Due autorevoli esponenti della sinistra del XX secolo, Alfredo Reichlin e Massimo Cacciari, intervistati da Alessandro Ferrucci a proposito del PD: "Ha tradito e sconfitto la sinistra", "È morto con Veltroni e si sono spartiti il potere".
Il Fatto Quotidiano, 2-3 novembre 2015
Alfredo Reichlin
IL PD HA SCONFITTO E TRADITO LA SINISTRA
Il suo buongiorno è una riflessione tra sé e sé: “Non do mai interviste. È una cosa assurda. Assurda”. Cosa? “L’aver accettato questa chiacchierata”. Sì, e con il Fatto quotidiano, un giornale non molto amato dall’establishment del Partito democratico. “(Silenzio) Ultimamente state iniziando a diventarmi simpatici. E uno non può dire sempre di no”.
Alfredo Reichlin ha novant’anni, testa lucida, lucidissima, è una delle grandi memorie storiche del nostro paese, è uno dei pochi viventi ad aver conosciuto Palmiro Togliatti di persona, non sui libri del liceo; negli anni Sessanta ha diretto l’Unità, quindi Parlamentare, così vicino a Enrico Berlinguer, quanto distante dai miglioristi di Giorgio Napolitano. Al funerale di Pietro Ingrao è salito sul palco, ha schiaffeggiato la politica attuale con il ministro Maria Elena Boschi e il premier Matteo Renzi atterriti e al suo fianco, ha commosso i presenti con alcune riflessioni su com’era la politica, la sinistra, ideali, sogni, certezze. E la realtà di oggi. “Premessa: non ho né rimpianti né nostalgie, il passato è passato, resta la differente concezione della politica, dove non si badava soltanto al qui e ora e a questioni di governo”.
Palmiro Togliatti parlava di strategia e tattica.
«La politica non è solo immanenza, è anche formazione di una soggettività, è visione del futuro; la politica deve leggere il presente con in testa un disegno per andare oltre l’interesse immediato».
Lei ha detto: “Dietro a Renzi c’è un vuoto politico, non c’è alcuna cultura politica, non c’è un disegno del futuro”.
«Questo è il punto. Attenzione: Renzi è una personalità straordinaria, ma non è un fondatore di partito, non è il fondatore di una cultura di partito».
E qual è la sua idea di partito?
«È una parte di società che si organizza in nome di una visione della realtà e per consentire a pezzi del Paese di entrare in una dimensione statale. Il limite di Renzi è questo».
La visione odierna muta nell’arco di pochi mesi, come con la vicenda dei 3mila euro.
«Eh, sì. Però la politica deve anche essere gestione dell’esistente e soluzione dei problemi, ma la questione è che oggi la politica non conta più nulla».
E chi comanda?
«Il mio slogan sull’oggi è: i mercati governano, i tecnici amministrano, i politici vanno in televisione ad assolvere la funzione della gestione mediata e del simbolico».
Solo apparenza«Forse esagero, ma le grandi decisioni non vengono più prese dalla politica, oramai messa in mora dall’economia».
Da quando?
«Dalla grande svolta promossa da Reagan e dalla Thatcher, quando la finanza
da infrastruttura dell’economia è diventata struttura a sé, finalizzata a produrre denaro e ai capitali è stata data la totale libertà di circolazione. Vede, a suo tempo Gianni Agnelli era una potenza, ma Luciano Lama (ex segretario della Cgil dal 1970 al 1986) aveva un esercito alle spalle; tu sei il grande banchiere ma lo Stato può prendere delle decisioni che ti condizionano».
Ma perché questa rottura degli equilibri?
«L’economia si è mondializzata, la politica no, restano gli Stati nazione».
Noi siamo arrivati ad avere Monti presidente del Consiglio, e un governo di banchieri.
«È evidente, ma le ripeto: le vere grandi decisioni sono altrove e la politica ha cessato di esprimere la funzione precedente, quella di manifestare un grande potere, attraverso la formazione di classi dirigenti all’altezza.
Il Pci era radicato sul territorio come pochi, una forma piramidale distrutta negli ultimi dieci anni.
«È tutto lì, e l’ho detto anche alla commemorazione di Ingrao. Oggi il Parlamento non conta nulla, si governa solo con i decreti legge, il resto è chiasso».
Con Berlusconi si è rotto un argine...
«Lui è stato il segnale che oramai vinceva questo indirizzo, ma qualcosa è iniziato anche con la fine del compromesso storico, ma nessuno ricorda bene su quali basi era nato... Nasceva da grandi preoccupazioni, tra doppio Stato, terrorismo, trame, crisi economica, inflazione: era un periodo di grandissime difficoltà, quindi alcuni, in primis Berlinguer, avevano avvertito la necessità di un accordo simile a quello del secondo dopoguerra tra due grandi forze popolari.
Perché la storia di cui lei è rappresentante e protagonista a un certo punto si è interrotta?
«Semplice: siamo stati sconfitti. La sinistra ha inventato i sindacati, i partiti di massa, i diritti sociali, lo Stato sociale. Lo ha potuto fare perché questi poteri li ha esercitati, e poteva dire alla sua base ‘io ti conduco e ti apro un orizzonte’. Se lo Stato viene meno come soggetto in grado di gestire i poteri reali, va in crisi anche il ruolo della sinistra».
Renzi attacca continua mente i sindacati.
«Ovvio, per lui sono solo un intralcio. Mentre Giolitti rivendicava la trattativa con i rappresentati dei lavoratori».
Qualcuno ha azzardato il paragone tra Craxi e Renzi.
«Craxi ha inaugurato molto di questa fase, ha distrutto una grande forza come il Psi; il cerchio magico era suo, un cerchio che ha violato ogni regola».
Lei ha contribuito alla carta dei valori del Pd: quella carta è stata tradita?
«Penso di sì, mentre alcuni di noi, anche alcuni democristiani, credevano nella formazione di un partito, idee, progetti, in realtà l’unione è nata con la suddivisione delle sfere d’influenza: tu sei presidente, tu segretario».
Le due casse, i due patrimoni, quello dei Ds e quello della Margherita, non si sono mai uniti.
«Esatto, sono stati spezzoni di ceto politico, ognuno con il proprio rapporto con le masse».
Lei a fine anni Ottanta è stato candidato a sindaco di Roma (vinse il socialista Carraro). Che idea si è fatto di questa situazione?
«È gravissimo quello che sta avvenendo, trovo sbagliato che il presidente del Consiglio abbia fatto questa scelta di dire ‘arrangiatevi’, di prendere le distanze. Dimostra di non aver ben capito cos’è Roma: la Capitale non è una città che puoi affidare a Orfini, e dire occupatevene voi. Roma è una delle realtà più importanti al mondo. Si sta camminando dove ha camminato Giulio Cesare, si parla dove parlava Cicerone, dopo l’unità d’Italia Quintino Sella si poneva un dilemma: come si va a Roma e con quale idea? Chi governa la Capitale deve avere delle idee, deve conoscere questa realtà.
Ci vogliono le primarie?
«Credo di no, deve essere il partito in quanto tale e il suo capo a indicare un candidato. Le primarie saranno un gioco tra personaggi minori, perché i pochi grandi non vogliono partecipare».
Ha qualche nome da proporre?
«No, ma tenga conto di una aspetto: il sindaco di Roma conta più di un ministro.
Si era reso conto della situazione drammatica del Pd romano?
«Da troppi anni sono fuori dalla politica romana.
Un'analisi e alcune proposte alternative per il bilancio preventivo triennale dello Stato (2016-2018.
Sbilanciamoci.info, 2 novembre 2015
Sbilanciamoci! ha partecipato alle audizioni relative all’esame della manovra economica per il triennio 2016-2018 avviate questa mattina [2 novembre] dalle Commissioni Bilancio congiunte del Senato e della Camera dei Deputati.
Secondo Sbilanciamoci! anche la manovra di quest’anno va nella direzione sbagliata. Prima ancora che per il merito delle singole misure, per l'impianto generale e la visione di fondo che la ispira: per definizione la finanza pubblica è il problema, quella privata la soluzione; l'unico obiettivo del Governo sembra quello di migliorare la competitività delle imprese e puntare sulle esportazioni. Si continua a pensare la crisi come un problema di offerta, trascurando una domanda che non riparte, a causa delle enormi disuguaglianze, della mancanza di investimenti pubblici e dei problemi strutturali del Paese. Manca un strategia industriale di lungo respiro.
1. Tecnicamente non è una manovra espansiva. E’ previsto un deficit obiettivo nel 2016 pari al 2,2%, del PIL, a fronte del 2,6% dello scorso anno e un avanzo primario del 4,3 nel 2019, che rischierebbe di strangolare l'economia del paese. Allo stesso tempo controllo e riqualificazione della spesa pubblica restano sulla carta e costringono il Governo a spendere i margini recuperati sui saldi per neutralizzare – unicamente per quest'anno – le clausole di salvaguardia, anziché per rilanciare il sistema.
2. L’attenzione resta concentrata sull'offerta anziché alla domanda.
3. Si prosegue sulla strada delle privatizzazioni e della svendita del patrimonio pubblico.
4. Per il Mezzogiorno c’è poco, salvo i milioni destinati alle grandi opere come la Salerno-Reggio Calabria.
5. Si taglia il Servizio Sanitario Nazionale di 2 miliardi rispetto a quanto concordato con le Regioni e sebbene vi siano alcune misure di lotta alla povertà, si tratta di stanziamenti limitati e frammentati, per i Fondi Sociali le risorse sono insufficienti, mentre manca una misura strutturale di sostegno al reddito.
6. Manca l'annunciato stanziamento aggiuntivo di 100 milioni per il Servizio Civile Nazionale per il 2016.
7. Ciò mentre si tagliano la Tasi, l’Imu agricola e sui macchinari imbullonati con un mancato gettito complessivo stimato in 4,6 miliardi di euro.
8. A livello dei Ministeri la spending review privilegia il Ministero per l'istruzione (-220 milioni nel 2016) e quello per l'economia (- 116 milioni) mentre risibile è il taglio al bilancio del Ministero per la Difesa (-19 milioni) e dell'Interno (-27,1 milioni).
Le priorità di Sbilanciamoci! per il 2016
Rilanciare l'economia: con investimenti pubblici mirati, per una nuova politica industriale
Ridurre le diseguaglianze: con politiche di redistribuzione del reddito e del lavoro.
Una buona spesa pubblica. Riqualificando e riorientando la spesa pubblica, tagliando quella sbagliata: quella militare, per le grandi opere, gli investimenti che distruggono l'ambiente, i sussidi all'istruzione e alla sanità privata.
Un nuovo modello economico e sociale sostenibile: per rilanciare l’economia e l’occupazione, il benessere delle persone e la salvaguardia dell'ambiente sono il punto di partenza.
Alcune delle proposte di Sbilanciamoci! per il 2016
Rendere il fisco più equo: non aumentare, ma redistribuire il prelievo fiscale dai poveri ai ricchi, dai redditi da lavoro e di impresa ai patrimoni e alle rendite.
Investimenti pubblici in economia per un piano del lavoro: con 5 miliardi si possono creare per 250mila posti di lavoro aggiuntivi.
Welfare: No ai tagli alla sanità; incremento del fondo sociale e del fondo per le non autosufficienze fino a 600 milioni; introdurre una forma di sostegno al reddito strutturale la cui copertura sarebbe garantita dalla riforma fiscale; portare gli stanziamenti per il servizio civile nazionale a 302,5 milioni per garantire l’avvio del servizio ad almeno 55mila giovani; chiudere i Cie e i Cara (-500 milioni) e destinare le risorse risparmiate al sistema di accoglienza ordinario e agli interventi di inclusione sociale.
Istruzione: Tagliare i fondi per le scuole private e per l’ora di religione, aumentare i fondi per l'autonomia scolastica, per gli stages e per i progetti scuola- lavoro.
Università: Avviare un piano straordinario per l’assunzione di 10mila ricercatori; no al contributo di 50 euro per il rilascio del visto per studenti stranieri, aumentare le risorse per il fondo borse di studio.
Ambiente: tagliare di 1 miliardo i finanziamenti per le grandi opere a vantaggio di piccole opere e di un piano nazionale della mobilità che privilegi il trasporto pubblico locale e stanziare 500 milioni per interventi di tutela del territorio; investire davvero nella lotta ai cambiamenti climatici grazie allo sviluppo delle energie rinnovabili, all’introduzione della carbon tax e di una tassa automobilistica sulle emissioni Co2; tutelare la biodiversità destinando risorse adeguate agli interventi nelle aree protette e adeguando i canoni di concessione per attività estrattive.
Sulla poca stampa indipendente sopravvissuta si consolida la tesi affaristica delle ragioni della defenestrazione del sindaco di Roma.
Il Fatto Quotidiano, 1° novembre 2015
Fra un taglio di bilancio e l’altro, le rappresentanze sindacali dei pompieri denunciarono il caso e aggiunsero – sempre secondo l’Unità – che “al prefetto Tronca sarebbero stati assegnati ben due attici, in via Piacenza, a due passi dal Quirinale: alloggi di servizio che non gli spetterebbero”, e addirittura alcune “auto nuove nuove dei Vigili del Fuoco di Cortina d’Ampezzo”. Allora Tronca era considerato vicinissimo alla Lega e figurarsi la gioia di Maroni, nel frattempo asceso dal Ministero dell’Interno al Pirellone, quando due anni dopo se lo ritrovò prefetto di Milano. Ora però Tronca è stato scelto personalmente da Renzi, quindi non è più leghista, ma alfiere del “modello Milano”: a patto che l’Unità non ripeschi dall’archivio quella notiziola sul suo malvezzo – più romano che milanese di far scarrozzare il figlio in auto blu. C’è chi, come l’ex portavoce di Fini Salvo Sottile, per un caso analogo s’è beccato una condanna per peculato. Sarebbe seccante ricordarlo proprio ora che Tronca va al posto di un sindaco indagato per peculato. Il modello Milano andrebbe subito a farsi fottere.
