«Nessuno poteva aspettarselo, ma da un’azienda e da un sistema-Paese privo di strutture criminali è nato un sofisticato sistema di truffa organizzata». L'intervista a Thomas Schmid e il reportage dalla “città dell'automobile” di Andrea Tarquini.
La Repubblica, 23 settembre 2015 (m.p.r.)
"IL NOSTRO GOVERNO DEVE SENTIRSI CORRESPONSABILE CON LA SUA GOLDEN SHARE"
«È un colpo durissimo a un simbolo della Germania, e senza giudizi morali mi rammenta come è nata Volkswagen, azienda dal passato non del tutto incolpevole: nacque come idea del Reich, “comunità di lavoro”». Thomas Schmid, ex direttore della “Welt” ed editorialista di punta dei media tedeschi, non nasconde il suo allarmato sconcerto.
Che peso ha lo scandalo per l’immagine del sistema Germania?
«Ha un peso devastante. Crea problemi anche alla costruzione dell’Europa politica. Per amara ironia, mi viene in mente che poco lontano da Wolfsburg nacque Hoffmann von Fallersleben, autore dei versi del nostro inno nazionale. Forse nessun’altra azienda come la Volkswagen è stata il simbolo della rinascita postbellica dell’industria tedesca: un’industria attendibile, seria, sinonimo di qualità e di concertazione, in una giovane ma forte democrazia. Adesso riparare il danno sarà difficilissimo. Nessuno poteva aspettarselo, ma da un’azienda e da un sistema-Paese privo di strutture criminali è nato un sofisticato sistema di truffa organizzata. Anzi, proprio dall’azienda simbolo della tecnica attendibile e dell’uso responsabile, ecologico, di ogni tecnologia. Scelta tanto più folle in quanto anche prima dello scandalo, Vw aveva difficoltà sul mercato Usa».
E simbolo anche della concertazione: c’è del marcio anche là?
«La concertazione è un cardine del sistema tedesco, ma in passato recente, proprio in Volkswagen si è visto che può anche diventare un po’ complicità, fino a viaggi di piacere di ogni tipo in Sudamerica pagati dall’azienda. La concertazione è valore costitutivo giusto nello spirito della nostra Costituzione. Diverso se riprende l’idea di comunità nazionale e di lavoro che fu propria del nazionalsocialismo ».
La macchia nera del caso Volkswagen è contagiosa per tutto il sistema Germania, anche per le altre grandi aziende global player tedesche?
«Al momento non ancora, o non tanto. Però deve essere fatta piena luce al più presto. È agghiacciante per noi tedeschi doversi domandare perché una tale energia criminale sia nata in un’azienda simbolo del nostro Paese».
Volkswagen è azienda semipubblica: che conseguenze?
«Serie. Appunto, lo scandalo non ha colpito i big privati come Bmw o Mercedes. Il potere politico è presente con la sua golden share, deve sentirsi corresponsabile. Anche del fatto che l’obiettivo di divenire numero uno mondiale sorpassando Gm e Toyota, iperambizioso anche prima, oggi sembra drammaticamente più lontano» . (a.t.)
Occhi bassi, musi grigi, mugugni che escono appena da bocche chiuse. Nessun capannello di tute blu che scherzi sul calcio o sugli ultimi amori, niente chiacchierate sulle prossime vacanze. Non è un giorno come un altro, qui al cancello numero 17 della gigantesca fabbrica in mattoni rossi che domina Wolfsburg, e con capannoni enormi tipo Detroit un tempo, palazzi uffici e ciminiere, sembra una Mirafiori infinita che sotto le basse nuvole grigie della fredda pianura di Bassa Sassonia si perde oltre l’orizzonte. E’triste, fa male come un trauma collettivo, il day after degli operai Volkswagen, fino a ieri i ‘Cipputi’ più felici del mondo. Ma se loro piangono, il padrone non ride: ai piani alti del cubo monolito a sedici piani col cerchio, la V e la W che lo sormontano, è lotta a coltello per il potere. Tra poche ore potremmo sapere chi è il vincitore, manovre dietro le quinte si susseguono, e il potere politico è qualcosa di più che non solo spettatore interessato. Il padrone è anche lui: la Bassa Sassonia, con la sua golden share, ha sempre bloccato ogni scalata ostile al colosso ora ferito dalla sua colpa.
I motivi per cui sarebbe necessario per l'italia uscire dall'a moneta unica europea (e sarebbe anzi inevitabile) e i modi in cui potrebbe accadere.
La Repubblica, 22 settembre 2015
Il secondo motivo per uscire dall’euro è l’eccessivo ammontare del debito pubblico, il che rende di fatto impossibile per l’Italia far fronte agli oneri previsti dal cosiddetto Fiscal compact e a una delle clausole fondamentali dell’Unione economica e monetaria. Il Fiscal compact prevede infatti che in vent’anni dal 2016 il rapporto debito/ Pil, che si aggira oggi sul 138%, dovrebbe scendere al 60, limite obbligatorio per far parte dell’eurozona. In tale periodo detto rapporto dovrebbe quindi scendere di 78 punti, cioè 3,9 l’anno. In termini assoluti si dovrebbe passare dal rapporto 2200/1580 miliardi di oggi a 948/1580 nel 2035 (da convertire nel rispettivo valore del ventesimo anno). Vi sono solo due modi di raggiungere tale risultato, e infinite combinazioni intermedie che però non lo cambiano: o il Pil cresce di oltre il 5% l’anno per un ventennio, o il debito pubblico scende di oltre 3 punti percentuali l’anno. Tenuto conto che le ipotesi più ottimistiche di crescita del Pil per i prossimi anni si collocano tra l’1 e il 2% l’anno, e che il servizio del debito — 95 miliardi nel 2015 — continuerà a ingoiare decine di miliardi l’anno, ambedue le ipotesi non sono concepibili. In altre parole è impossibile che l’Italia riesca a rispettare il Fiscal compact. L’Italia si ritrova così nella condizione degli Stati membri della Ue che attendono di entrare nell’eurozona perché debbono soddisfare alcune clausole previste dal trattato sull’Unione economica e monetaria. Come dire che l’Italia è tecnicamente già fuori dall’eurozona, poiché non è in condizione di soddisfare a una delle clausole chiave: un rapporto debito pubblico/Pil non superiore al 60%. Tale situazione dovrebbe essere invocata per recedere dall’eurozona.
Non sono necessari sfracelli per arrivare a tanto. Basta far ricorso all’articolo 50 del Trattatto sull’Unione europea, comprendente le modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona il 1° gennaio 2009. Esso stabilisce che “ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione (paragrafo 1)”. Il paragrafo 2 precisa quali vie il procedimento di recesso deve seguire. Lo Stato che decide di recedere notifica l’intenzione al Consiglio europeo. L’Unione negozia e conclude un accordo sulle modalità del recesso. L’accordo è concluso dal Consiglio a nome dell’Unione.
Dalla lettura dell’art. 50 si possono trarre alcune considerazioni: a) la recessione avviene dopo un negoziato; b) il negoziato è condotto sotto l’autorità del Consiglio europeo, organo politico; c) è dato presumere che quando uno Stato notifica l’intenzione di recedere, determinate misure tecniche, tipo un blocco temporaneo all’esportazione di capitali dallo Stato recedente, siano già state predisposte in modo riservato.
Mentre l’art. 50 ha posto fine all’idea che la partecipazione all’Unione sia per sempre irrevocabile per vie legali, qualche dubbio sussiste sulla possibilità di recedere dalla Uem — la veste giuridica dell’euro — senza uscire dalla Ue, poiché l’articolo in questione menziona soltanto questa. Peraltro la letteratura giuridica ha ormai sciolto ogni dubbio: poiché il trattato sulla Uem è soltanto una parte della struttura giuridica della Ue — esistono Stati membri della Ue ma non dell’eurozona — è arduo negare il principio per cui uno Stato membro possa recedere dalla Uem ma non dalla Ue. Per cui il negoziato per l’uscita dall’euro dovrebbe aprirsi con la dichiarazione di voler restare nella Ue. I costi per la recessione dalla Ue sarebbero superiori ai costi di una sola uscita dall’eurozona. Uno Stato che uscisse oggi dall’Ue si troverebbe dinanzi ad altri 27 Stati, ciascuno dei quali potrebbe imporgli ogni sorta di restrizioni al commercio, oneri doganali, aumenti del prezzo di beni e servizi. L’impossibilità di accedere ai mercati Ue costringerebbe uno Stato ad affrontare costi di entità paurosa.
Resta da chiedersi dove stia il governo capace di condurre un negoziato per la recessione dell’Italia dall’eurozona in base all’art. 50 del Trattato sulla Ue. L’attuale, come quasi tutti i precedenti, è un esecutore dei dettati di Bruxelles, Francoforte, Berlino. Chiedergli di aprire un negoziato per uscire dall’euro non ha senso. Si può coltivare una speranza. Che si arrivi a nuove elezioni, dove ciò che significa recedere dall’euro in termini di ritorno della politica a temi quali la piena occupazione, la politica industriale, la difesa dello stato sociale, una società meno disuguale, sia al centro del programma elettorale di qualche emergente formazione politica. Prima di cedere alla disperazione, bisogna pur credere di poter fare qualcosa.
Dove la sinistra non rifiuta la sua storia e i suoi valori (come invece è successo nell'Italia di Renzi) il suo abbraccio con il neoliberismo è mortale.
La Repubblica, 21 settembre 2015
Il caso inglese è perfino più radicale di quello spagnolo e greco perchè qui la sinistra ha ripreso le redini del suo partito tradizionale, scuotendone l’identità centrista. La quale, non il radicalismo della sinistra, è all’origine della crisi del Labour.
Posizionandosi al centro, il Labour di Miliband ha dimostrato di essere sostituibile con i conservatori. Competere per il centro non è una politica saggia quando le politiche centriste sono a tutti gli effetti conservatrici. Ecco perchè il cordone sanitario del centrismo nei confronti di Corbyn suggerisce un’altra lettura all’argomento per cui la sinistra ha bruciato il suo centro.
La ribellione contro il centrismo è un fenomeno non confinato all’Europa.
Bernie Sanders che sfida Hillary Clinton alle prossime primarie democratiche, si definisce socialista e conquista l’audience nel popolarissimo talk-show di Colbert. I sondaggi lo danno vincente in New Hampshire e Iowa anche se perderà senz’ombra di dubbio la nomination. Sanders come Corbyn punta il dito contro un tipo di moderatismo che è diventato un abito troppo stretto per i democratici, spronati dallo stesso moderato Barack Obama che, non va dimenticato, ha portato alla Casa Bianca una retorica di sinistra per riuscire a imporre la riforma sanitaria e le politiche a favore della classe media.
Quindi c’è un centrismo di sinistra. E quando viene praticato con determinazione riesce a contenere la sinistra più radicale e a essere una buona alternativa ai conservatori. È questo il centrismo che i partiti di sinistra hanno bruciato.
Il problema è stato ben individuato da Paul Krugman. Commentando la vittoria di Corbyn ha scritto che essa «non è legata a un’improvvisa svolta a sinistra da parte della base laburista, ma ha a che fare soprattutto con lo strano e triste crollo morale e intellettuale dei moderati del Labour»; i candidati moderati che sfidavano Corbyn non avevano altro da offrire che il sostegno alle politiche di austerità del governo conservatore. Il “crollo morale” dei moderati interni alla sinistra è il fattore da considerare dunque. La sinistra sembra non avere più un centro suo, scegliendo di adottare quello proprio della destra.
Il centro al singolare è una categoria delle meno felici in politica perchè esso non è un’entità che sta al di sopra delle parti. È invece una pratica di moderazione rispetto a posizioni che sono specifiche e ideologicamente diverse. Il centro della sinistra non è lo stesso di quello della destra, perchè non consiste nell’annacquare con politiche di destra quelle di sinistra, per esempio limitando il diritto di sciopero o adottando politiche fiscali che favoriscono la casa invece che il lavoro.
La sinistra ha un suo centro e la sua erosione e scomparsa è all’origine delle due possibili risposte messe in campo finora: una risposta radicale nei partiti di sinistra che sono all’opposizione (da Podemos al Labour) e una risposta destrinista o ibridata con il centro della destra nei partiti di sinistra che sono al governo. Entrambi sono l’esito del “crollo morale” del centrismo di sinistra, e all’origine tanto del radicalismo quanto del destrinismo.
Una differenza che una volta era essenziale: «la sinistra ha promosso il welfare, lo sostiene e lo vuole finanziare, e ritiene che debba essere gestito direttamente dallo Stato, e per questo servono le tasse. La destra è molto più tiepida: preferisce un welfare affidato al mercato».
La Repubblica, 21 settembre 2015
Infatti la questione fiscale è stata una discriminante fondamentale della contrapposizione tra destra e sinistra, liberali e socialisti (e liberal-democratici), tra liberisti e keynesiani, capitalisti e sindacati, nell’intero corso del ‘900, e lo è ancora.
Del resto, se si guarda agli Stati Uniti, Obama è attaccato dai repubblicani del tea-party proprio sulle tasse; ai suoi tempi il labour di Tony Blair era contestato dai conservatori per lo stesso motivo, ed in effetti quei governi aumentarono la pressione fiscale in Inghilterra di un paio di punti di Pil.
