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«Ancor prima che con­tro la pro­pa­ganda del governo, le reti stu­den­te­sche nazio­nali dei medi e degli uni­ver­si­tari, senza con­tare i col­let­tivi cit­ta­dini o metro­po­li­tani da Sud a Nord, si sono atti­vate con­tro la spa­ven­tosa nor­ma­lità di un paese ingri­gito e sof­fe­rente».

Il manifesto, 10 ottobre 2015 (m.p.r.)

Occu­pa­zioni, flash-mob al Miur, al mini­stero dell’economia e a palazzo Chigi, blitz con petardi e fumo­geni in filiali ban­ca­rie e agen­zie di lavoro inte­ri­nali come Man­po­wer a Napoli, pre­sidi e incon­tri al mini­stero dell’Istruzione. E poi 90 cor­tei con 5 mila stu­denti a Roma, due­mila a Bari, mille a Milano e altret­tanti a Palermo, tra gli altri. Ieri l’autunno di piombo della scuola gover­nata dagli algo­ritmi che deci­dono le sorti di un docente men­tre le prove Invalsi per­fe­zio­nano la valu­ta­zione della vita pro­dut­tiva degli stu­denti si è acceso all’improvviso. Ses­san­ta­mila stu­denti hanno mani­fe­stato con­tro la riforma della scuola, il Jobs Act, le poli­ti­che migra­to­rie della «For­tezza Europa» e il diritto allo stu­dio azzop­pato (ancora) dalla riforma dell’Isee.

Non è man­cato il rife­ri­mento ai pre­cari della scuola esclusi dalle assun­zioni di Renzi, pur avendo matu­rato il diritto. Una mobi­li­ta­zione «sociale» che ha cer­cato un’interlocuzione con i movi­menti esi­stenti: il «No Ombrina» con­tro le tri­vel­la­zioni dello «Sblocca Ita­lia», il 14 otto­bre a Roma, ricor­dano i col­let­tivi auto­nomi napo­le­tani «Kaos». Gli stu­denti non vogliono sen­tirsi soli e sono alla ricerca di con­nes­sioni. Ieri hanno schie­rato numeri impo­nenti, e non scon­tati, dopo giorni di silen­zio dei mag­giori sin­da­cati della scuola impe­gnati a discu­tere se, come o quando fare uno scio­pero gene­rale (Uni­co­bas lo farà il 23 otto­bre, i Cobas il 13 novem­bre, men­tre sono pre­vi­ste mobi­li­ta­zioni il 24 otto­bre). Tutto pro­cede in sor­dina dopo la «notte bianca» della scuola del 23 set­tem­bre scorso. Al clima non ha gio­vato il fal­li­mento della rac­colta firme sul refe­ren­dum con­tro il «pre­side mana­ger» pro­mosso da «Pos­si­bile» di Civati che ha segnato una spac­ca­tura con il movi­mento della scuola che all’assemblea di Bolo­gna del 5 set­tem­bre scorso ha deciso di stu­diare la pos­si­bi­lità di farne un altro nel 2017, con rac­colta firme nel 2016. Nel frat­tempo con­ti­nuano le pro­ce­dure delle assun­zioni dei 55 mila docenti pre­vi­sti in «fascia C» affi­dati a un algo­ritmo che costringe gli inte­res­sati a un’attesa soli­ta­ria e preoccupata.

Ancor prima che con­tro la pro­pa­ganda del governo, le reti stu­den­te­sche nazio­nali dei medi e degli uni­ver­si­tari (Rete della Cono­scenza, Uds, coor­di­na­mento Link, Udu, Stu­dAut), senza con­tare i col­let­tivi cit­ta­dini o metro­po­li­tani da Sud a Nord, si sono atti­vate con­tro la spa­ven­tosa nor­ma­lità di un paese ingri­gito e sof­fe­rente. Gli stu­denti, cia­scuno per la pro­pria parte, hanno ela­bo­rato una loro agenda e cer­cano di scuo­tere le foglie sull’albero. Link e Udu por­tano avanti la bat­ta­glia sul diritto allo stu­dio. La riforma dei para­me­tri dell’Isee ha creato un’emergenza sociale nel malan­dato diritto allo stu­dio ita­liano: per respon­sa­bi­lità di un nuovo indi­ca­tore decine di migliaia di stu­denti sono stati esclusi dalle borse di stu­dio, come se fos­sero diven­tati più ric­chi. Ieri sono stati rice­vuti al mini­stero dell’Istruzione. L’incontro non ha sod­di­sfatto Link («manca ancora una pro­po­sta con­creta» sostiene il coor­di­na­tore Alberto Cam­pailla); «Vogliamo inter­venti legi­sla­tivi e fondi sup­ple­men­tari» ha detto Jacopo Dio­ni­sio (Udu).

Una tren­tina di uni­ver­si­tari di «Stu­denti Indi­pen­denti» e «Alter­po­lis» ieri a Torino hanno occu­pato alle 7,30 del mat­tino il gaso­me­tro dell’Istalgas in corso Regina Mar­ghe­rita a Torino. In que­sto edi­fi­cio dovreb­bero essere costruite resi­denze uni­ver­si­ta­rie gestite da pri­vati. Per gli stu­denti è un’«operazione pro­pa­gan­di­stica che spac­cia una spe­cu­la­zione edi­li­zia per un’attività a bene­fi­cio degli stu­denti». Molti dei quali, oggi, non potreb­bero nem­meno vivere nella «casa dello stu­dente» pri­va­tiz­zata, dato che il governo ha cam­biato all’improvviso le regole per bene­fi­ciare delle borse di stu­dio. Alle undici i ragazzi sono stati sgom­be­rati mala­mente dalla celere. Nell’intervento è rima­sta con­tusa Ila­ria Manti, ex pre­si­dente del Senato degli Stu­denti dell’Università di Torino, e ha pro­dotto la pro­te­sta della Fiom e degli stu­denti con­tro «l’uso spro­po­si­tato della forza da parte della polizia».

Un’altra que­stione è «l’alternanza scuola-lavoro» pre­vi­sta dalla «Buona scuola», dal «Jobs Act» e appro­vata dalla con­fe­renza Stato-Regioni. Per gli stu­denti il poten­zia­mento dell’apprendistato spe­ri­men­tale «è uno sfrut­ta­mento». «Pro­spet­tiva inac­cet­ta­bile per gli stu­denti in stage — afferma Danilo Lam­pis (Uds) — L’apprendistato è un con­tratto di lavoro, qui si equi­pa­rano ore di lavoro sot­to­pa­gato con quelle di for­ma­zione in classe». «é un salto nel vuoto — spiega Gianna Fra­cassi (Cgil) — non c’è modo per indi­vi­duare imprese con un’adeguata capa­cità for­ma­tiva». Fran­ce­sca Puglisi, respon­sa­bile Pd scuola rispol­vera le argo­men­ta­zioni clas­si­che sui «choosy» che non vogliono lavo­rare: «È un po’ da snob pen­sare che la cul­tura del lavoro non debba “con­ta­mi­nare” la scuola — sostiene — Le espe­rienze pos­sono essere fatte anche nelle isti­tu­zioni cul­tu­rali». In realtà gli stu­denti cri­ti­cano il «modello tede­sco», la pro­fes­sio­na­liz­za­zione senza diritti e lo sna­tu­ra­mento dell’obbligo sco­la­stico, oltre al pre­ca­riato e al lavoro gra­tis masche­rato da for­ma­zione. Argo­menti troppo com­plessi per rien­trare nel for­mat pater­na­li­stico ren­ziano, ma spunti per un modello alter­na­tivo di istru­zione pubblica.

«La scrittrice Suad Amiry racconta la rabbia della sua gente per lo stallo del processo di pace. “La Palestina sta diventando un nuovo Sudafrica, un caso internazionale troppo imbarazzante per non fare nulla”».

La Repubblica, 10 ottobre 2015 (m.p.r.)

Suad Amiry risponde al telefono da New York, dove vive quando non è a Ramallah. Architetto e scrittrice, con i suoi libri (Sharon e mia suocera, Golda ha dormito qui, solo per citare due titoli, editi in Italia da Feltrinelli), è diventata una delle voci più note della società palestinese.

Signora Amiry, siamo di fronte alla terza Intifada?
«Negli ultimi due anni la situazione dei palestinesi è peggiorata, la vita quotidiana è diventata sempre più difficile. In questi mesi Gerusalemme è stata di fatto isolata: per noi andare a pregare è complicatissimo mentre i coloni ebrei sono riusciti ad entrare anche nella moschea di Al Aqsa. Le politiche di Israele hanno di fatto spinto i giovani per la strada: non c’è stata altra speranza. Questo è il vero problema, non cercare la giusta definizione per quello che sta succedendo ».
Anche i politici palestinesi però hanno commesso clamorosi errori…
«Certo. Abu Mazen ha tentato in tutti i modi di salvare il dialogo e per fare questo si è piegato al punto di perdere la faccia con i suoi, soprattutto con i più giovani. Gli israeliani non troveranno mai più un leader così moderato come il presidente Abu Mazen, eppure neanche con lui sono riusciti a sedersi intorno a un tavolo. Il risultato è l’arrivo sulla scena di una nuova generazione, che per mettere fine a questa situazione va in strada. Sono stata nel team dei negoziatori palestinesi e posso dire con certezza che quelli come me, che per anni hanno predicato la necessità di riconoscere lo Stato di Israele, oggi appaiono ridicoli agli occhi della maggior parte della gente dei Territori e della Striscia di Gaza. Noi chiedevamo rispetto, ma Netanyahu si è messo in tasca le nostre parole. Per anni Abu Mazen ha fatto arrestare chi scendeva in strada contro Israele: abbiamo fatto i protettori dei nostri occupanti. Ed ecco il risultato».
Sta dicendo che non c’è più speranza per l’eterno conflitto israelo-palestinese?
«No, non dico questo. Certo che c’è speranza: i ragazzi non sarebbero in strada se non avessero speranza. La speranza è che finisca l’occupazione. Questa situazione così ingiusta non può andare avanti per sempre. Vogliamo la pace, vogliamo una soluzione: ma bisogna essere in due per avere queste cose. Quello che non vogliamo, che non possiamo accettare, è continuare a vivere in uno stato di apartheid».
Cosa vede nel futuro?
«Le dico cosa vedo nel presente, qui in America, il paese dove ho studiato negli anni ’70 e dove per anni l’opinione pubblica è stata in modo compatto dalla parte di Israele. Oggi anche qui un numero crescente di persone iniziano a capire come vivono i palestinesi. La Palestina sta diventando un nuovo Sudafrica, un caso internazionale troppo imbarazzante per non fare nulla. L’apartheid finì quando il mondo disse basta, quando l’embargo economico diventò forte e mise alle strette il governo. Io mi auguro che presto accada lo stesso per noi».
«Si accetti final­mente di aprire una discus­sione seria sugli errori com­messi a sini­stra in que­sti tre decenni (almeno) e sulla muta­zione gene­tica impo­sta alla sini­stra ita­liana. Se dav­vero si avesse a cuore una qual­che rina­scita, sotto que­ste for­che si accet­te­rebbe di passare».

Il manifesto, 10 ottobre 2015

Ci siamo final­mente. Mar­tedì il Senato in grande spol­vero voterà senza colpo ferire la pro­pria tra­sfor­ma­zione in una nuova Camera delle Cor­po­ra­zioni. Napo­li­tano, Ver­dini e Barani, padri costi­tuenti, rac­co­glie­ranno meri­tati onori. La legi­sla­tura vivrà una gior­nata pal­pi­tante. Ma se ci si potrà com­muo­vere, dirsi sor­presi invece no, non sarebbe sen­sato. Che si sarebbe arri­vati a que­sto punto si era capito già l’anno scorso, quando il ddl Boschi comin­ciò la navi­ga­zione tra i due rami del par­la­mento meno legit­timo della sto­ria repubblicana.

A rigore il governo avrebbe dovuto veder­sela con l’agguerrita oppo­si­zione ber­lu­sco­niana, quindi subire le con­di­zioni poste dalle mino­ranze interne dello stesso Pd. Ma entrambi gli osta­coli si rive­la­rono ben pre­sto incon­si­stenti. Ancor prima di con­qui­stare palazzo Chigi Renzi si era accor­dato con Ber­lu­sconi sulle «riforme» da varare insieme. Ver­dini aveva con­vinto il cava­liere che quel gio­vane demo­cri­stiano era un conto in banca, la pen­sava allo stesso modo sulla Rina­scita demo­cra­tica del paese, quindi per­ché non soste­nerne l’impresa, tanto più che avrebbe messo al bando la vec­chia guar­dia rossa del Pd?

Quanto a quest’ultima, i solenni pro­clami della prima ora si svi­li­rono ben pre­sto in mano­vre tat­ti­che e in mer­can­teg­gia­menti e mai nulla di serio accadde, nem­meno dopo che il patto del Naza­reno era entrato in sof­fe­renza. Non solo fiorì impo­nente la pra­tica del tra­sfor­mi­smo interno, non sol­tanto il pre­sunto cari­sma del noc­chiero attrasse pro­se­liti anche oltre­con­fine. Gli stessi gene­rali della sedi­cente sini­stra demo­cra­tica cor­sero spon­ta­nea­mente a Canossa nel nome della ditta o della respon­sa­bi­lità, del rea­li­smo o di non importa cosa.

Risul­tato, Renzi ha fatto e disfatto col suo modo arro­gante e stra­fot­tente. Ha irriso e lusin­gato, minac­ciato e blan­dito. E men­tre Ver­dini — l’altro capo del governo, l’austero diarca del nuovo che avanza — lavo­rava per resti­tuir­gli il soste­gno della destra, ha defi­ni­ti­va­mente fritto capi e capetti dell’opposizione interna. La quale si è lasciata tri­tu­rare senza nem­meno accen­nare a una resi­stenza degna del nome. E oggi vive la sua ultima disfatta senza sto­ria, avendo tutto per­duto, anche l’onore.

A qual­cuno forse sarà dispia­ciuto, per este­tica o per umana pie­tas, il crudo mara­mal­deg­giare dei colon­nelli ren­ziani all’indirizzo del vec­chio segre­ta­rio. Ma in poli­tica non c’è spa­zio per la sen­si­bi­lità e gli affetti e su Ber­sani, sim­bolo di que­sta Capo­retto, incombe una colpa molto grave. Ora non è il suo Pd in que­stione, ma la Costi­tu­zione della Repub­blica, costata lacrime e san­gue e migliaia di morti nella guerra con­tro il nazi­fa­sci­smo. Non è la ditta, è il paese, con­se­gnato a un regime per­so­nale (ne sa qual­cosa, buon ultimo, il sin­daco della capi­tale, cen­tri­fu­gato nella mac­china del fango): a un regime auto­ri­ta­rio (dove il pre­si­dente del Con­si­glio sarà effet­ti­va­mente capo del governo e potrà tutto senza l’impaccio di un vero par­la­mento): a un regime orga­nico di classe, para­diso fiscale per chi ha molto, inferno per chi lavora (o non lavora).

Tant’è. Oggi per­lo­meno, a bocce ferme, il qua­dro è lim­pido ed è pos­si­bile un primo con­sun­tivo. Ognuno trarrà le pro­prie con­clu­sioni e non dubi­tiamo che i più, nel circo della poli­tica poli­ti­cante, ragio­ne­ranno in base al pro­prio tor­na­conto. Così i furieri dei pic­coli par­titi, minac­ciati dalla tagliola della nuova legge elet­to­rale. Così, nei par­titi mag­giori, soprat­tutto gli ere­tici, i cri­tici, i peri­cli­tanti. Poi ci sono i molti addetti ai lavori — sta­ti­sti di lungo corso, intel­let­tuali, opi­nio­ni­sti illu­stri — che riflet­te­ranno piut­to­sto, come si dice, «poli­ti­ca­mente». Sui nuovi rap­porti di forza, sugli sce­nari, sulle pro­spet­tive. Che stro­lo­ghe­ranno soprat­tutto sulle chiare e oscure (invero molto oscure) impli­ca­zioni del patto d’acciaio tra Renzi e Ver­dini, sulla sua ragion d’essere, sulle con­se­guenze, i costi e i bene­fici. Sco­prendo adesso, a babbo morto, che in que­sto patto pulsa da sem­pre il cuore nero del governo e fin­gendo forse di allar­mar­sene, o invece com­pia­cen­do­sene per la sua laica, spre­giu­di­cata, post-ideologica con­fi­gu­ra­zione. Noi invece bat­tiamo e sug­ge­riamo un’altra strada, solo in appa­renza impo­li­tica. Una linea di ricerca desueta che ci appare tut­ta­via più feconda e inte­res­sante e istrut­tiva. Non­ché la più auten­ti­ca­mente politica.

Se è vero, come è vero, che il disa­stro della cosid­detta sini­stra interna del Pd — la man­cata resi­stenza allo sfon­da­mento ren­ziano e al pro­getto padro­nale che lo sot­tende — ha pro­dotto con­se­guenze enormi ed è in larga misura la chiave per com­pren­dere quanto sta acca­dendo in que­ste ore. Se è vero, com’è vero, che i rap­porti di forza nel Pd non erano all’inizio della sto­ria nem­meno lon­ta­na­mente quelli attuali e che, in linea di prin­ci­pio, sarebbe stato age­vole per le mino­ranze unite con­trap­porsi e imporre al pre­si­dente del Con­si­glio più miti con­si­gli e una ben diversa com­po­si­zione dell’esecutivo. Allora è giunto il momento di inter­ro­garsi senza reti­cenza sulle scelte com­piute in que­sti due anni dagli espo­nenti della sini­stra demo­cra­tica — tutti, dai capi ai capetti all’ultimo gre­ga­rio: sulle moti­va­zioni che li hanno ispi­rati, di ordine cul­tu­rale, psi­co­lo­gico, morale.

Quando la geo­gra­fia poli­tica di un paese si tra­sforma per effetto di un pro­fondo som­mo­vi­mento cul­tu­rale come quello veri­fi­ca­tosi tra gli Ottanta e i Novanta del secolo scorso, le respon­sa­bi­lità sog­get­tive assu­mono un peso pre­pon­de­rante. E grava più che mai l’inconsistenza cul­tu­rale e morale: la subal­ter­nità ideo­lo­gica e la dispo­ni­bi­lità a porsi sul mer­cato. Non ci si inal­beri: non serve a niente né scan­da­liz­zarsi né invo­care tabù. O meglio, serve a lasciare tutto come sta, nell’interesse di chi oggi stra­vince e domani non vorrà più nem­meno pri­gio­nieri. Si accetti dun­que final­mente di aprire una discus­sione seria sugli errori com­messi a sini­stra in que­sti tre decenni (almeno) e sulla muta­zione gene­tica impo­sta alla sini­stra ita­liana. Se dav­vero si avesse a cuore una qual­che rina­scita, sotto que­ste for­che si accet­te­rebbe di passare.

«A consiglieri comunali di maggioranza, presidenti dei municipi e assessori, ha posto la stessa domanda: volete andare avanti con me o volete fermarvi qui, rischiando di riconsegnare Roma a chi l’ha rovinata?». La Repubblica, 9 ottobre 2015 (m.p.r.)

Roma. Alla fine Ignazio Marino si è dimesso, eppure lui non è affatto convinto che davvero sia tutto finito: «Presento le mie dimissioni, ma per legge possono essere ritirate entro 20 giorni… ». E dunque anche nel momento in cui firma la lettera che tutto il Pd, da Renzi in giù, gli ha chiesto bruscamente di scrivere entro poche ore, il sindaco di Roma si lascia aperta un’ultima porticina per rientrare in campo, annunciando non il ritiro dalla politica ma «la ricerca di una verifica seria », per capire nel giro di tre settimane «se è ancora possibile ricostruire le condizioni politiche” per restare al suo posto. Non è esattamente quello che si aspettavano là fuori, ma Marino vuol fare fino in fondo “l’extraterrestre”, ignorando le leggi della politica e il galateo dei partiti aggrappandosi all’ultima, disperata speranza che i cittadini si schierino con lui.

