«Ancor prima che contro la propaganda del governo, le reti studentesche nazionali dei medi e degli universitari, senza contare i collettivi cittadini o metropolitani da Sud a Nord, si sono attivate contro la spaventosa normalità di un paese ingrigito e sofferente».
Il manifesto, 10 ottobre 2015 (m.p.r.)
Occupazioni, flash-mob al Miur, al ministero dell’economia e a palazzo Chigi, blitz con petardi e fumogeni in filiali bancarie e agenzie di lavoro interinali come Manpower a Napoli, presidi e incontri al ministero dell’Istruzione. E poi 90 cortei con 5 mila studenti a Roma, duemila a Bari, mille a Milano e altrettanti a Palermo, tra gli altri. Ieri l’autunno di piombo della scuola governata dagli algoritmi che decidono le sorti di un docente mentre le prove Invalsi perfezionano la valutazione della vita produttiva degli studenti si è acceso all’improvviso. Sessantamila studenti hanno manifestato contro la riforma della scuola, il Jobs Act, le politiche migratorie della «Fortezza Europa» e il diritto allo studio azzoppato (ancora) dalla riforma dell’Isee.
Non è mancato il riferimento ai precari della scuola esclusi dalle assunzioni di Renzi, pur avendo maturato il diritto. Una mobilitazione «sociale» che ha cercato un’interlocuzione con i movimenti esistenti: il «No Ombrina» contro le trivellazioni dello «Sblocca Italia», il 14 ottobre a Roma, ricordano i collettivi autonomi napoletani «Kaos». Gli studenti non vogliono sentirsi soli e sono alla ricerca di connessioni. Ieri hanno schierato numeri imponenti, e non scontati, dopo giorni di silenzio dei maggiori sindacati della scuola impegnati a discutere se, come o quando fare uno sciopero generale (Unicobas lo farà il 23 ottobre, i Cobas il 13 novembre, mentre sono previste mobilitazioni il 24 ottobre). Tutto procede in sordina dopo la «notte bianca» della scuola del 23 settembre scorso. Al clima non ha giovato il fallimento della raccolta firme sul referendum contro il «preside manager» promosso da «Possibile» di Civati che ha segnato una spaccatura con il movimento della scuola che all’assemblea di Bologna del 5 settembre scorso ha deciso di studiare la possibilità di farne un altro nel 2017, con raccolta firme nel 2016. Nel frattempo continuano le procedure delle assunzioni dei 55 mila docenti previsti in «fascia C» affidati a un algoritmo che costringe gli interessati a un’attesa solitaria e preoccupata.
Ancor prima che contro la propaganda del governo, le reti studentesche nazionali dei medi e degli universitari (Rete della Conoscenza, Uds, coordinamento Link, Udu, StudAut), senza contare i collettivi cittadini o metropolitani da Sud a Nord, si sono attivate contro la spaventosa normalità di un paese ingrigito e sofferente. Gli studenti, ciascuno per la propria parte, hanno elaborato una loro agenda e cercano di scuotere le foglie sull’albero. Link e Udu portano avanti la battaglia sul diritto allo studio. La riforma dei parametri dell’Isee ha creato un’emergenza sociale nel malandato diritto allo studio italiano: per responsabilità di un nuovo indicatore decine di migliaia di studenti sono stati esclusi dalle borse di studio, come se fossero diventati più ricchi. Ieri sono stati ricevuti al ministero dell’Istruzione. L’incontro non ha soddisfatto Link («manca ancora una proposta concreta» sostiene il coordinatore Alberto Campailla); «Vogliamo interventi legislativi e fondi supplementari» ha detto Jacopo Dionisio (Udu).
Una trentina di universitari di «Studenti Indipendenti» e «Alterpolis» ieri a Torino hanno occupato alle 7,30 del mattino il gasometro dell’Istalgas in corso Regina Margherita a Torino. In questo edificio dovrebbero essere costruite residenze universitarie gestite da privati. Per gli studenti è un’«operazione propagandistica che spaccia una speculazione edilizia per un’attività a beneficio degli studenti». Molti dei quali, oggi, non potrebbero nemmeno vivere nella «casa dello studente» privatizzata, dato che il governo ha cambiato all’improvviso le regole per beneficiare delle borse di studio. Alle undici i ragazzi sono stati sgomberati malamente dalla celere. Nell’intervento è rimasta contusa Ilaria Manti, ex presidente del Senato degli Studenti dell’Università di Torino, e ha prodotto la protesta della Fiom e degli studenti contro «l’uso spropositato della forza da parte della polizia».
Un’altra questione è «l’alternanza scuola-lavoro» prevista dalla «Buona scuola», dal «Jobs Act» e approvata dalla conferenza Stato-Regioni. Per gli studenti il potenziamento dell’apprendistato sperimentale «è uno sfruttamento». «Prospettiva inaccettabile per gli studenti in stage — afferma Danilo Lampis (Uds) — L’apprendistato è un contratto di lavoro, qui si equiparano ore di lavoro sottopagato con quelle di formazione in classe». «é un salto nel vuoto — spiega Gianna Fracassi (Cgil) — non c’è modo per individuare imprese con un’adeguata capacità formativa». Francesca Puglisi, responsabile Pd scuola rispolvera le argomentazioni classiche sui «choosy» che non vogliono lavorare: «È un po’ da snob pensare che la cultura del lavoro non debba “contaminare” la scuola — sostiene — Le esperienze possono essere fatte anche nelle istituzioni culturali». In realtà gli studenti criticano il «modello tedesco», la professionalizzazione senza diritti e lo snaturamento dell’obbligo scolastico, oltre al precariato e al lavoro gratis mascherato da formazione. Argomenti troppo complessi per rientrare nel format paternalistico renziano, ma spunti per un modello alternativo di istruzione pubblica.
«La scrittrice Suad Amiry racconta la rabbia della sua gente per lo stallo del processo di pace. “La Palestina sta diventando un nuovo Sudafrica, un caso internazionale troppo imbarazzante per non fare nulla”».
La Repubblica, 10 ottobre 2015 (m.p.r.)
Suad Amiry risponde al telefono da New York, dove vive quando non è a Ramallah. Architetto e scrittrice, con i suoi libri (Sharon e mia suocera, Golda ha dormito qui, solo per citare due titoli, editi in Italia da Feltrinelli), è diventata una delle voci più note della società palestinese.
«Si accetti finalmente di aprire una discussione seria sugli errori commessi a sinistra in questi tre decenni (almeno) e sulla mutazione genetica imposta alla sinistra italiana. Se davvero si avesse a cuore una qualche rinascita, sotto queste forche si accetterebbe di passare».
Il manifesto, 10 ottobre 2015
A rigore il governo avrebbe dovuto vedersela con l’agguerrita opposizione berlusconiana, quindi subire le condizioni poste dalle minoranze interne dello stesso Pd. Ma entrambi gli ostacoli si rivelarono ben presto inconsistenti. Ancor prima di conquistare palazzo Chigi Renzi si era accordato con Berlusconi sulle «riforme» da varare insieme. Verdini aveva convinto il cavaliere che quel giovane democristiano era un conto in banca, la pensava allo stesso modo sulla Rinascita democratica del paese, quindi perché non sostenerne l’impresa, tanto più che avrebbe messo al bando la vecchia guardia rossa del Pd?
Quanto a quest’ultima, i solenni proclami della prima ora si svilirono ben presto in manovre tattiche e in mercanteggiamenti e mai nulla di serio accadde, nemmeno dopo che il patto del Nazareno era entrato in sofferenza. Non solo fiorì imponente la pratica del trasformismo interno, non soltanto il presunto carisma del nocchiero attrasse proseliti anche oltreconfine. Gli stessi generali della sedicente sinistra democratica corsero spontaneamente a Canossa nel nome della ditta o della responsabilità, del realismo o di non importa cosa.
Risultato, Renzi ha fatto e disfatto col suo modo arrogante e strafottente. Ha irriso e lusingato, minacciato e blandito. E mentre Verdini — l’altro capo del governo, l’austero diarca del nuovo che avanza — lavorava per restituirgli il sostegno della destra, ha definitivamente fritto capi e capetti dell’opposizione interna. La quale si è lasciata triturare senza nemmeno accennare a una resistenza degna del nome. E oggi vive la sua ultima disfatta senza storia, avendo tutto perduto, anche l’onore.
A qualcuno forse sarà dispiaciuto, per estetica o per umana pietas, il crudo maramaldeggiare dei colonnelli renziani all’indirizzo del vecchio segretario. Ma in politica non c’è spazio per la sensibilità e gli affetti e su Bersani, simbolo di questa Caporetto, incombe una colpa molto grave. Ora non è il suo Pd in questione, ma la Costituzione della Repubblica, costata lacrime e sangue e migliaia di morti nella guerra contro il nazifascismo. Non è la ditta, è il paese, consegnato a un regime personale (ne sa qualcosa, buon ultimo, il sindaco della capitale, centrifugato nella macchina del fango): a un regime autoritario (dove il presidente del Consiglio sarà effettivamente capo del governo e potrà tutto senza l’impaccio di un vero parlamento): a un regime organico di classe, paradiso fiscale per chi ha molto, inferno per chi lavora (o non lavora).
Tant’è. Oggi perlomeno, a bocce ferme, il quadro è limpido ed è possibile un primo consuntivo. Ognuno trarrà le proprie conclusioni e non dubitiamo che i più, nel circo della politica politicante, ragioneranno in base al proprio tornaconto. Così i furieri dei piccoli partiti, minacciati dalla tagliola della nuova legge elettorale. Così, nei partiti maggiori, soprattutto gli eretici, i critici, i periclitanti. Poi ci sono i molti addetti ai lavori — statisti di lungo corso, intellettuali, opinionisti illustri — che rifletteranno piuttosto, come si dice, «politicamente». Sui nuovi rapporti di forza, sugli scenari, sulle prospettive. Che strologheranno soprattutto sulle chiare e oscure (invero molto oscure) implicazioni del patto d’acciaio tra Renzi e Verdini, sulla sua ragion d’essere, sulle conseguenze, i costi e i benefici. Scoprendo adesso, a babbo morto, che in questo patto pulsa da sempre il cuore nero del governo e fingendo forse di allarmarsene, o invece compiacendosene per la sua laica, spregiudicata, post-ideologica configurazione. Noi invece battiamo e suggeriamo un’altra strada, solo in apparenza impolitica. Una linea di ricerca desueta che ci appare tuttavia più feconda e interessante e istruttiva. Nonché la più autenticamente politica.