La contrapposizione riguarda la funzione pubblica nell’economia, e quindi soprattutto il sistema di : la sinistra ha promosso il welfare, lo sostiene e lo vuole finanziare, e ritiene che debba essere gestito direttamente dallo Stato, e per questo servono le tasse. La destra è molto più tiepida: preferisce un welfare affidato al mercato col sostegno indiretto dello Stato, (istruzione privata, sanità privata, fondi pensione) e talvolta è semplicemente contraria.
La sinistra ritiene che una società coesa grazie al sia più efficiente e produttiva per effetto della riduzione dei rischi individuali. La destra ritiene che se si riducono le tasse e la spesa si responsabilizzano gli individui che sono spinti ad accrescere gli sforzi produttivi.
Per la sinistra l’eguaglianza è un obiettivo importante, ed essa è consapevole che le tasse in quanto tali non sono tecnicamente in grado di produrre un effetto perequativo rilevante, mentre un welfare ben costruito è fondamentale per la riduzione delle diseguaglianze: sono infatti le spese per la istruzione, la sanità, la previdenza, il sostegno nei periodi di disoccupazione e per l’assistenza ad assicurare l’effetto redistributivo della finanza pubblica.
Per la destra, invece, le diseguaglianze che si creano sul mercato riflettono in buona misura le differenze di produttività che esistono nel mercato stesso, per cui esse sono giustificabili, anzi funzionali allo sviluppo (salvo la tutela della povertà estrema, per cui è comunque preferibile per la destra il ricorso a meccanismi di elargizione volontaria (di natura caritatevole) fiscalmente incentivati.
Ignoranza o menzogna? probabilmente il saldo intreccio tra l'una e l'altra. Ma la questione è sempre la stessa, tragica per chi è nato qui: agli italiani piace cosí.
Il Fatto quotidiano, 18 settembre 2015
Chissà quali libri hanno letto o quali sostanze hanno assunto i due somari che tengono in ostaggio la Costituzione, per farsi l’idea che 70 anni fa, cioè nel 1945, subito dopo la Liberazione dal nazifascismo e dalla guerra civile, gli italiani scendessero in strada scandendo slogan contro il bicameralismo paritario e contro il resto della Costituzione due anni prima che questa fosse scritta. Forse non guasterebbe la lettura di un manuale di storia, anche in formato Bignami, o qualche seduta in una comunità di recupero, per insegnare ai due padri ricostituenti qualche rudimento di cultura generale, utilissimo per colmare le loro lacune e risparmiare loro altre scemenze.
Il bicameralismo paritario – Camera e Senato con regole elettorali diverse, ma con funzioni analoghe – fu introdotto dalla Carta approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947, promulgata cinque giorni dopo dal capo dello Stato ed entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Cioè 67 anni e mezzo fa. E si può serenamente escludere che negli anni successivi qualcuno invocasse una riforma della Costituzione appena varata.
Fu negli anni 70-80 che i partiti cominciarono a scaricare sul Parlamento le colpe della loro inconcludenza, corruzione e rissosità, spacciando alla gente l’illusione che eliminando il Senato o privandolo del voto di fiducia l’Italia sarebbe diventata una democrazia efficiente. Ma nessuno abboccò: l’opinione pubblica seguitò a fregarsene bellamente e nessuno versò una sola lacrima dinanzi al naufragio delle orribili riforme costituzionali tentate dalle varie commissioni bicamerali (Bozzi, De Mita-Iotti, D’Alema-Berlusconi). Anche perché i dati parlano chiaro: se certe leggi impiegano tanto a uscire approvate dal Parlamento non è perché ci siano due Camere anziché una e mezza, ma perché da sempre i partiti litigano fra loro, o più spesso al proprio interno.
Quando invece le maggioranze vanno d’accordo, i tempi sono rapidissimi. In media, fra Camera e Senato, 53 giorni per le leggi ordinarie, 46 per i decreti e 88 per le Finanziarie. Solo la loro misera penuria di argomenti può portare Renzi & Boschi a gabellare la loro schiforma per un evento epocale “atteso da 70 anni”. Ma atteso da chi? Secondo l’ul timo sondaggio Ipsos per il Corriere, solo il 3% degli italiani conosce la riforma del Senato “nel dettaglio”, un altro 28% “a grandi linee” e tutti gli altri – la stragrande maggioranza – non ne sanno nulla, per dire con quanta ansia la attendono da 70 anni.
Eppure la bella addormentata nei Boschi delira, sempre sul Corriere, di un non meglio precisato “impegno da mantenere con i cittadini”: e quando mai ha preso quell’impegno, e con quali cittadini, visto che il suo partito arrivò primo alle ultime elezioni del 2013 promettendo di far eleggere direttamente tutti i parlamentari dopo dieci anni di Porcellum? Poi vaneggia di una fantomatica “esigenza di rispettare la data del 15 ottobre” (fissata da chi? e perché non il 15 novembre, o dicembre, o gennaio?) dinanzi all’“Europa” che “ci riconosce spazi finanziari di flessibilità se in cambio facciamo le riforme”: come se la flessibilità sul rapporto deficit-Pil c’entrasse qualcosa col Senato.
Alla fine però la Boschi confessa: “Faccio sogni molto più belli che quello di fare il premier”. Ecco svelato l’arcano. Le boiate che dice e purtroppo scrive nella nuova Costituzione deve avergliele dettate in sogno qualcuno che a noi pare di conoscere: crapa pelata, mascella volitiva, mento e labbro inferiore sporgenti. La trovata delle riforme attese da 70 anni può venire soltanto da lui. Fu proprio 70 anni fa che l’Italia abolì il bicameralismo imperfetto creato da Mussolini: cioè la Camera dei Fasci e delle Corporazioni (membri non eletti, ma nominati dal Gran Consiglio del Fascismo presieduto dal Duce, dal Consiglio nazionale del Partito fascista presieduto dal Duce e dal Consiglio nazionale delle Corporazioni presieduto dal Duce) e il Senato del Regno (membri non eletti, ma nominati a vita dal Re su input del governo). Due Camere di nominati con funzioni diverse, ma relegate a un ruolo ancillare del governo.
Mutatis mutandis, è quello che ci aspetta con la Camera dei nominati (i capilista bloccati dell’Italicum) e il Senato dei nominati (i senatori paracadutati dalle Regioni). Manca solo l’articolo 2 della legge fascistissima 19.1.1939 n. 129: “Il Senato del Regno e la Camera dei Fasci e delle Corporazioni collaborano col governo alla formazione delle leggi”. Ma questo, oggi, è sottinteso.
Oltre ogni decenza. Per salvare il governo (e le loro poltrone) votano a favore dei razzisti. «Solo 10 votano contro il leghista, anche Sel si divide. Guerini chiama l’ex ministro. L’accusa di Manconi»La Repubblica, 18 settembre 2015
C’è chi ha scelto la ragion di Stato, chi ha votato al buio senza capire molto e chi invece aveva capito benissimo. Dopo aver salvato Roberto Calderoli, è l’imbarazzo a tenere assieme i senatori del Pd. Solo dieci - il 9% del gruppo, approssimando per eccesso - hanno giudicato razzismo quell’”orango” scagliato contro Cécile Kyenge. Gli altri dem - e mezza Sel- hanno bloccato l’azione della Procura e frustrato l’indignazione dell’ex ministra. Che infatti si lamenta: «Non si tratta di ricevere una chiamata da Renzi, che non c’è stata. Io mi aspetto dal partito una parola chiara per capire qual è la linea su questa vicenda».
C’è sconcerto. Nella base, in Rete, tra i militanti. Anche l’Unità pubblica in prima pagina un editoriale dell’eurodeputata, dal titolo inequivocabile: “Discriminazione razziale”. Il resto lo fanno i tabulati, che non mentono: ottantatre senatori del partito del premier (e naturalmente l’intero centrodestra) pigiano il pulsante verde: “Aggravante per odio razziale? Insindacabile”.
Solo dieci senatori della minoranza (più sei astenuti) la pensano diversamente. Tra loro Federico Fornaro e Doris Lo Moro, Felice Casson e Stefania Pezzopane. E a sorpresa lo storico garantista Luigi Manconi: «Ho votato sempre a favore della insindacabilità, ma stavolta no». Razzismo, e anche oltre: «La linea di confine tra la critica politica e la diffamazione con una simile aggravante - premette - non è lineare. Nonostante io rifiuti radicalmente il concetto di reato d’opinione, in questo caso ho valutato che quella linea di confine fosse individuabile e fosse stata ampiamente e violentemente superata. Le parole di Calderoli degenerano in scherno e denigrazione personale, oltretutto con un effetto discriminatorio per ragioni di appartenenza etnica ».
Non è così per tutti, però. Non per i renziani di Palazzo Madama - nessuno escluso - e neanche per alcuni esponenti della sinistra del Pd, come il regista dei bersaniani Maurizio Migliavacca e la capogruppo dei vendoliani Loredana De Petris. L’anomalia si annida soprattutto in quel voto disgiunto. «Che senso ha?», non si dà pace Dario Stefàno, che presiede la giunta per le immunità e sta studiando a fondo le carte. Corradino Mineo, poi, sceglie l’insindacabilità anche per la diffamazione, mentre contro Calderoli si esprimono i grillini e tre ex leghisti, oggi tosiani, capitanati da Patrizia Bisinella.
E la Kyenge? Nella prossima udienza il suo legale chiederà ai giudici di portare il caso all’attenzione della Corte costituzionale. Non basta una lunga telefonata di Lorenzo Guerini a chiudere l’incidente. Sulla permanenza del Pd, però, l’ex ministra frena: «Sono triste e amareggiata, ma non lascio il Pd perchè è casa mia. È chi ha sancito con il voto di ieri che il razzismo non è reato a doversi interrogare. Qualcosa di nemmeno concepibile in Europa». L’eurodeputata ha applausi solo per la base dem: «Mi hanno espresso la loro vicinanza con grandissimo affetto ».
Di certo non dimostra la stessa comprensione il leghista Davide Boni. Come se nulla fosse accaduto, sceglie Twitter per ironizzare sul possibile addio di Kyenge al Pd. E scomoda addirittura Luigi Tenco: «Ciao Amore, ciao Amore, ciao Amore, ciao...». Alla faccia di Manconi, che citando Karl Popper poco prima ricordava: «Dovremmo rivendicare, nel nome della tolleranza, il diritto a non tollerare gli intolleranti».
L’eurodeputata: “Sono amareggiata ma resto, il Pd è casa mia. Altri devono interrogarsi”
SALVATO
Il Senato ha votato per l’insindacabilità delle parole di Roberto Calderoli
«Renzi continua a preferire l’aggiramento dell’ostacolo. La pressione sul presidente del senato perché non ammetta gli emendamenti all’articolo 2 per l’elezione diretta dei senatori è continua».
Il manifesto, 18 settembre 2015
Renzi avverte: se il presidente apre agli emendamenti l’articolo 2 della legge di revisione costituzionale allora sapremo come regolarci. E la minaccia della fiducia o l'anticipo di una mossa per prendere in contropiede i dissidenti Pd, il cui voto in senato si conferma decisivo
Nel primo giorno di dibattito generale sulla riforma costituzionale, il governo conquista 179 voti di senatori contrari alle questioni pregiudiziali che avrebbero affossato il disegno di legge. La maggioranza renziana si rallegra: i numeri per vincere il braccio di ferro sulla Costituzione sembrano esserci. Ma nel voto sulle pregiudiziali, così come nel voto di mercoledì sul calendario dei lavori d’aula, la minoranza Pd ha deciso di seguire la disciplina di partito: se invece i trenta bersaniani, cuperliani e bindiani confermassero l’intenzione di votare contro l’articolo 2, neanche il risultato di ieri mette al riparo il governo da una clamorosa sconfitta. La campagna acquisti dei senatori di centrodestra — contro la quale ieri si è alzata la voce del senatore Scilipoti, simbolo di tutti i trasformismi — mette Renzi nelle condizioni di tentare il colpo. Ma a deciderne il risultato sarà ancora una volta la fronda del Pd. Reggerà?
Renzi continua a preferire l’aggiramento dell’ostacolo. La pressione sul presidente del senato perché non ammetta gli emendamenti all’articolo 2 per l’elezione diretta dei senatori è continua. Ieri due giornali — Stampa e Corriere — hanno riferito di un «piano B» di Renzi: cancellare del tutto il senato (mantenendo però la legge iper maggioritaria per la camera) e trasformare palazzo Madama in un museo. Palazzo Chigi ha smentito l’indiscrezione «volgare e assurda», Renzi non l’avrebbe mai «pensata né riferita». Grasso non ha creduto alla smentita e in pubblico ha attaccato il metodo di «far trapelare la prospettiva che si possa addirittura fare a meno delle istituzioni relegandole in un museo». «Ora Grasso deve decidere», ripete lo stuolo dei renziani, che anzi spiegano la mossa di saltare la commissione con l’indecisione del presidente del senato: aveva detto che avrebbe fatto la sua scelta solo una volta in aula, bene eccoci in aula. «Sono giorni convulsi e i prossimi temo che saranno anche peggio», prevede Grasso. Renzi lo sfida apertamente: «Se riaprirà la questione dell’articolo 2 ascolteremo le motivazioni e decideremo di conseguenza».