«Care romane e cari romani» scrive il sindaco alle sette di sera, quando il vicesindaco (dimissionario) Marco Causi e l’assessore alla Legalità Alfonso Sabella escono dalla sua stanza per comunicargli ufficialmente che il Pd- tutto il Pd- lo invita alle dimissioni immediate.
Cosa scrive, Marino, in quella che dovrebbe essere – ma non vuole esserlo – la sua lettera d’addio al Campidoglio, e che lui stesso trasformerà su Facebook in un videomessaggio? Innanzitutto nega che dietro la sua scelta ci sia il pasticciaccio brutto delle note spese: «Nessuno pensi o dica che lo faccio come segnale di debolezza o addirittura di ammissione di colpa per questa squallida e manipolata polemica sulle spese di rappresentanza e i relativi scontrini». Non c’entrano nulla, sostiene il primo cittadino, quelle cene di rappresentanza, pagate con la carta di credito del Comune, con ospiti che hanno negato di aver mai pranzato con lui.
Lascio, spiega, perché è «arrivata al suo culmine» una «aggressione» che mira a «sovvertire il voto dei romani», per impedirgli di portare a termine la sua battaglia. Io ho vinto la mia sfida, dice, «il sistema corruttivo è stato scoperchiato, i tentacoli oggi sono stati tagliati, le grandi riforme avviate, il bilancionon è più in rosso…», ma tutto questo «ha suscitato una furiosa reazione», che «oggi arriva al suo culmine». È per questo, e per nessun altro motivo, che Marino firma le sue dimissioni: per «verificare» se è ancora possibile «compiere questo percorso» fino al 2018. E vuole che i romani capiscano che c’è il rischio che – andandosene lui – «tornino a governare le logiche del passato, quelle della speculazione, degli illeciti interessi privati, del consociativismo e del meccanismo corruttivo- mafioso che purtroppo ha toccato anche parti del Pd».
Altro che Game Over. Marino si prepara a giocare un’altra partita, che nel suo schema dovrebbe vedere i romani onesti schierarsi al suo fianco contro i partiti e contro tutti gli altri protagonisti di questo scontro, dalla banda di Carminati alla squadra di Renzi. Una partita che il Pd non vede affatto, sul suo calendario, e a scanso di equivoci emette subito un comunicato in cui si affida «al commissario» che dovrà gestire il Comune. Ma cosa succederà nei prossimi 20 giorni, nessuno oggi può dirlo con certezza.
Il suo giorno più lungo, il sindaco l’ha cominciato nella maniera peggiore. Prima ha ricevuto la gelida telefonata del commissario del Pd romano, Matteo Orfini: «Ignazio, puoi fare solo una cosa: dimetterti». Poi ha preparato a casa sua un piano di difesa con l’assessore che è sempre stata al suo fianco nella buona e nella cattiva sorte, Alessandra Cattoi. E alle 11, quando è entrato nel suo ufficio all’ultimo piano del Palazzo Senatorio, senza neanche avvicinarsi al balcone con vista sul Foro, ha voluto incontrare tutti i personaggi del presepe Campidoglio. I consiglieri comunali di maggioranza, i presidenti dei municipi e ovviamente gli assessori.
A tutti, uno per uno ha posto la stessa domanda: volete andare avanti con me o volete fermarvi qui, rischiando di riconsegnare Roma a chi l’ha rovinata? Con i suoi assessori, naturalmente, è stato ancora più esplicito: chi non se la sente di andare avanti me lo dica. Ed è stato allora che sono arrivate le prime dimissioni, pesantissime: il vicesindaco Marco Causi e l’assessore ai Trasporti, Stefano Esposito (che in realtà aveva già le idee chiarissime sul destino di Marino: «A un condannato a morte si lascia almeno la scelta della modalità…» aveva detto salendo le scale).
Intanto sul Campidoglio erano arrivati tutti gli oppositori, guidati dall’ex missina Roberta Angelilli (oggi Ncd) che intonava un coretto canzonatorio: «Marino pagate er vino/ Marino pagate er vino». Alle 14 l’inventario della piazza era il seguente: 6 bandiere di Fratelli d’Italia, 12 della Lista Marchini, 4 di CasaPound, 6 di Forza Italia, una di Italia Unica, due striscioni dei grillini. Più quattro fogli fotocopiati che recitavano “Marino resisti”, sbandierati da un’agguerritissima ventina di cittadini senza tessera che citava persino il «rating di Fitch da outlook negativo a stabile » per sostenere il sindaco «contro i poteri forti che vogliono mandarlo via».

Attorno a loro, il viavai di consiglieri e assessori tra il Campidoglio e il Nazareno, con il sindaco che tirava da una parte e il partito dall’altra. Alle sette di sera, l’epilogo, con Causi e Sabella che portano a Marino la decisione finale del Pd: dimissioni.

Abbiamo espresso il nostro parere sul "fatto del giorno" (così almeno lo considerano i media italiani) nella nota qui accanto. Qui inseriamo l'intervista rilasciata da Marino a Massimo Gramellini.

La Stampa9 ottobre 2015. In calce il link alla dichiarazione di Marino a facebook

Alle nove di sera il Mostro Marino, sindaco dimissionario di Roma, ha la voce esausta di un chirurgo dopo dieci ore di camera operatoria. «È da ieri che non mangio e che non mi siedo: proprio come quando operavo».

Se ne va a casa per cinque scontrini di ristorante non giustificati?
«Ci avevano provato con la Panda rossa, i funerali di Casamonica, la polemica sul viaggio del Papa. Se non fossero arrivati questi scontrini, prima o poi avrebbero detto che avevo i calzini bucati o mi avrebbero messo della cocaina in tasca».

Su qualche sito sono arrivati a imputarle di avere usato i soldi del Comune per offrire una colazione di 8 euro a un sopravvissuto di Auschwitz.
«Se è per questo, mi hanno pure accusato di avere pagato con soldi pubblici l’olio della lampada votiva di san Francesco, il patrono d’Italia, “per farmi bello”. Senza sapere che sono centinaia di anni che il sindaco di Roma, a rotazione con altri, accende quella lampada».

Vox populi: si dava arie da integerrimo e invece sotto sotto era uno spendaccione come gli altri.
«Infatti una volta in cui mi trovavo in albergo a Londra per un convegno con i sindaci europei, ho rinunciato al buffet da 40 sterline perché mi sembrava uno schiaffo alla miseria. Ho attraversato la strada e sono andato da Starbucks».

Ci sono cinque note spese in cui lei sostiene di avere cenato con qualcuno che invece nega di essere stato a tavola con lei.
«Ho già detto che sono disposto a pagare di persona le mie spese di rappresentanza di questi due anni: 19.704,36 euro. Li regalo al Campidoglio, compresa la cena in onore del mecenate che poi ha staccato l’assegno da due milioni con cui stiamo rimettendo a posto la fontana di piazza del Quirinale, sette colonne del foro Traiano e la sala degli Orazi e Curiazi».

Ma quelle note spese sono bugiarde oppure no?
«Io non so cosa ci hanno scritto sopra. Ho consegnato gli scontrini agli uffici, come si fa in questi casi. Non escludo che possa esserci stata qualche imprecisione da parte di chi compila i giustificativi».

Si aspettava che sarebbe venuto giù il mondo?
«Ho rotto le uova nel paniere del consociativismo politico. Ho riaperto gare di acquisti beni e servizi che erano in prorogatio da una vita. Ho tolto il business dei rifiuti a una sola persona e il patrimonio immobiliare a una sola azienda che ha incassato dal comune 100 milioni negli ultimi anni, la Romeo».

Da Renzi si sarebbe aspettato un atteggiamento diverso?
«Diciamo che Renzi non ha avuto la possibilità di apprezzare i cambiamenti epocali che abbiamo fatto in questa città».

Si sente pugnalato alle spalle dal suo partito, il Pd? Non una voce si è alzata a sua difesa.
«Mi hanno espresso vicinanza in due. Il ministro Graziano Del Rio e Giovanni Legnini, vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Erano entrambi molto avviliti per quanto accaduto».

Appena possibile inseriremo il link alla dichiarazione di Ignazio Marino
«Costituzione. Finito l’ostruzionismo ma il governo non concede nulla. Restano tutti i punti critici, si allarga la devolution regionale. La minoranza Pd cede di schianto. Il nuovo capo dello stato sarà un affare del primo partito».

Il manifesto, 8 ottobre 2015

Dun­que con la nuova Costi­tu­zione il governo potrà imporre al par­la­mento di votare i suoi dise­gni di legge entro una data fissa e fare decreti anche in mate­ria elet­to­rale; il par­tito che vin­cerà le ele­zioni con la nuova legge Ita­li­cum potrà dichia­rare in soli­tu­dine lo stato di guerra - e nel caso pro­ro­gare la durata della legi­sla­tura - e per­sino eleg­gere da sé il pre­si­dente della Repub­blica. Lo ha sta­bi­lito in un solo giorno di lavoro il senato, respin­gendo ogni emen­da­mento delle oppo­si­zioni alla riforma costi­tu­zio­nale. Il tema del rac­conto è quello in auge del supe­ra­mento del bica­me­ra­li­smo pari­ta­rio. Lo svol­gi­mento, come dimo­stra la gior­nata di ieri, è una sostan­ziale modi­fica della forma di governo, con più potere all’esecutivo e meno al par­la­mento. Con la col­la­bo­ra­zione deci­siva dei sena­tori di Ver­dini, l’appoggio tem­pe­stivo nell’unico pas­sag­gio a rischio di Forza Ita­lia e la resa defi­ni­tiva della mino­ranza Pd.

Nel primo voto palese e nei primi due voti segreti lo schie­ra­mento che sta cam­biando la Costi­tu­zione si è con­fer­mato lon­tano dalla mag­gio­ranza asso­luta, 161 voti, del senato; non è andato oltre i 145. I sena­tori di Ver­dini inchio­dati a votare ai loro ban­chi in alto a destra ven­gono ricom­pen­sati: sono sta­bil­mente deci­sivi per il governo. Tra due sedute rien­tre­ranno anche i due gesti­co­lanti espulsi per osce­nità, Barani e D’Anna. Sarà la riforma costi­tu­zio­nale ad aspet­tarli, per­ché con la rinun­cia delle oppo­si­zioni all’ostruzionismo — l’unico punto sul quale ha retto il fronte del no da Lega a Sel — il dise­gno di legge di revi­sione costi­tu­zio­nale corre. L’esame degli arti­coli potrebbe con­clu­dersi tra oggi e domani. Il voto finale resta in calen­da­rio per mar­tedì, una diretta tv senza sorprese.

In aula il governo che giura di essere dispo­ni­bile a discu­tere «nel merito» dà parere nega­tivo a tutti gli emen­da­menti dell’opposizione (tranne a quelli a voto segreto sui quali non vuole cor­rere rischi). La mag­gio­ranza che quo­ti­dia­na­mente bac­chetta le oppo­si­zioni per­ché non fanno pro­po­ste «nel merito» si ade­gua mono­li­tica, nel Pd si segna­lano a tratti solo i voti con­trari di Mineo e Tocci, e l’astensione di Cas­son. Gli arti­coli da 12 a 16 pas­sano senza sto­ria, com­presa la novità della legge elet­to­rale che potrà essere sot­to­po­sta alla Con­sulta prima della pro­mul­ga­zione ma solo per ini­zia­tiva di una mino­ranza di par­la­men­tari. La Corte aveva rac­co­man­dato di togliere que­sta con­no­ta­zione poli­tica alla richie­sta, ren­den­dola auto­ma­tica. La sini­stra Pd si era detta d’accordo. Ma l’esigenza del governo di non cam­biare niente e fare pre­sto ha pre­valso anche qui. Di que­sto passo sono solo tre, fino a qui, gli arti­coli che dovranno tor­nare al senato per com­ple­tare la prima let­tura: 1, 2 e 30 sul quale ieri il governo ha deciso di inter­ve­nire. Male, per­ché ha inse­rito le poli­ti­che sociali e il com­mer­cio con l’estero tra le mate­rie che potranno essere devo­lute alle regioni a sta­tuto ordinario.

Nell’unico punto in cui il governo ha un po’ bal­lato, c’è stato rapido il soste­gno di Forza Ita­lia. Arti­colo 17, stato di guerra. Anche qui nes­sun cam­bio, la dichia­ra­zione di bel­li­ge­ranza resta a dispo­si­zione della mag­gio­ranza asso­luta della camera. Cioè quella che l’Italicum garan­ti­sce al primo par­tito con i suoi 340 seggi (oggi non è così per­ché deve votare anche il senato). Sta­volta l’emendamento per alzare il quo­rum veniva dalla mino­ranza Pd, l’unico non riti­rato in nome dell’accordo con Renzi, forse per­ché fir­mato non da un ber­sa­niano ma dalla bin­diana Dirin­din. Con 14 sena­tori Pd a favore e 11 spa­riti dall’aula poteva pas­sare, non fosse che Forza Ita­lia è tor­nata a votare con il governo (con l’argomento che se il paese venisse invaso e qual­che depu­tato seque­strato dai nemici, il quo­rum troppo alto potrebbe essere un pro­blema). Ven­ti­nove no deci­sivi, som­mati a qual­che asten­sione, molte assenze e il soc­corso delle tre sena­trici del gruppo dell’ex leghi­sta Tosi. Dichia­rare guerra sarà più facile, ma resta intatto l’articolo 60 in base al quale in caso di guerra una legge ordi­na­ria può pro­ro­gare la durata della camera e riman­dare le elezioni.

La Lega ha accu­sato in aula gli alleati ber­lu­sco­niani di essersi sven­duti agli avver­sari: «È il ritorno del patto del Naza­reno». Ma può bastare la comu­nanza di idee sull’argomento bel­lico a spie­gare la liai­son. L’episodio giu­sti­fica però la rot­tura del patto delle oppo­si­zioni, durato un solo giorno. Unito a una let­tera al pre­si­dente della Repub­blica che quelli di Forza Ita­lia hanno dif­fuso alla stampa prima che tutti gli altri gruppi deci­des­sero di fir­marla. Alla fine sono stati solo gli azzurri a rivol­gersi al Colle. E i gril­lini, che però hanno spie­gato di averlo già fatto due set­ti­mane fa. Alle mino­ranze, pena­liz­zate dal tra­sfor­mi­smo e da una con­du­zione d’aula filo governo del pre­si­dente Grasso, non resta che stu­diare mosse di oppo­si­zione visi­bili e com­pren­si­bili per accom­pa­gnare l’approvazione della riforma. La Lega ha comin­ciato ieri pome­rig­gio il suo Aven­tino, i 5 stelle hanno sfi­lato le tes­sere dai ban­chi per sventolarle.

La mino­ranza Pd ha ceduto di schianto sull’articolo 21, quello che pre­vede quo­rum per l’elezione del pre­si­dente della Repub­blica per niente impos­si­bili per chi vin­cerà con l’Italicum. Fatti i cal­coli, dal quarto scru­ti­nio in poi man­che­reb­bero al primo par­tito non più di 34 voti. Assai facil­mente recu­pe­ra­bili, vista la capa­cità di attra­zione dei vin­ci­tori. Il suc­ces­sore di Mat­ta­rella sarà votato alla fine della pros­sima legi­sla­tura; in que­sta i gruppi demo­cra­tici sono già cre­sciuti di 23 par­la­men­tari. Nem­meno l’articolo 21 è stato cam­biato. In cam­bio della rinun­cia ad allar­gare la pla­tea dei grandi elet­tori (fino a ieri impre­scin­di­bile), la mino­ranza Pd ha otte­nuto una pro­messa sull’articolo 39, la norma tran­si­to­ria che di fatto ste­ri­lizza la più grande con­qui­sta dei ber­sa­niani, l’indicazione dei nuovi sena­tori da parte degli elet­tori. Il governo pre­sen­terà oggi una sua pro­po­sta di modi­fica. Sarà una mezza solu­zione, visto che l’intoppo è al primo comma dell’articolo 39, che non si può più toc­care. Il prin­ci­pio della dop­pia let­tura con­forme che la fronda dem ha accet­tato per l’articolo 2 vale anche qui.

«Il 24 ottobre saremo in piazza a Napoli contro la più grande esercitazione militare dalla Seconda guerra mondiale. La stanno facendo adesso, ma nessuno apre bocca. Una vergogna. Contro questo protesteremo». Il Fatto Quotidiano, 8 ottobre 2015, (m.p.r.)

«Che belli che erano quei giorni. Sono passati appena dodici anni, ma sembra un secolo: a Roma centinaia di migliaia di persone scesero in piazza contro la guerra. Gente di età e classi sociali diverse, con idee politiche diverse. E poi c’erano bandiere arcobaleno ovunque, giravi per le città e le vedevi a tutti i balconi. Era davvero un movimento popolare contro la guerra».

Padre Alex Zanotelli, lei da allora è uno dei simboli della lotta contro le missioni militari. Ma perché nel 2003 gli italiani si mobilitarono a milioni contro l’impegno in Afghanistan e Iraq e adesso sembrano infischiarsene?
«Ci penso tutti i giorni. C’è stato un calo di interesse pauroso. Una caduta di valori. Nel 2003 ricordo che si riuscì a creare una vera e propria resistenza contro le guerre. Avevamo accanto a noi persone come Tiziano Terzani e Gino Strada. E adesso…niente, tutta quella forza è andata perduta».
Piazze semivuote. I Tornado potrebbero tornare a bombardare e nessuno alza un dito. Ma perché?
«È anche colpa nostra. Il movimento è diviso, ci sono state delle spaccature perfino nel Tavolo della Pace di Assisi. Ognuno va per sé. Ma se noi siamo i lillipuziani che sperano di sconfiggere il gigante Golia, non possiamo poi disperdere le poche forze in mille rivoli».
E la politica non vi sostiene più…
«Lasciamo perdere. La destra, vabbè, ha sempre avuto altre posizioni. Ma ora anche il partito di maggioranza a sinistra, il Pd, è aggrappato ad altre idee. Il resto? Sono tutti punti interrogativi. Guardi, c’è proprio poco da sperare a livello politico».
Vi arrendete? Dopo la bandiera arcobaleno alzate la bandiera bianca?
«Mai. L’unica possibilità, però, è mettere insieme un movimento davvero popolare. Proprio come ha detto papa Francesco nel suo discorso in Bolivia, il più importante».
Che cosa direbbe agli italiani per convincerli a mobilitarsi come nel 2003?
«Che queste guerre ci toccano. Provocano conseguenze nella nostra vita. Non illudiamoci di tenere lontano da noi le sofferenze».
Ma a che cosa sono serviti i cortei e le mobilitazioni di dodici anni fa? Alla fine siamo andati in Afghanistan e Iraq . . .
«Sì, forse è anche per questo che tanti oggi hanno rinunciato. Si sono convinti che il loro impegno non è servito a niente. Dal 2003 abbiamo fatto una guerra dietro l’altra. Ma non bisogna arrendersi mai».
Mi dia una ragione valida.
«L’ha detto il Papa: visto che non si può fare la terza guerra mondiale, si combattono guerre locali. Così si salvano i bilanci di società come Finmeccanica. Che ha perfino lasciato le sue attività civili!».
Ma lei combatte ancora contro la guerra?
«Certo. Il 24 ottobre saremo in piazza a Napoli contro la più grande esercitazione militare dalla Seconda guerra mondiale. La stanno facendo adesso, ma nessuno apre bocca. Una vergogna. Contro questo protesteremo. Spero saremo in tanti, ma comunque sia, noi ci saremo. E speriamo sia l’inizio di una mobilitazione. Per far nascere un movimento popolare come nel 2003.
«Il premier israeliano conferma la linea dura. Non ha capito che i pale­sti­nesi non accet­tano la nor­ma­liz­za­zione dell’occupazione israe­liana. Rifiu­tano che i coloni israe­liani pos­sano svol­gere nei ter­ri­tori che occu­pano quell’esistenza nor­male che a loro viene negata».

Il manifesto, 8 ottobre 2015 (m.p.r.)

«Abbiano vis­suto periodi più dif­fi­cili di que­sti. Supe­re­remo que­sta ondata di ter­ro­ri­smo gra­zie alla nostra deter­mi­na­zione, alla respon­sa­bi­lità e alla coe­sione nazio­nale». Benya­min Neta­nyahu non ha dubbi sulla linea por­tata avanti sino ad oggi. Resterà quella del pugno di ferro. Il pre­mier israe­liano non ha com­preso che più si farà pesante e san­gui­nosa la repres­sione e più gli sfug­girà di mano la situa­zione. Non ha capito che i pale­sti­nesi non accet­tano la nor­ma­liz­za­zione dell’occupazione israe­liana di Geru­sa­lemme Est e della Cisgior­da­nia. Rifiu­tano che i coloni israe­liani pos­sano svol­gere nei ter­ri­tori che occu­pano ille­gal­mente quell’esistenza nor­male che a loro viene negata sotto il regime mili­tare.

