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«Nessuno poteva aspettarselo, ma da un’azienda e da un sistema-Paese privo di strutture criminali è nato un sofisticato sistema di truffa organizzata». L'intervista a Thomas Schmid e il reportage dalla “città dell'automobile” di Andrea Tarquini.

La Repubblica, 23 settembre 2015 (m.p.r.)

"IL NOSTRO GOVERNO DEVE SENTIRSI CORRESPONSABILE CON LA SUA GOLDEN SHARE"

Intervista a Thomas Schmid di Andrea Tarquini

«È un colpo durissimo a un simbolo della Germania, e senza giudizi morali mi rammenta come è nata Volkswagen, azienda dal passato non del tutto incolpevole: nacque come idea del Reich, “comunità di lavoro”». Thomas Schmid, ex direttore della “Welt” ed editorialista di punta dei media tedeschi, non nasconde il suo allarmato sconcerto.

Che peso ha lo scandalo per l’immagine del sistema Germania?
«Ha un peso devastante. Crea problemi anche alla costruzione dell’Europa politica. Per amara ironia, mi viene in mente che poco lontano da Wolfsburg nacque Hoffmann von Fallersleben, autore dei versi del nostro inno nazionale. Forse nessun’altra azienda come la Volkswagen è stata il simbolo della rinascita postbellica dell’industria tedesca: un’industria attendibile, seria, sinonimo di qualità e di concertazione, in una giovane ma forte democrazia. Adesso riparare il danno sarà difficilissimo. Nessuno poteva aspettarselo, ma da un’azienda e da un sistema-Paese privo di strutture criminali è nato un sofisticato sistema di truffa organizzata. Anzi, proprio dall’azienda simbolo della tecnica attendibile e dell’uso responsabile, ecologico, di ogni tecnologia. Scelta tanto più folle in quanto anche prima dello scandalo, Vw aveva difficoltà sul mercato Usa».

E simbolo anche della concertazione: c’è del marcio anche là?
«La concertazione è un cardine del sistema tedesco, ma in passato recente, proprio in Volkswagen si è visto che può anche diventare un po’ complicità, fino a viaggi di piacere di ogni tipo in Sudamerica pagati dall’azienda. La concertazione è valore costitutivo giusto nello spirito della nostra Costituzione. Diverso se riprende l’idea di comunità nazionale e di lavoro che fu propria del nazionalsocialismo ».

La macchia nera del caso Volkswagen è contagiosa per tutto il sistema Germania, anche per le altre grandi aziende global player tedesche?
«Al momento non ancora, o non tanto. Però deve essere fatta piena luce al più presto. È agghiacciante per noi tedeschi doversi domandare perché una tale energia criminale sia nata in un’azienda simbolo del nostro Paese».

Volkswagen è azienda semipubblica: che conseguenze?
«Serie. Appunto, lo scandalo non ha colpito i big privati come Bmw o Mercedes. Il potere politico è presente con la sua golden share, deve sentirsi corresponsabile. Anche del fatto che l’obiettivo di divenire numero uno mondiale sorpassando Gm e Toyota, iperambizioso anche prima, oggi sembra drammaticamente più lontano» . (a.t.)

RABBIA DEGLI OPERAI E FAIDA TRA I MANAGER.
ADDIO ALLA FABBRICA-FELIX
di Andrea Tarquini

Occhi bassi, musi grigi, mugugni che escono appena da bocche chiuse. Nessun capannello di tute blu che scherzi sul calcio o sugli ultimi amori, niente chiacchierate sulle prossime vacanze. Non è un giorno come un altro, qui al cancello numero 17 della gigantesca fabbrica in mattoni rossi che domina Wolfsburg, e con capannoni enormi tipo Detroit un tempo, palazzi uffici e ciminiere, sembra una Mirafiori infinita che sotto le basse nuvole grigie della fredda pianura di Bassa Sassonia si perde oltre l’orizzonte. E’triste, fa male come un trauma collettivo, il day after degli operai Volkswagen, fino a ieri i ‘Cipputi’ più felici del mondo. Ma se loro piangono, il padrone non ride: ai piani alti del cubo monolito a sedici piani col cerchio, la V e la W che lo sormontano, è lotta a coltello per il potere. Tra poche ore potremmo sapere chi è il vincitore, manovre dietro le quinte si susseguono, e il potere politico è qualcosa di più che non solo spettatore interessato. Il padrone è anche lui: la Bassa Sassonia, con la sua golden share, ha sempre bloccato ogni scalata ostile al colosso ora ferito dalla sua colpa.

Wolfsburg. Il giorno dopo: qui nella ‘Golf city’, l’incredibile scandalo della truffa col software che falsava i dati d’inquinamento, tentata con energia criminale e ingenuità pazzesche contro le iperattente authorities americane, e su undici milioni di vetture, «ha messo sotto shock una città intera»,, mi dice Herr Heinz, il collega della Wolfsburger Allgemeine che narra ogni giorno le cronache della fabbrica attorno a cui nacque una città moderna da brumosi pascoli e campagne. Passeggiamo insieme davanti al cancello numero 17, ascoltiamo operai e operaie sotto shock. Teste piegate in giù, qualcuno ha la voce roca e gli occhi lucidi. «Sedici miliardi di multa », mormora Ursula, da anni alla catena di montaggio, madre di famiglia, «temo che quei troppi costi schiacceranno la Volkswagen, la spingeranno a risparmiare tagliando posti di lavoro e rinunciando a nuovi modelli, quindi al nostro futuro».
Clima pesante, lo cogli in ogni angolo dell’unica città operaia d’Europa che la ricchezza del gigante globale e la forza, difesa dall’IgMetall, dei suoi dipendenti, ha reso negli ultimi dieci anni centro abitato borghese: dal centro culturale dove di solito i giovani universitari del posto si contendono i biglietti di concerti rock al museo d’arte con esposizioni itineranti di livello mondiale, dalle strade pedonali tutte boutiques, vinerie italiane e agenzie di viaggio alla sala concerti che sembra una Filarmonica di Berlino in miniatura. «Vedimi dice Ingo, caporeparto alle presse carrozzeria - da dieci anni almeno la città è decollata con i successi di Volkswagen, per questo adesso abbiamo paura, per noi e per i nostri figli».
Breaking news seguite dagli operai più giovani sugli smartphones accesi appena usciti dal “diciassette”: l’ad Winterkorn si scusa ma vuole restare… «Miliardi e miliardi persi in Borsa». “Ma che diavolo», sbotta il venticinquenne Wolfgang, tuta blu da pochi anni dopo lunghi e duri corsi di formazione, «noi operai di Wolfsburg lavoriamo bene, siamo simbolo di qualità attendibile, siamo gente seria, capisci come avendoci fatto montare quei trucchi elettronici a nostra insaputa hanno mostrato disprezzo per noi? Ci sentiamo malissimo, beffati e imbrogliati come chi ha comprato quelle auto col trucco nascosto dentro. Mio nonno montava i Maggiolini, mio padre le prime Golf, io i modelli attuali…quel rapporto di fiducia tra operai e l’azienda, tramandato da generazioni, ora è rotto. Winterkorn deve andarsene, ma del futuro non ho più certezza».
Clima cupo, nella ‘Golf City’ a un’ora d’alta velocità da Berlino che da anni era una piacevole, vivace cittadina allegra col volto e l’animo rivolto ottimista al futuro. E l’attesa della riunione, tra poche ore, del comitato ristretto del Consiglio di sorveglianza, getta i settantamila abitanti o giù di lì, glie lo vedi in volto a tutti, in una tensione al calor bianco, sull’orlo d’una crisi di nervi loro abituati alla tranquilla società di consensi e compromessi. Ai chioschi, alla stazione, negli shopping center, i titoli d’apertura di prima dei grandi quotidiani del mattino – “La Volkswagen vacilla”(Die Welt), “Tonfo in Borsa Vw, pericolo europeo” (Faz), esasperano la Angst, l’angoscia collettiva.
Tra poche ore, la resa dei conti. Un nuovo scontro al vertice, dopo quello che due mesi fa Winterkorn vinse contro Ferdinand Piech, il vecchio patriarca. «Ogni esito è aperto, ma l’attuale ad di Porsche, Matthias Mueller, appare favorito», mi assicura il collega del giornale locale. Il potente capo del Consiglio di fabbrica, Bernd Osterloh, in una lettera aperta agli operai, ha chiesto «chiarezza totale, e che i responsabili paghino». E nell’attesa ansiosa, molti ripensano in un flash back agli ultimi mesi: forse Piech aveva aperto lo scontro con Winterkorn, ritirandogli la fiducia, perché sapeva del trucco criminale elettronico montato sulle auto? E perché mai, mi fa notare Andreas Schweiger delle Wolfsburger Nachrichten, al suo ultimo discorso al salone dell’auto di Francoforte Winterkorn, oratore piatto ma di solito sempre sicuro di sé, quasi balbettava e biascicava o storpiava parole? Forse un timore lo rendeva nervoso? Così la bella Wolfsburg va a dormire, con tanti interrogativi tremendi, in uno shock che unisce tutti, e sentendosi improvvisamente derubata d’un futuro di speranza.
I motivi per cui sarebbe necessario per l'italia uscire dall'a moneta unica europea (e sarebbe anzi inevitabile) e i modi in cui potrebbe accadere.

La Repubblica, 22 settembre 2015

L’ITALIA ha due buoni motivi per uscire dall’euro, un tema di cui si parla ormai in tutta Europa (Germania compresa). Il primo è che, sovrapponendosi alle debolezze strutturali della nostra economia, l’euro si è rivelato una camicia di forza idonea solo a comprimere i salari, peggiorare le condizioni di lavoro, tagliare la spesa per la protezione sociale, soffocare la ricerca, gli investimenti e l’innovazione tecnologica e, alla fine, rendere impossibile qualsiasi politica progressista.

Risultato: otto anni di recessione, che hanno provocato la perdita di quasi 300 miliardi di Pil al 2014 rispetto alle previsioni del 2007; 25% di produzione industriale in meno, un mercato del lavoro di cui è difficile dire quale sia l’aspetto peggiore fra tre milioni di disoccupati, tre-quattro di precari e due o tre di occupati in nero. Grazie ai quali l’Italia detiene il primato dell’economia sommersa tra i Paesi sviluppati, pari al 27% del Pil e circa 200 miliardi di redditi non dichiarati. I costi economici e sociali dell’euro superano i vantaggi.

Il secondo motivo per uscire dall’euro è l’eccessivo ammontare del debito pubblico, il che rende di fatto impossibile per l’Italia far fronte agli oneri previsti dal cosiddetto Fiscal compact e a una delle clausole fondamentali dell’Unione economica e monetaria. Il Fiscal compact prevede infatti che in vent’anni dal 2016 il rapporto debito/ Pil, che si aggira oggi sul 138%, dovrebbe scendere al 60, limite obbligatorio per far parte dell’eurozona. In tale periodo detto rapporto dovrebbe quindi scendere di 78 punti, cioè 3,9 l’anno. In termini assoluti si dovrebbe passare dal rapporto 2200/1580 miliardi di oggi a 948/1580 nel 2035 (da convertire nel rispettivo valore del ventesimo anno). Vi sono solo due modi di raggiungere tale risultato, e infinite combinazioni intermedie che però non lo cambiano: o il Pil cresce di oltre il 5% l’anno per un ventennio, o il debito pubblico scende di oltre 3 punti percentuali l’anno. Tenuto conto che le ipotesi più ottimistiche di crescita del Pil per i prossimi anni si collocano tra l’1 e il 2% l’anno, e che il servizio del debito — 95 miliardi nel 2015 — continuerà a ingoiare decine di miliardi l’anno, ambedue le ipotesi non sono concepibili. In altre parole è impossibile che l’Italia riesca a rispettare il Fiscal compact. L’Italia si ritrova così nella condizione degli Stati membri della Ue che attendono di entrare nell’eurozona perché debbono soddisfare alcune clausole previste dal trattato sull’Unione economica e monetaria. Come dire che l’Italia è tecnicamente già fuori dall’eurozona, poiché non è in condizione di soddisfare a una delle clausole chiave: un rapporto debito pubblico/Pil non superiore al 60%. Tale situazione dovrebbe essere invocata per recedere dall’eurozona.

Non sono necessari sfracelli per arrivare a tanto. Basta far ricorso all’articolo 50 del Trattatto sull’Unione europea, comprendente le modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona il 1° gennaio 2009. Esso stabilisce che “ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione (paragrafo 1)”. Il paragrafo 2 precisa quali vie il procedimento di recesso deve seguire. Lo Stato che decide di recedere notifica l’intenzione al Consiglio europeo. L’Unione negozia e conclude un accordo sulle modalità del recesso. L’accordo è concluso dal Consiglio a nome dell’Unione.

Dalla lettura dell’art. 50 si possono trarre alcune considerazioni: a) la recessione avviene dopo un negoziato; b) il negoziato è condotto sotto l’autorità del Consiglio europeo, organo politico; c) è dato presumere che quando uno Stato notifica l’intenzione di recedere, determinate misure tecniche, tipo un blocco temporaneo all’esportazione di capitali dallo Stato recedente, siano già state predisposte in modo riservato.

Mentre l’art. 50 ha posto fine all’idea che la partecipazione all’Unione sia per sempre irrevocabile per vie legali, qualche dubbio sussiste sulla possibilità di recedere dalla Uem — la veste giuridica dell’euro — senza uscire dalla Ue, poiché l’articolo in questione menziona soltanto questa. Peraltro la letteratura giuridica ha ormai sciolto ogni dubbio: poiché il trattato sulla Uem è soltanto una parte della struttura giuridica della Ue — esistono Stati membri della Ue ma non dell’eurozona — è arduo negare il principio per cui uno Stato membro possa recedere dalla Uem ma non dalla Ue. Per cui il negoziato per l’uscita dall’euro dovrebbe aprirsi con la dichiarazione di voler restare nella Ue. I costi per la recessione dalla Ue sarebbero superiori ai costi di una sola uscita dall’eurozona. Uno Stato che uscisse oggi dall’Ue si troverebbe dinanzi ad altri 27 Stati, ciascuno dei quali potrebbe imporgli ogni sorta di restrizioni al commercio, oneri doganali, aumenti del prezzo di beni e servizi. L’impossibilità di accedere ai mercati Ue costringerebbe uno Stato ad affrontare costi di entità paurosa.

Resta da chiedersi dove stia il governo capace di condurre un negoziato per la recessione dell’Italia dall’eurozona in base all’art. 50 del Trattato sulla Ue. L’attuale, come quasi tutti i precedenti, è un esecutore dei dettati di Bruxelles, Francoforte, Berlino. Chiedergli di aprire un negoziato per uscire dall’euro non ha senso. Si può coltivare una speranza. Che si arrivi a nuove elezioni, dove ciò che significa recedere dall’euro in termini di ritorno della politica a temi quali la piena occupazione, la politica industriale, la difesa dello stato sociale, una società meno disuguale, sia al centro del programma elettorale di qualche emergente formazione politica. Prima di cedere alla disperazione, bisogna pur credere di poter fare qualcosa.

Dove la sinistra non rifiuta la sua storia e i suoi valori (come invece è successo nell'Italia di Renzi) il suo abbraccio con il neoliberismo è mortale.

La Repubblica, 21 settembre 2015

UNO degli argomenti più intriganti suggeriti dalla vittoria di Jeremy Corbyn alla leadership del Labour Party è il seguente: la sinistra ha bruciato il suo centro consegnando il governo ai Tory per i prossimi anni. Questa diagnosi può essere interpretata in due modi diversi. Il primo è quello che si ricava dalle parole del capo storico del centrismo laburista, Tony Blair, il quale con malcelato egocentrismo ha identificato l’elezione di Corbyn con una reazione contro di lui e ha preso la penna per scongiurare i laburisti a “ detestarlo” liberamente ma a confermare la sua linea centrista non votando per Corbyn. Detestato per la sua entusiasta partecipazione alla guerra di Bush in Iraq, il fondatore del New Labour non ha fatto che rafforzare la Corbymania. E il centrismo ha alzato un cordone sanitario intorno al nuovo leader.

Il caso inglese è perfino più radicale di quello spagnolo e greco perchè qui la sinistra ha ripreso le redini del suo partito tradizionale, scuotendone l’identità centrista. La quale, non il radicalismo della sinistra, è all’origine della crisi del Labour.

Posizionandosi al centro, il Labour di Miliband ha dimostrato di essere sostituibile con i conservatori. Competere per il centro non è una politica saggia quando le politiche centriste sono a tutti gli effetti conservatrici. Ecco perchè il cordone sanitario del centrismo nei confronti di Corbyn suggerisce un’altra lettura all’argomento per cui la sinistra ha bruciato il suo centro.

La ribellione contro il centrismo è un fenomeno non confinato all’Europa.

Bernie Sanders che sfida Hillary Clinton alle prossime primarie democratiche, si definisce socialista e conquista l’audience nel popolarissimo talk-show di Colbert. I sondaggi lo danno vincente in New Hampshire e Iowa anche se perderà senz’ombra di dubbio la nomination. Sanders come Corbyn punta il dito contro un tipo di moderatismo che è diventato un abito troppo stretto per i democratici, spronati dallo stesso moderato Barack Obama che, non va dimenticato, ha portato alla Casa Bianca una retorica di sinistra per riuscire a imporre la riforma sanitaria e le politiche a favore della classe media.

Quindi c’è un centrismo di sinistra. E quando viene praticato con determinazione riesce a contenere la sinistra più radicale e a essere una buona alternativa ai conservatori. È questo il centrismo che i partiti di sinistra hanno bruciato.