Se è vero, come è vero, che il disastro della cosiddetta sinistra interna del Pd — la mancata resistenza allo sfondamento renziano e al progetto padronale che lo sottende — ha prodotto conseguenze enormi ed è in larga misura la chiave per comprendere quanto sta accadendo in queste ore. Se è vero, com’è vero, che i rapporti di forza nel Pd non erano all’inizio della storia nemmeno lontanamente quelli attuali e che, in linea di principio, sarebbe stato agevole per le minoranze unite contrapporsi e imporre al presidente del Consiglio più miti consigli e una ben diversa composizione dell’esecutivo. Allora è giunto il momento di interrogarsi senza reticenza sulle scelte compiute in questi due anni dagli esponenti della sinistra democratica — tutti, dai capi ai capetti all’ultimo gregario: sulle motivazioni che li hanno ispirati, di ordine culturale, psicologico, morale.
Quando la geografia politica di un paese si trasforma per effetto di un profondo sommovimento culturale come quello verificatosi tra gli Ottanta e i Novanta del secolo scorso, le responsabilità soggettive assumono un peso preponderante. E grava più che mai l’inconsistenza culturale e morale: la subalternità ideologica e la disponibilità a porsi sul mercato. Non ci si inalberi: non serve a niente né scandalizzarsi né invocare tabù. O meglio, serve a lasciare tutto come sta, nell’interesse di chi oggi stravince e domani non vorrà più nemmeno prigionieri. Si accetti dunque finalmente di aprire una discussione seria sugli errori commessi a sinistra in questi tre decenni (almeno) e sulla mutazione genetica imposta alla sinistra italiana. Se davvero si avesse a cuore una qualche rinascita, sotto queste forche si accetterebbe di passare.
Roma. Alla fine Ignazio Marino si è dimesso, eppure lui non è affatto convinto che davvero sia tutto finito: «Presento le mie dimissioni, ma per legge possono essere ritirate entro 20 giorni… ». E dunque anche nel momento in cui firma la lettera che tutto il Pd, da Renzi in giù, gli ha chiesto bruscamente di scrivere entro poche ore, il sindaco di Roma si lascia aperta un’ultima porticina per rientrare in campo, annunciando non il ritiro dalla politica ma «la ricerca di una verifica seria », per capire nel giro di tre settimane «se è ancora possibile ricostruire le condizioni politiche” per restare al suo posto. Non è esattamente quello che si aspettavano là fuori, ma Marino vuol fare fino in fondo “l’extraterrestre”, ignorando le leggi della politica e il galateo dei partiti aggrappandosi all’ultima, disperata speranza che i cittadini si schierino con lui.
Attorno a loro, il viavai di consiglieri e assessori tra il Campidoglio e il Nazareno, con il sindaco che tirava da una parte e il partito dall’altra. Alle sette di sera, l’epilogo, con Causi e Sabella che portano a Marino la decisione finale del Pd: dimissioni.
Abbiamo espresso il nostro parere sul "fatto del giorno" (così almeno lo considerano i media italiani) nella nota qui accanto. Qui inseriamo l'intervista rilasciata da Marino a Massimo Gramellini.
La Stampa9 ottobre 2015. In calce il link alla dichiarazione di Marino a facebook
Alle nove di sera il Mostro Marino, sindaco dimissionario di Roma, ha la voce esausta di un chirurgo dopo dieci ore di camera operatoria. «È da ieri che non mangio e che non mi siedo: proprio come quando operavo».
Se ne va a casa per cinque scontrini di ristorante non giustificati?
«Ci avevano provato con la Panda rossa, i funerali di Casamonica, la polemica sul viaggio del Papa. Se non fossero arrivati questi scontrini, prima o poi avrebbero detto che avevo i calzini bucati o mi avrebbero messo della cocaina in tasca».
Su qualche sito sono arrivati a imputarle di avere usato i soldi del Comune per offrire una colazione di 8 euro a un sopravvissuto di Auschwitz.
«Se è per questo, mi hanno pure accusato di avere pagato con soldi pubblici l’olio della lampada votiva di san Francesco, il patrono d’Italia, “per farmi bello”. Senza sapere che sono centinaia di anni che il sindaco di Roma, a rotazione con altri, accende quella lampada».
Ci sono cinque note spese in cui lei sostiene di avere cenato con qualcuno che invece nega di essere stato a tavola con lei.
«Ho già detto che sono disposto a pagare di persona le mie spese di rappresentanza di questi due anni: 19.704,36 euro. Li regalo al Campidoglio, compresa la cena in onore del mecenate che poi ha staccato l’assegno da due milioni con cui stiamo rimettendo a posto la fontana di piazza del Quirinale, sette colonne del foro Traiano e la sala degli Orazi e Curiazi».
Ma quelle note spese sono bugiarde oppure no?
«Io non so cosa ci hanno scritto sopra. Ho consegnato gli scontrini agli uffici, come si fa in questi casi. Non escludo che possa esserci stata qualche imprecisione da parte di chi compila i giustificativi».
Si aspettava che sarebbe venuto giù il mondo?
«Ho rotto le uova nel paniere del consociativismo politico. Ho riaperto gare di acquisti beni e servizi che erano in prorogatio da una vita. Ho tolto il business dei rifiuti a una sola persona e il patrimonio immobiliare a una sola azienda che ha incassato dal comune 100 milioni negli ultimi anni, la Romeo».
Si sente pugnalato alle spalle dal suo partito, il Pd? Non una voce si è alzata a sua difesa.
«Mi hanno espresso vicinanza in due. Il ministro Graziano Del Rio e Giovanni Legnini, vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Erano entrambi molto avviliti per quanto accaduto».
«Costituzione. Finito l’ostruzionismo ma il governo non concede nulla. Restano tutti i punti critici, si allarga la devolution regionale. La minoranza Pd cede di schianto. Il nuovo capo dello stato sarà un affare del primo partito».
Il manifesto, 8 ottobre 2015
Dunque con la nuova Costituzione il governo potrà imporre al parlamento di votare i suoi disegni di legge entro una data fissa e fare decreti anche in materia elettorale; il partito che vincerà le elezioni con la nuova legge Italicum potrà dichiarare in solitudine lo stato di guerra - e nel caso prorogare la durata della legislatura - e persino eleggere da sé il presidente della Repubblica. Lo ha stabilito in un solo giorno di lavoro il senato, respingendo ogni emendamento delle opposizioni alla riforma costituzionale. Il tema del racconto è quello in auge del superamento del bicameralismo paritario. Lo svolgimento, come dimostra la giornata di ieri, è una sostanziale modifica della forma di governo, con più potere all’esecutivo e meno al parlamento. Con la collaborazione decisiva dei senatori di Verdini, l’appoggio tempestivo nell’unico passaggio a rischio di Forza Italia e la resa definitiva della minoranza Pd.
Nel primo voto palese e nei primi due voti segreti lo schieramento che sta cambiando la Costituzione si è confermato lontano dalla maggioranza assoluta, 161 voti, del senato; non è andato oltre i 145. I senatori di Verdini inchiodati a votare ai loro banchi in alto a destra vengono ricompensati: sono stabilmente decisivi per il governo. Tra due sedute rientreranno anche i due gesticolanti espulsi per oscenità, Barani e D’Anna. Sarà la riforma costituzionale ad aspettarli, perché con la rinuncia delle opposizioni all’ostruzionismo — l’unico punto sul quale ha retto il fronte del no da Lega a Sel — il disegno di legge di revisione costituzionale corre. L’esame degli articoli potrebbe concludersi tra oggi e domani. Il voto finale resta in calendario per martedì, una diretta tv senza sorprese.
In aula il governo che giura di essere disponibile a discutere «nel merito» dà parere negativo a tutti gli emendamenti dell’opposizione (tranne a quelli a voto segreto sui quali non vuole correre rischi). La maggioranza che quotidianamente bacchetta le opposizioni perché non fanno proposte «nel merito» si adegua monolitica, nel Pd si segnalano a tratti solo i voti contrari di Mineo e Tocci, e l’astensione di Casson. Gli articoli da 12 a 16 passano senza storia, compresa la novità della legge elettorale che potrà essere sottoposta alla Consulta prima della promulgazione ma solo per iniziativa di una minoranza di parlamentari. La Corte aveva raccomandato di togliere questa connotazione politica alla richiesta, rendendola automatica. La sinistra Pd si era detta d’accordo. Ma l’esigenza del governo di non cambiare niente e fare presto ha prevalso anche qui. Di questo passo sono solo tre, fino a qui, gli articoli che dovranno tornare al senato per completare la prima lettura: 1, 2 e 30 sul quale ieri il governo ha deciso di intervenire. Male, perché ha inserito le politiche sociali e il commercio con l’estero tra le materie che potranno essere devolute alle regioni a statuto ordinario.
Nell’unico punto in cui il governo ha un po’ ballato, c’è stato rapido il sostegno di Forza Italia. Articolo 17, stato di guerra. Anche qui nessun cambio, la dichiarazione di belligeranza resta a disposizione della maggioranza assoluta della camera. Cioè quella che l’Italicum garantisce al primo partito con i suoi 340 seggi (oggi non è così perché deve votare anche il senato). Stavolta l’emendamento per alzare il quorum veniva dalla minoranza Pd, l’unico non ritirato in nome dell’accordo con Renzi, forse perché firmato non da un bersaniano ma dalla bindiana Dirindin. Con 14 senatori Pd a favore e 11 spariti dall’aula poteva passare, non fosse che Forza Italia è tornata a votare con il governo (con l’argomento che se il paese venisse invaso e qualche deputato sequestrato dai nemici, il quorum troppo alto potrebbe essere un problema). Ventinove no decisivi, sommati a qualche astensione, molte assenze e il soccorso delle tre senatrici del gruppo dell’ex leghista Tosi. Dichiarare guerra sarà più facile, ma resta intatto l’articolo 60 in base al quale in caso di guerra una legge ordinaria può prorogare la durata della camera e rimandare le elezioni.