Gli omi­cidi di quat­tro israe­liani com­piuti da pale­sti­nesi nell’ultima set­ti­mana sono davanti agli occhi di tutti, sono stati rac­con­tati e ampia­mente con­dan­nati. Invece meno spa­zio tro­vano gli omi­cidi e le ucci­sioni di pale­sti­nesi. Chi ricorda la morte orri­bile del pic­colo Ali Dawab­sha, bru­ciato vivo poco più di due mesi fa, e che i suoi assas­sini sono sem­pre liberi? I pale­sti­nesi autori delle ucci­sioni dei quat­tro cit­ta­dini israe­liani al con­tra­rio sono stati cat­tu­rati o uccisi. In que­ste ore in cui i governi occi­den­tali si strin­gono intorno al primo mini­stro Neta­nyahu espri­mendo soli­da­rietà a Israele e alle fami­glie delle vit­time degli ultimi atten­tati, dovreb­bero anche doman­darsi quale strada poli­tica, oltre l’inutile “nego­ziare per nego­ziare” che va avanti da 22 anni, è stata lasciata ai pale­sti­nesi per rag­giun­gere la libertà e l’indipendenza.

Anche per que­ste ragioni il pre­si­dente dell’Anp Abu Mazen appare più iso­lato dopo l’appello alla fine delle pro­te­ste che ha lan­ciato due giorni fa e che ha riba­dito ieri in una inter­vi­sta al quo­ti­diano Haa­retz. Quasi tutte le orga­niz­za­zioni pale­sti­nesi, a par­tire dalla sini­stra gui­data dal Fronte Popo­lare, hanno igno­rato le sue parole e con­ti­nuano a mobi­li­tare la popo­la­zione con­tro coloni e sol­dati israeliani.

Si mol­ti­pli­cano gli attac­chi con­tro i coloni israe­liani che per­cor­rono le strade della Cisgior­da­nia e anche le rap­pre­sa­glie e le aggres­sioni dei coloni con­tro i vil­laggi pale­sti­nesi, troppo spesso igno­rate o sot­to­va­lu­tate. E le azioni indi­vi­duali di pale­sti­nesi armati di col­tello si allar­gano al ter­ri­to­rio israeliano. Un 17enne di Yatta, Amjad Jundi, ha attac­cato a Kiryat Gat (a est di Ash­qe­lon) un mili­tare pro­vando a pren­der­gli l’arma ma è stato ucciso. Poco dopo un altro gio­vane di Hebron ha col­pito alcuni israe­liani a Petach Tikva ed è stato ferito dal fuoco di agenti pre­senti in zona. Una dina­mica simile all’attacco avve­nuto ieri mat­tina alla Porta dei Leoni, uno degli ingressi della città vec­chia di Geru­sa­lemme, dove una ragazza di 18 anni, Shu­roq Dwa­yat, è stata ferita da un colono che aveva ten­tato di col­pire con un col­tello. Poco dopo ingenti forze di poli­zia hanno lan­ciato un raid nel sob­borgo di Sur Baher per per­qui­sire l’abitazione della gio­vane inne­scando vio­lente pro­te­ste e inci­denti. Una colona, Rivi Ohayon, dell’insediamento di Tekoa (a sud di Betlemme) ha denun­ciato alla poli­zia di aver subito un ten­ta­tivo di lin­ciag­gio di parte di gruppi di gio­vani pale­sti­nesi che, nei pressi di Beit Sahour, ave­vano bloc­cato e dan­neg­giato a colpi di pie­tra la sua auto­mo­bile (la donna è rima­sta ferita). Il fuoco dei sol­dati israe­liani ha ferito due palestinesi.

Per tutto il giorno sono girate voci dell’uccisione da parte dei sol­dati israe­liani, vicino Ramal­lah, di uno stu­dente pale­sti­nese ma in serata il gio­vane era ancora vivo anche se gra­ve­mente ferito. In rete è cir­co­lato un fil­mato girato da una tv locale pro­prio durante gli scon­tri che hanno coin­volto lo stu­dente ferito e che mostra mili­tari israe­liani che si fin­gono pale­sti­nesi per infil­trarsi fra di loro. All’inizio della sequenza si nota un gruppo di pale­sti­nesi col volto coperto che lan­ciano sassi con­tro un’unità dell’esercito e scan­dire slo­gan. A un certo punto que­sti “pale­sti­nesi” si rive­lando degli infil­trati e si sca­gliano con­tro quelli che sem­bra­vano essere loro com­pa­gni e li tra­sci­nano a forza verso i sol­dati. Subito dopo i mili­tari infie­ri­scono su un dimo­strante - a terra, iso­lato - e lo pren­dono a calci ripetutamente.

«Il Sinodo, ha detto il Papa proprio per spiegare la distanza tra l’opinione del mondo e la verità dei Pastori della Chiesa, non è come il Parlamento. Ma da questa comparazione il Parlamento ne esce bene».

La Repubblica, 7 ottobre 2015

La riunione del Sinodo segue al viaggio del Papa a Cuba e negli Stati Uniti. Un viaggio nel quale il tema del Sinodo - la famiglia e il matrimonio - è stato al centro tanto delle sue omelie e dei suoi discorsi pubblici quanto dell’opinione che lo ha interpellato - sulla sessualità e la pedofilia nella Chiesa, sul matrimonio di coppie dello stesso sesso, sul ruolo dei divorziati. Tante attese per il Sinodo sono dunque giustificate dalla forte presenza del Papa sulla scena dell’opinione pubblica mondiale. È comprensibile dunque che ci sia attenzione per le risoluzioni del Sinodo e speranza che esse non siano indifferenti all’opinione del mondo. Il comunicato rilasciato all’apertura dei lavori mostra preoccupazione per questo rapporto di reciproca influenza quando osserva che su questi temi, sul matrimonio e la famiglia, «è del tutto inaccettabile che i Pastori della Chiesa subiscano pressioni».

Il gioco dell’opinione è orizzontale e senza esiti predeterminati. Nel tentativo di influenzare l’opinione delle persone a seguire o a respingere alcune pratiche di vita, non possiamo evitare di essere a nostra volta interpellati e portati a riflettere sulle nostre posizioni. Il gioco dell’opinione è un ping pong, chi lo mette in moto e lo anima ne viene tirato dentro e influenzato. La corrente che determina non è mai unidirezionale. Questo rende l’opinione una forza formidabile, in virtù della quale, scriveva David Hume, i molti sono governati dai pochi e i pochi non possono sottrarsi al controllo dei molti. Lo vediamo accadere ogni giorno, con qualunque leader si metta in relazione al pubblico. Anche quando a parlare è il rappresentante di Dio.
Papa Francesco ha attraversato l’America per entrare in contatto diretto con la gente di tutte le religioni e le convizioni morali, parlando a milioni di persone dei problemi che sentono vicini, dalla povertà e disoccupazione alla libertà sessuale e di relazioni matrimoniali. Egli vuole contribuire a formare l’opinione pubblica su questi temi centrali per la Chiesa e l’opinione preme a sua volta per farsi ascoltare. È davvero “inaccettabile” che questo avvenga o che i Pastori della Chiesa sentano la pressione da parte dell’opinione del mondo? Se la subiscono o meno dipenderà da loro, ma non c’è scandalo se quell’opinione alla quale essi si rivolgono ogni giorno non cerchi di influenzare la loro verità. La quale è certamente indifferente all’opinione del mondo. E tuttavia, se entra nella sfera pubblica e vuole diventare opinione diffusa a livello globale, al di là della comunità dei fedeli, essa si espone ai “rischi” del dialogo, ovvero ad essere influenzata e interpellata a sua volta.
In età predemocratica i papi scrivevavo encicliche che giungevano ai fedeli tramite i pastori e gli interpreti. Oggi scrivono encicliche che diventano bestseller e vanno direttamente al lettore e al grande pubblico del quale essi si fanno oratori. Questo comporta accettare la sfida di entrare nel circolo dell’opinione, che come sappiamo non ha riguardi nei confronti dell’autorità e interviene, cercando di discutere e influenzare, mettendosi cioè sullo stesso piano, come appunto nel ping pong. I commenti sulla pretesa dell’opinione di influenzare le verità dei prelati chiusi nel Sinodo non possono che destare stupore. È comprensibile che i prelati debbano restare fedeli alla verità e che si sentano compressi dalle pressioni dell’opinione, alla quale non devono rendere conto come i politici. Tuttavia, è altrettanto comprensibile che quell’opinione cercata con l’intento di modellarla esprima se stessa a sua volta. Difficile gioco democratico, ma impossibile da mettere a tacere una volta cominciato.
Il Sinodo, ha detto il Papa proprio per spiegare la distanza tra l’opinione del mondo e la verità dei Pastori della Chiesa, non è come il Parlamento dove «per raggiungere un consenso o un accordo comune si ricorre al negoziato, al patteggiamento o ai compromessi ». Ma da questa comparazione il Parlamento ne esce bene, poiché la discussione tra diversi e la ricerca di una soluzione per via di compromessi è segno di una pratica nobile e civile - l’opposto sarebbe la violenza o l’unanimità, la quale, a meno di non emergere spontaneamente in un solo afflato, deve comunque essere conquistata. E per muovere le convinzioni degli interlocutori verso un esito unanime non è escluso che non si usino forme di persuasione e di mediazione. Il fatto è che il Sinodo lavora a porte chiuse per non mostrare come discute e non essere sotto l’occhio giudicante del mondo, mentre il Parlamento non può esimersi da questo controllo e mostra al mondo tutti i pregi e i difetti della deliberazione pubblica.
LA GUERRA è questa: disumana. Assistiamo al collasso di tutte quelle retoriche che ancora dicono che l’uso della forza potrà ristabilire l’ordine. L’attacco all’ospedale di Medici senza frontiere è solo l’ultimo di una serie di eventi inutilmente tragici di cui siamo testimoni». Lo scrittore pachistano Mohsin Hamid, autore del bestseller Il fondamentalista riluttante , è uno dei più lucidi intellettuali del suo paese. «Non ci sono combattenti buoni e cattivi. Gli orrori accadono di continuo da entrambe le parti».

Gli orrori accadono. Ma qui si è trattato, nella migliore delle ipotesi, di un gravissimo errore. ..

«In un luogo dove c’è una situazione di guerra radicata come l’Afghanistan, la verità è molto difficile da dedurre: perché ce ne sono molte. Ma che si sia trattato di un incidente o di un attacco deliberato, è senz’altro un atto gravissimo».

Il capo delle operazioni militari americane ha detto che l’attacco è avvenuto per fermare i Taliban che sparavano sui militari. Colpire i terroristi vale la morte di così tanti civili?
«Un attacco aereo che distrugge un intero ospedale non è certo una risposta adeguata. Purtroppo non è la prima volta che accade. Il clamore oggi è dato dal fatto che è l’ospedale di una importante organizzazione occidentale di cui io stesso ho molta stima. Ma ci sono stati altri ospedali distrutti durante questa guerra di cui nessuno ha parlato. Altri ”danni collaterali”, altre vittime che finiscono per essere solo statistiche».

Parlare di “danni collaterali” è un modo per dire che la vita di un innocente vale meno di quella di un soldato?

«C’è da stupirsi? È in questo che consistono le guerre. Questo episodio è solo l’ennesimo ripugnante episodio. Certo, in luoghi dove non c’è guerra il concetto di “danni collaterali” sembra impensabile: ma per assicurarsi la morte di un terrorista questo tipo di “danni” sono avvenuti anche in città pachistane che non sono in guerra. Questo attacco ci ricorda che ormai il mondo è diviso in due: chi vive in pace, anche se magari martoriato dalla crisi. E chi vive in guerra un orrore quotidiano che può arrivare da ogni parte».

Cosa intende?
«Nella parte di mondo in guerra, diritto e dignità umana sono ormai stati abbandonati. E per la gente in Afghanistan, ma anche in Siria, in Iraq, i cattivi possono cambiare continuamente: la gente martoriata di volta in volta dagli Stati Uniti, dalla Russia dallo Stato Islamico, dai Taliban dall’esercito locale. Per questo la gente fugge, ci sono milioni di rifugiati alle porte d’Europa: la gente vuol lasciare il mondo della guerra e andare nel mondo della pace. Vuole vivere: andare in luoghi dove non è accettabile bombardare ospedali e uccidere civili».

Medici senza frontiere è un’organizzazione così rispettata per il suo impegno da aver vinto il Nobel per la pace nel 1999. Non è paradossale che a bombardare il suo ospedale sia stato l’esercito che ha come comandante in capo un altro Nobel per la pace, il Presidente Obama?
«I medici e i volontari di Msf e altre organizzazioni simili sono veri eroi. La loro scelta di credere nella vita così tanto da affrontare i rischi di una guerra ci ricorda che ciascuno di noi può fare cose straordinarie. Quanto ad Obama, continuo a credere che abbia un ruolo storico importante. Né credo che questo bombardamento gli sia imputabile, anche se naturalmente condivido il paradosso. Lo ritengo ancora un uomo di buona volontà, quel che ha fatto con Cuba e l’Iran lo dimostra: ma che si trova davanti a un mondo complicato. Una guerra infinita che nessuno vince e non accenna a finire. Dove servirebbero nuove soluzioni».

Il New York Times denuncia il fallimento del programma americano per formare forze afgane affidabili. Cosa non funziona?
«Quella afgana è una società ferita e violenta. I suoi nodi sono profondi e difficili da risolvere. Non è la guerra la soluzione. È una società che avrebbe bisogno di strumenti per maturare: scuole, lavoro. Solo allora, e nel giro di almeno una, due generazioni, cambierà qualcosa. Se invece continui a ritrovarti fra una guerra e l’altra, cerchi solo di capire a quale carro del vincitore è meglio attaccarti per sopravvivere».

Anais Ginori intervista Bernard Kouchner, il fondatore di Medici senza frontiere. Intanto, dichiarazioni dagli Usa e dai governativi afgani rivelano che il bombardamento fu voluto e prolungato.

La Repubblica, 5 ottobre 2015
«Esprimo tutta la mia indignazione. Le condoglianze di Barack Obama sono il minimo, ora bisognerà accertare le responsabilità ». Bernard Kouchner ha aspettato qualche ora prima di commentare i raid americani sull’ospedale di Medici Senza Frontiere in Afghanistan, a Kunduz, in cui sono morte 22 persone, tra cui 12 impiegati dell’ong. «Volevo avere più elementi per farmi un’idea, tanto mi sembrava incredibile» spiega l’ex ministro degli Esteri e fondatore di Msf nel lontano 1971.

L’esercito americano riconosce solo un “danno collaterale”. È sufficiente?
«Gli errori in guerra purtroppo ci sono sempre, tanto più con i bombardamenti aerei. Ma in questo caso è incomprensibile, sono indignato da questa spiegazione. L’ospedale di Msf a Kunduz era segnalato ed esisteva da tempo. Un errore non è possibile, a meno che i piloti non guardassero le carte».

Nonostante l’allerta di Msf, i bombardamenti sono continuati. Era dunque un raid mirato?
«Non so se fosse possibile fermare il raid in diretta. Sarebbe stato necessario risalire la catena di comando. Il problema è chi ha preparato e ordinato quel bombardamento».

Le autorità afgane parlano di Taliban rifugiati nell’ospedale. È plausibile?
«Si tratterebbe di false informazioni diffuse apposta per mettere in pericolo il lavoro di Msf. Sarebbe molto preoccupante sapere che gli americani compiono un bombardamento fidandosi di notizie non verificate, sapendo che coinvolge un obiettivo civile e protetto come un ospedale».

È possibile che ci fossero combattenti Taliban in quell’ospedale?
«Un ospedale è fatto per curare tutti. E Medici Senza Frontiere non ha mai fatto differenze tra feriti di un gruppo combattente piuttosto che l’altro. Se ci fossero a Kunduz feriti Taliban andrebbero curati come nell’ospedale di Msf come tutti gli altri. Per un medico il soccorso è un dovere. E’ un principio morale che non dovrebbe mai essere rimesso in discussione, neppure in guerra».

Rispettare il lavoro e la protezione delle ong in zone di conflitti è diventato più difficile?
«Il personale umanitario lavora in condizioni sempre più pericolose. Non c’è più rispetto per lo statuto delle ong, che è al di sopra delle parti. Oggi la guerra è diventata sempre più feroce e cieca. Ha ragione l’Onu che parla di un crimine di guerra».

La neutralità delle Ong non viene riconosciuta?
» Non si combatte a terra ma dal cielo. I raid hanno molte più probabilità di fare i cosiddetti danni collaterali. Anche Vladimir Putin che ha bombardato a Raqqa per colpire i miliaziani dello Stato islamico potrebbe aver fatto vittime tra i civili. Tutti lo sappiamo. Questo però non giustifica i raid su Kunduz. In questo caso è diverso: è stato colpito un ospedale ».

Obama ha promesso un’inchiesta. Sarà possibile avere la verità sul bombardamento di Kunduz?
«La verità è necessaria per salvare l’onore dell’esercito americano. Il massacro di Kunduz è uno scandalo».

L’esercito americano lascerà l’Afghanistan l’anno prossimo. Cosa accadrà?
«Il mondo occidentale ha perso tutte le guerre degli ultimi anni. E’ inevitabile che Obama attui il ritiro dei soldati, così come ha promesso in campagna elettorale. Abbiamo tentato di aiutare le forze democratiche in Afghanistan ma non ce ne sono molte. E’ così anche in Siria, dove credo alla fine dovremo scendere a patti con Putin e Assad».

«A votare sulla dieta della sanità pubblica, infatti, sono le stesse persone che godono di un sistema di assistenza sanitaria integrativa. Una sorta di “mutua privata”, costosa, efficiente e molto distante dalle esperienze di chi frequenta gli ospedali pubblici». Il Fatto Quotidiano, 5 ottobre 2015 (m.p.r.)

«Non abbiamo bisogno di dare altre garanzie ai parlamentari, ma di farli diventare sempre più normali». Firmato Matteo Renzi, il 14 febbraio 2013: era ancora rottamatore (e sindaco di Firenze). È passata un po’ di acqua sotto i ponti: il giovane rampante che contestava i privilegi di deputati e senatori si è fatto largo a spallate fino a Palazzo Chigi. Ma i parlamentari, nel frattempo, non sono diventati “più normali” di prima.

Nei giorni in cui lo stesso Renzi, da presidente del Consiglio, annuncia altri due miliardi di tagli al servizio sanitario nazionale, da aggiungere ai 2,3 pattuiti a luglio, può essere utile ricordare quanto sia profonda la differenza tra l’accesso alle cure di un cittadino comune e quello di un onorevole. A votare sulla dieta della sanità pubblica, infatti, sono le stesse persone che godono di un sistema di assistenza sanitaria integrativa. Una sorta di “mutua privata”, costosa, efficiente e molto distante dalle esperienze di chi frequenta gli ospedali pubblici. A scanso di equivoci: il discorso potrebbe essere esteso a diverse categorie professionali che godono dello stesso beneficio, a cominciare dai giornalisti. Un privilegio resta un privilegio. Diventa meno sopportabile, però, quando riguarda le persone che decidono le politiche pubbliche.
Cure per tutti: anche conviventi gay
Funziona così: una parte del corposo stipendio dei parlamentari serve a coprire l’iscrizione all’Asi. La quota è proporzionale all’indennità degli onorevoli. È molto alta, quindi: 526,66 euro al mese per i deputati e 540,27 per i senatori. In compenso, il piccolo sacrificio - rispetto alla busta paga, che tra le varie voci è vicina agli 11 mila euro - consente di farsi rimborsare quasi per intero (il 90 per cento) qualsiasi tipo di prestazione, dal ricovero ospedaliero fino alle lenti a contatto. Deputati e senatori sono iscritti d’ufficio al fondo integrativo (per rinunciare devono fare richiesta) e possono estendere la copertura a coniugi, figli e semplici conviventi con un sovrapprezzo di 50 euro al mese.
La legge sulle unioni civili viene rimandata di continuo, le coppie gay per lo Stato italiano non esistono, ma in Parlamento – e solo in Parlamento – quest’ingiustizia è sanata: dal 2013 gli onorevoli omosessuali possono mettere al riparo i propri compagni dalle incertezze della sanità pubblica. Il fondo riguarda anche e soprattutto gli ex parlamentari: quelli cessati dal mandato (insieme ai familiari), fanno come al solito la parte del leone. Oltre a loro, la sanità integrativa spetta a giudici della Corte costituzionale, giudici emeriti e famiglie a carico.
A differenza dei costi delle prestazioni sanitarie, che continuano a crescere, la quota associativa è la stessa da quasi 10 anni, come si legge nel rendiconto della Camera per l’anno 2014: “Il calcolo delle quote di contribuzione è basato sulla misura dell’indennità parlamentare vigente nell’anno 2006 e non più aggiornato”. I rimborsi, nel 2014, sono costati 11 milioni e 150 mila euro per la Camera e 6 milioni e 100 mila euro per il Senato. In tutto fanno oltre 17 milioni di euro di prestazioni sanitarie in un solo anno, da dividere per circa 5.600 iscritti, tra parlamentari ed ex. Le casse delle Asi, in ogni caso, sono in equilibrio: le quote versate coprono i costi per intero.
L’assistenza integrativa copre davvero qualsiasi tipo di intervento medico: ricovero, parto, prestazioni odontoiatriche, protesi e apparecchiature, accertamenti diagnostici, sedute psicoterapeutiche e persino cure termali (che però, almeno, sono rimborsate solo a chi soffre di cardiopatia o ha subito lesioni fisiche o cerebrali).
Gesso, lenti, elettroshock
Il tariffario è completo Ogni voce ha una tariffa rimborsabile: occhiali da vista e lenti a contatto arrivano fino a 350 euro l’anno, per l’impianto di un dente si ha diritto a 387,34 euro, per l’“ablazione del tartaro” fino a 51,65. Il deputato che non chiude occhio può farsi rimborsare una “cura del sonno” da 516 euro e addirittura l’“elettroshock con narcosi”, fino a 154 euro. Per farsi togliere il gesso, si possono riavere indietro 51,65 euro. Le spese per le cure, oltre ad essere rimborsate, a fine anno possono essere portate in detrazione sui redditi.
La sanità degli onorevoli, insomma, non è gratis, ma conviene. Ed è privata. Lo stato di quella pubblica, invece, è ben descritto nell’ultimo rapporto di Cittadinanzattiva (2014): “Le ultime manovre economiche hanno portato a: ridimensionamento degli attuali livelli di finanziamento dell’assistenza sanitaria; introduzione di ulteriori ticket; tagli drastici nei trasferimenti alle Regioni ed alle municipalità dei fondi sulla disabilità, l’infanzia, gli immigrati (...). La diminuzione dell’offerta pubblica obbliga il cittadino a scegliere tra due opzioni: rivolgere la domanda di assistenza insoddisfatta al settore privato o attendere un tempo più lungo per la prestazione nel settore pubblico, accettando il rischio implicito di peggioramento delle proprie condizioni di salute ”.
L’impoverimento, insomma, induce a non curarsi, curarsi tardi o curarsi male. Ma chi fa le leggi può continuare ad ignorarlo.