Può essere la minaccia della questione di fiducia sull’articolo 2, contro tutti gli emendamenti «pericolosi» sul senato elettivo. Un azzardo che il sottosegretario Pizzetti ha categoricamente esclusa e un po’ tutti ritengono uno strappo eccessivo e improbabile — ma è quello che si pensava prima che il governo mettesse la fiducia sulle leggi delega e sulla riforma elettorale. Oppure significa che se Grasso deciderà di aprire agli emendamenti anche qualche altra parte dell’articolo 2 oltre al comma 5 che è stato toccato alla camera, Renzi cercherà di addomesticare la decisione proponendo una modifica che rinvii la decisione sull’indicazione dei senatori-consiglieri alla legge ordinaria. Si potrebbe inserire al comma successivo, il 6, dove attualmente c’è la previsione assai fumosa che i seggi sono attribuiti regione per regione «in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio».
Una qualche apertura del premier alle richieste delle opposizioni è inevitabile, purché non sia sul cuore del dissenso, l’elettività diretta dei senatori. Servirà ad addolcire il passaggio con la maggioranza, o l’uscita dall’aula, di alcuni decisivi senatori di minoranza. Concessioni saranno fatte sulle competenze del senato (allargate) e sull’elezione degli organi di garanzia, Corte costituzionale e presidente della Repubblica (la minoranza Pd ha i suoi emendamenti in materia). Per il resto Renzi si prepara al referendum confermativo previsto per le leggi di revisione costituzionale. Ieri ha annunciato l’ennesimo calendario — lettura conforme della camera sulla riforma a gennaio e referendum in estate o autunno — esagerando in ottimismo. Perché se la camera approvasse effettivamente a gennaio senza toccare una virgola del testo del senato, la seconda lettura sarebbe possibile solo dopo tre mesi, al più presto in aprile, e da allora andrebbero calcolati i sette mesi necessari per il referendum: al più presto si finirebbe a novembre 2016.
Ieri per definirsi papa Francesco ha usato una parola proibita e quasi temuta, in ambito ecclesiale: «Perdonatemi se sono un po’ femminista». Parlava a braccio a un’udienza ai giovani consacrati, e voleva ringraziare «la testimonianza delle donne consacrate».
Due giorni fa invece, nel concludere una settimana dedicata alla famiglia, ha demolito un mito tenace, Eva e il suo serpente che corrompono Adamo, l’uomo: «Esistono molti luoghi comuni, alcuni anche offensivi, sulla donna tentatrice» ha detto nell’omelia.
In passato aveva già parlato della «brutta figura che ha fatto Adamo, quando Dio gli ha detto: ’Ma perché hai mangiato il frutto dell’albero?’ E lui: ’La donna me l’ha dato’». Ma c’è un orientamento, una direzione, o meglio un’intenzione in tutte le parole che dall’inizio del suo pontificato papa Bergoglio ha dedicato alle donne?
In verità non è facile orientarsi, e questo è sorprendente, in un pontefice che mostra una straordinaria chiarezza di predicazione, di pastorale e di politica.
Nell’omelia di due giorni fa la riflessione in realtà non era colloquiale, come altre sue battute. «Invece c’è spazio per una teologia della donna che sia all’altezza di questa generazione di Dio». Un passaggio significativo, anche se non si può dimenticare che da anni tante teologhe lavorano in questa direzione, con risultati di altissima qualità.
Come importante è stata una considerazione di qualche tempo fa, quando ha detto che nulla può giustificare la disparità di retribuzione tra uomo e donna. «Perché si dà per scontato che le donne debbano guadagnare di meno degli uomini? Si tratta di maschilismo», ha commentato senza tanti di giri di parole, applaudito dalla folla di San Pietro.
Non c’è materiale sufficiente per delineare una “dottrina” del papa sulle donne, forse, ma abbastanza per accorgersi di un cambiamento profondo, che più che sui principi, si muove sui comportamenti, sul senso comune, sulla pratica quotidiana.
Certo, bisogna essere cattolici, praticanti o perlomeno formati in quel contesto, per “sentire” quanto queste parole siano forti, incongrue, fuori da qualunque tradizione precedente. Papa Francesco non è magniloquente, non proclama l’elogio del «genio femminile» come fece Woityla, ma ha deciso che con il Giubileo si «perdoni» il peccato di aborto. Anche questa decisione ha fatto molto discutere. A molte — e anche molti laici — è sembrata un’ insopportabile offesa, la riaffermazione di un principio. È comprensibile, ma è evidente che si tratta del contrario. Si tratta della derubricazione della colpa assoluta, demonizzata, e imperdonabile che ha agitato non solo lo stretto ambito del mondo cattolico in questi ultimi anni. Si potrebbe dire che a poco a poco, discorso dopo discorso, omelia dopo omelia, vengono ridotti — decostruiti per essere precisa — tutti gli elementi che fanno della donna un essere speciale e pericoloso. In una visione non solo cattolica, non solo teologica, e non solo mitica, su un terreno in cui ha senso richiamarsi alle radici cristiane dell’Europa e del mondo occidentale, perché è questa visione che ancora ne nutre l’immaginario.
Anche nella relazione con le donne papa Francesco ha portato la forza di una linguaggio quotidiano, semplice, diretto. È un uomo del nostro tempo e risulta evidente, da quello che dice e che fa, che conosce la vita, il mondo. Conosce gli uomini e le donne. È sufficiente a sciogliere la diffidenza, se non l’ostilità delle donne nei suoi confronti? Anzi, meglio sarebbe dire la delusione, impossibile comprendere il giudizio durissimo da lui espresso sulle «teorie del gender», che ha definito «espressione di una frustrazione», una forma di «colonizzazione ideologica».
Il 4 ottobre comincia il Sinodo ordinario, quello che dovrà operare le scelte pastorali sulla famiglia. Divorziati, omosessuali sono i principali temi sul tappeto. Nulla che riguardi le donne, neppure la contraccezione è stata discussa, l’anno scorso.
Papa Francesco è un uomo coraggioso. Abbiamo ammirato tutti la forza con cui propone alla sua Chiesa una pratica che corrisponda agli insegnamenti del Vangelo. L’accoglienza, mettere a disposizione ciò che si possiede, il rispetto delle leggi. Appena eletto, disse « mi chiamano comunista». Viene da pensare che dichiararsi «un po’ femminista» in un’istituzione che da due millenni è fatta da soli uomini, sia perfino più pericoloso.
». Il suo merito è stato di dimostrare che la soluzione di destra, sulla quale il Labour si era sdraiato, aveva portato dentro la crisi, non fuori.
La Repubblica, 16 settembre 2015
JEREMY Corbyn, da tempo dissidente della sinistra britannica, ha riportato una sbalorditiva vittoria nelle votazioni per la leadership del partito laburista. Per gli opinionisti politici questa scelta avrà esito nefasto sulle prospettive elettorali del Labour; potrebbero aver ragione, anche se non sono l’unico a domandarsi come possano questi commentatori che non hanno saputo prevedere il fenomeno Corbyn mostrare tanta sicurezza nell’analisi di ciò che implica.
Ma parliamo dell’implosione dei moderati del Labour. Sulla politica economica, in particolare, colpisce il fatto che tutti i candidati in lizza, eccetto Corbyn, fossero essenzialmente a favore della politica di austerità del governo conservatore.
Ancor peggio, tutti implicitamente accettavano la motivazione fasulla di tale politica, assumendosi in pratica la responsabilità di malefatte politiche in realtà non commesse dal Labour. È come se negli Usa i principali candidati alla nomination democratica del 2004 fossero andati in giro a dire che l’11 settembre era colpa del loro approccio debole alla sicurezza nazionale. Ci saremmo forse sorpresi se i voti delle primarie democratiche fossero andati a un candidato che rifiutava quella bufala, qualunque fosse la sua visione?
Le false accuse contro il Labour riguardano la politica fiscale, in particolare si sostiene che i governi laburisti al potere in Gran Bretagna dal 1997 al 2010 abbiano speso ben oltre i propri mezzi, causando un deficit e una crisi del debito che hanno portato alla più ampia crisi economica. La crisi fiscale, a sua volta, non avrebbe lasciato alternative ai drastici tagli alla spesa, soprattutto quella a sostegno dei poveri.
Queste tesi dei conservatori, va detto, sono state riprese e diffuse da quasi tutti i media giornalistici britannici. Non solo non le hanno sottoposte a un severo scrutinio, ma le hanno riportate come realtà. È stato straordinario assistere a quell’operazione — perché tutti gli elementi della narrazione usuale sono completamente fasulli.
Il governo laburista è stato irresponsabile sotto il profilo fiscale? La Gran Bretagna registrava un modesto deficit di bilancio alla vigilia della crisi economica del 2008, ma in percentuale sul Pil non era molto elevato — risulta circa pari al deficit di bilancio Usa dello stesso periodo. Il debito pubblico britannico era inferiore, in percentuale sul Pil, a quello registrato quando il Labour andò al governo dieci anni prima e inferiore rispetto a tutte le altre grandi economie avanzate, fatta eccezione per il Canada.
Oggi c’è chi afferma che la reale situazione fiscale fosse assai peggiore di quanto indicassero le cifre del deficit, perché l’economia britannica era gonfiata da una bolla insostenibile che incrementava le entrate. Ma nessuno all’epoca lo diceva. Al contrario, le valutazioni indipendenti, ad esempio ad opera del Fmi, indicavano l’opportunità di correggere lievemente il deficit, ma non evidenziavano segni di una gestione allegra delle finanze pubbliche.
È vero che il deficit britannico lievitò dopo il 2008, ma fu la conseguenza, non la causa della crisi. Anche il debito è cresciuto ma resta ben al di sotto dei livelli prevalenti in gran parte della storia moderna britannica. E non c’è mai stato alcun indizio che gli investitori, a differenza dei politici, fossero preoccupati della solvibilità britannica: i tassi di interesse sul debito sono rimasti molto bassi. Ciò significa che la presunta crisi fiscale non ha mai creato alcun reale problema economico e che non c’è mai stata la necessità di una sterzata in direzione dell’austerità.
In breve, l’intera narrazione circa la responsabilità del Labour relativamente alla crisi economica e circa l’ assoluta necessità dell’austerity è un’assurdità. Ma questa assurdità i media britannici l’hanno regolarmente presentata come realtà. E tutti i rivali di Corbyn nella corsa alla leadership laburista l’hanno presa per buona, accettando la tesi dei conservatori secondo cui il loro partito aveva gestito malissimo l’economia, cosa semplicemente non vera. Così il trionfo di Corbyn non sorprende poi tanto, vista la disponibilità dei politici laburisti moderati ad accettare false accuse al passato malgoverno.
Resta da capire come mai i moderati laburisti siano stati così sfortunati. Negli Usa fu diverso, le critiche sul deficit dominarono il dibattito a Washington nel 2010-11, senza però riuscire a dettare i termini del confronto politico, e la maggioranza dei democratici non assumeva toni da simpatizzanti repubblicani. La risposta sta in parte nel fatto che i media giornalistici statunitensi non sono stati altrettanto dediti a fantasie fiscali, anche se questo non risolve la questione. L’ establishment politico del Labour sembra però privo di convinzione, per motivi che non comprendo appieno. Significa che la vittoria di Corbyn non è legata a un’improvvisa svolta a sinistra da parte della base laburista, ma ha a che fare soprattutto con lo strano e triste crollo morale e intellettuale dei moderati del Labour.
Tra Palazzo Chigi e Senato l’attività è frenetica, la strategia si raffina di ora in ora. Oggi le riforme costituzionali arrivano nell’Aula di Palazzo Madama. Momento topico, atteso da mesi. E dopo un’estate di trattative sotto traccia, l’accordo politico non c’è. Il colpo di scena arriva nel primo pomeriggio. Il capogruppo leghista, Roberto Calderoli ritira i suoi 500mila emendamenti in Commissione. Toglie l’alibi al governo che vuole andare immediatamente in Aula, visto che in Commissione Affari costituzionali i numeri non ce li ha. «Tutta politica. Politica la presentazione, politica il ritiro», dice il presidente dei senatori Pd, Luigi Zanda. Poi tira diritto e nella capigruppo chiede comunque di andare in Aula.
Che fosse tutto un bluff, un trabocchetto per provare a metterlo con le spalle al muro, Pietro Grasso lo ha capito l’altroieri, quando ha sentito il discorso di Anna Finocchiaro in commissione Affari costituzionali: perché fare, due giorni prima del previsto, uno speech sull’ammissibilità degli emendamenti alla riforma del Senato quando la maggioranza ha già deciso di portare il ddl Boschi direttamente in aula? Così, ieri, nella riunione dei capigruppo, il presidente ha deciso di tentare il gran colpo: tentare di smascherare il gioco di Palazzo Chigi. Mentre è in corso l’incontro dei rappresentanti dei gruppi, Grasso convoca a sorpresa la presidente della commissione: «Lei ha detto che per garbo istituzionale non ha voluto votare l’ipotesi di istituire un comitato ristretto. Io, con lo stesso garbo istituzionale, le chiedo: perché?».