La Lega ha accusato in aula gli alleati berlusconiani di essersi svenduti agli avversari: «È il ritorno del patto del Nazareno». Ma può bastare la comunanza di idee sull’argomento bellico a spiegare la liaison. L’episodio giustifica però la rottura del patto delle opposizioni, durato un solo giorno. Unito a una lettera al presidente della Repubblica che quelli di Forza Italia hanno diffuso alla stampa prima che tutti gli altri gruppi decidessero di firmarla. Alla fine sono stati solo gli azzurri a rivolgersi al Colle. E i grillini, che però hanno spiegato di averlo già fatto due settimane fa. Alle minoranze, penalizzate dal trasformismo e da una conduzione d’aula filo governo del presidente Grasso, non resta che studiare mosse di opposizione visibili e comprensibili per accompagnare l’approvazione della riforma. La Lega ha cominciato ieri pomeriggio il suo Aventino, i 5 stelle hanno sfilato le tessere dai banchi per sventolarle.
La minoranza Pd ha ceduto di schianto sull’articolo 21, quello che prevede quorum per l’elezione del presidente della Repubblica per niente impossibili per chi vincerà con l’Italicum. Fatti i calcoli, dal quarto scrutinio in poi mancherebbero al primo partito non più di 34 voti. Assai facilmente recuperabili, vista la capacità di attrazione dei vincitori. Il successore di Mattarella sarà votato alla fine della prossima legislatura; in questa i gruppi democratici sono già cresciuti di 23 parlamentari. Nemmeno l’articolo 21 è stato cambiato. In cambio della rinuncia ad allargare la platea dei grandi elettori (fino a ieri imprescindibile), la minoranza Pd ha ottenuto una promessa sull’articolo 39, la norma transitoria che di fatto sterilizza la più grande conquista dei bersaniani, l’indicazione dei nuovi senatori da parte degli elettori. Il governo presenterà oggi una sua proposta di modifica. Sarà una mezza soluzione, visto che l’intoppo è al primo comma dell’articolo 39, che non si può più toccare. Il principio della doppia lettura conforme che la fronda dem ha accettato per l’articolo 2 vale anche qui.
«Che belli che erano quei giorni. Sono passati appena dodici anni, ma sembra un secolo: a Roma centinaia di migliaia di persone scesero in piazza contro la guerra. Gente di età e classi sociali diverse, con idee politiche diverse. E poi c’erano bandiere arcobaleno ovunque, giravi per le città e le vedevi a tutti i balconi. Era davvero un movimento popolare contro la guerra».
«Il premier israeliano conferma la linea dura. Non ha capito che i palestinesi non accettano la normalizzazione dell’occupazione israeliana. Rifiutano che i coloni israeliani possano svolgere nei territori che occupano quell’esistenza normale che a loro viene negata».
Il manifesto, 8 ottobre 2015 (m.p.r.)
«Abbiano vissuto periodi più difficili di questi. Supereremo questa ondata di terrorismo grazie alla nostra determinazione, alla responsabilità e alla coesione nazionale». Benyamin Netanyahu non ha dubbi sulla linea portata avanti sino ad oggi. Resterà quella del pugno di ferro. Il premier israeliano non ha compreso che più si farà pesante e sanguinosa la repressione e più gli sfuggirà di mano la situazione. Non ha capito che i palestinesi non accettano la normalizzazione dell’occupazione israeliana di Gerusalemme Est e della Cisgiordania. Rifiutano che i coloni israeliani possano svolgere nei territori che occupano illegalmente quell’esistenza normale che a loro viene negata sotto il regime militare.
Anche per queste ragioni il presidente dell’Anp Abu Mazen appare più isolato dopo l’appello alla fine delle proteste che ha lanciato due giorni fa e che ha ribadito ieri in una intervista al quotidiano Haaretz. Quasi tutte le organizzazioni palestinesi, a partire dalla sinistra guidata dal Fronte Popolare, hanno ignorato le sue parole e continuano a mobilitare la popolazione contro coloni e soldati israeliani.
Si moltiplicano gli attacchi contro i coloni israeliani che percorrono le strade della Cisgiordania e anche le rappresaglie e le aggressioni dei coloni contro i villaggi palestinesi, troppo spesso ignorate o sottovalutate. E le azioni individuali di palestinesi armati di coltello si allargano al territorio israeliano. Un 17enne di Yatta, Amjad Jundi, ha attaccato a Kiryat Gat (a est di Ashqelon) un militare provando a prendergli l’arma ma è stato ucciso. Poco dopo un altro giovane di Hebron ha colpito alcuni israeliani a Petach Tikva ed è stato ferito dal fuoco di agenti presenti in zona. Una dinamica simile all’attacco avvenuto ieri mattina alla Porta dei Leoni, uno degli ingressi della città vecchia di Gerusalemme, dove una ragazza di 18 anni, Shuroq Dwayat, è stata ferita da un colono che aveva tentato di colpire con un coltello. Poco dopo ingenti forze di polizia hanno lanciato un raid nel sobborgo di Sur Baher per perquisire l’abitazione della giovane innescando violente proteste e incidenti. Una colona, Rivi Ohayon, dell’insediamento di Tekoa (a sud di Betlemme) ha denunciato alla polizia di aver subito un tentativo di linciaggio di parte di gruppi di giovani palestinesi che, nei pressi di Beit Sahour, avevano bloccato e danneggiato a colpi di pietra la sua automobile (la donna è rimasta ferita). Il fuoco dei soldati israeliani ha ferito due palestinesi.
Per tutto il giorno sono girate voci dell’uccisione da parte dei soldati israeliani, vicino Ramallah, di uno studente palestinese ma in serata il giovane era ancora vivo anche se gravemente ferito. In rete è circolato un filmato girato da una tv locale proprio durante gli scontri che hanno coinvolto lo studente ferito e che mostra militari israeliani che si fingono palestinesi per infiltrarsi fra di loro. All’inizio della sequenza si nota un gruppo di palestinesi col volto coperto che lanciano sassi contro un’unità dell’esercito e scandire slogan. A un certo punto questi “palestinesi” si rivelando degli infiltrati e si scagliano contro quelli che sembravano essere loro compagni e li trascinano a forza verso i soldati. Subito dopo i militari infieriscono su un dimostrante - a terra, isolato - e lo prendono a calci ripetutamente.
«Il Sinodo, ha detto il Papa proprio per spiegare la distanza tra l’opinione del mondo e la verità dei Pastori della Chiesa, non è come il Parlamento. Ma da questa comparazione il Parlamento ne esce bene».
La Repubblica, 7 ottobre 2015
La riunione del Sinodo segue al viaggio del Papa a Cuba e negli Stati Uniti. Un viaggio nel quale il tema del Sinodo - la famiglia e il matrimonio - è stato al centro tanto delle sue omelie e dei suoi discorsi pubblici quanto dell’opinione che lo ha interpellato - sulla sessualità e la pedofilia nella Chiesa, sul matrimonio di coppie dello stesso sesso, sul ruolo dei divorziati. Tante attese per il Sinodo sono dunque giustificate dalla forte presenza del Papa sulla scena dell’opinione pubblica mondiale. È comprensibile dunque che ci sia attenzione per le risoluzioni del Sinodo e speranza che esse non siano indifferenti all’opinione del mondo. Il comunicato rilasciato all’apertura dei lavori mostra preoccupazione per questo rapporto di reciproca influenza quando osserva che su questi temi, sul matrimonio e la famiglia, «è del tutto inaccettabile che i Pastori della Chiesa subiscano pressioni».
Gli orrori accadono. Ma qui si è trattato, nella migliore delle ipotesi, di un gravissimo errore. ..
«In un luogo dove c’è una situazione di guerra radicata come l’Afghanistan, la verità è molto difficile da dedurre: perché ce ne sono molte. Ma che si sia trattato di un incidente o di un attacco deliberato, è senz’altro un atto gravissimo».
Il capo delle operazioni militari americane ha detto che l’attacco è avvenuto per fermare i Taliban che sparavano sui militari. Colpire i terroristi vale la morte di così tanti civili?
«Un attacco aereo che distrugge un intero ospedale non è certo una risposta adeguata. Purtroppo non è la prima volta che accade. Il clamore oggi è dato dal fatto che è l’ospedale di una importante organizzazione occidentale di cui io stesso ho molta stima. Ma ci sono stati altri ospedali distrutti durante questa guerra di cui nessuno ha parlato. Altri ”danni collaterali”, altre vittime che finiscono per essere solo statistiche».
Parlare di “danni collaterali” è un modo per dire che la vita di un innocente vale meno di quella di un soldato?
«C’è da stupirsi? È in questo che consistono le guerre. Questo episodio è solo l’ennesimo ripugnante episodio. Certo, in luoghi dove non c’è guerra il concetto di “danni collaterali” sembra impensabile: ma per assicurarsi la morte di un terrorista questo tipo di “danni” sono avvenuti anche in città pachistane che non sono in guerra. Questo attacco ci ricorda che ormai il mondo è diviso in due: chi vive in pace, anche se magari martoriato dalla crisi. E chi vive in guerra un orrore quotidiano che può arrivare da ogni parte».
Cosa intende?
«Nella parte di mondo in guerra, diritto e dignità umana sono ormai stati abbandonati. E per la gente in Afghanistan, ma anche in Siria, in Iraq, i cattivi possono cambiare continuamente: la gente martoriata di volta in volta dagli Stati Uniti, dalla Russia dallo Stato Islamico, dai Taliban dall’esercito locale. Per questo la gente fugge, ci sono milioni di rifugiati alle porte d’Europa: la gente vuol lasciare il mondo della guerra e andare nel mondo della pace. Vuole vivere: andare in luoghi dove non è accettabile bombardare ospedali e uccidere civili».