2 ) “Modello Milano” significa trapiantare le virtù della “capitale morale d’Italia” - l’ha detto Raffaele Cantone, quindi sarà vero senz’altro - nel corpaccione vizioso della capitale politica, perché la prima “ha gli anticorpi” e l’altra no (Isernia e Caltanissetta, per dire, ancora non si sa, ma il commissario anticorruzione ci farà tosto sapere). Fermi restando i noti vizi e stravizi della Roma che conta, resta da capire quali siano esattamente le virtù di Milano che conta. Lì, finché non fu aperta Expo e la Procura schiacciò il tasto “pausa” per carità di patria ad arresti e avvisi di garanzia, era tutto un susseguirsi di retate perché i virtuosissimi politici e amministratori di destra e di sinistra non erano riusciti a completare i lavori della kermesse (40% di opere mai fatte), ma in compenso le mazzette viaggiavano con puntualità svizzera. E, a occuparsene, non erano nuove leve del malaffare, insospettabili e irriconoscibili a occhio nudo: erano le stesse di Tangentopoli, solo invecchiate di vent’anni. Greganti, Frigerio, Grillo (Luigi), Maltauro.
Eppure né il commissario Occhio Di Lince Sala, né i suoi sponsor al Comune e alla Regione, s’erano accorti di nulla. Siccome poi la Regione Lombardia era stata sciolta anzitempo nel 2013 per gli scandali Formigoni, Minetti, Trota, Boni, Penati e note spese, col contorno di qualche ’ndranghetista (milanesissimo, dunque provvisto di robusti “anticorpi”), anche i nuovi inquilini del Pirellone si son dati da fare: il 1° dicembre il governatore Bobo Maroni andrà a processo per turbativa d’asta ed è indagato per i suoi favori a due amichette sue; il suo vice Mario Mantovani, forzista, soggiorna attualmente a San Vittore per corruzione. Completano il quadro, sempre a proposito di “modello Milano” e “anticorpi”, i comuni dell’hinterland infiltrati dalle mafie, come Buccinasco, Desio e Sedriano. Degna, anzi sacra corona per la Capitale Morale.
3) “Modello Milano” vuol dire che Roma, per il Giubileo, deve prendere esempio da Expo. Il tempo è poco, ma ce la si può ancora fare. Funziona così. Si favoleggia dell’arrivo di 24-30 milioni di visitatori da tutto il mondo, poi ne arrivano solo 18 (record storico negativo dal 1962, pari al dato di Expo Hannover 2000, detto anche “il flop del millennio”), ma si arrotonda a 21 e lo si spaccia per un trionfo. Si buttano dalla finestra 2,4 miliardi di denaro pubblico (1,3 per la costruzione, 960 milioni per la gestione e 160 per l’acquisto dei terreni da privati, decuplicando il prezzo di mercato), poi si dice che i costi saranno coperti dalla vendita dei biglietti a 22 euro di media, poi la media ufficiale scende a 19 euro e quella reale a molto meno (centinaia di migliaia di ticket regalati o svenduti a 5 euro), con un bel buco finale di 1 miliardo a carico nostro, ma nessuno ci fa caso. Si scopre poi che i terreni sono altamente inquinati, dunque vanno bonificati, per un costo preventivato di 5 milioni a carico dei proprietari, che però non vogliono pagare e intanto il conto sale a 72 milioni, e indovinate chi li paga. Si shakera il tutto con copiosi investimenti pubblicitari su giornali e tv, che in cambio suonano trombe e trombette. Infine si proclama eroe nazionale l’artefice del capolavoro, con monumento equestre incorporato, e lo si candida a sindaco.
Ora, per carità, va bene tutto: ma abbiamo come il sospetto che di magliari e leccaculi Roma ne abbia a sufficienza, senza bisogno di importarli da Milano.
«Il trucco principale risiede nella definizione di “servizio pubblico”: a) non è servizio pubblico, quello la cui erogazione può essere effettuata anche da soggetti diversi dall’autorità di governo; b) non è servizio pubblico, quello per la cui erogazione è previsto un corrispettivo economico, anche una tantum».
Il Manifesto, 31 ottobre 2015
«Per chi legge in buona fede il mandato negoziale del TTIP, è del tutto evidente che i servizi pubblici non sono oggetto di negoziazione». Così ripete ad ogni occasione il viceministro dello sviluppo economico Carlo Calenda. “A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca” verrebbe da rispondere citando il famoso “belzebù” della prima repubblica. D’altronde, basta leggere quanto previsto dal CETA (Accordo commerciale Ue-Canada, la cui ratifica partirà nel 2016) e dal TTIP (Accordo Usa-Ue, in fase di negoziazione) per capire chi ha ragione.
«Le virgolette di Naipaul, premio Nobel della letteratura, raffigurano alla perfezione anche il mondo del XXI secolo, pieno di "scuole" che non educano, "ospedali" che non curano, "poliziotti» che spesso sono criminali, "imprese private» che esistono solo grazie allo Stato o "ministeri della Difesa" che attaccano i loro cittadini».
La Repubblica, 30 ottobre 2015 (m.p.r.)
NEL 1980, dopo aver visitato l’Argentina, il romanziere V. S. Naipaul scrisse: «In Argentina molte parole hanno un significato ridotto rispetto a prima: generale, artista, giornalista, storico, professore, università, direttore, manager, industriale, aristocratico, biblioteca, museo, zoo; tante parole devono essere messe tra virgolette».
Il Nashi, per esempio, è un «movimento» di giovani russi che si dichiara «democratico, antifascista e contro il capitalismo oligarchico». Va tutto fra virgolette perché in realtà questa Ong è un ente promosso, organizzato e patrocinato dal governo russo. Che non è l’unico a usare quelle che si è cominciato a chiamare Ongog, cioè organizzazioni non governative organizzate e controllate dai governi. Già nel 2007 scrissi: «La Federazione degli affari femminili in Birmania è una Ongog. E anche l’Organizzazione per i diritti umani del Sudan. L’Associazione delle organizzazioni non a scopo di lucro e non governative del Kirghizistan, e la Chongryon (Associazione generale dei residenti coreani in Giappone) sono Ongog. È una tendenza mondiale, sempre più estesa: governi che finanziano e controllano organizzazioni non governative, spesso e volentieri in modo occulto».
Anche in Paesi con governi autocratici o democrazie illiberali stanno proliferando «mezzi di comunicazione privati e indipendenti» che in realtà non lo sono. Canali radiofonici, televisivi, giornali e riviste creati o comprati da «investitori privati» e che nominalmente sono indipendenti, ma editorialmente sono al soldo del governo che clandestinamente li finanzia e li controlla.
In questi Paesi il presidente, dittatore o capo di Stato normalmente esercita un controllo clandestino, ferreo, su «senatori», «deputati », «procuratori», «magistrati» e «tribunali elettorali» spacciati per «arbitri imparziali», su «elezioni democratiche» che spesso e volentieri sono truccate e fraudolente. Per questo in Russia, Iran, Venezuela o Ungheria, per esempio, i concetti di «democrazia», «separazione di poteri» ed «elezioni» devono essere messi fra virgolette per mettere in guardia dal fatto che non hanno lo stesso significato che altrove.
E non è solo un problema degli Stati. Il mondo delle organizzazioni internazionali è inondato di virgolette. Avete mai sentito parlare del Consiglio per i diritti umani dell’Onu? La sua missione è «promuovere e proteggere i diritti umani nel mondo». Chi ne fa parte? Fra gli altri, solo per citarne alcuni, Cuba, il Congo, la Cina, la Russia, il Kazakistan, il Venezuela e il Vietnam. Un altro esempio istruttivo di quanto siano diventate indispensabili le virgolette è la «Carta democratica» dell’Organizzazione degli Stati americani (Osa). Nel 2001, con grande sfarzo ed emozione, i Paesi democratici dell’America Latina concordarono tutti che il «rafforzamento e la difesa delle istituzioni democratiche» era una priorità, e che se in un Paese membro si fosse prodotta una rottura o un’alterazione delle istituzioni tale da nuocere gravemente all’ordine democratico, ciò avrebbe rappresentato un «ostacolo insormontabile» per la permanenza di quel governo nell’organizzazione.
Non è stato così. Non solo l’Osa non si è mossa quando sono avvenute eclatanti violazioni dell’«ordine democratico» in diversi Paesi della regione, ma appare seriamente intenzionata ad accogliere un altro paladino della democrazia: Cuba.
Forse, però, il Paese che più ha bisogno di virgolette per poter essere interpretato è la Cina. La Cina del sistema «comunista» che è diventato un pilastro fondamentale dell’economia capitalista mondiale. E solo per fornire un altro esempio, la Cina che ora ci obbliga a mettere fra virgolette il concetto di «isola». Ha preso quattro scogli in una zona del Mar della Cina Meridionale la cui sovranità è fortemente contestata e le ha fatte «crescere». Così, invece di essere scogli non abitati e non abitabili in mezzo all’oceano, ora sono piccole «isole» dove Pechino ha già installato basi navali e aeree.
Il XXI secolo sarà «il secolo delle virgolette»?
Traduzione di Fabio Galimberti
Malgrado che - con qualche sorpresa non solo dei commentatori internazionali, ma persino degli stessi protagonisti diretti - le sinistre in Portogallo fossero riuscite a trovare un accordo per potere governare il paese, potendo contare su un ruolo e un comportamento dei socialisti in controtendenza rispetto a quelli della socialdemocrazia europea. Malgrado che nel parlamento eletto lo scorso 4 ottobre i conservatori abbiano 107 seggi, mentre i socialisti 86, i comunisti 17 e il Bloco de Esquerda - la formazione di sinistra vicina alla Syriza di Tsipras – 19. Malgrado che quindi la maggioranza parlamentare, che è di 116 seggi, appartenga a queste tre ultime formazioni politiche, potendo esse contare su 122 voti. Malgrado che pochi giorni fa il Parlamento portoghese abbia eletto, come proprio Presidente, Eduardo Ferro Rodrigues con 120 voti provenienti dai partiti della sinistra. Malgrado tutto ciò, il Presidente del Portogallo ha incaricato il leader conservatore Passos Coelho, uscito pesantemente ridimensionato dalla prova elettorale, di formare un governo che inevitabilmente sarà di minoranza.
Ancora più sconcertanti, se possibile, sono le motivazioni della scelta presidenziale. Il capo dello Stato portoghese ha infatti dichiarato che “In 40 anni di democrazia, nessun governo in Portogallo è mai dipeso dall’appoggio di forze politiche antieuropeiste…che chiedono di abrogare il Trattato di Lisbona, il Fiscal Compact, il Patto di Crescita e di Stabilità…che vogliono portare il Portogallo fuori dall’Euro … e dalla Nato” e che quindi sarebbe suo preciso dovere e rientrerebbe nei suoi poteri costituzionali “fare di tutto ciò che è possibile per prevenire l’invio di falsi segnali alle istituzioni finanziarie, agli investitori e ai mercati”.
Il programma di governo delle sinistre portoghesi non è affatto antieuropeista, è per cambiare l’Europa in senso sociale e democratico. Vuole evitare che il paese sia nuovamente sottoposto ad un altro memorandum di politiche economiche recessive e di impoverimento sociale. Già cinque sono stati quelli comminati dalla Ue al paese lusitano e il partito di Passos Coelho ha perso la maggioranza assoluta proprio perché ne rivendicava la bontà, cosa che evidentemente non è piaciuta affatto all’elettorato portoghese. Comunque a un capo dello stato compete solo la tutela della Costituzione del proprio paese e non certo di sindacare l’indirizzo politico delle forze che vincono le elezioni.
Ciò che quindi risulta sconvolgente da queste dichiarazioni presidenziali è la palese ammissione di una totale sottomissione alla logica dei mercati finanziari, veri dominus della situazione europea e internazionale, capaci in quanto tali di prevalere su qualsiasi indicazione democratica espressa dalla volontà popolare. Si dirà, e giustamente, che questo era già accaduto, in particolare in Grecia, ma in questo caso repetita non iuvant, anzi dimostrano il carattere a-democratico della costruzione europea e la violenza della reazione appena forze di sinistra conquistano il consenso popolare. Il sostanziale silenzio dei mass media chiude il cerchio, mostrando a quale infimo livello è giunta la sensibilità democratica dei grandi organi di informazione in particolare nel nostro paese.
Ma la partita è tutt’altro che chiusa. Sia in Portogallo che in Europa. I partiti di sinistra hanno già annunciato di non volere concedere la fiducia, che dovrà essere votata entro il 9 novembre. Se, come i numeri sulla carta ci dicono, il nuovo esecutivo non dovesse ricevere l’avvallo del parlamento, il presidente dovrebbe scegliere se confermare Passos Coelho fino allo scioglimento dell’assemblea o incaricare il leader del Ps ed ex sindaco di Lisbona António Costa, che tra i partiti delle sinistre è il maggiore. Si deve altresì tenere conto che non è possibile sciogliere il Parlamento e convocare elezioni anticipate prima di gennaio, perché il Portogallo è entrato nel semestre bianco che precede l’elezione di un nuovo presidente della repubblica.
E allora, che senso potrebbe avere la scelta del capo dello Stato portoghese? Solo quello di affidarsi alla speranza che si provochi un ripensamento, ovvero una spaccatura all’interno del partito socialista portoghese, considerato come l’anello più debole del patto stretto tra le sinistre. Per ora non sembra. Anzi l’effetto dell’atto presidenziale è stato piuttosto quello di compattare il partito. Sarà decisivo nei prossimi giorni vedere quale sarà il comportamento degli altri partiti socialisti e socialdemocratici a livello europeo. Finora la reazione più significativa è venuta dal Partito socialista francese, il cui segretario, Jean Christophe Cambadelis, ha dichiarato in una nota di sostenere “l’alternativa rappresentata dai socialisti e dalla coalizione di sinistra”. Se i pronunciamenti di questo tipo aumenteranno e se si svilupperà una pressione democratica popolare a livello europeo, il governo di minoranza della Troika avrà vita effimera. E sarebbe un segnale importante anche per le prossime e vicine elezioni spagnole, oltre che per l’Europa nel suo complesso.
