La Repubblica, 12 gennaio 2015 (m.p.r.)
Fuori, le ambulanze in coda. Dentro, le barelle nei corridoi, i medici e gli infermieri che corrono da una parte all’altra, i pazienti che si lamentano. Non è un fatto di latitudine, per una volta. Torino e Genova, Ancona e Roma, Napoli e Lecce, non fa differenza: i pronto soccorso in questi giorni sono in crisi ovunque. Arrivano tanti anziani con uno stato di salute già precario, indebolito dal freddo e dall’influenza e nei reparti ci sono pochi letti dove metterli. I loro casi si aggiungono al continuo viavai di persone con problemi banali che non hanno voglia di affrontare una lunga lista d’attesa per ottenere una visita e un accertamento radiologico (peraltro pagando il ticket) e chiedono risposte rapide alle strutture di emergenza. I cosiddetti «casi inappropriati»: pazienti che magari in questi giorni si presentano per il virus stagionale anche se non hanno nient’altro che la febbre. Evidentemente non vengono scoraggiati più di tanto dai ticket per i codici meno gravi disposto alcuni anni fa, perché spesso il costo è basso o la tassa non è richiesta. Paradossalmente, sono proprio i pazienti che si lamentano di più quando c’è un po’ da aspettare.
I pronto soccorso in Italia soffrono di vari mali che non si riescono a curare. E così si allargano, diventando una parte sempre più significativa degli ospedali, impegnati anche con i reparti di degenza magari destinati ad attività programmate a dare risposta ai casi urgenti. Ma non basta, perché in certe giornate è il caos. In un policlinico si possono vedere anche 200 - 250 pazienti in ventiquattr’ore. Uno ogni 5 minuti. Chi aspetta si lamenta, ma anche chi lavora è in grave difficoltà. Due giorni fa il caposala del pronto soccorso del Martini di Torino, dopo un turno duro di 12 ore ha avuto un’emorragia celebrale. «Il lavoro è molto stressante per il personale. Ormai i dipartimenti di emergenza sono presi da molti come unico punto dove curarsi - dice Ornella Di Angelo, della Funzione pubblica Cgil - In particolare il territorio non è in grado di seguire le persone, in molte Regioni, come il Lazio, le tanto attese case della salute non sono mai partite. E così arrivano tutti in ospedale. Se ci mettiamo che il turn over è bloccato da tempo, e quindi il personale infermieristico è scarso, oltre ad essere piuttosto in là con l’età, abbiamo una miscela esplosiva. Andrebbero cambiate le regole».
È necessario intervenire anche secondo Alfonso Cibinel, presidente della Simeu, la società scientifica della medicina di emergenza urgenza e primario all’ospedale di Pinerolo. «Va rivisto il rapporto tra ospedale e territorio. Se quest’ultimo funzionasse meglio e ci fosse più coordinamento, troverebbero migliore accoglienza i pazienti in uscita e dalle nostre strutture e magari arriverebbero anche meno casi. Siamo un faro che rimane sempre acceso e per questo attiriamo tutti. Persone con problemi gravi, ma anche banali. Queste ultime sono circa un terzo dei pazienti che vediamo. Dobbiamo trovare il modo di ridurre il loro numero, anche se in questo periodo siamo molto impegnati su chi sta male davvero. Solo loro che dobbiamo curare, è per loro che dobbiamo trovare un letto in un reparto ».

La Repubblica, 12 gennaio 2014 (m.p.r.)