Mohammed conta i passi che lo separano dall’Austria. È partito all’alba dalla stazione di Hegyeshalom, in Ungheria. Il confine dista quattro chilometri, una passeggiata, per chi come lui ha le gambe buone. «Mi hanno rilasciato ieri, dopo 12 giorni in un carcere vicino Budapest» racconta mentre continua a guardarsi le spalle. «Com’è la polizia alla frontiera? E in Austria? Ci faranno passare senza problemi?». Arrestato nella stazione di Budapest, Mohammed porta sul collo i lividi di cinque dita della polizia ungherese. Parla un ottimo inglese, ma dice di non aver capito le accuse contro di lui. «Mi hanno chiesto di pagare mille euro –spiega senza nascondere la rabbia – per lasciarmi andare. Mi hanno fatto una multa, trattato come un criminale. Vengo da Homs e sto solo andando verso un posto sicuro». Appena arrivato al campo di Nickelsdorfs chiede in prestito un cellulare e chiama gli amici ancora in cella: «Il confine è tranquillo, appena uscite correte qui».
«La svolta Labour. “Bisognerà avere pazienza, ma i morti viventi sono stati sconfitti. La politica inglese è tornata finalmente a vivere”».
Il manifesto, 15 settembre 2015 (m.p.r.)
Le ironie della storia non mancano mai di sorprendere. Con qualsiasi criterio lo si misuri, Jeremy Corbyn è il leader più di sinistra nella storia del Labour party. Capisce che chi fa male fuori non potrà fare molto meglio a casa.
Tra i membri del parlamento è l’antimperialista più convinto. La prova è il paragone con gli antenati politici. Il socialismo di Keir Hardie annaspava nei campi di battaglia della prima guerra mondiale. Clement Attlee è stato un grande riformatore sul piano interno, ma su quello esterno il suo governo approvò il bombardamento nucleare di Hiroshima e Nagasaki. Harold Wilson redistribuì la ricchezza ma appoggiò gli Stati uniti in Vietnam. Come leader dell’opposizione, Michael Foot fu un accanito supporter della guerra mossa da Margaret Thatcher per recuperare le Malvinas/Falkland.
I gemelli thatcheriani Blair-Brown si accordarono per dividersi il potere creando due correnti affamate di potere con nessuna differenza politica tranne che la fame di Tony Blair era diretta sia al potere che ai soldi. Blair ci ha dato le guerre nell’ex Jugoslavia e in Iraq, mentre Gordon Brown era ignaro della vulnerabilità del capitalismo finanziario e spese miliardi di sterline del contribuente salvando banche che, una volta pagati i depositi, sarebbe stato molto meglio lasciar schiattare.
Entrambi hanno burocratizzato il Labour party neutralizzandone i congressi, riducendolo a una copia appiccicosa dei Democratici americani: tutto show, nessuna sostanza. Hanno tolto alle sezioni laburiste locali il diritto a scegliere i propri candidati per il parlamento, il solo modo per trasformare un grande pezzo del Parliamentary Labour Party (Plp) in una collezione di ragazzi e ragazze d’ufficio super-pubblicizzati insieme a camionate di carrieristi.
Tre di loro si sono esibiti regolarmente nella campagna per la successione di un altro della loro cerchia, Ed Miliband. La cosa ironica è che la riforma del sistema elettorale di partito voluta da Miliband era disegnata per placare i Blairiti e i loro compagni nei media attraverso l’eliminazione dal partito del residuo potere del sindacato e l’apertura agli outsider, nella maldestra speranza che un elettorato più congeniale avrebbe assicurato agli estremisti di centro il dominio delle proprie politiche.
Erano così fiduciosi che un pugno di Blairiti ha dato a Corbyn i voti parlamentari necessari per eleggerlo e rappresentare la sinistra purché simbolica, testimoniando così la generosità del partito e il suo rispetto per la diversità. Chi avrebbe mai pensato a un ritorno di fiamma così sensazionale? Certamente non Corbyn. E nessun altro. Il Guardian si è schierato per Yvette Cooper, mentre i suoi editorialisti blairiti denunciavano il dinosauro di Islington – scordando che i più giovani amano i dinosauri e sentono la mancanza della specie. Il Daily Mirror si è schierato per Andy Burnham.
Nessuno che abbia mai visto o sentito Corbyn può dubitare della sua autenticità. Ho condiviso con lui numerose piattaforme negli ultimi quarant’anni. Negli argomenti chiave è sempre rimasto costante. Ciò che è piaciuto ai giovani, che hanno trasformato la sua campagna in un movimento sociale, è precisamente ciò che ha sovvertito i tradizionali cliché politici e mediatici. Corbyn è stato schietto, discorsivo, molto di sinistra, vuole invertire le privatizzazioni delle ferrovie e dei servizi eccetera. Molti che si sono registrati per votarlo l’hanno fatto per questo, e per rompere con il blando, poco fantasioso e privo di visione New Labour.
Corbyn ha sottostimato i cambiamenti in Scozia, ma questo in effetti ha aiutato la sua campagna. La coorte di parlamentari dello Scottish national party che vuole affossare la superflui e costosi missili Trident, l’elettrizzante discorso d’esordio della ventenne Mhairi Black che ha sfidato i Tories… Tutto ciò ha aiutato la campagna di Corbyn. Se funziona in Scozia, perché non in Inghilterra?
Dopo che ll Labour ha eletto il loro leader più di sinistra, la stragrande maggioranza del gruppo parlamentare laburista è nella stretta mortale della destra. Chiunque abbia ascoltato l’intervento di Sadiq Khan dopo essere stato scelto dal Labour come candidato sindaco di Londra si è accorto della differenza con la campagna di Corbyn. Gli argomenti di Khan erano tutti puntati su quanto isolato sarebbe stato Corbyn nel Plp.
Corbyn chiederà al partito di unirsi dietro di lui. Ma non c’è modo di eludere il fatto che la maggioranza del Plp si oppone alle sue politiche. Credo che cercheranno di forzarlo a un compromesso dopo l’altro con l’intento di screditarlo (su modello di Alexis Tsipras in Grecia), ma dubito che possano avere successo.
Corbyn comprende gli argomenti chiave sui quali non è possibile alcun compromesso. Ci ha fatto campagna sopra abbastanza a lungo. La sua vicinanza all’agenda dei Verdi non è un segreto, e il solo parlamentare dei Verdi adesso ha nel nuovo leader laburista un solido sostenitore. Riprendersi i trasporti pubblici dagli speculatori è un altro elemento. Un’edilizia pubblica a buon mercato per i giovani e gli anziani aiuta a ricostruire le comunità.
Un robusto regime fiscale che inverta decenni di privilegi accordati ai ricchi scatenerà la furiosa offensiva della City, dei suoi media e dei suoi accoliti politici, ma è considerata assolutamente necessaria. Fin dalla fine degli anni Settanta, la redistribuzione della ricchezza a favore dei ricchi e dei più ricchi ha continuato a crescere in Gran Bretagna, in modo superiore a tutti I paese dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Corbyn non è interessato al potere per sé o per aumentare il suo personale patrimonio.
Insieme al Partito Corbyn può davvero riportare in auge la democrazia. É l’unico modo per chi sostiene i Labour, di ritrovarsi rappresentati propriamente in parlamento. Ma niente di tutto questo sarà facilmente realizzabile, per questo è fondamentale che ci sia un movimento potente fuori dal parlamento; è l’unico modo per assicurare che l’agenda di Corbyn possa essere pienamente onorata.
Niente può accadere nel giro di una notte: bisogna essere pazienti. Alcuni membri laburisti del parlamento diserteranno. Dopo tutto, avevano sostenuto, convinti, le misure di austerity. Ma ormai sarà impossibile, perfino per l’auto censura della Bbc, tenere fuori dagli schermi il nuovo leader Labour. I morti viventi hanno perso. La politica inglese è tornata a vivere.
Si affaccia anche nel Regno unito una sinistra che ha compreso i problemi nuovi senza abbandonare i valori antichi. Promettente il successo ottenuto tra i giovani, e le nuove adesioni al Labour party dopo l'affermazione di Corbyn.
La Repubblica, 14 settembre 2015
L’ELEZIONE della leadership laburista è stata una straordinaria prova di democrazia popolare e di partecipazione pubblica dal basso, che ha dimostrato l’infondatezza dell’opinione prevalente al riguardo della politica. Abbiamo attirato il sostegno di centinaia di migliaia di persone di tutte le età, di ogni ambiente sociale, in tutto il Paese, ben oltre i ranghi degli attivisti di lunga data e di chi fa campagna. Chi può seriamente affermare, adesso, che i giovani si disinteressano di politica o che non c’è un intenso desiderio di un nuovo tipo di politica? Più di ogni altra cosa, ha dimostrato che milioni di persone vogliono un’alternativa reale, e non che le cose proseguano come al solito, sia dentro sia fuori dal Partito laburista.
La speranza di un cambiamento e di nuove grandi idee è tornata al centro della politica: porre fine all’austerità, affrontare e risolvere le disuguaglianze, lavorare per la pace e la giustizia sociale in patria e all’estero. Ecco i motivi per i quali oltre un secolo fa fu fondato il Labour. Questa elezione ha infuso nuovo vigore per il XXI secolo all’obiettivo che portò alla sua fondazione: un Partito laburista che dia voce al 99 per cento della popolazione.
Abbiamo combattuto e vinto sulla base di proposte politiche, non di personalità, senza abusi e senza astio. Volendo pienamente fugare ogni dubbio, la mia leadership sarà improntata alla coesione, farà affidamento su tutti i talenti — la metà del governo ombra laburista sarà formato da donne — e lavoreremo insieme a tutti i livelli del partito. Il nostro obiettivo è riportare nel cuore del Labour le centinaia di migliaia di persone che hanno preso parte alle primarie. Riusciremo a far tornare ancora una volta il Labour un movimento sociale.
La leadership del partito si sforzerà di mettere al centro la democrazia: non sarà il leader a emettere editti dall’alto. Raccoglierò idee da tutti i livelli del partito e del movimento laburista, prendendo ispirazione da un partito allargato alle varie comunità e mettendo a frutto i talenti di tutti per dar vita a una linea politica capace di costruire un valido sostegno a favore del cambiamento.
Noi siamo in grado di dar vita a un nuovo tipo di politica: più educata, più rispettosa, ma anche più coraggiosa. Possiamo cambiare le mentalità, possiamo cambiare la politica, possiamo migliorare le cose.
Il messaggio più importante che la mia elezione offre a milioni di persone per mandare a casa i conservatori è che il partito adesso è incondizionatamente al loro fianco. Noi comprendiamo le aspirazioni e sappiamo che le nostre aspirazioni potranno realizzarsi soltanto tutte insieme.
Tutti aspirano ad avere una casa a un prezzo accessibile, un posto di lavoro sicuro, standard di vita migliori, un sistema sanitario fidato e una pensione dignitosa. La mia generazione ha considerato scontate queste cose e così dovrebbero fare le generazioni future.
I conservatori stanno introducendo una legge sulle organizzazioni sindacali che renderà più difficoltoso per i lavoratori ottenere un equo contratto di lavoro, combattere per un salario onesto e per un giusto equilibrio tra lavoro e vita privata. Le organizzazioni sindacali sono una forza che si adopera per il bene, una forza che si batte per una società più giusta. Unito, il Labour voterà contro questo attacco antidemocratico ai membri delle associazioni sindacali.
Domani il governo presenterà le sue proposte per tagliare i crediti d’imposta, che lascerebbero migliaia di famiglie di operai in condizioni peggiori. I crediti d’imposta sono un’ancora di salvezza vitale per molte famiglie e il Labour si opporrà a questi tagli. È chiaro anche che il Primo ministro presto tornerà a chiederci di bombardare la Siria. Questo non aiuterà i rifugiati. Anzi, ne creerà in maggior numero.
Lo Stato Islamico è assolutamente raccapricciante, e il regime del presidente Assad ha commesso delitti atroci. Ma noi dobbiamo opporci anche alle bombe saudite che cadono sullo Yemen e alla dittatura del Bahrain, armata da noi, che stermina il movimento democratico del paese.
Il nostro ruolo è fare campagna per la pace e per il disarmo in tutto il mondo.
Per i conservatori, il deficit altro non è che una scusa per rifilarci la vecchia agenda Tory di sempre: abbassare i salari, tagliare le tasse ai più ricchi, lasciare che i prezzi degli immobili aumentino fino a essere improponibili, svendere i nostri asset nazionali e attaccare le organizzazioni sindacali. Non ci sono scorciatoie per la prosperità, la si deve costruire investendo in infrastrutture moderne, nelle persone e nelle loro competenze. Bisogna dare sfogo a idee innovative, concretizzando nuove proposte per affrontare e risolvere il cambiamento climatico. E proteggere così il nostro ambiente e il nostro futuro.
Il nostro compito è dimostrare che l’economia e la nostra società possano essere a beneficio di tutti. Insorgeremo contro le ingiustizie ogni volta che le incontreremo. E le combatteremo per un futuro più equo e più democratico, che soddisfi le esigenze di chiunque.
La risposta umana della gente di tutta Europa nelle ultime settimane ha dimostrato l’intenso desiderio di un tipo diverso di politica e di società. I valori della compassione, della giustizia sociale, della solidarietà e dell’internazionalismo sono stati al centro della recente esplosione di democrazia in un Labour sempre più influente.
Quei valori sono profondamente radicati nella cultura del popolo britannico. Il nostro obiettivo, adesso, è mettere a frutto quello spirito e chiedere ardentemente il cambiamento, in tutto il paese.
Traduzione di Anna Bissanti
Ancora sul documento dei 4 della sinistra europea. «La moneta è importante in un sistema capitalistico di produzione, ma non è tutto. La forza di una moneta non è in sé, ma nel sistema economico e nel paese che rappresenta».