Il problema è stato ben individuato da Paul Krugman. Commentando la vittoria di Corbyn ha scritto che essa «non è legata a un’improvvisa svolta a sinistra da parte della base laburista, ma ha a che fare soprattutto con lo strano e triste crollo morale e intellettuale dei moderati del Labour»; i candidati moderati che sfidavano Corbyn non avevano altro da offrire che il sostegno alle politiche di austerità del governo conservatore. Il “crollo morale” dei moderati interni alla sinistra è il fattore da considerare dunque. La sinistra sembra non avere più un centro suo, scegliendo di adottare quello proprio della destra.

Il centro al singolare è una categoria delle meno felici in politica perchè esso non è un’entità che sta al di sopra delle parti. È invece una pratica di moderazione rispetto a posizioni che sono specifiche e ideologicamente diverse. Il centro della sinistra non è lo stesso di quello della destra, perchè non consiste nell’annacquare con politiche di destra quelle di sinistra, per esempio limitando il diritto di sciopero o adottando politiche fiscali che favoriscono la casa invece che il lavoro.

La sinistra ha un suo centro e la sua erosione e scomparsa è all’origine delle due possibili risposte messe in campo finora: una risposta radicale nei partiti di sinistra che sono all’opposizione (da Podemos al Labour) e una risposta destrinista o ibridata con il centro della destra nei partiti di sinistra che sono al governo. Entrambi sono l’esito del “crollo morale” del centrismo di sinistra, e all’origine tanto del radicalismo quanto del destrinismo.

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Una differenza che una volta era essenziale: «la sinistra ha promosso il welfare, lo sostiene e lo vuole finanziare, e ritiene che debba essere gestito direttamente dallo Stato, e per questo servono le tasse. La destra è molto più tiepida: preferisce un welfare affidato al mercato».

La Repubblica, 21 settembre 2015

CARO direttore, un dibattito alquanto confuso, e in cui sembra assente ogni consapevolezza storica e culturale, si sta svolgendo sul problema delle “tasse”. Si è detto e scritto che la sinistra italiana rappresenta il “partito delle tasse”, orientato al “tax and spend”, e cioè allo spreco e alla persecuzione dei contribuenti. Ma si tratta ovviamente di una deformazione caricaturale e polemica di questioni piuttosto serie.

Infatti la questione fiscale è stata una discriminante fondamentale della contrapposizione tra destra e sinistra, liberali e socialisti (e liberal-democratici), tra liberisti e keynesiani, capitalisti e sindacati, nell’intero corso del ‘900, e lo è ancora.

Del resto, se si guarda agli Stati Uniti, Obama è attaccato dai repubblicani del tea-party proprio sulle tasse; ai suoi tempi il labour di Tony Blair era contestato dai conservatori per lo stesso motivo, ed in effetti quei governi aumentarono la pressione fiscale in Inghilterra di un paio di punti di Pil.

La contrapposizione riguarda la funzione pubblica nell’economia, e quindi soprattutto il sistema di : la sinistra ha promosso il welfare, lo sostiene e lo vuole finanziare, e ritiene che debba essere gestito direttamente dallo Stato, e per questo servono le tasse. La destra è molto più tiepida: preferisce un welfare affidato al mercato col sostegno indiretto dello Stato, (istruzione privata, sanità privata, fondi pensione) e talvolta è semplicemente contraria.

La sinistra ritiene che una società coesa grazie al sia più efficiente e produttiva per effetto della riduzione dei rischi individuali. La destra ritiene che se si riducono le tasse e la spesa si responsabilizzano gli individui che sono spinti ad accrescere gli sforzi produttivi.

Per la sinistra l’eguaglianza è un obiettivo importante, ed essa è consapevole che le tasse in quanto tali non sono tecnicamente in grado di produrre un effetto perequativo rilevante, mentre un welfare ben costruito è fondamentale per la riduzione delle diseguaglianze: sono infatti le spese per la istruzione, la sanità, la previdenza, il sostegno nei periodi di disoccupazione e per l’assistenza ad assicurare l’effetto redistributivo della finanza pubblica.

Per la destra, invece, le diseguaglianze che si creano sul mercato riflettono in buona misura le differenze di produttività che esistono nel mercato stesso, per cui esse sono giustificabili, anzi funzionali allo sviluppo (salvo la tutela della povertà estrema, per cui è comunque preferibile per la destra il ricorso a meccanismi di elargizione volontaria (di natura caritatevole) fiscalmente incentivati.

Per la sinistra è opportuno che il sistema tributario sia “informato a criteri di progressività”, e quindi occorre tassare più i ricchi che i poveri, più i patrimoni che i redditi, più i capitali che il lavoro, più il reddito che il consumo. In tale contesto la sinistra è storicamente favorevole all’imposta progressiva. Per la destra valgono principi opposti: la tassazione non deve “distorcere” il funzionamento dei mercati, e anzi il sistema fiscale deve agevolare l’attività economica, anche se così facendo si aumentano le diseguaglianze; infatti se i ricchi stanno bene, alla fine anche i poveri ne trarranno benefici. La progressività delle imposte va eliminata a favore di imposte “piatte” (proporzionali).
Ignoranza o menzogna? probabilmente il saldo intreccio tra l'una e l'altra. Ma la questione è sempre la stessa, tragica per chi è nato qui: agli italiani piace cosí.

Il Fatto quotidiano, 18 settembre 2015

Lo sapevate? “Questa riforma è attesa da 70 anni”. L’ha detto Matteo Renzi, che non sembra ma è il presidente del Consiglio e il segretario del Pd, parlando della legge costituzionale in conferenza stampa con il premier lussemburghese Xavier Bettel, che immaginiamo interessatissimo al tema. E l’aveva già detto sempre ieri Maria Elena Boschi, che non sembra ma è il ministro delle Riforme istituzionali, in una spassosa intervista al Corriere: “Sono 70 anni che stiamo aspettando la fine del bicameralismo paritario”.

Chissà quali libri hanno letto o quali sostanze hanno assunto i due somari che tengono in ostaggio la Costituzione, per farsi l’idea che 70 anni fa, cioè nel 1945, subito dopo la Liberazione dal nazifascismo e dalla guerra civile, gli italiani scendessero in strada scandendo slogan contro il bicameralismo paritario e contro il resto della Costituzione due anni prima che questa fosse scritta. Forse non guasterebbe la lettura di un manuale di storia, anche in formato Bignami, o qualche seduta in una comunità di recupero, per insegnare ai due padri ricostituenti qualche rudimento di cultura generale, utilissimo per colmare le loro lacune e risparmiare loro altre scemenze.

Il bicameralismo paritario – Camera e Senato con regole elettorali diverse, ma con funzioni analoghe – fu introdotto dalla Carta approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947, promulgata cinque giorni dopo dal capo dello Stato ed entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Cioè 67 anni e mezzo fa. E si può serenamente escludere che negli anni successivi qualcuno invocasse una riforma della Costituzione appena varata.

Fu negli anni 70-80 che i partiti cominciarono a scaricare sul Parlamento le colpe della loro inconcludenza, corruzione e rissosità, spacciando alla gente l’illusione che eliminando il Senato o privandolo del voto di fiducia l’Italia sarebbe diventata una democrazia efficiente. Ma nessuno abboccò: l’opinione pubblica seguitò a fregarsene bellamente e nessuno versò una sola lacrima dinanzi al naufragio delle orribili riforme costituzionali tentate dalle varie commissioni bicamerali (Bozzi, De Mita-Iotti, D’Alema-Berlusconi). Anche perché i dati parlano chiaro: se certe leggi impiegano tanto a uscire approvate dal Parlamento non è perché ci siano due Camere anziché una e mezza, ma perché da sempre i partiti litigano fra loro, o più spesso al proprio interno.

Quando invece le maggioranze vanno d’accordo, i tempi sono rapidissimi. In media, fra Camera e Senato, 53 giorni per le leggi ordinarie, 46 per i decreti e 88 per le Finanziarie. Solo la loro misera penuria di argomenti può portare Renzi & Boschi a gabellare la loro schiforma per un evento epocale “atteso da 70 anni”. Ma atteso da chi? Secondo l’ul timo sondaggio Ipsos per il Corriere, solo il 3% degli italiani conosce la riforma del Senato “nel dettaglio”, un altro 28% “a grandi linee” e tutti gli altri – la stragrande maggioranza – non ne sanno nulla, per dire con quanta ansia la attendono da 70 anni.

L’unica cosa che tutti hanno capito è che il Senato non sarà più eletto, infatti il 73% vuole continuare a eleggerlo, in piena sintonia con la minoranza Pd e i partiti d’opposizione. Evidentemente Renzi & Boschi frequentano gli unici due o tre squilibrati che non vedono l’ora di non eleggere più i senatori per farli nominare da quelle associazioni per delinquere che sono quasi tutti i consigli regionali, con l’aggiunta dell’immunità parlamentare.

Eppure la bella addormentata nei Boschi delira, sempre sul Corriere, di un non meglio precisato “impegno da mantenere con i cittadini”: e quando mai ha preso quell’impegno, e con quali cittadini, visto che il suo partito arrivò primo alle ultime elezioni del 2013 promettendo di far eleggere direttamente tutti i parlamentari dopo dieci anni di Porcellum? Poi vaneggia di una fantomatica “esigenza di rispettare la data del 15 ottobre” (fissata da chi? e perché non il 15 novembre, o dicembre, o gennaio?) dinanzi all’“Europa” che “ci riconosce spazi finanziari di flessibilità se in cambio facciamo le riforme”: come se la flessibilità sul rapporto deficit-Pil c’entrasse qualcosa col Senato.

Alla fine però la Boschi confessa: “Faccio sogni molto più belli che quello di fare il premier”. Ecco svelato l’arcano. Le boiate che dice e purtroppo scrive nella nuova Costituzione deve avergliele dettate in sogno qualcuno che a noi pare di conoscere: crapa pelata, mascella volitiva, mento e labbro inferiore sporgenti. La trovata delle riforme attese da 70 anni può venire soltanto da lui. Fu proprio 70 anni fa che l’Italia abolì il bicameralismo imperfetto creato da Mussolini: cioè la Camera dei Fasci e delle Corporazioni (membri non eletti, ma nominati dal Gran Consiglio del Fascismo presieduto dal Duce, dal Consiglio nazionale del Partito fascista presieduto dal Duce e dal Consiglio nazionale delle Corporazioni presieduto dal Duce) e il Senato del Regno (membri non eletti, ma nominati a vita dal Re su input del governo). Due Camere di nominati con funzioni diverse, ma relegate a un ruolo ancillare del governo.

Mutatis mutandis, è quello che ci aspetta con la Camera dei nominati (i capilista bloccati dell’Italicum) e il Senato dei nominati (i senatori paracadutati dalle Regioni). Manca solo l’articolo 2 della legge fascistissima 19.1.1939 n. 129: “Il Senato del Regno e la Camera dei Fasci e delle Corporazioni collaborano col governo alla formazione delle leggi”. Ma questo, oggi, è sottinteso.

Oltre ogni decenza. Per salvare il governo (e le loro poltrone) votano a favore dei razzisti. «Solo 10 votano contro il leghista, anche Sel si divide. Guerini chiama l’ex ministro. L’accusa di Manconi»La Repubblica, 18 settembre 2015

C’è chi ha scelto la ragion di Stato, chi ha votato al buio senza capire molto e chi invece aveva capito benissimo. Dopo aver salvato Roberto Calderoli, è l’imbarazzo a tenere assieme i senatori del Pd. Solo dieci - il 9% del gruppo, approssimando per eccesso - hanno giudicato razzismo quell’”orango” scagliato contro Cécile Kyenge. Gli altri dem - e mezza Sel- hanno bloccato l’azione della Procura e frustrato l’indignazione dell’ex ministra. Che infatti si lamenta: «Non si tratta di ricevere una chiamata da Renzi, che non c’è stata. Io mi aspetto dal partito una parola chiara per capire qual è la linea su questa vicenda».

C’è sconcerto. Nella base, in Rete, tra i militanti. Anche l’Unità pubblica in prima pagina un editoriale dell’eurodeputata, dal titolo inequivocabile: “Discriminazione razziale”. Il resto lo fanno i tabulati, che non mentono: ottantatre senatori del partito del premier (e naturalmente l’intero centrodestra) pigiano il pulsante verde: “Aggravante per odio razziale? Insindacabile”.

Solo dieci senatori della minoranza (più sei astenuti) la pensano diversamente. Tra loro Federico Fornaro e Doris Lo Moro, Felice Casson e Stefania Pezzopane. E a sorpresa lo storico garantista Luigi Manconi: «Ho votato sempre a favore della insindacabilità, ma stavolta no». Razzismo, e anche oltre: «La linea di confine tra la critica politica e la diffamazione con una simile aggravante - premette - non è lineare. Nonostante io rifiuti radicalmente il concetto di reato d’opinione, in questo caso ho valutato che quella linea di confine fosse individuabile e fosse stata ampiamente e violentemente superata. Le parole di Calderoli degenerano in scherno e denigrazione personale, oltretutto con un effetto discriminatorio per ragioni di appartenenza etnica ».

Non è così per tutti, però. Non per i renziani di Palazzo Madama - nessuno escluso - e neanche per alcuni esponenti della sinistra del Pd, come il regista dei bersaniani Maurizio Migliavacca e la capogruppo dei vendoliani Loredana De Petris. L’anomalia si annida soprattutto in quel voto disgiunto. «Che senso ha?», non si dà pace Dario Stefàno, che presiede la giunta per le immunità e sta studiando a fondo le carte. Corradino Mineo, poi, sceglie l’insindacabilità anche per la diffamazione, mentre contro Calderoli si esprimono i grillini e tre ex leghisti, oggi tosiani, capitanati da Patrizia Bisinella.

E la Kyenge? Nella prossima udienza il suo legale chiederà ai giudici di portare il caso all’attenzione della Corte costituzionale. Non basta una lunga telefonata di Lorenzo Guerini a chiudere l’incidente. Sulla permanenza del Pd, però, l’ex ministra frena: «Sono triste e amareggiata, ma non lascio il Pd perchè è casa mia. È chi ha sancito con il voto di ieri che il razzismo non è reato a doversi interrogare. Qualcosa di nemmeno concepibile in Europa». L’eurodeputata ha applausi solo per la base dem: «Mi hanno espresso la loro vicinanza con grandissimo affetto ».

Di certo non dimostra la stessa comprensione il leghista Davide Boni. Come se nulla fosse accaduto, sceglie Twitter per ironizzare sul possibile addio di Kyenge al Pd. E scomoda addirittura Luigi Tenco: «Ciao Amore, ciao Amore, ciao Amore, ciao...». Alla faccia di Manconi, che citando Karl Popper poco prima ricordava: «Dovremmo rivendicare, nel nome della tolleranza, il diritto a non tollerare gli intolleranti».

L’eurodeputata: “Sono amareggiata ma resto, il Pd è casa mia. Altri devono interrogarsi”

SALVATO

Il Senato ha votato per l’insindacabilità delle parole di Roberto Calderoli

«Renzi con­ti­nua a pre­fe­rire l’aggiramento dell’ostacolo. La pres­sione sul pre­si­dente del senato per­ché non ammetta gli emen­da­menti all’articolo 2 per l’elezione diretta dei sena­tori è con­ti­nua».

Il manifesto, 18 settembre 2015

Renzi avverte: se il presidente apre agli emendamenti l’articolo 2 della legge di revisione costituzionale allora sapremo come regolarci. E la minaccia della fiducia o l'anticipo di una mossa per prendere in contropiede i dissidenti Pd, il cui voto in senato si conferma decisivo

Nel primo giorno di dibat­tito gene­rale sulla riforma costi­tu­zio­nale, il governo con­qui­sta 179 voti di sena­tori con­trari alle que­stioni pre­giu­di­ziali che avreb­bero affos­sato il dise­gno di legge. La mag­gio­ranza ren­ziana si ral­le­gra: i numeri per vin­cere il brac­cio di ferro sulla Costi­tu­zione sem­brano esserci. Ma nel voto sulle pre­giu­di­ziali, così come nel voto di mer­co­ledì sul calen­da­rio dei lavori d’aula, la mino­ranza Pd ha deciso di seguire la disci­plina di par­tito: se invece i trenta ber­sa­niani, cuper­liani e bin­diani con­fer­mas­sero l’intenzione di votare con­tro l’articolo 2, nean­che il risul­tato di ieri mette al riparo il governo da una cla­mo­rosa scon­fitta. La cam­pa­gna acqui­sti dei sena­tori di cen­tro­de­stra — con­tro la quale ieri si è alzata la voce del sena­tore Sci­li­poti, sim­bolo di tutti i tra­sfor­mi­smi — mette Renzi nelle con­di­zioni di ten­tare il colpo. Ma a deci­derne il risul­tato sarà ancora una volta la fronda del Pd. Reggerà?

Renzi con­ti­nua a pre­fe­rire l’aggiramento dell’ostacolo. La pres­sione sul pre­si­dente del senato per­ché non ammetta gli emen­da­menti all’articolo 2 per l’elezione diretta dei sena­tori è con­ti­nua. Ieri due gior­nali — Stampa e Cor­riere — hanno rife­rito di un «piano B» di Renzi: can­cel­lare del tutto il senato (man­te­nendo però la legge iper mag­gio­ri­ta­ria per la camera) e tra­sfor­mare palazzo Madama in un museo. Palazzo Chigi ha smen­tito l’indiscrezione «vol­gare e assurda», Renzi non l’avrebbe mai «pen­sata né rife­rita». Grasso non ha cre­duto alla smen­tita e in pub­blico ha attac­cato il metodo di «far tra­pe­lare la pro­spet­tiva che si possa addi­rit­tura fare a meno delle isti­tu­zioni rele­gan­dole in un museo». «Ora Grasso deve deci­dere», ripete lo stuolo dei ren­ziani, che anzi spie­gano la mossa di sal­tare la com­mis­sione con l’indecisione del pre­si­dente del senato: aveva detto che avrebbe fatto la sua scelta solo una volta in aula, bene eccoci in aula. «Sono giorni con­vulsi e i pros­simi temo che saranno anche peg­gio», pre­vede Grasso. Renzi lo sfida aper­ta­mente: «Se ria­prirà la que­stione dell’articolo 2 ascol­te­remo le moti­va­zioni e deci­de­remo di conseguenza».