«Non si pestano i piedi, in attesa di definire la miglior transizione politica per entrambi. A sentirli parlare, Assad è intoccabile per Putin ed è il primo degli ostacoli per Obama. Alla fine si troverà un accordo che non minacci gli interessi delle due super potenze». Il manifesto, 4 ottobre 2015 (m.p.r.)
Quarto giorno di bombardamenti russi in Siria: nel mirino c’è Raqqa, la «capitale» dell’autoproclamato califfato. Secondo il Ministero della Difesa russo, ieri sono state colpite 9 postazioni dello Stato Islamico intorno alla città e sarebbero stati distrutti depositi di carburante e munizioni e equipaggiamento militare. In 72 ore, fa sapere Mosca, oltre 60 bombardamenti hanno significativamente ridotto il potenziale militare degli islamisti e provocato «il panico, costringendo 600 miliziani stranieri a disertare e cercare di fuggire in Europa».
«Nessuna bomba contro infrastrutture civili e edifici che avrebbero potuto contenere civili», ha commentato il Ministero della Difesa russo in risposta alla pioggia di critiche e polemiche del fronte occidentale. Che ha dato una versione diversa: in un comunicato congiunto Stati uniti, Gran Bretagna, Turchia, Francia, Germania, Arabia saudita e Qatar hanno accusato Mosca di aver avuto come obiettivo non i miliziani di al-Baghdadi ma le opposizioni moderate al presidente Assad. E la popolazione civile: il segretario alla Difesa britannico Fallon ha affermato, dati dell’intelligence di Londra alla mano, che solo il 5% dei raid ha centrato postazioni Isis, il resto avrebbe colpito l’Esercito Libero Siriano e i civili.
Il fronte anti-Assad cerca di screditare l’operazione militare russa: mai, in un anno di azioni da parte della coalizione guidata dagli Usa, si era voluto calcolare quanti siriani fossero rimasti uccisi nei bombardamenti aerei (quegli stessi civili che quando a piovere sono bombe considerate «legittime» vengono classificati come meri «danni collaterali»). Ora è una priorità, condivisa anche dalle opposizioni siriane a Damasco: secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, almeno 39 civili tra cui 8 donne e 8 bambini sono morti a causa di Mosca negli ultimi 4 giorni, tra Aleppo, Idlib, Hama e Raqqa.
Interviene anche al-Jazeera, media qatariota che un ruolo centrale ha avuto nel manovrare a livello mediatico le primavere arabe e la guerra civile siriana. Ieri riportava di raid russi al confine con la Turchia, contro un ospedale. Nessuna vittima. A corredo dell’articolo una foto che mostrava del fumo alzarsi da un luogo non ben precisato tra le colline. Un’altra immagine (nella foto), invece, raccontava un’altra storia: un raid russo al confine tra Siria e Turchia ci sarebbe stato ma con un target diverso. La notizia e l’immagine sono state pubblicate da Iraqi News e Press Iraq: un lungo convoglio di autocisterne sarebbe stato colpito mentre viaggiava dalla Siria alla Turchia. Trasportava petrolio di contrabbando venduto dall’Isis fuori dal paese, tra le principali fonti di finanziamento del gruppo.
Se la notizia venisse confermata, ancora una volta nell’occhio del ciclone finirebbe Ankara, da tempo accusata di sostenere palesemente il califfato, garantendogli libertà di movimento e acquistando sotto banco greggio. In tale contesto di accuse e smentite si gioca il braccio di ferro tra Washington e Mosca: la Casa bianca accusa il Cremlino di operare senza coordinarsi con la coalizione, il Cremlino risponde di averla avvertita. Ma al di là dei battibecchi ripetuti ed evidenti, sul campo la situazione appare diversa: mentre la Russia bombarda le postazioni Isis nei governatorati dove Assad mantiene parzialmente il controllo, gli Stati uniti proseguono nel colpire le aree del tutto occupate dal Califfato.
Il nemico, di fatto, è lo stesso anche se Obama ieri ha ripetuto che il sostegno alle opposizioni moderate non cesserà. Venerdì il presidente Usa definiva l’intervento russo «la ricetta per il disastro» perché Mosca «non distingue tra Isis e opposizioni sunnite moderate». Come se la ricetta finora adottata da Washington e dagli alleati del Golfo fosse vincente: prima hanno investito su gruppi islamisti radicali per far cadere il presidente Assad, poi hanno tentato di mettere una pezza lanciando un’operazione aerea poco efficace (a cui l’Isis si è presto adattato) e foraggiando ribelli incapaci di combattere.
Questa è la realtà e Obama, che non è stupido, lo sa. Venerdì ha detto che la Siria non trascinerà gli Stati uniti in uno scontro militare con la Russia. E se a parole l’attacca, poi manda il segretario di Stato Kerry a definire i «dettagli» della cooperazione militare in Siria con il ministro degli Esteri russo Lavrov. Sul campo la cooperazione c’è già: i russi bombardano dove non lo fanno gli statunitensi. Non si pestano i piedi, in attesa di definire la miglior transizione politica per entrambi. A sentirli parlare, Assad è intoccabile per Putin ed è il primo degli ostacoli per Obama. Alla fine si troverà un accordo che non minacci gli interessi delle due super potenze: Mosca vuole un accesso sul Mediterraneo e influenza sulla regione; Washington mantenere il controllo delle alleanze energetiche e militari, senza scontentare Israele e Arabia saudita.
«Aumen­tano i deserti chia­mati pace e la dispe­ra­zione umana che fugge senza meta verso un imma­gi­na­rio Occi­dente, ricco ma cru­dele e respon­sa­bile delle tra­ge­die in corso»

. Articoli di Tommaso di Francesco ed Emanuele Giordano, e una dichiarazione di Gino Strada. Il manifesto, 15 ottobre 2015



DIFETTO COLLATERALE
di Tommaso di Francesco

«Scu­sate tanto, è stato un errore», così i comandi dell’aviazione Usa e Nato si sono rivolti all’opinione pub­blica afghana e inter­na­zio­nale e all’organizzazione Medici Senza Fron­tiere, dopo che i «nostri» cac­cia­bom­bar­dieri, della nostra coa­li­zione dei buoni, ha col­pito ieri una, due tre volte l’ospedale di Kun­duz che tutti cono­scono, visi­bile da chi­lo­me­tri e nelle mappe di ogni ammi­ni­stra­zione civile o mili­tare. Assas­si­nati 12 medici e 7 pazienti, anche bam­bini tra le vittime.

È la guerra afghana che dura più di quella del Viet­nam, giu­sti­fi­cata per ven­di­care l’11 set­tem­bre con decine di migliaia di vit­time e nella quale gli effetti col­la­te­rali, vale dire le vit­time civili dei raid aerei, sono stati un ele­mento strut­tu­rale del ter­rore «neces­sa­rio» dei bom­bar­da­menti aerei. Con risul­tati poli­tici deter­mi­nanti, come la dele­git­ti­ma­zione dell’alleato pre­si­dente Hamid Kar­zai, poi uscito di scena, che, dopo stragi con cen­ti­naia di morti e le pro­te­ste popo­lari sulle quali è cre­sciuto il ruolo dei tale­bani, si era sca­gliato con­tro il Pen­ta­gono, cioè l’ufficiale paga­tore che lo teneva al potere.

Torna il para­digma della guerra mai con­clusa. Un obiet­tivo della destra ame­ri­cana neo­con che appare più che rea­liz­zato. Il mondo torna a slab­brarsi lì dove «ci stiamo riti­rando, la pace è fatta».

C’è la Siria al cen­tro, no torna l’Afghanistan e di Iraq meglio tacere, com’è meglio oscu­rare lo smacco in primo luogo ita­liano in Libia. Aumen­tano i deserti chia­mati pace e la dispe­ra­zione umana che fugge senza meta verso un imma­gi­na­rio Occi­dente, ricco ma cru­dele e respon­sa­bile delle tra­ge­die in corso.

È così, gli «effetti col­la­te­rali» afghani river­be­rano sul pre­sente della crisi in Siria l’intero spec­chio delle stragi com­messe dall’alto di migliaia di piedi, dal cielo — è l’eroismo dei top gun, quello di non scen­dere sul campo con gli sti­vali dopo la pro­pa­ganda nega­tiva delle bare di rien­tro dei mili­tari occi­den­tali. Ma come si fa a rac­con­tare ancora la favola degli errori o meglio degli «effetti collaterali»?

Se per col­pire ipo­te­tici ter­ro­ri­sti — così ora «giu­sti­fica» l’alleato il governo di Kabul -– si bom­barda den­tro una città intera con mis­sili Cruise e mici­diali Clu­ster bomb? Ora Kun­duz resterà come una mac­chia, ancora impu­nita, sulla fedina sporca del mili­ta­ri­smo uma­ni­ta­rio, l’ideologia bel­li­ci­sta che domina l’Occidente demo­cra­tico. Con in più sta­volta l’evidenza di avere fatto strage dell’umanitario vero che legit­ti­ma­mente opera sul campo, come Medici Senza Fron­tiere o come è già acca­duto per Emergency.

Il fatto è che la guerra e le armi invece dell’effetto appa­iono sem­pre più come il difetto col­la­te­rale e nasco­sto di un Occi­dente impe­gnato nei dik­tat eco­no­mici per la gover­vance glo­bale del capi­ta­li­smo rimasto.

A domi­nare, per chi vuole vedere, è lo spec­chio delle male­fatte che si rifran­gono una den­tro l’altra. Che impe­di­sce per­fino ad Obama di par­lare sere­na­mente e stra­te­gi­ca­mente della guerra in Siria, ancora rac­con­tata come il campo dei raid nostri «buoni» (che tutt’al più fanno appunto «effetti col­la­te­rali») e quelli cat­tivi, russi (che ucci­dono civili); dove ci sarebbe un ter­ro­ri­smo «com­bat­tente e buono», orga­niz­zato dalla Cia e che quindi non va col­pito, e quello cat­tivo del «nemico» Isis, ormai tar­get comune. Dimen­ti­cando che per entrambi c’è stata la coa­li­zione degli «Amici della Siria» che gra­zie ai fondi dell’Arabia sau­dita e delle petro­mo­nar­chie del Golfo, ha acceso il fuoco di quel con­flitto da almeno tre anni. E infatti Obama non ci rie­sce, non rie­sce ad uscire dal mili­ta­ri­smo uma­ni­ta­rio ed è costretto a subire l’intervento russo che — sem­pre san­gui­noso è, non dimen­ti­chia­molo — spa­ri­glia almeno la par­tita e si muove per una solu­zione che non può essere, nem­meno in Siria, mili­tare. E men­tre è all’ordine del giorno la Siria, Obama è costretto a vedere che c’è in casa, negli Stati uniti, un nemico che fa più vit­time del Calif­fato: il ter­ro­ri­smo dome­stico di una guerra civile stri­sciante ame­ri­cana che fa 11mila morti l’anno.

Meglio non vedere que­sto difetto col­la­te­rale allora. E silen­ziare — avete visto un gior­na­lone ancor­ché giu­sti­zia­li­sta che ne parli? — il fatto che da ieri l’Italia, con Spa­gna e Por­to­gallo, sia per un mese il «campo di bat­ta­glia»» delle più grandi mano­vre mili­tari Nato — la stessa dei raid sull’ospedale di Kun­duz — dalla caduta del Muro di Ber­lino. Pronto a nuove avven­ture, distru­zioni e spese mili­tari. Fin­ché c’è guerra c’è speranza.

«La guerra è crudeltà senza regole né rispetto per nessuno e dunque senza regole e rispetto per gli ospedali o per i feriti» È il commento a caldo che Gino Strada, un chirurgo che l’Afghanistan ce l’ha nel cuore, affida a il manifesto. Ma c’è soprattutto il disprezzo per la guerra in sé nel cuore e nelle parole del fondatore di Emergency, e il primo italiano ad aver appena vinto per la sua attività umanitaria il Right Livelihood Award del Parlamento svedese (il cosiddetto Nobel alternativo).
«Sì - aggiunge - pura crudeltà: un ospedale viene bombardato dalle forze Nato in Afghanistan. Per errore, certo, come per errore in questi anni sono stati uccisi più di 19 mila civili! In realtà - dice Strada riferendosi al recente caso di Msf a Kunduz - non esistono convenzioni e non esiste diritto umanitario che possa impedire alla guerra di rivelarsi per quello che è: un massacro di civili, donne, bambini, medici e infermieri. Nessuno viene risparmiato. Il bombardamento di un ospedale è l’evidenza stessa della brutalità della guerra».

Quando gli chiediamo se ritenga che il bombardamento dell’ospedale di Medici senza frontiere a Kunduz sia o meno un atto deliberato, risponde così: «Non voglio nemmeno entrare in considerazioni di questo tipo per un fatto che è comunque inaccettabile: se poi si è trattato di un atto deliberato o se invece è stato un errore, se si è trattato di una scelta fatta a tavolino da un gruppo di idioti o se è invece stato uno sbaglio, tutto questo mi sembra totalmente irrilevante quanto inaccettabile. Tutto – conclude – è già nella guerra ed è inutile stupirsi. È inutile svegliarsi improvvisamente per una cosa che è sempre successa, succede e succederà se c’è una guerra. La guerra non si può umanizzare, si può solo abolire».

GINO STRADA: «CRUDELTÀ SENZA REGOLE NÉ RISPETTO»
di Emanuele Giordano

«La guerra è cru­deltà senza regole né rispetto per nes­suno e dun­que senza regole e rispetto per gli ospe­dali o per i feriti» È il com­mento a caldo che Gino Strada (nella foto), un chi­rurgo che l’Afghanistan ce l’ha nel cuore, affida a il mani­fe­sto.

Ma c’è soprat­tutto il disprezzo per la guerra in sé nel cuore e nelle parole del fon­da­tore di Emer­gency, e il primo ita­liano ad aver appena vinto per la sua atti­vità uma­ni­ta­ria il Right Live­li­hood Award del Par­la­mento sve­dese (il cosid­detto Nobel alternativo).

«Sì – aggiunge — pura cru­deltà: un ospe­dale viene bom­bar­dato dalle forze Nato in Afgha­ni­stan. Per errore, certo, come per errore in que­sti anni sono stati uccisi più di 19 mila civili! In realtà – dice Strada rife­ren­dosi al recente caso di Msf a Kun­duz — non esi­stono con­ven­zioni e non esi­ste diritto uma­ni­ta­rio che possa impe­dire alla guerra di rive­larsi per quello che è: un mas­sa­cro di civili, donne, bam­bini, medici e infer­mieri. Nes­suno viene rispar­miato. Il bom­bar­da­mento di un ospe­dale è l’evidenza stessa della bru­ta­lità della guerra».

Quando gli chie­diamo se ritenga che il bom­bar­da­mento dell’ospedale di Medici senza fron­tiere a Kun­duz sia o meno un atto deli­be­rato, risponde così: «Non voglio nem­meno entrare in con­si­de­ra­zioni di que­sto tipo per un fatto che è comun­que inac­cet­ta­bile: se poi si è trat­tato di un atto deli­be­rato o se invece è stato un errore, se si è trat­tato di una scelta fatta a tavo­lino da un gruppo di idioti o se è invece stato uno sba­glio, tutto que­sto mi sem­bra total­mente irri­le­vante quanto inac­cet­ta­bile. Tutto – con­clude – è già nella guerra ed è inu­tile stu­pirsi. È inu­tile sve­gliarsi improv­vi­sa­mente per una cosa che è sem­pre suc­cessa, suc­cede e suc­ce­derà se c’è una guerra. La guerra non si può uma­niz­zare, si può solo abolire».

«Il manifesto, 2 aprile 2015


IL REGOLAMENTO DEL PIÙ FORTE
di Andrea Fabozzi

Costituzione. Emendamenti abbattuti a pacchi, voti segreti pericolosi per il governo scansati senza scrupolo. Il presidente Grasso garante della riforma di Renzi. In poche ore la guida del senato è passato da bestia nera del governo a strumento per la marcia trionfale dell’esecutivo

La tra­ci­ma­zione dei sena­tori dal gruppo di Forza Ita­lia a quello ormai sta­bil­mente in mag­gio­ranza di Ver­dini, il nego­ziato con la mino­ranza Pd che ha ridotto il dis­senso interno da una tren­tina di sena­tori a due o tre sono cose che cer­ta­mente aiu­tano. Ma pro­ba­bil­mente non sareb­bero bastate al governo per far appro­vare la legge di revi­sione costi­tu­zio­nale entro il 13 otto­bre, data sulla quale Renzi non tran­sige. Ci voleva una grossa mano da parte del pre­si­dente del senato, quel Pie­tro Grasso con il quale nell’ultimo mese il pre­si­dente del Con­si­glio ha più volte cer­cato lo scon­tro isti­tu­zio­nale, lan­ciando avver­ti­menti e ulti­ma­tum. Evi­den­te­mente andati a segno, per­ché quella mano è arri­vata. Anche più gene­rosa del pas­sato. Grasso ha con­sen­tito qual­siasi strappo al rego­la­mento e ha seguito passo dopo passo il per­corso trac­ciato dai tec­nici di palazzo Chigi e di palazzo Madama per aggi­rare gli osta­coli alzati dalle oppo­si­zioni con­tro un governo che non accetta modi­fi­che alla «sua» riforma costi­tu­zio­nale. Ieri sera, prima dell’ultima inter­pre­ta­zione del rego­la­mento utile ad allon­ta­nare peri­co­lose vota­zioni segrete dal cam­mino dell’articolo 2, il pre­si­dente del senato non si è fatto scru­polo di riu­nirsi a palazzo Madama con la mini­stra Boschi per stu­diare assieme le stra­te­gie d’aula.