Il manifesto, 13 settembre 2015
Nel documento diffuso urbi et orbi da Varoufakis, Lafontaine, Melenchon e Fassina si legge che: «Nessun paese europeo può operare la propria liberazione in modo isolato». Appunto. Peccato che il documento non sia molto coerente con questo assunto. Esso vede la luce a pochi giorni dalle nuove elezioni greche e non si può davvero dire che sia una mano d’aiuto a Syriza e a Tsipras. Peraltro se questi ultimi dovessero perdere, non si comprende quale possa essere la maggioranza in grado di portare avanti il piano B sostenuto dagli autori del documento. Per attuarlo non bastano forze minoritarie.
Il confronto fra Tsipras e la Ue è avvenuto precisamente nell’isolamento internazionale. Un paese contro 18. Né i movimenti sono riusciti ad esprimere una solidarietà così forte da incidere sui rapporti di forza. Né i grandi paesi esterni alla Ue, ognuno con i propri diversi motivi, non gli Usa, né la Russia, tantomeno la Cina avevano interesse e possibilità di sostenere la Grecia in uno spericolato sganciamento dall’euro.
In questo quadro si è giunti non a un accordo, ma alla consumazione di un ricatto. Tspiras lo ha detto al suo popolo e al parlamento in modo spietato. L’introduzione di Syriza al programma di governo del 2015, che si propone di indebolire se non neutralizzare le conseguenze più regressive del nuovo Memorandum, affonda ancora il coltello nella piaga. Dopo un impietoso esame delle condizioni nelle quali la Grecia a luglio si trovava si afferma: «Dovevamo scegliere tra una ritirata tattica, in maniera da preservare la speranza di vincere una battaglia politica asimmetrica, oppure imporre alla sinistra un fallimento storico che avrebbe trasformato il paese in un deserto sociale. Ci siamo presi la nostra parte di responsabilità e abbiamo scelto la prima opzione».
Scegliere l’altra avrebbe significato cadere nelle braccia della Grexit di Schauble. Le conseguenze di un’uscita dall’euro sono oggetto di discussione — perché non ci sono precedenti né è prevista dai trattati -, ma mi sembra difficile non assistere in quel caso a una ulteriore fuga dei capitali, a pesanti manovre speculative, a un balzo dell’inflazione pure in presenza di alti tassi di disoccupazione, quindi a una diminuzione drastica e brusca del valore reale di salari e pensioni già al lumicino. Per impedire questo, disse Varoufakis a New Statesman, si era pensato a un piano B, con la necessaria riservatezza, salvo verificare che mancavano forze e mezzi per garantirne il risultato.
Cambierebbe in meglio il quadro se al posto di una Conferenza europea sul debito non solo greco, che è quanto ha sempre voluto Syiriza e che in parte ha ottenuto al termine della mortificante trattativa con i prossimi appuntamenti autunnali — ai quali giustamente i greci chiedono la presenza del parlamento europeo in quanto tale, unica struttura elettiva — si realizzasse una conferenza per il piano B, proposta dagli estensori del documento? Non credo proprio, poiché la pubblicità stessa dell’atto — al di là delle buone intenzioni e prima ancora degli esiti del medesimo — sposterebbe l’attenzione dal piano A — ovvero battersi dentro l’Eurozona — al piano B, cioè alla uscita dall’euro.
In modo assai discutibile, i fautori del Piano B paragonano l’azione della Ue nei confronti della Grecia e dei paesi mediterranei alla «sovranità limitata» praticata da Breznev con i carri armati a Praga. Ma davvero la fuoriuscita dall’euro sarebbe la liberazione dalla gabbia? Vi sono paesi che hanno la loro moneta, come la Polonia, eppure non sono che un’articolazione del sistema produttivo tedesco. D’altro canto alla gabbia dell’euro si sostituirebbe quella non certo più tenera dei mercati finanziari internazionali.
Per una sinistra la disputa euro-non euro non dovrebbe avere di per sé un peso così dirimente. Dovrebbero esserlo molto di più le politiche produttive. Certo, l’euro è stato costruito in un’area monetaria non ottimale che favorisce la potenza esortativa della Germania. Sarebbe meglio — ci si potrebbe arrivare senza disfare l’Europa, rafforzando l’unità di paesi e di sinistre (auguri Corbyn!) — avere una moneta comune in luogo di una moneta unica. Un’attualizzazione del Bancor pensato da Keynes. La moneta è importante in un sistema capitalistico di produzione, ma non è tutto. La forza di una moneta non è in sé, ma nel sistema economico e nel paese che rappresenta. Ce lo insegna la storia del rapporto fra Usa e Dollaro, ora si potrebbe dire fra la Cina e Renminbi.
In una transizione egemonica mondiale fra Ovest e Est, ove le guerre sono all’ordine del giorno e una deflagrazione mondiale è dietro l’angolo, il ruolo di un’Europa federale e democratica, dotata di una propria forza economica, quindi anche di una moneta, è decisiva. Se si trasformasse in un protettorato tedesco più ristretto, come vogliono i vari Schauble, sarebbe una sciagura non solo per l’economia ma per i già traballanti rapporti geopolitici mondiali.
«».
Il manifesto
Il segretario del Pcf, Pierre Laurent, ha cercato di mantenere una parvenza di unità alla sinistra della sinistra. Ma alla Fête de l’Humanité, malgrado la notizia della vittoria di Corbyn, è andata ieri in onda la divisione. Non sull’accoglienza dei rifugiati, perché la solidarietà resta per fortuna un valore condiviso, né tanto sull’azione per far fronte al disordine climatico, anche se su questo fronte le sensibilità sono a volte lontane, ma la lacerazione è sull’Europa e sull’euro. Lo scontro in corso in Grecia, a una settimana dalle elezioni anticipate, si è invitato sotto la pioggia della festa a La Courneuve. Jean-Luc Mélenchon, leader del Front de Gauche, ha accolto in una tavola rotonda l’ex ministro Yanis Varoufakis, con Oskar Lafontaine di Die Linke e Stefano Fassina. Nessun esponente del Pcf, che pure fa parte del Front de Gauche, a questo dibattito. Pierre Laurent, del resto, ha invitato al dibattito “Insieme per un’altra Europa”, l’ex ministro greco, George Katrougalos, rimasto fedele a Tsipras, oltre a rappresentanti di Podemos, Izquierda Unida e anche Die Linke. Laurent ha visto in un breve incontro Varoufakis, ma la divisione di fondo resta: la sinistra della sinistra, che pure è d’accordo sulla necessità di trovare un’altra strada nell’Europa dell’austerità, essenzializza la moneta unica e si lacera.
Mélenchon, Varoufakis, Lafontaine e Fassina affermano di “essere determinati a rompere con questa Europa”, hanno un “piano A” per ottenere “un completo rinegoziato” dei Trattati. Ma, vista l’improbabilità di questa strada (per riformare i Trattati ci vuole l’unanimità nella Ue), propongono un “piano B”, che non esclude l’uscita dall’euro. Mélenchon vorrebbe organizzare un vertice europeo, già a novembre, per proporre questo “piano B”. E precisa: se dovessi scegliere “tra l’euro e la sovranità nazionale” sceglierei la seconda ipotesi. Mélenchon ha appena pubblicato un libro, Le Hareng de Bismarck, dove mette sotto accusa la Germania. Anche Varoufakis è su questa linea: per l’ex ministro, la minaccia di Grexit e i diktat imposti ad Atene da Berlino e Bruxelles hanno come obiettivo quello di piegare qualsiasi velleità di cambiamento, mirando ad obbligare in primo luogo la Francia ad accettare una completa austerità.
Per Laurent, invece, “Syriza non si è piegata all’austerità”, ma Tsipras è stato lasciato “solo contro tutti”. Laurent aggiunge: “continuo a credere che un’uscita dall’euro non avrebbe migliorato i rapporti di forza in Grecia”.
La proposta del “Piano B” di Mélenchon-Varoufakis arriva in Francia dopo la forte polemica sollevata dall’economista Jacques Sapir, vicino al Front de Gauche. Sapir propone un “fronte repubblicano” per l’abbandono della moneta unica, che potrebbe anche non escludere l’estrema destra. Per Sapir, non è più possibile ignorare la forza del Fronte nazionale, che alle ultime europee è stato il partito più votato. “Creando uno spartiacque pro o contro l’euro andiamo a sbattere contro un muro”, afferma Clémentine Autin, portavoce di Ensemble, la terza componente del Front de Gauche. “C’è piena coscienza delle divisioni, ma la domanda per Ps, Pcf, Parti de Gauche, Verdi è come rispondere all’aspirazione popolare per la lotta alla disoccupazione, alle ineguaglianze, alla crescita della povertà”, riassume l’ex ministro socialista, Benoît Hamon (ormai vicino alla “fronda” contro il governo Valls, ma sulla lista Ps per le regionali di dicembre). Il Front de Gauche è lacerato, Europa-Ecologia sta perdendo i pezzi (i capogruppo all’Assemblea e al Senato, François de Rugy e Jean-Vincent Placé sono appena usciti dal partito per fondare Ecologistes!, una formazione più centrista). L’imminenza delle elezioni regionali di dicembre, con alleanze a geometria variabile nelle varie regioni tra Ps, Verdi e Front de Gauche, non ha favorito ieri una discussione razionale.
LLa Repubblica, 12 settembre 2015
Ma qualunque sia l’esito di questo conflitto, è il suo stesso sorgere che sembra inammissibile, quando in realtà esso non rappresenta altro che la fisiologia della politica. Quando mai c’è stato unanimismo nei partiti, democratici e non? Per decenni il Pci è stato accusato di scarsa o nulla democrazia interna a causa del suo “centralismo democratico”, una pratica in base alla quale dopo aver discusso negli organi interni, tutti dovevano seguire la linea decisa, pena l’espulsione. Invece, al suo interno, i conflitti, benché ovattati dentro le mura di Botteghe Oscure, divampavano, eccome. E in alcune occasioni venivano alla luce. Ad ogni modo, il fatto che le opinioni difformi da quelle della leadership non potessero organizzarsi in correnti, contrariamente a quanto accadeva agli altri partiti, era indice di grande intolleranza. Sembra passato un secolo da quel clima politico. Certo, un conto è il dibattito interno ad un partito, un conto il comportamento di voto in Parlamento, perché alle Camere è in gioco la maggioranza di governo. Qui la compattezza ha un valore ben più alto. Tuttavia, a parte la curiosa “regressione” del Pd a partito di massa classico, quando il segretario comandava sui parlamentari annullandone l’autonomia di giudizio, l’enfasi sull’obbedienza martellata dai supporter di Matteo Renzi ha uno sgradevole retrogusto plebiscitario.
In realtà, il voto difforme rispetto a quello del proprio partito non è una cosa inaudita nei parlamenti democratici. Per partire dal caso più recente, nel Bundestag tedesco molti parlamentari del partito della cancelliera Angela Merkel hanno votato contro gli aiuti alla Grecia: sia a febbraio che ad agosto circa un 20 per cento di deputati si è rifiutato di sostenere il governo su questo punto. In Gran Bretagna, durante la sessione parlamentare 2013/14, nel 31 percento delle votazioni, deputati appartenenti alla coalizione che sosteneva David Cameron hanno voto contro il loro governo. Il maggior numero di disubbidienti si trova tra i Conservatori: sono stati più di 20 in 8 casi, e più di 30 in tre casi. E questo ha determinato la sconfitta del governo in tre occasioni.
Ancora più significativo il caso della “fiducia” al governo di Manuel Valls, ripresentatosi in Parlamento con una nuova compagine governativa dopo le dimissioni, richieste e ottenute, di alcuni ministri riottosi. Il 16 settembre scorso, alla fine dell’illustrazione del nuovo programma (non una vera fiducia, in realtà, perché non è prevista in Francia), ben 31 deputati hanno votato contro. Per loro, come negli altri casi, nessuna sanzione. E men che meno è andato in crisi il governo.
Questi esempi ci dicono che i voti in dissenso rispetto alla leadership sono la norma in occasione di grandi dibattiti. Non scandalizzano più di tanto. Eppure il conflitto interno al Pd in merito alla riforma del Senato ha assunto toni apocalittici con aberrazioni che vanno dall’accusa di lesa maestà, da un lato, alle grida per l’attacco alla democrazia, dall’altro. Se al di là del contenuto del conflitto c’è una sfida da vincere, questa riguarda il profilo della leadership di Matteo Renzi. Perché una vera leadership si afferma per capacità di convinzione, non di coercizione. La spada di Brenno appartiene ai barbari, l’ agorà all’alba della civiltà. Per questo, anche per questo, un senatus può servire.
