull’aumento quantitativo di moneta in circolazione. Il motivo è noto: il debito mondiale — pubblico e privato — vale più di tre volte il Pil ed in molti paesi industrializzati ha raggiunto livelli di insostenibilità. E la Cina non fa eccezione: il solo indebitamento delle imprese private è pari al 200 per cento del Pil, mentre quello pubblico, pur migliorando nell’ultimo decennio, è pari ad oltre il 120 per cento. In breve, la Cina soffre di tutti i mali dell’Occidente con un’aggravante: il modello di neoliberismo autoritario (spesso confuso con il capitalismo di Stato) è guidato dal più grande partito comunista del mondo, che ha impedito finora l’emergere di una alternativa.
Un modello di sviluppo che ha portato la Cina ad un tasso di crescita che non ha uguali nella storia dello sviluppo economico: negli ultimi quindici anni il Pil cinese è cresciuto del 300 per cento, con un tasso medio annuo di oltre il 10 per cento. E questa insostenibile accelerazione, come è noto, ha prodotto guasti sul piano sociale ed ambientale che sono stati coperti dalla polvere del tasso di crescita dell’economia reale.
Come Simone Pieranni ed altri hanno spiegato più volte su questo giornale, il gruppo dirigente del Pcc ha un bisogno vitale di un tasso di crescita sostenuto per mantenere il consenso. Ma, il modello di sviluppo export oriented non basta più: la crisi delle economie mature dell’Occidente lo impedisce. Solo la crescita del mercato interno — che avrebbe un bacino di circa 600 milioni tra contadini ed operai che vivono sotto la soglia di povertà — potrebbe ancora permettere alla Cina di crescere, ma richiederebbe una redistribuzione del reddito che colpirebbe la «classe agiata» cinese che ha un peso rilevante nello stesso partito comunista.
Insomma, per far ripartire il paese la Cina avrebbe bisogno di una iniezione di socialismo più che di liquidità monetaria. Né più né meno che noi europei. Ormai i principali fenomeni economici, sociali ed ambientali si presentano allo stesso modo in tutti i paesi del mondo: il processo di globalizzazione capitalistica si è compiuto. Il che significa che non è più possibile spostare sulle future generazioni il peso della crisi economica ed ecologica. Significa altresì che dobbiamo puntare ad un Q.E. for the People, ma nel rispetto degli equilibri ambientali se non vogliamo cadere in una trappola peggiore. Questa potrebbe essere la nuova bandiera della Sinistra Europea.
Syriza non ha abbandonato i suoi ideali e i suoi principi di sinistra» ha ribadito Alexis Tsipras, rivolgendosi ai membri del partito che hanno partecipato alla prima giornata della Conferenza nazionale organizzata ad Atene per decidere la linea e le priorità della sinistra radicale ellenica. Il leader greco ha chiaritoche non intende cedere ad altri il ruolo ed il privilegio di poter rappresentare «la vera sinistra». «Siamo noi, il governo di Syriza, che abbiamo aperto le porte al referendum, assumendoci rischi e responsabilità. Il no, la sua vittoria, appartiene soprattutto a noi», ha sottolineato con forza. Il messaggio è chiaro: quello su cui insisterà la Coalizione della sinistra radicale ellenica, in questa campagna elettorale, è cercare di porre ciascuno davanti alla realtà, con una alternativa e una domanda molto chiara: «Chi volete che gestisca la trattativa sulla riduzione del debito? Di chi vi fidate?». Non a caso, Tsipras ricorda che i socialisti e il centrodestra hanno sempre ripetuto che il debito greco era gestibile.
Quanto alla sinistra e alla decisione di 25 deputati di Syriza di uscire dal partito e dare vita a Unità Popolare, Tsipras ha chiarito che non intende aprire «una guerra civile a sinistra», anche se «il suo governo è caduto a causa di colpi inferti dall’interno». L’avversario, insomma, rimane la destra, e tutti coloro che hanno appoggiato un sistema politico corrotto e clientelare. Mentre la lotta contro l’austerità non è stata assolutamente archiviata.
Secondo quanto filtra dal quartier generale di Syriza, nelle prossime tre settimane ci si concentrerà principalmente su tre punti: riforma della pubblica amministrazione per renderla più efficiente, ma senza licenziamenti, misure alternative ai tagli che colpirebbero le classi sociali più deboli e proposte dettagliate sulla riduzione o alleggerimento del debito. Tsipras, ovviamente, punta anche sul carisma della sua leadership, nella convinzione che il margine di vantaggio sui conservatori possa aumentare in modo sostanziale, battendosi con forza chi vorrebbe far passare alla storia il governo della sinistra in Grecia come una breve parentesi.
Nella giornata di oggi sono attesi gli interventi di tutto il gruppo dirigente del partito, in modo da permettere a Syriza di trovare spunti e idee per aprirsi nuovamente alla società e «continuare il cammino appena intrapreso», per dirla con le parole del leader greco.
Alla Conferenza nazionale è arrivata una lettera di sostegno a Syriza da parte dei Verdi (già al governo) e pure il ministro delle Finanze Euclid Tsakalotos, dato in bilico, ha sciolto la riserva: «Dobbiamo combattere collettivamente la battaglia per superare l’isolamento», ha detto, ricevendo molti applausi dalla platea del mini-congresso. In un intervento a una conferenza organizzata dall’Istituto Levy ad Atene, il vicepremier Yanis Dragasakis (l’economista che ha sostituito Yanis Varoufakis nei negoziati con i creditori prima che questi si dimettesse), ha detto che «il Memorandum dovrebbe essere eliminato, non solo per le sue conseguenze sociali ma perché viola i principi democratici» e che «Syriza è un punto di riferimento in Europa», per questo non sarà sola nella sua battaglia, e che la soluzione non è in un «ripegamento nazionalistico», come vorrebbero i fuoriusciti di Unità popolare. Poi, in un’intervista al Quotidiano dei redattori, ha spiegato che «il programma non sarà solo anti-Memorandum, ma mirerà a combattere la disoccupazione, alla ricostruzione istituzionale dello Stato e a promuovere un diverso modello di produzione».
Le critiche più forti al gruppo dirigente del partito sono arrivate invece dal cosiddetto «gruppo dei 53», la minoranza di sinistra che sosteneva Tsipras ma contraria alla firma del Memorandum. Il portavoce Panos Lambrou ha cominciato il suo intervento alla Conferenza nazionale dicendo «non siamo qui per applaudire», ha segnalato il rischio di una «mutazione» della Syriza di governo, ha criticato il precedente governo per alcune cose non fatte, come la «mancata democratizzazione delle forze di polizia», e ha segnato alcune «linee rosse» che la componente interna considera invalicabili: «Nessuna cooperazione con Nea Democratia, Pasok e Potami, non accetteremo l’applicazione di quelle parti del Memorandum che consideriamo offensive, diremo no a un programma in cui non è previsto un piano di disimpegno dall’accordo».