Intervista di Roberto Ciccarelli all'economista Gianfranco Viesti. Una critica severa alla "legge di stabilità":«È una manovra poco equa perché premia in misura cospicua i più abbienti e rilancia molto poco i consumi». Il manifesto, 29 ottobre 2015
«In un saggio di Sergio Flamigni la collaborazione tra ex Br ed esponenti democristiani per impedire una ricostruzione veritiera del sequestro». L'incognita aperta è la solita: a chi è giovato quell'assassinio? Chi ricorda il clima politico di quel tempo non ha dubbi.
La Repubblica, 26 ottobre 2016
Patto di omertà (Kaos) è molto più di un nuovo (ennesimo) libro sul caso Moro: è una lezione di metodo e una pietra d’inciampo. L’autore, Sergio Flamigni, ex senatore del Pci in cui ha militato sin dalla giovinezza, partigiano prima, poi giovanissimo dirigente forlivese, è il massimo esperto della vicenda, a cui si dedica da una vita, da quando entrò nella prima Commissione parlamentare d’inchiesta sul delitto ( 1979-‘83). Instancabile “cercatore di verità”, come ama definirsi, fondatore del principale archivio italiano sul terrorismo, otto libri all’attivo (il più noto La tela del ragno), torna sulla vicenda e ripercorre le carte alle luce delle acquisizioni più recenti.
Perché – ecco il metodo- nel proliferare incontrollabile di pubblicistica interessata, memorie contraddittorie e dichiarazioni tardive, spesso su funzionari dello Stato ormai defunti (lo storico Gotor ha ben analizzato come il proliferare di narrazioni e testimonianze, solo in parte veritiere, comunque verosimili, sia funzionale all’oscuramento della verità sugli aspetti più indicibili del delitto), i documenti restano il riferimento imprescindibile, e vanno riletti e ristudiati nel tempo, con pazienza e umiltà.
C’è stato (e ancora resiste) un patto di omertà, tra ex esponenti di vertice delle Brigate Rosse e del potere democristiano: questa la tesi di fondo, ampiamente documentata, di Patto d’omertà . Lo scopo? Impedire una ricostruzione completa e veritiera del sequestro e omicidio di Aldo Moro, in cui trovino risposta i quesiti ancora aperti (Flamigni stila un elenco circostanziato delle lacune, gravissime: basti ricordare che ancora non si conosce l’identità di tutte le persone che spararono in via Fani).
Al posto della verità, a partire dalla metà degli anni Ottanta, la collaborazione sotterranea tra figure chiave delle due parti (mentre all’esterno si sbandierava strumentalmente la retorica della “riconciliazione”, ricordate?) ha confezionato una ricostruzione lacunosa e in più punti falsa del caso Moro da dare in paso all’opinione pubblica, le cui architravi sono: (1) la strage di via Fani e i 55 giorni sono stati eseguiti e gestiti solo dalle Br, senza aiuti e complicità esterne; (2) non vi furono omissioni e manovre occulte all’interno degli apparati dello Stato durante i 55 giorni; (3) non vi furono trattative occulte.
Una versione di comodo sia per gli ex Br, perché salvaguardava i loro miti identitari della “purezza rivoluzionaria” e della “geometrica potenza”, sia per la Dc (Cossiga e Andreotti in testa), perché contrastava con le evidenze di un’insufficiente impegno governativo per salvare Moro. L’architrave della versione ufficiale, sdoganata grazie alla compiacenza, ahimè, di vari esponenti della magistratura coinvolti nei processi Moro, è il cosiddetto “memoriale Morucci” (passato dalla scrivania dell’allora presidente Cossiga prima di pervenire ai magistrati), che tradisce la propria natura mistificatoria sin dal nome: bisognerebbe chiamarlo infatti “memoriale Morucci-Cavedon”, perché è frutto di molti colloqui tra l’ex Br dissociato e Remigio Cavedon, giornalista, direttore del quotidiano Dc Il popolo e consulente personale di politici del calibro di Mariano Rumor, al punto che Morucci ammise di non saper più distinguere con precisione cosa fosse esclusivamente farina del proprio sacco (indigna leggere che il magistrato, anziché approfondire il punto, abbia lasciato correre).
La parte più consistente e appassionante del saggio di Flamigni è la meticolosa analisi testuale del documento, che mette in luce omissioni e falsità sulla base delle innumerevoli fonti scritte e orali accumulatesi nei decenni. L’altra sezione “scandalosa” e illuminante riguarda il contesto internazionale in cui maturò il delitto Moro: una dimensione senza cui esso è condannato a restare inintelligibile.
Ha il pregio della chiarezza, il libro di Flamigni. Grazie alla limpida cronologia sinottica degli avvenimenti e delle indagini dalla mattina del 16 marzo 1978 al ’97, quando l’ex capo delle Br Moretti ottenne la semilibertà, fornita in apertura, si presta ad essere letto e compreso anche da chi sa poco o nulla. Circoscrive le lacune e le omissioni documentali per poter ribadire quanto invece sappiamo per certo, a dispetto delle menzogne governative e brigatiste.
Per anni Flamigni è stato deriso, denigrato come un pazzo visionario, osteggiato con cause per diffamazione (da cui è sempre uscito vincente, anche contro Cossiga), adesso, dopo che i fatti gli hanno dato ragione su tutto (dalle carte rimaste nascoste in via Montenevoso all’esistenza di un “quarto uomo”, solo per citare le più clamorose “anticipazioni” scaturite dalle sue ricerche), il rischio è che la sua voce limpida sia sommersa dal rumore.
Mentre la nuova Commissione Moro, agli occhi degli addetti ai lavori, sembra dedita principalmente a confondere le acque e sfornare scoop di dubbia fondatezza con pretese di scientificità (clamorosa la “ricostruzione 3D” della strage di via Fani che fa a pugni con le perizie) che non a far procedere le conoscenze e dove, a dispetto delle direttive altisonanti del Governo sugli archivi del terrorismo, ancora non sono saltati fuori i verbali delle riunioni del comitato di crisi interforze attivo durante il sequestro (e pieno di affiliati alla P2), questo saggio è una preziosa pietra d’inciampo.
Sappiamo moltissimo, del caso Moro, e ciò che non sappiamo getta luce sull’“anatomia del potere italiano” (per citare un saggio di Gotor, altro caposaldo sulla vicenda) e le caratteristiche del terrorismo in Italia: Patto di omertà consolida e approfondisce il patrimonio di verità, insegna a ragionare e a non cedere allo scetticismo.
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Lo scopo era impedire una ricostruzione veritiera del sequestro e dell’omicidio
«Hanno perso quanti hanno avanzato il sospetto che Francesco volesse manipolare il dibattito per garantirsi esiti precostituiti. Ma far parlare tanti - anche chi non la pensa come te - è davvero una vittoria fuori dal comune».
La Repubblica, 26 ottobre 2015 (m.p.r.)
Chi ha vinto e chi ha perso nel Sinodo sulla famiglia? Molti ritengono che il Papa sia uscito rafforzato da questo difficile passaggio. Ma si tratta di una vittoria singolare. Se avesse voluto affermare la sua volontà, il Papa avrebbe potuto scegliere strumenti molto più efficaci di un Sinodo. Si è proposto, piuttosto, di promuovere un libero dibattito fra tante «opinioni diverse» da cui è scaturisse l’«immagine viva» di una Chiesa che non usa «moduli preconfezionati». Con l’applauso che ha accompagnato queste parole del suo discorso finale i vescovi hanno riconosciuto apertamente che l’obiettivo è stata raggiunto. Di sicuro, perciò, hanno perso quanti hanno avanzato il sospetto che Francesco volesse manipolare il dibattito per garantirsi esiti precostituiti. Ma far parlare tanti - anche chi non la pensa come te - è davvero una vittoria fuori dal comune.
«L’Africa non ha bisogno di aiuti, ma di un sistema legale internazionale che le consenta di non essere saccheggiata». L'entità e le cause della crescente diseguaglianza tra ricchi e poveri e tra bianchi e neri. La
Repubblica, 26 ottobre 2015
La fine dell’apartheid ha reso indubbiamente possibile l’uguaglianza formale dei diritti civili fondamentali, ma non ha consentito di ridurre la disuguaglianza abissale delle condizioni di vita. Una constatazione motivata in parte da fattori internazionali.
A poco più di vent’anni di distanza dalla fine dell’apartheid e dalle prime elezioni libere (1994), il Sudafrica si interroga più che mai sul problema delle disuguaglianze. La strage di Marikana, dove 34 minatori in sciopero per chiedere aumenti salariali erano stati massacrati dalla polizia, nell’agosto del 2012, continua a tormentare la coscienza del Paese. L’Anc (African National Congress), al potere senza interruzione dall’inizio della transizione democratica, ha reso possibile un’uguaglianza nei diritti civili fondamentali: il diritto di voto, il diritto di spostarsi liberamente sul territorio e di svolgere, teoricamente, tutte le professioni. Ma questa uguaglianza formale non ha consentito di ridurre l’abissale disuguaglianza delle condizioni di vita e dei diritti reali. Il diritto a un lavoro e a un salario dignitosi, il diritto a una scuola di qualità, il diritto di accedere alla proprietà, il diritto a una reale democrazia economica e politica. Il Paese si è sviluppato, la popolazione è cresciuta notevolmente, ma la promessa di uguaglianza non è stata mantenuta.
Secondo gli ultimi dati disponibili, il 10% più ricco si accaparra circa il 60-65% del reddito nazionale, contro il 50-55% in Brasile, il 45-50% negli Stati Uniti, il 30-35% in Europa. Peggio ancora: questo scarto estremo che separa il 10% in alto (composto ancora in larga maggioranza da bianchi) dal 90% in basso si è aggravato dopo la fine dell’apartheid. Questa triste constatazione si spiega in parte con fattori internazionali: la deregolamentazione e l’esplosione dei compensi nel settore finanziario (molto importante in Sudafrica), l’aumento delle quotazioni delle materie prime (che beneficia soprattutto una minuscola élite di bianchi), un dumping fiscal e sociale generalizzato. Ma si spiega anche con l’insufficienza delle politiche messe in atto dall’Anc: i servizi pubblici e scolastici disponibili nelle zone più disagiate rimangono di mediocre qualità; nessuna riforma agraria ambiziosa è mai stata realizzata, in un Paese dove i neri si erano visti sottrarre il diritto di possedere terre ed erano stati parcheggiati in riserve e township, dal Natives Land Act del 1913 fino al 1990; il patrimonio fondiario, immobiliare e finanziario resta largamente nelle mani dell’élite bianca, così come le risorse minerarie e naturali; le timide misure di empowerment economico della comunità nera, che mirano a costringere gli azionisti bianchi a cedere una quota delle loro azioni a neri, sulla base di transazioni volontarie ai prezzi di mercato, hanno beneficiato un’infima minoranza di neri che aveva già i mezzi (o le conoscenze politiche) per comprarle.
Risultato prevedibile: l’Anc è sempre più contestato a sinistra dal partito degli Economic Freedom Fighters (Eff), che propongono una serie di misure radicali: istruzione e previdenza sociale per tutti, ridistribuzione delle terre, nazionalizzazione delle risorse minerarie. La minoranza bianca è spaventata: la settimana scorsa una deputata bianca, una sorta di Nadine Morano locale, reclamava il ritorno dell’ultimo presidente dell’apartheid. Per riprendere in mano la situazione, l’Anc potrebbe introdurre, a partire dal 2016, un salario minimo nazionale e utilizzare questo strumento per ridurre le disuguaglianze, come fece il Brasile con Lula. Qualcuno pensa anche all’introduzione di un imposta progressiva sui capitali, per poter ridistribuire gradualmente il potere economico. Il progetto, già preso in considerazione fra il 1994 e il 1999, alla fine era stato abbandonato dall’Anc. Secondo l’ex presidente Mbeki, la polizia e l’esercito, tuttora guidati da bianchi, non l’avrebbero permesso.
Una cosa è certa: che si tratti di nazionalizzazione delle miniere, o di un qualsiasi progetto che costringa le multinazionali e i detentori di patrimoni a contribuire in misura più significativa di adesso alle casse dello Stato, il Sudafrica avrebbe bisogno della collaborazione dei Paesi ricchi, e non della nostra ipocrisia. L’élite finanziaria sudafricana lo ripete fino alla nausea: negli anni 80 eravamo costretti a negoziare, ma oggi possiamo facilmente trasferire i nostri fondi all’estero e nei paradisi fiscali. L’opacità del sistema finanziario internazionale è un autentico flagello per l’Africa: si calcola che il 30-50% delle attività finanziarie del continente si trovi in qualche paradiso fiscale. Eppure, se solo Europa e Stati Uniti decidessero di farlo sarebbe tecnicamente semplice creare un vero e proprio registro mondiale dei titoli finanziari. Come spiega Gabriel Zucman ne La richesse cachée des nations (Le seuil, 2014), basterebbe che le autorità pubbliche unificassero e prendessero il controllo dei depositari privati che attualmente svolgono questo ruolo. L’Africa non ha bisogno di aiuti: ha bisogno di un sistema legale internazionale che le consenta di non essere saccheggiata in permanenza.
(traduzione di Fabio Galimberti) L’autore è direttore didattico all’Ehess e professore alla Scuola di economia di Parigi
«Disoccupazione e disuguaglianza nell’accesso all’istruzione sfavoriscono ancora, 20 anni dopo la fine dell’apartheid, la maggioranza nera del Paese». Secondo
Il manifesto, 24 ottobre 2015
Tra gas lacrimogeni, granate stordenti, lanci di pietre e canti, è culminata ieri davanti all’Union Building di Pretoria — sede della Presidenza della Repubblica e degli uffici del Governo sudafricano — la mega protesta degli studenti universitari esplosa circa dieci giorni fa in un grande movimento a livello nazionale, probabilmente il più grande dalla fine dell’apartheid nel 1994.
Jacob Zuma non ha per ragioni di sicurezza incontrato i manifestanti come precedentemente annunciato, ma ha reso noto sulla tv di stato — dopo un incontro con i leader degli studenti, le autorità universitarie e funzionari di governo — di aver congelato il piano degli aumenti delle tasse universitarie per il 2016. Le prime dimostrazioni contro il piano degli atenei di aumentare le tasse annuali sino all’11,5% a partire dall’anno prossimo (e dunque contro la decisione del governo di non intervenire con maggiori finanziamenti a sostegno dell’istruzione) sono scoppiate il 13 ottobre scorso all’University of the Witwatersrand (Wits) di Johannesburg.