Chissà se e quando capiranno che l'esodo non caccia verso 'Europa solo il Medio oriente, ma anche tutta l'Africa subsahariana e le altre regioni saccheggiate dal Primo mondo e assoggettate a regimi tirannici e corrotti promossi di nostri governi
. La Repubblica, 10 settembre 2015
«Dalla Germania solo e sempre cattive notizie» amava ripetere Tacito: evidentemente il grande storico romano non aveva previsto Angela Merkel. Colei che ancora solo poche settimane or sono nell’immaginario collettivo del Vecchio continente veniva raffigurata come “matrigna d’Europa”, arcigna espressione di una visione senza cuore della po-litica, si è come d’incanto trasformata in motivo di stupefatta sorpresa. In qualche caso persino di entusiastica ammirazione e il timore di una “egemonia tedesca” in speranza che la Germania assuma finalmente la guida del processo di unificazione europeo. Certo: l’epocale svolta nella politica della accoglienza e dell’integrazione che la Merkel è riuscita nel giro di pochissime ore a imporre al suo paese ha una portata le cui conseguenze potremo valutare solo nei prossimi mesi o addirittura anni. Tanto più importante adesso, quando
Ungheria e Danimarca guidano il fronte di chi rifiuta l’accoglienza. Essa infatti ridisegna non solo l’atlante geo-economico dell’area tra l’Europa e la costa meridionale del Mediterraneo ma ridefinisce anche i parametri etici dell’agire politico di una componente decisiva, l’Unione europea, del mondo occidentale. Non è per questo esagerato paragonare la scelta della Merkel che ha trasformato la sua persona e il suo paese in motivo di speranza per centinaia di migliaia di profughi al gesto rivoluzionario compiuto da Willy Brandt il 7 dicembre del 1970 quando l’ex borgomastro di Berlino diventato cancelliere si inginocchiò dinnanzi al monumento in memoria della rivolta del ghetto di Varsavia. Un gesto grazie al quale la Germania fece pace con se stessa e col mondo.
Anche se drammatici fattori contingenti hanno avuto un peso non indifferente di questa “metamorfosi Merkel” è possibile razionalmente delineare la genesi. Ha cioè precise origini e spiegazioni che hanno a che fare con la vicenda storica tedesca ma anche con la natura specialissima della leadership politica che sta lentamente trasformando il cancellierato della Merkel in un fenomeno per i manuali di politologia.
La convinzione della Merkel e di tutto il governo tedesco di poter affrontare e risolvere («faremo tutto il necessario e ci riusciremo » questa l’impegnativa promessa della Merkel) la sfida di integrare 800mila migranti si fonda su due certezze: le precedenti esperienze storiche. E il solido funzionamento del sistema sociale, economico e politico-istituzionale.
Anche senza ritornare alle drammatiche vicende degli anni tra il 1944 e il 1950 quando milioni di profughi lasciarono le terre ex prussiano-tedesche cercando rifugio e integrazione nelle regioni ad occidente dell’Elba ci sono due altre esperienze che possono essere di utile riferimento. In primo luogo l’ integrazione a partire dagli anni ‘50 di milioni di lavoratori provenienti da Italia, Turchia e poi via via da Spagna, Grecia e Jugoslavia.
Ma la grande svolta avvenne alla fine degli anni ‘90 grazie al governo o guidato da Schröder e da Joschka Fischer. Grazie alle importanti riforme realizzate dopo la riunificazione del paese dal governo “rosso-verde”, la Germania è diventata la nazione in Europa in cui la pratica del riconoscimento è una filosofia messa in atto anche nelle realtà più estreme di degrado urbano. Infatti la politica di integrazione sociale e culturale (religiosa) degli immigrati procede seguendo una sorta di “terza via” differenziandosi sia dal modello francese di “universalismo” assoluto che da quello “multiculturalista” inglese (e anglosassone in genere). Da quello francese che mira a una integrazione intesa come totale assimilazione ai valori della nation française e nega in tal modo qualsiasi riconoscimento delle differenze culturali. Ma parimenti anche dal modello inglese del Londonistan, basato sulla presa d’atto delle esistenza di una pluralità di realtà: è il multiculturalismo di ghetti contigui ma reciprocamente impenetrabili.
L’abbandono da parte della Germania del mito arcaico e barbaro dello jus sanguinis è stato possibile grazie all’azione di “stedeschizzazione” della morale collettiva compiuta dai Verdi. C’è poi un’altra ragione. All’inizio di questo secolo-millennio la Germania era “il malato d’Europa”: basso tasso di crescita, alto tasso di disoccupazione, debito pubblico fuori controllo, disaffezione degli investimenti privati. Oggi grazie alle riforme dell’Agenda 2010 volute da Schröder la Germania è il centro di gravità democratico del Vecchio Continente: caso forse unico in Europa, nessuna formazione politica dichiaratamente xenofoba ha rappresentanza parlamentare (questo ovviamente non significa affatto che non esistano organizzazioni neonaziste). Certo le distanze tra l’Ovest e l’Est continuano ad esistere: ma chi viaggi oggi tra Lipsia e Dresda non può non prendere atto che quelle regioni hanno conosciuto una trasformazione davvero stupefacente.
Ma il vero arcano del Modell Deutschland consiste nella sistematica ricerca del “compromesso” a livello politico, sociale e istituzionale per assicurare la stabilità del sistema di cui quella della moneta e quella del governo sono le metafore per eccellenza. La segreta “teologia politica” di un paese che ha scelto, dopo averne fatto diretta e tragica esperienza, di mettere “fuori legge” la primitiva logica della contrapposizione “amico-nemico” tanto cara a Carl Schmitt, è un programmatico antidecisionismo.
E poi c’è il fattore Merkel: negli anni la Cancelliera è riuscita a costruire un rapporto di fiducia con l’elettorato come nessuno mai prima di lei. Né Adenauer o Kohl per la Cdu o Brandt e Schmidt per la Spd. E non è la prima volta che tagliando corto con la sua proverbiale prudenza la Merkel è stata capace nel giro di poche ore di proporre un orizzonte totalmente differente all’azione politica. Ma questo successo apparentemente irresistibile della Merkel ha anche un suo “lato oscuro” su cui prima o poi converrà iniziare a interrogarsi. Intanto a dar vita al vero “partito della nazione” ci ha pensato lei.
Europa e migranti. Finalmente una visione consapevole del dramma che stiamo vivendo: non è solo la Siria, non sono solo le guerre guerreggiate, è la guerra ostinata degli stati capitalisti del Nord e del Sud, dell'Est e dell'Ovest che ha generato per decenni miseria e oppressione, e prosegue ancora oggi.
Il manifesto, 10 settembre 2015
Quando la globalizzazione cessa di presentarsi sotto forma di merci e di capitali, e assume l’aspetto di umani individui, addirittura di popoli in fuga, allora il pensiero unico neoliberale precipita in confusione. La libertà della sua assordante retorica riguarda i soldi e le cose, non gli uomini. Per le persone, la libertà di transito non può essere uguale a quella delle merci. È faccenda più complicata. E dunque la coerenza teorica viene abbandonata e si passa all’uso delle mani.
Di fronte al fenomeno migratorio il ceto politico europeo, salvo rare eccezioni, è caduto negli ultimi mesi assai al di sotto dell’intelligenza normale delle cose, della capacità di cogliere non tanto la sovrastante e incontrastabile potenza di un processo storico. In questo la miseria morale del suo atteggiamento, che ha assunto la faccia truce dell’intransigenza contro i derelitti del mondo, col tempo resterà incancellabile più per il lato ridicolo che per la ferocia. Leader e uomini di governo ci sono apparsi nell’atto di voler svuotare l’oceano con il cucchiaino. Ma segno ancor più rilevante di una mediocrità politica senza precedenti è l’incapacità di rappresentare gli interessi di lungo periodo dei rispettivi capitalismi nazionali, di cui sono i solerti servitori. Ossessionati dalla conservazione del loro potere, con l’occhio sempre fisso ai dati del consenso personale, governanti e politici di varia taglia hanno di mira il solo scopo di vincere la competizione elettorale in cui sono perennemente impegnati contro avversari e sodali. E perciò sono spaventati dalle difficoltà dei problemi organizzativi che l’arrivo dei migranti pongono nell’immediato.
La loro campagna elettorale può riceverne solo danno. Se negli ultimi giorni le barriere sono cadute è perché – come è apparso chiaro – la vastità di massa e l’irruenza incontenibile del movimento di popolo poteva, da un momento all’altro, precipitare in un massacro. Rischiava di rappresentare agli occhi del mondo, ancora in Europa, una nuova forma di olocausto nel glorioso terzo millennio. E la Germania, soprattutto la Germania, con il suo passato, non poteva permetterselo.
Ma chi ha la testa sollevata al di sopra della palude della nanopolitica sa che il fenomeno migratorio è di lunga data, è solo esploso a causa delle guerre recenti in Oriente e in Africa. L’Human Development Report 2009, dedicato dalle Nazioni Unite a Human mobility and development, ricordava che «« Ogni anno, più di 5 milioni di persone attraversano i confini internazionali per andare a vivere in un paese sviluppato.»» E i maggiori e quasi esclusivi centri di attrazione erano e sono gli Usa e l’Europa.Una migrazione immane che dalla metà del secolo scorso ha spostato circa 1 miliardo di persone fuori dai luoghi in cui erano nate. Come potrebbe essere diversamente? Il capitalismo usa due potenti leve per sradicare i popoli dalle proprie terre.
La prima è quella dello “sviluppo”, la trasformazione delle economie agricole in primo luogo, la distruzione della piccola proprietà coltivatrice a favore delle grandi aziende meccanizzate, la nascita di poli industriali, lo svuotamento delle campagne, la formazione di megalopoli e di sconfinate bidonville. E lo sviluppo, che in tanti paesi avanza attraverso vasti diboscamenti e la rottura di equilibri naturali secolari, il saccheggio neocoloniale delle risorse, genera anche altre migrazioni: quella dei profughi ambientali, che fuggono da inondazioni o da prolungate siccità.
L’altra leva, sempre più attiva, è il potere incontenibile di attrazione che le società prospere dell’Occidente esercitano sulle menti delle popolazioni immiserite, deportate, segregate che si agitano nei vari angoli del mondo. Occorre tenerlo bene in mente: ogni giorno, anche nel più remoto villaggio africano, grazie a un’antenna satellitare va in onda lo spettacolo della più flagrante ingiustizia che lacera il destino delle genti sul nostro pianeta. Uno spettacolo grandiosamente tragico che i dannati della Terra non avevano mai visto nei secoli e nei decenni passati. I miserabili, gli affamati, gli invalidi, i reclusi, le donne segregate, possono vedere dall’altra parte del mondo i loro simili, uomini e donne come loro, ricchi, sazi, sani, liberi. E questo spettacolo genera due scelte, ormai ben evidenti: l’estremismo terrorista o la fuga di massa.
Ma il ceto politico europeo, che vive alla giornata – non quello governativo americano, che dispone di centri di analisi strategica e di proiezioni di lungo periodo – non comprende, per specifica miseria intellettuale, neppure l’interesse del capitalismo che ha scelto di rappresentare. Dimentica, ad esempio, che l’immigrazione di popolazione “latina” negli Usa è stata una delle grandi leve del boom economico degli anni ’90 in quel paese. Ma soprattutto non comprende quali vantaggi una forza lavoro giovane e abbondante procurerà alle imprese europee nei prossimi anni. E qui è evidente che il problema riguarda tutti noi, la sinistra politica, il sindacato. Siamo stati certamente encomiabili nel difendere i diritti dei migranti, il valore di civiltà del libero spostamento delle persone oltre le frontiere.
Ma l’arrivo di tanta forza lavoro a buon mercato non solo ci impone di vedere le persone umane, i titolari di diritti intangibili, oltre le braccia da fatica – cosa che in Italia abbiamo ben fatto, anche se solo a parole e senza alcuna mobilitazione — ma di cogliere per tempo la sfida che tutto questo ci pone. Sfida di organizzazione, di proposte, di soluzioni, di politiche. O facciamo un ulteriore salto di civiltà, tutti insieme, secondo le logiche della nuova storia del mondo, o regrediamo tutti insieme. Per strano che possa sembrare, la sinistra, in Italia, ha la possibilità, la possibilità teorica, di fornire delle risposte strategiche con cui rispondere allo scenario turbolento e difficile che si apre. Ci ritornerò prossimamente in maniera mirata.
Nonostante il lutto per la perdita della madre, morta domenica sera, Juncker ha declinato l’offerta del Parlamento di rinviare il discorso e ha voluto presentarsi puntuale a Strasburgo anche per sottolineare la gravità della situazione e l’importanza delle decisioni che attendono l’Europa. «Mia madre, che è morta, e mio padre, che è gravemente malato, hanno lavorato tutta la loro vita. E così faccio io: lavoro. Per questo sono qui», si è giustificato con voce tremante per la commozione. Ed ha lanciato un appello agli europei perché non dimentichino il proprio passato e i propri valori: «Noi europei dovremmo ricordare che questo è un continente dove tutti, in un momento o in un altro della nostra storia, siamo stati profughi».
Il presidente della Commissione ha criticato i Paesi che cercano di fermare l’afflusso dei disperati. «Fino a che ci sarà la guerra in Siria, questo problema non scomparirà da un giorno all’altro, e nessun muro fermerà l’afflusso dei profughi. Stiamo combattendo l’Is, come possiamo non accogliere quelli che fuggono l’Is?». Ma ha anche criticato quanti si dicono disposti ad accettare solo rifugiati cristiani: «In passato l’Europa ha già fatto l’errore di distinguere tra ebrei, musulmani e cristiani: non c’è religione, non c’è credo e non c’è filosofia quando si parla di profughi».
Il discorso sullo stato dell’Unione si è trasformato così, attraverso le parole di Juncker, in una grande seduta di autocoscienza di fronte al dramma dei migranti. «L’Europa è il panettiere di Kos che regala panini ai rifugiati che arrivano, sono gli studenti che offrono il loro aiuto nelle stazioni tedesche, e coloro che alla stazione di Monaco hanno accolto i profughi siriani con applausi. L’Europa in cui voglio vivere è quella incarnata da queste persone; l’Europa in cui non vorrei mai vivere è quella di chi rifiuta la solidarietà».