Assenti, naturalmente, i dissidenti confluiti in Unità popolare, che ieri fatto appello a tutte le organizzazioni della sinistra radicale. Parola d’ordine: «Rompere con le politiche neoliberali dell’Ue» e se necessario arrivare a un referendum per chiedere alla popolazione se vuole rimanere nell’euro o tornare alla dracma.
L'indignazione non ha mai fine. Soprattutto per chi sa che i beneficiari della miseria da cui fuggono quelli che oggi respingiamo siamo stati noi stessi, per qualche secolo.
Il Fatto quotidiano, 30 agosto 2015
La parola “Olocausto” l’ha detta Marco Pannella. Sapeva benissimo che era ovvia, ma i leader europei, impegnati e mobilitati a esigere certi debiti dalla Grecia, avevano altro a cui pensare. Se la Grecia non paga i debiti, la sua cacciata immediata dall'Europa (Grexit) è invitabile . S e l’U ngheria alza una barriera di strati di filo spinato, alta quattro metri e lunga centinaia di chilometri, per impedire ogni passaggio umano dalla Serbia (dunque dalla Siria) il fatto è ordinaria politica interna. E benché sia il confine dell’Europa (pensate, l’Europa di Spinelli, Colorni, Rossi), all’Europa non importa nulla di essere complice di strage. Persino l’America, in un modo non proprio esemplare, ci manda un appello alla lotta contro i perfidi trasportatori di morte (i famosi trafficanti) e non una parola sui nostri confini di morte e sul blocco totale e assoluto di qualunque corridoio umanitario.
Sì, la parola Olocausto è la parola giusta. Talmente giusta che Angela Merkel, che fino ad ora si era dedicata solo al debito greco, si è svegliata di soprassalto e ha ordinato l’accoglienza, la più larga possibile, per i siriani. Ma finora neppure lei ha avuto qualcosa da dire sull’immorale e vergognoso blocco ungherese, che ha trasformato in un lager i confini dell’Unione Europea. Neanche il presidente Junker ha avuto da obiettare, E la ice presidente Mogherini, che è l'Alto rappresentante per la politica estera europea dell’Ue, non si è mai presentata alla frontiera di morte ungherese, per aprire la porta sbarrata dell’Europa.
Sapete perché un decente intervento di chi rappresenta l'Europa non c'è stato ? Perché gli scafisti e i trafficanti di esseri umani sono tra noi. Sono i Salvini, i Le Pen, gli Orbán, i ministri degli interni dei migliori Paesi europei, che scatenano le loro polizie per stanare gli esseri umani che potrebbero salvarsi, che sono già salvi, per ricacciarli o imprigionarli per il reato di avere cercato di garantire la vita a se stessi e ai propri bambini. Trafficanti e scafisti esistono, come esiste una costosissima flotta militare che occupa il Mediterraneo, e avrebbe già sparato agli scafisti, se non fosse tenuta a bada da navi come la “Phoenix” della famiglia Catambrone, che ha salvato, da sola, migliaia di naufraghi, o la nave dei Medici senza frontiere. Infatti è in vigore il blocco assoluto voluto con forza dai “piazzisti di morte” di cui ha parlato il vescovo Galantino.
Ma qui occorre tornare alle ossessioni di Pannella. Perché tanta criminalità e un così immensoguadagno intorno alla droga? Perchè il proibizionismo ha creato il paradiso della malavita organizzata. Ecco ripetuto il modello, a cura dei nuovi piazzisti: bloccare, proibire, chiudere. Se non esiste alcun modo di accostarsi legalmente all’Europa (salvo il visto in consolati già devastati e abbandonati da anni), perché non dovrebbe nascere un reticolato illegale, pericoloso e privo di scrupoli, per quel passaggio verso la salvezza che non può aspettare la prossima stagione e un cambiamento del torvo umore europeo?
E poiché i “buoni”, in Europa, non hanno il coraggio che ha avuto Monsignor Galantino (redarguito per settimane) e continuano a trattare con i piazzisti di morte come fossero politici e come se la condanna a morte di milioni di profughi fosse una delle opzioni possibili, ecco che l’Ue, e ciascuno dei suoi governi, è forzata a non avere alcuna politica, dedicandosi a danzare intorno al palo degli scafisti cattivi e dei trafficanti spietati, senza badare al fatto che quella gente non è che una agenzia criminale creata da noi. E anzi siamo noi stessi, con la nostra assenza, ignavia e tolleranza del male.
L’intera organizzazione del traffico umano sarebbe sciolta, prima da un corridoio umanitario nei Balcani e da un traghetto legale e protetto da tutta quella flotta armata, verso l’Europa. È meglio che vengano tra noi (comunque lo fanno) coloro che abbiamo condannato a morte e che nella traversata hanno perso figli o genitori, o coloro che abbiamo portato in salvo con i loro bambini? L’Onu si è fatta viva. Ci sarà un summit dedicato all’immenso esodo il 30 settembre. Non ci resta che la finta meraviglia di fronte ad ogni nuovo carico di morti.
«I verbali dell’eritreo che collabora con i pm su Ermias Ghermay: lui è in Libia, i soldi in Europa “La moglie riscuote le quote degli imbarchi con trasferimenti di denaro estero su estero”».
LaRepubblica, 30 luglio 2015
Questo sta ripetendo ai pubblici ministeri di Palermo e ai poliziotti dello Sco un uomo che fino ad aprile era pure lui un trafficante di esseri umani, uno dei più esperti. Dopo essere stato arrestato, è diventato il primo pentito della tratta. Nuredin Wehabrebi Atta, nato ad Asmara, Eritrea, il 12 dicembre 1984. E questa è la sua verità: i soldi del signore dei trafficanti, Ermias Ghermay, sono nascosti nel cuore dell’Europa. L’Europa che per tanto tempo ha fatto finta di non vedere l’esodo. L’Europa che ancora discute sul da farsi.