Da allora le proteste (echeggiate su Twitter sotto l’ashtag #FeesMustFall) hanno colpito almeno altre 15 università, costringendole alla sospensione delle lezioni. A Johannesburg, migliaia di studenti della Wits e dell’University of Johannesburg hanno sfilato per le strade e si sono radunati davanti al Luthuli House, quartier generale dell’African National Congress (Anc) per consegnare le loro richieste al segretario generale del partito al governo Gwede Mantashe. Nell’Eastern Cape, presso la Nelson Mandela Metropolitian University (Nmmu), la polizia ha sparato proiettili di gomma e granate assordanti per disperdere gli studenti. A Cape Town, 23 studenti sono stati arrestati martedì scorso per aver bruciato pneumatici e eretto barricate agli ingressi dell’università (Uct).
La rivolta è arrivata anche, il giorno dopo, davanti alla sede del Parlamento a Cape Town, dove la polizia in assetto antisommossa ha lanciato gas lacrimogeni e granate stordenti contro centinaia di studenti che avevano fatto irruzione all’interno della recinzione presso l’entrata principale dell’edificio per impedire al ministro della Finanze Nhlanhla Nene di illustrare il bilancio provvisorio dello Stato.
La dichiarata esigenza degli atenei universitari di aumentare le tasse per poter assicurare i loro standard formativi non ha incontrato la solidarietà delle classi dirigenti al potere e la loro disponibilità a maggiori sovvenzionamenti ma ha trovato la rabbia degli stdenti neri. A evidenziarsi ancora una volta è la problematica maggiore che fa da sfondo a tutte le altre in un Paese che arranca a rinascere dalle ceneri del vecchio regime dell’apartheid, vale a dire l’accesso equo e garantito all’istruzione. Le proteste di questi giorni in Sudafrica, lungi dal coinvolgere alcuna parte politica, cavalcano un malessere generale della popolazione che non può prescindere dalla divisione tra bianchi e neri che ancora affligge la nazione arcobaleno. A manifestare e a difendere le loro ragioni contro un aumento delle tasse (non bilanciato con i redditi delle famiglie di provenienza) che per moltissimi significherebbe la rinuncia agli studi sono gli studenti neri (i bianchi lo fanno per solidarietà).
Disoccupazione, povertà, diseguaglianza nell’accesso alle risorse economiche e all’istruzione sfavoriscono ancora — più di vent’anni dopo la fine dell’apartheid — la maggioranza nera del Paese.
E restano figlie di politiche economiche ed educative che continuano a reiterarsi a svantaggio delle classi più svantaggiate. Alla rabbia degli studenti molti dei quali sono «born free» cioè nati liberi nel post-apartheid, la polizia e le classi dell’Anc al potere hanno opposto gas lacrimogeni e proiettili di gomma suscitando addirittura le preoccupazioni del dipartimento di stato americano che attraverso il portavoce John Kirby si è detto intenzionato a continuare a monitorare la situazione. Immagini speculari a quelle di un passato mai del tutto sradicato e che riportano alla mente quelle, certo più drammatiche e feroci, del massacro nella township di Soweto del 16 giugno del1976 quando la polizia aprì il fuoco contro 10 mila studenti neri che protestavano contro un decreto del regime di introdurre l’Afrikaans nelle scuole come lingua obbligatoria.
Non è la prima volta che gli studenti scendono in piazza quest’anno per sollevare questioni legate a divisioni razziali ancora ben radicate. È quanto è successo ad aprile scorso con le proteste studentesche che hanno guidato la campagna di rimozione delle statue di personaggi storici che hanno fatto la storia del colonialismo e dell’apartheid. E che ha visto cadere per prima quella di Cecil Rhodes (imperialista britannico della fine dell’800), divelta dal sostegno da cui per anni ha sovrastato l’entrata dell’University of Cape Town (Uct).
P
Il principio di progressività è prima di tutto costituzionale. Il secondo comma dell’articolo 53 stabilisce che “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Vale la pena menzionare le parole dell’on. Meuccio Ruini, presidente della Commissione che redasse quell’articolo: «Lasciandosi guidare da un sano realismo, non si può negare che una Costituzione la quale, come la nostra, si informa a princìpi di democrazia e di solidarietà sociale, debba dare la preferenza al principio della progressività... Si può discutere sulla misura e sui limiti della progressione; non sul principio».
A partire dal 1948, quando entrò in vigore la Costituzione, leader politici di ogni schieramento, da Ezio Vanoni a Aldo Moro a Sandro Pertini a Enrico Berlinguer, hanno difeso il concetto di perequazione tributaria. Che ai loro occhi era democratico e costituzionale, situato prima di ogni schieramento ideologico. Ezio Vanoni, che fu tra i redattori della Costituzione, considerava essenziale che le leggi stimolassero nei cittadini la consapevolezza del valore morale e sociale dell’obbligo tributario (un’idea che abbiamo sentito ripetere da Tommaso Padoa-Schioppa, ministro nel secondo Governo Prodi). Queste le parole da lui pronunciate in una seduta parlamentare del 1956: «Possiamo risolvere gran parte dei problemi del nostro Paese e li risolveremo nella misura nella quale sapremo chiedere ad ognuno la sua parte di sacrificio, proporzionata alla sua capacità di sopportazione».
Affidandosi al principio di equità, i Costituenti misero nero su bianco la differenza tra proporzionalità (flat tax) e progressività. Lo scontro tra “proporzionalità” e “progressività” è diventata nel corso degli anni uno scontro sulla funzione pubblica nell’economia, e quindi sull’impegno diretto del governo nel sistema di welfare. Circa dunque la proposta di eliminazione della tassa sulla prima casa, la logica della proporzionalità avrebbe significato che, appunto, chi possedeva una casa signorile avrebbe avuto tanto più da guadagnare (e meno da sopportare) di chi possedeva una casa modesta o popolare o non ne possedeva alcuna. La progressività è non questione ideologica dunque, bensì di equità e di coerenza con la Costituzione.
Il primo comma dell’articolo 53 ci dice infine che alle ragioni di equità si affiancano ragioni di giustizia, il nucleo della lotta all’evasione, una battaglia di buon governo: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva ». Ha detto il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che mentre rivede la posizione sull’abolizione della tassa sulla prima casa, non la rivedrà sul limite del contante, che passerà da mille a tremila euro. E che questa decisione non lascerà una porta aperta all’evasione, aggiungendo che pagare meno tasse dovrebbe essere l’obiettivo cui tendere, stimolando comportamenti virtuosi.
Sarebbe ragionevole pensare che se tutti pagassero le tasse, tutti potrebbero pagare meno. Ma la logica ipotetica qui non aiuta molto; le decisioni politiche devono partire da quel che c’è per poter incentivare comportamenti virtuosi e scoraggiare quelli opposti. Nella direzione della lotta all’evasione è andata la scelta degli ultimi governi, e anche di questo, se è vero che Padoan stesso, tempo fa, aveva sostenuto che «la scelta di limitare la circolazione del contante e di procedere ad un progressivo abbassamento della soglia, è motivata dall’esigenza di fare emergere le economie sommerse per contrastare il riciclaggio dei capitali di provenienza illecita, l’evasione e l’elusione fiscale ». Ciò di cui il nostro Paese ha bisogno è quindi tornare alla Costituzione, la quale in un articolo solo ci ricorda che equità e legalità stanno insieme.
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Un'analisi inquietante ma corrispondente al vero delle complicità oggettive del rottamatore d'Italia. «Se a Renzi riesce di devastare il Paese, è perché in tanti ne sostengono variamente l’azione».
Il manifesto, 18 ottobre 2015
Dinanzi all’enormità di quanto sta accadendo occorre essere esigenti sul terreno analitico. Com’è possibile che tutto questo avvenga? Chi ne è responsabile?
Certo, Renzi è oggi l’incontrastato protagonista della scena politica italiana. Chi si è a lungo baloccato col mantra del politico «senza visione» riconsideri le decisioni assunte in questi venti mesi di governo .La buona scuola e il Jobs Act; le privatizzazioni e i tagli alla spesa sociale; il forsennato attacco al sindacato; il combinato tra Italicum e devastazione iper-presidenzialista della Costituzione; l’occupazione militare dei vertici Rai; lo scempio sistematico dei regolamenti parlamentari; lo sdoganamento di politici pluri-inquisiti.
Tutto questo non sarà «visione», sarà semplice istinto, ma di certo non è difficile leggervi una traiettoria lineare di stampo autoritario e thatcheriano.
Ma Renzi non è solo. Da solo o col solo cerchio magico dei Lotti e dei Delrio non potrebbe imporre al Paese il proprio disegno. Un discorso serio chiede a questo punto un’analisi attenta delle filiere di connivenza e di complicità che gli permettono di dilagare consolidando il proprio potere e trasformando pezzo dopo pezzo il sistema politico e gli assetti sociali del Paese. Il tutto senza colpo ferire: senza conflitti, senza resistenza né sostanziale opposizione su qualsivoglia terreno.
Per un verso questo discorso guarda in alto, ai mandanti interni e internazionali. Renzi piace ai poteri forti dell’imprenditoria privata, ai ricchi e ai grandi investitori, agli alti gradi della dirigenza pubblica. È gradito alle corporazioni professionali, ai corpi chiusi dello Stato, al possente esercito degli evasori fiscali. E va a genio, non da ultimo, alle centrali del potere europeo e atlantico, di cui non mette mai in discussione, se non a parole, interessi e scelte.
Ma nemmeno tutto questo basta. Il renzismo non è una dittatura, ricatti e intimidazioni non tolgono che le istituzioni funzionino ancora in base alla relativa autonomia di ogni singola articolazione dello Stato e della società civile. E la stessa grancassa mediatica senza la quale il regime imploderebbe non obbedisce ai dettami di un’occhiuta censura governativa. Insomma, i poteri alti suggeriscono e proteggono, ma neanche il loro appoggio da solo basterebbe a garantire al capo del governo le condizioni necessarie all’efficacia e alla continuità di un’azione a suo modo «rivoluzionaria», nel senso della sovversione dell’ordinamento democratico e costituzionale.
Dove guardare allora? Il suggerimento è quello di riprendere in mano l’ultimo libro di Primo Levi, scritto pochi mesi prima di por fine alla vita, un po’ il suo testamento spirituale. Ne I sommersi e i salvati i Lager sono considerati un laboratorio per l’analisi delle dinamiche di potere, un microcosmo in qualche modo corrispondente all’intera società tedesca. Ciò che colpiva Levi era il fatto che persino lì, nell’istituzione paradigmatica della violenza brutale e della negazione dell’umano, il potere funzionasse anche grazie al supporto di una parte delle sue stesse vittime. Che persino lì dove la ferocia del potere militare trionfava, l’ordine era garantito anche dall’obbedienza, la quale implicava a sua volta una qualche forma di consenso, di connivenza, di complicità.
In quel microcosmo «intricato e stratificato» si ripeteva «la storia incresciosa e inquietante dei gerarchetti che servono un regime alle cui colpe sono volutamente ciechi; dei subordinati che firmano tutto, perché una firma costa poco; di chi scuote il campo ma acconsente; di chi dice “se non lo facessi io, lo farebbe un altro peggiore di me”». In poche pagine Levi stilizza un’analisi delle motivazioni (corruzione, viltà, doppiezza, calcolo opportunistico) che inducevano la «classe ibrida» degli oppressi a collaborare con l’oppressore. In questo senso (e soltanto in questo) la «zona grigia» dei kapos e delle Squadre speciali del Lager corrispondeva a quella assai più vasta dei cittadini tedeschi (ed europei) che – senza l’attenuante dell’immediata minaccia della vita – sostennero il regime nazista, approfittarono dei privilegi che ne traevano e variamente cooperarono con i suoi crimini.
Lo schema è generale e le differenze, molto profonde, non ingannino. A giudizio di Levi il modello del Lager serve a individuare ingredienti costanti delle dinamiche di potere. Serve a capire come il potere operi anche in una società comandata da uno Stato totalitario. E serve a maggior ragione a comprendere come esso funzioni in un Paese democratico, dove la relazione politica è caratterizzata da un tasso di violenza incomparabilmente minore. Se ottenere consenso era necessario persino nel Lager, è evidente che senza consenso non si potrebbe governare una società come la nostra, dove il potere è costretto a fare un uso molto più parco della violenza e dove quindi è assai più complicato preservare le gerarchie costituite e i rapporti di forza.
Allora, per tornare a Renzi, dovremmo smetterla di farne la nuova incarnazione del demonio assolvendo in blocco chi gli permette di distruggere in allegria. Se a Renzi riesce di devastare il Paese, è perché in tanti ne sostengono variamente l’azione. I suoi compagni di partito di tutte le stirpi e a ogni livello in primo luogo, nonché quanti si ostinano nonostante tutto a votarlo. Gli alleati del suo Pd in seconda battuta, nelle amministrazioni e nelle varie sedi del sottogoverno. E poi i diversi segmenti della società civile – pezzi del sindacato e del mondo cooperativo; dell’associazionismo, dell’informazione e dell’intellettualità – che brillano per concorde silenzio come se, via Berlusconi, qualsiasi problema di democrazia e di giustizia sociale fosse per incanto risolto. È vero, ogni chiamata di correo è sgradevole, tanto più se indiscriminata. Ma la furbesca collaborazione col potere da parte dei subordinati e persino degli oppressi è addirittura scandalosa. E, giunte le cose al punto in cui sono, fare finta di nulla non ha proprio alcun senso.
Notizia interessante per quelli che invece del cervello hanno un portafoglio. «Il lavoro straniero vale 10 miliardi e paga le pensioni a 620 mila italiani. La Fondazione Moressa calcola il peso dei contributi previdenziali di oltre 2,3 milioni d’immigrati».