Medici senza frontiere è un’organizzazione così rispettata per il suo impegno da aver vinto il Nobel per la pace nel 1999. Non è paradossale che a bombardare il suo ospedale sia stato l’esercito che ha come comandante in capo un altro Nobel per la pace, il Presidente Obama?
«I medici e i volontari di Msf e altre organizzazioni simili sono veri eroi. La loro scelta di credere nella vita così tanto da affrontare i rischi di una guerra ci ricorda che ciascuno di noi può fare cose straordinarie. Quanto ad Obama, continuo a credere che abbia un ruolo storico importante. Né credo che questo bombardamento gli sia imputabile, anche se naturalmente condivido il paradosso. Lo ritengo ancora un uomo di buona volontà, quel che ha fatto con Cuba e l’Iran lo dimostra: ma che si trova davanti a un mondo complicato. Una guerra infinita che nessuno vince e non accenna a finire. Dove servirebbero nuove soluzioni».
Il New York Times denuncia il fallimento del programma americano per formare forze afgane affidabili. Cosa non funziona?
«Quella afgana è una società ferita e violenta. I suoi nodi sono profondi e difficili da risolvere. Non è la guerra la soluzione. È una società che avrebbe bisogno di strumenti per maturare: scuole, lavoro. Solo allora, e nel giro di almeno una, due generazioni, cambierà qualcosa. Se invece continui a ritrovarti fra una guerra e l’altra, cerchi solo di capire a quale carro del vincitore è meglio attaccarti per sopravvivere».
Anais Ginori intervista Bernard Kouchner, il fondatore di Medici senza frontiere. Intanto, dichiarazioni dagli Usa e dai governativi afgani rivelano che il bombardamento fu voluto e prolungato.
La Repubblica, 5 ottobre 2015
«Esprimo tutta la mia indignazione. Le condoglianze di Barack Obama sono il minimo, ora bisognerà accertare le responsabilità ». Bernard Kouchner ha aspettato qualche ora prima di commentare i raid americani sull’ospedale di Medici Senza Frontiere in Afghanistan, a Kunduz, in cui sono morte 22 persone, tra cui 12 impiegati dell’ong. «Volevo avere più elementi per farmi un’idea, tanto mi sembrava incredibile» spiega l’ex ministro degli Esteri e fondatore di Msf nel lontano 1971.
L’esercito americano riconosce solo un “danno collaterale”. È sufficiente?
«Gli errori in guerra purtroppo ci sono sempre, tanto più con i bombardamenti aerei. Ma in questo caso è incomprensibile, sono indignato da questa spiegazione. L’ospedale di Msf a Kunduz era segnalato ed esisteva da tempo. Un errore non è possibile, a meno che i piloti non guardassero le carte».
Nonostante l’allerta di Msf, i bombardamenti sono continuati. Era dunque un raid mirato?
«Non so se fosse possibile fermare il raid in diretta. Sarebbe stato necessario risalire la catena di comando. Il problema è chi ha preparato e ordinato quel bombardamento».
Le autorità afgane parlano di Taliban rifugiati nell’ospedale. È plausibile?
«Si tratterebbe di false informazioni diffuse apposta per mettere in pericolo il lavoro di Msf. Sarebbe molto preoccupante sapere che gli americani compiono un bombardamento fidandosi di notizie non verificate, sapendo che coinvolge un obiettivo civile e protetto come un ospedale».
È possibile che ci fossero combattenti Taliban in quell’ospedale?
«Un ospedale è fatto per curare tutti. E Medici Senza Frontiere non ha mai fatto differenze tra feriti di un gruppo combattente piuttosto che l’altro. Se ci fossero a Kunduz feriti Taliban andrebbero curati come nell’ospedale di Msf come tutti gli altri. Per un medico il soccorso è un dovere. E’ un principio morale che non dovrebbe mai essere rimesso in discussione, neppure in guerra».
Rispettare il lavoro e la protezione delle ong in zone di conflitti è diventato più difficile?
«Il personale umanitario lavora in condizioni sempre più pericolose. Non c’è più rispetto per lo statuto delle ong, che è al di sopra delle parti. Oggi la guerra è diventata sempre più feroce e cieca. Ha ragione l’Onu che parla di un crimine di guerra».
La neutralità delle Ong non viene riconosciuta?
» Non si combatte a terra ma dal cielo. I raid hanno molte più probabilità di fare i cosiddetti danni collaterali. Anche Vladimir Putin che ha bombardato a Raqqa per colpire i miliaziani dello Stato islamico potrebbe aver fatto vittime tra i civili. Tutti lo sappiamo. Questo però non giustifica i raid su Kunduz. In questo caso è diverso: è stato colpito un ospedale ».
Obama ha promesso un’inchiesta. Sarà possibile avere la verità sul bombardamento di Kunduz?
«La verità è necessaria per salvare l’onore dell’esercito americano. Il massacro di Kunduz è uno scandalo».
L’esercito americano lascerà l’Afghanistan l’anno prossimo. Cosa accadrà?
«Il mondo occidentale ha perso tutte le guerre degli ultimi anni. E’ inevitabile che Obama attui il ritiro dei soldati, così come ha promesso in campagna elettorale. Abbiamo tentato di aiutare le forze democratiche in Afghanistan ma non ce ne sono molte. E’ così anche in Siria, dove credo alla fine dovremo scendere a patti con Putin e Assad».
«Non abbiamo bisogno di dare altre garanzie ai parlamentari, ma di farli diventare sempre più normali». Firmato Matteo Renzi, il 14 febbraio 2013: era ancora rottamatore (e sindaco di Firenze). È passata un po’ di acqua sotto i ponti: il giovane rampante che contestava i privilegi di deputati e senatori si è fatto largo a spallate fino a Palazzo Chigi. Ma i parlamentari, nel frattempo, non sono diventati “più normali” di prima.
«Aumentano i deserti chiamati pace e la disperazione umana che fugge senza meta verso un immaginario Occidente, ricco ma crudele e responsabile delle tragedie in corso»
. Articoli di Tommaso di Francesco ed Emanuele Giordano, e una dichiarazione di Gino Strada. Il manifesto, 15 ottobre 2015
«Scusate tanto, è stato un errore», così i comandi dell’aviazione Usa e Nato si sono rivolti all’opinione pubblica afghana e internazionale e all’organizzazione Medici Senza Frontiere, dopo che i «nostri» cacciabombardieri, della nostra coalizione dei buoni, ha colpito ieri una, due tre volte l’ospedale di Kunduz che tutti conoscono, visibile da chilometri e nelle mappe di ogni amministrazione civile o militare. Assassinati 12 medici e 7 pazienti, anche bambini tra le vittime.
È la guerra afghana che dura più di quella del Vietnam, giustificata per vendicare l’11 settembre con decine di migliaia di vittime e nella quale gli effetti collaterali, vale dire le vittime civili dei raid aerei, sono stati un elemento strutturale del terrore «necessario» dei bombardamenti aerei. Con risultati politici determinanti, come la delegittimazione dell’alleato presidente Hamid Karzai, poi uscito di scena, che, dopo stragi con centinaia di morti e le proteste popolari sulle quali è cresciuto il ruolo dei talebani, si era scagliato contro il Pentagono, cioè l’ufficiale pagatore che lo teneva al potere.
Torna il paradigma della guerra mai conclusa. Un obiettivo della destra americana neocon che appare più che realizzato. Il mondo torna a slabbrarsi lì dove «ci stiamo ritirando, la pace è fatta».
C’è la Siria al centro, no torna l’Afghanistan e di Iraq meglio tacere, com’è meglio oscurare lo smacco in primo luogo italiano in Libia. Aumentano i deserti chiamati pace e la disperazione umana che fugge senza meta verso un immaginario Occidente, ricco ma crudele e responsabile delle tragedie in corso.
È così, gli «effetti collaterali» afghani riverberano sul presente della crisi in Siria l’intero specchio delle stragi commesse dall’alto di migliaia di piedi, dal cielo — è l’eroismo dei top gun, quello di non scendere sul campo con gli stivali dopo la propaganda negativa delle bare di rientro dei militari occidentali. Ma come si fa a raccontare ancora la favola degli errori o meglio degli «effetti collaterali»?
Se per colpire ipotetici terroristi — così ora «giustifica» l’alleato il governo di Kabul -– si bombarda dentro una città intera con missili Cruise e micidiali Cluster bomb? Ora Kunduz resterà come una macchia, ancora impunita, sulla fedina sporca del militarismo umanitario, l’ideologia bellicista che domina l’Occidente democratico. Con in più stavolta l’evidenza di avere fatto strage dell’umanitario vero che legittimamente opera sul campo, come Medici Senza Frontiere o come è già accaduto per Emergency.
Il fatto è che la guerra e le armi invece dell’effetto appaiono sempre più come il difetto collaterale e nascosto di un Occidente impegnato nei diktat economici per la govervance globale del capitalismo rimasto.
A dominare, per chi vuole vedere, è lo specchio delle malefatte che si rifrangono una dentro l’altra. Che impedisce perfino ad Obama di parlare serenamente e strategicamente della guerra in Siria, ancora raccontata come il campo dei raid nostri «buoni» (che tutt’al più fanno appunto «effetti collaterali») e quelli cattivi, russi (che uccidono civili); dove ci sarebbe un terrorismo «combattente e buono», organizzato dalla Cia e che quindi non va colpito, e quello cattivo del «nemico» Isis, ormai target comune. Dimenticando che per entrambi c’è stata la coalizione degli «Amici della Siria» che grazie ai fondi dell’Arabia saudita e delle petromonarchie del Golfo, ha acceso il fuoco di quel conflitto da almeno tre anni. E infatti Obama non ci riesce, non riesce ad uscire dal militarismo umanitario ed è costretto a subire l’intervento russo che — sempre sanguinoso è, non dimentichiamolo — spariglia almeno la partita e si muove per una soluzione che non può essere, nemmeno in Siria, militare. E mentre è all’ordine del giorno la Siria, Obama è costretto a vedere che c’è in casa, negli Stati uniti, un nemico che fa più vittime del Califfato: il terrorismo domestico di una guerra civile strisciante americana che fa 11mila morti l’anno.