Può essere la minac­cia della que­stione di fidu­cia sull’articolo 2, con­tro tutti gli emen­da­menti «peri­co­losi» sul senato elet­tivo. Un azzardo che il sot­to­se­gre­ta­rio Piz­zetti ha cate­go­ri­ca­mente esclusa e un po’ tutti riten­gono uno strappo ecces­sivo e impro­ba­bile — ma è quello che si pen­sava prima che il governo met­tesse la fidu­cia sulle leggi delega e sulla riforma elet­to­rale. Oppure signi­fica che se Grasso deci­derà di aprire agli emen­da­menti anche qual­che altra parte dell’articolo 2 oltre al comma 5 che è stato toc­cato alla camera, Renzi cer­cherà di addo­me­sti­care la deci­sione pro­po­nendo una modi­fica che rin­vii la deci­sione sull’indicazione dei senatori-consiglieri alla legge ordi­na­ria. Si potrebbe inse­rire al comma suc­ces­sivo, il 6, dove attual­mente c’è la pre­vi­sione assai fumosa che i seggi sono attri­buiti regione per regione «in ragione dei voti espressi e della com­po­si­zione di cia­scun Consiglio».

Una qual­che aper­tura del pre­mier alle richie­ste delle oppo­si­zioni è ine­vi­ta­bile, pur­ché non sia sul cuore del dis­senso, l’elettività diretta dei sena­tori. Ser­virà ad addol­cire il pas­sag­gio con la mag­gio­ranza, o l’uscita dall’aula, di alcuni deci­sivi sena­tori di mino­ranza. Con­ces­sioni saranno fatte sulle com­pe­tenze del senato (allar­gate) e sull’elezione degli organi di garan­zia, Corte costi­tu­zio­nale e pre­si­dente della Repub­blica (la mino­ranza Pd ha i suoi emen­da­menti in mate­ria). Per il resto Renzi si pre­para al refe­ren­dum con­fer­ma­tivo pre­vi­sto per le leggi di revi­sione costi­tu­zio­nale. Ieri ha annun­ciato l’ennesimo calen­da­rio — let­tura con­forme della camera sulla riforma a gen­naio e refe­ren­dum in estate o autunno — esa­ge­rando in otti­mi­smo. Per­ché se la camera appro­vasse effet­ti­va­mente a gen­naio senza toc­care una vir­gola del testo del senato, la seconda let­tura sarebbe pos­si­bile solo dopo tre mesi, al più pre­sto in aprile, e da allora andreb­bero cal­co­lati i sette mesi neces­sari per il refe­ren­dum: al più pre­sto si fini­rebbe a novem­bre 2016.

Quanto ai temi della cam­pa­gna per il Sì, anche su que­sto Renzi ha for­nito un’anticipazione: «Ai cit­ta­dini basta dire che con la riforma ci sono meno poli­tici, le regioni hanno poteri più chiari, i con­si­glieri regio­nali pren­dono meno e il pro­ce­di­mento di legge è più sem­plice». Nulla di vero, dun­que: le pro­po­ste di legge alter­na­tive che il pre­mier ha rifiu­tato ridu­ce­vano ulte­rior­mente il numero dei par­la­men­tari, tagliando anche i depu­tati; le regioni avranno meno poteri; il rispar­mio che doveva essere di un miliardo oscilla secondo i cal­coli tra i 45 e i 90 milioni; il pro­ce­di­mento legi­sla­tivo pre­vi­sto dall’articolo 70 della Costi­tu­zione prima era descritto in una sola riga, adesso in più di cinquanta.

Ieri per defi­nirsi papa Fran­ce­sco ha usato una parola proi­bita e quasi temuta, in ambito eccle­siale: «Per­do­na­temi se sono un po’ fem­mi­ni­sta». Par­lava a brac­cio a un’udienza ai gio­vani con­sa­crati, e voleva rin­gra­ziare «la testi­mo­nianza delle donne con­sa­crate».

Due giorni fa invece, nel con­clu­dere una set­ti­mana dedi­cata alla fami­glia, ha demo­lito un mito tenace, Eva e il suo ser­pente che cor­rom­pono Adamo, l’uomo: «Esi­stono molti luo­ghi comuni, alcuni anche offen­sivi, sulla donna ten­ta­trice» ha detto nell’omelia.

In pas­sato aveva già par­lato della «brutta figura che ha fatto Adamo, quando Dio gli ha detto: ’Ma per­ché hai man­giato il frutto dell’albero?’ E lui: ’La donna me l’ha dato’». Ma c’è un orien­ta­mento, una dire­zione, o meglio un’intenzione in tutte le parole che dall’inizio del suo pon­ti­fi­cato papa Ber­go­glio ha dedi­cato alle donne?

In verità non è facile orien­tarsi, e que­sto è sor­pren­dente, in un pon­te­fice che mostra una straor­di­na­ria chia­rezza di pre­di­ca­zione, di pasto­rale e di politica.

Nell’omelia di due giorni fa la rifles­sione in realtà non era col­lo­quiale, come altre sue bat­tute. «Invece c’è spa­zio per una teo­lo­gia della donna che sia all’altezza di que­sta gene­ra­zione di Dio». Un pas­sag­gio signi­fi­ca­tivo, anche se non si può dimen­ti­care che da anni tante teo­lo­ghe lavo­rano in que­sta dire­zione, con risul­tati di altis­sima qualità.

Come impor­tante è stata una con­si­de­ra­zione di qual­che tempo fa, quando ha detto che nulla può giu­sti­fi­care la dispa­rità di retri­bu­zione tra uomo e donna. «Per­ché si dà per scon­tato che le donne deb­bano gua­da­gnare di meno degli uomini? Si tratta di maschi­li­smo», ha com­men­tato senza tanti di giri di parole, applau­dito dalla folla di San Pietro.

Non c’è mate­riale suf­fi­ciente per deli­neare una “dot­trina” del papa sulle donne, forse, ma abba­stanza per accor­gersi di un cam­bia­mento pro­fondo, che più che sui prin­cipi, si muove sui com­por­ta­menti, sul senso comune, sulla pra­tica quotidiana.

Certo, biso­gna essere cat­to­lici, pra­ti­canti o per­lo­meno for­mati in quel con­te­sto, per “sen­tire” quanto que­ste parole siano forti, incon­grue, fuori da qua­lun­que tra­di­zione pre­ce­dente. Papa Fran­ce­sco non è magni­lo­quente, non pro­clama l’elogio del «genio fem­mi­nile» come fece Woi­tyla, ma ha deciso che con il Giu­bi­leo si «per­doni» il pec­cato di aborto. Anche que­sta deci­sione ha fatto molto discu­tere. A molte — e anche molti laici — è sem­brata un’ insop­por­ta­bile offesa, la riaf­fer­ma­zione di un prin­ci­pio. È com­pren­si­bile, ma è evi­dente che si tratta del con­tra­rio. Si tratta della deru­bri­ca­zione della colpa asso­luta, demo­niz­zata, e imper­do­na­bile che ha agi­tato non solo lo stretto ambito del mondo cat­to­lico in que­sti ultimi anni. Si potrebbe dire che a poco a poco, discorso dopo discorso, ome­lia dopo ome­lia, ven­gono ridotti — deco­struiti per essere pre­cisa — tutti gli ele­menti che fanno della donna un essere spe­ciale e peri­co­loso. In una visione non solo cat­to­lica, non solo teo­lo­gica, e non solo mitica, su un ter­reno in cui ha senso richia­marsi alle radici cri­stiane dell’Europa e del mondo occi­den­tale, per­ché è que­sta visione che ancora ne nutre l’immaginario.

Anche nella rela­zione con le donne papa Fran­ce­sco ha por­tato la forza di una lin­guag­gio quo­ti­diano, sem­plice, diretto. È un uomo del nostro tempo e risulta evi­dente, da quello che dice e che fa, che cono­sce la vita, il mondo. Cono­sce gli uomini e le donne. È suf­fi­ciente a scio­gliere la dif­fi­denza, se non l’ostilità delle donne nei suoi con­fronti? Anzi, meglio sarebbe dire la delu­sione, impos­si­bile com­pren­dere il giu­di­zio duris­simo da lui espresso sulle «teo­rie del gen­der», che ha defi­nito «espres­sione di una fru­stra­zione», una forma di «colo­niz­za­zione ideologica».

Il 4 otto­bre comin­cia il Sinodo ordi­na­rio, quello che dovrà ope­rare le scelte pasto­rali sulla fami­glia. Divor­ziati, omo­ses­suali sono i prin­ci­pali temi sul tap­peto. Nulla che riguardi le donne, nep­pure la con­trac­ce­zione è stata discussa, l’anno scorso.

Papa Fran­ce­sco è un uomo corag­gioso. Abbiamo ammi­rato tutti la forza con cui pro­pone alla sua Chiesa una pra­tica che cor­ri­sponda agli inse­gna­menti del Van­gelo. L’accoglienza, met­tere a dispo­si­zione ciò che si pos­siede, il rispetto delle leggi. Appena eletto, disse « mi chia­mano comu­ni­sta». Viene da pen­sare che dichia­rarsi «un po’ fem­mi­ni­sta» in un’istituzione che da due mil­lenni è fatta da soli uomini, sia per­fino più pericoloso.

». Il suo merito è stato di dimostrare che la soluzione di destra, sulla quale il Labour si era sdraiato, aveva portato dentro la crisi, non fuori.

La Repubblica, 16 settembre 2015

JEREMY Corbyn, da tempo dissidente della sinistra britannica, ha riportato una sbalorditiva vittoria nelle votazioni per la leadership del partito laburista. Per gli opinionisti politici questa scelta avrà esito nefasto sulle prospettive elettorali del Labour; potrebbero aver ragione, anche se non sono l’unico a domandarsi come possano questi commentatori che non hanno saputo prevedere il fenomeno Corbyn mostrare tanta sicurezza nell’analisi di ciò che implica.

Ma parliamo dell’implosione dei moderati del Labour. Sulla politica economica, in particolare, colpisce il fatto che tutti i candidati in lizza, eccetto Corbyn, fossero essenzialmente a favore della politica di austerità del governo conservatore.

Ancor peggio, tutti implicitamente accettavano la motivazione fasulla di tale politica, assumendosi in pratica la responsabilità di malefatte politiche in realtà non commesse dal Labour. È come se negli Usa i principali candidati alla nomination democratica del 2004 fossero andati in giro a dire che l’11 settembre era colpa del loro approccio debole alla sicurezza nazionale. Ci saremmo forse sorpresi se i voti delle primarie democratiche fossero andati a un candidato che rifiutava quella bufala, qualunque fosse la sua visione?

Le false accuse contro il Labour riguardano la politica fiscale, in particolare si sostiene che i governi laburisti al potere in Gran Bretagna dal 1997 al 2010 abbiano speso ben oltre i propri mezzi, causando un deficit e una crisi del debito che hanno portato alla più ampia crisi economica. La crisi fiscale, a sua volta, non avrebbe lasciato alternative ai drastici tagli alla spesa, soprattutto quella a sostegno dei poveri.

Queste tesi dei conservatori, va detto, sono state riprese e diffuse da quasi tutti i media giornalistici britannici. Non solo non le hanno sottoposte a un severo scrutinio, ma le hanno riportate come realtà. È stato straordinario assistere a quell’operazione — perché tutti gli elementi della narrazione usuale sono completamente fasulli.

Il governo laburista è stato irresponsabile sotto il profilo fiscale? La Gran Bretagna registrava un modesto deficit di bilancio alla vigilia della crisi economica del 2008, ma in percentuale sul Pil non era molto elevato — risulta circa pari al deficit di bilancio Usa dello stesso periodo. Il debito pubblico britannico era inferiore, in percentuale sul Pil, a quello registrato quando il Labour andò al governo dieci anni prima e inferiore rispetto a tutte le altre grandi economie avanzate, fatta eccezione per il Canada.

Oggi c’è chi afferma che la reale situazione fiscale fosse assai peggiore di quanto indicassero le cifre del deficit, perché l’economia britannica era gonfiata da una bolla insostenibile che incrementava le entrate. Ma nessuno all’epoca lo diceva. Al contrario, le valutazioni indipendenti, ad esempio ad opera del Fmi, indicavano l’opportunità di correggere lievemente il deficit, ma non evidenziavano segni di una gestione allegra delle finanze pubbliche.

È vero che il deficit britannico lievitò dopo il 2008, ma fu la conseguenza, non la causa della crisi. Anche il debito è cresciuto ma resta ben al di sotto dei livelli prevalenti in gran parte della storia moderna britannica. E non c’è mai stato alcun indizio che gli investitori, a differenza dei politici, fossero preoccupati della solvibilità britannica: i tassi di interesse sul debito sono rimasti molto bassi. Ciò significa che la presunta crisi fiscale non ha mai creato alcun reale problema economico e che non c’è mai stata la necessità di una sterzata in direzione dell’austerità.

In breve, l’intera narrazione circa la responsabilità del Labour relativamente alla crisi economica e circa l’ assoluta necessità dell’austerity è un’assurdità. Ma questa assurdità i media britannici l’hanno regolarmente presentata come realtà. E tutti i rivali di Corbyn nella corsa alla leadership laburista l’hanno presa per buona, accettando la tesi dei conservatori secondo cui il loro partito aveva gestito malissimo l’economia, cosa semplicemente non vera. Così il trionfo di Corbyn non sorprende poi tanto, vista la disponibilità dei politici laburisti moderati ad accettare false accuse al passato malgoverno.

Resta da capire come mai i moderati laburisti siano stati così sfortunati. Negli Usa fu diverso, le critiche sul deficit dominarono il dibattito a Washington nel 2010-11, senza però riuscire a dettare i termini del confronto politico, e la maggioranza dei democratici non assumeva toni da simpatizzanti repubblicani. La risposta sta in parte nel fatto che i media giornalistici statunitensi non sono stati altrettanto dediti a fantasie fiscali, anche se questo non risolve la questione. L’ establishment politico del Labour sembra però privo di convinzione, per motivi che non comprendo appieno. Significa che la vittoria di Corbyn non è legata a un’improvvisa svolta a sinistra da parte della base laburista, ma ha a che fare soprattutto con lo strano e triste crollo morale e intellettuale dei moderati del Labour.

er ora, vince sempre lui. Articoli di Wanda Marra e Paolo Zanca, Il Fatto Quotidiano, 16 settembre 2015
LA RIFORMA SI FA DI CORSA
RENZI SGAMBETTA GRASSO
di Wanda Marra

Tra Palazzo Chigi e Senato l’attività è frenetica, la strategia si raffina di ora in ora. Oggi le riforme costituzionali arrivano nell’Aula di Palazzo Madama. Momento topico, atteso da mesi. E dopo un’estate di trattative sotto traccia, l’accordo politico non c’è. Il colpo di scena arriva nel primo pomeriggio. Il capogruppo leghista, Roberto Calderoli ritira i suoi 500mila emendamenti in Commissione. Toglie l’alibi al governo che vuole andare immediatamente in Aula, visto che in Commissione Affari costituzionali i numeri non ce li ha. «Tutta politica. Politica la presentazione, politica il ritiro», dice il presidente dei senatori Pd, Luigi Zanda. Poi tira diritto e nella capigruppo chiede comunque di andare in Aula.