La Repubblica, 17 ottobre 2015
In Italia 620mila anziani devono ringraziare gli immigrati: sono loro a “pagargli” la pensione. Nell’ultimo anno infatti i lavoratori stranieri hanno versato ben 10,29 miliardi di euro in contributi previdenziali. Lo sa bene l’Inps: essendo prevalentemente in età lavorativa, i migranti sono soprattutto contribuenti. Non a caso, oggi la popolazione con più di 75 anni rappresenta l’11,9% tra gli italiani, solo lo 0,9% tra gli stranieri.
A pesare il tesoretto dei “nuovi italiani” è il Rapporto 2015 sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Leone Moressa, che verrà presentato il 22 ottobre a Roma.
Secondo le stime Istat, tra 10 anni gli stranieri supereranno quota 8 milioni, con un’incidenza del 13,1% sulla popolazione complessiva. Nel 2050, rappresenteranno un quinto della popolazione, mentre un italiano su quattro (23,1%) avrà più di 75 anni. «Dati che evidenziano il peso degli immigrati nel nostro Paese – sottolineano i ricercatori della Moressa – oggi, infatti, 1 italiano su 10 ha più di 75 anni; tra gli stranieri 1 su 100. In altre parole, nei prossimi decenni la popolazione italiana è destinata a invecchiare, mentre tra gli stranieri aumenteranno gli adulti in età lavorativa (oggi abbiamo 1 milione di minori)». E così già oggi il contributo economico dell’immigrazione si fa sentire soprattutto sui contributi pensionistici. «Contributi che vanno a sostenere il sistema nazionale del welfare (oltre alle pensioni, anche altri trasferimenti come maternità e disoccupazione) che si rivolge prevalentemente alla popolazione autoctona. Infatti, la voce “pensioni” è una delle voci principali della spesa pubblica nazionale e, vista l’età media, la popolazione straniera ne beneficia in misura molto marginale. Anzi, gli stranieri sono soprattutto contribuenti».
Grazie agli ultimi dati disponibili delle dichiarazioni dei redditi 2014 (anno di imposta 2013), la Fondazione Moressa fa una stima del contributo previdenziale dei nati all’estero. Nel tempo l’occupazione straniera nel nostro Paese è aumentata arrivando a quasi 2,2 milioni nel 2013 e 2,3 milioni nel 2014. Nel 2013 i loro contributi previdenziali hanno raggiunto quota 10,29 miliardi. «Ripartendo il volume complessivo per i redditi da pensioni medi, si può affermare che i lavoratori stranieri pagano la pensione a 620mila anziani italiani. Inoltre – scrivono i ricercatori – sommando i contributi versati negli ultimi cinque anni si può calcolare il contributo degli stranieri dal 2009 al 2013 pari a 45,68 miliardi di euro, volume sufficiente per una manovra finanziaria».
Non è tutto. Il Rapporto 2015 elenca altri aspetti dell’immigrazione che incidono sull’economia del Paese. Il primo riguarda il Pil prodotto dai 2,3 milioni di occupati stranieri: un valore aggiunto di 125 miliardi, pari all’8,6% della ricchezza nazionale. A livello fiscale, i contribuenti stranieri hanno dichiarato nel 2014 redditi per 45,6 miliardi, versando 6,8 miliardi di Irpef. E ancora: le imprese condotte da persone nate all’estero sono 524.674 (8,7% del totale) e producono 94,8 miliardi di euro di valore aggiunto. Nel periodo 2009/2014, gli imprenditori stranieri sono aumentati del 21,3%, mentre i nati in Italia sono diminuiti (-6,9%). «Infine – concludono gli studiosi della Fondazione – sebbene non sia possibile quantificare tutti i costi e benefici diretti e indiretti della presenza straniera, il confronto tra i flussi finanziari in entrata e in uscita aiuta a dare la dimensione dell’impatto economico dell’immigrazione: + 3,9 miliardi di saldo attivo per le casse dello Stato ».
Scava scava, i nemici più potenti di papa Francesco li trovi al vertice del potere globalizzato. C'era da aspettarselo.
La Repubblica, 14 ottobre 2015
LO chiamano «Papa argentino » per screditarlo. Per rimarcare la distanza, culturale e ideologica, fra loro e lui. Sono cardinali di curia e vescovi, certo, che tuttavia hanno dietro di loro anche gruppi di potere e di pressione precisi, consorterie fin dal 13 marzo del 2013 in-sofferenti verso il magistero sociale del Pontefice.
Per Nello Scavo, giornalista di Avvenire e autore di I nemici di Francesco (Piemme) appena uscito, gli avversari del Papa sono anche coloro che lo screditano cercando di metterlo a tacere. «C’è una battaglia ideologica - dice -, questo è vero, condotta anche in buona coscienza. Tuttavia, in questi anni, dentro la curia c’è anche chi ha provato a rifilare a Francesco qualche polpetta avvelenata. Oltre al Sinodo e al recente caso del teologo omosessuale Charamsa, c’è stata la vicenda di un progetto che prevedeva la costituzione da parte dello Ior di una Sicav - fondo di investimento a capitale variabile - in Lussemburgo. Il Papa se ne accorse all’ultimo momento e bloccò il progetto. Certo, non era niente di illegale, eppure l’immagine del Papa ne sarebbe stata compromessa. A significare che dentro c’è anche chi manovra per indebolire il carisma e la forza di Francesco».
Una tesi, quella di Scavo, che combacia, in parte, con quanto affermato da uno dei teologi sudamericani più vicini a Bergoglio, Leonardo Boff. Pur aperto sull’omosessualità - la visione dei vescovi che essa debba essere vissuta castamente «è riduttiva », ha affermato ad Oggi - il paladino della teologia della liberazione ritiene che dentro il Vaticano vi sia chi ordisce trappole contro il Papa. Boff pensa in particolare che dietro il coming out di Charamsa vi sia «una trappola montata dagli ambienti di destra nella Chiesa che si oppongono al Papa. Perché non lo ha fatto in modo semplice ma provocatorio, per creare un problema al Sinodo e a Francesco. Ostentare in quel modo la sua scelta, il suo compagno... Non si deve giocare per mettere il Papa alle strette».
Francesco dà l’impressione di sapere bene chi sono gli amici e chi i nemici. E che se c’è chi lo ama e lo segue, vi è anche chi farebbe volentieri a meno di lui. Nello stesso tempo, tuttavia, non vuole cedere alle teorie cospirative, all’idea che il Vaticano sia un covo di serpi. Eppure, spiega Massimo Faggioli, storico del cristianesimo alla University of St. Thomas a Minneapolis, «è questo il momento più visibile e temerario nella lotta condotta da parte dell’establishment ecclesiastico contro di lui». E ancora: «Fin dal marzo 2013 si era percepito il montare della resistenza al pontificato, e si sapeva che il Sinodo dei vescovi era il punto chiave. Il fatto che la lettera sia stata consegnata al Papa il 5 ottobre, primo giorno del Sinodo, è prova che si tratta di un’iniziativa coordinata ben prima dell’inizio dell’assemblea a Roma (ed è a questa iniziativa che Francesco rispose col discorso sulla “ermeneutica cospirativa” del 6 ottobre in aula sinodale). È anche chiaro che mentre Francesco era in visita in America, alcuni vescovi americani, tra un abbraccio e l’altro al Papa, stavano preparando contro Bergoglio un attacco che non si sarebbero mai sognati di fare contro i sinodi per finta di Papa Wojtyla e Papa Ratzinger». In sostanza si riferisce al caso del saluto ricevuto presso l’ambasciata di Washington da parte di Kim Davis, l’impiegata comunale del Kentucky che ha rifiutato la licenza matrimoniale a diverse coppie gay, e che per questo è stata arrestata. La Davis, e parte del mondo conservatore statunitense, ha fatto passare questo saluto come un appoggio papale alle sue battaglie anti gay.
Chi ha consegnato, e con ogni probabilità ideato, la lettera al Papa critica sui lavori del Sinodo è il cardinale australiano George Pell. Zar dell’economia vaticana, ha posizioni dure sulle aperture papali. Ritiene che concedere l’eucaristia ai divorziati risposati sia un male. Una posizione simile a quella di altri firmatari della lettera, fra cui il cardinale Robert Sarah per il quale pensare di dare l’eucaristia ai divorziati è opera del Maligno. La costituency di Pell è quella della finanza americana. Ritenuto vicino ai potenti Cavalieri di Colombo, quando deve tenere una conferenza va sempre al Pontifical North American College sul Gianicolo, il luogo in cui i circuiti curiali finanziari americani danno sfoggio di sé nella capitale. Così anche altri due cardinali firmatari della lettera: Daniel N. Di Nardo, arcivescovo di Galveston- Houston e vicepresidente della conferenza episcopale degli Stati Uniti, e Timothy Dolan, arcivescovo di New York e capo dei vescovi Usa.
Gran parte dell’opposizione mossa a Francesco viene dal mondo conservatore nord americano. È ancora Scavo, nel suo volume, a ricordare che a sostenere le battaglie dei “neocon” anti-Bergoglio ci sono uomini come Dick Cheney e capitali come quelli messi a disposizione dalla Halliburton. Scrive Scavo: «Bastano questi due nomi per farsi un’idea precisa degli ambienti “antipapisti” a stelle e strisce da cui partono alcuni degli attacchi a Bergoglio su vari fronti: economia, teologia, visione geopolitica ». Cheney è l’uomo ombra dell’American Enterprise Institute, di cui è stato vicepresidente e nel quale mantiene incarichi direttivi sua moglie Lynne, già consigliere d’amministrazione di Lockheed Martin, il principale produttore mondiale di sistemi di difesa: dai velivoli caccia ai missili a testata nucleare, dai radar ai blindati per il trasporto delle truppe.
Sulla rottamazione della Costituzione un commento di Norma Rangeri e la cronaca di Andrea Fabozzi.
Il manifesto, 14 ottobre 2015
La nuova Costituzione di Renzi e Verdini ha tagliato un importante traguardo. Con la benedizione di Napolitano. L’ex Presidente della Repubblica, «il vero padre di questa riforma», secondo la ministra Boschi, è intervenuto per benedire la sua creatura. In fondo riconoscendovi quella “grande riforma” disegnata da Craxi ai vecchi tempi della Prima Repubblica.
Con il voto finale alla prima lettura del progetto controriformatore si mette agli atti lo “spirito incostituente” che ha segnato questi lunghi mesi di forsennato attacco alla nostra Carta costituzionale. A partire dall’anomalia, sconsiderata, di essere una revisione della legge fondamentale originata non da un’iniziativa parlamentare, ma da una proposta di governo.
Anzi, e più precisamente, dalla volontà di un presidente del consiglio e “capo” di un partito i cui elettori non sono mai stati chiamati a pronunciarsi su questo progetto di manomissione della Costituzione.
Al consenso parlamentare e elettorale sono stati preferiti i patti del Nazareno e i successivi accordi con quei galantuomini di Verdini&Co. Con le continue, ripetute forzature dei regolamenti parlamentari dettati e piegati ai tempi imposti dall’esecutivo. Uno stravolgimento delle regole della discussione perfettamente coerente con i contenuti della riforma.
Principalmente finalizzata alla creazione di un premierato senza contrappesi, come in nessun paese europeo. Disegnato sulla silhouette di quello che nel suo intervento in dissenso dal gruppo del Pd, Walter Tocci ha definito «il demagogo che potrà fare quello che vuole».
Del resto, di essere il dominus anche del futuro potere legislativo questo presidente del consiglio se ne fa vanto («le riforme si fanno, l’Italia cambia, avanti tutta più decisi che mai»). Con motivazioni di bassa lega (meno senatori, meno costi della politica) e disprezzo per le minoranze, a cominciare da quelle del suo partito. Bersani e i fedeli della “ditta” hanno masochisticamente scelto di farsi umiliare fino a votare la trasformazione del Parlamento in cassa di risonanza dei piccoli Cesare. Di oggi e di domani.
La prima pagina del manifesto di ieri, con il documento firmato dai sei illustri costituzionalisti (Rodotà, Villone, Azzariti, Carlassare, Pace e Ferrara) è entrata nell’aula di palazzo Madama grazie alla senatrice di Sel, Loredana De Petris, che ne ha illustrato il senso davanti all’assemblea.
Il documento spiega perché e come, questa riforma, nell’abbinamento con la nuova legge elettorale, costituisce una torsione autoritaria delle istituzioni, in definitiva della democrazia parlamentare: «Uno stravolgimento dell’impianto della Costituzione del ’48, sulla sovranità popolare, sulla rappresentanza, sulla partecipazione democratica, sul diritto di voto».
Tuttavia ancora non è stata scritta la parola definitiva.Se si verificheranno le condizioni per poterci esprimere in un referendum, saremo chiamati, come già nel 2006, a una grande battaglia che potrà farci svegliare dall’incubo cancellando questo frutto avvelenato del renzismo.
Va comunque preso atto che il presidente del consiglio sta segnando punti a suo favore: grazie alla forza dei numeri e agli squallidi trasformismi, vince. Però non convince. Per lui contano le bandierine della conquista, come quelle che accompagnarono la marcia trionfale di Berlusconi. Ma Renzi sta facendo anche terra bruciata nel suo partito, perché ne sta distruggendo quel poco che resta della sua storia.
Centosettantotto voti, anzi 179 perché la campionessa Josefa Idem, appena rientrata dalla malattia, ha sbagliato a votare «e mi scuso per i giorni in cui sono mancata». È una maggioranza assoluta larga, 18 voti sopra la soglia che sarà obbligatorio raggiungere nella seconda e definitiva lettura della riforma costituzionale che il senato potrà fare a partire dal prossimo 14 gennaio. Se, com’è probabile, la camera non toccherà una virgola dei sei articoli del disegno di legge che dovrà riesaminare entro la fine dell’anno, sessione di bilancio permettendo.
Il governo è in trionfo, ma i numeri dimostrano che i voti dei transfughi del centrodestra sono indispensabili. A partire dal gruppo Verdini, con i suoi 13 senatori ieri tutti presenti, passando per la coppia ex forzista Repetti-Bondi, i tre su dieci del residuo Gruppo Gal fino ai due senatori che non mollano Forza Italia ma neanche Renzi. In tutto venti voti decisivi per scavallare la soglia di sicurezza.
Nel Pd la minoranza dei trenta che furono è stata completamente riassorbita.