Meglio non vedere questo difetto collaterale allora. E silenziare — avete visto un giornalone ancorché giustizialista che ne parli? — il fatto che da ieri l’Italia, con Spagna e Portogallo, sia per un mese il «campo di battaglia»» delle più grandi manovre militari Nato — la stessa dei raid sull’ospedale di Kunduz — dalla caduta del Muro di Berlino. Pronto a nuove avventure, distruzioni e spese militari. Finché c’è guerra c’è speranza.
«La guerra è crudeltà senza regole né rispetto per nessuno e dunque senza regole e rispetto per gli ospedali o per i feriti» È il commento a caldo che Gino Strada, un chirurgo che l’Afghanistan ce l’ha nel cuore, affida a il manifesto. Ma c’è soprattutto il disprezzo per la guerra in sé nel cuore e nelle parole del fondatore di Emergency, e il primo italiano ad aver appena vinto per la sua attività umanitaria il Right Livelihood Award del Parlamento svedese (il cosiddetto Nobel alternativo).
«Sì - aggiunge - pura crudeltà: un ospedale viene bombardato dalle forze Nato in Afghanistan. Per errore, certo, come per errore in questi anni sono stati uccisi più di 19 mila civili! In realtà - dice Strada riferendosi al recente caso di Msf a Kunduz - non esistono convenzioni e non esiste diritto umanitario che possa impedire alla guerra di rivelarsi per quello che è: un massacro di civili, donne, bambini, medici e infermieri. Nessuno viene risparmiato. Il bombardamento di un ospedale è l’evidenza stessa della brutalità della guerra».
Quando gli chiediamo se ritenga che il bombardamento dell’ospedale di Medici senza frontiere a Kunduz sia o meno un atto deliberato, risponde così: «Non voglio nemmeno entrare in considerazioni di questo tipo per un fatto che è comunque inaccettabile: se poi si è trattato di un atto deliberato o se invece è stato un errore, se si è trattato di una scelta fatta a tavolino da un gruppo di idioti o se è invece stato uno sbaglio, tutto questo mi sembra totalmente irrilevante quanto inaccettabile. Tutto – conclude – è già nella guerra ed è inutile stupirsi. È inutile svegliarsi improvvisamente per una cosa che è sempre successa, succede e succederà se c’è una guerra. La guerra non si può umanizzare, si può solo abolire».
«La guerra è crudeltà senza regole né rispetto per nessuno e dunque senza regole e rispetto per gli ospedali o per i feriti» È il commento a caldo che Gino Strada (nella foto), un chirurgo che l’Afghanistan ce l’ha nel cuore, affida a il manifesto.
Ma c’è soprattutto il disprezzo per la guerra in sé nel cuore e nelle parole del fondatore di Emergency, e il primo italiano ad aver appena vinto per la sua attività umanitaria il Right Livelihood Award del Parlamento svedese (il cosiddetto Nobel alternativo).
«Sì – aggiunge — pura crudeltà: un ospedale viene bombardato dalle forze Nato in Afghanistan. Per errore, certo, come per errore in questi anni sono stati uccisi più di 19 mila civili! In realtà – dice Strada riferendosi al recente caso di Msf a Kunduz — non esistono convenzioni e non esiste diritto umanitario che possa impedire alla guerra di rivelarsi per quello che è: un massacro di civili, donne, bambini, medici e infermieri. Nessuno viene risparmiato. Il bombardamento di un ospedale è l’evidenza stessa della brutalità della guerra».
Quando gli chiediamo se ritenga che il bombardamento dell’ospedale di Medici senza frontiere a Kunduz sia o meno un atto deliberato, risponde così: «Non voglio nemmeno entrare in considerazioni di questo tipo per un fatto che è comunque inaccettabile: se poi si è trattato di un atto deliberato o se invece è stato un errore, se si è trattato di una scelta fatta a tavolino da un gruppo di idioti o se è invece stato uno sbaglio, tutto questo mi sembra totalmente irrilevante quanto inaccettabile. Tutto – conclude – è già nella guerra ed è inutile stupirsi. È inutile svegliarsi improvvisamente per una cosa che è sempre successa, succede e succederà se c’è una guerra. La guerra non si può umanizzare, si può solo abolire».
IL REGOLAMENTO DEL PIÙ FORTE
di Andrea Fabozzi
Costituzione. Emendamenti abbattuti a pacchi, voti segreti pericolosi per il governo scansati senza scrupolo. Il presidente Grasso garante della riforma di Renzi. In poche ore la guida del senato è passato da bestia nera del governo a strumento per la marcia trionfale dell’esecutivo
La tracimazione dei senatori dal gruppo di Forza Italia a quello ormai stabilmente in maggioranza di Verdini, il negoziato con la minoranza Pd che ha ridotto il dissenso interno da una trentina di senatori a due o tre sono cose che certamente aiutano. Ma probabilmente non sarebbero bastate al governo per far approvare la legge di revisione costituzionale entro il 13 ottobre, data sulla quale Renzi non transige. Ci voleva una grossa mano da parte del presidente del senato, quel Pietro Grasso con il quale nell’ultimo mese il presidente del Consiglio ha più volte cercato lo scontro istituzionale, lanciando avvertimenti e ultimatum. Evidentemente andati a segno, perché quella mano è arrivata. Anche più generosa del passato. Grasso ha consentito qualsiasi strappo al regolamento e ha seguito passo dopo passo il percorso tracciato dai tecnici di palazzo Chigi e di palazzo Madama per aggirare gli ostacoli alzati dalle opposizioni contro un governo che non accetta modifiche alla «sua» riforma costituzionale. Ieri sera, prima dell’ultima interpretazione del regolamento utile ad allontanare pericolose votazioni segrete dal cammino dell’articolo 2, il presidente del senato non si è fatto scrupolo di riunirsi a palazzo Madama con la ministra Boschi per studiare assieme le strategie d’aula.
E così la riscrittura di oltre un terzo della Costituzione procede spedita. Ieri è stato approvato l’articolo 1 che stabilisce la funzioni del senato, grazie alla riscoperta della tecnica dell’emendamento «killer». Grasso lo aveva già consentito all’inizio dell’anno sulla legge elettorale, allora reggeva ancora il «patto del Nazareno» e l’emendamento Esposito servì a piegare la minoranza Pd. Ieri l’emendamento Cociancich ha scansato il rischio di votazioni segrete. Il prodotto finale è un lungo testo di 30 righe in gran parte mai discusso né in aula né in commissione, e mai neanche difeso dalla maggioranza cui interessava solo votarlo prima di tutti gli altri emendamenti. Sarà il nuovo articolo 55 della Costituzione italiana che oggi è quello scritto da Costantino Mortati in due commi e cinque righe in tutto.
Così sono stati abbattuti emendamenti a pacchi e la tensione in aula ha continuato a salire per tutta la giornata, tra le polemiche per il sostegno dei «transfughi» e gli attacchi dei 5 Stelle al presidente. Che, impassibile, ha continuato a rispondere di no a ogni richiesta delle opposizione. La riforma della Costituzione ha preso così le forme già viste di un assedio della minoranza al fortino (sempre più largo) della maggioranza, tanto rumoroso quanto vano. Impossibile ogni discussione nel merito di modifiche importantissime, ma la responsabilità va divisa tra l’esecutivo che ha escluso ogni apertura reale e la guida dell’assemblea che ha dimostrato di saper tutelare solo gli interessi del governo. Introducendo, come se non bastasse, precedenti assai pericolosi. Sia il voto sull’emendamento Cociancich che quello sul complesso dell’articolo 1 hanno testimoniato il buon lavoro fatto da Verdini e dal sottosegretario Lotti: il governo è rimasto sempre sopra la soglia della maggioranza assoluta. E non è esatto dire che i voti degli ultimi arrivati sono solo «aggiuntivi», come si consola la minoranza Pd ricondotta all’ordine, visto che nel successivo passaggio servirà proprio la maggioranza assoluta per lanciare la riforma verso il referendum confermativo. Non ha torto Sel quando, anticipando uno slogan referendario, attacca «la Costituzione di Renzi e Verdini».
Anche perché non è affatto finita, nella prossima settimana dovranno arrivare altre forzature. Già ieri sera Grasso ha trovato il modo di affossare cinque voti segreti che aveva precedentemente dichiarato di voler accogliere. Sull’articolo 2 è ormai noto che la presidenza ha ammesso solo emendamenti al comma 5, ma tanto la senatrice De Petris di Sel quanto il leghista Candiani avevano trovato il modo di infilare in quel punto il ritorno all’elezione diretta dei senatori e anche il voto segreto. Gli emendamenti diventavano così assai pericolosi per la tenuta del governo. Ma Grasso si è messo di traverso con un’interpretazione ancora una volta spericolata del regolamento. Oggi si vota sull’articolo 2.
Il presidente del Consiglio può dunque far trapelare la sua grande tranquillità. Ma nel Pd manca ancora l’accordo su due punti: l’elezione del presidente della Repubblica e la norma transitoria (articolo 39) che affida ancora ai consiglieri regionali la scelta esclusiva dei senatori (con buona pace del recupero della «volontà dei cittadini»). Sul primo punto si è parlato di un possibile nuovo emendamento killer, sempre di Cociancich, ma la proposta in realtà è assai più impegnativa e introdurrebbe un sistema di candidature ufficiali per il Quirinale. Il governo è stato costretto a dissociarsi.
«Questa è la riforma della Costituzione Renzi-Verdini»: Peppe De Cristofaro, Sel, rigira il coltello nell’unica ferita che deturpa la vittoria piena del premier. Non è finita. Ci saranno altri momenti incandescenti, nuovi passaggi a rischio. Il più pericoloso sarà sull’articolo 21: materia del contendere le modalità di elezione del capo dello Stato. Ma si può scommettere che si ripeterà la sceneggiata degli ultimi due giorni. Roberto Cociancich, il presidente degli scout cattolici che come hobby falcidia voti segreti, ha già presentato l’apposito «canguro». Renzi la spunterà ancora su tutti i fronti.