Adesso, le parole di un uomo che racconta sottovoce di aver visto troppo orrore, troppo sangue, sono quasi un atto d’accusa contro l’Europa che non si è accorta, che non ha fermato i trafficanti. Dice Atta: «Dovete cercarli in Germania tutti i soldi che Ermias guadagna». Aggiunge: «Lui resta in Libia per gestire gli affari, che a Tripoli vengono spartiti fra quattro gruppi. Lì non lo prenderete, perché gode di protezioni nella polizia. Potete però cercare i suoi soldi, e dovete seguire la moglie, si chiama Mana Ibrahim ». Il pentito la segnala «nella zona di Francoforte, dopo essere stata a Stoccolma». E spiega il suo ruolo nell’organizzazione: «Raccoglie il denaro per conto del marito, attraverso il me- todo hawala ». Ovvero, quel sistema di trasferimento di denaro fondato sulle legge islamica tradizionale che prevede una rete di mediatori a cui consegnare il denaro. «Perché soltanto il 5 per cento dei 1.500 dollari richiesto per il viaggio viene pagato in contanti dai migranti - chiarisce Atta - il resto arriva ad Ermias attraverso hawala , dentro una rete di fiducia che si sviluppa estero su estero». Una rete attorno alla Germania, un’indicazione precisa che orienta le indagini e corregge le ipotesi fatte in questi mesi sui forzieri del superlatitante Ermias, ipotesi che parlavano di Svizzera e Israele.
Ma com’è costituita la rete finanziaria dei trafficanti? Per il pool coordinato dal procuratore Franco Lo Voi e dall’aggiunto Maurizio Scalia è diventata la chiave dell’indagine, la chiave per tentare di fermare o indebolire, almeno questo, i trafficanti di uomini. «Bisogna seguire i soldi, era il metodo del giudice Falcone», ha ribadito il pm Geri Ferrara nella sede dell’Aja di Eurojust, alla più grande riunione di coordinamento fra magistrati europei organizzata negli ultimi anni. Cinquanta partecipanti provenienti da otto paesi. E dopo la plenaria, a luglio, si sono susseguiti incontri bilaterali fra i pm di Palermo e i colleghi di Norvegia, Svezia, Olanda, Gran Bretagna, Germania, Francia. Le rivelazioni di Atta e le indagini del servizio centrale operativo della polizia diretto da Renato Cortese sono già diventate spunto per tante altre inchieste in giro per l’Europa. Per stringere il cerchio attorno ai trafficanti.
Non è affatto facile. Chi ha ascoltato Atta dice però che i suoi verbali sono diventati molto di più di un documento giudiziario. Sono come i verbali dei primi pentiti di mafia, molto di più di un’elencazione di nomi e fatti. Sono la chiave per comprendere un fenomeno sconosciuto.
Ora, il cittadino straniero più protetto d’Italia fornisce agli inquirenti il nome di un amico di Ermias che collabora con la moglie. E spiega: «I fiduciari, quelli che movimentano il denaro, sono generalmente dei commercianti ». Un indizio per cercare di intercettare il flusso dei soldi in Germania. E un altro indizio ancora. «So pure che Ermias ha una società in Etiopia, che si occupa di vendere auto». Il tesoro dei trafficanti è ben protetto.
Anche Atta è stato in Germania. «Per un certo periodo i migranti mi contattavano a Roma, il numero gli veniva dato in Libia, e io li portavo in Nord Europa ». Prezzo del servizio, da 400 a 800 euro. «Ero io a decidere le modalità più sicure del viaggio. Bus, treno o auto». Atta andava spesso a Monaco, per quei viaggi prendeva il massimo della tariffa, che poi versava all’organizzazione. A lui restava uno stipendio, come fosse un normalissimo dipendente: «Mi davano 4000 euro al mese. E mi bastavano per vivere».
Grazie allo spettacolo massmediatico, mentre aumenta la tragedia si dilata la passività e l’abitudine alla notizia. Cosí dimentichiamo che è nostra la responsabilità di questo esodo. Fuggono dalle nostre guerre e dalla nostra riduzione in miseria di paesi in realtà ricchissimi di materie prime e terra.
Il manifesto, 30 agosto 2015
Quanti morti oggi? Intanto lo spettatore massmediatico, di fronte alle stragi di migranti nel Mediterraneo e — scoprono adesso — nel cuore d’Europa dalla rotta balcanica, gira pagina o cambia canale perché è il solito spettacolo, estremizzato «solo» dal numero delle vittime che cresce ogni giorno di più.
Così, paradossalmente, mentre aumenta la tragedia si dilata la passività e l’abitudine alla notizia. Del resto sempre più accomunata ad un programma seriale e raccontata con le modalità del reality: ogni canale tv ormai si prende in consegna sotto le telecamere siglate la sua famiglia di profughi, la segue fin dove la vuole seguire e poi tanti auguri (senza dire che la maggior parte dei disperati non arriverà a destinazione e allora le telecamere saranno spente). Sembra addirittura giornalismo-verità, invece altro non è che la macrabra riedizione di un reality, di un «asso nella manica» giornalistico. Certo si può perfino avere l’illusione, guardando o raccontando, che quel frammento di notizia o di immagine, siano il solo sostegno immaginario che possiamo dare, almeno in assenza di un intervento reale del potere politico che non fa nulla o peggio, allestendo respingimenti, restringendo diritti d’asilo, selezionando, anche per nazionalità, profughi sicuri (dalle guerre) e quelli insicuri (dalla fame), esternalizzando l’accoglienza in nuovi universi concentrazionari, cioè tanti campi di concetramento nel Sud del mondo, preparando nuove avventure belliche.
Ma non è un reality quello che accade sotto i nostri occhi stanchi. Qui è stravolto lo stesso principio di realtà e il giornalismo fin qui realizzato — tantomeno quello embedded — non può bastare. Siamo di fronte ad una svolta epocale che si consuma nella tragedia di centinaia e centinaia di milioni di esseri umani, i nuovi dannati della terra, in fuga da guerre e miseria. E lo spettacolo a lieto fine non c’è. C’è solo la passività dilagante. Da che deriva? Dal semplice fatto che ha vinto l’ideologia della guerra umanitaria che, tra gli altri criminali effetti collaterali, non solo assume la guerra come merito ma cancella le responsabilità dei risultati disastrosi.
Invece è nostra la responsabilità di questo esodo. Fuggono dalle nostre guerre e dalla nostra riduzione in miseria di paesi in realtà ricchissimi di materie prime e terra.
Non siamo di fronte a cataclismi naturali, sui quali peraltro cominciamo ad individuare anche responsabilità specifiche. Perché le guerre americane ed europee, devastando tre paesi centrali dell’area nordafricana e mediorientale, nell’ordine temporale, Iraq, Libia e Siria (senza dimenticare la Somalia diventata simbolo dell’attuale balcanizzazione del mondo) ha provocato la cancellazione di almeno tre società fino ad allora integrate, con una convivenza etnico-religiosa millenaria; oltre ad attivare il protagonismo jihadista, adesso nemico giurato ma alleato, finanziato e addestrato in un primo tempo dell’Occidente contro regimi e despoti fin lì, anche loro, alleati dell’Occidente e dei suoi equilibri internazionali, alla fine spremuti e occupati militarmente. Se non si afferma la convinzione che la responsabilità è delle guerre degli Stati uniti e dell’Europa, nessuno sentirà davvero il bisogno di intervenire a riparare o almeno a raccogliere i cocci.