E così la riscrit­tura di oltre un terzo della Costi­tu­zione pro­cede spe­dita. Ieri è stato appro­vato l’articolo 1 che sta­bi­li­sce la fun­zioni del senato, gra­zie alla risco­perta della tec­nica dell’emendamento «kil­ler». Grasso lo aveva già con­sen­tito all’inizio dell’anno sulla legge elet­to­rale, allora reg­geva ancora il «patto del Naza­reno» e l’emendamento Espo­sito servì a pie­gare la mino­ranza Pd. Ieri l’emendamento Cocian­cich ha scan­sato il rischio di vota­zioni segrete. Il pro­dotto finale è un lungo testo di 30 righe in gran parte mai discusso né in aula né in com­mis­sione, e mai nean­che difeso dalla mag­gio­ranza cui inte­res­sava solo votarlo prima di tutti gli altri emen­da­menti. Sarà il nuovo arti­colo 55 della Costi­tu­zione ita­liana che oggi è quello scritto da Costan­tino Mor­tati in due commi e cin­que righe in tutto.

Così sono stati abbat­tuti emen­da­menti a pac­chi e la ten­sione in aula ha con­ti­nuato a salire per tutta la gior­nata, tra le pole­mi­che per il soste­gno dei «tran­sfu­ghi» e gli attac­chi dei 5 Stelle al pre­si­dente. Che, impas­si­bile, ha con­ti­nuato a rispon­dere di no a ogni richie­sta delle oppo­si­zione. La riforma della Costi­tu­zione ha preso così le forme già viste di un asse­dio della mino­ranza al for­tino (sem­pre più largo) della mag­gio­ranza, tanto rumo­roso quanto vano. Impos­si­bile ogni discus­sione nel merito di modi­fi­che impor­tan­tis­sime, ma la respon­sa­bi­lità va divisa tra l’esecutivo che ha escluso ogni aper­tura reale e la guida dell’assemblea che ha dimo­strato di saper tute­lare solo gli inte­ressi del governo. Intro­du­cendo, come se non bastasse, pre­ce­denti assai peri­co­losi. Sia il voto sull’emendamento Cocian­cich che quello sul com­plesso dell’articolo 1 hanno testi­mo­niato il buon lavoro fatto da Ver­dini e dal sot­to­se­gre­ta­rio Lotti: il governo è rima­sto sem­pre sopra la soglia della mag­gio­ranza asso­luta. E non è esatto dire che i voti degli ultimi arri­vati sono solo «aggiun­tivi», come si con­sola la mino­ranza Pd ricon­dotta all’ordine, visto che nel suc­ces­sivo pas­sag­gio ser­virà pro­prio la mag­gio­ranza asso­luta per lan­ciare la riforma verso il refe­ren­dum con­fer­ma­tivo. Non ha torto Sel quando, anti­ci­pando uno slo­gan refe­ren­da­rio, attacca «la Costi­tu­zione di Renzi e Verdini».

Anche per­ché non è affatto finita, nella pros­sima set­ti­mana dovranno arri­vare altre for­za­ture. Già ieri sera Grasso ha tro­vato il modo di affos­sare cin­que voti segreti che aveva pre­ce­den­te­mente dichia­rato di voler acco­gliere. Sull’articolo 2 è ormai noto che la pre­si­denza ha ammesso solo emen­da­menti al comma 5, ma tanto la sena­trice De Petris di Sel quanto il leghi­sta Can­diani ave­vano tro­vato il modo di infi­lare in quel punto il ritorno all’elezione diretta dei sena­tori e anche il voto segreto. Gli emen­da­menti diven­ta­vano così assai peri­co­losi per la tenuta del governo. Ma Grasso si è messo di tra­verso con un’interpretazione ancora una volta spe­ri­co­lata del rego­la­mento. Oggi si vota sull’articolo 2.

Il pre­si­dente del Con­si­glio può dun­que far tra­pe­lare la sua grande tran­quil­lità. Ma nel Pd manca ancora l’accordo su due punti: l’elezione del pre­si­dente della Repub­blica e la norma tran­si­to­ria (arti­colo 39) che affida ancora ai con­si­glieri regio­nali la scelta esclu­siva dei sena­tori (con buona pace del recu­pero della «volontà dei cit­ta­dini»). Sul primo punto si è par­lato di un pos­si­bile nuovo emen­da­mento kil­ler, sem­pre di Cocian­cich, ma la pro­po­sta in realtà è assai più impe­gna­tiva e intro­dur­rebbe un sistema di can­di­da­ture uffi­ciali per il Qui­ri­nale. Il governo è stato costretto a dissociarsi.

I VOTI CI SONO, VERDINI PURE.
TRA FISCHI E BANCONOTE AL VENTO
di Andrea Colombo
I sì alla riforma I sì sempre tra i 171 e 172, come previsto dall’ex berlusconiano D’Anna. E al momento dell’approvazione finale saranno molti di più, secondo qualcuno arriveranno addirittura a sfiorare i 190

«Que­sta è la riforma della Costi­tu­zione Renzi-Verdini»: Peppe De Cri­sto­faro, Sel, rigira il col­tello nell’unica ferita che deturpa la vit­to­ria piena del pre­mier. Non è finita. Ci saranno altri momenti incan­de­scenti, nuovi pas­saggi a rischio. Il più peri­co­loso sarà sull’articolo 21: mate­ria del con­ten­dere le moda­lità di ele­zione del capo dello Stato. Ma si può scom­met­tere che si ripe­terà la sce­neg­giata degli ultimi due giorni. Roberto Cocian­cich, il pre­si­dente degli scout cat­to­lici che come hobby fal­ci­dia voti segreti, ha già pre­sen­tato l’apposito «can­guro». Renzi la spun­terà ancora su tutti i fronti.

I voti a favore sono stati sem­pre tra i 171 e 172, esat­ta­mente come pre­vi­sto dall’ex ber­lu­sco­niano con­qui­stato da Ver­dini Vin­cenzo D’Anna. Non sono pochi: sor­pas­sano di una decina e passa la mag­gio­ranza asso­luta e offrono la prova pro­vata che la riforma sarebbe pas­sata anche senza la resa della mino­ranza Pd. Però gli esperti scom­met­tono che al momento del voto finale i sì saranno molti di più, secondo qual­cuno arri­ve­ranno addi­rit­tura a sfio­rare i 190. Un po’ perché non ci saranno le assenze degli ultimi giorni, un po’ per­ché l’arrembaggio al carro del vin­ci­tore, anzi al taxi gui­dato da Ver­dini che verso quel carro tra­ghetta i pro­fu­ghi della destra, è in pieno svolgimento.

I dis­sensi nel Pd non sono andati oltre quei tre voti ampia­mente pre­ven­ti­vati: Felice Cas­son, Cor­ra­dino Mineo e Wal­ter Tocci. Nell’Ncd, nono­stante gli sfra­celli minac­ciati, nem­meno quelli. Nes­sun voto con­tra­rio, tutt’al più qual­che assenza stra­te­gica desti­nata pro­ba­bil­mente a rien­trare nel voto finale.

Cilie­gina pre­li­bata sulla torta di don Mat­teo, la resa incon­di­zio­nata e totale del pre­si­dente del Senato. Arri­vato alla stretta deci­siva, con le debite pres­sioni eser­ci­tate sino all’ultimo secondo dalla mini­stra Boschi, Piero Grasso ha abban­do­nato ogni resi­stenza, senza curarsi più nep­pure di sal­vare le appa­renze, e ha lasciato mani total­mente libere alla mag­gio­ranza e al governo. Cocian­cich, l’uomo-canguro, giura di essersi scritto da solo gli emen­da­menti kil­ler, ma in aula sia Lore­dana De Petris, Sel, che Mau­ri­zio Gasparri, Forza Ita­lia, hanno detto aper­ta­mente quello che tutti i sena­tori si ripe­te­vano nei cor­ri­doi, cioè che die­tro non que­gli emen­da­menti ma die­tro l’intera stra­te­gia della mag­gio­ranza in aula ci sono diret­ta­mente i fun­zio­nari del Senato. E se la vox populi, come spesso capita, ci piglia, il fatto non sarebbe certo pos­si­bile senza l’assenso del pre­si­dente di palazzo Madama.

Resta appunto solo una ferita aperta: il ruolo deter­mi­nante di Denis Ver­dini e della sua truppa mer­ce­na­ria. Certo, il voto sulla riforma non com­porta l’appartenenza a una mag­gio­ranza, però quando ieri il capo­gruppo Barani ha annun­ciato il voto a favore con­fer­mando tut­ta­via che «noi restiamo all’opposizione», gli ex com­pa­gni azzurri si sono sca­te­nati in una gara di fischi, i leghi­sti hanno sven­to­lato ban­co­note, i pen­ta­stel­lati hanno rumo­ro­sa­mente segna­lato al Pd, mino­ranza inclusa, quali sono i nuovi com­pa­gni di strada. Ma gli stessi sena­tori di Renzi, pur sfor­zan­dosi di restare seri, sape­vano per­fet­ta­mente che si trat­tava di una barzelletta.

Certo, il voto di Ver­dini non è stato sinora e non sarà in futuro deter­mi­nante. Però senza quei voti, senza la garan­zia che la riforma sarebbe stata comun­que appro­vata gra­zie agli ascari del fio­ren­tino, la rotta della mino­ranza Pd non ci sarebbe stata, o almeno sarebbe stata meno totale e sgan­ghe­rata. La cam­biale arri­verà ine­so­ra­bil­mente a sca­denza, e si som­merà alla neces­sità di offrire una zat­tera ai nau­fra­ghi dell’Ncd. In Par­la­mento quei rin­forzi sono pre­ziosi, fuori dal palazzo potreb­bero rive­larsi esi­ziali. Secondo un già cele­bre son­dag­gio della Ghi­sleri, che ieri a palazzo Madama era sulla bocca di tutti, l’alleanza con Ver­dini e Alfano coste­rebbe al Pd addi­rit­tura il 7% dei con­sensi, facen­dolo pre­ci­pi­tare al 25%. Certo, quel son­dag­gio è in qual­che misura dro­gato. Parla di «par­tito della nazione», mette Renzi e Ver­dini quasi sullo stesso piano. I risul­tati, di con­se­guenza sono pro­ba­bil­mente esa­ge­rati. Ma, anche se in dimen­sioni meno rovi­nose, il patto col dia­volo che il pre­mier ha scelto di fir­mare per garan­tirsi la vit­to­ria rischia comun­que di costare parec­chio in ter­mini di voti.

Qual­che prezzo dovrebbe pagarlo anche per aver modi­fi­cato la Costi­tu­zione con i truc­chi e i carri armati, a colpi di can­gu­ra­menti più o meno super, di vio­la­zioni del rego­la­mento con­sen­tite senza pudore da Piero Grasso, di aggi­ra­menti sfac­ciati di ogni voto anche solo poten­zial­mente minac­cioso. Ma con un sistema media­tico genu­flesso o inti­mi­dito e con l’alibi incau­ta­mente offerto da Cal­de­roli e dai suoi milioni e milioni di emen­da­menti, su quel fronte Renzi è certo di riu­scire a evi­tare ogni ritorno d’immagine dan­noso. Ma nascon­dere Ver­dini, Alfano e tutti gli altri, quello è un altro paio di maniche.

IL PRECEDENTE PERICOLOSO
di Massimo Villone

Ave­vamo la Costi­tu­zione di De Gasperi, Togliatti, Nenni, Mor­tati, Cala­man­drei, Perassi e altri, a molti di noi cari. Una Costi­tu­zione che ha retto bene il paese per decenni, anche in momenti bui. Abbiamo da oggi la Costi­tu­zione di Renzi, Boschi e Cocian­cich. Ogni tempo ha gli eroi che si merita.

Quando fu pre­sen­tato per l’Italicum il noto emen­da­mento Espo­sito, fu chiaro che si poneva un pre­ce­dente peri­co­loso, tale da poter stron­care non solo l’ostruzionismo, ma qual­siasi dibat­tito o con­fronto par­la­men­tare. Rias­su­mere un det­tato nor­ma­tivo in un emen­da­mento da ante­porre e da votare prima degli altri ha infatti la con­se­guenza, secondo una let­tura nota­rile dei rego­la­menti, di far cadere ogni altro emen­da­mento per­ché l’Aula ha ormai deciso. Scrissi allora su que­ste pagine che il pre­si­dente avrebbe dovuto dichia­rare l’emendamento Espo­sito inam­mis­si­bile, per carenza di con­te­nuto nor­ma­tivo. Fece diversamente.

Vicenda simile abbiamo ora con l’emendamento Cocian­chic (1.203). Non importa chi l’abbia scritto. Cal­de­roli ha rife­rito in Aula voci per cui Cocian­cich «avrebbe detto a più per­sone che igno­rava il con­te­nuto ovvero la por­tata del suo emendamento».

Non sap­piamo se sia vero. Comun­que, non ci voleva un genio del diritto par­la­men­tare per infi­larsi nel varco aperto allora dalla deci­sione del pre­si­dente del senato sull’emendamento Espo­sito. La cosa fu già grave con l’Italicum. È ancor più grave adesso, con una riforma della Costi­tu­zione di grande momento. E non si può riba­dire abba­stanza che il senso della Costi­tu­zione, ed in spe­cie dell’art. 138, non è certo quello di favo­rire i truc­chetti per stron­care il dibat­tito, e arri­vare in qua­lun­que modo alla decisione.

Dopo tanto esi­tare, il pre­si­dente Grasso è sceso in campo per il governo. Per la verità, qual­che sospetto l’avevamo. Ne tro­viamo ora con­ferma nelle deci­sioni sull’ordine delle vota­zioni e sui subemendamenti.

Qual era il cor­retto ordine di vota­zione degli emen­da­menti? Secondo prin­ci­pio, gli emen­da­menti si votano a par­tire dal più lon­tano fino al più vicino al testo da emen­dare. In Aula, è stata con­te­stata a Grasso la scelta di met­tere in prima fila l’emendamento 1.203, e il pre­si­dente in realtà non ha rispo­sto. Ancor più signi­fi­ca­tiva la deci­sione di pre­clu­dere ogni sube­men­da­mento al Cocian­cich. Va infatti con­si­de­rato che gli emen­da­menti di mag­gio­ranza (quelli con­cor­dati in casa Pd) sono stati por­tati a cono­scenza dei sena­tori all’ultimo momento. Molti sono andati in Aula senza nem­meno averli visti. Il pre­si­dente ha deciso che i ter­mini per la pre­sen­ta­zione di sube­men­da­menti erano già sca­duti. Forse vero, ma le con­di­zioni reali del dibat­tito avreb­bero certo sug­ge­rito, se non impo­sto, almeno una breve ria­per­tura dei ter­mini. Appro­vato il Cocian­cich, Grasso ha anche respinto il ten­ta­tivo di sube­men­darlo attra­verso l’art. 100, comma 5, reg. sen., norma rara­mente invo­cata, che però avrebbe potuto con­sen­tire una almeno par­ziale ria­per­tura del confronto.

Il trucco c’è, e si vede. Con que­ste deci­sioni, l’approvazione del nuovo art. 55 della Costi­tu­zione si è sostan­zial­mente risolta nel voto sull’emendamento Cocian­cich, che ha pre­cluso tutti gli altri, men­tre veniva con­te­stual­mente impe­dito ai sena­tori di oppo­si­zione qual­siasi inter­vento in via di sube­men­da­mento. È stata così anche supe­rata una raf­fica di voti segreti, rischiosi per il governo. All’accusa di avere con­sen­tito l’uso stru­men­tale dell’emendamento 1.203 con­tro le oppo­si­zioni — avan­zata da molti nella seduta di gio­vedì — Grasso ha rea­gito con stizza, ma senza porre argo­menti. E nem­meno ha rac­colto le ripe­tute e insi­stite richie­ste di riu­nire la Giunta per il rego­la­mento. Non a caso. Come sap­piamo, i numeri della Giunta non sono blin­dati per il governo, e il pas­sag­gio poteva rive­larsi peri­co­loso. Ana­lo­ghe mano­vre si pre­an­nun­ciano per gli arti­coli suc­ces­sivi al primo. A quanto leg­giamo, per i sube­men­da­menti all’art. 2 il tempo con­cesso è mezz’ora.

Grasso pro­ta­go­ni­sta, dun­que. Avremmo pen­sato che il primo dovere di un pre­si­dente di assem­blea fosse nei con­fronti dell’istituzione pre­sie­duta. Dob­biamo ricre­derci. Pos­siamo forse capire l’atteggiamento tenuto verso gli 82 milioni di emen­da­menti Cal­de­roli, per cui poteva valere l’argomento che non si può mai favo­rire la para­lisi dell’istituzione. Ma que­sto era ieri. Oggi, vediamo Grasso schie­rato al fianco del governo. Erano pos­si­bili scelte diverse, e let­ture di rego­la­mento secun­dum con­sti­tu­tio­nem, più attente alla neces­sità che una Costi­tu­zione nasca da un con­fronto reale, e non per il soste­gno acri­tico di mag­gio­ranze occa­sio­nali e rac­co­gli­ticce, popo­late di anime morte e di voltagabbana.

Quanto accade ci con­ferma che la fu mino­ranza Pd ha sba­gliato facen­dosi rias­sor­bire nel grup­pone, e sostan­zial­mente scom­pa­rendo nel gorgo della rot­ta­ma­zione costi­tu­zio­nale. Un pezzo del paese non accetta la Costi­tu­zione di Renzi, senza se e senza ma per­ché quella che abbiamo è di gran lunga migliore. Il sena­tore Cocian­cich ci comu­nica in una inter­vi­sta di pre­fe­rire la pre­ci­sione e non la quan­tità come Cal­de­roli. Rispetto ad entrambi, pre­fe­riamo l’intelligenza.

«Su Marte vive una popolazione di circa tre milioni di under 35 italiani. Sono abitanti di un mondo a parte, molto eterogeneo, lontano dalle politiche del nostro Paese».

La Repubblica Milano, 2 ottobre 2015

È difficile fare politiche mirate ed efficaci se mancano dati basilari sulla realtà su cui si vuole intervenire. Un chiaro esempio riguarda la condizione dei giovani. Ne abbiamo sempre meno e ne perdiamo sempre di più, nel senso che proprio non sappiamo dove sono e cosa fanno. Ci riferiamo in particolare a due categorie in forte crescita di under 35, identificate con termini non utilizzati nelle generazioni precedenti a testimonianza delle specificità che le caratterizzano. Si tratta dei Neet e gli Expat.

In entrambi i casi sappiamo che non sono più a scuola e non sono nemmeno all’interno del mondo del lavoro italiano. Sono altrove, finiti fuori dal radar del sistema Paese. I Neet sono soprattutto giovani con istruzione medio-bassa che conclusi con più o meno successo gli studi non riescono a trovare pieno inserimento nel mercato del lavoro. Nei Paesi con sistemi informativi e politiche più efficienti, chi cerca lavoro è in larga parte registrato nei servizi pubblici per l’impiego e chi abbandona precocemente gli studi viene inserito in una base dati apposita ed entra in un programma specifico di monitoraggio e supporto. In Italia solo una piccola quota si iscrive ai centri per l’impiego e dopo un anno e mezzo dall’avvio, anche il Piano Garanzia giovani è riuscito solo in minor parte a raggiungerli.

Il dato più recente indica circa 800 mila registrati su un totale di circa due milioni e quattrocento mila Neet. Ci sono quindi oltre un milione e mezzo di giovani che non studiano e non lavorano che, per quanto ne sanno le istituzioni italiane, potrebbero trovarsi su Marte.
Andrebbero poi aggiunti anche gli inattivi tra i 30 e i 34 anni dei quali il progetto GaranzIa giovani non si occupa ma che rappresentano almeno un altro milione di persone.
Gli Expat sono invece i giovani dinamici e intraprendenti, spesso con alto capitale umano, che hanno lasciato l’Italia per cercare qualche opportunità di ulteriore formazione o miglior lavoro all’estero. Secondo l’Istat nei soli ultimi cinque anni hanno lasciato l’Italia, formalizzando tale scelta con il trasferimento di residenza, quasi 100mila giovani tra i 15 e i 34 anni. Secondo l’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) in tale fascia d’età i connazionali che risiedono in un altro Paese sono nel complesso oltre un milione.

Come ben noto l’Anagrafe estera da un lato contempla anche i nati all’estero da cittadini italiani, d’altro lato sottostima fortemente gli Expat. Va sottolineato che negli anni più recenti i flussi di uscita riguardano le regioni più avanzate, come la Lombardia, e le persone più qualificate. Sempre secondo l’Istat la percentuale di dottori di ricerca emigrati è quasi raddoppiata, dal 7 per cento di chi ha conseguito il titolo nel 2006 al 13 per cento di chi si è dottorato nel 2010. Non esiste però un registro che individualmente ci dica chi sono, dove si trovino e cosa stiano facendo. Molti di loro sarebbero interessati e disponibili a instaurare rapporti di collaborazione con il Paese di origine, ma anch’essi, per quanto ne sanno le istituzioni italiane, potrebbero trovarsi su Marte. Di fatto su Marte vive una popolazione di circa tre milioni di under 35 italiani. Sono abitanti di un mondo a parte, molto eterogeneo, lontano dalle politiche del nostro Paese e sconnessi dal modello di sviluppo italiano. Potenziali risorse ignorate e inutilizzate.