Il Presidente del Senato, Pietro Grasso non è convinto, ritiene la situazione sia cambiata dopo la mossa del senatore del Carroccio. Viene chiamata la presidente di Commissione, Anna Finocchiaro. Convocazione irrituale. Mentre prende l’ascensore per scendere alla riunione, la Presidente è tesissima. Ma ribadisce che «bisogna passare ai piani alti della politica».
Presentazione degli emendamenti in Aula entro mercoledì 23. Il voto probabilmente dalla settimana dopo. E dunque, gli uomini del premier alternano messaggi rassicuranti e minacce finali. «I numeri in Aula ci sono», andavano dicendo ieri Renzi e i suoi per tutto il giorno. Ritornello talmente ossessivo da risultare sospetto. Il pallottoliere ufficiale conterebbe tra 155 e 165 voti, e 150 assenze (alcune vere, altre strategiche. E se si sbaglia, magari manca il numero legale). Ma nello stesso tempo il premier è pronto a qualsiasi cosa. Prima di tutto ha convocato per lunedì la direzione del Pd: metterà in campo la disciplina di partito e si farà votare un ordine del giorno, per piegare (definitivamente) la minoranza.
La pressione su Grasso perché dichiari inemendabile l’articolo 2 ormai è stellare. Si fa circolare la voce che sono in gioco le dimissioni della Finocchiaro. Perché l’incidente (o il complotto) in quel caso verrebbe considerato quasi certo. Subordinata quasi non ammessa. «Ne va dell’equilibrio istituzionale, della legislatura, della posizione dell’Italia nella comunità internazionale». E poi, a questo punto, ragionano, dopo la decisione della Finocchiaro, la forzatura sarebbe la sua. Calderoli, dalla sua, annuncia 8 milioni di emendamenti. Perché poi non c’è solo l’articolo 2, ma anche il primo, quello sul quale il premier ha concesso aperture. Sui voti segreti, rischio agguati. «Abbiamo gli strumenti parlamentari per fronteggiare questa situazione» assicurano Francesco Verducci, e il sottosegretario alle riforme Luciano Pizzetti. Un riferimento a tutti gli escamotage del Regolamento, dal canguro in poi per aggirare l'ostruzionismo. E alla fine, resta la minaccia finale delle elezioni anticipate.
Il premier entra in gioco in prima persona nella trattativa ieri mattina. Incontra Tosi e con un accordo di massima su una modifica dell’Italicum recupera i 3 voti di Fare. «È un po’come Letta stai sereno - ragiona Gaetano Quagliariello di Ncd - io sulla richiesta di modifica dell’Italicum vado diritto. Voglio una rassicurazione formale, che si riaprirà sul premio alla coalizione e non alla lista». Per farsi aiutare nella mediazione con i centristi, Renzi vede pure Franceschini. Grasso, dunque, dirà la sua solo tra una decina di giorni. In mezzo, la trattativa è aperta. «Ci siono in gioco il quadro politico, gli equilibri della maggioranza, la natura dei partiti», si sfoga un senatore.
Ma intanto il premier ha vinto il primo round col presidente del Senato e da Palazzo Chigi arrivano i numeri del pallottoliere di governo: dei 112 senatori del Pd, il governo pianifica di poter contare su 90 voti favorevoli (almeno 6 dei 28 firmatari del documento di minoranza sull’articolo 2 si sfileranno). Quanto a Ncd, su 35 senatori, in 30 voteranno col governo, secondo i calcoli di Palazzo Chigi. Del Gruppo autonomie su 19 senatori, 15 staranno col governo. Renzi sa di poter contare su tutti i 10 voti del gruppo di Denis Verdini. Sarebbero in arrivo altri 5 senatori da FI. E poi tra Misto, Gal e Idv, un’altra decina di voti. Oggi intanto, missione Emilia per Renzi: riunione sull’alluvione a Piacenza, visita a una piscina a Carpi, con Gregorio Paltrinieri, campione del mondo di nuoto sui 1.500 metri. E infine cena a Modena con Hollande, nell’osteria Francescana del super chef Massimo Bottura. Di photo opportunity ce ne saranno per tutti i gusti.
LA FINOCCHIARO “PROCESSATA”
PER IL BLITZ IN COMMISSIONE
di Paolo Zanca

Che fosse tutto un bluff, un trabocchetto per provare a metterlo con le spalle al muro, Pietro Grasso lo ha capito l’altroieri, quando ha sentito il discorso di Anna Finocchiaro in commissione Affari costituzionali: perché fare, due giorni prima del previsto, uno speech sull’ammissibilità degli emendamenti alla riforma del Senato quando la maggioranza ha già deciso di portare il ddl Boschi direttamente in aula? Così, ieri, nella riunione dei capigruppo, il presidente ha deciso di tentare il gran colpo: tentare di smascherare il gioco di Palazzo Chigi. Mentre è in corso l’incontro dei rappresentanti dei gruppi, Grasso convoca a sorpresa la presidente della commissione: «Lei ha detto che per garbo istituzionale non ha voluto votare l’ipotesi di istituire un comitato ristretto. Io, con lo stesso garbo istituzionale, le chiedo: perché?».

Raccontano che se non fossero stati in una stanza di Palazzo Madama, la conversazione avrebbe assunto tutt’altro tono. La guerra è aperta, e pazienza se qui dentro tocca mantenere un certo stile. Ferma e composta, come sempre, la Finocchiaro ha descritto la palude della commissione che presiede. E ha spiegato che non può che esserci bisogno di un luogo di discussione “alta” come l’aula del Senato per portare la riforma fuori dal pantano. Inutile il tentativo – andato avanti per quasi due ore, protagonista Grasso in persona – di convincere il Pd e i suoi alleati che il ddl Boschi poteva riprendere il cammino tradizionale, anche perché nel frattempo Roberto Calderoli aveva levato dal tavolo mezzo milione di emendamenti e le richieste di modifica rimaste in piedi erano solo 3 mila “lorde” (comprese le inammissibili).
Niente da fare: per questo, a riunione finita, la convinzione a proposito del bluff non è svanita per nulla. Anzi. Non solo Grasso ha fatto sapere di essere “dispiaciuto” per l’ennesima mediazione sfumata. Ma i vertici di Palazzo Madama si sono ulteriormente irritati perché la Finocchiaro, con il suo discorso, avrebbe sminuito il ruolo della commissione, descritta come un luogo incapace di sbrogliare la matassa e di trovare una sintesi tra le diverse posizioni. E poi, insistono, basta con questa storia che se Grasso dovesse decidere diversamente da lei sull’emendabilità della riforma, sarebbe uno scontro tra cariche dello Stato. «Io sono il presidente del Senato – sostiene Grasso – al massimo mi scontro con il capo dello Stato, con il presidente del Consiglio: la presidente di una commissione non è mia pari grado».
Ecco, per capire, il livello in cui sta precipitando la faccenda, basterebbe questo. Tant’è che a Palazzo Madama sono già alla ricerca della serie di precedenti in cui un presidente del Senato ha deciso in maniera difforme da un presidente di commissione. La verità è che i guai, per Pietro Grasso, sono appena cominciati. Ormai è chiaro a tutti: qualunque cosa lui decida, sarà rivolta. Se ammette gli emendamenti all’articolo 2 della riforma si scatenano i renziani. Se non li ammette gridano allo scandalo gli anti-renziani. Lui sta nel mezzo. E per ora non si sbilancia. L’annuncio lo darà solo in aula e, secondo il calendario stabilito, il suo intervento non arriverà prima della fine del mese. A quel punto mancheranno poco più di due settimane al 15 ottobre, data stabilita da Renzi come termine ultimo per l’approvazione.

Il Fatto Quotidiano, 16 settembre 2015

Mohammed conta i passi che lo separano dall’Austria. È partito all’alba dalla stazione di Hegyeshalom, in Ungheria. Il confine dista quattro chilometri, una passeggiata, per chi come lui ha le gambe buone. «Mi hanno rilasciato ieri, dopo 12 giorni in un carcere vicino Budapest» racconta mentre continua a guardarsi le spalle. «Com’è la polizia alla frontiera? E in Austria? Ci faranno passare senza problemi?». Arrestato nella stazione di Budapest, Mohammed porta sul collo i lividi di cinque dita della polizia ungherese. Parla un ottimo inglese, ma dice di non aver capito le accuse contro di lui. «Mi hanno chiesto di pagare mille euro –spiega senza nascondere la rabbia – per lasciarmi andare. Mi hanno fatto una multa, trattato come un criminale. Vengo da Homs e sto solo andando verso un posto sicuro». Appena arrivato al campo di Nickelsdorfs chiede in prestito un cellulare e chiama gli amici ancora in cella: «Il confine è tranquillo, appena uscite correte qui».

Intanto al campo si è sparsa la notizia che Budapest ha iniziato ad arrestare i profughi. Alla mezzanotte di martedì è entrato in vigore il reato di clandestinità. Tutti gli stranieri in Ungheria senza permesso di soggiorno, rischiano fino a tre anni di carcere. Al confine con la Serbia le forze dell’ordine hanno arrestato quasi 180 persone, 16 nella sola notte di martedì. E se sulla frontiera nord la polizia scorta le colonne di migliaia di profughi in marcia, per farli arrivare più velocemente in territorio austriaco, a sud il confine con la Serbia viene blindato. Filo spianato e migliaia di uomini delle forze dell’ordine a presidiarlo. Questo fa desistere tante famiglie, ma i giovani sono pronti a saltare le reti, alte due metri.
La chiusura dell’Ungheria sta portando a un veloce cambio delle rotte dei profughi. Entrati in Serbia dalla Macedonia, i rifugiati deviano per la Croazia e poi per la Slovenia, arrivando così al confine austriaco. Vienna sta già studiando delle contromisure e in una lettera inviata dal ministero dell’interno alla Commissione Europea suggerisce che i punti nodali dei controlli sulle frontiere dovranno essere sui confini con Ungheria, Italia, Slovenia e Slovacchia. Secondo i dati di Budapest, confermati anche dall’Unione Europea, nel 2015 sono entrati in Ungheria circa 200mila profughi, 500mila in tutta l’Eurozona. Nel 2014 il totale degli arrivi non ha superato le 240mila persone.
Con la chiusura di ieri notte i rifugiati che vorranno transitare in Ungheria dovranno fare richiesta di asilo. «Un procedimento – ha comunicato un rappresentante del governo – che può durare minuti oppure ore, ogni caso è diverso». «La Serbia è un paese sicuro» ha detto il primo ministro Viktor Orban indicando così l’intenzione di rimandare a Belgrado i profughi. La Serbia ha già risposto che non accetterà alcun rinvio. Berlino tenta di coinvolgere i paesi di arrivo dei rifugiati . «È urgente che la Grecia, e anche l’Italia, facciano subito gli hotspot», ha detto Angela Merkel in una conferenza stampa congiunta con il cancelliere austriaco Werner Faymann, «altrimenti – ha sottolineato – non sarà possibile distribuire i migranti in modo equo». Per adesso la cancelliera ha ottenuto la ricollocazione di 40mila profughi, nemmeno il 10 per cento di quelli arrivati nei primi nove mesi di quest’anno.
«La svolta Labour. “Bisognerà avere pazienza, ma i morti viventi sono stati sconfitti. La politica inglese è tornata finalmente a vivere”».

Il manifesto, 15 settembre 2015 (m.p.r.)

Le iro­nie della sto­ria non man­cano mai di sor­pren­dere. Con qual­siasi cri­te­rio lo si misuri, Jeremy Cor­byn è il lea­der più di sini­stra nella sto­ria del Labour party. Capi­sce che chi fa male fuori non potrà fare molto meglio a casa.

Tra i mem­bri del par­la­mento è l’antimperialista più con­vinto. La prova è il para­gone con gli ante­nati poli­tici. Il socia­li­smo di Keir Har­die anna­spava nei campi di bat­ta­glia della prima guerra mon­diale. Cle­ment Attlee è stato un grande rifor­ma­tore sul piano interno, ma su quello esterno il suo governo approvò il bom­bar­da­mento nucleare di Hiro­shima e Naga­saki. Harold Wil­son redi­stri­buì la ric­chezza ma appog­giò gli Stati uniti in Viet­nam. Come lea­der dell’opposizione, Michael Foot fu un acca­nito sup­por­ter della guerra mossa da Mar­ga­ret That­cher per recu­pe­rare le Malvinas/Falkland.

I gemelli that­che­riani Blair-Brown si accor­da­rono per divi­dersi il potere creando due cor­renti affa­mate di potere con nes­suna dif­fe­renza poli­tica tranne che la fame di Tony Blair era diretta sia al potere che ai soldi. Blair ci ha dato le guerre nell’ex Jugo­sla­via e in Iraq, men­tre Gor­don Brown era ignaro della vul­ne­ra­bi­lità del capi­ta­li­smo finan­zia­rio e spese miliardi di ster­line del con­tri­buente sal­vando ban­che che, una volta pagati i depo­siti, sarebbe stato molto meglio lasciar schiattare.

Entrambi hanno buro­cra­tiz­zato il Labour party neu­tra­liz­zan­done i con­gressi, ridu­cen­dolo a una copia appic­ci­cosa dei Demo­cra­tici ame­ri­cani: tutto show, nes­suna sostanza. Hanno tolto alle sezioni labu­ri­ste locali il diritto a sce­gliere i pro­pri can­di­dati per il par­la­mento, il solo modo per tra­sfor­mare un grande pezzo del Par­lia­men­tary Labour Party (Plp) in una col­le­zione di ragazzi e ragazze d’ufficio super-pubblicizzati insieme a camio­nate di carrieristi.

Tre di loro si sono esi­biti rego­lar­mente nella cam­pa­gna per la suc­ces­sione di un altro della loro cer­chia, Ed Mili­band. La cosa iro­nica è che la riforma del sistema elet­to­rale di par­tito voluta da Mili­band era dise­gnata per pla­care i Blai­riti e i loro com­pa­gni nei media attra­verso l’eliminazione dal par­tito del resi­duo potere del sin­da­cato e l’apertura agli outsi­der, nella mal­de­stra spe­ranza che un elet­to­rato più con­ge­niale avrebbe assi­cu­rato agli estre­mi­sti di cen­tro il domi­nio delle pro­prie politiche.

Erano così fidu­ciosi che un pugno di Blai­riti ha dato a Cor­byn i voti par­la­men­tari neces­sari per eleg­gerlo e rap­pre­sen­tare la sini­stra pur­ché sim­bo­lica, testi­mo­niando così la gene­ro­sità del par­tito e il suo rispetto per la diver­sità. Chi avrebbe mai pen­sato a un ritorno di fiamma così sen­sa­zio­nale? Cer­ta­mente non Cor­byn. E nes­sun altro. Il Guar­dian si è schie­rato per Yvette Coo­per, men­tre i suoi edi­to­ria­li­sti blai­riti denun­cia­vano il dino­sauro di Isling­ton – scor­dando che i più gio­vani amano i dino­sauri e sen­tono la man­canza della spe­cie. Il Daily Mir­ror si è schie­rato per Andy Burnham.

Nes­suno che abbia mai visto o sen­tito Cor­byn può dubi­tare della sua auten­ti­cità. Ho con­di­viso con lui nume­rose piat­ta­forme negli ultimi quarant’anni. Negli argo­menti chiave è sem­pre rima­sto costante. Ciò che è pia­ciuto ai gio­vani, che hanno tra­sfor­mato la sua cam­pa­gna in un movi­mento sociale, è pre­ci­sa­mente ciò che ha sov­ver­tito i tra­di­zio­nali cli­ché poli­tici e media­tici. Cor­byn è stato schietto, discor­sivo, molto di sini­stra, vuole inver­tire le pri­va­tiz­za­zioni delle fer­ro­vie e dei ser­vizi ecce­tera. Molti che si sono regi­strati per votarlo l’hanno fatto per que­sto, e per rom­pere con il blando, poco fan­ta­sioso e privo di visione New Labour.

Cor­byn ha sot­to­sti­mato i cam­bia­menti in Sco­zia, ma que­sto in effetti ha aiu­tato la sua cam­pa­gna. La coorte di par­la­men­tari dello Scot­tish natio­nal party che vuole affos­sare la super­flui e costosi mis­sili Tri­dent, l’elettrizzante discorso d’esordio della ven­tenne Mhairi Black che ha sfi­dato i Tories… Tutto ciò ha aiu­tato la cam­pa­gna di Cor­byn. Se fun­ziona in Sco­zia, per­ché non in Inghilterra?

Dopo che ll Labour ha eletto il loro lea­der più di sini­stra, la stra­grande mag­gio­ranza del gruppo par­la­men­tare labu­ri­sta è nella stretta mor­tale della destra. Chiun­que abbia ascol­tato l’intervento di Sadiq Khan dopo essere stato scelto dal Labour come can­di­dato sin­daco di Lon­dra si è accorto della dif­fe­renza con la cam­pa­gna di Cor­byn. Gli argo­menti di Khan erano tutti pun­tati su quanto iso­lato sarebbe stato Cor­byn nel Plp.

Cor­byn chie­derà al par­tito di unirsi die­tro di lui. Ma non c’è modo di elu­dere il fatto che la mag­gio­ranza del Plp si oppone alle sue poli­ti­che. Credo che cer­che­ranno di for­zarlo a un com­pro­messo dopo l’altro con l’intento di scre­di­tarlo (su modello di Ale­xis Tsi­pras in Gre­cia), ma dubito che pos­sano avere successo.

Cor­byn com­prende gli argo­menti chiave sui quali non è pos­si­bile alcun com­pro­messo. Ci ha fatto cam­pa­gna sopra abba­stanza a lungo. La sua vici­nanza all’agenda dei Verdi non è un segreto, e il solo par­la­men­tare dei Verdi adesso ha nel nuovo lea­der labu­ri­sta un solido soste­ni­tore. Ripren­dersi i tra­sporti pub­blici dagli spe­cu­la­tori è un altro ele­mento. Un’edilizia pub­blica a buon mer­cato per i gio­vani e gli anziani aiuta a rico­struire le comunità.

Un robu­sto regime fiscale che inverta decenni di pri­vi­legi accor­dati ai ric­chi sca­te­nerà la furiosa offen­siva della City, dei suoi media e dei suoi acco­liti poli­tici, ma è con­si­de­rata asso­lu­ta­mente neces­sa­ria. Fin dalla fine degli anni Set­tanta, la redi­stri­bu­zione della ric­chezza a favore dei ric­chi e dei più ric­chi ha con­ti­nuato a cre­scere in Gran Bre­ta­gna, in modo supe­riore a tutti I paese dell’Organizzazione per la coo­pe­ra­zione e lo svi­luppo eco­no­mico (Ocse). Cor­byn non è inte­res­sato al potere per sé o per aumen­tare il suo per­so­nale patrimonio.

Insieme al Par­tito Cor­byn può dav­vero ripor­tare in auge la demo­cra­zia. É l’unico modo per chi sostiene i Labour, di ritro­varsi rap­pre­sen­tati pro­pria­mente in par­la­mento. Ma niente di tutto que­sto sarà facil­mente rea­liz­za­bile, per que­sto è fon­da­men­tale che ci sia un movi­mento potente fuori dal par­la­mento; è l’unico modo per assi­cu­rare che l’agenda di Cor­byn possa essere pie­na­mente onorata.

Niente può acca­dere nel giro di una notte: biso­gna essere pazienti. Alcuni mem­bri labu­ri­sti del par­la­mento diser­te­ranno. Dopo tutto, ave­vano soste­nuto, con­vinti, le misure di auste­rity. Ma ormai sarà impos­si­bile, per­fino per l’auto cen­sura della Bbc, tenere fuori dagli schermi il nuovo lea­der Labour. I morti viventi hanno perso. La poli­tica inglese è tor­nata a vivere.

Si affaccia anche nel Regno unito una sinistra che ha compreso i problemi nuovi senza abbandonare i valori antichi. Promettente il successo ottenuto tra i giovani, e le nuove adesioni al Labour party dopo l'affermazione di Corbyn.