Vale allora la pena ricordare che sono un milione e 300mila le vittime di alcune delle «nostre» guerre al terrore dopo l’11 settembre 2001 in Afghanistan, Iraq e Pakistan, secondo i dati del prestigioso «International Physician for the Prevention of Nuclear War», organismo Nobel per la pace negli anni ’80. Un rapporto per difetto che esclude le guerre più recenti, la Libia, la Siria, l’ultima di Gaza. Che la terza guerra mondiale non sia già cominciata? È una vera ecatombe.
Ora non contenti di tutto questo prepariamo con il governo Renzi e per bocca del grigio Gentiloni e dell’annunciatrice Ue Mogherini, dimentichi dei risultati dell’ultima del 2011, una nuova guerra in Libia «con l’appoggio Onu» e «contro gli scafisti» con tanto di previsione di «effetti collaterali che possono coinvolgere innocenti». Il tutto per finanziare da lontano nuovi campi di concentramento, come già con Gheddafi e poi con il governo degli insorti di Jibril. A questo serve l’impegno ambiguo della diplomazia italiana perché nasca l’improbabile governo unitario libico per un paese diviso ormai in quattro fazioni e con L’Isis all’offensiva. Dimenticando altresì che l’ultima guerra oltre ai profughi di oggi produsse subito la fuga di due milioni di lavoratori subsahariani, africani e asiatici che lì lavoravano e che ancora vagano nell’area. Ecco dunque che l’ideologia della «guerra umanitaria» prosegue il suo corso quasi in automatico. È così vero che in pieno ferragosto il Corriere della Sera — la cui storia guerrafondaia sarebbe da studiare a scuola — ha sentito il dovere di scomodare il punto di vista critico di Sergio Romano. Anche lui — che resta comunque «il miglior fabbro» — alla fine, con mille e ragionevoli riserve, conviene che «sì la guerra si può fare»: soprattutto perché in gioco c’è l’approvvigionamento del petrolio dell’Eni. I conti tornano. Ma se la guerra deve essere «umanitaria» che cos’è dunque la disumanità che abbiamo prodotto e che muore affogata o chiusa nei Tir come carne da macello avariata mentre in cammino tenta di ridisegnare, abbattere, sorpassare le nuove frontiere e muri del Vecchissimo continente?
Qui forse le ragioni dell’assuefazione generale. Resta insopportabile la passività di chi si considera alternativo e di sinistra. Chi lavora per un mondo di liberi ed eguali si trasformi in corridoio umanitario, prepari l’accoglienza, attivi il sostegno, diventi camminante, definisca la sua sede organizzativa finalmente europea tra Lampedusa, i porti del Sud, Ventimiglia, Calais, Melilla e la frontiera ungherese da abbattere. il manifesto ha lanciato in piena estate il dibattito che consideriamo necessario se non decisivo C’è vita a sinistra? Speriamo di non trovarla solo a chiacchiere.
«Il diritto di asilo è soluzione necessaria ma non risolutiva, perchè lascia in ombra le ragioni dei non-rifugiati, di chi cerca vita migliore e scappa dalla fame. Il passo successivo dovrà essere di impegnarsi a promuovere una giustizia redistributiva globale»
La Repubblica, 29 agosto 2015, con postilla
LA questione dell’immigrazione sarà, più della crisi economica, determinante per i destini del progetto di integrazione politica europea. Un nesso nel quale si scontrano beni non mercanteggiabili, come le ragioni della prudenza politica, che è alla base delle frontiere e non può non preoccuparsi della stabilità della popolazione degli stati, e le ragioni di umanità che impongono a tutti il soccorso ma anche la consapevolezza che la giustizia redistributiva globale non è più procrastinabile.
Questa immigrazione è però anche un terreno di semina per la criminalità organizzata internazionale che ha trovato nella disperazione dei migranti una fonte ricca e infinita di guadagno, schiavizzandoli con debiti che una vita di lavoro non basterà ad appianare. Infine, essa diventa il bersaglio facile di una propaganda xenofoba che in alcuni paesi si tinge senza vergogna di nazismo. Queste diverse e contraddittorie implicazioni fanno della più massiccia crisi migratoria dalla Seconda guerra mondiale una questione di emergenza che richiede iniziative non solo umanitarie, ma politiche e giuridiche.
Alla fine della guerra venne fondata l’agenzia dell’Onu per i rifugiati proprio per aiutare i milioni di europei sradicati dal conflitto a ritornare a casa e riacquistare uno status legale e politico che li proteggesse e li tutelasse. Quali sono le iniziative oggi per accogliere i migranti dai Paesi non europei? Questa crisi migratoria, all’opposto di quella del dopoguerra, provoca la chiusura delle frontiere, i respingimenti con interventi militari contro persone che cercano scampo in questo continente dalla morte certa nei loro Paesi.
Certo, tra i migranti ci sono non solo i rifugiati ma anche gli immigrati economici. E nonostante le convenzioni internazionali abbiano cercato di fare rispettare agli Stati questa distinzione, i guardiani delle frontiere la ignorano spesso. Qui sta la responsabilità di quei Paesi europei che alzano i muri di filo spinato per fermare tutti, senza distinzione. Come ha detto il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, in un’intervista a Repubblica , il populismo di Stato stravolge i valori per cui è nata l’Europa e deve essere contrastato.
«Dimostriamo solidarietà ai nostri vicini, come la Turchia, la Giordania e il Libano, ospitando 20mila profughi», ha detto, e soprattutto «concordiamo misure per il rimpatrio che agevolino il ritorno al paese d’origine delle persone cui non viene riconosciuto il diritto di restare in Europa». Ecco il nodo della politica europea dell’immigrazione: decidere chi merita e chi non merita di restare e imporre ai paesi questa distinzione, per evitare la chiusura indiscriminata.
La discussione in corso fra i governi europei ha in progetto pertanto la ricerca di una soluzione giuridica a questo nodo, per legittimare la costituenda polizia europea di frontiera con un diritto che discenda dall’Europa direttamente, non dai governi nazionali. Una definizione europea del diritto di asilo dunque, e non solo per ragioni umanitarie. Ma anche per meglio fronteggiare l’altra immigrazione, quella “economica” come suggerisce Juncker.