I voti a favore sono stati sempre tra i 171 e 172, esattamente come previsto dall’ex berlusconiano conquistato da Verdini Vincenzo D’Anna. Non sono pochi: sorpassano di una decina e passa la maggioranza assoluta e offrono la prova provata che la riforma sarebbe passata anche senza la resa della minoranza Pd. Però gli esperti scommettono che al momento del voto finale i sì saranno molti di più, secondo qualcuno arriveranno addirittura a sfiorare i 190. Un po’ perché non ci saranno le assenze degli ultimi giorni, un po’ perché l’arrembaggio al carro del vincitore, anzi al taxi guidato da Verdini che verso quel carro traghetta i profughi della destra, è in pieno svolgimento.
I dissensi nel Pd non sono andati oltre quei tre voti ampiamente preventivati: Felice Casson, Corradino Mineo e Walter Tocci. Nell’Ncd, nonostante gli sfracelli minacciati, nemmeno quelli. Nessun voto contrario, tutt’al più qualche assenza strategica destinata probabilmente a rientrare nel voto finale.
Ciliegina prelibata sulla torta di don Matteo, la resa incondizionata e totale del presidente del Senato. Arrivato alla stretta decisiva, con le debite pressioni esercitate sino all’ultimo secondo dalla ministra Boschi, Piero Grasso ha abbandonato ogni resistenza, senza curarsi più neppure di salvare le apparenze, e ha lasciato mani totalmente libere alla maggioranza e al governo. Cociancich, l’uomo-canguro, giura di essersi scritto da solo gli emendamenti killer, ma in aula sia Loredana De Petris, Sel, che Maurizio Gasparri, Forza Italia, hanno detto apertamente quello che tutti i senatori si ripetevano nei corridoi, cioè che dietro non quegli emendamenti ma dietro l’intera strategia della maggioranza in aula ci sono direttamente i funzionari del Senato. E se la vox populi, come spesso capita, ci piglia, il fatto non sarebbe certo possibile senza l’assenso del presidente di palazzo Madama.
Resta appunto solo una ferita aperta: il ruolo determinante di Denis Verdini e della sua truppa mercenaria. Certo, il voto sulla riforma non comporta l’appartenenza a una maggioranza, però quando ieri il capogruppo Barani ha annunciato il voto a favore confermando tuttavia che «noi restiamo all’opposizione», gli ex compagni azzurri si sono scatenati in una gara di fischi, i leghisti hanno sventolato banconote, i pentastellati hanno rumorosamente segnalato al Pd, minoranza inclusa, quali sono i nuovi compagni di strada. Ma gli stessi senatori di Renzi, pur sforzandosi di restare seri, sapevano perfettamente che si trattava di una barzelletta.
Certo, il voto di Verdini non è stato sinora e non sarà in futuro determinante. Però senza quei voti, senza la garanzia che la riforma sarebbe stata comunque approvata grazie agli ascari del fiorentino, la rotta della minoranza Pd non ci sarebbe stata, o almeno sarebbe stata meno totale e sgangherata. La cambiale arriverà inesorabilmente a scadenza, e si sommerà alla necessità di offrire una zattera ai naufraghi dell’Ncd. In Parlamento quei rinforzi sono preziosi, fuori dal palazzo potrebbero rivelarsi esiziali. Secondo un già celebre sondaggio della Ghisleri, che ieri a palazzo Madama era sulla bocca di tutti, l’alleanza con Verdini e Alfano costerebbe al Pd addirittura il 7% dei consensi, facendolo precipitare al 25%. Certo, quel sondaggio è in qualche misura drogato. Parla di «partito della nazione», mette Renzi e Verdini quasi sullo stesso piano. I risultati, di conseguenza sono probabilmente esagerati. Ma, anche se in dimensioni meno rovinose, il patto col diavolo che il premier ha scelto di firmare per garantirsi la vittoria rischia comunque di costare parecchio in termini di voti.
Qualche prezzo dovrebbe pagarlo anche per aver modificato la Costituzione con i trucchi e i carri armati, a colpi di canguramenti più o meno super, di violazioni del regolamento consentite senza pudore da Piero Grasso, di aggiramenti sfacciati di ogni voto anche solo potenzialmente minaccioso. Ma con un sistema mediatico genuflesso o intimidito e con l’alibi incautamente offerto da Calderoli e dai suoi milioni e milioni di emendamenti, su quel fronte Renzi è certo di riuscire a evitare ogni ritorno d’immagine dannoso. Ma nascondere Verdini, Alfano e tutti gli altri, quello è un altro paio di maniche.
Quando fu presentato per l’Italicum il noto emendamento Esposito, fu chiaro che si poneva un precedente pericoloso, tale da poter stroncare non solo l’ostruzionismo, ma qualsiasi dibattito o confronto parlamentare. Riassumere un dettato normativo in un emendamento da anteporre e da votare prima degli altri ha infatti la conseguenza, secondo una lettura notarile dei regolamenti, di far cadere ogni altro emendamento perché l’Aula ha ormai deciso. Scrissi allora su queste pagine che il presidente avrebbe dovuto dichiarare l’emendamento Esposito inammissibile, per carenza di contenuto normativo. Fece diversamente.
Vicenda simile abbiamo ora con l’emendamento Cocianchic (1.203). Non importa chi l’abbia scritto. Calderoli ha riferito in Aula voci per cui Cociancich «avrebbe detto a più persone che ignorava il contenuto ovvero la portata del suo emendamento».
Non sappiamo se sia vero. Comunque, non ci voleva un genio del diritto parlamentare per infilarsi nel varco aperto allora dalla decisione del presidente del senato sull’emendamento Esposito. La cosa fu già grave con l’Italicum. È ancor più grave adesso, con una riforma della Costituzione di grande momento. E non si può ribadire abbastanza che il senso della Costituzione, ed in specie dell’art. 138, non è certo quello di favorire i trucchetti per stroncare il dibattito, e arrivare in qualunque modo alla decisione.
Dopo tanto esitare, il presidente Grasso è sceso in campo per il governo. Per la verità, qualche sospetto l’avevamo. Ne troviamo ora conferma nelle decisioni sull’ordine delle votazioni e sui subemendamenti.
Qual era il corretto ordine di votazione degli emendamenti? Secondo principio, gli emendamenti si votano a partire dal più lontano fino al più vicino al testo da emendare. In Aula, è stata contestata a Grasso la scelta di mettere in prima fila l’emendamento 1.203, e il presidente in realtà non ha risposto. Ancor più significativa la decisione di precludere ogni subemendamento al Cociancich. Va infatti considerato che gli emendamenti di maggioranza (quelli concordati in casa Pd) sono stati portati a conoscenza dei senatori all’ultimo momento. Molti sono andati in Aula senza nemmeno averli visti. Il presidente ha deciso che i termini per la presentazione di subemendamenti erano già scaduti. Forse vero, ma le condizioni reali del dibattito avrebbero certo suggerito, se non imposto, almeno una breve riapertura dei termini. Approvato il Cociancich, Grasso ha anche respinto il tentativo di subemendarlo attraverso l’art. 100, comma 5, reg. sen., norma raramente invocata, che però avrebbe potuto consentire una almeno parziale riapertura del confronto.
Il trucco c’è, e si vede. Con queste decisioni, l’approvazione del nuovo art. 55 della Costituzione si è sostanzialmente risolta nel voto sull’emendamento Cociancich, che ha precluso tutti gli altri, mentre veniva contestualmente impedito ai senatori di opposizione qualsiasi intervento in via di subemendamento. È stata così anche superata una raffica di voti segreti, rischiosi per il governo. All’accusa di avere consentito l’uso strumentale dell’emendamento 1.203 contro le opposizioni — avanzata da molti nella seduta di giovedì — Grasso ha reagito con stizza, ma senza porre argomenti. E nemmeno ha raccolto le ripetute e insistite richieste di riunire la Giunta per il regolamento. Non a caso. Come sappiamo, i numeri della Giunta non sono blindati per il governo, e il passaggio poteva rivelarsi pericoloso. Analoghe manovre si preannunciano per gli articoli successivi al primo. A quanto leggiamo, per i subemendamenti all’art. 2 il tempo concesso è mezz’ora.
Grasso protagonista, dunque. Avremmo pensato che il primo dovere di un presidente di assemblea fosse nei confronti dell’istituzione presieduta. Dobbiamo ricrederci. Possiamo forse capire l’atteggiamento tenuto verso gli 82 milioni di emendamenti Calderoli, per cui poteva valere l’argomento che non si può mai favorire la paralisi dell’istituzione. Ma questo era ieri. Oggi, vediamo Grasso schierato al fianco del governo. Erano possibili scelte diverse, e letture di regolamento secundum constitutionem, più attente alla necessità che una Costituzione nasca da un confronto reale, e non per il sostegno acritico di maggioranze occasionali e raccogliticce, popolate di anime morte e di voltagabbana.
Quanto accade ci conferma che la fu minoranza Pd ha sbagliato facendosi riassorbire nel gruppone, e sostanzialmente scomparendo nel gorgo della rottamazione costituzionale. Un pezzo del paese non accetta la Costituzione di Renzi, senza se e senza ma perché quella che abbiamo è di gran lunga migliore. Il senatore Cociancich ci comunica in una intervista di preferire la precisione e non la quantità come Calderoli. Rispetto ad entrambi, preferiamo l’intelligenza.
«Su Marte vive una popolazione di circa tre milioni di under 35 italiani. Sono abitanti di un mondo a parte, molto eterogeneo, lontano dalle politiche del nostro Paese».
La Repubblica Milano, 2 ottobre 2015
È difficile fare politiche mirate ed efficaci se mancano dati basilari sulla realtà su cui si vuole intervenire. Un chiaro esempio riguarda la condizione dei giovani. Ne abbiamo sempre meno e ne perdiamo sempre di più, nel senso che proprio non sappiamo dove sono e cosa fanno. Ci riferiamo in particolare a due categorie in forte crescita di under 35, identificate con termini non utilizzati nelle generazioni precedenti a testimonianza delle specificità che le caratterizzano. Si tratta dei Neet e gli Expat.