La Repubblica, 14 settembre 2015
L’ELEZIONE della leadership laburista è stata una straordinaria prova di democrazia popolare e di partecipazione pubblica dal basso, che ha dimostrato l’infondatezza dell’opinione prevalente al riguardo della politica. Abbiamo attirato il sostegno di centinaia di migliaia di persone di tutte le età, di ogni ambiente sociale, in tutto il Paese, ben oltre i ranghi degli attivisti di lunga data e di chi fa campagna. Chi può seriamente affermare, adesso, che i giovani si disinteressano di politica o che non c’è un intenso desiderio di un nuovo tipo di politica? Più di ogni altra cosa, ha dimostrato che milioni di persone vogliono un’alternativa reale, e non che le cose proseguano come al solito, sia dentro sia fuori dal Partito laburista.

La speranza di un cambiamento e di nuove grandi idee è tornata al centro della politica: porre fine all’austerità, affrontare e risolvere le disuguaglianze, lavorare per la pace e la giustizia sociale in patria e all’estero. Ecco i motivi per i quali oltre un secolo fa fu fondato il Labour. Questa elezione ha infuso nuovo vigore per il XXI secolo all’obiettivo che portò alla sua fondazione: un Partito laburista che dia voce al 99 per cento della popolazione.

I numeri del voto di sabato scorso costituiscono un mandato senza riserve per il cambiamento da parte di una democrazia che si rialza ed è già diventata un movimento sociale. Sono onorato dalla fiducia che mi è stata dimostrata dai membri del partito e dai sostenitori, e metterò a disposizione tutto me stesso per ripagare quella fiducia.

Abbiamo combattuto e vinto sulla base di proposte politiche, non di personalità, senza abusi e senza astio. Volendo pienamente fugare ogni dubbio, la mia leadership sarà improntata alla coesione, farà affidamento su tutti i talenti — la metà del governo ombra laburista sarà formato da donne — e lavoreremo insieme a tutti i livelli del partito. Il nostro obiettivo è riportare nel cuore del Labour le centinaia di migliaia di persone che hanno preso parte alle primarie. Riusciremo a far tornare ancora una volta il Labour un movimento sociale.

La leadership del partito si sforzerà di mettere al centro la democrazia: non sarà il leader a emettere editti dall’alto. Raccoglierò idee da tutti i livelli del partito e del movimento laburista, prendendo ispirazione da un partito allargato alle varie comunità e mettendo a frutto i talenti di tutti per dar vita a una linea politica capace di costruire un valido sostegno a favore del cambiamento.

Noi siamo in grado di dar vita a un nuovo tipo di politica: più educata, più rispettosa, ma anche più coraggiosa. Possiamo cambiare le mentalità, possiamo cambiare la politica, possiamo migliorare le cose.

Il messaggio più importante che la mia elezione offre a milioni di persone per mandare a casa i conservatori è che il partito adesso è incondizionatamente al loro fianco. Noi comprendiamo le aspirazioni e sappiamo che le nostre aspirazioni potranno realizzarsi soltanto tutte insieme.

Tutti aspirano ad avere una casa a un prezzo accessibile, un posto di lavoro sicuro, standard di vita migliori, un sistema sanitario fidato e una pensione dignitosa. La mia generazione ha considerato scontate queste cose e così dovrebbero fare le generazioni future.

I conservatori stanno introducendo una legge sulle organizzazioni sindacali che renderà più difficoltoso per i lavoratori ottenere un equo contratto di lavoro, combattere per un salario onesto e per un giusto equilibrio tra lavoro e vita privata. Le organizzazioni sindacali sono una forza che si adopera per il bene, una forza che si batte per una società più giusta. Unito, il Labour voterà contro questo attacco antidemocratico ai membri delle associazioni sindacali.

Domani il governo presenterà le sue proposte per tagliare i crediti d’imposta, che lascerebbero migliaia di famiglie di operai in condizioni peggiori. I crediti d’imposta sono un’ancora di salvezza vitale per molte famiglie e il Labour si opporrà a questi tagli. È chiaro anche che il Primo ministro presto tornerà a chiederci di bombardare la Siria. Questo non aiuterà i rifugiati. Anzi, ne creerà in maggior numero.

Lo Stato Islamico è assolutamente raccapricciante, e il regime del presidente Assad ha commesso delitti atroci. Ma noi dobbiamo opporci anche alle bombe saudite che cadono sullo Yemen e alla dittatura del Bahrain, armata da noi, che stermina il movimento democratico del paese.

Il nostro ruolo è fare campagna per la pace e per il disarmo in tutto il mondo.

Per i conservatori, il deficit altro non è che una scusa per rifilarci la vecchia agenda Tory di sempre: abbassare i salari, tagliare le tasse ai più ricchi, lasciare che i prezzi degli immobili aumentino fino a essere improponibili, svendere i nostri asset nazionali e attaccare le organizzazioni sindacali. Non ci sono scorciatoie per la prosperità, la si deve costruire investendo in infrastrutture moderne, nelle persone e nelle loro competenze. Bisogna dare sfogo a idee innovative, concretizzando nuove proposte per affrontare e risolvere il cambiamento climatico. E proteggere così il nostro ambiente e il nostro futuro.

Il nostro compito è dimostrare che l’economia e la nostra società possano essere a beneficio di tutti. Insorgeremo contro le ingiustizie ogni volta che le incontreremo. E le combatteremo per un futuro più equo e più democratico, che soddisfi le esigenze di chiunque.

La risposta umana della gente di tutta Europa nelle ultime settimane ha dimostrato l’intenso desiderio di un tipo diverso di politica e di società. I valori della compassione, della giustizia sociale, della solidarietà e dell’internazionalismo sono stati al centro della recente esplosione di democrazia in un Labour sempre più influente.

Quei valori sono profondamente radicati nella cultura del popolo britannico. Il nostro obiettivo, adesso, è mettere a frutto quello spirito e chiedere ardentemente il cambiamento, in tutto il paese.

Traduzione di Anna Bissanti

Ancora sul documento dei 4 della sinistra europea. «La moneta è impor­tante in un sistema capi­ta­li­stico di pro­du­zione, ma non è tutto. La forza di una moneta non è in sé, ma nel sistema eco­no­mico e nel paese che rap­pre­senta».

Il manifesto, 13 settembre 2015

Nel docu­mento dif­fuso urbi et orbi da Varou­fa­kis, Lafon­taine, Melen­chon e Fas­sina si legge che: «Nes­sun paese euro­peo può ope­rare la pro­pria libe­ra­zione in modo iso­lato». Appunto. Pec­cato che il docu­mento non sia molto coe­rente con que­sto assunto. Esso vede la luce a pochi giorni dalle nuove ele­zioni gre­che e non si può dav­vero dire che sia una mano d’aiuto a Syriza e a Tsi­pras. Peral­tro se que­sti ultimi doves­sero per­dere, non si com­prende quale possa essere la mag­gio­ranza in grado di por­tare avanti il piano B soste­nuto dagli autori del docu­mento. Per attuarlo non bastano forze minoritarie.

Il con­fronto fra Tsi­pras e la Ue è avve­nuto pre­ci­sa­mente nell’isolamento inter­na­zio­nale. Un paese con­tro 18. Né i movi­menti sono riu­sciti ad espri­mere una soli­da­rietà così forte da inci­dere sui rap­porti di forza. Né i grandi paesi esterni alla Ue, ognuno con i pro­pri diversi motivi, non gli Usa, né la Rus­sia, tan­to­meno la Cina ave­vano inte­resse e pos­si­bi­lità di soste­nere la Gre­cia in uno spe­ri­co­lato sgan­cia­mento dall’euro.

In que­sto qua­dro si è giunti non a un accordo, ma alla con­su­ma­zione di un ricatto. Tspi­ras lo ha detto al suo popolo e al par­la­mento in modo spie­tato. L’introduzione di Syriza al pro­gramma di governo del 2015, che si pro­pone di inde­bo­lire se non neu­tra­liz­zare le con­se­guenze più regres­sive del nuovo Memo­ran­dum, affonda ancora il col­tello nella piaga. Dopo un impie­toso esame delle con­di­zioni nelle quali la Gre­cia a luglio si tro­vava si afferma: «Dove­vamo sce­gliere tra una riti­rata tat­tica, in maniera da pre­ser­vare la spe­ranza di vin­cere una bat­ta­glia poli­tica asim­me­trica, oppure imporre alla sini­stra un fal­li­mento sto­rico che avrebbe tra­sfor­mato il paese in un deserto sociale. Ci siamo presi la nostra parte di respon­sa­bi­lità e abbiamo scelto la prima opzione».

Sce­gliere l’altra avrebbe signi­fi­cato cadere nelle brac­cia della Gre­xit di Schau­ble. Le con­se­guenze di un’uscita dall’euro sono oggetto di discus­sione — per­ché non ci sono pre­ce­denti né è pre­vi­sta dai trat­tati -, ma mi sem­bra dif­fi­cile non assi­stere in quel caso a una ulte­riore fuga dei capi­tali, a pesanti mano­vre spe­cu­la­tive, a un balzo dell’inflazione pure in pre­senza di alti tassi di disoc­cu­pa­zione, quindi a una dimi­nu­zione dra­stica e bru­sca del valore reale di salari e pen­sioni già al lumi­cino. Per impe­dire que­sto, disse Varou­fa­kis a New Sta­te­sman, si era pen­sato a un piano B, con la neces­sa­ria riser­va­tezza, salvo veri­fi­care che man­ca­vano forze e mezzi per garan­tirne il risultato.

Cam­bie­rebbe in meglio il qua­dro se al posto di una Con­fe­renza euro­pea sul debito non solo greco, che è quanto ha sem­pre voluto Syi­riza e che in parte ha otte­nuto al ter­mine della mor­ti­fi­cante trat­ta­tiva con i pros­simi appun­ta­menti autun­nali — ai quali giu­sta­mente i greci chie­dono la pre­senza del par­la­mento euro­peo in quanto tale, unica strut­tura elet­tiva — si rea­liz­zasse una con­fe­renza per il piano B, pro­po­sta dagli esten­sori del docu­mento? Non credo pro­prio, poi­ché la pub­bli­cità stessa dell’atto — al di là delle buone inten­zioni e prima ancora degli esiti del mede­simo — spo­ste­rebbe l’attenzione dal piano A — ovvero bat­tersi den­tro l’Eurozona — al piano B, cioè alla uscita dall’euro.

In modo assai discu­ti­bile, i fau­tori del Piano B para­go­nano l’azione della Ue nei con­fronti della Gre­cia e dei paesi medi­ter­ra­nei alla «sovra­nità limi­tata» pra­ti­cata da Brez­nev con i carri armati a Praga. Ma dav­vero la fuo­riu­scita dall’euro sarebbe la libe­ra­zione dalla gab­bia? Vi sono paesi che hanno la loro moneta, come la Polo­nia, eppure non sono che un’articolazione del sistema pro­dut­tivo tede­sco. D’altro canto alla gab­bia dell’euro si sosti­tui­rebbe quella non certo più tenera dei mer­cati finan­ziari internazionali.

Per una sini­stra la disputa euro-non euro non dovrebbe avere di per sé un peso così diri­mente. Dovreb­bero esserlo molto di più le poli­ti­che pro­dut­tive. Certo, l’euro è stato costruito in un’area mone­ta­ria non otti­male che favo­ri­sce la potenza esor­ta­tiva della Ger­ma­nia. Sarebbe meglio — ci si potrebbe arri­vare senza disfare l’Europa, raf­for­zando l’unità di paesi e di sini­stre (auguri Cor­byn!) — avere una moneta comune in luogo di una moneta unica. Un’attualizzazione del Ban­cor pen­sato da Key­nes. La moneta è impor­tante in un sistema capi­ta­li­stico di pro­du­zione, ma non è tutto. La forza di una moneta non è in sé, ma nel sistema eco­no­mico e nel paese che rap­pre­senta. Ce lo inse­gna la sto­ria del rap­porto fra Usa e Dol­laro, ora si potrebbe dire fra la Cina e Renminbi.

In una tran­si­zione ege­mo­nica mon­diale fra Ovest e Est, ove le guerre sono all’ordine del giorno e una defla­gra­zione mon­diale è die­tro l’angolo, il ruolo di un’Europa fede­rale e demo­cra­tica, dotata di una pro­pria forza eco­no­mica, quindi anche di una moneta, è deci­siva. Se si tra­sfor­masse in un pro­tet­to­rato tede­sco più ristretto, come vogliono i vari Schau­ble, sarebbe una scia­gura non solo per l’economia ma per i già tra­bal­lanti rap­porti geo­po­li­tici mondiali.

«».

Il manifesto

Il segre­ta­rio del Pcf, Pierre Lau­rent, ha cer­cato di man­te­nere una par­venza di unità alla sini­stra della sini­stra. Ma alla Fête de l’Humanité, mal­grado la noti­zia della vit­to­ria di Cor­byn, è andata ieri in onda la divi­sione. Non sull’accoglienza dei rifu­giati, per­ché la soli­da­rietà resta per for­tuna un valore con­di­viso, né tanto sull’azione per far fronte al disor­dine cli­ma­tico, anche se su que­sto fronte le sen­si­bi­lità sono a volte lon­tane, ma la lace­ra­zione è sull’Europa e sull’euro. Lo scon­tro in corso in Gre­cia, a una set­ti­mana dalle ele­zioni anti­ci­pate, si è invi­tato sotto la piog­gia della festa a La Cour­neuve. Jean-Luc Mélen­chon, lea­der del Front de Gau­che, ha accolto in una tavola rotonda l’ex mini­stro Yanis Varou­fa­kis, con Oskar Lafon­taine di Die Linke e Ste­fano Fas­sina. Nes­sun espo­nente del Pcf, che pure fa parte del Front de Gau­che, a que­sto dibat­tito. Pierre Lau­rent, del resto, ha invi­tato al dibat­tito “Insieme per un’altra Europa”, l’ex mini­stro greco, George Katrou­ga­los, rima­sto fedele a Tsi­pras, oltre a rap­pre­sen­tanti di Pode­mos, Izquierda Unida e anche Die Linke. Lau­rent ha visto in un breve incon­tro Varou­fa­kis, ma la divi­sione di fondo resta: la sini­stra della sini­stra, che pure è d’accordo sulla neces­sità di tro­vare un’altra strada nell’Europa dell’austerità, essen­zia­lizza la moneta unica e si lacera.

Mélen­chon, Varou­fa­kis, Lafon­taine e Fas­sina affer­mano di “essere deter­mi­nati a rom­pere con que­sta Europa”, hanno un “piano A” per otte­nere “un com­pleto rine­go­ziato” dei Trat­tati. Ma, vista l’improbabilità di que­sta strada (per rifor­mare i Trat­tati ci vuole l’unanimità nella Ue), pro­pon­gono un “piano B”, che non esclude l’uscita dall’euro. Mélen­chon vor­rebbe orga­niz­zare un ver­tice euro­peo, già a novem­bre, per pro­porre que­sto “piano B”. E pre­cisa: se dovessi sce­gliere “tra l’euro e la sovra­nità nazio­nale” sce­glie­rei la seconda ipo­tesi. Mélen­chon ha appena pub­bli­cato un libro, Le Hareng de Bismarck, dove mette sotto accusa la Ger­ma­nia. Anche Varou­fa­kis è su que­sta linea: per l’ex mini­stro, la minac­cia di Gre­xit e i dik­tat impo­sti ad Atene da Ber­lino e Bru­xel­les hanno come obiet­tivo quello di pie­gare qual­siasi vel­leità di cam­bia­mento, mirando ad obbli­gare in primo luogo la Fran­cia ad accet­tare una com­pleta austerità.

Per Lau­rent, invece, “Syriza non si è pie­gata all’austerità”, ma Tsi­pras è stato lasciato “solo con­tro tutti”. Lau­rent aggiunge: “con­ti­nuo a cre­dere che un’uscita dall’euro non avrebbe miglio­rato i rap­porti di forza in Grecia”.

La pro­po­sta del “Piano B” di Mélenchon-Varoufakis arriva in Fran­cia dopo la forte pole­mica sol­le­vata dall’economista Jac­ques Sapir, vicino al Front de Gau­che. Sapir pro­pone un “fronte repub­bli­cano” per l’abbandono della moneta unica, che potrebbe anche non esclu­dere l’estrema destra. Per Sapir, non è più pos­si­bile igno­rare la forza del Fronte nazio­nale, che alle ultime euro­pee è stato il par­tito più votato. “Creando uno spar­tiac­que pro o con­tro l’euro andiamo a sbat­tere con­tro un muro”, afferma Clé­men­tine Autin, por­ta­voce di Ensem­ble, la terza com­po­nente del Front de Gau­che. “C’è piena coscienza delle divi­sioni, ma la domanda per Ps, Pcf, Parti de Gau­che, Verdi è come rispon­dere all’aspirazione popo­lare per la lotta alla disoc­cu­pa­zione, alle ine­gua­glianze, alla cre­scita della povertà”, rias­sume l’ex mini­stro socia­li­sta, Benoît Hamon (ormai vicino alla “fronda” con­tro il governo Valls, ma sulla lista Ps per le regio­nali di dicem­bre). Il Front de Gau­che è lace­rato, Europa-Ecologia sta per­dendo i pezzi (i capo­gruppo all’Assemblea e al Senato, Fra­nçois de Rugy e Jean-Vincent Placé sono appena usciti dal par­tito per fon­dare Eco­lo­gi­stes!, una for­ma­zione più cen­tri­sta). L’imminenza delle ele­zioni regio­nali di dicem­bre, con alleanze a geo­me­tria varia­bile nelle varie regioni tra Ps, Verdi e Front de Gau­che, non ha favo­rito ieri una discus­sione razionale.