Una politica europea delle frontiere è necessaria perché è ormai chiaro a tutti che questa emergenza migratoria non è governabile dai singoli Paesi. Come quella economica anche questa crisi mette a nudo l’impotenza delle sovranità nazionali e il bisogno di un’Europa politica. Dunque, muovere l’arma del diritto per governare un’emergenza che ha sempre più i caratteri della sicurezza europea.
La dichiarazione di un diritto europeo d’asilo è un fatto di grandissima importanza. Lo è innanzi tutto per le persone che ne godranno.
Ma anche per l’Europa, poiché scrivendo un diritto di asilo essa aggiunge un tassello decisivo alla costruzione di una cittadinanza europea. Infatti, lo stato di rifugiato è definito in relazione non solo all’umanità da proteggere, ma anche al soggetto che dà rifugio - il quale non è un ente morale assistenziale, ma uno Stato politico - sono i cittadini europei che si impegnano a livello sia di Stati membri che di Europa. La decisione di istituire un diritto europeo di asilo è politica a tutti gli effetti dunque, anche se l’autorità che la mette in essere non è a tutti gli effetti un sovrano democratico.
E come decisione politica essa ha due facce, sulle quali si deve riflettere: da un lato, il diritto di asilo dà all’Europa un’arma per potersi imporre al di sopra delle legislazioni dei paesi e quindi superare la discrepanza tra i vari codici nazionali; dall’altro, questo diritto dà alla polizia europea di frontiera lo strumento per distinguere tra i rifugiati e gli immigranti economici (da respingere se non entrano con regolari permessi di lavoro). E ciò prova come il diritto di asilo diventi un importante tassello nella costruzione della cittadinanza europea perché consente di legittimare esclusioni e rimpatri, non solo accettazioni.
In conformità con la natura della cittadinanza, che mentre stabilisce l’inclusione determina altresì le condizioni dell’esclusione. E a tutt’oggi, la povertà e la destituzione non sono ragioni sufficienti a dare rifugio.
Il diritto di asilo è quindi una soluzione necessaria ma non risolutiva, perchè lascia in ombra le ragioni dei non-rifugiati, di chi cerca una vita migliore e scappa dalla fame. Il passo successivo per un’Europa coerente ai suoi fondamenti dovrà dunque essere quello di impegnarsi a promuovere una giustizia redistributiva globale.
postilla
Il problema è che assumere le ragioni dell'emergenza rinviando al domani «le ragioni dei "non rifugiti"»significa non affrontare il problema reale: che è quella della invivibilità di vasta regioni del pianeta (dall'intera Africa all'Asia minore), regioni nelle quali per di più rimangono attive le forze e i meccanismi che ne hanno determinato l'immiserimento. Se non si affronterà in questo quadro la stessa questione dell'emergenza diverrà cronica, perciò stesso ingovernabile. Occorre dire che vedere solo l'emergenza, e discriminare i "richiedenti asilo" dagli altri è l'atteggiamento più conforme all'indole degli attuali governanti, nei quali la miopia è divenuta una minorazione così consistente da essere entrata nel loro patrimonio biologico.
Combattere per evitare che il rullo mediatico, macinando morti a pranzo e cena, completi l'assuefazione ai profughi ammazzati; impegnarsi per gestire l'accoglienza, soprattutto sulle frontiere più esposte.
Il manifesto, 29 agosto 2015
Il rischio di digerire sempre più rapidamente le notizie che ogni giorno la televisione porta nei nostri tinelli è fortissimo. Il rullo mediatico macina i morti a pranzo e a cena e, lo sappiamo, l’abitudine è capace di rendere sopportabili cose spaventose. Del resto bastava sfogliare i giornali di ieri per vedere che l’eccitazione della grande stampa era tutta per la “questione romana”, mentre le decine di morti asfissiati sul Tir che trasportava uomini, donne e bambini dall’Ungheria all’Austria faticava a guadagnare i grandi titoli di prima pagine. Perfino giornali progressisti e sempre in prima linea contro le malefatte della casta, relegavano la strage del camion in poche righe. Naturalmente con le eccezioni del caso, a confermare la regola, e fatti salvi i giornali della destra che contro i migranti sparano titoli forcaioli per lucrare qualche copia lisciando il pelo ai peggiori sentimenti xenofobi e razzisti di lettori e elettori.
Ma l’informazione ai tempi della rete può anche essere l’antidoto al prevalere di assuefazione e abitudine. Come dimostra il caso dell’attivista islandese, promotore di una raccogliere fondi a favore di un uomo, rifugiato palestinese, proveniente dal campo profughi siriano di Yarmuk, a Damasco. Grazie all’immagine di Abdul che vende penne biro all’incrocio di una strada di Beirut con la figlioletta in braccio, il web ha prodotto un felice cortocircuito e scatenato una gara di solidarietà.
Tuttavia non è solo l’informazione a essere chiamata in causa. Subito dopo viene la politica e in primo luogo quella che si richiama ai principi di libertà e uguaglianza della sinistra.
Come è possibile che lungo i muri che l’Europa costruisce sulle frontiere di terra non ci siano manifestazioni di protesta accanto all’esodo di chi fugge e muore? Perché davanti a quel filo spinato piantato dal regime reazionario del premier ungherese Orbàn non c’è una carovana di quei militanti che dicono di battersi per favorire finalmente l’apertura delle frontiere della Fortezza– Europa?
Al punto in cui siamo nessuno più può dire di non sapere perché tutto l’orrore e il dolore è in onda, e non siamo più in pochi a vedere quel che accade. Persino leader europei come Merkel devono scendere in campo politicamente e personalmente per dire che i vecchi trattati (Dublino) sono da rivedere.
La sinistra dovrebbe fare dell’immigrazione la sua battaglia principale, giocandola all’offensiva, nei singoli paesi di appartenenza e nei punti caldi dell’esodo. I convegni sono utili ma non bastano. Meno talk-show e più mobilitazioni per manifestare concretamente presenza e solidarietà. Per esempio sulla nostra grande frontiera del Mezzogiorno, la prima linea per i comuni che cercano di accogliere come possono i sopravvissuti ai viaggi della morte. Il Sud dovrebbe essere anche la frontiera della sinistra.
E intanto, in attesa di cancellare leggi criminogene come la Bossi-Fini, a chi fugge per mare e per terra su un gommone o nel cassone di un Tir, per non morire basterebbe salire su una nave o su un treno. Con un semplice, regolare biglietto.
In Germania qualcosa si muove nella direzione giusta. Ma consolidando una credenza profondamente erronea e operando una gravissima discriminazione: la credenza che si tratti di un'emergenza umanitaria e non di un esodo biblico, la discriminazione di salvare solo i siriani, come se le carestie non avessero le stesse cause e gli stessi effetti.