E graziata da Calderoli, che non ha letto in aula gli sms degli ex barricaderi — il leghista ha rinnovato la minaccia: «Li metterò in un libro, ne ho ricevuti anche dal governo». Alla fine nel partito del presidente del Consiglio solo in quattro non hanno votato la riforma: Tocci e Mineo contrari, Casson astenuto e la senatrice Amati assente. Ma soprattutto è arrivato l’annunciato voto di Giorgio Napolitano, che ha spiegato di non essere intervenuto nei giorni del dibattito «perché mi è sembrato più appropriato». Ma quando si contano i voti, eccolo. L’ex presidente della Repubblica è l’unico senatore a vita a votare, l’altra presente, la senatrice Cattaneo da lui nominata, è contraria alla riforma e si astiene.
Lasciano così spazio a Verdini, il quale sa come si conquista l’attenzione. L’ex braccio destro di Berlusconi piomba dai banchi in alto a destra dove ha trincerato i suoi e si inventa un omaggio all’ex presidente, un saluto fatto di poche parole e molte fotografie. Nel frattempo tocca intervenire proprio ai verdiniani e prende la parola un senatore qualsiasi. Gli ex squalificati Barani e D’Anna non solo non parlano ma vengono fatti sedere in modo da non entrare nella diretta tv.
Quando tocca a Napolitano, che interviene a nome del gruppo delle autonomie al quale si è iscritto appena sceso dal Colle, spunta il senatore Scilipoti, disdicevole rappresentante del trasformismo quando il trasformismo era disdicevole. Ormai è l’ultimo dei berlusconiani e piazza sul banco di Napolitano, a coprirgli il testo dell’intervento, un foglio dove si legge «2011». Riferimento alla storia del «golpe» del Colle, Monti a palazzo Chigi al posto di Berlusconi. I commessi lo braccano, Scilipoti consegna il foglio, poi ne tira fuori un altro dalla tasca. E via così tre volte, fino a che si placa e Napolitano attacca. L’aula si fa silenziosa e anche piuttosto vuota, perché già i leghisti sono andati via sventolando costituzioni e olio di ricino, poi quelli del Movimento 5 sfilano in muta protesta per non sentire l’ex presidente. E nel silenzio comincia a squillare un telefono sugli abbandonati banchi leghisti, per cui i primi cinque minuti di Napolitano somigliano a quelli di C’era una volta in America. Fino a che il telefono tace e si può sentire Napolitano parlare di sé stesso, di quello che ha fatto al Quirinale, di quello che aveva detto nel primo giuramento, della commissione di saggi che aveva benedetto. Immediatamente dopo parla Quagliariello che è giusto uno di quei saggi e comincia — ce ne fosse bisogno — con una citazione di Napolitano.
Ma è proprio Napolitano che, inaspettatamente, avverte: «Bisognerà dare attenzione a tutte le preoccupazioni espresse in queste settimane in materia di legislazione elettorale e di equilibri costituzionali». Stiamo facendo una prova? È un invito a tornare indietro sulla legge elettorale che proprio lui ha battezzato? Un incitamento a tornare al premio per le coalizione? Fioriscono ipotesi, ma non è il caso di immaginare chissà quale piano. L’ex capo dello stato argomenta ormai da renziano. Questa riforma può non essere perfetta, riconosce il suo «padre» nel momento cui mette il sigillo, ma quello che ci ha fermato fino a qui «è stata la defatigante ricerca del perfetto o del meno imperfetto». Renzi avrebbe detto: «Si può essere o meno d’accordo su ciò che siamo facendo, ma lo stiamo facendo», e infatti l’ha detto.
A proposito di fare, appena completato il passaggio trionfale della riforma, il governo ha dovuto ammettere che alcune norme transitorie proprio non stanno in piedi. Invece di rinviare alla camera le correzioni, Grasso ha concesso di modificare il testo come «coordinamento». Rapida alzata di mano e via. Tutti ad abbracciare Napolitano.
Il giorno stesso in cui re Matteo vince la sua battaglia contro la Costituzione repubblicana, decide di rilanciare l'evasione fiscale. Accontenta così una parte consistente del suo popolo, scavalcando a destra il povero Silvio.
La Repubblica, 14 ottobre 2015
«Sono maturi i tempi per l’utilizzo della moneta elettronica. Incrementarla ha un impatto positivo sulla riduzione del sommerso e sull’evasione fiscale, oltre che sul costo di gestione del contante che è di 4 miliardi l’anno per il settore bancario e 8 miliardi l’anno per il sistema Paese». Parole precise e nette di Rossella Orlandi, direttore dell’Agenzia delle Entrate, pronunciate giusto un anno fa dinanzi alla commissione parlamentare di Vigilanza sull’anagrafe tributaria. «L’economia sommersa vale tra 255 e 275 miliardi e dunque tra il 16,3 e il 17,5% del Pil, sono dati preoccupanti», aggiungeva la Orlandi. «Il contante, in quanto mezzo anonimo e non tracciabile, alimenta le possibilità di sviluppare economia sommersa, di conseguenza la riduzione del contante rappresenta una delle chiavi per la lotta all’evasione». Più chiaro di così.
Eppure il governo Renzi triplicherà la soglia per il cash dal 2016. In un paese in cui l’82% delle transazioni e il 67% del loro valore si muove ancora sulla carta frusciante e in cui l’alfabetizzazione digitale e finanziaria stenta, ma cresce piano e andrebbe incoraggiata. «C’è resistenza», diceva la Orlandi. «Negli ultimi anni non abbiamo incrementato i sistemi di pagamento elettronico, mentre tutti gli altri paesi sì». Ricordando pure che i cittadini non traggono benefici dall’aumento della tracciabilità, «con poche eccezioni», e quindi non sono stimolati a strisciare carte e bancomat. O, in un futuro vicino, lo smartphone. L’eccezione sono i lavori in casa per ristrutturare o efficientare. I bonus generosi a loro abbinati, che scattano solo dietro bonifico parlante, hanno portato all’emersione di una base imponibile di tutto rispetto: 28 miliardi nel 2013, altri 28 miliardi e mezzo nel 2014, 24 miliardi previsti per quest’anno. La tracciabilità incentivata paga.
Perché allora la decisione del governo? Perché rinunciare «a una delle chiavi per la lotta all’evasione», al “pagare tutti per pagare meno”? «Servirà a dare una spinta ai consumi e sarà comunque tutto tracciato», si giustifica Renzi. «È ovvio che quanto più bassa è la soglia dell’uso contante, tanto più compli- cate sono le forme dell’evasione», ragiona Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze e del Tesoro. «Io l’avevo fissata a 100 euro quando ero nel governo Prodi e la porterei ora a 500 euro, il taglio massimo dell’euro. Ma il punto non è tanto il ruolo anti-evasione del tetto di tracciabilità, quanto per l’Italia il pericolo di riciclaggio. È da irresponsabili scherzare su queste cose, trovo questa decisione estremamente preoccupante ».
Molti invece esultano. Politicamente Ncd, Area Popolare e Scelta Civica, su tutti. Poi le categorie: Confesercenti, Confcommercio, Codacons, Federalberghi, Federgioco («consentirà ai nostri casinò di allinearsi con le case da gioco estero»), Federturismo («un segnale forte») e Confturismo. Invocano invece un ritorno allegro a evasione, riciclaggio, nero e sommerso sindacati e minoranza Pd. E gli italiani come la pensano? Secondo un’indagine Isfol Plus, condotta da Emiliano Mandrone, il 60% dei cittadini è disponibile ad abbandonare il contante, con un picco tra lavoratori dipendenti, laureati, benestanti, attivi socialmente e culturalmente. Anche Bankitalia, in diversi papers, sottolinea un legame indiscutibile tra cash ed economia sommersa. Tesi da sempre condivisa dal ministro Padoan che neanche dieci giorni fa esultava da Lussemburgo per l’accordo europeo sullo scambio automatico di informazioni: «Ci sono le basi per un forte recupero dell’evasione, di lotta all’elusione ». Nel mirino le multinazionali che lucrano vantaggi spostando sedi fiscali. E in Italia? Si alza la soglia.
Terribile l'oscuramento che i massmedia hanno gettato su un progetto, in corso d'attuazione che si propone di far prevalere le convenienze economiche delle imprese rispetto a tutte le regole che tutelano il lavoro, la salute, l'ambiente, la stessa democrazia. Per fortuna qualcuno reagisce.
Comune.info, 12 ottobre 2015
Sabato 10 ottobre 250mila persone provenienti da tutta Europa hanno dato vita a Berlino a una grande manifestazione aprendo così la settimana di mobilitazione internazionale contro il T-tip, il Partenariato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti, che Usa e Ue stanno negoziando dal luglio 2013.
Nei prossimi giorni centinaia di iniziative si svolgeranno in tutte le città d’Europa, mentre sono oltre 3,2 milioni le firme di cittadini consegnate alla Commissione Europea.
Si apre una fase decisiva per quello che si profila come il più grande trattato di libero scambio del pianeta, nonché il nuovo quadro legislativo globale, cui tutti, volenti o nolenti, dovranno conformarsi. La pressione delle multinazionali e dei governi spinge perché si arrivi ad una bozza di accordo prima che negli Stati Unitiinizi la campagna elettorale delle presidenziali (previste nel novembre 2016), e la recente approvazione dell’omologo negoziato sul versante Pacifico (Tpp) ha galvanizzato le truppe di quanti vogliono trasformare lo stato di diritto in stato di mercato e realizzare l’utopia delle multinazionali: unico faro della vita economica, politica e sociale devono essere i profitti, cui vanno sacrificati tutti i diritti del lavoro e sociali, i servizi pubblici, i beni comuni e la democrazia.
Il T-tip è solo l’ultimo di una serie di processi messi in moto dagli anni ’90 del secolo scorso, quando la caduta del muro di Berlino e la nascita dell’Organizzazione Mondiale del Commercio diedero un forte impulso alla globalizzazione neoliberale e resero stringente l’esigenza da parte delle grandi multinazionali e dei governi dei Paesi più ricchi del pianeta di costruire un accordo globale per la liberalizzazione assoluta degli investimenti in tutti i settori economici, consentendo alle multinazionali di dispiegare la loro azione a piacimento sull’intero pianeta, senza lasciare a governi e popolazioni alcuno strumento per condizionarne lo strapotere. Nacquero così in successione: il negoziato per l’Accordo Multilaterale sugli Investimenti (Mai) e l’Accordo Generale sul Commercio dei Servizi all’interno dellaWto (World Trade Organization), come pure, a livello europeo, la direttivaBolkestein; tutti tentativi falliti, grazie alla forte mobilitazione dei movimenti sociali globali, capaci di mettere in stallo l’intero sistema di grandi eventi per produrre grandi accordi. Da allora il quadro si è modificato e, nel tentativo di far rientrare dalla finestra quello che era stato buttato fuori dalla porta, governi e multinazionali hanno iniziato a produrre una miriade di accordi bilaterali o su piccola scala regionale.
Ed ora, approfittando della crisi economico-finanziaria globale, ritentano la scala più ampia: il T-tip, infatti, per la dimensione geopolitica – due continenti – ed economica – quasi il 60 per cento del Pil mondiale- vuole diventare l’accordo quadro, cui tutto il pianeta, volente o nolente, dovrà conformarsi. Il negoziato, che, nelle intenzioni di Usa e Ue, avrebbe dovuto concludersi nella più assoluta segretezza nel dicembre 2014, è in realtà ancora lontano dalla meta: il prossimo round, fissato nei giorni 19-23 ottobre a Miami, parte da un empasse su quasi tutti i tavoli di lavoro (dall’Isds, ovvero lo strumento di risoluzione delle controversie tra imprese e Stati, che darebbe alle prime un potere assoluto, ai capitoli sull’agricoltura; dai servizi pubblici alle normative sugli appalti), mentre di qua e di là dall’Atlantico cresce ogni giorno di più la mobilitazione sociale per il ritiro senza se e senza ma del trattato. E tuttavia il tentativo di regalare l’intero pianeta alle multinazionali è serio e verrà perseguito fino in fondo, perché è su di esso che si gioca la battaglia tra la prosecuzione di un modello in piena crisi sistemica e una drastica inversione di rotta. Infatti, le enormi masse di denaro accumulate sui mercati finanziari in questi decenni hanno stringente necessità di essere investite in nuovi mercati: da qui la drastica riduzione dei diritti sul lavoro e la necessità di trasformare in merci i beni comuni, costruendo business ideali, perché regolati da tariffe e flussi di cassa elevati, prevedibili e stabili nel tempo, con titoli tendenzialmente poco volatili e molto generosi in termini di dividendi. Un banchetto perfetto.
Ma con un problema: l’applicazione delle politiche di austerity, paese per paese e governo per governo, suscita ribellioni e mobilitazioni destinate ad aumentare nel tempo e a determinare possibili cambiamenti nel quadro politico, rendendo instabile l’intero continente europeo. Il T-tip serve esattamente a questo scopo: ade-storicizzare le politiche liberiste, trasformandole nel nuovo quadro giuridico oggettivo, all’interno del quale possono senz’altro convivere tutte le opzioni politiche possibili, a patto che non lo rimettano in discussione.
Per questo la battaglia per fermare il T-tip deve diventare prioritaria per tutti i movimenti: vincerla significherebbe infatti assestare un colpo mortale a questo disegno e iniziare a prefigurare la possibilità di un altro modello sociale. In Italia e in Europa.“O la borsa o la vita!” intimavano secoli or sono i briganti ai passanti che per sventura incappavano nella medesima direzione di marcia. “O la Borsa o la vita!” intimano oggi meno romantici e ben più feroci filibustieri del capitale finanziario internazionale. Si tratta semplicemente di scegliere la vita. Tutti assieme, la vita.
«Lettera del leader palestinese in prigione e Membro del Parlamento, detto il Mandela palestinese. “Nessun popolo accetterebbe di convivere con l’oppressione. È nella natura dell’uomo anelare, lottare, sacrificarsi per la libertà. E la libertà del popolo palestinese è in grave ritardo”».
Il manifesto, 13 ottobre 2015 (m.p.r.)