IL mondo è diventato troppo complicato per essere tenuto in ordine. Questa è l’unica considerazione obbiettiva, di fronte non solo alla tragedia di Parigi, ma anche alle tante stragi lontane da noi, da cui allontaniamo l’attenzione appena ne apprendiamo l’esistenza. Il mondo è in subbuglio e non esiste visione, teoria, algoritmo capace di risolvere le incognite. Non siamo sicuri nemmeno di quali le incognite siano. Ancora Parigi: fanatici che credono di difendere l’onore offeso del Profeta; rete terroristica di Al Qaeda che deve farsi sentire per non finire oscurata dall’Is; inizio di strategia generale, per scardinare l’ordine dell’Occidente; mossa intimidatrice contro la politica francese nella complicata e spesso indecifrabile galassia di forze nel mondo arabo. Le contraddizioni scoppiano qua e là, per ora perifericamente ma sempre più numerose, e minacciano scoppi più grandi. Vacilla il pensiero, ancor prima che l’azione.
La teoria politica ha riflettuto sul rapporto tra «forme» e «spazio» del governo. La democrazia, ad esempio, è adatta alle piccole dimensioni; l’autocrazia, alle grandi. Così pensava Montesquieu. Nel mondo odierno in cui tutto circola, non è nemmeno più problema di forme di governo, ma di governo tout court. Il mondo è una grande scorribanda: poteri economico-finanziari e tecnologici mossi da inesausta e cieca volontà di potenza; organizzazioni criminali che controllano interi settori di attività illegali; circolazione illimitata di armi micidiali che alimenta conflitti. Il mondo è una polveriera dove civiltà umiliate nei secoli cercano rivalse; dove storiche rivalità etniche e tribali sono libere di riesplodere; dove fedi politico-religiose che erano confinate nel premoderno riemergono con la loro carica d’intransigenza e d’intolleranza. Il mondo, che la globalizzazione ha reso uno, si sta disgregando in contraddizioni non più tenute sotto il controllo da un qualunque ordine mondiale, fosse anche l’ordine assicurato dall’«equilibrio del terrore». Il terrore s’insinua capillarmente e anarchicamente nelle aggregazioni umane che chiamiamo «nazioni» dove l’insufficienza di politiche e culture integratrici produce vite infelici, sbagliate e senza radici: facili vittime del fascino perverso della violenza riscattatrice.
Massima estensione uguale massima debolezza. La legge del «gradiente della perdita della forza» dice che, mano a mano che ci si allontana dal centro, cresce l’anarchia. Pare unità ed è Babele, il cui mito viene a proposito come monito: l’impresa smisurata rovina su se stessa e coloro che vi lavorano si disperdono nel marasma. Tutti i regni malati di gigantismo si sono dissolti: l’impero persiano, macedone, romano, mongolo, ottomano, giapponese, russo, giapponese, ecc. Questo è accaduto pur quando governi centrali dispotici esistevano. Immaginiamo quando un governo nemmeno esiste: qui la debolezza è massima e il disordine e la violenza si diffondono indifferentemente tra quelli che continuiamo a considerare centri del mondo (New York, Londra, Madrid, Parigi, ecc.) e periferie (Palestina, Sudan, Nigeria, Siria, Egitto, Turchia, paesi del sud-Asia, ecc. ecc.).
Gli ottimisti della globalizzazione credono che le tante forze in campo finirebbero per disporsi in un assetto naturale, determinato dal libero gioco reciproco degli interessi. La nascita spontanea delle istituzioni e dell’ordine sociale è un fenomeno ben noto, con riguardo soprattutto ai fatti economici, dove dovrebbe valere la razionalità degli attori. Non sempre, però, le cose funzionano così. Soprattutto non funzionano quando i soggetti da integrare sono di natura diversa (economica, culturale, etnica, religiosa), sono troppo numerosi e le motivazioni e gli impulsi degli uni sono sconosciuti e imprevedibili per gli altri. Il gioco delle aspettative razionali circa i comportamenti reciproci - gioco da cui nasce l’ordine spontaneo - è impossibile, tanto più quando si contrappongono valori sostanziali, come si usa dire, non negoziabili. C’è poco da stupirsi se la globalizzazione anarchica non ha portato al massimo della razionalità, ma al massimo dell’irrazionalità. Non ha promosso la pace, ma ha diffuso la violenza.