LLa Repubblica, 12 settembre 2015

LA DISOBBEDIENZA non è sempre una virtù. Però, spesso, è un indice di buona salute democratica. L’unanimità, invece, come ci insegna la storia antica e recente, è un gran brutto segno: esprime conformismo e apatia, fino a soggezione e costrizione. Come si garantisce allora in un corpo politico l’espressione delle diverse volontà con la lealtà e la coesione? Non ci sono che due strade: con il compromesso tra le diverse posizioni o con l’imposizione di una volontà, quella della maggioranza. Il Pd si torce nella ricerca di una soluzione a questo dilemma. Finora non si è trovata una via mediana tra la richiesta di compattezza e lealtà da parte del segretario, e l’affermazione di soggettività e dissenso da parte della minoranza.

Ma qualunque sia l’esito di questo conflitto, è il suo stesso sorgere che sembra inammissibile, quando in realtà esso non rappresenta altro che la fisiologia della politica. Quando mai c’è stato unanimismo nei partiti, democratici e non? Per decenni il Pci è stato accusato di scarsa o nulla democrazia interna a causa del suo “centralismo democratico”, una pratica in base alla quale dopo aver discusso negli organi interni, tutti dovevano seguire la linea decisa, pena l’espulsione. Invece, al suo interno, i conflitti, benché ovattati dentro le mura di Botteghe Oscure, divampavano, eccome. E in alcune occasioni venivano alla luce. Ad ogni modo, il fatto che le opinioni difformi da quelle della leadership non potessero organizzarsi in correnti, contrariamente a quanto accadeva agli altri partiti, era indice di grande intolleranza. Sembra passato un secolo da quel clima politico. Certo, un conto è il dibattito interno ad un partito, un conto il comportamento di voto in Parlamento, perché alle Camere è in gioco la maggioranza di governo. Qui la compattezza ha un valore ben più alto. Tuttavia, a parte la curiosa “regressione” del Pd a partito di massa classico, quando il segretario comandava sui parlamentari annullandone l’autonomia di giudizio, l’enfasi sull’obbedienza martellata dai supporter di Matteo Renzi ha uno sgradevole retrogusto plebiscitario.

In realtà, il voto difforme rispetto a quello del proprio partito non è una cosa inaudita nei parlamenti democratici. Per partire dal caso più recente, nel Bundestag tedesco molti parlamentari del partito della cancelliera Angela Merkel hanno votato contro gli aiuti alla Grecia: sia a febbraio che ad agosto circa un 20 per cento di deputati si è rifiutato di sostenere il governo su questo punto. In Gran Bretagna, durante la sessione parlamentare 2013/14, nel 31 percento delle votazioni, deputati appartenenti alla coalizione che sosteneva David Cameron hanno voto contro il loro governo. Il maggior numero di disubbidienti si trova tra i Conservatori: sono stati più di 20 in 8 casi, e più di 30 in tre casi. E questo ha determinato la sconfitta del governo in tre occasioni.

Ancora più significativo il caso della “fiducia” al governo di Manuel Valls, ripresentatosi in Parlamento con una nuova compagine governativa dopo le dimissioni, richieste e ottenute, di alcuni ministri riottosi. Il 16 settembre scorso, alla fine dell’illustrazione del nuovo programma (non una vera fiducia, in realtà, perché non è prevista in Francia), ben 31 deputati hanno votato contro. Per loro, come negli altri casi, nessuna sanzione. E men che meno è andato in crisi il governo.

Questi esempi ci dicono che i voti in dissenso rispetto alla leadership sono la norma in occasione di grandi dibattiti. Non scandalizzano più di tanto. Eppure il conflitto interno al Pd in merito alla riforma del Senato ha assunto toni apocalittici con aberrazioni che vanno dall’accusa di lesa maestà, da un lato, alle grida per l’attacco alla democrazia, dall’altro. Se al di là del contenuto del conflitto c’è una sfida da vincere, questa riguarda il profilo della leadership di Matteo Renzi. Perché una vera leadership si afferma per capacità di convinzione, non di coercizione. La spada di Brenno appartiene ai barbari, l’ agorà all’alba della civiltà. Per questo, anche per questo, un senatus può servire.

Chissà se e quando capiranno che l'esodo non caccia verso 'Europa solo il Medio oriente, ma anche tutta l'Africa subsahariana e le altre regioni saccheggiate dal Primo mondo e assoggettate a regimi tirannici e corrotti promossi di nostri governi

. La Repubblica, 10 settembre 2015

«Dalla Germania solo e sempre cattive notizie» amava ripetere Tacito: evidentemente il grande storico romano non aveva previsto Angela Merkel. Colei che ancora solo poche settimane or sono nell’immaginario collettivo del Vecchio continente veniva raffigurata come “matrigna d’Europa”, arcigna espressione di una visione senza cuore della po-litica, si è come d’incanto trasformata in motivo di stupefatta sorpresa. In qualche caso persino di entusiastica ammirazione e il timore di una “egemonia tedesca” in speranza che la Germania assuma finalmente la guida del processo di unificazione europeo. Certo: l’epocale svolta nella politica della accoglienza e dell’integrazione che la Merkel è riuscita nel giro di pochissime ore a imporre al suo paese ha una portata le cui conseguenze potremo valutare solo nei prossimi mesi o addirittura anni. Tanto più importante adesso, quando

Ungheria e Danimarca guidano il fronte di chi rifiuta l’accoglienza. Essa infatti ridisegna non solo l’atlante geo-economico dell’area tra l’Europa e la costa meridionale del Mediterraneo ma ridefinisce anche i parametri etici dell’agire politico di una componente decisiva, l’Unione europea, del mondo occidentale. Non è per questo esagerato paragonare la scelta della Merkel che ha trasformato la sua persona e il suo paese in motivo di speranza per centinaia di migliaia di profughi al gesto rivoluzionario compiuto da Willy Brandt il 7 dicembre del 1970 quando l’ex borgomastro di Berlino diventato cancelliere si inginocchiò dinnanzi al monumento in memoria della rivolta del ghetto di Varsavia. Un gesto grazie al quale la Germania fece pace con se stessa e col mondo.

Anche se drammatici fattori contingenti hanno avuto un peso non indifferente di questa “metamorfosi Merkel” è possibile razionalmente delineare la genesi. Ha cioè precise origini e spiegazioni che hanno a che fare con la vicenda storica tedesca ma anche con la natura specialissima della leadership politica che sta lentamente trasformando il cancellierato della Merkel in un fenomeno per i manuali di politologia.

La convinzione della Merkel e di tutto il governo tedesco di poter affrontare e risolvere («faremo tutto il necessario e ci riusciremo » questa l’impegnativa promessa della Merkel) la sfida di integrare 800mila migranti si fonda su due certezze: le precedenti esperienze storiche. E il solido funzionamento del sistema sociale, economico e politico-istituzionale.

Anche senza ritornare alle drammatiche vicende degli anni tra il 1944 e il 1950 quando milioni di profughi lasciarono le terre ex prussiano-tedesche cercando rifugio e integrazione nelle regioni ad occidente dell’Elba ci sono due altre esperienze che possono essere di utile riferimento. In primo luogo l’ integrazione a partire dagli anni ‘50 di milioni di lavoratori provenienti da Italia, Turchia e poi via via da Spagna, Grecia e Jugoslavia.

Ma la grande svolta avvenne alla fine degli anni ‘90 grazie al governo o guidato da Schröder e da Joschka Fischer. Grazie alle importanti riforme realizzate dopo la riunificazione del paese dal governo “rosso-verde”, la Germania è diventata la nazione in Europa in cui la pratica del riconoscimento è una filosofia messa in atto anche nelle realtà più estreme di degrado urbano. Infatti la politica di integrazione sociale e culturale (religiosa) degli immigrati procede seguendo una sorta di “terza via” differenziandosi sia dal modello francese di “universalismo” assoluto che da quello “multiculturalista” inglese (e anglosassone in genere). Da quello francese che mira a una integrazione intesa come totale assimilazione ai valori della nation française e nega in tal modo qualsiasi riconoscimento delle differenze culturali. Ma parimenti anche dal modello inglese del Londonistan, basato sulla presa d’atto delle esistenza di una pluralità di realtà: è il multiculturalismo di ghetti contigui ma reciprocamente impenetrabili.

L’abbandono da parte della Germania del mito arcaico e barbaro dello jus sanguinis è stato possibile grazie all’azione di “stedeschizzazione” della morale collettiva compiuta dai Verdi. C’è poi un’altra ragione. All’inizio di questo secolo-millennio la Germania era “il malato d’Europa”: basso tasso di crescita, alto tasso di disoccupazione, debito pubblico fuori controllo, disaffezione degli investimenti privati. Oggi grazie alle riforme dell’Agenda 2010 volute da Schröder la Germania è il centro di gravità democratico del Vecchio Continente: caso forse unico in Europa, nessuna formazione politica dichiaratamente xenofoba ha rappresentanza parlamentare (questo ovviamente non significa affatto che non esistano organizzazioni neonaziste). Certo le distanze tra l’Ovest e l’Est continuano ad esistere: ma chi viaggi oggi tra Lipsia e Dresda non può non prendere atto che quelle regioni hanno conosciuto una trasformazione davvero stupefacente.

Ma il vero arcano del Modell Deutschland consiste nella sistematica ricerca del “compromesso” a livello politico, sociale e istituzionale per assicurare la stabilità del sistema di cui quella della moneta e quella del governo sono le metafore per eccellenza. La segreta “teologia politica” di un paese che ha scelto, dopo averne fatto diretta e tragica esperienza, di mettere “fuori legge” la primitiva logica della contrapposizione “amico-nemico” tanto cara a Carl Schmitt, è un programmatico antidecisionismo.

E poi c’è il fattore Merkel: negli anni la Cancelliera è riuscita a costruire un rapporto di fiducia con l’elettorato come nessuno mai prima di lei. Né Adenauer o Kohl per la Cdu o Brandt e Schmidt per la Spd. E non è la prima volta che tagliando corto con la sua proverbiale prudenza la Merkel è stata capace nel giro di poche ore di proporre un orizzonte totalmente differente all’azione politica. Ma questo successo apparentemente irresistibile della Merkel ha anche un suo “lato oscuro” su cui prima o poi converrà iniziare a interrogarsi. Intanto a dar vita al vero “partito della nazione” ci ha pensato lei.

Europa e migranti. Finalmente una visione consapevole del dramma che stiamo vivendo: non è solo la Siria, non sono solo le guerre guerreggiate, è la guerra ostinata degli stati capitalisti del Nord e del Sud, dell'Est e dell'Ovest che ha generato per decenni miseria e oppressione, e prosegue ancora oggi.

Il manifesto, 10 settembre 2015

Quando la glo­ba­liz­za­zione cessa di pre­sen­tarsi sotto forma di merci e di capi­tali, e assume l’aspetto di umani indi­vi­dui, addi­rit­tura di popoli in fuga, allora il pen­siero unico neo­li­be­rale pre­ci­pita in con­fu­sione. La libertà della sua assor­dante reto­rica riguarda i soldi e le cose, non gli uomini. Per le per­sone, la libertà di tran­sito non può essere uguale a quella delle merci. È fac­cenda più com­pli­cata. E dun­que la coe­renza teo­rica viene abban­do­nata e si passa all’uso delle mani.

Di fronte al feno­meno migra­to­rio il ceto poli­tico euro­peo, salvo rare ecce­zioni, è caduto negli ultimi mesi assai al di sotto dell’intelligenza nor­male delle cose, della capa­cità di cogliere non tanto la sovra­stante e incon­tra­sta­bile potenza di un pro­cesso sto­rico. In que­sto la mise­ria morale del suo atteg­gia­mento, che ha assunto la fac­cia truce dell’intransigenza con­tro i dere­litti del mondo, col tempo resterà incan­cel­la­bile più per il lato ridi­colo che per la fero­cia. Lea­der e uomini di governo ci sono apparsi nell’atto di voler svuo­tare l’oceano con il cuc­chiaino. Ma segno ancor più rile­vante di una medio­crità poli­tica senza pre­ce­denti è l’incapacità di rap­pre­sen­tare gli inte­ressi di lungo periodo dei rispet­tivi capi­ta­li­smi nazio­nali, di cui sono i solerti ser­vi­tori. Osses­sio­nati dalla con­ser­va­zione del loro potere, con l’occhio sem­pre fisso ai dati del con­senso per­so­nale, gover­nanti e poli­tici di varia taglia hanno di mira il solo scopo di vin­cere la com­pe­ti­zione elet­to­rale in cui sono peren­ne­mente impe­gnati con­tro avver­sari e sodali. E per­ciò sono spa­ven­tati dalle dif­fi­coltà dei pro­blemi orga­niz­za­tivi che l’arrivo dei migranti pon­gono nell’immediato.

La loro cam­pa­gna elet­to­rale può rice­verne solo danno. Se negli ultimi giorni le bar­riere sono cadute è per­ché – come è apparso chiaro – la vastità di massa e l’irruenza incon­te­ni­bile del movi­mento di popolo poteva, da un momento all’altro, pre­ci­pi­tare in un mas­sa­cro. Rischiava di rap­pre­sen­tare agli occhi del mondo, ancora in Europa, una nuova forma di olo­cau­sto nel glo­rioso terzo mil­len­nio. E la Ger­ma­nia, soprat­tutto la Ger­ma­nia, con il suo pas­sato, non poteva permetterselo.

Ma chi ha la testa sol­le­vata al di sopra della palude della nano­po­li­tica sa che il feno­meno migra­to­rio è di lunga data, è solo esploso a causa delle guerre recenti in Oriente e in Africa. L’Human Deve­lo­p­ment Report 2009, dedi­cato dalle Nazioni Unite a Human mobi­lity and deve­lo­p­ment, ricor­dava che «« Ogni anno, più di 5 milioni di per­sone attra­ver­sano i con­fini inter­na­zio­nali per andare a vivere in un paese svi­lup­pato.»» E i mag­giori e quasi esclu­sivi cen­tri di attra­zione erano e sono gli Usa e l’Europa.Una migra­zione immane che dalla metà del secolo scorso ha spo­stato circa 1 miliardo di per­sone fuori dai luo­ghi in cui erano nate. Come potrebbe essere diver­sa­mente? Il capi­ta­li­smo usa due potenti leve per sra­di­care i popoli dalle pro­prie terre.

La prima è quella dello “svi­luppo”, la tra­sfor­ma­zione delle eco­no­mie agri­cole in primo luogo, la distru­zione della pic­cola pro­prietà col­ti­va­trice a favore delle grandi aziende mec­ca­niz­zate, la nascita di poli indu­striali, lo svuo­ta­mento delle cam­pa­gne, la for­ma­zione di mega­lo­poli e di scon­fi­nate bidon­ville. E lo svi­luppo, che in tanti paesi avanza attra­verso vasti dibo­sca­menti e la rot­tura di equi­li­bri natu­rali seco­lari, il sac­cheg­gio neo­co­lo­niale delle risorse, genera anche altre migra­zioni: quella dei pro­fu­ghi ambien­tali, che fug­gono da inon­da­zioni o da pro­lun­gate siccità.

L’altra leva, sem­pre più attiva, è il potere incon­te­ni­bile di attra­zione che le società pro­spere dell’Occidente eser­ci­tano sulle menti delle popo­la­zioni immi­se­rite, depor­tate, segre­gate che si agi­tano nei vari angoli del mondo. Occorre tenerlo bene in mente: ogni giorno, anche nel più remoto vil­lag­gio afri­cano, gra­zie a un’antenna satel­li­tare va in onda lo spet­ta­colo della più fla­grante ingiu­sti­zia che lacera il destino delle genti sul nostro pia­neta. Uno spet­ta­colo gran­dio­sa­mente tra­gico che i dan­nati della Terra non ave­vano mai visto nei secoli e nei decenni pas­sati. I mise­ra­bili, gli affa­mati, gli inva­lidi, i reclusi, le donne segre­gate, pos­sono vedere dall’altra parte del mondo i loro simili, uomini e donne come loro, ric­chi, sazi, sani, liberi. E que­sto spet­ta­colo genera due scelte, ormai ben evi­denti: l’estremismo ter­ro­ri­sta o la fuga di massa.

Ma il ceto poli­tico euro­peo, che vive alla gior­nata – non quello gover­na­tivo ame­ri­cano, che dispone di cen­tri di ana­lisi stra­te­gica e di pro­ie­zioni di lungo periodo – non com­prende, per spe­ci­fica mise­ria intel­let­tuale, nep­pure l’interesse del capi­ta­li­smo che ha scelto di rap­pre­sen­tare. Dimen­tica, ad esem­pio, che l’immigrazione di popo­la­zione “latina” negli Usa è stata una delle grandi leve del boom eco­no­mico degli anni ’90 in quel paese. Ma soprat­tutto non com­prende quali van­taggi una forza lavoro gio­vane e abbon­dante pro­cu­rerà alle imprese euro­pee nei pros­simi anni. E qui è evi­dente che il pro­blema riguarda tutti noi, la sini­stra poli­tica, il sin­da­cato. Siamo stati cer­ta­mente enco­mia­bili nel difen­dere i diritti dei migranti, il valore di civiltà del libero spo­sta­mento delle per­sone oltre le frontiere.

Ma l’arrivo di tanta forza lavoro a buon mer­cato non solo ci impone di vedere le per­sone umane, i tito­lari di diritti intan­gi­bili, oltre le brac­cia da fatica – cosa che in Ita­lia abbiamo ben fatto, anche se solo a parole e senza alcuna mobi­li­ta­zione — ma di cogliere per tempo la sfida che tutto que­sto ci pone. Sfida di orga­niz­za­zione, di pro­po­ste, di solu­zioni, di poli­ti­che. O fac­ciamo un ulte­riore salto di civiltà, tutti insieme, secondo le logi­che della nuova sto­ria del mondo, o regre­diamo tutti insieme. Per strano che possa sem­brare, la sini­stra, in Ita­lia, ha la pos­si­bi­lità, la pos­si­bi­lità teo­rica, di for­nire delle rispo­ste stra­te­gi­che con cui rispon­dere allo sce­na­rio tur­bo­lento e dif­fi­cile che si apre. Ci ritor­nerò pros­si­ma­mente in maniera mirata.