L’escalation di violenze non è cominciata con l’uccisione di due coloni israeliani, è cominciata molto tempo fa ed è andata avanti per anni. Ogni giorno ci sono Palestinesi uccisi, feriti, arrestati. Ogni giorno che passa, il colonialismo avanza, l’assedio del nostro popolo a Gaza continua, oppressioni e umiliazioni si susseguono. Mentre molti oggi ci vogliono schiacciati dalle possibili conseguenze di una nuova spirale di violenza, io continuerò, come ho fatto nel 2002, a chiedere di occuparsi delle cause che stanno alla radice della violenza: il rifiuto della libertà ai Palestinesi.
Alcuni hanno detto che il motivo per cui non si è raggiunto un accordo di pace è stata la mancata volontà del defunto Presidente Yasser Arafat o l’incapacità del Presidente Mahmoud Abbas, mentre sia l’uno che l’altro erano disposti e capaci di firmare un accordo di pace. Il vero problema è che Israele ha scelto l’occupazione al posto della pace ed ha usato i negoziati come una cortina di fumo per portare avanti il suo progetto coloniale. Tutti i governi del mondo conoscono questa semplice verità, eppure molti di loro fanno finta che un ritorno alle ricette fallite del passato ci potrebbe permettere di raggiungere libertà e pace. Follia è continuare a fare sempre la stessa cosa e aspettarsi che il risultato cambi. Non ci può essere negoziato senza un chiaro impegno di Israele a ritirarsi completamente dal territorio palestinese che ha occupato nel 1967 (tra cui Gerusalemme), una completa cessazione di tutte le pratiche coloniali, il riconoscimento dei diritti inalienabili dei Palestinesi, compreso il loro diritto all’autodeterminazione e al ritorno, la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi. Non possiamo convivere con l’occupazione, e non ci arrenderemo all’occupazione.
Ci si esorta ad essere pazienti e lo siamo stati, offrendo occasioni e occasioni per raggiungere un accordo di pace, dal 2005 ad oggi. Forse val la pena ricordare al mondo che, per noi, espropriazione, esilio forzato, trasferimento e oppressione durano ormai da quasi 70 anni e che noi siamo l’unico problema bloccato nell’agenda dell’Onu dalla sua fondazione. Ci è stato detto che se ci affidavamo a metodi pacifici e alla strada della diplomazia e della politica, ci saremmo guadagnati l’appoggio della comunità internazionale per porre fine all’occupazione. Eppure, come già era avvenuto nel 1999 alla fine del periodo di interim, la comunità internazionale non ha intrapreso alcuna azione significativa, come ad esempio costituire una struttura internazionale per applicare la legge internazionale e le risoluzioni dell’Onu, varare misure per garantire la responsabilizzazione delle parti, anche attraverso boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni, come era stato fatto per liberare il mondo dal regime dell’apartheid.
E allora, in mancanza di un intervento internazionale per porre fine all’occupazione, in mancanza di una seria azione dei vari governi per interrompere l’impunità di Israele, in mancanza di qualunque prospettiva di protezione internazionale per il popolo palestinese sotto occupazione, e mentre il colonialismo e le sue manifestazioni violente hanno un’impennata (compresi gli atti di violenza dei coloni israeliani), cosa dovremmo fare? Stare inerti ad aspettare che un’altra famiglia palestinese sia bruciata, che un altro giovane palestinese sia ucciso, che un altro insediamento sia costruito, che un’altra casa palestinese sia distrutta, che un altro bambino palestinese sia arrestato, che i coloni facciano un altro attacco, che ci sia un’altra aggressione contro il nostro popolo a Gaza?
Tutto il mondo sa che Gerusalemme è la fiamma che può ispirare la pace e che può accendere la guerra. E allora perché il mondo rimane immobile mentre gli attacchi israeliani contro i Palestinesi della città e contro i luoghi santi musulmani e cristiani – specialmente Al-Haram Al-Sharif – continuano senza sosta? Le azioni e i crimini di Israele non distruggono soltanto la soluzione dei due stati secondo i confini del 1967 e non violano soltanto la legge internazionale, ma minacciano di trasformare un conflitto politico risolvibile in una guerra religiosa senza fine che indebolirà ulteriormente la stabilità in una regione che è già preda di un disordine senza precedenti.
Nessun popolo della terra accetterebbe di convivere con l’oppressione. È nella natura dell’uomo anelare alla libertà, lottare per la libertà, sacrificarsi per la libertà. E la libertà del popolo palestinese è in grave ritardo. Durante la prima Intifada il governo di Israele lanciò lo slogan “spezza le loro ossa per spezzare la loro volontà”, ma, una generazione dopo l’altra, il popolo palestinese ha dimostrato che la sua volontà è indistruttibile e non deve essere messa alla prova.
Questa nuova generazione palestinese non ha aspettato colloqui di riconciliazione per incarnare quell’unità nazionale che i partiti politici non hanno saputo raggiungere, ma si è posta al di sopra delle divisioni politiche e della frammentazione geografica. Non ha aspettato istruzioni per sostenere il suo diritto, e il suo dovere, di opporsi a questa occupazione. E lo fa disarmata, di fronte ad una delle maggiori potenze militari del mondo. Eppure continuiamo ad esser convinti che libertà e dignità trionferanno, e noi avremo la meglio. E che quella bandiera che abbiamo innalzato con orgoglio all’Onu sventolerà un giorno sulle mura della città vecchia di Gerusalemme, e non per un giorno ma per sempre.
Mi sono unito alla lotta per l’indipendenza palestinese 40 anni fa e sono stato imprigionato per la prima volta a 15 anni. Questo non mi ha impedito di adoperarmi per una pace basata sulla legge internazionale e sulle risoluzioni dell’Onu. Ma ho visto Israele, la potenza occupante, distruggere metodicamente questa prospettiva un anno dopo l’altro. Ho trascorso 20 anni della mia vita, tra cui gli ultimi 13, nelle prigioni di Israele e tutti questi anni mi hanno reso ancora più convinto di questa immutabile verità: l’ultimo giorno dell’occupazione sarà il primo giorno della pace.
Coloro che cercano quest’ultima devono agire, e agire subito, perché si realizzi la prima condizione.
Il fallimento di un'iniziativa per la quale l'Italia era già inadeguata quando la fondarono. Figuriamoci adesso.
La Repubblica, 11 ottobre 2015
La Scuola nazionale della pubblica amministrazione si è inceppata di fronte a un ostacolo più grande di lei: la pubblica amministrazione. Dei 26 vincitori del VI concorso, che si è concluso a luglio 2014 dopo una selezione rigorosissima (per il bando arrivarono più di 10mila iscrizioni) e dopo un anno di formazione di alto livello, lo Stato è riuscito ad assumerne soltanto 9. Più o meno a casaccio, tra l’altro, pescando nella graduatoria finale senza seguire l’ordine del merito. Gli altri 17 sono finiti in coda, ad aspettare che vengano riassorbiti tutti i dipendenti in uscita dalle province. Nella peggiore delle ipotesi, se ne riparla tra un paio d’anni.
È andata così. Il concorso è stato indetto a giugno del 2012 e prevedeva che i vincitori, dopo adeguata formazione, venissero assunti in ruoli dirigenziali: 26 posti, appunto, numero a cui si arrivava a seguito della ricognizione fatta dal Dipartimento della Funzione pubblica in base alle esigenze di personale. Non è un caso, infatti, che le domande di iscrizione furono tantissime, superarono quota diecimila. Alla prova preselettiva, a febbraio 2013, si presentarono più di 4mila candidati. Dopo una durissima scrematura durata altre quattro giornate d’esame, è stata stilata la lista degli ammessi a seguire le lezioni nella più splendida delle cornici: la Reggia di Caserta. La Sna infatti ha una delle sedi proprio in alcune sale all’interno della Reggia, per quanto vitto e alloggio siano totalmente a carico degli studenti per i nove mesi di corso.
Il corpo docenti, poi, è notevole e, come tale, viene pagato: oltre a diversi professori di università (tra cui Michel Martone, ex viceministro del Lavoro, il cui compenso è di 59.000 euro), figurano il consigliere parlamentare in pensione Marcello Degni (59.000 euro), il dirigente di ricerca all’Istat Efisio Gonario Espa (106.000 euro), il funzionario del Parlamento europeo Sandro Mameli (135.000 euro), Alberto Heimler già direttore centrale dell’Autorità garante della Concorrenza e Mercato (173.000 euro) e Angela Razzino, dirigente generale dell’Inail (152.000 euro). Alcuni insegnanti – stando a quando raccontano gli studenti – si sono visti pochissimo dalle parti di Caserta. Infine c’è il presidente, il professor Giovanni Tria, che tra lo stipendio dell’università di appartenenza e l’indennità Sna arriva a prendere 217.271 euro.
Sono cifre di una certa importanza, tant’è che la scuola spende per la retribuzione dei professori 2,7 milioni di euro all’anno, esattamente quanto l’École Nationale, con la differenza che là devono formare non 26 ma 90 studenti. Il confronto dei bilanci è imbarazzante per la Sna, perché è vero che costa la metà rispetto all’Ena di Parigi (21 milioni contro 42), ma è anche vero che ha meno di un terzo dei posti.
Comunque, ad agosto dello scorso anno il dipartimento della Funzione pubblica ha finalmente comunicato con una nota la lista delle posizioni di qualifica dirigenziale nelle varie amministrazioni, spettanti a chi aveva frequentato la Sna. Davanti al documento, però, c’è da rimanere perplessi. Sono spariti senza spiegazione i posti più ambiti, cioè i quattro previsti nella struttura di vertice della Presidenza del Consiglio. Non solo. I due dirigenti da assumere al ministero della Difesa dovevano firmare il contratto al massimo entro marzo 2015 ma ancora sono lì che aspettano. Per tutti gli altri l’impegno che si è assunto per iscritto il ministero di Maria Anna Madia era quello dell’assunzione “entro il 2015”. In nove casi su ventisei, è stato mantenuto, anche se non si capisce in base a quale logica. Per gli altri, invece, la prospettiva è quella di una lunga anticamera.
“Al Dipartimento della funzione pubblica non ci vogliono nemmeno ricevere – sostengono i vincitori non assunti – circola voce che dovranno prima smaltire le migliaia di dipendenti delle province. Ma anche su questo non ci dicono niente di certo, continuiamo a chiamarli inutilmente”. L’inghippo, come nelle peggiori storie di burocrazia, è contenuto in un minuscolo comma. Nella legge di Stabilità, scorrendo l’articolo 1 si arriva al comma 425 che prevede, tra le misure di contenimento della spesa per il riordino delle Province, un divieto di assunzioni a tempo indeterminato, specificato meglio anche da una successiva circolare del ministro Madia datata gennaio. “La normativa però esclude i vincitori di concorso”, sostengono gli studenti della Sna, che intendono rivolgersi all’avvocato per fare ricorso. Dalla loro parte, anche la logica. “Se il divieto è previsto dal comma 425 – osservano - perché nove di noi sono stati presi?”.
Una sintetica illustrazione della condizione iniqua nella quale sopravvive il popolo palestinese. L'obiettivo non dovrebbe essere quello di rovinare la festa a chicchessia, si tratti pure di due sudditi dei poteri dominanti, ma di contribuire alla fine del massacro di un popolo. Il manifesto, 11 ottobre 2015
Privato di ogni diritto, relegato nei ghetti dei campi profughi in casa propria, guardato a vista dalle torre militari dell’occupante, separato dal Muro di Sharon — il primo edificato dopo il mitico crollo del muro di Berlino. E con una leadership ormai inascoltata perché incapace di corrispondere alle aspettative popolari. Quel popolo, che ha visto l’umiliazione dei propri capi storici come Arafat relegato dai tank israeliani nella Muqata e poi eliminato e come Marwan Barghouti che langue da anni nelle carceri israeliane, alla fine si è diviso e radicalizzato. Non nella forma a noi più consona, politicamente e socialmente ma, in assenza di una reale società civile, nelle modalità ideologiche del richiamano all’’Islam. Tema che, con i nuovi provvedimenti di Netanyahu e le ultime colonie israeliane — che ridisegnano anche la mappa dei luoghi religiosi di Gerusalemme est fino a impedire il diritto a pregare -, torna pericolosamente come l’unica bandiera. Ora una nuova generazione di giovani palestinesi è in rivolta. Ci si interroga se sia una nuova Intifada e i media, a dir poco disattenti alla tragedia dei Territori palestinesi occupati, preparano schede ammonendo da lontano sui risultati della prima e della seconda Intifada.
Certo non abbiamo mai visto una rivolta più disperata, mentre l’appello alla protesta generale viene dai leader di Hamas dalla Striscia di Gaza che ha subìto in questi anni tre guerre impari nelle quali dall’alto dei cieli la sua gente è stata massacrata sotto gli occhi distratti del mondo. È disperata questa rivolta perché il popolo palestinese si presenta a questo appuntamento ancora una volta spaccato e ridotto alla protesta individualizzata dei coltelli e quindi quasi suicida e perdente in anticipo. Sgomentano gli accoltellamenti dei coloni e le immagini dei giovani con il coltello in mano, ma nessuno s’indigna di fronte alle immagine dei carri armati, delle mitragliatrici o dei fucili dei soldati israeliani che sparano sui manifestanti.
Quelle armi sono «normali», ma sono di uno degli eserciti più potenti al mondo che occupa militarmente un altro popolo. Che ora, con una nuova generazione che scende in piazza, può far saltare gli equilibri fin qui disastrosi e criminali del Medio Oriente. Nessuno giri lo sguardo dall’altra parte. La questione palestinese irrisolta è all’origine dell’intera tragedia mediorientale: i profughi delle Palestina occupata, diventati milioni, hanno destabilizzato regni, pseudo– democrazie e regimi, dalla Giordania al Libano, alla Siria. Intanto Israele si è trasformato in poco meno di un regime integralista religioso d’estrema destra. Inoltre, prima che sia troppo tardi, com’è possibile dimenticare che l’argomento ideologico fondamentale quanto capace di alimentare odio, quello della «occupazione dei luoghi sacri dell’Islam», è il tema costitutivo di Al Qaeda e dello Stato islamico?
Due le vergogne da denunciare. Quella di Obama e quella dell’Italia renziana.