Il mondo, così, è diventato una grande incognita, un grande rischio. Le nostre società sono vulnerabili, anche sul piano psicologico. I nervi sono a fior di pelle. Poiché, però, non possiamo rimettere indietro le lancette della storia e sognare impossibili, romantici ritorni alle «piccole patrie» o agli «stati nazionali chiusi» e alle loro sicurezze, dobbiamo rassegnarci ad affrontare le conseguenze di quello che è il nostro momento storico, preparandoci. È difficile e doloroso ammetterlo: i morti di Parigi e le centinaia e migliaia di morti che li accompagnano in ogni parte del mondo non sono né saranno anomalie. Sono conseguenza del mondo che abbiamo costruito e che ora si rivolta contro di noi modellando, alquanto spaventosamente, le nostre vite.
Prepararci: sì, ma a che cosa? A difenderci, naturalmente. Difendere che cosa di noi? La vita e la sicurezza, innanzitutto, e il nostro mondo di principi e valori di libera convivenza, senza i quali perderemmo noi stessi. Questo dicono tutti. Ma, difenderci con che mezzi? Il tema che già si è imposto nei discorsi politici è la guerra, qualunque cosa questa parola possa significare nella situazione in cui ci troviamo. Siamo solo all’inizio, perché su questa parola si giocano interessi politici ed elettorali che fanno leva su istinti e divisioni primordiali: amico-nemico, scontro di civiltà. Anzi, civiltà contro barbarie. Davvero siamo come a Poitiers nel 732, a Vienna nel 1529, a Lepanto nel 1571? Basta porre la domanda per comprendere che parlare di guerra è un puro nonsenso. Serve solo a mobilitare irrazionalmente l’opinione pubblica interna, per ragioni di lotta politica, come stanno facendo i partiti e i movimenti nazionalisti xenofobi che speculano sulla paura e illudono con la promessa che «la guerra» sia la risposta risolutiva.
Questa generica parola d’ordine - a parte l’orrore della leggerezza con la quale è usata - vale soprattutto come argomento per vincere le elezioni, contro avversari politici interni, accusati d’essere pusillanimi, opportunisti, traditori dei valori occidentali, se non addirittura conniventi con i terroristi. Ma, rispetto al contrasto del terrorismo, è così difficile comprendere quale pericolo essa racchiude? Il primo effetto d’una guerra dichiarata genericamente contro l’Islam sarebbe di compattare in un unico fronte nemico gli islamici che vivono nei nostri Paesi e che, bene o male, vi si sono integrati. Sarebbero questi le prime vittime: atti di violenza nei loro confronti; e sarebbero nuove reclute: atti di violenza come ritorsione. Odio su odio. Se ci si vuole imbarbarire e dare argomenti all’islamismo presso persone che ne sarebbero immuni, questa è la strada sicura.
Quando si chiede, piuttosto provocatoriamente, a un islamico che vive pacificamente nei nostri Paesi di dissociarsi dal terrorismo, questi ha buon gioco nel rifiutare la provocazione rispondendo di non avere nulla di cui scusarsi, da cui prendere le distanze, perché il suo Islam è pacifico e lui, islamico, ha col terrorismo lo stesso rapporto che ha ciascuno di noi, cioè nessun rapporto di vicinanza. Ma, se fossimo proprio noi a equiparare nella stessa categoria del nemico gli islamici come tali, come crederemmo ch’essi si schiererebbero? Con noi, contro l’Islam, o con l’Islam, contro di noi? La campagna per la guerra è una formidabile propaganda per l’arruolamento all’Islam violento, un regalo ai nostri nemici, il cui obiettivo è il compattamento integralista di tutto l’Islam.