«Il voto catalano non costituisce un evento isolato. E de-limitato. Ma si somma a quanto avviene, da tempo, in altri Paesi. In particolar modo, in quelli affacciati sulla sponda mediterranea. Dove si allarga il contagio dell’Ues: l’Unione Euro- Scettica».

La Repubblica, 29 settembre 2015 (m.p.r.)

Il risultato delle elezioni in Catalogna conferma l’ampiezza del sentimento separatista che anima la Comunidad autónoma. Il fronte a favore dell’indipendenza (Junts pel Sì + Cup) ha ottenuto il 47,8% dei voti. Ha, così, conquistato la maggioranza assoluta dei seggi, ma non dei voti. Si fosse trattato di un referendum, questo esito non sarebbe sufficiente a sancire la secessione da Madrid. Ma oggi appare adeguato ad amplificare lo spirito indipendentista che spira, forte, in altre aree della Spagna. Anzitutto nei Paesi Baschi. Questo voto, inoltre, rischia di produrre «una rivoluzione geopolitica su scala europea», come ha osservato Lucio Caracciolo, ieri, su Repubblica. Una Catalogna indipendente, infatti, non troverebbe posto nella Ue.

Tuttavia, il voto catalano non costituisce un evento isolato. E de-limitato. Ma si somma a quanto avviene, da tempo, in altri Paesi. In particolar modo, in quelli affacciati sulla sponda mediterranea. Dove si allarga il contagio dell’Ues: l’Unione Euro- Scettica. Trasmesso da una catena di attori politici, impolitici e anti-politici. Uniti da un comune bersaglio. L’Europa dell’euro. Dunque, l’Europa, tout court. Visto che l’Unione è stata prevalentemente costruita, appunto, sul terreno economico e monetario. Mentre i soggetti politici di maggiore successo, negli ultimi anni, sono quelli che hanno esercitato una critica aperta all’Euro-zona. E, spesso, alla stessa Unione Europea, in quanto tale.

In Italia: la Lega di Salvini. Esplicitamente contraria all’Euro, ma anche alla Ue. Appunto. Inoltre: il M5s. Anch’esso esplicitamente ostile all’Euro-zona. Tanto che, nei mesi scorsi, Alessandro Di Battista, deputato del M5s, fra i più autorevoli, ha proposto un «cartello tra i Paesi del Sud Europa» per «uscire dall’euro» e «sconfiggere la Troika che ha distrutto l’Ue». Un aperto invito, dunque, a costruire la Ues. Rivolto, anzitutto, alla Grecia, governata da Alexis Tsipras e dal suo partito, Syriza. Che, come ha confermato Yanis Varoufakis, ex ministro delle Finanze, aveva pianificato un programma per trasformare l’euro in dracma. E per liberarsi del controllo della Troika. Prima, ovviamente, della recente crisi. Che ha condotto la Grecia a scontrarsi con la Germania della Merkel. E con il “governo” della Ue. Anche se ora, ovviamente, questo progetto è divenuto impraticabile. Dopo il prestito-ponte erogato dalla Ue, per fare fronte all’enorme debito che opprime la Grecia. Mentre Tsipras ha estromesso dal governo Varoufakis e gli altri esponenti del partito, reticenti e indisponibili ad accogliere le pesanti condizioni poste dalla Ue. Nonostante tutto, pochi giorni fa, Tsipras ha ri-vinto le elezioni. Si è confermato alla guida del governo e del Paese. E la Grecia è rimasta nella Ue e nell’euro. Non certo per passione, ma per necessità. E per costrizione.
Ma l’Ues ha messo radici anche in Francia. A sua volta, Paese mediterraneo. Soggetto protagonista della scena europea, insieme alla Germania. Ebbene, com’è noto, in Francia, negli ultimi anni, si è assistito all’ascesa di Marine Le Pen, che ha spinto il Front National ben oltre il 25%. Al di là delle zone di forza tradizionali, nelle regioni “mediterranee”. Per affermarsi, Marine Le Pen ha moderato i toni - più che i contenuti - del messaggio politico tradizionale. E ha preso le distanze dal padre, Jean-Marie. Fondatore e “padrone” del Fn. Fino alla rottura. Sancita dall’espulsione del padre, avvenuta a fine agosto, per decisione del comitato esecutivo del partito.
Il Fn di Marine e Bleu Marine, la coalizione costruita intorno al partito, hanno, tuttavia, mantenuto i due orientamenti tradizionali forse più importanti. La xeno-fobia. Letteralmente: paura dello straniero. E l’opposizione all’Europa dell’euro. Così, i confini mediterranei della Ue oggi sono occupati dalla Ues. Che tende ad allargarsi rapidamente altrove. Nei Paesi della Nuova Europa. A Est: in Polonia, Ungheria. E a Nord. In Belgio, Olanda, Danimarca, Scandinavia. Per non parlare della Gran Bretagna. Dove l’euroscetticismo è radicato da tempo. La Germania, il centro dell’Europa dell’euro, intanto, si è indebolita. Messa a dura prova, da ultimo, dallo scandalo che ha coinvolto e travolto la Volkswagen. Un grande gruppo automobilistico. Ma, soprattutto, un marchio dell’identità (non solo) economica tedesca nel mondo. Intanto, la xeno-fobia si è propagata ovunque. Alimentata dall’esodo dei profughi degli ultimi mesi. Dall’Africa e dal Medio Oriente, attraverso l’Italia, la Grecia, i Balcani.
Così, 26 anni dopo la caduta del muro di Berlino, in Europa sorgono nuovi muri. Non solo simbolici. Marcano il difficile cammino di una costruzione che si è sviluppata senza un disegno. Politico. Culturale. Perché l’Europa “immaginata”, fra gli altri, da Adenauer, De Gasperi, Churchill, Schuman, l’Europa di Jean Monnet e Altiero Spinelli: è rimasta, appunto, “un’immagine”. Un orizzonte. Lontano.
D’altra parte, (come dimostra l’Osservatorio europeo curato da Demos-Oss. di Pavia- Fond. Unipolis, gennaio 2015), l’Europa dell’euro non suscita passione. Tanto meno entusiasmo. La maggioranza dei cittadini - in Italia e negli altri Paesi europei - la accetta, per prudenza. Teme che, al di fuori, potrebbe andare peggio. Così, il progetto europeo non cammina. Perché ha gambe molli e non ha un destino. Mentre il sentimento scettico si fa strada. In Spagna. In Italia. In Francia. In Europa. A Destra (e al Centro), ma anche a Sinistra. E alla Ue si sovrappone la Ues. L’Unione Euro-Scettica. Più che un soggetto e un progetto organizzato: una sindrome. Densa e grigia. Diffusa nell’area mediterranea. Oggi si sta propagando rapidamente altrove. Conviene prenderla sul serio, prima che sia troppo tardi. Prima che contagi anche noi.

La Repubblica, 28 settembre 2015 (m.p.r.)

New York. Un “disgelo” Usa-Russia per cooperare sulla Siria, con sullo sfondo qualche novità per l’Ucraina? È l’ipotesi che agita le aspettative, dietro l’incontro di oggi tra Barack Obama e Vladimir Putin. L’occasione è l’assemblea generale Onu a New York. Putin non si faceva vedere da 10 anni qui al Palazzo di Vetro. E con Obama non ha vertici bilaterali da due anni, cioè dall’inizio della crisi ucraina (i due si sono salutati in occasione di summit internazionali, ma riducendo al minimo l’interazione). Ora tutto sta cambiando, per quel che accade in Siria. La Francia ha lanciato ieri il suo primo raid aereo contro lo Stato Islamico, nell’ambito della coalizione. Ma Obama prende atto che la sua strategia, fondata sulla “guerra dai cieli” più l’appoggio a ribelli locali, non funziona. Putin ne approfitta: ha lanciato un’escalation “logistica”, trasferendo navi militari, aerei da combattimento, reparti di marines e mezzi blindati nella base che i russi hanno in Siria da 44 anni. Da un momento all’altro possono entrare in azione.

Nemico comune per americani e russi è lo Stato Islamico e quindi le due superpotenze potrebbero combatterlo fianco a fianco, anche se gli Stati Uniti si limitano ai raid aerei. Ma i russi sono amici di Assad e non hanno intenzione di mollarlo, mentre Washington continua a chiedere che il dittatore siriano se ne vada (sia pure in un orizzonte temporale non più immediato). Come far quadrare il cerchio? E quali “ricompense” si attende Putin su altri fronti come l’Ucraina? Un allentamento delle sanzioni?
Obama fin dal suo arrivo ieri sera ha trovato una New York segnata dall’evoluzione dei rapporti geostrategici sul pianeta. Per la prima volta dai tempi di Roosevelt il presidente americano è stato “sfrattato” dal Waldorf Astoria. L’hotel storico di tutti i presidenti è diventato impraticabile, secondo il secret service: lo ha comprato un’azienda pubblica cinese. Obama si è dovuto rassegnare al Lotte Palace Hotel, meno blasonato ma più protetto dallo spionaggio elettronico.
Più preoccupante del cambio di albergo è l’accumulo di notizie negative dal fronte siriano. Una commissione d’indagine del Congresso accusa il Pentagono di aver sbagliato tutto: ha speso 500 milioni di dollari per addestrare forze ribelli in grado di combattere sia contro i jihadisti sia contro Assad, e si ritrova con un pugno di mosche in mano. I ribelli addestrati sono pochissimi, le armi fornite dall’America sono in parte finite allo Stato Islamico. E intanto cresce il flusso di combattenti stranieri in arrivo in Siria per rafforzare i jihadisti: aumentano al ritmo di mille al mese. Sono arrivati in 30.000 dal 2011. È un disastro che in parte coinvolge l’Onu. Proprio qui un anno fa Obama riuscì a far passare al Consiglio di sicurezza una risoluzione vincolante per bloccare l’afflusso di combattenti dal resto del mondo verso le zone controllate dallo Stato Islamico. E invece le frontiere di tutti i paesi (dalla Turchia alla Francia, agli stessi Stati Uniti) continuano ad essere dei colabrodo, per i militanti che partono ad arruolarsi sotto le bandiere della jihad. In quanto ai bombardamenti aerei lanciati dalla coalizione a guida Usa: forse hanno fermato l’espansione dello Stato Islamico in nuove aree, di certo non lo hanno messo in ginocchio. A conferma che la strategia americana è in una impasse, c’è la partenza improvvisa del generale John Allen che guidava la coalizione anti-Is.
È qui che interviene Putin. Il presidente russo accusa Obama di avere sbagliato: il problema della Siria non è Assad; qualsiasi azione per rovesciarlo rischia di riprodurre lo scenario della Libia quando un intervento militare occidentale eliminò Gheddafi per poi lasciare un vuoto riempito da guerra civile e fondamentalisti. Ieri Putin ha detto alla tv americana Cbs: «Non c’è un’altra soluzione alla crisi siriana che non il rafforzamento delle strutture di un governo effettivo e dargli aiuto nella lotta contro il terrorismo». Una posizione che trova allineato con la Russia anche l’Iran.
Obama sta valutando i pro e i contro dell’offerta di Putin. Facile elencare gli svantaggi. La Russia vuole rientrare in gioco come uno degli attori che contano in Medio Oriente. Puntellare Assad serve a consolidare l’unica base militare che Mosca possiede nel Mediterraneo. Dare l’avallo a un intervento russo può mettere l’America in posizione di grave imbarazzo, alla prima strage di civili (o di ribelli “laici”) perpetrata dai bombardieri di Putin. Come far digerire Assad, «macellaio del popolo siriano», all’opinione pubblica occidentale? Infine non c’è garanzia di successo: la guerra in Afghanistan persa dall’Urss ricorda che l’Armata rossa è tutt’altro che invincibile. Ma Obama è in una fase di ripensamento della strategia in Medio Oriente: se vuole evitare di essere risucchiato in un conflitto terrestre, e se lo Stato islamico è il pericolo numero uno, l’America deve appoggiarsi su combinazioni di alleanze. “Il nemico del mio nemico, è mio amico”, la vecchia regola della realpolitik sarà una delle opzioni nel faccia a faccia di oggi.

«I nazionalisti conquistano la maggioranza assoluta dei seggi nel parlamento catalano. La cronaca e l'intervista di Alessandro Oppes a Fernando Savater: «Sono solo elezioni regionali, ma i secessionisti le hanno trasformate in un plebiscito sull’indipendenza». La Repubblica, 28 febbraio 2015 (m.p.r.)
NELLE VIE DI BARCELLONA L'ESULTANZA
“ABBIAMO VINTO. ORA L'INDIPENDENZA”
di Alessandro Oppes

Barcellona. Un boato squarcia la notte sulla Plaça Comercial. Poi l’applauso, lo slogan ritmato di “In-Inde-Independencia”, e subito la folla intona Els Segadors, l’inno nazionale di quello che sperano possa diventare presto un nuovo Stato. Bastano i primi exit-poll trasmessi alle 8 della sera sui maxischermi allestiti nella roccaforte separatista del quartiere del Born, davanti al vecchio mercato in stile modernista riconvertito in centro culturale icona delle rivendicazioni nazionaliste, per scaldare gli animi, per scatenare l’euforia. Qui il listone di Junts pel Sí , nato dall’accordo tra il president Artur Mas e il leader repubblicano Oriol Junqueras, ha stabilito il suo quartier generale nella speranza di poter celebrare una nottata storica. E i dati, poi confermati dal conteggio ufficiale delle schede, gli danno ragione.

Il fronte secessionista supera l’obiettivo minimo della maggioranza assoluta di 68 seggi (ne ottiene 73), indispensabile per restare al governo della regione. Contrariamente alle prime proiezioni che gli assegnavano anche la maggioranza assoluta dei voti, tanto più significativa se si considera l’altissima affluenza alle urne, la più alta di sempre, si ferma invece al 48 per cento. Un risultato che Mas celebra comunque come un trionfo, ballando tra i suoi fan a tarda notte sul palco del Born. «Ha vinto il sì e ha vinto la democrazia», esulta il presidente, che promette di amministrare la vittoria «con senso di concordia rispetto alla Spagna e all’Europa». È presto per sapere se forzerà i tempi della minacciata dichiarazione unilaterale di indipendenza o esplorerà tutte le possibili vie di dialogo. Il listone ottiene 62 seggi, a cui vanno aggiunti i 10 della Cup, la frangia di estrema sinistra del blocco indipendentista. Un raggruppamento ideologicamente distante dalle posizioni neoliberali di Mas, però unito a lui dalla rivendicazione di una Catalogna libera dall’abbraccio di Madrid.
Per il resto, sul fronte del “no” al divorzio dallo Stato centrale, risalta l’affermazione di Ciudadanos, il volto amabile dell’anti-nazionalismo (25 seggi contro i 9 di tre anni fa), in contrasto con il crollo verticale del Pp di Rajoy, che quasi vede dimezzati i voti (11 seggi, ne aveva 19) ed è ridotto a penultima forza con rappresentanza parlamentare. Resistono i socialisti, leggermente in calo ma meno di quanto ci si potesse aspettare, che con 16 seggi (nel 2012 ne ottennero 20) surclassano l’alleanza di sinistra Catalunya Sí que es Pot: un fiasco clamoroso per Podemos (non ha convinto il messaggio di Pablo Iglesias che non dice sì all’indipendenza ma propone un referendum se arriverà a conquistare la Moncloa a dicembre): l’apporto di Podemos alla coalizione è stato nullo, anzi penalizzante per gli eco-socialisti di Iniciativa per Catalunya, che tre anni fa da soli avevano conquistato 13 seggi, mentre questa volta con una campagna monopolizzata dalla formazione“viola” sono scivolati a 11.
Che la Catalogna vivesse una giornata potenzialmente storica, si è capito sin dal primo mattino, con lunghe code ai seggi (oltre il 77 per cento l’affluenza dieci punti in più rispetto al 2012). Nel cortile del Col-legi La Salle, a decine si accalcano in coda con la “papeleta” in mano. «Mai vista tanta gente», assicura un rappresentante di lista di Junts pel Sí, già convinto che possa essere un buon segnale per l’opzione secessionista. Siamo nel Barri de Gràcia, roccaforte indipendentista, dove tra vicoli e piazzette è difficile vedere anche un solo edificio che non abbia almeno una estelada esposta al balcone. Avvolto nell’emblema del “nou país”, lo Stato nuovo vagheggiato da Mas e soci, un anziano con barba bianca, pattini a rotelle ai piedi, gira come una trottola da un capo all’altro della Plaça de la Revolució, convinto probabilmente di aver scelto il posto giusto per celebrare una giornata decisiva.
Le operazioni di voto procedono in modo pacifico, senza incidenti di rilievo. La polizia nazionale, accorsa in forze da Madrid - 500 agenti inviati dal ministro dell’Interno - mantiene una presenza discreta: vigila sulle sedi degli edifici che ospitano uffici dell’amministrazione centrale e niente più, qui dell’ordine pubblico si occupa il corpo dei Mossos d’Esquadra, dipendente dal governo regionale. Qualche momento di tensione si vive sotto i riflettori di tv e fotografi quando il president Artur Mas arriva con la moglie Helena Rakosnik al seggio vicino al suo elegante appartamento di Carrer Tuset, nel quartiere alto-borghese di Sant Gervasi. Militanti di Vox, un partito irrilevante di ultradestra (roba da zero virgola) sfoderano due bandiere spagnole e inneggiano all’unità nazionale. I fan del “procés” separatista tuonano “independencia”. Espulsi i provocatori torna la calma. All’uscita, in un breve messaggio “urbi et orbi” in catalano, spagnolo, inglese e francese, Mas dice che, comunque andasse a finire, «la democrazia ha vinto, in Catalogna, in Spagna e in Europa».

"QUESTO VOTO È STATO UN IMBROGLIO. UN REFERENDUM L'AVREBBERO PERSO

intervista a Fernando Savater
di Alessandro Oppes

Dicano pure quello che vogliono, però quale che sia il risultato, si tratta di normali elezioni regionali trasformate in modo fraudolento in una sorta di referendum. È il filosofo Fernando Savater, attivo da sempre nel combattere ogni tipo di nazionalismo, a cominciare da quello che nel suo Paese Basco sfociò nella barbarie terroristica dell'Eta, non ci sta a fare concessioni al fronte vittorioso di Artur Mas.

Professor Savater, a questo punto cosa succede?
Il fatto che la vittoria di Junts pel S’ in una consultazione elettorale che legalmente doveva servire solo per rinnovare il Parlamento regionale venga interpretato come un avallo alle loro aspirazioni indipendentiste, è un qualcosa che non posso accettare.
Però il fatto di aver ottenuto un’ampia maggioranza, unito all’altissima affluenza alle urne, non potrebbe dare al governo catalano una maggiore forza per avviare un negoziato con Madrid?
Il governo centrale può negoziare ciò che gli è permesso dalle leggi. Non può trattare né sulla dissoluzione del paese né sul fatto che una parte dei cittadini perdano la loro cittadinanza. La cittadinanza è mia, non è del governo. Può al limite discutere su eventuali concessioni di carattere amministrativo che riguardano l'autonomia regionale.
Non pensa che ci si dovrebbe comunque attendere una proposta di qualche tipo da parte di Rajoy, fermo da tempo sulla linea della politica del muro contro muro?
A questo punto, forse dovremo aspettare le prossime elezioni legislative di dicembre, e vedere se sarà lui o qualcun altro a dover instaurare una fase di dialogo. Io non accetto che esistano questi "cittadini catalani” di cui si parla: questa è una regione che fa parte dell'amministrazione dello Stato spagnolo, e quelli che hanno votato sono cittadini spagnoli residenti in Catalogna e non altro. Non credo a un popolo catalano più o meno mitologico, non mi pare debbano avere diritti speciali, diversi rispetto a quelli del resto della popolazione spagnola. Culturalmente hanno una loro specificità, ma politicamente no.
Ma, conoscendo un po’ il percorso politico di Artur Mas, pensa che possa puntare già alla rottura definitiva, o che invece esistano margini perché si possa tornare indietro?
È difficile dirlo, perchè Mas ha cambiato idea tante volte, fino a convertirsi in tempi recenti all'indipendentismo. Ma per me fa lo stesso, perchè non credo che nessuno abbia il diritto di violare la legalità vigente.
Crede che il governo Rajoy abbia la capacità di far fronte alla sfida, ora che i separatisti si sentono molto forti?
Il governo dovrebbe servire per questo: per affrontare le sfide, per quanto complicate possano essere. Così come ha fatto fronte a situazioni particolarmente delicate come è stato ad esempio il terrorismo. Altrimenti, visto che fra tre mesi si vota per le legislative, bisognerà scegliere un esecutivo che sia in condizioni di risolvere i problemi.
Fino a pochi anni fa, il centro della sfida nazionalista al potere centrale era localizzato nel Paese Basco. Perché all’improvviso si è spostato verso la Catalogna?
È successo con l'inizio della crisi economica e quando sono cominciati a emergere gravi casi di corruzione in Catalogna. Quando le cose andavano bene e non c'erano scandali in vista, l'indipendentismo in Catalogna era una questione quasi folcloristica. Poi è arrivata la recessione, il governo Mas ha messo in pratica drastici tagli allo stato sociale e, al tempo stesso, il leader storico dei nazionalisti Jordi Pujol è stato travolto da uno scandalo monumentale. L'opzione separatista è emersa per tappare tutto questo.
Dovrà ammettere però che non è stata solo una mossa strategica di Mas: moltissima gente si è unita alla causa.
Sì, questo è vero. Però i catalani sono sette milioni. E poniamo pure che fossero tutti indipendentisti, cosa che ovviamente non è vera: non potranno mai imporre la loro volontà a 40 milioni di spagnoli.
Perché non piacciono ai catalani le “terze vie”, le soluzioni di compromesso?
Un po' perchè la propaganda a senso unico dei mezzi d'informazione pubblici non lascia spazio ai discorsi alternativi. E poi la terza via non si è mai capito bene che cosa sia. I socialisti, che la propongono, non l'hanno spiegata né bene né male, non l'hanno proprio spiegata. Figuriamoci se la possono capire gli elettori.