Il discorso di Juncker all’Europarlamento: «In questa Unione europea manca l'Unione e manca l'Europa». Scusate se è poco. Ma se è così, perché strangolate chi propone un'Altra Europa, come la Grecia di Tsipras? Regna l'ipocrisia. La Repubblica, 10 settembre 2015

«Non è il momento di avere paura». Con queste parole Jean-Claude Juncker si è rivolto ieri al Parlamento europeo presentando il suo piano per la redistribuzione obbligatoria di altri 120 mila profughi. Era il suo primo discorso sullo Stato dell’Unione da quando ha assunto la presidenza della Commissione Ue. E Juncker ha usato parole forti, all’altezza di una emergenza politica che non ha precedenti nella storia europea: «Deve essere chiaro a tutti che è finito il tempo del business as usual e dei discorsi vuoti». Superata la dura battaglia con i governi del Nord per salvare la Grecia («siamo stati collettivamente sull’orlo del baratro »), il capo dell’esecutivo europeo deve ora far fronte a una nuova sfida per costringere i Paesi dell’Est a dare prova di solidarietà sulla questione dei rifugiati: «La Ue non versa in buone condizioni, manca l’unione in questa Unione europea e manca l’Europa. Tutto questo deve cambiare».

Nonostante il lutto per la perdita della madre, morta domenica sera, Juncker ha declinato l’offerta del Parlamento di rinviare il discorso e ha voluto presentarsi puntuale a Strasburgo anche per sottolineare la gravità della situazione e l’importanza delle decisioni che attendono l’Europa. «Mia madre, che è morta, e mio padre, che è gravemente malato, hanno lavorato tutta la loro vita. E così faccio io: lavoro. Per questo sono qui», si è giustificato con voce tremante per la commozione. Ed ha lanciato un appello agli europei perché non dimentichino il proprio passato e i propri valori: «Noi europei dovremmo ricordare che questo è un continente dove tutti, in un momento o in un altro della nostra storia, siamo stati profughi».

Il presidente della Commissione ha criticato i Paesi che cercano di fermare l’afflusso dei disperati. «Fino a che ci sarà la guerra in Siria, questo problema non scomparirà da un giorno all’altro, e nessun muro fermerà l’afflusso dei profughi. Stiamo combattendo l’Is, come possiamo non accogliere quelli che fuggono l’Is?». Ma ha anche criticato quanti si dicono disposti ad accettare solo rifugiati cristiani: «In passato l’Europa ha già fatto l’errore di distinguere tra ebrei, musulmani e cristiani: non c’è religione, non c’è credo e non c’è filosofia quando si parla di profughi».

Il discorso sullo stato dell’Unione si è trasformato così, attraverso le parole di Juncker, in una grande seduta di autocoscienza di fronte al dramma dei migranti. «L’Europa è il panettiere di Kos che regala panini ai rifugiati che arrivano, sono gli studenti che offrono il loro aiuto nelle stazioni tedesche, e coloro che alla stazione di Monaco hanno accolto i profughi siriani con applausi. L’Europa in cui voglio vivere è quella incarnata da queste persone; l’Europa in cui non vorrei mai vivere è quella di chi rifiuta la solidarietà».

Ma il presidente della Commissione ha anche cercato di ridimensionare la portata del problema: «la massa di chi cerca riparo da noi rappresenta lo 0,1 per cento della popolazione europea. In Libano, che ha un reddito pari ad un quinto del nostro, i rifugiati sono il 25 per cento della popolazione. L’Europa ha i mezzi per fare fronte a questa emergenza».

Nalla sostanza, il piano di Juncker è quello anticipato nei giorni scorsi. Oltre ai 40 mila richiedenti asilo ripartiti a luglio per alleggerire Grecia e Italia, la Commissione propone di redistribuirne altri 120 mila: 16 mila attualmente in Italia, 54 mila in Ungheria e 50 mila in Grecia. Germania, Francia e Spagna dovranno accoglierne la maggior parte. Ma ogni Paese si vedrà attribuire una quota obbligatoria, calcolata in base al reddito, alla popolazione, al tasso di occupazione e ai profughi già ospitati. Le quote, in base ai Trattati, non si applicheranno a Gran Bretagna e Danimarca, mentre l’Irlanda, che pure sarebbe esentata, ha detto di voler partecipare alla redistribuzione. Per tutti gli altri, invece, i contingenti saranno obbligatori. Un Paese può, per gravi e comprovati motivi, chiedere alla Commissione di essere esonerato dalla condivisione. Bruxelles valuterà il caso e potrebbe concedere una esclusione temporanea, ma in questo caso il Paese esentato dovrà pagare un contributo di solidarietà proporzionale alla sua ricchezza. Per ogni profugo accolto, i governi riceveranno dalla Commissione un contributo di seimila euro.

Juncker ha anche annunciato una serie di altri misure per far fronte all’emergenza, spiegando che, all’inizio dell’anno prossimo la Commissione presenterà un progetto complessivo per la gestione dell’immigrazione economica «di cui abbiamo comunque bisogno». Il passo più importante sarà il rafforzamento di Frontex, che dovrà occuparsi anche dei rimpatri di chi non ha diritto all’asilo: «dobbiamo fare un passo ambizioso verso la creazione di una Guardia di frontiera e di una Guardia costiera europea prima della fine dell’anno», ha detto il presidente della Commissione. Infine, già al prossimo consiglio, Bruxelles presenterà una lista di Paesi considerati “sicuri”, che comprenderà la Turchia e i Balcani, i cui cittadini non potranno chiedere di ricevere asilo politico in Europa.

Un gruppo di economisti di fama internazionale ha firmato un appello affinché i Paesi Membri dell’Unione Europea votino, durante l’Assemblea Generale dell’ONU del 10 settembre, a favore di una risoluzione per la gestione democratica dei debiti sovrani, affinché le sorti dei Paesi indebitati vengano sottratte al mercato dei debiti, come nel caso dell’Argentina prima e della Grecia poi. Il manifesto, 9 settembre 2015

«La crisi greca ha mostrato che in assenza di un qua­dro poli­tico inter­na­zio­nale, che per­metta una gestione ragio­ne­vole dei debiti sovrani, e mal­grado la loro inso­ste­ni­bi­lità, uno Stato da solo non può otte­nere delle con­di­zioni pra­ti­ca­bili per la ristrut­tu­ra­zione del pro­prio debito. Durante le nego­zia­zioni con la Troika, la Gre­cia si è imbat­tuta in un osti­nato rifiuto in tema di ristrut­tu­ra­zione, in con­tra­sto con le rac­co­man­da­zioni stesse del Fmi.

Esat­ta­mente un anno fa a New York, l’Argentina, soste­nuta dai 134 Paesi del G77, ha pro­po­sto in sede Onu di creare un comi­tato che sta­bi­lisse un qua­dro legale a livello inter­na­zio­nale per la ristrut­tu­ra­zione dei debiti sovrani. Il comi­tato, soste­nuto da un gruppo di esperti dell’Uctad, vuole adesso sot­to­porre al voto 9 prin­cipi, che dovreb­bero pre­va­lere durante le ristrut­tu­ra­zioni dei debiti sovrani: sovra­nità, buona fede, tra­spa­renza, impar­zia­lità, trat­ta­mento equo, immu­nità sovrana, legit­ti­mità, soste­ni­bi­lità, regole maggioritarie.

Negli ultimi decenni si è assi­stito all’emergere di un vero e pro­prio mer­cato del debito a cui gli Stati hanno dovuto sot­to­stare. L’Argentina, prima in que­sto pro­cesso, ha dovuto affron­tare i cosid­detti “fondi avvol­toio” quando ha scelto di ristrut­tu­rare il pro­prio debito. Que­sti fondi, di recente, hanno otte­nuto per mezzo della Corte ame­ri­cana il con­ge­la­mento degli asset argen­tini pos­se­duti negli Stati Uniti.

Ieri all’Argentina, oggi alla Gre­cia, domani forse alla Fran­cia o a qual­siasi Paese inde­bi­tato può essere negata nelle attuali con­di­zioni la pos­si­bi­lità di una ristrut­tu­ra­zione del debito nono­stante il buon senso. Adot­tare un qua­dro legale rap­pre­senta un’urgenza per assi­cu­rare la sta­bi­lità finan­zia­ria, per­met­tendo a cia­scun Paese di risol­vere il dilemma tra il col­lasso del sistema finan­zia­rio e la per­dita di sovra­nità nazionale.

Que­sti 9 prin­cipi riaf­fer­mano la supe­rio­rità del potere poli­tico, attra­verso la sovra­nità nazio­nale, nella scelta delle poli­ti­che pub­bli­che. Essi limi­tano la spo­li­ti­ciz­za­zione della strut­tura finan­zia­ria, la quale ha escluso finora ogni pos­si­bile alter­na­tiva all’auste­rity, tenendo in ostag­gio gli Stati.

L’Onu deve quindi farsi soste­ni­tore di una gestione demo­cra­tica del debito e della fine del mer­cato dei debiti.

Un’iniziativa simile aveva fal­lito nel 2003 al Fondo Mone­ta­rio Internazionale.

Oggi, la posi­zione degli Stati euro­pei rimane ambi­gua, nono­stante il loro sup­porto sia fon­da­men­tale affin­ché que­sta riso­lu­zione possa essere attuata. I Paesi euro­pei si sono disin­te­res­sati al pro­cesso di demo­cra­tiz­za­zione non mostrando alcun sup­porto alla crea­zione del comitato.

Ma la situa­zione greca ha mostrato che non c’è più tempo per tergiversare.

Se gli eventi dell’estate hanno raf­for­zato i nazio­na­li­smi e la sfi­du­cia dei cit­ta­dini verso le isti­tu­zioni inter­na­zio­nali, oggi gli euro­pei sono chia­mati a riaf­fer­mare i diritti demo­cra­tici, da ante­porre alle regole di mer­cato nella gover­nance internazionale.

Chie­diamo quindi che tutti li Stati Euro­pei votino a favore di que­sta risoluzione».

Primi fir­ma­tari

Gabriel Col­le­tis
Gio­vanni Dosi
HHei­ner Flassbeck
James Gal­braith
Jac­ques Généreux
Mar­tin Guzman
Michel Hus­son
Steve Keen
Ben­ja­min Lemoine
Mariana Maz­zu­cato
Ozlem Ona­ran
Tho­mas Piketty
Robert Salais
Engel­bert Stockhammer
Xavier Tim­beau
Bruno Thé­ret
Yanis Varou­fa­kis
Gen­naro Zezza

(tra­du­zione Marta Fana)

Davvero sublimi le truffe che il cerchio magico di Matteo Renzi riesce a inventare per difendere il regime feudale e accalappiare gli scioccherelli della sinistra tremula.

Il manifesto, 8 settembre 2015

Inven­zione. Secondo il dizio­na­rio, idea­zione, crea­zione o intro­du­zione di oggetti, pro­dotti, stru­menti e altre cose pre­ce­den­te­mente non esi­stenti. E ci siamo, con la riforma costi­tu­zio­nale. Si sente di un accordo nel Pd: aprire al senato elet­tivo, ma senza toc­care il testo già appro­vato, che - ahimè - dice il con­tra­rio. Un senato elet­tivo i cui com­po­nenti non sono eletti. Una inso­ste­ni­bile apo­ria, e un’invenzione. Con un senato elet­tivo, ma non troppo, il genio ita­lico col­pi­sce ancora. La chiave sarebbe un listino.

Come quello che un tempo ave­vamo a livello regio­nale, e che a furor di popolo era stato sostan­zial­mente espunto nella ultima sta­gione sta­tu­ta­ria. Doveva ser­vire a por­tare pre­senze qua­li­fi­cate e com­pe­tenze nei con­si­gli regio­nali a soste­gno dei gover­na­tori, ed era poi in pre­va­lenza diven­tato luogo di mer­ci­mo­nio poli­tico o asilo per amici, sodali, parenti e clienti. Che si voglia adesso rispol­ve­rare a livello nazio­nale già segnala quanto sia bassa la mediazione.

Un par­la­men­tare è dav­vero eletto se viene per­so­nal­mente scelto dagli elet­tori, in una diretta com­pe­ti­zione con altri. Qua­lun­que altro sistema, nel degrado gene­rale che ci accom­pa­gna, non pro­mette buoni risul­tati. Un listino pre­su­mi­bil­mente votato in blocco e in col­le­ga­mento con un can­di­dato gover­na­tore o con una lista di par­tito, signi­fica invece un senato di nomi­nati, per di più — se rimane il testo fin qui appro­vato — scelti da chi non merita e tra chi non merita. E che si aggiunge a una camera pari­menti com­po­sta in larga misura di nomi­nati, per l’infernale mec­ca­ni­smo dei capi­li­sta a voto bloc­cato. Tutto, pur di evi­tare che il popolo sovrano scelga chi lo rappresenta.

Pare che una parte della tre­me­bonda dis­si­denza Pd sia dispo­ni­bile. Visti i pre­ce­denti, non mera­vi­glia, anche se non se ne capi­sce la ragione. Senza cam­bia­menti radi­cali del copione sono già oggi dei morti che cam­mi­nano, e ben dovreb­bero saperlo. Fa tene­rezza — o forse rab­bia — la men­zione dei males­seri della «nostra gente», del «nostro popolo», che qual­che lea­der, un tempo auto­re­vole, timi­da­mente mette in campo. Erano richiami fre­quenti nel gruppo diri­gente di quella che fu una grande sini­stra. Ave­vano un peso reale, per­ché segna­vano il comune sen­tire che legava la base al ver­tice del par­tito, e la con­di­vi­sione pro­fonda di valori e di obiet­tivi.

Ma qual­cuno dovrebbe spie­gare che oggi quel popolo non c’è più. E che è stato disperso non da una strega cat­tiva, ma da una ditta che ha cam­biato ragione sociale. Cosa ha a che fare con quel popolo un par­tito che toglie ai lavo­ra­tori gli stru­menti per la pro­pria difesa, che sba­racca la scuola pub­blica, che taglia i ser­vizi essen­ziali, che non com­batte le dise­gua­glianze, che addi­rit­tura toglie ai poveri per dare ai ric­chi come si pro­getta con l’Imu e la Tasi? È un dise­gno regres­sivo, e la radice è nella ricerca di voti ovun­que si pos­sano rac­co­gliere. Dov’è un pro­getto di sini­stra? E se si nega il pro­getto, si nega anche il «popolo» che in esso si può rico­no­scere. Del resto, chi ha avuto modo di fre­quen­tare anche occa­sio­nal­mente i cir­coli ter­ri­to­riali del Pd sa che ormai i mili­tanti di oggi sono molto diversi da quelli di un tempo. Il «popolo» che fu se n’è andato, in massa. E la spe­ranza dell’esangue sini­stra Pd di ricon­qui­stare il par­tito male si col­loca nel «popolo» di oggi.

Pro­prio per que­sto il dise­gno ren­ziano è coe­rente, e non di sini­stra. Gli argo­menti che lo sosten­gono sono ine­si­stenti. Il rispar­mio di spesa si riduce a spic­cioli, e più o meglio si per­se­gui­rebbe tagliando in modo bilan­ciato il numero di depu­tati e sena­tori. Il bica­me­ra­li­smo pari­ta­rio può essere supe­rato man­te­nendo il carat­tere elet­tivo, come l’esperienza di molti paesi ampia­mente dimo­stra. L’obiettivo vero è invece pro­prio l’asservimento delle assem­blee elet­tive all’esecutivo e al lea­der, e la ridu­zione degli spazi di demo­cra­zia e di par­te­ci­pa­zione. A que­sto sono fun­zio­nali il sistema elet­to­rale col suo mega­pre­mio di mag­gio­ranza al sin­golo par­tito e il bal­lot­tag­gio, e la riforma costi­tu­zio­nale. A que­sto fine, un ecto­pla­sma di senato è un ottimo risul­tato. E non dimen­ti­chiamo la mag­giore dif­fi­coltà di ricorso al refe­ren­dum popo­lare. A cosa serve tutto que­sto se non a zit­tire il dis­senso, per por­tare avanti poli­ti­che che un tempo avremmo defi­nito anti­po­po­lari, e che oggi per alcuni recano il segno della modernità?

Quindi, lasciamo in pace il «nostro popolo». Non sarà ricon­qui­stato con appelli sen­ti­men­tali, ma solo difen­dendo gli spazi di demo­cra­zia che ad esso pos­sono dare voce. Si com­batta dun­que fino in fondo per un senato genui­na­mente elet­tivo. Que­sto è oggi il ter­reno di scon­tro, e le inven­zioni di Renzi lascia­mole a lui. Anzi, non vor­remmo che qual­cuno ce lo copiasse. Bre­vet­tia­molo, e met­tia­molo sul mercato.

Noi stiamo con Syriza e Alexis Tsipras. Perché la loro lotta contro l’austerità e per cambiare radicalmente l’Europa è la nostra lotta. Se il 20 settembre Syriza sconfiggerà il fronte che vuole riportare la Grecia ai tempi della vergogna e della subalternità, sarà il segnale che la breccia aperta il 25 gennaio rimane aperta. Se non riusciranno a cancellare l’unico governo veramente democratico e di sinistra che si oppone al dogma neoliberista sul continente europeo, vorrà dire che la lotta può continuare. Che il progetto dell’oligarchia che guida l’Unione Europea non è passato.

In molti in Europa sperano nella fine del governo Tsipras e di Syriza. Sono le stesse forze che in questi mesi hanno fatto di tutto per farlo cadere o per cacciare tout court la Grecia dall'Europa. Contro queste forze Tsipras, il suo governo e il popolo greco hanno ingaggiato una battaglia durissima. In completa solitudine. Atene, è stato detto, è stata lasciata sola “come Praga nel ‘68”. Non solo le tradizionali forze di destra, ma la socialdemocrazia e gran parte dei socialisti europei si sono voltati dall’altra parte, e in molti casi si sono schierati contro. Ha pesato nello scontro anche la debolezza dei movimenti sociali, che non hanno fatto sentire in modo incisivo ed efficace la loro solidarietà alla Grecia come sarebbe stato necessario.