Questo è il momento della ragione, e la ragione dice non guerra, ma controlli, indagini e azioni di polizia. Tra azioni di guerra e azioni di polizia c’è la differenza che le prime sono rivolte indifferenziatamente contro «il nemico » e le seconde, selettivamente, contro i delinquenti, le loro organizzazioni, i loro addestratori e finanziatori. S’è già detto della debilitazione del governo nel gigantismo politico. Troppe contraddizioni, troppi interessi particolari impediscono un’azione efficace di polizia mondiale e, a maggior ragione, azioni militari dirette a distruggere le basi di reclutamento e addestramento dei terroristi. C’è sempre qualche governo che ha interessi geopolitici suoi propri, che impediscono azioni comuni. Molte volte si sono visti governi appoggiare e armare opportunisticamente la violenza in altri Paesi, pensando di usarla per i propri fini, salvo pentirsi quando il terrore si è ritorto contro di loro.
Riprendiamo l’osservazione iniziale: lo spazio troppo grande pregiudica l’efficacia del governo; lo spazio giusto è quello che non include interessi contraddittori. Gli Stati europei, almeno sulla loro sicurezza, possono superare le rivalità. Alla globalizzazione del terrorismo l’Europa si contrapponga come regione che cerca sicurezza e pace.
Corriere della Sera, 12 Gennaio, 2015
Ventenni e trentenni ieri si sono resi conto che l’Europa libera non è un gentile omaggio: qualcuno l’ha costruita per loro, ora devono mantenerla. Devono mantenerla con amore e precisione. Senza intolleranza, ma con intransigenza. Questa è la loro guerra. Una guerra lunga, che dovranno combattere con intelligenza, pazienza, fermezza.
Erano molti, ieri nelle strade di Parigi, i nuovi Europei. Nati dopo il 1980, informati e connessi, con una debolezza, forse: pensare che la pace fosse per sempre. Che una volta conquistata, la si potesse amministrare, come un condominio. Non è così: ogni generazione deve meritarsi la sua pace.
Quella contro il totalitarismo religioso, e per la libertà, è la guerra dei nostri figli. Una guerra a puntate, coma ha intuito papa Francesco. La prima l’11 settembre 2001; la più recente a Parigi, nei giorni scorsi. E non sarà l’ultima, purtroppo. Gli americani hanno i Millennials; noi, la generazione Erasmus. Una generazione per cui l’Europa è viaggi, studi, amori, scambi, comunicazioni. Una generazione amareggiata per il lavoro che spesso non c’è; ma fortunata, per quello che ha potuto fare, vedere e condividere. Una generazione cui, forse, mancava una grande prova. È arrivata.
La generazione dei nostri padri ha sofferto le grandi dittature europee, e le ha viste implodere, una dopo l’altra. La nostra generazione ha conosciuto da vicino il comunismo e l’ha osteggiato, quando l’ha capito. La generazione dei nostri figli si trova di fronte a una sfida completamente nuova. Ce la farà, a disinnescare l’attacco del fondamentalismo? Probabilmente sì. E ci insegnerà qualcosa. Le piazze non vanno mai sopravvalutate: il giorno dopo sono ridotte a fotografie e cartacce che volano. Ma quello che si è visto ieri a Parigi era impressionante. Una città - in rappresentanza di un Paese, di un continente e del mondo libero - che diceva: basta così. Queste sono le nostre trincee politiche, giuridiche, morali, mentali. Non si uccide per un’opinione o un disegno, magari sgradevole. Nessuna religione, nessuna convinzione, lo autorizza. Chi sostiene il contrario non è un dissidente: è un assassino.
Affermazioni ovvie? Certo. E allora perché abbiamo aspettato tanto a pronunciarle, tutti insieme? A mettere un po’ di orgoglio nella difesa della società che abbiamo costruito, un’area di libertà senza uguali sul pianeta? Non è ingenuo pensare che la nuova, giovane Europa abbia capito la lezione. L’abbia capita nel modo più duro, e ce la stia già insegnando. Vedere cinquanta capi di Stato e di governo tutti insieme, uniti in nome della libertà e non impegnati a litigare sul deficit al 3%, è consolante. Quelle foto di gruppo le abbiamo viste sulle spiagge della Normandia, davanti alle trincee nelle Ardenne, in visita ai campi di concentramento. Stavolta i nostri leader erano insieme contro i nemici della libertà, attaccata in nome di una religione.