In entrambi i casi sappiamo che non sono più a scuola e non sono nemmeno all’interno del mondo del lavoro italiano. Sono altrove, finiti fuori dal radar del sistema Paese. I Neet sono soprattutto giovani con istruzione medio-bassa che conclusi con più o meno successo gli studi non riescono a trovare pieno inserimento nel mercato del lavoro. Nei Paesi con sistemi informativi e politiche più efficienti, chi cerca lavoro è in larga parte registrato nei servizi pubblici per l’impiego e chi abbandona precocemente gli studi viene inserito in una base dati apposita ed entra in un programma specifico di monitoraggio e supporto. In Italia solo una piccola quota si iscrive ai centri per l’impiego e dopo un anno e mezzo dall’avvio, anche il Piano Garanzia giovani è riuscito solo in minor parte a raggiungerli.
Il dato più recente indica circa 800 mila registrati su un totale di circa due milioni e quattrocento mila Neet. Ci sono quindi oltre un milione e mezzo di giovani che non studiano e non lavorano che, per quanto ne sanno le istituzioni italiane, potrebbero trovarsi su Marte.
Andrebbero poi aggiunti anche gli inattivi tra i 30 e i 34 anni dei quali il progetto GaranzIa giovani non si occupa ma che rappresentano almeno un altro milione di persone.
Gli Expat sono invece i giovani dinamici e intraprendenti, spesso con alto capitale umano, che hanno lasciato l’Italia per cercare qualche opportunità di ulteriore formazione o miglior lavoro all’estero. Secondo l’Istat nei soli ultimi cinque anni hanno lasciato l’Italia, formalizzando tale scelta con il trasferimento di residenza, quasi 100mila giovani tra i 15 e i 34 anni. Secondo l’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) in tale fascia d’età i connazionali che risiedono in un altro Paese sono nel complesso oltre un milione.
Come ben noto l’Anagrafe estera da un lato contempla anche i nati all’estero da cittadini italiani, d’altro lato sottostima fortemente gli Expat. Va sottolineato che negli anni più recenti i flussi di uscita riguardano le regioni più avanzate, come la Lombardia, e le persone più qualificate. Sempre secondo l’Istat la percentuale di dottori di ricerca emigrati è quasi raddoppiata, dal 7 per cento di chi ha conseguito il titolo nel 2006 al 13 per cento di chi si è dottorato nel 2010. Non esiste però un registro che individualmente ci dica chi sono, dove si trovino e cosa stiano facendo. Molti di loro sarebbero interessati e disponibili a instaurare rapporti di collaborazione con il Paese di origine, ma anch’essi, per quanto ne sanno le istituzioni italiane, potrebbero trovarsi su Marte. Di fatto su Marte vive una popolazione di circa tre milioni di under 35 italiani. Sono abitanti di un mondo a parte, molto eterogeneo, lontano dalle politiche del nostro Paese e sconnessi dal modello di sviluppo italiano. Potenziali risorse ignorate e inutilizzate.
«Il voto catalano non costituisce un evento isolato. E de-limitato. Ma si somma a quanto avviene, da tempo, in altri Paesi. In particolar modo, in quelli affacciati sulla sponda mediterranea. Dove si allarga il contagio dell’Ues: l’Unione Euro- Scettica».
La Repubblica, 29 settembre 2015 (m.p.r.)
Il risultato delle elezioni in Catalogna conferma l’ampiezza del sentimento separatista che anima la Comunidad autónoma. Il fronte a favore dell’indipendenza (Junts pel Sì + Cup) ha ottenuto il 47,8% dei voti. Ha, così, conquistato la maggioranza assoluta dei seggi, ma non dei voti. Si fosse trattato di un referendum, questo esito non sarebbe sufficiente a sancire la secessione da Madrid. Ma oggi appare adeguato ad amplificare lo spirito indipendentista che spira, forte, in altre aree della Spagna. Anzitutto nei Paesi Baschi. Questo voto, inoltre, rischia di produrre «una rivoluzione geopolitica su scala europea», come ha osservato Lucio Caracciolo, ieri, su Repubblica. Una Catalogna indipendente, infatti, non troverebbe posto nella Ue.
La Repubblica, 28 settembre 2015 (m.p.r.)
New York. Un “disgelo” Usa-Russia per cooperare sulla Siria, con sullo sfondo qualche novità per l’Ucraina? È l’ipotesi che agita le aspettative, dietro l’incontro di oggi tra Barack Obama e Vladimir Putin. L’occasione è l’assemblea generale Onu a New York. Putin non si faceva vedere da 10 anni qui al Palazzo di Vetro. E con Obama non ha vertici bilaterali da due anni, cioè dall’inizio della crisi ucraina (i due si sono salutati in occasione di summit internazionali, ma riducendo al minimo l’interazione). Ora tutto sta cambiando, per quel che accade in Siria. La Francia ha lanciato ieri il suo primo raid aereo contro lo Stato Islamico, nell’ambito della coalizione. Ma Obama prende atto che la sua strategia, fondata sulla “guerra dai cieli” più l’appoggio a ribelli locali, non funziona. Putin ne approfitta: ha lanciato un’escalation “logistica”, trasferendo navi militari, aerei da combattimento, reparti di marines e mezzi blindati nella base che i russi hanno in Siria da 44 anni. Da un momento all’altro possono entrare in azione.
Barcellona. Un boato squarcia la notte sulla Plaça Comercial. Poi l’applauso, lo slogan ritmato di “In-Inde-Independencia”, e subito la folla intona Els Segadors, l’inno nazionale di quello che sperano possa diventare presto un nuovo Stato. Bastano i primi exit-poll trasmessi alle 8 della sera sui maxischermi allestiti nella roccaforte separatista del quartiere del Born, davanti al vecchio mercato in stile modernista riconvertito in centro culturale icona delle rivendicazioni nazionaliste, per scaldare gli animi, per scatenare l’euforia. Qui il listone di Junts pel Sí , nato dall’accordo tra il president Artur Mas e il leader repubblicano Oriol Junqueras, ha stabilito il suo quartier generale nella speranza di poter celebrare una nottata storica. E i dati, poi confermati dal conteggio ufficiale delle schede, gli danno ragione.
"QUESTO VOTO È STATO UN IMBROGLIO. UN REFERENDUM L'AVREBBERO PERSO
Dicano pure quello che vogliono, però quale che sia il risultato, si tratta di normali elezioni regionali trasformate in modo fraudolento in una sorta di referendum. È il filosofo Fernando Savater, attivo da sempre nel combattere ogni tipo di nazionalismo, a cominciare da quello che nel suo Paese Basco sfociò nella barbarie terroristica dell'Eta, non ci sta a fare concessioni al fronte vittorioso di Artur Mas.
«Era difficile per i conduttori commentare la risposta del congresso, diviso e confuso sulle reazioni da palesare. Gli applausi che si alzavano dall’ala repubblicana ad ogni accenno di dissenso su aborto e matrimonio gay, si spegnevano subito quando il discorso si spostava su armi, povertà, cambiamento climatico, migranti». Il manifesto, 26 settembre 2015 (m.p.r.)
New York. U n vero tornado, popegaddon, popezilla, si sprecano aggettivi e neologismi per descrivere l’effetto che sta avendo questa visita del papa negli Stati Uniti. Accolto dalla popolazione più come un referente politico che come un leader spirituale, il papa ha di fatto spiazzato tutti i livelli dell’accoglienza ufficiale americana, ad incominciare dai media tradizionali, prima tra tutte la televisione. La diretta del discorso al congresso è stata trasmessa da tutti i network principali ed era palpabile un certo imbarazzo dei conduttori per un personaggio che ha mischiato le carte scontentando (molto) gli amici tradizionali ma anche (un poco) i nuovi amici.
«A un pontefice non si può chiedere di entrare nel merito di ogni caso, ed è curioso che tanti miscredenti, come me, si trovino ad auspicare iniziative di Francesco dirette e appuntite. Che so, un paio di scomuniche esemplari». L
a Nuova Sardegna, 26 settembre 2015
Nessuna obiezione all'Enciclica. Tutti d'accordo, pure chi non avrebbe vantaggi se prevalessero- come auspicato pure dall'ONU - “altri modi di intendere l’economia e il progresso” (Laudato si', § 16). E se il Papa decidesse di smascherare le adesioni più corrive, avrebbe un gran daffare. Pure in Sardegna servirebbe qualche sua autorevole precisazione, visto che la Saras di Moratti lo ha ringraziato in uno spot sulla propria singolare conversione ecologista.
È vero: a un pontefice non si può chiedere di entrare nel merito di ogni caso, ed è curioso che tanti miscredenti, come me, si trovino ad auspicare iniziative di Francesco dirette e appuntite. Che so, un paio di scomuniche esemplari: alla Syndial, che a Porto Torres ha disperso in terra e in mare non si sa quanti rifiuti tossici; ai colpevoli del disastro di Portoscuso, dove la catena alimentare è corrotta senza tornaconti. Una gran pena: scolpita nella faccia di chi è vittima dell'impoverimento di quei luoghi, lo stesso smarrimento descritto nella vignetta di Altan: “Cos'ho dottore?/Niente, ha perso tutto”.
La Sardegna non potrà essere risarcita da condanne - neppure all'inferno - di chi ha contaminato 450mila ettari di terra, trasformato spiagge e scogliere in piedistalli di brutte case, speculato oltre ogni limite su vento, sole, sottosuolo, tappato corsi d'acqua, simulato guerre con bombe vere, appiccato incendi senza tregua - l'ultimo nella costa di Alghero.