«Era difficile per i conduttori commentare la risposta del congresso, diviso e confuso sulle reazioni da palesare. Gli applausi che si alzavano dall’ala repubblicana ad ogni accenno di dissenso su aborto e matrimonio gay, si spegnevano subito quando il discorso si spostava su armi, povertà, cambiamento climatico, migranti». Il manifesto, 26 settembre 2015 (m.p.r.)

New York. U n vero tornado, popegaddon, popezilla, si sprecano aggettivi e neologismi per descrivere l’effetto che sta avendo questa visita del papa negli Stati Uniti. Accolto dalla popolazione più come un referente politico che come un leader spirituale, il papa ha di fatto spiazzato tutti i livelli dell’accoglienza ufficiale americana, ad incominciare dai media tradizionali, prima tra tutte la televisione. La diretta del discorso al congresso è stata trasmessa da tutti i network principali ed era palpabile un certo imbarazzo dei conduttori per un personaggio che ha mischiato le carte scontentando (molto) gli amici tradizionali ma anche (un poco) i nuovi amici.

Il network CBS come commento al discorso dove, partendo con l’appello al diritto di vita dalla sua origine, si è concluso con una diretta condanna sulla pena di morte, è partito parlando dei problemi di sciatica del santo padre, un modo per prendere tempo ed evitare un commento a caldo. Era obiettivamente difficile per i conduttori commentare la risposta del congresso, diviso e confuso sulle reazioni da palesare. Gli applausi che si alzavano dall’ala repubblicana ad ogni accenno di dissenso su aborto e matrimonio gay, si spegnevano subito quando il discorso si spostava su armi, povertà, cambiamento climatico, migranti. Tra tutti i repubblicani solo Ben Carson ha apprezzato il discorso e non ne ha preso esplicitamente le distanze. Ted Cruz invece non ha fatto mistero del proprio disappunto e così, anche se in toni più pacati, i Cattolici per Jeb.
I democratici hanno avuto più occasioni per sciogliersi in calorosi applausi ma anche per loro i momenti di imbarazzo non sono mancati, soprattutto sul tema della pena di morte, argomento delicatissimo in ogni momento, ma soprattutto durante una campagna elettorale di fatto già iniziata. La pena di morte, pur restando "cara" al popolo americano, è comunque scesa alla percentuale più bassa degli ultimi quarant’anni. Ma se i media americani tradizionali (non solo la tv, anche la stampa trasuda imbarazzo per la difficoltà di inquadrare un personaggio tradizionalmente intoccabile ma mai, prima d’ora, così poco collocabile) hanno problemi di rappresentazione dell’evento, i social media vivono l’evento come esperienza collettiva. I carattere più socio politico che spirituale è evidente.
L’hashtag #PopeinUs, su twitter, raggruppa, il pensiero collettivo americano iperconnesso, che si mostra meno disorientato e più felice di vedere argomenti pesanti come macigni scagliati nel dibattito. Se per il Wall Street Journal la visita del papa è stata un’occasione per interrogarsi su chi siano, oltre a Bergoglio, i leader contemporanei mondiali, come si legge nell’articolo di Aaron David Miller, e concludere che al di là di questo controverso personaggio non si vedono altre personalità globali capaci di creare aspettativa e dibattito, su i social media ci si interroga sul senso in sé dei temi toccati. E ancora una volta ne esce fuori la fotografia di un paese i cui abitanti sono più avanzati di chi li rappresenta.
Anche politici come Bernie Sanders o Hillary Clinton hanno affidato a Twitter il proprio consenso su i temi affrontati al congresso e la stessa Casa Bianca ha più volte sottolineato le convergenze fra il punto di vista del Vaticano e quello dell’attuale amministrazione, in special modo quelle raggruppate nell’hashtag #actonclimat, riguardanti i passi concreti da fare a difesa dell’ambiente. L’altro grande concorrente dei media tradizionali, in questo caso con la televisione in cima alla lista, è stato Periscope, il metodo di livestream incorporato agli smartphone che da aprile veicola in rete le immagini video dei momenti topici statunitensi. Nella sera di giovedì, così come ci si aspetta venerdì, gli incontri del papa con i cittadini, dalla messa a St Patrick alla visita a Ground Zero o all’incontro di Central park, sono trasmessi da centinaia di connessioni livestream. Quello che si vede è una massa dove i cattolici provenienti da ogni parte d’America non sono la maggioranza. E, oltre ai cori da chiesa, molti sono i commenti su cosa sarà del futuro americano. E soprattutto se anche il prossimo presidente avrà tante opinioni in comune con questo papa

«A un pontefice non si può chiedere di entrare nel merito di ogni caso, ed è curioso che tanti miscredenti, come me, si trovino ad auspicare iniziative di Francesco dirette e appuntite. Che so, un paio di scomuniche esemplari». L

a Nuova Sardegna, 26 settembre 2015

Nessuna obiezione all'Enciclica. Tutti d'accordo, pure chi non avrebbe vantaggi se prevalessero- come auspicato pure dall'ONU - “altri modi di intendere l’economia e il progresso” (Laudato si', § 16). E se il Papa decidesse di smascherare le adesioni più corrive, avrebbe un gran daffare. Pure in Sardegna servirebbe qualche sua autorevole precisazione, visto che la Saras di Moratti lo ha ringraziato in uno spot sulla propria singolare conversione ecologista.

È vero: a un pontefice non si può chiedere di entrare nel merito di ogni caso, ed è curioso che tanti miscredenti, come me, si trovino ad auspicare iniziative di Francesco dirette e appuntite. Che so, un paio di scomuniche esemplari: alla Syndial, che a Porto Torres ha disperso in terra e in mare non si sa quanti rifiuti tossici; ai colpevoli del disastro di Portoscuso, dove la catena alimentare è corrotta senza tornaconti. Una gran pena: scolpita nella faccia di chi è vittima dell'impoverimento di quei luoghi, lo stesso smarrimento descritto nella vignetta di Altan: “Cos'ho dottore?/Niente, ha perso tutto”.

La Sardegna non potrà essere risarcita da condanne - neppure all'inferno - di chi ha contaminato 450mila ettari di terra, trasformato spiagge e scogliere in piedistalli di brutte case, speculato oltre ogni limite su vento, sole, sottosuolo, tappato corsi d'acqua, simulato guerre con bombe vere, appiccato incendi senza tregua - l'ultimo nella costa di Alghero.

Fermare questa distruzione non è facile per amministrazioni locali spesso disarmate più che inerti (evviva se dopo 10 anni il governo Pigliaru attua le previsioni del Ppr per frenare la diffusione degli impianti eolici). Gli insuccessi sono più probabili senza lo schieramento di tutte le istituzioni dalla parte del buon governo del territorio, del quale più cose si sanno è meglio è. Ma la “coscienza di luogo” - presupposto per ogni progetto - manca da un po' in questo Paese, nel solco del difetto avvertito da Pasolini 40 anni fa: “il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia”.

Una verità le devastazioni. Ampiamente sottostimate se si considera la bassa densità della popolazione (la Sardegna è tra le 4 Regioni in cima alla classifica degli abusi edilizi: quindi al primo posto). Inutile minimizzare il ciclo di trasformazioni subite, dipendenti da bisogni remoti; penso al 60% del patrimonio boschivo bruciato nell' '800 in Continente, per lo sviluppo lì; e mi interrogo sul programma di fare pellet dagli alberi del Marganai.

Nulla di nuovo, copio e incollo le parole Foucault: «il potere è localizzato in un centro sovrano che impone la sua legge dall’alto verso il basso». E il pensiero va dritto a SbloccaItalia, alla legge voluta da Renzi contro la quale 6 Regioni NO-Triv hanno deciso - dal basso - di ricorrere alla Consulta. Non la Sardegna (?) che conviene ora con i referendari, viste le proteste di molte comunità allarmate. Un' inquietudine più estesa di quanto si immagini, in un quadro reso più drammatico dallo spopolamento progressivo di vaste aree.

C'è chi vorrebbe premere il tasto reset, via dalla memoria le mappe delle aggressioni ai paesaggi e dei veleni; d'altra parte, si sa, mancano le risorse e non c'è bonifica che potrà restituirci il Sulcis com'era, a sicut erat. Nel frattempo siamo rassicurati dalle eccellenze ad uso del racconto sfuggente e del branding. La Sardegna all'Expo, buona e bella, leggendaria grazie alle eccezioni - statisticamente dappertutto - enfatizzate a dismisura. La longevità di alcune famiglie, qualche olivastro millenario, la vittoria del ciclista Aru, un pecorino esaltato dallo chef, non possono diventare banner per appannare la ordinaria mediocrità. Il cibo? Nell'isola agropastorale 8 bistecche su 10 vengono da fuori ed è molto lungo l'elenco di generi alimentari “tipici” che importiamo in questa misura.

Le eccellenze ruggenti all'Expo, come i leoni di Metro Goldwyn Mayer, preannunciano un bel film. Meglio guardarlo tutto. E sulle trivelle occhi spalancatati come quelli del gigante di Cabras. La campagna referendaria è compito nostro, il Papa ha già detto.

«Quella di Volkswagen è una vicenda che può avere conseguenze disastrose per la casa tedesca e ricadute su tutta l’industria automobilistica. I tedeschi nella gestione della crisi europea hanno sempre anteposto la questione “morale” (chi sbaglia paga) a quella economica».

Lavoce.info, 25 settembre 2015 (m.p.r.)

Le conseguenze della truffa

C’è un solo aggettivo per definire quello che è successo alla Volkswagen: incredibile! Un gigante del settore automobilistico, in procinto di diventare il primo produttore al mondo, già emblema di qualità e affidabilità, ha truccato i motori diesel per ridurre artificialmente le emissioni inquinanti durante i test. L’imbroglio è stato scoperto e ora la casa di Wolfsburg è in guai seri, al punto da mettere a rischio la sopravvivenza stessa dell’impresa. Già molto è stato detto sull’argomento. Mi limito quindi pochi punti meno sottolineati nel dibattito.

Ho definito “incredibile” l’evento perché mette veramente a rischio l’esistenza di una delle società più importanti del mondo. Come è possibile che sia successo? Chi si è preso la responsabilità di mettere in atto una truffa di questo genere? Tanto più che il software è installato su 11 milioni di veicoli: come si poteva pensare che prima o poi qualcuno non se ne sarebbe accorto? Chi ha fatto questa scelta suicida doveva esserne consapevole. Siamo quindi di fronte a un fallimento eclatante della corporate governance dell’impresa, che ricorda per certi versi i casi di Enron o le truffe finanziare all’origine della grande crisi. Perseguire i colpevoli non è quindi solo un atto di giustizia. Servirà anche a capire quale sia stato il processo all’interno di Volkswagen che ha portato a questo disastro, possibilmente fornendo spunti per evitare che si ripetano casi del genere.
Le conseguenze per la Volkswagen sono di due tipi. Da un lato, ci rimette la reputazione. Ciò implica che la domanda di automobili a marchio Volkswagen potrebbe diminuire. Il danno, seppur grave, è rimediabile con una seria operazione di trasparenza interna e con un po’ di pazienza. I consumatori hanno la memoria corta. L’altra serie di conseguenze riguarda le possibili cause legali, le multe che possono essere comminate, i costi per mettere a norma le automobili in circolazione. A questo stadio sono aperte tutte le opzioni. I conti saranno sicuramente salati, ma è impossibile dire quanto. Negli Stati Uniti su questioni simili non ci vanno certo leggeri. In questo caso, poi, non si devono neppure preoccupare del fatto di danneggiare un’impresa americana, quindi non aspettiamoci sconti.
Non è ancora chiaro quanto la truffa sia diffusa al di fuori degli Stati Uniti, ma sembra che solo una piccola parte delle macchine truccate sia stata venduta negli Usa. Bisogna quindi vedere cosa succederà negli altri paesi. Nell’ipotesi più pessimistica, i costi potrebbero portare Volkswagen sul lastrico. L’Europa si trova quindi di fronte a un dilemma. Da una parte, punire un’impresa che ha imbrogliato i consumatori su un aspetto fondamentale per la saluta pubblica. Dall’altra, preservare il contributo dell’impresa alla società europea, particolarmente in termini di posti di lavoro. Non sarà un percorso facile. L’aspetto ironico della vicenda è che ora il cerino è nelle mani dei tedeschi, che nella gestione della crisi europea hanno sempre anteposto la questione “morale” (chi sbaglia paga) a quella economica. Anche da questo punto di vista sarà interessante seguire gli sviluppi.

Confusione nel mercato

L’aspetto più sorprendente della vicenda è stata, però, la reazione dei concorrenti. Normalmente, ci si aspetterebbe che problemi per Volkswagen significhino buone notizie per gli altri produttori, che si possono avvantaggiare della sua perdita di clienti. La reazione dei mercati è invece stata opposta, con i titoli di tutte le aziende del settore in forte perdita, anche se in maniera più contenuta rispetto al -30 per cento di Volkswagen.

Le ragioni possono essere molteplici. La prima possibile spiegazione è che gli investitori pensino che, se l’ha fatto l’impresa ritenuta un gigante di integrità e tecnologia, allora è possibile che anche altre imprese abbiamo adottato trucchi per aggirare le regolamentazioni sulle emissioni. Per ora non sono emersi altri casi, e auguriamoci che rimanga un fatto isolato. La seconda possibilità è che, in seguito allo scandalo, il sistema dei controlli divenga più rigido e gli standard più stringenti. Ciò porterebbe a un aumento dei costi di produzione per le imprese automobilistiche, con conseguenze negative sui loro rendimenti. Ad esempio, già si parla della fine dei motori diesel. Ci vuole molto sangue freddo. È opportuno rimettere mano alla regolamentazione delle emissioni inquinanti. Ciò dev’essere però fatto senza fini punitivi. Vanno chiuse eventuali falle nel sistema di controlli. Per determinare i livelli ottimali di limiti, bisogna utilizzare l’evidenza scientifica più recente sui danni alla salute e all’ambiente delle varie emissioni da una parte, e valutare i costi che le case automobilistiche devono sopportare per ridurle (che si traducono inevitabilmente in prezzi più alti per i consumatori) dall’altra.
L’ultima spiegazione del crollo di borsa delle imprese del settore è la più semplice: nei momenti di incertezza, gli investitori preferiscono vendere. E in questo momento il settore è totalmente nel caos. La confusione che regna può incentivare comportamenti di aggiotaggio: basta mettere in giro la voce che una casa automobilistica è coinvolta nello scandalo per farne crollare il prezzo. Le autorità di vigilanza devono stare all’erta, in particolare perché le azioni delle case automobilistiche entrano direttamente o indirettamente nel portafoglio di molti piccoli, incolpevoli risparmiatori.

Una botta alla sanità pubblica, un affare per quella privata. Con il decreto del ministero della salute il governo Renzi vuole tagliare 13 miliardi. Un colpo secco al sistema della prevenzione. A pagarne il prezzo saranno i malati che non hanno mezzi per curarsi. In agitazione il settore, Articoli di Eleonora Martini, Ivan Cavicchi, Tonino Aceti. Il manifesto, 24 settembre 2015

TAGLI E MULTE MEDICI IN RIVOLTA
di Eleonora Martini

La ministra della Salute Beatrice Lorenzin allunga a 208 voci la lista di esami clinici da ridurre e sottrae altri 2,3 miliardi al Servizio sanitario nazionale. L’accusa è di eccesso di prescrizioni inappropriate. In preparazione altre norme per ridurre la medicina difensiva. I sindacati: manifestazione nazionale a novembre

Messo defi­ni­ti­va­mente in sof­fitta l’obiettivo prio­ri­ta­rio di pre­ve­nire le malat­tie che era alla base della riforma sani­ta­ria del 1978, la mini­stra della Salute Bea­trice Loren­zin allunga ulte­rior­mente fino a 208 voci, rispetto alle 108 dell’agosto scorso, l’elenco degli esami cli­nici - da inse­rire in un pros­simo decreto legge - che saranno coperti dal Sistema sani­ta­rio nazio­nale solo a deter­mi­nate con­di­zioni, pre­ve­dendo san­zioni per i medici che non rispet­tano i paletti impo­sti e per­se­ve­rano invece in quell’«eccesso di pre­scri­zioni» esploso negli ultimi anni con la cosid­detta “medi­cina difensiva”.

Un pro­blema, quello dell’appropriatezza delle pre­scri­zioni di test dia­gno­stici (ma di abuso di far­maci non parla più nes­suno) su cui tutti con­cor­dano, inclusi, con scarsa auto­cri­tica, i camici bian­chi, e che com­por­te­rebbe secondo i cal­coli gover­na­tivi uno spreco di risorse pub­bli­che pari a 13 miliardi ogni anno. I medici però non ci stanno ad accet­tare il «metodo repres­sivo» che limita la loro azione «in scienza e coscienza» e «rischia di incri­nare il rap­porto di fidu­cia col paziente». Ma soprat­tutto, si riper­cuote sulla salute pub­blica, aumen­tando il diva­rio tra le oppor­tu­nità di accesso alle cure a seconda del censo e della regione di appartenenza.

E allora la Fede­ra­zione nazio­nale degli Ordini dei medici annun­cia già per novem­bre una mani­fe­sta­zione nazio­nale di tutta la cate­go­ria per «richia­mare l’attenzione sulle cri­ti­cità emer­genti del Ssn», men­tre Mas­simo Cozza, segre­ta­rio nazio­nale Fp Cgil Medici chiama alla «mobi­li­ta­zione uni­ta­ria con i cit­ta­dini a difesa del Ssn e con­tro i tagli alla sanità camuf­fati come man­cati aumenti o risparmi annun­ciati da Renzi e Padoan».

Cozza spiega al mani­fe­sto: «Con quest’ultima mano­vra di luglio inse­rita nel decreto sugli enti locali, in appli­ca­zione del Patto sulla salute siglato da governo e regioni e da com­ple­tare appunto con l’elenco degli esami cli­nici sti­lato dal mini­stero, si tagliano 2,3 miliardi alla sanità pub­blica. Ma sono 30 i miliardi sot­tratti negli ultimi cin­que anni e non rein­ve­stiti sul Ssn». Inol­tre, il prov­ve­di­mento della mini­stra Loren­zin — che limita, per esem­pio, la pos­si­bi­lità di ripe­tere l’esame del cole­ste­rolo e dei tri­gli­ce­ridi nel san­gue a una volta ogni cin­que anni, a meno di par­ti­co­lari neces­sità cura­tive — sca­rica sulle regioni la messa a punto del modus ope­randi: chi con­trol­lerà, chi diri­merà even­tuali con­tro­ver­sie tra medico e con­trol­lore, quali san­zioni per il medico e chi le inflig­gerà. C’è da scom­met­tere che ogni regione si rego­lerà a modo suo. E così l’erogazione dei ser­vizi, già a mac­chia di leo­pardo, diven­terà tal­mente diso­mo­ge­nea da vio­lare il diritto costi­tu­zio­nale san­cito dall’articolo 32. In più, aggiunge Luigi Conte, segre­ta­rio Fnom­ceo, «molti dei 208 esami indi­cati nel prov­ve­di­mento come a rischio inap­pro­pria­tezza sono desueti e già non utilizzati».