Con loro a Parigi hanno sfilato, in silenzio, due milioni e mezzo di persone. Ognuna, ci auguriamo, ne rappresentava altre duecento: tanti siamo, in Europa, da Lisbona a Tallin. Cinquecento milioni. Siamo diversi, abbiamo governi e tradizioni diverse, ma anche un evidentissimo comun denominatore. Avendo provato - ed esportato - l’orrore delle dittature, da settant’anni crediamo nella democrazia, nella libertà di espressione, nello Stato di diritto. I governi che provano a discutere questi principi vengono tenuti ai margini (Turchia) o guardati con sospetto (Ungheria).
La bellezza della salute si capisce dopo una malattia. La normalità quotidiana si apprezza dopo un brutto incidente. L’Europa, dopo l’eccidio di Parigi, capirà che cos’ha rischiato dividendosi, distraendosi, ingannandosi? Forse sì. E lo capirà - ripetiamo - perché la maggioranza dei nuovi europei inizia a capirlo. In piazza a Parigi, a scuola a Milano, in ufficio a Londra, nei bar di Varsavia e Madrid. Ventenni e trentenni si sono resi conto che l’Europa libera non è un gentile omaggio: qualcuno l’ha costruita per loro, ora devono mantenerla. Come ogni casa. Come ogni cosa.
Devono mantenerla con amore e precisione. Senza intolleranza, ma con intransigenza. Non sono sinonimi, i due vocaboli. L’intransigenza è la qualità dei forti; l’intolleranza la scusa dei deboli. Gruppi e personaggi che, a preoccupazioni giuste, danno risposte sbagliate. Da una parte, gli ortodossi del multiculturalismo, convinti che tradizioni e religioni stiano sopra la legge. Dall’altra, teologi del fine settimana, per cui la fede islamica è incompatibile con la democrazia. Populisti aggressivi che sognano espulsioni di massa. Guerrafondai da scrivania che ripropongono, anni dopo, le ricette fallimentari dei neocon americani.
Stiamo in guardia: non lasciamoci ingannare. Non è dichiarando guerra al mondo che il mondo si conquista. È invece stabilendo buone regole, rispettandole e facendole rispettare. È la scommessa della giovane Europa. La vincerà.
Il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2015 (m.p.r.)
Molti sono stati colpiti dalla coincidenza di due fatti di sangue orrendi e lontani: la strage a Parigi nella redazione di un giornale giudicato blasfemo (dodici morti in una stanza, e l’altro evento di sangue francese). E il massacro di almeno duemila persone portato a termine in poche ore, fra villaggi e campagne, al confine con la Nigeria, da due diverse unità militari addestrate e armate di un nuovo fondamentalismo islamico, nel primo caso un commando, nel secondo un esercito. Emergono due capi, Al Baghdadi e Boko Haram, che proclamano due Califfati. Vuol dire dominio assoluto, l’uno dal Medio Oriente verso l'Europa, l’altro dal centro dell'Africa verso il mondo.