La Casa bianca ieri ha denunciato le nuove proteste palestinesi come «terroriste». È lo stesso presidente che al Cairo nel 2009 dichiarava di sentire «il dolore dei palestinesi privati del diritto alla loro terra». Sono passati sei anni ed è legittimo chiedere: al di là dell’accordo geostrategico con l’Iran, che cosa ha fatto realmente perché la condizione palestinese cambiasse, quali occasioni ha dato, se non sostenere la strategia di Benjamin Netanyahu che rilancia la colonizzazione della Palestina? Ma che farebbe il popolo americano se fosse occupato militarmente e disseminato di colonie?
L’altra vergogna è quella di Matteo Renzi, il governo più filoisraeliano della storia repubblica italiana. All’ultima seduta dell’assemblea generale dell’Onu si è dimenticato dell’esistenza della Palestina ridicolizzando il ruolo di Abu Mazen. Ora la bandiera della Palestina - che ha avuto perfino uno stand all’Expo - sventola all’Onu, ma si rischia la beffa perché quello Stato e quella terra non esistono. Renzi annuncia che farà un tour di propaganda nei teatri italiani per rappresentare la piece «quanto sono bravo». Roviniamogli lo spettacolo. Portiamo ad ogni suo appuntamento la bandiera palestinese: sventolarla nei Territori occupati per il governo israeliano è reato.
Una rassegna dello straordinario effetto di espansione a cerchi concentrici, del nostro principale contributo alla cultura della modernità, curioso considerando la posizione dell'Italia all'epoca.
La Repubblica, 11 ottobre 2015
Certo, il manifesto del 20 febbraio del 1909 scompaginò per sempre le carte. Il mito della velocità lì propugnato era come se avesse accelerato le reazioni. Subito prendono a inseguirsi le traduzioni. In romeno addirittura il giorno prima ! A marzo gli undici punti appaiono in Russia (il terreno era propizio). In aprile il manifesto esce in spagnolo a Madrid (tradotto da Gómez de la Serna), ma lo stesso mese il poeta Ruben Darío lo pubblica già a Buenos Aires. Ancora in aprile lo troviamo in croato, a maggio in giapponese. L’anno successivo è già in versione turca. È come se si fosse stuzzicato un alveare. Il tempo di riprendersi e cominciano a pullulare manifesti fuori dal controllo della centrale milanese. A Parigi esce un Manifestofuturista contro Montmartre (1913), nello stesso anno Valentine de Saint-Point presenta un Manifesto futurista della lussuria («Cessiamo di schernire il desiderio, distruggiamo i sinistri stracci romantici»), mentre sulla rivista Fantasio — dove Apollinaire aveva pubblicato il suo Cubismo culinario — appare un Manifesto della cucina futurista che prevede tra l’altro «uova in camicia nel sangue di bue». Intanto a Lisbona il pittore Almada-Negreiros — «ispirato dalla rivelazione di Marinetti» e abbigliato in una sorta di bizzarra tuta da pilota — declama nel ‘17 un Ultimatum futurista alle generazioni portoghesi del XX secolo .
E se nel ‘21 viene distribuito a Tokyo un più tradizionale volantino col Manifesto del gruppo futurista giapponese , in Polonia Bruno Jasienski e i suoi sodali lanciano un agguerrito Manifesto relativo all’immediata futuristizzazione della vita , che postula una «rapida tracheotomia» affinché «la vita e l’arte polacca» possano sopravvivere. Ormai non si potrà più dare inizio a qualsivoglia impresa artistica senza avere un proprio manifesto. E un nome da non sfigurare. Ricciotto Canudo stila un Manifeste de l’art cérébriste , in Cile sbuca un Manifesto del Runrunismo , a Porto Rico un Manifestoeuforista (vi si afferma con ponderazione «il poeta dev’essere un tonico per l’umanità, non un lassativo»), in Messico un Manifesto estridentista . E a questa foga non si sottrae certo il Manifesto antropofago delbrasiliano de Andrade che — stilato «l’anno 374° dalla deglutizione del Vescovo Sardinha» — propone di ingurgitare e metabolizzare la cultura europea.
Il futurismo ha rapidamente conquistato il mondo. Diffondendosi da solo, quasi per contagio. Marinetti ne è l’araldo e allo stesso tempo il testimonial. I suoi viaggi servono anche a marcare il territorio (come gli rinfacceranno i cubofuturisti russi, con abbondante volantinaggio). Il diagramma dei suoi spostamenti sembra la vorticosa pubblicità di un’agenzia di viaggi d’ampio respiro. Escludendo la Francia, dove aveva da tempo piantato le proprie radici, lo troviamo nel 1910 a Londra (contestato dalle suffragette), poi a Bruxelles, Mosca, Pietroburgo, Praga. Nel ‘26 dilaga in Sudamerica: Rio, Buenos Aires, Montevideo. In Argentina lo scrittore Subirat lo definisce un «fossile». Sulla copertina di un libro brasiliano campeggia una lastra tombale col suo nome. Ma a leggere le sue memorie, l’impatto era stato tale che a Bahia la gente — «in ricordo dei clamorosi trionfi del Futurismo» — prese a chiamare «Marinetti» gli autobus pubblici.
La sua presenza in scena è sempre elettrizzante. Quasi a contestare anticipatamente Ezra Pound che — stizzito dal suo tentativo di annessione degli avanguardisti inglesi — il mese successivo l’avrebbe definito «un cadavere», nel maggio del ‘14 Marinetti declama a Londra alcuni brani di Zang Tumb Tuuum munito di «martelli appositi» (per rendere «i rumori della fucileria e delle mitragliatrici »), tre lavagne a cui si avvicina veloce «per disegnarvi, in modo effimero, col gesso, un’analogia », e un telefono con cui imita i comandi dei generali turchi e dà a sua volta ordini all’addetto a due enormi tamburi, posto in una sala lontana.
Così il futurismo, «parola d’ordine di tutti gl’innovatori o franchi-tiratori intellettuali», gesto iniziale che — ben prima di Breton e dei surrealisti — accorcia la distanza tra le parole e crea immagini splendide e inattese, questa istigazione a trasformare la pagina in un libero campo di forze, produrrà in giro per il mondo fogli dalla fantasiosa impaginazione, varianti della «multiforme prospettiva emozionale» voluta da Marinetti, come le «poesie in cemento armato » di V. Kamenskij, dove lo specchio della pagina è diviso in spicchi autonomi di testo, o alcune tavole parolibere giapponesi dove, accanto ai tradizionali ideogrammi (in verticale), troviamo i «Bruuuun» onomatopeici a caratteri latini (e orizzontali), o il tripudio di lettere in libertà sulle pagine della commedia transmentale Lidantju il faro di Zdanevic, o la copertina di En avant Dada di Huelsenbeck con la sua illusoria fuga prospettica di parole. Un debito non sempre riconosciuto.
Nel ‘29, su ReD il boemo K. Teige fa ammenda di un decennio di reticenze sul futurismo: sulla copertina campeggia Marinetti in posa declamatoria in un disegno di Hoffmeister, ma la banda rossa di colore che lo copre come una toga svela in trasparenza sotto ai suoi piedi uno sgabello con due scarpette posticce, per guadagnare qualche centimetro.
Il premier turco Erdogan, fervido commilitone degli Usa, della Nato e dell'Unione europea, è alleato dell'IS, contro il quale Usa, Nato e UE digrignano i denti. Non è la guerra
dei curdi, ma contro i curdi. La Repubblica, 11 ottobre 2015
Dopo averli dispersi ai quattro venti, Iraq, Iran, Turchia e Siria, oltre che in una diaspora antica, la storia si è divertita a rimettere i curdi al centro della scena: una scena di guerra e terrore. La strage di ieri, per il numero di vittime, il luogo – la stazione- e il contesto elettorale, è famigliare agli italiani che ricordano che cosa volesse dire Strategia della tensione. La guerra civile tra l’esercito turco e il partito comunista e indipendentista curdo, il Pkk di Abdullah Ocalan, ha fatto dal 1984 quarantamila morti. Dopo una tregua nel 2013, e una serie di falsi movimenti negoziali, nel luglio scorso è tornata a divampare. La scintilla è venuta da Suruç, al confine con la Siria: un incontro di giovani socialisti turchi e curdi per Kobane è stato bersaglio di un attentato suicida che ha fatto 32 morti e decine di feriti. Il sedicente Stato Islamico l’ha rivendicato, ma i curdi e gran parte dell’opposizione hanno denunciato la corresponsabilità del governo.
Il retroterra era nel risultato elettorale di giugno, che aveva mortificato il programma del presidente Erdogan, grazie all’affermazione del Partito democratico dei popoli, Hdp, col quale per la prima volta un partito curdo entrava in parlamento, superando largamente la soglia del 10 per cento dei voti. L’Akp di Erdogan aveva mirato alla maggioranza assoluta per riscrivere la costituzione, ed era invece sceso dal 49 al 41 per cento. Dopo aver simulato di trattare per un governo di coalizione, Erdogan aveva cercato la rivalsa nelle elezioni anticipate, fissate al 1° novembre: così stando le cose le avrebbe perse, e il Hdp avrebbe migliorato il successo di giugno. La campagna elettorale è stata allora confiscata dalla guerra riaperta al Pkk, e soprattutto al Hdp, che Erdogan attacca come il travestimento parlamentare del “ terrorista” Pkk. Quest’ultimo è ancora nella lista delle formazioni terroriste per gli Usa e l’Europa, ma con le tortuose complicazioni esplose nella dissoluzione di Siria e Iraq. Il Pkk è infatti la casa madre del partito curdo-siriano, il Pyd, e del movimento armato, l’Ypg e l’Ypj (femminile), che difende eroicamente il proprio territorio e la propria esperienza di autogoverno. A Kobane, che di quella resistenza divenne il simbolo, i curdi furono a lungo soli mentre la Turchia chiudeva la frontiera ai soccorsi, e solo in extremis ricevettero il sostegno dei raid americani. I curdi-siriani sono ancora il nerbo di qualunque piano della coalizione per riconquistare Raqqa, la capitale siriana dell’Isis. Non è solo in Siria che i combattenti fratelli (sorelle, perché le donne vi si battono davvero alla pari) del Pkk sono alleati della coalizione, ma anche in Iraq, dove il Pkk in esilio ha da decenni stabilito la propria base sui monti Qandil, e dove le sue forze hanno avuto un ruolo decisivo nel fermare l’avanzata dell’Isis e nel soccorrere la fuga disperata di yazidi e cristiani di Mosul e Niniweh.
Ecco un primo groviglio: una componente essenziale dei “piedi per terra” della guerra all’Isis figura ancora nella lista del terrorismo internazionale. E la Turchia, che si è guardata fino a poco fa dal contribuire seriamente alla guerra contro il califfato, e a volte si è fatta prendere con le mani nel sacco a foraggiarlo, conduce dall’estate una vera guerra al Pkk, con continui bombardamenti aerei alle basi del Qandil, cioè in territorio iracheno, di fatto del Governo Regionale del Kurdistan. Il governo turco vanta di aver eliminato in meno di tre mesi 1.800 militanti del Pkk, il quale nega e a sua volta proclama di aver ucciso centinaia di militari e poliziotti turchi. Pesantissimo è comunque il bilancio di morti e feriti civili, migliaia di arrestati, città, come Cizre, devastate. Il calcolo dell’Akp è di riguadagnarsi, in una tensione così sanguinosa, i voti che l’Hdp aveva meritato, oltre che fra le altre minoranze etniche e civili, anche fra gli elettori turchi allarmati dalla smodatezza delle ambizioni di Erdogan. La sua equazione è: il Pkk è terrorista, e l’Hdp è il Pkk in maschera.
È un fatto che il Pkk compie attentati indiscriminati contro chiunque indossi un’uniforme turca. È un fatto anche che da anni Ocalan – che rimane, dal suo ergastolo, l’icona del Pkk - esorta a deporre le armi. (L’evoluzione del marxismo-leninismo di Ocalan è singolare: specialmente per un femminismo sfrenato, esposto tuttavia nello stesso linguaggio ortodosso che serviva per il classismo). È inoltre vero che fra Hdp e Pkk ci sono legami (anche un fratello di Selahattin Demirtas è fra i dirigenti del Pkk) ma l’Hdp sa di essere gravemente danneggiato dal ritorno alle armi e ha ripetutamente spinto il Pkk a una tregua anche unilaterale. Il Pkk a sua volta invita ad appoggiare nelle elezioni l’Hdp, nega di volere “la guerra” e afferma di combattere solo per autodifesa. Venerdì aveva rinnovato la richiesta di un cessate il fuoco, e ieri, dopo la strage di Ankara, l’ha dichiarato comunque. Quanto a Erdogan, una settimana fa aveva convocato a Strasburgo migliaia di turchi immigrati in Europa per esaltare il passato del sultanato, ripudiare qualunque mediazione con i “terroristi” curdi, e promettere di schiacciarli fino all’ultimo.
Tutto ciò avviene mentre i caccia russi violano lo spazio aereo turco, la Nato si dice pronta a inviare truppe, e l’altro nemico giurato di Erdogan, Bashar al Assad, si rimpannuccia. La posta del sangue di ieri e di quello che scorrerà non sono solo le elezioni turche, pure così importanti, ma la ragnatela di guerre dirette o interposte che copre il vicino (vicinissimo) oriente. C’è oggi nelle persone di cuore una simpatia per i curdi, per il loro valore di patrioti, per i colori del piccolo Alan, che l’infamia della strage di ieri – cantavano chiedendo di deporre le armi - rafforza, com’è giusto. Ma i curdi sono tutt’altro che uniti.
Nello stesso autonomo Krg, il Kurdistan iracheno, la disputa tra Pdk di Barzani e Puk di Talabani e Kosrat sul rinnovo della presidenza si trascina e fomenta ribellioni tanto più paradossali perché si svolgono in un paese che va al fronte pressoché tutti i giorni. Venerdì, manifestazioni di dipendenti pubblici – insegnanti in sciopero, sanitari…senza stipendio da mesi, si sono mutate in scontri violenti con quattro morti e parecchi feriti, nella città di Qaladize, a nord di Suleymanyah.