L'Europa è stato il luogo del compromesso sociale più avanzato e del migliore welfare state. Ora è divenuta un avamposto della globalizzazione neoliberista. Qui sta la nostra sconfitta. Qui le ragioni della ripartenza. Il grande merito di Tsipras è stato di denunciare questi poteri e questo stato di cose e di lanciare una lotta di liberazione della Grecia e dell'Europa, insieme. Per cinque mesi ha difeso in tutti i modi possibili il proprio popolo e il proprio Paese. Con il Referendum ha mostrato a tutti che il popolo greco sosteneva il proprio governo, che per liberarsene bisognava cacciare la Grecia dall’Europa.

Dopo la sofferta conclusione del negoziato Tsipras ha espresso un giudizio chiaro e severo del compromesso raggiunto. Lungi dal far propria la filosofia dell'avversario o l'idea che non esista alternativa allo stato di cose esistenti ha parlato di strade nuove da inventare col conflitto. Ha escluso l'uscita dall'Euro che non stava nei programmi votati dal popolo e che nella condizione data avrebbe rappresentato in sostanza pagare stipendi e pensioni in dracme e debiti in euro, con conseguenze disastrose. Senza nessuna indulgenza per il compromesso fatto occorre riconoscere che è stato posto un freno all'idea di una Europa tedesca ben rappresentata dal volto arcigno di Wolfgang Schaeuble, aprendo per altro contraddizioni significative e globali contro questo progetto, all'inizio impensabili nello schieramento neoliberista a livello europeo e internazionale. E che si è imposta la discussione sul debito, divenuta ora assai più concreta. Soprattutto sia la Grecia e che l'Europa hanno più tempo. Non è un caso che sia cresciuta la sintonia tra Tsipras e Iglesias facendo giustizia di troppo facili e strumentali analisi sulle differenze tra Podemos e Syriza; e che alla speranza spagnola si siano aggiunte le nuove opportunità in Irlanda e in Inghilterra con Corbyn.

In Grecia, d’altra parte, con coerenza Tsipras ha escluso ogni compromesso con i responsabili della rovina del Paese: popolari e socialisti, neppure a fronte della scelta effettuata da forze che hanno lasciato Syriza. Si chiede al popolo un giudizio su ciò che si è fatto e un nuovo mandato per la nuova fase, per continuare la lotta contro la austerità e per cambiare l'Europa.

Su questa prospettiva e questo terreno è nata l'Altra Europa con Tsipras. Non a caso ci siamo chiamati così, per connessione con un percorso di lotta e di cambiamento. Punto essenziale, indicato con chiarezza sia dall'appello iniziale che dal programma con cui siamo andati alle elezioni europee del 2014. In entrambi la lotta per cambiare l'Europa non viene delegata alla uscita da una moneta unica che potrebbe avere conseguenze tragiche, ma al cambiamento dei rapporti di forza sociali e politici dello scenario europeo considerato il vero terreno dello scontro e della ricostruzione della democrazia e dei soggetti di cambiamento.

Troppo poco abbiamo fatto in Italia perché la battaglia della Grecia e di Tsipras non rimanesse isolata. Per questo L’Altra Europa con Tsipras è impegnata perché in Italia nasca al più presto e si affermi una forza alternativa della sinistra che, insieme a tutte le forze della sinistra di alternativa europee, costituisca un punto di riferimento alle lotte, ai movimenti, alle battaglie per cambiare l’Europa.

Siamo solidali e vicini più che mai a Syriza, consapevoli del travaglio che la ha attraversata in un momento cosi delicato e drammatico e dell’importanza dell’unità, testimoniata anche da quelle compagne e quei compagni che, pur mantenendo posizioni critiche rispetto alle scelte del governo, hanno deciso di restare dentro Syriza per portare il loro contributo alla vittoria elettorale. Con questo spirito continueremo a ricercare la più larga unità di tutte le forze che lottano in Europa e in Grecia contro l'austerità lavorando per evitare ad ogni costo “guerre civili a sinistra”. Con la stessa coerenza con cui abbiamo auspicato l'unità di Syriza, siamo convinti che una nuova vittoria di Tsipras e di Syriza il 20 settembre aiuterà la lotta di tutti a continuare. Non solo ce la auguriamo, saremo in campo per dare tutto il nostro sostegno. In Italia, offrendo la più ampia informazione e continuando la battaglia contro le posizioni che insistendo sull'austerità portano il progetto europeo all'implosione. E partecipando numerosi alla conclusione della campagna elettorale di Syriza in Grecia, alla vigilia del voto del 20 settembre.

Riferimenti
Il documento è ripreso dal sito L'altra Europa con Tsipras. In eddyburg sono raccolti numerosi articoli sul coraggioso tentativo della Grecia di Tsipras di avviare la trasformazione dell'Unione europea e di costruire un'Europa finalizzata alle esigenze e agli interessi delle persone e non al maggior potere del financapitalismo (a una visione dell'Europa conforme al "manifesto di Ventotene" e non agli interessi nazionalistici dei singoli stati) è raggiungibile digitando sul "cerca" in cima a ogni pagina la parola "Tsipras"

I quattro fattori che hanno indotto Angela Merkel ad aprire una breccia nella ferrea barriera sella Fortezza Europa. Non centa il sentimento.

Il manifesto, 8 settembre 2015

Può cam­biare tutto nel giro di poche set­ti­mane o addi­rit­tura di pochi giorni? La stampa euro­pea fa mostra di cre­derci. L’egemonia tede­sca sull’Europa sem­bra essersi tra­sfor­mata d’incanto in una lumi­nosa guida morale. I «valori della cul­tura euro­pea» met­tono in ombra quelli della borsa, la respon­sa­bi­lità sto­rica prende il soprav­vento su quella con­ta­bile, dall’ultimo rifu­giato siriano fino alla can­cel­liera Mer­kel tutti insieme into­nano l’«Inno alla Gioia». Per qual­cuno la «pal­lida madre» avrebbe addi­rit­tura rispol­ve­rato lo spi­rito di Hoel­der­lin e Heine. L’esagerazione è il pane quo­ti­diano dei media. Eppure qual­cosa di nuovo è accaduto.

Ber­lino, sia pure con molti distin­guo di cui non è ancora chiara l’entità, ha rimesso in que­stione una delle sue crea­ture più care: quell’accordo di Dublino che costrin­geva i richie­denti asilo a rima­nere nel primo paese di approdo. Ha chia­mato a un grande sforzo nazio­nale per fron­teg­giare l’emergenza dei pro­fu­ghi, ha dichia­rato di voler inve­stire sei miliardi dei suoi pre­ziosi risparmi per la siste­ma­zione e l’integrazione dei nuovi arri­vati, indi­rizza l’Unione euro­pea verso poli­ti­che respon­sa­bili di aper­tura e di accoglienza.

Que­sta cor­re­zione di rotta è stata deter­mi­nata da quat­tro fat­tori ben più razio­nali che emo­tivi. Il primo, deci­sivo, è la con­sa­pe­vo­lezza che la pres­sione migra­to­ria era ormai inar­re­sta­bile. Il governo di Ber­lino ha dovuto infine pren­dere atto che non esi­ste bar­riera mate­riale o legi­sla­tiva in grado di argi­nare la mol­ti­tu­dine in movimento.

Si tratta, dun­que, di una vit­to­ria dei migranti, otte­nuta a caris­simo prezzo, di un risul­tato della loro straor­di­na­ria deter­mi­na­zione. Le fron­tiere non sono state sem­pli­ce­mente aperte dalla bene­vo­lenza dei «padroni di casa», ma tra­volte da decine di migliaia di per­sone che eser­ci­ta­vano, prima che qual­cuno glielo avesse rico­no­sciuto, il loro «diritto di fuga» e riven­di­ca­vano la libertà di movi­mento. Inol­tre biso­gnava fare in fretta poi­ché tutto poteva acca­dere in quell’Ungheria dai tratti sem­pre più mar­ca­ta­mente fasci­sti che l’Europa tol­lera nel suo seno. Aprire la fron­tiera più che una scelta è stata una necessità.

Il secondo ele­mento è la sco­perta che i sen­ti­menti xeno­fobi e raz­zi­sti non sono affatto mag­gio­ri­tari e nean­che così ampia­mente dif­fusi come si cre­deva. La straor­di­na­ria mobi­li­ta­zione spon­ta­nea a soste­gno dei rifu­giati da Vienna a Monaco a Ber­lino ha dis­si­pato le ombre dis­se­mi­nate in Ger­ma­nia dai patrioti anti­sla­mici di Pegida (ridotti a spa­ruti grup­pu­scoli asse­diati in ogni città tede­sca) e dai nazio­na­li­sti solo un po’ meno impre­sen­ta­bili di Alter­na­tive fuer Deu­tschland. Di con­se­guenza il timore che l’apertura agli stra­nieri dovesse com­por­tare un cospi­cuo costo elet­to­rale a favore della destra è stato for­te­mente ridi­men­sio­nato. Alla fine potrebbe addi­rit­tura tra­dursi in un gua­da­gno per la Cdu di Angela Merkel.

Il terzo fat­tore era la neces­sità di restau­rare l’immagine della Ger­ma­nia in Europa, gran­de­mente dan­neg­giata dalla gestione della crisi greca. Il paese non doveva più essere iden­ti­fi­cato con il volto arci­gno della Bun­de­sbank. Tut­ta­via, nel sot­to­li­neare più volte il fatto che la Ger­ma­nia è un paese forte e sano, Angela Mer­kel lascia inten­dere che solo l’esercizio ordi­na­rio del rigore per­mette l’esercizio straor­di­na­rio della soli­da­rietà. Severa o sol­le­cita che sia la lea­der­ship con­ti­nua risie­dere a Ber­lino. In ogni modo l’operazione di imma­gine, a giu­di­care dagli osanna che si levano in mezza Europa e tra le file più foto­gra­fate dei pro­fu­ghi, è per­fet­ta­mente riu­scita. Senza peral­tro dovere ricor­rere ai pro­clami bel­lici di Lon­dra e di Parigi.

Il quarto fat­tore è la con­sa­pe­vo­lezza del fatto che, debi­ta­mente gover­nata, l’immigrazione, se a breve ter­mine rap­pre­senta un costo, sul lungo periodo costi­tui­sce una for­mi­da­bile risorsa, soprat­tutto per un modello eco­no­mico come quello tede­sco. Si tratta allora di met­tere a punto gli stru­menti e i fil­tri neces­sari a que­sto governo e dun­que un diritto di asilo euro­peo secondo schemi fun­zio­nali alla poli­tica migra­to­ria della Bundesrepublik.

Il lavoro è appena comin­ciato e c’è intanto da fare i conti con i nazio­na­li­smi più o meno xeno­fobi dell’Est euro­peo lun­ga­mente coc­co­lati da Ber­lino. Ma, soprat­tutto, ci sono da sta­bi­lire i cri­teri di ammis­sione e di esclu­sione. In un primo momento sem­brava che le porte della Ger­ma­nia si doves­sero aprire ai soli siriani. Una discri­mi­na­zione rispetto ad altre aree di con­flitto armato non ammessa dalla Costi­tu­zione tede­sca. Tut­ta­via non è ancora chiaro chi avrà diritto allo sta­tus di rifu­giato. Di certo non chi pro­viene dai paesi bal­ca­nici (Alba­nia, Ser­bia, Kosovo, Bosnia) dichia­rati sicuri. Il cri­te­rio è sem­plice: una volta dichia­rato un paese «sicuro» il rim­pa­trio sarà imme­diato. Ma que­sta defi­ni­zione si pre­sta alle più arbi­tra­rie e inte­res­sate sem­pli­fi­ca­zioni. Tanto più che in molti paesi la «sicu­rezza» garan­tita alla mag­gio­ranza, spesso non lo è altret­tanto per le minoranze.

C’è da scom­met­tere che, se que­sto sarà il discri­mine, il mondo si sco­prirà pre­sto molto più sicuro di quanto non imma­gi­nasse.

E, tut­ta­via, una dispo­ni­bi­lità al cam­bia­mento, al rin­no­va­mento delle società euro­pee con il con­tri­buto dei migranti sem­bra essersi ormai dif­fuso tra i cit­ta­dini del Vec­chio Con­ti­nente e trova una qual­che eco per­fino nelle parole della Can­cel­liera alquanto ine­briata dal suo stesso, inat­teso, suc­cesso di pub­blico. Una brec­cia è stata aperta su entrambi i lati della fron­tiera, una brec­cia che inve­ste l’intero spa­zio pub­blico euro­peo e che, su que­sta scala, deve essere allargata.

Proviamo a guardarci da fuori: 110mila italiani sono emigrati nel 2014, oltre il doppio dei richiedenti asilo nel nostro paese. Non ci hanno cacciati, e neppure trattati come molti di noi trattano i nostri simmetrici "migranti economici" .

La Repubblica, 8 settembre 2015

VORREMMO raccontare una storia di migranti, partendo dai dati invece che dalle immagini. Sarà meno suggestiva, ma è accurata. I dati che raccontiamo misurano flussi e caratteristiche delle persone che attraversano i confini dell’Italia. In questa storia più di 100mila persone hanno lasciato il loro paese per cercare lavoro e fortuna in un altro nel 2014: più del doppio rispetto al 2010. Di queste più della metà è tra i 25 e i 44 anni di età, il periodo più produttivo della vita lavorativa. La maggior parte sono migranti per ragioni economiche e spesso lasciano situazioni di scarse prospettive. Alcuni di loro saranno professionisti e scienziati, altri camerieri e cuochi.

Questi migranti che attraversano i confini del nostro paese ogni anno potrebbero provocare grande opposizione nelle aree che li ospitano. Se avessero viaggiato su barche ne avremmo vista una alla settimana con più di 2mila persone tutto l’anno. Ma non abbiamo visto nulla e quindi per noi non esistono. I dati da noi descritti sono relativi agli italiani che hanno lasciato l’Italia per andare a risiedere all’estero. Sono stati ottenuti dall’Anagrafe degli Italiani residenti all’estero (Aire). Anche se tutti i richiedenti asilo in Italia trovassero un modo per rimanervi, sarebbero meno della metà degli italiani che partono.

Non vogliamo equiparare le condizioni di emergenza reale dei migranti del Nord Africa a quella degli italiani che emigrano per scelta e in sicurezza. Tuttavia comparare questi flussi stimola due importanti riflessioni. Una ha a che fare con l’impatto economico dei migranti e l’altra riguarda la
necessità di cambiare il modo in cui l’Italia considera la collaborazione con il resto d’Europa.

L’enfasi sui potenziali costi economici degli immigrati sollevata in questi giorni è mal riposta. La perdita fra il 2010 e il 2014 di 200mila giovani, dinamici e produttivi, il cui contributo all’economia italiana sarebbe grandissimo, è costo economico molto più significativo rispetto all’arrivo dei rifugiati. In un mondo integrato è fisiologico che le persone migrino tra paesi. In tale prospettiva i giovani immigrati sono potenzialmente una risorsa e potrebbero rimpiazzare i tantissimi italiani in partenza. È stato così in Irlanda dove la grande emigrazione (verso l’Inghilterra e gli Stati Uniti) è stata controbilanciata da grande immigrazione (in gran parte dall’Est Europa) che ha stimolato il suo boom economico (tra il 2000 e il 2010).

Questo necessita di politiche di immigrazione lungimiranti, basate sulle opportunità di lavoro in certi settori e sulla previsione e gestione di flussi futuri. Inoltre, riforme del mercato del lavoro che introducano più competizione e flessibilità, aiuterebbero anche l’immigrazione a essere motore di occupazione e crescita. Vari studi mostrano che negli Stati Uniti gli immigrati, anche quelli con poca istruzione, stimolano la crescita economica con il loro lavoro e i loro consumi. Nei prossimi decenni molti abitanti di vari paesi dell’Africa e del Medio Oriente vorranno emigrare. Potremmo incentivarne un numero ragionevole a farlo, legalmente, come studenti, lavoratori e imprenditori, stimolando l’economia, creando connessioni tra paesi e infrastrutture che possono servire anche a gestire emergenze e rimpatriare chi non è legale.

La seconda riflessione evidenzia l’ingenerosità con cui l’Italia critica il resto d’Europa per la mancanza di aiuti nella gestione della “crisi dei migranti”. L’Italia non ha accettato negli ultimi anni che un minimo numero di rifugiati tra i richiedenti asilo che arrivavano ai loro confini. La Germania è il paese europeo che ha accolto più rifugiati, arrivando a più di 30mila nel 2014. L’Italia non ne ha mai accettati più di 3.500 all’anno. Allo stesso tempo, il resto d’Europa ha accolto negli ultimi due decenni centinaia di migliaia di nostri connazionali. Secondo l’Aire sono 873mila gli italiani migrati nel resto d’Europa dal 1992 a oggi e tuttora residenti all’estero. Di essi 221mila sono in Germania (il paese che ne accoglie di più), 120mila in Francia e in Regno Unito.

Il movimento internazionale di persone va visto come motore di crescita e sviluppo. L’immigrazione in Italia andrebbe governata strategicamente come risorsa per la crescita invece che affrontata come emergenza. Ma per sfruttare i potenziali benefici dell’immigrazione ci vuole pianificazione dei flussi, accesso al lavoro, incentivi corretti, e migliori politiche di immigrazione. Bisognerebbe ammettere legalmente un ragionevole numero di immigrati e dargli le stesse opportunità che vengono date agli italiani che emigrano, e per il cui successo economico e carriera dovremmo essere grati al resto d’Europa.

Massimo Anelli insegna alla Bocconi, Giovanni Peri è un economista della University of California

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