Non sappiamo nulla dei rapporti fra i due potentati al momento, ma sappiamo che i due potentati esistono e che la loro minaccia non è di parole. Al Baghdadi domina una parte dell'Iraq e della Siria, con capitale Mosul. Boko Haram (che, ricorderete ha esordito con il reclutamento forzato di bambini per il suo esercito, e poi con il rapimento di duecento giovanissime studentesse da “convertire” all'islamismo) è il padrone di villaggi, città e campagne in tutta la parte nord della Nigeria su cui impone e mantiene un potere di sangue. Se rileggete le righe di riassunto della situazione che precedono, noterete che, a prima vista, niente è nuovo o diverso dalle storie di violenza a cui la storia contemporanea ci ha abituato ai margini dell'impero. Anche la grande minaccia, ormai varie volte realizzata, a partire dall'11 settembre, di colpire dentro l'impero, è causa di una continua paura, ma non è più un fatto nuovo. Ciò che è nuovo è l’emergere in posizioni di comando assoluto di nuovi personaggi che sono totalmente liberi di annunciare e poi di realizzare iniziative di una folle violenza, perché non appartengono ad alcuna classe dirigente del passato, rappresentano in modo arbitrario e autodefinito, valori ambigui che non devono giustificare ma solo proclamare. E così nasce un presunto Islam fondamentalista che è un’ottima trovata per disorientare i credenti di quella fede, e una buona mossa per chiamare alla guerra credenti altrettanto finti di un presunto mondo cristiano.
Ma è avvenuto qualcosa di nuovo persino rispetto ai tempi finiti da poco con una irruzione di “teste di cuoio” e l’uccisione di Osama bin Laden. È avvenuto un cambio di classe dirigente che improvvisamente si è autoassegnata la guida degli insorti di un mondo di autoproclamato fondamentalismo islamico, e che in realtà raccoglie tutte le ribellioni estreme lungo la linea non negoziabile di “rivincita” e “riconquista”, dopo la guerra in Iraq e le sue moltissime vittime, ma anche di “diverstà” inventata e sostenuta come tale dal pregiudizio europeo.
Che cosa intendo per “nuova classe dirigente”? e come mai lo stesso fenomeno si manifesta con la stessa forza distruttiva e apparentemente cieca, dal Medio Oriente al cuore dell'Africa? Forse la spiegazione è questa. Fino a un momento fa occupanti e resistenti, invasori e ribelli, dominatori e dominati, erano guidati, allo stesso modo, dalle classi colte e dall'apparato dirigente, dai gruppi sociali delle parti in causa. Questo fatto non ha mai evitato durezza, crudeltà e violenza anche estrema. Ma disponeva di strumenti di comunicazione e di intesa reciproca, in caso di necessità. E le due parti avverse cercavano, ciascuna in modo diverso, comprensione e sostegno in altre culture e altri Paesi del mondo.
Al Baghdadi e Boko Haram rappresentano un nuovo tipo di dirigente rivoluzionario che, tra le classi dirigenti del proprio ambito, o del mondo, non cercano e non chiedono niente. Non vogliono comprensione e non offrono giustificazione. Le loro radici sono altrove, nel tempo (che è evidentemente un mitico passato); nei luoghi, che sono vissuti come del tutto privi della struttura civile e organizzativa iniziata col colonialismo e poi divenute abituali; nei rapporti umani, che cercano in basso, e nella appartenenza concepita come ubbidienza e sottomissione; nelle regole, che sono libere da ogni codice e dettate solo da opportunismo spettacolare e da efficacia emotiva, dando e ricevendo il senso di un potere che non deve trattare condizioni o sottostare a doveri.
Ma un altro cambiamento drammatico segna questo ultimo periodo di vita politica internazionale. Dal punto cruciale dell’equilibrio mondiale escono gli Stati Uniti, che avevano e hanno pur sempre un potere sproporzionatamente grande. Ed entra la debole e divisa Europa, che non ha una politica e non ha una guida, ma appare come unico guardiano e garante delle regole del gioco.
Il cambio della guardia non è stato pianificato o voluto. Accade perché gli Usa hanno ritirato le loro opzioni di guerra. Accade perché lo sconvolgimento e il cambiamento di classe dirigente del Medio Oriente e dell'Africa ricadono fatalmente sull’Europa e sugli europei, come ha dimostrato la vicenda francese. In ogni caso le ragioni del cambio della guardia contano poco. Conta che sia avvenuta. E colpisce l’inadeguatezza dell'Europa unita e delle sue istituzioni di fronte al compito di reggere l'equilibrio del mondo libero, e di tenere a bada le pulsioni violentemente aggressive. È questa situazione che ha dettato le pagine, controverse e apparentemente solo provocatorie del libro Soumission di Houellebecq: una Francia che si arrende, diventa islamica ed elegge un presidente islamico. Houellebecq non ha tenuto conto di Papa Francesco.