Ribatte Loren­zin: «Non c’è una cac­cia al medico, tutt’altro. Gli diamo gli stru­menti per agire in modo più sereno. Le san­zioni ammi­ni­stra­tive sul sala­rio acces­so­rio scat­te­ranno dopo un eccesso rei­te­rato di pre­scri­zioni inap­pro­priate e solo dopo un con­trad­dit­to­rio con il medico che dovrà giu­sti­fi­care scien­ti­fi­ca­mente le sue scelte. Se non lo farà, solo allora scat­terà la san­zione». La mini­stra assi­cura inol­tre che i «pro­to­colli che sta­bi­li­scono come e quando fare gli esami sono stati decisi dalle società scien­ti­fi­che e rivi­sti dal Con­si­glio supe­riore di sanità». E invece l’associazione dei medici diri­genti Anaao «con­ferma la pro­pria totale con­tra­rietà ad affron­tare il tema dell’appropriatezza cli­nica per via poli­tica e ammi­ni­stra­tiva - afferma il segre­ta­rio nazio­nale Costan­tino Troise - Senza con­tare i veri e pro­pri stra­fal­cioni pre­senti nella parte tec­nica del decreto, che la dicono lunga sulle com­pe­tenze e sull’attenzione riser­vate alla materia».

Non sono poche invece le orga­niz­za­zioni che plau­dono al prov­ve­di­mento con­si­de­rato «utile alla lotta agli spre­chi». Ma men­tre i sin­da­cati dei radio­logi, per esem­pio, chie­dono di «risol­vere rapi­da­mente la que­stione della respon­sa­bi­lità pro­fes­sio­nale», per il Coda­cons i medici «appa­iono total­mente tute­lati e pos­sono ricor­rere anche a forme par­ti­co­lari di assi­cu­ra­zione», «il pro­blema sem­mai è garan­tire un livello di assi­stenza sani­ta­ria ade­guata evi­tando distor­sioni a danno degli utenti».

L’elenco di Loren­zin comun­que, secondo Mas­simo Cozza, «non rap­pre­senta in alcun modo un limite alla medi­cina difen­siva». E infatti il governo sta già lavo­rando, come ha riba­dito ieri, ad una serie di norme da inse­rire nella legge di sta­bi­lità per aiu­tare i medici a tute­larsi dalle cause teme­ra­rie che sareb­bero, secondo i sin­da­cati, il 97% di quelle inten­tate da pazienti.

E ORA SCIOPERO GENERALE DELLA SANITÀ
di Ivan Cavicchi
Mobilitazione generale. Con questo decreto sulla "appropriatezza prescrittiva" si passa dalla centralità del malato a quella dei vincoli amministrativi
Il decreto messo a punto dal mini­stero della salute è uno schiaffo in piena fac­cia alla pro­fes­sione medica. E’ la ridu­zione della cli­nica a una sorta di medi­cina di Stato quindi di medi­cina ammi­ni­strata. E’ para­dos­sal­mente la nega­zione di una medi­cina dav­vero ade­guata verso la com­ples­sità espressa dal malato. E’ la fine di qual­siasi reto­rica su uma­niz­za­zione e per­so­na­liz­za­zione delle cure.

Con que­sto decreto sulla “appro­pria­tezza pre­scrit­tiva” si passa dalla cen­tra­lità del malato, dalla alleanza tera­peu­tica, dal valore della per­sona, alla cen­tra­lità dei vin­coli ammi­ni­stra­tivi ai quali tutti gli atti medici dovranno con­for­marsi pena la pos­si­bi­lità (fino ad ora solo dichia­rata) di pena­liz­zare i malati e i medici con san­zioni pecu­nia­rie. Così i medici diven­tano dei dispen­ser buro­cra­ti­ca­mente ete­ro­gui­dati, una sorta di distri­bu­tori di ben­zina, che pre­scri­vono non più in scienza e coscienza ma secondo pro­to­colli stan­dar­diz­zati. Così la cli­nica diventa l’esercizio di atti dia­gno­stici e tera­peu­tici stan­dard, i malati per­dono la loro indi­vi­dua­lità diven­tando astra­zioni sta­ti­sti­che. Come si è arri­vati a tutto questo?

Con il decreto lo Stato intende recu­pe­rare almeno 10/13 mld dalla spesa sani­ta­ria cor­rente spe­rando di azze­rare quel feno­meno defi­nito “medi­cina difen­siva” per il l quale almeno l’80 % dei medici (inda­gini fatte dalla cate­go­ria) adotta com­por­ta­menti oppor­tu­ni­sti per pre­ve­nire rischi di con­ten­ziosi legali: pre­scri­vono ana­lisi, far­maci e rico­veri anche quando non servono.

Che i medici abbiano la coda di paglia lo si capi­sce dalle loro dichia­ra­zioni: da una parte stig­ma­tiz­zano il decreto ma dall’altra si dichia­rano dispo­ni­bili a “trat­tare” cor­reg­gendo sin­goli punti, soprat­tutto pre­oc­cu­pati di evi­tare le san­zioni eco­no­mi­che anzi­ché scen­dere in piazza per respin­gere que­sto inu­si­tato attacco alla loro cre­di­bi­lità, al loro ruolo e alla loro autonomia.

Il decreto è il più for­mi­da­bile atto di dele­git­ti­ma­zione della pro­fes­sione medica e in par­ti­co­lare dei medici di medi­cina gene­rale, che dalle inda­gini della Fnom­ceo, risul­tano coloro che più degli altri adot­tano com­por­ta­menti oppor­tu­ni­sti, ma anche quelli che sul piano poli­tico sin­da­cale in que­sti anni si sono oppo­sti più degli altri a qual­siasi ripen­sa­mento del loro status.

Que­sti medici pre­ziosi e inso­sti­tui­bili ma anche nel loro com­plesso ter­ri­bil­mente cor­po­ra­tivi (a un tempo con le libertà dei liberi pro­fes­sio­ni­sti e con le garan­zie dei pub­blici dipen­denti), con il decreto sulle pre­sta­zioni inap­pro­priate rischiano di diven­tare degli ossi­mori cioè dei liberi pro­fes­sio­ni­sti senza auto­no­mia, quindi dei dipen­denti di fatto ma che ope­rano nei loro studi personali.

Nello stesso tempo è evi­dente che i camici bian­chi rischiano di essere maciul­lati dal mai risolto pro­blema del con­ten­zioso legale e della respon­sa­bi­lità pro­fes­sio­nale. Sor­prende a que­sto pro­po­sito che l’Istituto supe­riore di sanità abbia dato il via libera ad un prov­ve­di­mento tanto discu­ti­bile quanto rischioso anche rispetto ai suoi pro­fili di scien­ti­fi­cità. Que­sta strana e ina­spet­tata dispo­ni­bi­lità da una parte spiega la diva­ri­ca­zione che c’è tra la medi­cina acca­de­mica e la medi­cina in trin­cea, cioè tra scienza e realtà, ma dall’altra spiega la com­pia­cenza di un orga­ni­smo scien­ti­fico nei con­fronti del mini­stero, che per gran parte è stato lot­tiz­zato con logi­che tutt’altro che scien­ti­fi­che e che oggi di fatto copre le scelte del mini­stero ma non i diritti dei malati e meno che mai un’idea uma­niz­zata di medi­cina.

E il malato? E’ l’innocente che paga i vizi e gli errori degli altri. Egli deve avere la for­tuna di rien­trare den­tro le regole di Stato ma se per ragioni gene­ti­che per­so­nali situa­zio­nali o con­tin­genti non vi rien­tra (il che è più comune di quello che si creda) egli o non riceve le cure appro­priate o per avere cure appro­priate deve pagare anche se la ragione per cui paga altro non è che il suo diritto.
Voglio ricor­dare a pro­po­sito di costi pri­vati impo­sti ai malati, che nelle regioni, in par­ti­co­lare in Toscana, sono in atto stra­te­gie per spin­gere i cit­ta­dini, soprat­tutto per le pre­sta­zioni spe­cia­li­sti­che, verso il pri­vato. La Toscana si è accor­data con il pri­vato per far costare le pre­sta­zioni spe­cia­li­sti­che meno del costo del tic­ket pro­prio per incen­ti­vare i malati a lasciare il pubblico.

Tor­nando al decreto sulle pre­sta­zioni inap­pro­priate, la pos­si­bi­lità per il malato di rien­trare nella regola pre­scrit­tiva dipende in genere dal grado di sin­go­la­rità della sua malat­tia. Sic­come l’appropriatezza pre­scrit­tiva del mini­stero non è in fun­zione del malato ma del rispar­mio, è facile pre­ve­dere che mol­tis­simi malati saranno ingiu­sta­mente pena­liz­zati, cioè la medi­cina di Stato per essere appro­priata con la spesa sarà cli­ni­ca­mente inap­pro­priata con il malato.

Mi chiedo cosa altro deve essere fatto con­tro i malati e le pro­fes­sioni, con­tro l’art 32 della Costi­tu­zione, per con­vin­cerci a dare corso ad uno scio­pero gene­rale del set­tore. Ormai la sanità pub­blica è bom­bar­data da tempo da una serie di atti con­tro­ri­for­ma­tori: con­tro il lavoro, con rior­dini regio­nali che distrug­gono ogni ter­ri­to­ria­lità, con liste di attesa abnormi, ser­vizi messi in ginoc­chio da anni di blocco del turn over, con regioni mani­fe­sta­mente immo­rali e inca­paci di gover­nare e con in più con­ti­nui tagli lineari ai fab­bi­so­gni della nostra popolazione.

Natu­rale sarebbe dare seguito a uno scio­pero gene­rale della sanità per bloc­care la con­tro­ri­forma e per ripen­sare il nostro sistema pub­blico che ha biso­gno di fun­zio­nare meglio, costare di meno e con­ti­nuare a essere soli­dale e universale.

RENZI TAGLIA LE PRESTAZIONI SANITARIE
PER FINANZIARE L’ABBATTIMENTODELLE TASSE»
Roberto Ciccarelli intervista Tonino Aceti

Sanità. Intervista al portavoce del Tribunale per i diritti del malato: «Con il decreto sull'appropriatezza prescrittiva il governo intende reperire le risorse per il piano sulle tasse annunciato dal Presidente del Consiglio e scarica i costi sulle spalle dei cittadini e del Welfare». «Questo decreto è inadeguato rispetto all’evoluzione della medicina contemporanea»
Tonino Aceti, por­ta­voce del tri­bu­nale per i diritti del malato-CittadinanzaAttiva, con­te­sta l’esistenza di un’emergenza creata dall’eccesso di pre­sta­zioni sani­ta­rie che coste­rebbe allo Stato 13 miliardi di euro all’anno. In base a que­sta cifra, il governo Renzi ha deciso di tagliare 208 pre­scri­zioni con­si­de­rate «esami inu­tili». «Parto da un dato incon­te­sta­bile per­ché isti­tu­zio­nale – afferma Aceti — Nel 2014 per l’Istat il 9,5% della popo­la­zione ha rinun­ciato a una pre­sta­zione sani­ta­ria di cui aveva biso­gno a causa delle lun­ghe liste di attesa, dell’inefficienza orga­niz­za­tiva e del costo dei tic­ket. Non è un fatto di poco conto: il dato è aumen­tato in un anno dello 0,5%. Nel 2013 riguar­dava il 9% dei cit­ta­dini. Que­sto allarme lan­ciato dalla mini­stra della Sanità Loren­zin per noi è esat­ta­mente l’opposto: in Ita­lia esi­ste una dif­fi­coltà ad acce­dere alle pre­sta­zioni, non un loro eccesso».
Se è così per­ché il governo ha lan­ciato l’allarme?
Per fare cassa e finan­ziare l’abbattimento delle tasse annun­ciate dal pre­si­dente del Con­si­glio Renzi. Il decreto sull’appropriatezza è neces­sa­rio per repe­rire le risorse, sca­ri­cando i costi sulle spalle dei cit­ta­dini e del Wel­fare. Le cose vanno chia­mate con il loro nome: con la scusa di que­sto decreto si sta attuando una revi­sione dei livelli essen­ziali di assi­stenza e del paniere delle pre­sta­zioni del Sistema Sani­ta­rio nazionale.

Non crede che sia neces­sa­rio miglio­rare l’appropriatezza delle pre­scri­zioni?
Ma non si può aggre­dire que­sto pro­blema con un decreto. Il miglio­ra­mento va pro­mosso dal Sistema sani­ta­rio nazio­nale attra­verso un piano stra­te­gico che pre­veda la for­ma­zione del per­so­nale, l’informazione indi­pen­dente dei pro­fes­sio­ni­sti, i pro­to­colli dia­gno­stici tera­peu­tici assi­sten­ziali. Quello che è certo è che non si taglia l’assistenza come fa que­sto decreto. In un momento in cui aumenta la dif­fi­coltà di accesso alla sanità, i red­diti sono sotto stress per la crisi, sarebbe neces­sa­rio un soste­gno al Wel­fare. Tra tagli alla sanità e decreti come que­sto invece si dimi­nui­scono le tutele dei cit­ta­dini e dei pazienti.

Quali potreb­bero essere le con­se­guenze del decreto?
Aprire un’autostrada ai pri­vato e alle assi­cu­ra­zioni sulle salute. Con 208 pre­scri­zioni vie­tate potrebbe essere lo stesso medico a con­si­gliare al paziente di rivol­gersi a loro. Il pro­blema è che con i red­diti che dimi­nui­scono, e con la povertà che aumenta, aumen­te­ranno anche le per­sone che scel­gono di non curarsi per­ché non hanno i soldi per farlo.

Qual è il cri­te­rio usato nella scelta delle pre­sta­zioni da tagliare?
Que­sta ope­ra­zione è scol­lata dalla realtà e ina­de­guata rispetto alle evo­lu­zioni della medi­cina. Oggi si va sem­pre di più verso la medi­cina di genere e per­so­na­liz­zata. Non si capi­sce per­ché, in que­sto caso, il governo abbia scelto di stan­dar­diz­zare le pre­sta­zioni. Ogni cit­ta­dino è diverso e ha biso­gno di pre­sta­zioni per­so­na­liz­zate. Que­sta deci­sione tra­sfor­merà i medici in buro­crati ammi­ni­stra­tivi che dovranno ese­guire le pre­sta­zioni nel rispetto di una tabella mini­ste­riale. Se non lo farà, il medico è pas­si­bile di una san­zione. Dal punto di vista dell’etica pro­fes­sio­nale que­sto è gravissimo.

Come cam­bierà il rap­porto tra il cit­ta­dino e il medico?
Si potrebbe inne­scare un più alto livello di con­flit­tua­lità come già accade per l’accesso a alcuni far­maci gra­tuiti. Il medico si trova costretto, in alcune situa­zioni, a rifiu­tare la pre­scri­zione. Il cit­ta­dino non accetta le sue moti­va­zioni, si sente truf­fato e deluso dal Sistema sani­ta­rio Nazio­nale che gli ciò che gli serve e lo obbliga ad andare dal pri­vato. Non si può esclu­dere che la stessa cosa possa acca­dere con le pre­scri­zioni e che il cit­ta­dino agi­sca con­tro il medico.

In tri­bu­nale?
Non lo escludo. Ci si potrebbe rivol­gere al giu­dice per capire se il cit­ta­dino ha il diritto a una pre­sta­zione garan­tita dall’ordinamento costi­tu­zio­nale. Que­sta con­flit­tua­lità potrebbe coin­vol­gere anche i diret­tori gene­rali delle strut­ture sani­ta­rie, anche loro col­piti dalle misure pre­vi­ste dal decreto.

I sin­da­cati dei medici hanno annun­ciato l’intenzione di fare uno scio­pero. Voi cosa farete?

«Non lo ammetteranno mai, ma le autorità americane hanno fatto alla Volkswagen ciò che le autorità italiane hanno fatto all'Ilva: le hanno beccate a inquinare». Il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2015 (m.p.r.)

Italiani state sereni. Il ministro dell'Ambiente Gian Luca Galletti ha diffuso una minacciosa nota per dirci che «sta chiedendo, attraverso i suoi uffici, rassicurazioni a Volkswagen Italia sull’effettivo rispetto della normativa in materia di emissioni e inquinamento». Galletti chiede all'oste se il vino è buono perché nessuno gli ha spiegato che il governo americano non ha chiesto rassicurazioni ma, attraverso “i suoi uffici”, ha preso delle Volkswagen e le ha smontate. Ma Galletti non lo può fare, perché se smontasse le Volkswagen dovrebbe anche andare a vedere che cosa succede a Taranto, e invece è così contento di starne fuori e di non essere nemmeno invitato ai vertici di palazzo Chigi sull’Ilva.

Il ministro dell'Ambiente ha un'idea tutta sua dell'ambiente. Quando arrestarono i Riva e misero l'Ilva sotto sequestro (peraltro solo teorico) applaudì il pugno di ferro del suo predecessore Corrado Clini che trattò i pm come teppisti con pervicacia, prima di essere arrestato. Anche il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi denuncia un certo strabismo. Il 20 luglio scorso ammonì la magistratura di fare il proprio lavoro «avendo chiaro l'impatto delle decisioni che prende». Ieri non ha sgridato il governo americano, se l’è presa con la Volkswagen: «Se le accuse fossero confermate, sarebbe un grande danno di immagine il non aver ottemperato alle regole». Strano, quando erano i Riva a non ottemperare il danno di immagine era tutto per la magistratura.
Tra i tanti errori gravi, la Volkswagen ne ha fatto uno veniale che ci regala momenti di ilarità: non ha finanziato partiti e giornali italiani come Emilio Riva buonanima. Non ha nemmeno agevolato reportage su funzionari e soprattutto funzionarie della Environmental Protection Agency per vederli sputtanati con titoli come La zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva, dedicato a una Gip di Taranto. Così quelli che inveivano contro la magistratura tarantina adesso possono dare sfogo alla loro natura vendicativa e manettara. Matteo Salvini naturalmente è il battistrada. Compitò su Twitter: «Un giudice di Taranto decide di sequestrare 900 milioni alla famiglia Riva, quella delle acciaierie e dell'Ilva, ma a pagare saranno 1.500 lavoratori che rischiano di perdere il posto di lavoro, soprattutto al Nord. Italia paese di merda». Ieri mica ha detto «America paese di merda!». Anzi, era contento: «Volkswagen falsificava dati su emissioni. Beccati, 'correttezza' tedesca...».
Non lo ammetteranno mai, ma le autorità americane hanno fatto alla Volkswagen ciò che le autorità italiane hanno fatto all'Ilva: le hanno beccate a inquinare. Titolo del Foglio (noto organo giustizialista) di ieri: Volkswagen truffa i consumatori? Don't worry, arrivano i nostri. Spiegazione: «Un regolatore americano dà lezioni di ecologia a Berlino». Appunto, il colosso tedesco non ha truffato i consumatori, ha inquinato, con emissioni di ossido di azoto 40 volte superiori alla norma. Se invece è un magistrato italiano che becca l'Ilva che inquina Il Foglio non perdona: Il pregiudizio ecologista della magistratura non è sostenibile. I giudici sono diventati agenti destabilizzanti dell’economia (titolo di luglio).
Non possiamo neppure sperare che a difenderci intervenga un giudice americano, o almeno europeo. Ci ha provato la Commissione Europea, aprendo due anni fa una procedura d'infrazione contro il governo italiano per non aver difeso i tarantini dall'inquinamento dell'Ilva. La procedura è ancora aperta, nessuno ne parla perché disturba il manovratore che deve salvare l'acciaieria di Taranto senza tanti impicci ecologisti. Poi sapete com'è, l'Europa non è trendy. E infatti Matteo Renzi, tra le cui capacità spiccano a pari merito l'intuito demagogico e il cattivo gusto, li ha così mandati al diavolo: «Se l'Europa vuole impedire di salvare i bambini di Taranto ha perso la strada per tornare a casa. Io sono più fedele agli impegni con quei bambini che a qualche regolamento astruso dell'Ue». Dove si capisce la differenza. Se c'è chi inquina, Obama lo mette sotto inchiesta, il governo italiano difende i posti di lavoro.
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