Fermare questa distruzione non è facile per amministrazioni locali spesso disarmate più che inerti (evviva se dopo 10 anni il governo Pigliaru attua le previsioni del Ppr per frenare la diffusione degli impianti eolici). Gli insuccessi sono più probabili senza lo schieramento di tutte le istituzioni dalla parte del buon governo del territorio, del quale più cose si sanno è meglio è. Ma la “coscienza di luogo” - presupposto per ogni progetto - manca da un po' in questo Paese, nel solco del difetto avvertito da Pasolini 40 anni fa: “il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia”.
Una verità le devastazioni. Ampiamente sottostimate se si considera la bassa densità della popolazione (la Sardegna è tra le 4 Regioni in cima alla classifica degli abusi edilizi: quindi al primo posto). Inutile minimizzare il ciclo di trasformazioni subite, dipendenti da bisogni remoti; penso al 60% del patrimonio boschivo bruciato nell' '800 in Continente, per lo sviluppo lì; e mi interrogo sul programma di fare pellet dagli alberi del Marganai.
Nulla di nuovo, copio e incollo le parole Foucault: «il potere è localizzato in un centro sovrano che impone la sua legge dall’alto verso il basso». E il pensiero va dritto a SbloccaItalia, alla legge voluta da Renzi contro la quale 6 Regioni NO-Triv hanno deciso - dal basso - di ricorrere alla Consulta. Non la Sardegna (?) che conviene ora con i referendari, viste le proteste di molte comunità allarmate. Un' inquietudine più estesa di quanto si immagini, in un quadro reso più drammatico dallo spopolamento progressivo di vaste aree.
C'è chi vorrebbe premere il tasto reset, via dalla memoria le mappe delle aggressioni ai paesaggi e dei veleni; d'altra parte, si sa, mancano le risorse e non c'è bonifica che potrà restituirci il Sulcis com'era, a sicut erat. Nel frattempo siamo rassicurati dalle eccellenze ad uso del racconto sfuggente e del branding. La Sardegna all'Expo, buona e bella, leggendaria grazie alle eccezioni - statisticamente dappertutto - enfatizzate a dismisura. La longevità di alcune famiglie, qualche olivastro millenario, la vittoria del ciclista Aru, un pecorino esaltato dallo chef, non possono diventare banner per appannare la ordinaria mediocrità. Il cibo? Nell'isola agropastorale 8 bistecche su 10 vengono da fuori ed è molto lungo l'elenco di generi alimentari “tipici” che importiamo in questa misura.
Le eccellenze ruggenti all'Expo, come i leoni di Metro Goldwyn Mayer, preannunciano un bel film. Meglio guardarlo tutto. E sulle trivelle occhi spalancatati come quelli del gigante di Cabras. La campagna referendaria è compito nostro, il Papa ha già detto.
«Quella di Volkswagen è una vicenda che può avere conseguenze disastrose per la casa tedesca e ricadute su tutta l’industria automobilistica. I tedeschi nella gestione della crisi europea hanno sempre anteposto la questione “morale” (chi sbaglia paga) a quella economica».
Lavoce.info, 25 settembre 2015 (m.p.r.)
Le conseguenze della truffa
C’è un solo aggettivo per definire quello che è successo alla Volkswagen: incredibile! Un gigante del settore automobilistico, in procinto di diventare il primo produttore al mondo, già emblema di qualità e affidabilità, ha truccato i motori diesel per ridurre artificialmente le emissioni inquinanti durante i test. L’imbroglio è stato scoperto e ora la casa di Wolfsburg è in guai seri, al punto da mettere a rischio la sopravvivenza stessa dell’impresa. Già molto è stato detto sull’argomento. Mi limito quindi pochi punti meno sottolineati nel dibattito.
Confusione nel mercato
L’aspetto più sorprendente della vicenda è stata, però, la reazione dei concorrenti. Normalmente, ci si aspetterebbe che problemi per Volkswagen significhino buone notizie per gli altri produttori, che si possono avvantaggiare della sua perdita di clienti. La reazione dei mercati è invece stata opposta, con i titoli di tutte le aziende del settore in forte perdita, anche se in maniera più contenuta rispetto al -30 per cento di Volkswagen.
TAGLI E MULTE MEDICI IN RIVOLTA
di Eleonora Martini
La ministra della Salute Beatrice Lorenzin allunga a 208 voci la lista di esami clinici da ridurre e sottrae altri 2,3 miliardi al Servizio sanitario nazionale. L’accusa è di eccesso di prescrizioni inappropriate. In preparazione altre norme per ridurre la medicina difensiva. I sindacati: manifestazione nazionale a novembre
Messo definitivamente in soffitta l’obiettivo prioritario di prevenire le malattie che era alla base della riforma sanitaria del 1978, la ministra della Salute Beatrice Lorenzin allunga ulteriormente fino a 208 voci, rispetto alle 108 dell’agosto scorso, l’elenco degli esami clinici - da inserire in un prossimo decreto legge - che saranno coperti dal Sistema sanitario nazionale solo a determinate condizioni, prevedendo sanzioni per i medici che non rispettano i paletti imposti e perseverano invece in quell’«eccesso di prescrizioni» esploso negli ultimi anni con la cosiddetta “medicina difensiva”.
Un problema, quello dell’appropriatezza delle prescrizioni di test diagnostici (ma di abuso di farmaci non parla più nessuno) su cui tutti concordano, inclusi, con scarsa autocritica, i camici bianchi, e che comporterebbe secondo i calcoli governativi uno spreco di risorse pubbliche pari a 13 miliardi ogni anno. I medici però non ci stanno ad accettare il «metodo repressivo» che limita la loro azione «in scienza e coscienza» e «rischia di incrinare il rapporto di fiducia col paziente». Ma soprattutto, si ripercuote sulla salute pubblica, aumentando il divario tra le opportunità di accesso alle cure a seconda del censo e della regione di appartenenza.
E allora la Federazione nazionale degli Ordini dei medici annuncia già per novembre una manifestazione nazionale di tutta la categoria per «richiamare l’attenzione sulle criticità emergenti del Ssn», mentre Massimo Cozza, segretario nazionale Fp Cgil Medici chiama alla «mobilitazione unitaria con i cittadini a difesa del Ssn e contro i tagli alla sanità camuffati come mancati aumenti o risparmi annunciati da Renzi e Padoan».
Cozza spiega al manifesto: «Con quest’ultima manovra di luglio inserita nel decreto sugli enti locali, in applicazione del Patto sulla salute siglato da governo e regioni e da completare appunto con l’elenco degli esami clinici stilato dal ministero, si tagliano 2,3 miliardi alla sanità pubblica. Ma sono 30 i miliardi sottratti negli ultimi cinque anni e non reinvestiti sul Ssn». Inoltre, il provvedimento della ministra Lorenzin — che limita, per esempio, la possibilità di ripetere l’esame del colesterolo e dei trigliceridi nel sangue a una volta ogni cinque anni, a meno di particolari necessità curative — scarica sulle regioni la messa a punto del modus operandi: chi controllerà, chi dirimerà eventuali controversie tra medico e controllore, quali sanzioni per il medico e chi le infliggerà. C’è da scommettere che ogni regione si regolerà a modo suo. E così l’erogazione dei servizi, già a macchia di leopardo, diventerà talmente disomogenea da violare il diritto costituzionale sancito dall’articolo 32. In più, aggiunge Luigi Conte, segretario Fnomceo, «molti dei 208 esami indicati nel provvedimento come a rischio inappropriatezza sono desueti e già non utilizzati».
Ribatte Lorenzin: «Non c’è una caccia al medico, tutt’altro. Gli diamo gli strumenti per agire in modo più sereno. Le sanzioni amministrative sul salario accessorio scatteranno dopo un eccesso reiterato di prescrizioni inappropriate e solo dopo un contraddittorio con il medico che dovrà giustificare scientificamente le sue scelte. Se non lo farà, solo allora scatterà la sanzione». La ministra assicura inoltre che i «protocolli che stabiliscono come e quando fare gli esami sono stati decisi dalle società scientifiche e rivisti dal Consiglio superiore di sanità». E invece l’associazione dei medici dirigenti Anaao «conferma la propria totale contrarietà ad affrontare il tema dell’appropriatezza clinica per via politica e amministrativa - afferma il segretario nazionale Costantino Troise - Senza contare i veri e propri strafalcioni presenti nella parte tecnica del decreto, che la dicono lunga sulle competenze e sull’attenzione riservate alla materia».
Non sono poche invece le organizzazioni che plaudono al provvedimento considerato «utile alla lotta agli sprechi». Ma mentre i sindacati dei radiologi, per esempio, chiedono di «risolvere rapidamente la questione della responsabilità professionale», per il Codacons i medici «appaiono totalmente tutelati e possono ricorrere anche a forme particolari di assicurazione», «il problema semmai è garantire un livello di assistenza sanitaria adeguata evitando distorsioni a danno degli utenti».
L’elenco di Lorenzin comunque, secondo Massimo Cozza, «non rappresenta in alcun modo un limite alla medicina difensiva». E infatti il governo sta già lavorando, come ha ribadito ieri, ad una serie di norme da inserire nella legge di stabilità per aiutare i medici a tutelarsi dalle cause temerarie che sarebbero, secondo i sindacati, il 97% di quelle intentate da pazienti.
«Non lo ammetteranno mai, ma le autorità americane hanno fatto alla Volkswagen ciò che le autorità italiane hanno fatto all'Ilva: le hanno beccate a inquinare». Il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2015 (m.p.r.)
Italiani state sereni. Il ministro dell'Ambiente Gian Luca Galletti ha diffuso una minacciosa nota per dirci che «sta chiedendo, attraverso i suoi uffici, rassicurazioni a Volkswagen Italia sull’effettivo rispetto della normativa in materia di emissioni e inquinamento». Galletti chiede all'oste se il vino è buono perché nessuno gli ha spiegato che il governo americano non ha chiesto rassicurazioni ma, attraverso “i suoi uffici”, ha preso delle Volkswagen e le ha smontate. Ma Galletti non lo può fare, perché se smontasse le Volkswagen dovrebbe anche andare a vedere che cosa succede a Taranto, e invece è così contento di starne fuori e di non essere nemmeno invitato ai vertici di palazzo Chigi sull’Ilva.