Ma il presidente della Commissione ha anche cercato di ridimensionare la portata del problema: «la massa di chi cerca riparo da noi rappresenta lo 0,1 per cento della popolazione europea. In Libano, che ha un reddito pari ad un quinto del nostro, i rifugiati sono il 25 per cento della popolazione. L’Europa ha i mezzi per fare fronte a questa emergenza».
Nalla sostanza, il piano di Juncker è quello anticipato nei giorni scorsi. Oltre ai 40 mila richiedenti asilo ripartiti a luglio per alleggerire Grecia e Italia, la Commissione propone di redistribuirne altri 120 mila: 16 mila attualmente in Italia, 54 mila in Ungheria e 50 mila in Grecia. Germania, Francia e Spagna dovranno accoglierne la maggior parte. Ma ogni Paese si vedrà attribuire una quota obbligatoria, calcolata in base al reddito, alla popolazione, al tasso di occupazione e ai profughi già ospitati. Le quote, in base ai Trattati, non si applicheranno a Gran Bretagna e Danimarca, mentre l’Irlanda, che pure sarebbe esentata, ha detto di voler partecipare alla redistribuzione. Per tutti gli altri, invece, i contingenti saranno obbligatori. Un Paese può, per gravi e comprovati motivi, chiedere alla Commissione di essere esonerato dalla condivisione. Bruxelles valuterà il caso e potrebbe concedere una esclusione temporanea, ma in questo caso il Paese esentato dovrà pagare un contributo di solidarietà proporzionale alla sua ricchezza. Per ogni profugo accolto, i governi riceveranno dalla Commissione un contributo di seimila euro.
Juncker ha anche annunciato una serie di altri misure per far fronte all’emergenza, spiegando che, all’inizio dell’anno prossimo la Commissione presenterà un progetto complessivo per la gestione dell’immigrazione economica «di cui abbiamo comunque bisogno». Il passo più importante sarà il rafforzamento di Frontex, che dovrà occuparsi anche dei rimpatri di chi non ha diritto all’asilo: «dobbiamo fare un passo ambizioso verso la creazione di una Guardia di frontiera e di una Guardia costiera europea prima della fine dell’anno», ha detto il presidente della Commissione. Infine, già al prossimo consiglio, Bruxelles presenterà una lista di Paesi considerati “sicuri”, che comprenderà la Turchia e i Balcani, i cui cittadini non potranno chiedere di ricevere asilo politico in Europa.
Negli ultimi decenni si è assistito all’emergere di un vero e proprio mercato del debito a cui gli Stati hanno dovuto sottostare. L’Argentina, prima in questo processo, ha dovuto affrontare i cosiddetti “fondi avvoltoio” quando ha scelto di ristrutturare il proprio debito. Questi fondi, di recente, hanno ottenuto per mezzo della Corte americana il congelamento degli asset argentini posseduti negli Stati Uniti.
Ieri all’Argentina, oggi alla Grecia, domani forse alla Francia o a qualsiasi Paese indebitato può essere negata nelle attuali condizioni la possibilità di una ristrutturazione del debito nonostante il buon senso. Adottare un quadro legale rappresenta un’urgenza per assicurare la stabilità finanziaria, permettendo a ciascun Paese di risolvere il dilemma tra il collasso del sistema finanziario e la perdita di sovranità nazionale.
Questi 9 principi riaffermano la superiorità del potere politico, attraverso la sovranità nazionale, nella scelta delle politiche pubbliche. Essi limitano la spoliticizzazione della struttura finanziaria, la quale ha escluso finora ogni possibile alternativa all’austerity, tenendo in ostaggio gli Stati.
L’Onu deve quindi farsi sostenitore di una gestione democratica del debito e della fine del mercato dei debiti.
Un’iniziativa simile aveva fallito nel 2003 al Fondo Monetario Internazionale.
Oggi, la posizione degli Stati europei rimane ambigua, nonostante il loro supporto sia fondamentale affinché questa risoluzione possa essere attuata. I Paesi europei si sono disinteressati al processo di democratizzazione non mostrando alcun supporto alla creazione del comitato.
Ma la situazione greca ha mostrato che non c’è più tempo per tergiversare.
Se gli eventi dell’estate hanno rafforzato i nazionalismi e la sfiducia dei cittadini verso le istituzioni internazionali, oggi gli europei sono chiamati a riaffermare i diritti democratici, da anteporre alle regole di mercato nella governance internazionale.
Chiediamo quindi che tutti li Stati Europei votino a favore di questa risoluzione».
Primi firmatari
Gabriel Colletis
Giovanni Dosi
HHeiner Flassbeck
James Galbraith
Jacques Généreux
Martin Guzman
Michel Husson
Steve Keen
Benjamin Lemoine
Mariana Mazzucato
Ozlem Onaran
Thomas Piketty
Robert Salais
Engelbert Stockhammer
Xavier Timbeau
Bruno Théret
Yanis Varoufakis
Gennaro Zezza
(traduzione Marta Fana)
Davvero sublimi le truffe che il cerchio magico di Matteo Renzi riesce a inventare per difendere il regime feudale e accalappiare gli scioccherelli della sinistra tremula.
Il manifesto, 8 settembre 2015
Come quello che un tempo avevamo a livello regionale, e che a furor di popolo era stato sostanzialmente espunto nella ultima stagione statutaria. Doveva servire a portare presenze qualificate e competenze nei consigli regionali a sostegno dei governatori, ed era poi in prevalenza diventato luogo di mercimonio politico o asilo per amici, sodali, parenti e clienti. Che si voglia adesso rispolverare a livello nazionale già segnala quanto sia bassa la mediazione.
Un parlamentare è davvero eletto se viene personalmente scelto dagli elettori, in una diretta competizione con altri. Qualunque altro sistema, nel degrado generale che ci accompagna, non promette buoni risultati. Un listino presumibilmente votato in blocco e in collegamento con un candidato governatore o con una lista di partito, significa invece un senato di nominati, per di più — se rimane il testo fin qui approvato — scelti da chi non merita e tra chi non merita. E che si aggiunge a una camera parimenti composta in larga misura di nominati, per l’infernale meccanismo dei capilista a voto bloccato. Tutto, pur di evitare che il popolo sovrano scelga chi lo rappresenta.
Pare che una parte della tremebonda dissidenza Pd sia disponibile. Visti i precedenti, non meraviglia, anche se non se ne capisce la ragione. Senza cambiamenti radicali del copione sono già oggi dei morti che camminano, e ben dovrebbero saperlo. Fa tenerezza — o forse rabbia — la menzione dei malesseri della «nostra gente», del «nostro popolo», che qualche leader, un tempo autorevole, timidamente mette in campo. Erano richiami frequenti nel gruppo dirigente di quella che fu una grande sinistra. Avevano un peso reale, perché segnavano il comune sentire che legava la base al vertice del partito, e la condivisione profonda di valori e di obiettivi.
Ma qualcuno dovrebbe spiegare che oggi quel popolo non c’è più. E che è stato disperso non da una strega cattiva, ma da una ditta che ha cambiato ragione sociale. Cosa ha a che fare con quel popolo un partito che toglie ai lavoratori gli strumenti per la propria difesa, che sbaracca la scuola pubblica, che taglia i servizi essenziali, che non combatte le diseguaglianze, che addirittura toglie ai poveri per dare ai ricchi come si progetta con l’Imu e la Tasi? È un disegno regressivo, e la radice è nella ricerca di voti ovunque si possano raccogliere. Dov’è un progetto di sinistra? E se si nega il progetto, si nega anche il «popolo» che in esso si può riconoscere. Del resto, chi ha avuto modo di frequentare anche occasionalmente i circoli territoriali del Pd sa che ormai i militanti di oggi sono molto diversi da quelli di un tempo. Il «popolo» che fu se n’è andato, in massa. E la speranza dell’esangue sinistra Pd di riconquistare il partito male si colloca nel «popolo» di oggi.
Proprio per questo il disegno renziano è coerente, e non di sinistra. Gli argomenti che lo sostengono sono inesistenti. Il risparmio di spesa si riduce a spiccioli, e più o meglio si perseguirebbe tagliando in modo bilanciato il numero di deputati e senatori. Il bicameralismo paritario può essere superato mantenendo il carattere elettivo, come l’esperienza di molti paesi ampiamente dimostra. L’obiettivo vero è invece proprio l’asservimento delle assemblee elettive all’esecutivo e al leader, e la riduzione degli spazi di democrazia e di partecipazione. A questo sono funzionali il sistema elettorale col suo megapremio di maggioranza al singolo partito e il ballottaggio, e la riforma costituzionale. A questo fine, un ectoplasma di senato è un ottimo risultato. E non dimentichiamo la maggiore difficoltà di ricorso al referendum popolare. A cosa serve tutto questo se non a zittire il dissenso, per portare avanti politiche che un tempo avremmo definito antipopolari, e che oggi per alcuni recano il segno della modernità?
Quindi, lasciamo in pace il «nostro popolo». Non sarà riconquistato con appelli sentimentali, ma solo difendendo gli spazi di democrazia che ad esso possono dare voce. Si combatta dunque fino in fondo per un senato genuinamente elettivo. Questo è oggi il terreno di scontro, e le invenzioni di Renzi lasciamole a lui. Anzi, non vorremmo che qualcuno ce lo copiasse. Brevettiamolo, e mettiamolo sul mercato.
Noi stiamo con Syriza e Alexis Tsipras. Perché la loro lotta contro l’austerità e per cambiare radicalmente l’Europa è la nostra lotta. Se il 20 settembre Syriza sconfiggerà il fronte che vuole riportare la Grecia ai tempi della vergogna e della subalternità, sarà il segnale che la breccia aperta il 25 gennaio rimane aperta. Se non riusciranno a cancellare l’unico governo veramente democratico e di sinistra che si oppone al dogma neoliberista sul continente europeo, vorrà dire che la lotta può continuare. Che il progetto dell’oligarchia che guida l’Unione Europea non è passato.
In molti in Europa sperano nella fine del governo Tsipras e di Syriza. Sono le stesse forze che in questi mesi hanno fatto di tutto per farlo cadere o per cacciare tout court la Grecia dall'Europa. Contro queste forze Tsipras, il suo governo e il popolo greco hanno ingaggiato una battaglia durissima. In completa solitudine. Atene, è stato detto, è stata lasciata sola “come Praga nel ‘68”. Non solo le tradizionali forze di destra, ma la socialdemocrazia e gran parte dei socialisti europei si sono voltati dall’altra parte, e in molti casi si sono schierati contro. Ha pesato nello scontro anche la debolezza dei movimenti sociali, che non hanno fatto sentire in modo incisivo ed efficace la loro solidarietà alla Grecia come sarebbe stato necessario.
L'Europa è stato il luogo del compromesso sociale più avanzato e del migliore welfare state. Ora è divenuta un avamposto della globalizzazione neoliberista. Qui sta la nostra sconfitta. Qui le ragioni della ripartenza. Il grande merito di Tsipras è stato di denunciare questi poteri e questo stato di cose e di lanciare una lotta di liberazione della Grecia e dell'Europa, insieme. Per cinque mesi ha difeso in tutti i modi possibili il proprio popolo e il proprio Paese. Con il Referendum ha mostrato a tutti che il popolo greco sosteneva il proprio governo, che per liberarsene bisognava cacciare la Grecia dall’Europa.
Dopo la sofferta conclusione del negoziato Tsipras ha espresso un giudizio chiaro e severo del compromesso raggiunto. Lungi dal far propria la filosofia dell'avversario o l'idea che non esista alternativa allo stato di cose esistenti ha parlato di strade nuove da inventare col conflitto. Ha escluso l'uscita dall'Euro che non stava nei programmi votati dal popolo e che nella condizione data avrebbe rappresentato in sostanza pagare stipendi e pensioni in dracme e debiti in euro, con conseguenze disastrose. Senza nessuna indulgenza per il compromesso fatto occorre riconoscere che è stato posto un freno all'idea di una Europa tedesca ben rappresentata dal volto arcigno di Wolfgang Schaeuble, aprendo per altro contraddizioni significative e globali contro questo progetto, all'inizio impensabili nello schieramento neoliberista a livello europeo e internazionale. E che si è imposta la discussione sul debito, divenuta ora assai più concreta. Soprattutto sia la Grecia e che l'Europa hanno più tempo. Non è un caso che sia cresciuta la sintonia tra Tsipras e Iglesias facendo giustizia di troppo facili e strumentali analisi sulle differenze tra Podemos e Syriza; e che alla speranza spagnola si siano aggiunte le nuove opportunità in Irlanda e in Inghilterra con Corbyn.
In Grecia, d’altra parte, con coerenza Tsipras ha escluso ogni compromesso con i responsabili della rovina del Paese: popolari e socialisti, neppure a fronte della scelta effettuata da forze che hanno lasciato Syriza. Si chiede al popolo un giudizio su ciò che si è fatto e un nuovo mandato per la nuova fase, per continuare la lotta contro la austerità e per cambiare l'Europa.