Il manifesto, 28 agosto 2015
Sarebbe di fronte all’ «immane tragedia» dell’immigrazione che alla Germania si offrirebbe ora l’occasione del riscatto, l’opportunità di correggere l’egemonia finanziaria con una «egemonia morale tedesca», come si intitola l’editoriale di Gian Enrico Rusconi su La Stampa del 27 agosto.
Del resto quel grande fenomeno storico che nei nostri libri di testo viene designato con l’espressione alquanto sprezzante di «invasioni barbariche» nelle scuole di lingua germanica è chiamato die Völkerwanderung, ossia la migrazione dei popoli.
Una espressione che però difficilmente vedremmo oggi applicata al gigantesco spostamento di popolazioni da numerose aree devastate del pianeta verso i più ricchi paesi d’Europa. Sarà perché questi uomini e queste donne non sono guidati dai rispettivi monarchi, dai quali, al contrario, rifuggono o perché l’unica arma di cui dispongono è quella del numero, di uno squilibrio intollerabile e, infine, di una necessità storica.
Di qui l’illusione che si tratti di una «emergenza umanitaria» e non di un processo incontenibile destinato a mutare radicalmente la composizione e la cultura delle società europee. Certo, l’ecatombe quotidiana, via terra e via mare, e le sue orripilanti circostanze (i sepolti vivi nelle stive dei barconi e nei camion), rivelano e celano al tempo stesso.
Rivelano la violenza spropositata delle condizioni di «viaggio» imposte ai migranti da trafficanti e guardie confinarie e dunque l’«emergenza umanitaria», ma celano la natura strutturale e affatto contingente dei flussi migratori.
Ma vediamo più da vicino in che cosa consiste l’ «esempio morale» di Angela Merkel. Sfidando i fischi e gli insulti di un gruppo di contestatori ultranazionalisti in quel di Heidenau, cittadina teatro di ripetute violenze dell’estrema destra, la cancelliera ha condannato con toni duri razzismo e xenofobia.
Qualunque altro governante europeo non avrebbe potuto fare altrimenti. A maggior ragione di fronte a una escalation di attentati e aggressioni di matrice razzista o neonazista come quella che la Germania ha lasciato crescere al suo interno, spesso civettando con l’ideologia della «priorità nazionale».
Fin qui, dunque, nulla di straordinario. Più rilevante, invece, la decisione di sospendere la regola di Dublino che impone ai richiedenti asilo di rimanere nel primo paese dell’Unione in cui sono arrivati. Un buon motivo per far tirare il fiato ai paesi di confine come il nostro. Ma c’è un però.
La Germania apre le porte ai soli siriani, considerati la punta dell’iceberg «umanitario». Così facendo propone un modello che di morale non ha proprio nulla.
Se anche si assumesse come solo motivo di legittima fuga la guerra guerreggiata, in che cosa si distinguerebbe chi fugge da Mosul da chi fugge da Aleppo, da Kandahar o dallo Yemen?
Se il «paradigma siriano» può alleggerire una contingenza esso introduce tuttavia una delirante tassonomia dei migranti, suscettibile di continue partizioni: profughi di guerra (da suddividere sulla base di un qualche indice bellico?), rifugiati politici (da ripartire secondo un diagramma della repressione?), rifugiati climatici ( da individuare sulle statistiche meteo?), perseguitati religiosi (da definire secondo una misura della libertà di culto?) migranti economici (tanto peggio per loro).
Infine la distinzione più assurda di tutte: quella tra paesi sicuri e paesi insicuri. Un paese, infatti, non è parimenti sicuro o insicuro per tutti. Per un omosessuale l’Iran non è, per esempio, un paese sicuro, come non lo è l’Arabia saudita per una donna desiderosa di guidare un’automobile e l’elencazione potrebbe procedere all’infinito.
Possiamo immaginare i burocrati dei centri di identificazione e registrazione alle prese con questo ginepraio. Così, di fronte a tanta complicazione che manda in pezzi la stessa dimensione «umanitaria», il modello tedesco procede verso una ulteriore restrizione del diritto di asilo (del resto più volte ridimensionato nel corso degli ultimi anni) alla quale sta alacremente lavorando il ministro degli interni Thomas de Mazière.
A questo si affianca una politica di restrizione del welfare e degli strumenti assistenziali (per i migranti in primo luogo, ma non solo) tali da rendere il paese sempre meno appetibile per chi intendesse stabilirvisi.
Un corretto riepilogo delle malefatte della fase berlusconiana del disastro italiano. Singolare però che il valente storico dell'Italia contemporanea si rivolga a Matteo Renzi come se non avesse compreso che l'attuale premier/segretario è l'erede e continuatore di Silvio.
La Repubblica, 28 agosto 2015
HA AVUTO uno sguardo un po’ distratto negli ultimi vent’anni, Matteo Renzi, se dell’antiberlusconismo ha colto solo qualche settarismo e qualche semplificazione. Ed è grave se si è fermato ad essi senza riflettere realmente su quel che è stata la “stagione di Berlusconi”: con il prepotente emergere di deformazioni culturali, sociali e politiche già riconoscibili negli anni Ottanta. Con una irresponsabilità di governo che nel 2011 ci ha portati sull’orlo del crollo, con uno stravolgimento delle istituzioni che ha inciso in profondità sul loro concreto funzionamento ed è stato fermato appena in tempo. Prima che riuscisse ad intaccare quell’equilibrio fra i tre poteri dello stato che è il fondamento della democrazia.
Non si liquida con una battuta quella fase: «Questa settimana - scriveva appunto nel 2011 un commentatore del New York Times - mi sono trovato a pensare che anche il valore della mia pensione potrebbe dipendere da Silvio Berlusconi». Non vi può essere una vera rifondazione del Paese (un “cambiar verso”) senza fare realmente i conti con l’Italia che è confluita nella stagione berlusconiana e che in essa si è consolidata. Raccoglieva molti umori fermentati negli anni ottanta il Berlusconi della “discesa in campo”, e lo segnalarono via via - inascoltati - non pochi commentatori. Dietro la predicazione di “un nuovo, grande, straordinario miracolo italiano” vi era la rimozione del macigno economico ed etico che pesava sul Paese: un debito pubblico che ne aveva minato l’economia e lo stesso modo di essere, abituandolo a vivere a credito; abituandolo a dissipare ricchezza e a lasciare il conto alle generazioni future. Rimarrà questa fino all’ultimo la cifra del berlusconismo, dalla “finanza creativa” di Tremonti sino agli ultimi scampoli del suo governo, con la ostinata negazione della crisi che incombeva. E con un atteggiamento di fondo «che guardava con indulgenza sottaciuta alla indole degli italiani. Alla loro diffidenza verso la dimensione pubblica, ai loro egoismi di corporazione, alle elusioni fiscali, all’irritazione provocata dalle norme» (Edmondo Berselli lo sottolineò più volte con corrosiva lucidità). E ampi settori sociali percepirono e condivisero il suo “liberalismo” per quel che era, profonda insofferenza alle regole.
Si pensi anche al populismo berlusconiano, capace di intercettare un “antistatalismo” di antica data e al tempo stesso umori fermentati nella crisi dei partiti novecenteschi (e nel passaggio dalla “rappresentanza” alla rappresentazione mediatica). Capace di riproporre in forme nuove le vecchie culture «dell’anti-partito e dell’anti-politica, un desiderio di nuovo che faccia piazza pulita dei metodi di mediazione democratica per cercare in un leaderismo forte il momento demiurgico della decisione». E «il processo agli inquilini corrotti del “palazzo” si trasformava nella denigrazione di oltre quarant’anni di democrazia» (sono parole del 1994 di Mario Pirani). Si trasformava, anche, in quella “diseducazione civica” nei più diversi campi che Piero Ignazi ieri ha ben ricordato: dal fisco alla scuola, dalla magistratura a una Costituzione bollata talora come frutto ideologico del comunismo. Su questo terreno confluivano sia umori tradizionali della “destra smoderata” italiana sia abiti mentali sedimentati appunto negli anni Ottanta in non pochi settori sociali e politici: «Insofferenti alle tradizionali austerità democratiche, amanti del denaro e del potere, infastiditi dagli egualitarismi » (sono parole di Mariella Gramaglia dedicate allora ai socialisti craxiani). È nell’azione di governo però che la “diseducazione civica” dell’ex Cavaliere si è concentrata in modo potente, svilendo il senso delle istituzioni ed entrando in conflitto con le più elementari norme dello stato di diritto. Ed aprendo quei conflitti con gli altri poteri dello Stato e con lo stesso dettato costituzionale che i diari e le memorie di Carlo Azeglio, pubblicati a cura di Umberto Gentiloni, hanno ulteriormente documentato. Non è possibile sorvolare sui guasti delle leggi ad personam o sulla corruzione accertata (dai fondi neri per alimentarla ai giudici e ai parlamentari comprati): senza questi aspetti non si comprenderebbe neppure il colossale salto di qualità compiuto rispetto agli anni di Tangentopoli. E quindi la assoluta necessità e urgenza di una radicale inversione di tendenza: consapevolezza che è sembrata progressivamente mancare a Renzi in questi mesi. Si consideri infine lo stravolgimento istituzionale avviato da Berlusconi nel 2001 e giunto al culmine alla vigilia della sua caduta: il premier — annotava Scalfari nel 2010 — vuol riscrivere la Costituzione “mettendo al vertice una sorta di “conducator” eletto direttamente dal popolo (…) e subordinando alla sua volontà il potere legislativo, i magistrati, la Corte Costituzionale e le autorità di controllo e di garanzia». Era difficile dargli torto: a meno di non essere, appunto, molto distratti.
Certo, un antiberlusconismo urlato ha coperto talora un vuoto di contenuti (lo aveva sottolineato già Walter Veltroni) e sono state molte le responsabilità del centrosinistra, incapace in primo luogo di un rinnovamento radicale della politica: a quest’opera si era candidato Matteo Renzi ma anche quell’impegno si è molto sbiadito con lo scorrer del tempo. Si pensi poi a un altro nodo, la sostanziale inadeguatezza nel contrastare la berlusconiana “illusione del miracolo”. Certo, in nome dell’emergenza il centrosinistra si è trovato ad adottare responsabilmente politiche di rigore (dal primo governo Prodi sino al governo Monti): non sostenute però da una reale visione di futuro e prive così di una reale capacità di convinzione. E contrastate con forza dalla sinistra estrema, consonante in questo con la berlusconiana “cultura del miracolo”. Da questo nodo irrisolto discende anche la vaghezza estrema con cui oggi si parla di “ripresa”, quasi si pensi ad un tranquillo ritorno agli scenari precedenti la crisi. Quasi si consideri superfluo riflettere a fondo sulle trasformazioni globali che sono intervenute, e che esigono scelte inedite: ma forse proprio questo una forza riformatrice dovrebbe fare, risparmiandosi battute ad effetto.
Forse una svolta nella Fortezza Europa: si apre qualche spiraglio. Ma resta l'illusione che si tratti solo di "emergenza umanitaria" e non di sconvolgimento globale nel rapporto tra popoli e continenti.
Il manifesto, 28 agosto 2015
Settembre potrebbe essere il mese decisivo per l’Unione europea per cambiare rotta sull’immigrazione. «Troveremo il modo di distribuire il carico e le sfide in modo equo» ha detto ieri Angela Merkel, e le parole della cancelliera tedesca più che un invito sono sembrate indicare la nuova direzione da seguire. L’alternativa, per l’Europa, è quella di essere travolta dall’onda sempre più imponente di profughi in arrivo sia dal Mediterraneo che via terra lungo la rotta dei Balcani occidentali.
Quattro gli obiettivi principale da raggiungere: ripristinare l’obbligatorietà per i 28 di prendere una quota di richiedenti asilo, principio previsto a maggio dalla Commissione europea ma boicottato dai Paesi del Nord che sono riusciti a imporre la volontarietà; alzare il numero dei profughi siriani ed eritrei da ricollocare (inizialmente 40 mila tra Italia e Grecia, poi scesi a 35 mila) e avviare una discussione che porti a una normativa comune sul diritto di asilo. Ma, soprattutto, arrivare finalmente a una revisione del regolamento di Dublino che oggi obbliga i migranti a stare nel primo paese in cui sbarcano. Una cosa che l’Italia chiede da mesi ma che adesso vuole anche la Germania al punto da averlo già sospeso temporaneamente per i siriani.
Seppure ancora labili, le possibilità perché si arrivi finalmente a una svolta ci sono. Oltre a Germania e Italia, sostengono le quattro richieste anche Francia e Grecia, ma non è escluso che si accodi anche l’Ungheria, sotto pressione in questi giorni proprio per il forte flusso di richiedenti asilo alla frontiera con la Serbia. E in futuro, passata la tornata elettorale in cui alcuni Paesi sono impegnati nel prossimo autunno-inverso, l’elenco potrebbe allungarsi. «L’Europa è un continente ricco ed è in grado di affrontare questo problema», ha aggiunto la Merkel
A questo blocco di Paesi va poi aggiunta la Commissione europea il cui residente Jean Claude Juncker si è battuto per mettere mano a Dublino e perché i 28 si assumessero quote di profughi. Ieri Juncker ha replicato a quanti accusano la commissione di non aver fatto molto per risolvere la crisi dei migranti: «Alcuni ministri di Stati membri ci criticano per una nostra inattività, Ma sono critiche ingiustificate — ha detto -. La colpa va data agli Stati membri, non alla commissione che ha presentato la sua Agenda sull’immigrazione a maggio».