Su questa prospettiva e questo terreno è nata l'Altra Europa con Tsipras. Non a caso ci siamo chiamati così, per connessione con un percorso di lotta e di cambiamento. Punto essenziale, indicato con chiarezza sia dall'appello iniziale che dal programma con cui siamo andati alle elezioni europee del 2014. In entrambi la lotta per cambiare l'Europa non viene delegata alla uscita da una moneta unica che potrebbe avere conseguenze tragiche, ma al cambiamento dei rapporti di forza sociali e politici dello scenario europeo considerato il vero terreno dello scontro e della ricostruzione della democrazia e dei soggetti di cambiamento.
Troppo poco abbiamo fatto in Italia perché la battaglia della Grecia e di Tsipras non rimanesse isolata. Per questo L’Altra Europa con Tsipras è impegnata perché in Italia nasca al più presto e si affermi una forza alternativa della sinistra che, insieme a tutte le forze della sinistra di alternativa europee, costituisca un punto di riferimento alle lotte, ai movimenti, alle battaglie per cambiare l’Europa.
Siamo solidali e vicini più che mai a Syriza, consapevoli del travaglio che la ha attraversata in un momento cosi delicato e drammatico e dell’importanza dell’unità, testimoniata anche da quelle compagne e quei compagni che, pur mantenendo posizioni critiche rispetto alle scelte del governo, hanno deciso di restare dentro Syriza per portare il loro contributo alla vittoria elettorale. Con questo spirito continueremo a ricercare la più larga unità di tutte le forze che lottano in Europa e in Grecia contro l'austerità lavorando per evitare ad ogni costo “guerre civili a sinistra”. Con la stessa coerenza con cui abbiamo auspicato l'unità di Syriza, siamo convinti che una nuova vittoria di Tsipras e di Syriza il 20 settembre aiuterà la lotta di tutti a continuare. Non solo ce la auguriamo, saremo in campo per dare tutto il nostro sostegno. In Italia, offrendo la più ampia informazione e continuando la battaglia contro le posizioni che insistendo sull'austerità portano il progetto europeo all'implosione. E partecipando numerosi alla conclusione della campagna elettorale di Syriza in Grecia, alla vigilia del voto del 20 settembre.
Riferimenti
Il documento è ripreso dal sito L'altra Europa con Tsipras. In eddyburg sono raccolti numerosi articoli sul coraggioso tentativo della Grecia di Tsipras di avviare la trasformazione dell'Unione europea e di costruire un'Europa finalizzata alle esigenze e agli interessi delle persone e non al maggior potere del financapitalismo (a una visione dell'Europa conforme al "manifesto di Ventotene" e non agli interessi nazionalistici dei singoli stati) è raggiungibile digitando sul "cerca" in cima a ogni pagina la parola "Tsipras"
I quattro fattori che hanno indotto Angela Merkel ad aprire una breccia nella ferrea barriera sella Fortezza Europa. Non centa il sentimento.
Il manifesto, 8 settembre 2015
Può cambiare tutto nel giro di poche settimane o addirittura di pochi giorni? La stampa europea fa mostra di crederci. L’egemonia tedesca sull’Europa sembra essersi trasformata d’incanto in una luminosa guida morale. I «valori della cultura europea» mettono in ombra quelli della borsa, la responsabilità storica prende il sopravvento su quella contabile, dall’ultimo rifugiato siriano fino alla cancelliera Merkel tutti insieme intonano l’«Inno alla Gioia». Per qualcuno la «pallida madre» avrebbe addirittura rispolverato lo spirito di Hoelderlin e Heine. L’esagerazione è il pane quotidiano dei media. Eppure qualcosa di nuovo è accaduto.
Berlino, sia pure con molti distinguo di cui non è ancora chiara l’entità, ha rimesso in questione una delle sue creature più care: quell’accordo di Dublino che costringeva i richiedenti asilo a rimanere nel primo paese di approdo. Ha chiamato a un grande sforzo nazionale per fronteggiare l’emergenza dei profughi, ha dichiarato di voler investire sei miliardi dei suoi preziosi risparmi per la sistemazione e l’integrazione dei nuovi arrivati, indirizza l’Unione europea verso politiche responsabili di apertura e di accoglienza.
Questa correzione di rotta è stata determinata da quattro fattori ben più razionali che emotivi. Il primo, decisivo, è la consapevolezza che la pressione migratoria era ormai inarrestabile. Il governo di Berlino ha dovuto infine prendere atto che non esiste barriera materiale o legislativa in grado di arginare la moltitudine in movimento.
Si tratta, dunque, di una vittoria dei migranti, ottenuta a carissimo prezzo, di un risultato della loro straordinaria determinazione. Le frontiere non sono state semplicemente aperte dalla benevolenza dei «padroni di casa», ma travolte da decine di migliaia di persone che esercitavano, prima che qualcuno glielo avesse riconosciuto, il loro «diritto di fuga» e rivendicavano la libertà di movimento. Inoltre bisognava fare in fretta poiché tutto poteva accadere in quell’Ungheria dai tratti sempre più marcatamente fascisti che l’Europa tollera nel suo seno. Aprire la frontiera più che una scelta è stata una necessità.
Il secondo elemento è la scoperta che i sentimenti xenofobi e razzisti non sono affatto maggioritari e neanche così ampiamente diffusi come si credeva. La straordinaria mobilitazione spontanea a sostegno dei rifugiati da Vienna a Monaco a Berlino ha dissipato le ombre disseminate in Germania dai patrioti antislamici di Pegida (ridotti a sparuti gruppuscoli assediati in ogni città tedesca) e dai nazionalisti solo un po’ meno impresentabili di Alternative fuer Deutschland. Di conseguenza il timore che l’apertura agli stranieri dovesse comportare un cospicuo costo elettorale a favore della destra è stato fortemente ridimensionato. Alla fine potrebbe addirittura tradursi in un guadagno per la Cdu di Angela Merkel.
Il terzo fattore era la necessità di restaurare l’immagine della Germania in Europa, grandemente danneggiata dalla gestione della crisi greca. Il paese non doveva più essere identificato con il volto arcigno della Bundesbank. Tuttavia, nel sottolineare più volte il fatto che la Germania è un paese forte e sano, Angela Merkel lascia intendere che solo l’esercizio ordinario del rigore permette l’esercizio straordinario della solidarietà. Severa o sollecita che sia la leadership continua risiedere a Berlino. In ogni modo l’operazione di immagine, a giudicare dagli osanna che si levano in mezza Europa e tra le file più fotografate dei profughi, è perfettamente riuscita. Senza peraltro dovere ricorrere ai proclami bellici di Londra e di Parigi.
Il quarto fattore è la consapevolezza del fatto che, debitamente governata, l’immigrazione, se a breve termine rappresenta un costo, sul lungo periodo costituisce una formidabile risorsa, soprattutto per un modello economico come quello tedesco. Si tratta allora di mettere a punto gli strumenti e i filtri necessari a questo governo e dunque un diritto di asilo europeo secondo schemi funzionali alla politica migratoria della Bundesrepublik.
Il lavoro è appena cominciato e c’è intanto da fare i conti con i nazionalismi più o meno xenofobi dell’Est europeo lungamente coccolati da Berlino. Ma, soprattutto, ci sono da stabilire i criteri di ammissione e di esclusione. In un primo momento sembrava che le porte della Germania si dovessero aprire ai soli siriani. Una discriminazione rispetto ad altre aree di conflitto armato non ammessa dalla Costituzione tedesca. Tuttavia non è ancora chiaro chi avrà diritto allo status di rifugiato. Di certo non chi proviene dai paesi balcanici (Albania, Serbia, Kosovo, Bosnia) dichiarati sicuri. Il criterio è semplice: una volta dichiarato un paese «sicuro» il rimpatrio sarà immediato. Ma questa definizione si presta alle più arbitrarie e interessate semplificazioni. Tanto più che in molti paesi la «sicurezza» garantita alla maggioranza, spesso non lo è altrettanto per le minoranze.
C’è da scommettere che, se questo sarà il discrimine, il mondo si scoprirà presto molto più sicuro di quanto non immaginasse.
E, tuttavia, una disponibilità al cambiamento, al rinnovamento delle società europee con il contributo dei migranti sembra essersi ormai diffuso tra i cittadini del Vecchio Continente e trova una qualche eco perfino nelle parole della Cancelliera alquanto inebriata dal suo stesso, inatteso, successo di pubblico. Una breccia è stata aperta su entrambi i lati della frontiera, una breccia che investe l’intero spazio pubblico europeo e che, su questa scala, deve essere allargata.
Proviamo a guardarci da fuori: 110mila italiani sono emigrati nel 2014, oltre il doppio dei richiedenti asilo nel nostro paese. Non ci hanno cacciati, e neppure trattati come molti di noi trattano i nostri simmetrici "migranti economici" .
La Repubblica, 8 settembre 2015
VORREMMO raccontare una storia di migranti, partendo dai dati invece che dalle immagini. Sarà meno suggestiva, ma è accurata. I dati che raccontiamo misurano flussi e caratteristiche delle persone che attraversano i confini dell’Italia. In questa storia più di 100mila persone hanno lasciato il loro paese per cercare lavoro e fortuna in un altro nel 2014: più del doppio rispetto al 2010. Di queste più della metà è tra i 25 e i 44 anni di età, il periodo più produttivo della vita lavorativa. La maggior parte sono migranti per ragioni economiche e spesso lasciano situazioni di scarse prospettive. Alcuni di loro saranno professionisti e scienziati, altri camerieri e cuochi.
Questi migranti che attraversano i confini del nostro paese ogni anno potrebbero provocare grande opposizione nelle aree che li ospitano. Se avessero viaggiato su barche ne avremmo vista una alla settimana con più di 2mila persone tutto l’anno. Ma non abbiamo visto nulla e quindi per noi non esistono. I dati da noi descritti sono relativi agli italiani che hanno lasciato l’Italia per andare a risiedere all’estero. Sono stati ottenuti dall’Anagrafe degli Italiani residenti all’estero (Aire). Anche se tutti i richiedenti asilo in Italia trovassero un modo per rimanervi, sarebbero meno della metà degli italiani che partono.
Non vogliamo equiparare le condizioni di emergenza reale dei migranti del Nord Africa a quella degli italiani che emigrano per scelta e in sicurezza. Tuttavia comparare questi flussi stimola due importanti riflessioni. Una ha a che fare con l’impatto economico dei migranti e l’altra riguarda la
necessità di cambiare il modo in cui l’Italia considera la collaborazione con il resto d’Europa.
L’enfasi sui potenziali costi economici degli immigrati sollevata in questi giorni è mal riposta. La perdita fra il 2010 e il 2014 di 200mila giovani, dinamici e produttivi, il cui contributo all’economia italiana sarebbe grandissimo, è costo economico molto più significativo rispetto all’arrivo dei rifugiati. In un mondo integrato è fisiologico che le persone migrino tra paesi. In tale prospettiva i giovani immigrati sono potenzialmente una risorsa e potrebbero rimpiazzare i tantissimi italiani in partenza. È stato così in Irlanda dove la grande emigrazione (verso l’Inghilterra e gli Stati Uniti) è stata controbilanciata da grande immigrazione (in gran parte dall’Est Europa) che ha stimolato il suo boom economico (tra il 2000 e il 2010).
Questo necessita di politiche di immigrazione lungimiranti, basate sulle opportunità di lavoro in certi settori e sulla previsione e gestione di flussi futuri. Inoltre, riforme del mercato del lavoro che introducano più competizione e flessibilità, aiuterebbero anche l’immigrazione a essere motore di occupazione e crescita. Vari studi mostrano che negli Stati Uniti gli immigrati, anche quelli con poca istruzione, stimolano la crescita economica con il loro lavoro e i loro consumi. Nei prossimi decenni molti abitanti di vari paesi dell’Africa e del Medio Oriente vorranno emigrare. Potremmo incentivarne un numero ragionevole a farlo, legalmente, come studenti, lavoratori e imprenditori, stimolando l’economia, creando connessioni tra paesi e infrastrutture che possono servire anche a gestire emergenze e rimpatriare chi non è legale.
La seconda riflessione evidenzia l’ingenerosità con cui l’Italia critica il resto d’Europa per la mancanza di aiuti nella gestione della “crisi dei migranti”. L’Italia non ha accettato negli ultimi anni che un minimo numero di rifugiati tra i richiedenti asilo che arrivavano ai loro confini. La Germania è il paese europeo che ha accolto più rifugiati, arrivando a più di 30mila nel 2014. L’Italia non ne ha mai accettati più di 3.500 all’anno. Allo stesso tempo, il resto d’Europa ha accolto negli ultimi due decenni centinaia di migliaia di nostri connazionali. Secondo l’Aire sono 873mila gli italiani migrati nel resto d’Europa dal 1992 a oggi e tuttora residenti all’estero. Di essi 221mila sono in Germania (il paese che ne accoglie di più), 120mila in Francia e in Regno Unito.
Il movimento internazionale di persone va visto come motore di crescita e sviluppo. L’immigrazione in Italia andrebbe governata strategicamente come risorsa per la crescita invece che affrontata come emergenza. Ma per sfruttare i potenziali benefici dell’immigrazione ci vuole pianificazione dei flussi, accesso al lavoro, incentivi corretti, e migliori politiche di immigrazione. Bisognerebbe ammettere legalmente un ragionevole numero di immigrati e dargli le stesse opportunità che vengono date agli italiani che emigrano, e per il cui successo economico e carriera dovremmo essere grati al resto d’Europa.
Massimo Anelli insegna alla Bocconi, Giovanni Peri è un economista della University of California