Il fatto è che da maggio a oggi è cambiato tutto. La pressione dei profughi alle frontiere europee è sempre più forte e coinvolge sempre più Paesi. Come i sei Paesi del Balcani occidentali, che ieri hanno tenuto a Vienna un vertice al quale hanno partecipato anche Italia, Germania, Austria Croazia e Slovenia nel quale nel quale alla Ue di mettere a punto un piano d’azione in grado di rispondere alla crisi di queste settimane.
Dell'importanza della creatività per lo sviluppo di un'economia capace di progredire. Il grave ritardo dell'Italia come una delle ragioni del declino del suo apparato industriali.
La Repubblica, 28 agosto 2015L’EUROPA è un continente rimasto senza idee»: a lanciare l’allarme sul Financial Times è stato Edmund Phelps, Nobel per l’economia. Nel braccio di ferro sulle misure di austerità che hanno messo alla gogna la Grecia (e domani altri Paesi), la parola “creatività” non ricorre mai.
Stagnazione delle economie nazionali, il Pil che da anni, quando va bene, sale (come in Italia) di qualche misero decimale: in questo gioco al massacro entrano le borse, i mercati, la troika, l’invadenza tedesca, le influenze americane o asiatiche. Ma che vi sia un qualche rapporto fra creatività ed economia non viene mai in mente. Secondo Phelps, «gli italiani trovano del tutto accettabile che la loro economia sia quasi del tutto priva di innovazioni autoctone da vent’anni, e sia capace solo di reagire alle forze del mercato globale, come se una nazione non avesse bisogno di dinamismo per essere felice».
L’Italia è fra i Paesi che Phelps sceglie a esempio di un’economia «meccanica, robotizzata, che ha per ingredienti la ricchezza, i tassi di interesse, i salari; ma ne manca uno, l’abilità e l’inventività degli esseri umani». L’efficienza (spesso sinonimo di ubbidienza) viene confusa con il dinamismo, l’alternanza ai vertici viene scambiata per innovazione, lo storytelling del successo prende il posto di ogni vero sviluppo. Una nuvola di parole occulta il destino dei cittadini e lo subordina alle decisioni, spesso incompetenti, di chi si insedia nella stanza dei bottoni. Il pensiero unico di una scienza economica spacciata per la sola possibile (come se non ne esistessero versioni e correnti alternative) alimenta la rassegnazione fatalistica alle “forze del mercato”, che come una fede religiosa non vacilla davanti alla perpetua crisi, ai continui fallimenti.
Rimettere al centro la creatività come rimedio alla stagnazione e alla crisi è oggi più che mai necessario. In questo senso va la distinzione, proposta dallo stesso Phelps nel suo recente Mass Flourishing (2013), fra la “prosperità” dei cittadini (far bene un mestiere per ottenere migliori salari) e la loro “fioritura” (coltivare l’immaginazione, esercitare la curiosità intellettuale, praticare la creatività). Una società può esser prospera senza essere fiorente, ma una società fiorente è sempre prospera: ed è solo nei periodi di massima fioritura della comunità civica che scatta l’innovazione, come si è visto dal Rinascimento al Novecento. Solo in una società fiorente, dove la creatività è un valore riconosciuto, vi sono le condizioni-base per una vita soddisfacente; solo chi può appagare la propria curiosità e inventiva avrà pieno rispetto per se stesso e si sentirà a pieno titolo parte di una comunità. Questo e non altro è il “vivere bene” che sbandieriamo come slogan, ma senza saperlo tradurre in progetto.
La categoria-chiave di questo ragionamento, la “fioritura” ( flourishing ), viene dalla filosofia morale (basti ricordare Martha Nussbaum e Julia Annas), che ne ha indicato le radici nel pensiero di Aristotele. L’eudaimonia di cui parla l’antico filosofo non è felicità effimera (il “successo”), ma senso di realizzazione della propria vita, delle proprie potenzialità: un sentimento che incardina l’individuo nella comunità (polis) di cui fa parte. La “fioritura” degli individui e delle comunità è precondizione indispensabile per lo sviluppo della creatività ad ogni livello, e dunque componente vitale dell’economia e della società, ma anche della democrazia, dell’equità, della giustizia. È necessario interrompere, volando alto, il circolo vizioso di cui siamo prigionieri: l’Italia e l’Europa davvero sono a corto di idee, e perciò segnano il passo. La prosperità raggiunta (insieme al timore di perderla) produce più stagnazione che progresso: anzi, la pressione dei mercati e la concentrazione della ricchezza erodono i diritti (all’istruzione, alla salute, alla cultura, al lavoro) generando crescenti ineguaglianze. L’illusione della crescita si limita a qualche success story che riunisce in poche mani gli incrementi di produzione e di ricchezza; ma intanto il lavoro (dei più) diminuisce, e la produttività totale (i cui fattori sono capitale e lavoro) s’inceppa.
“Tasso di inventiva” e “tasso di felicità” sono strettamente collegati, perciò entrambi sono in calo in Italia (e in Europa). La scuola, devastata da riforme che puntano a educare non cittadini ma esecutori ossequienti, taglia le gambe alla creatività potenziale dei giovani, li induce ad appiattirsi sugli ideali aziendalistici di una superficiale efficienza e li spinge a reprimere il proprio talento per inseguire i mestieri e i mantra di un immutabile ordine costituito. La sgangherata discussione sui “conti salati degli studi umanistici”, considerati un lusso in tempo di crisi, elude il loro ruolo essenziale nella consapevolezza dei valori umani, nella capacità di esplorare criticamente il mondo e se stessi, nell’educazione a pensare fuori dal coro. Anche l’economia non è necessariamente perpetuazione dell’esistente, ma dev’essere sperimentazione del nuovo. E solo la “fioritura” degli individui e della comunità garantisce la «pari dignità sociale» dei cittadini prescritta dalla Costituzione (art.3). Come ha scritto uno storico inglese, David Kynaston, «se la bandiera del thatcherismo era in ultima analisi la libertà dell’individuo, allora dobbiamo ammettere che negli ultimi anni tale libertà è stata così violentemente travolta, che è venuta l’ora di far ricomparire la sua antica compagna di scena: l’eguaglianza».