Non è un difensore, è un testimone. Con un compito più difficile del suo predecessore. Infatti la follia, come un incendio pericoloso, sembra venire da una parte e dall'altra, dalla “nuova classe dirigente” islamica disposta a tutto, e dal gruppo Le Pen-Salvini, altrettanto privo di scrupoli pur di esibirsi. Il compito di Francesco è grande e impossibile. Ma in Europa Francesco, al momento, è l’unico leader.
Jorge Maria Bergoglio
Ansa
Lontani dall'occhio, lontani dal cuore. Africa, Nigeria: «Il gruppo terrorista continua ad espandersi. Cresce di numero, come crescono gli ostaggi che cattura nei villaggi e che schiavizza». L'Avvenire, 11 gennaio 2015
Cento, duecento, duemila. Sui numeri dell’ultimo massacro a Baga forse, non si avrà mai certezza. Certo è invece che Boko Haram ha ormai costruito con il sangue il suo Califfato islamico. Con propaggini che si spingono in Niger e Camerun dal Nord della Nigeria. Con decine di migliaia di persone in fuga, villaggi devastati e persecuzioni.
Una situazione che nessuno sembra vedere. O meglio, in pochi vedono il filo di sangue che corre verso Nord. Attraversa il Maghreb, a forte presenza qaedista, e punta dritto verso ciò che chiamiamo Occidente, Europa, Parigi. In estate, a pochi mesi dal sequestro delle oltre duecento studentesse a Chibok, la mobilitazione fu totale. Sul Web divenne virale il motto “bring back our girls”, e nei fatti molti governi offrirono collaborazione di intelligence al presidente Goodluck Jonathan, Stati Uniti in primis.
Mai hanno però potuto operare e uno dopo l’altro hanno dovuto ripiegare. A poco meno di due mesi dalle elezioni presidenziali, il leader nigeriano sembra sempre più chiuso in se stesso. Il suo omologo del Camerun, Paul Biya, invoca un’azione globale, chiede un intervento internazionale davanti alla sfida lanciata dai qaedisti anche al suo Paese. Ma per ora ha raccolto solo silenzio, un silenzio che uccide cristiani e islamici e continuerà a farlo con una crescita esponenziale fino al voto di febbraio.
Di fronte alla paralisi, all’assenza di una risposta concreta da parte dell’esercito nigeriano, il gruppo terrorista continua ad espandersi. Cresce di numero, come crescono gli ostaggi che cattura nei villaggi e che schiavizza. Crescono i kamikaze bambini, le donne che si fanno esplodere. Tutto somiglia terribilmente ai metodi dei jihadisti che comandano in parti della Siria e dell’Iraq: perché è all’Is di Abu Bakr Baghdadi che Boko Haram si ispira, benché sia nato prima. Lì il silenzio è stato rotto da tempo, in Nigeria continua a vincere.
All’Onu la questione resta sempre sotto traccia, le decine di rapporti trovano poco spazio anche sui media, come le notizie (spesso inverificabili) sul numero delle vittime nei vari attacchi. Eppure, si tratta dell’altra faccia dello stesso problema. Una derivazione «tumorale», come l’hanno definita i vertici della Chiesa locale. Che continua, drammaticamente, a non preoccupare.

banlieues si sente abbandonata ed è facile preda del fanatismo. Sono come dei born again, ritrovano un senso e un'identità. La sola soluzione è lavorare per l'integrazione. La radicalizzazione in carcere. Il peso del clima culturale del momento». Il manifesto, 11 gennaio 2015
Malek Chebel è un antropologo delle religioni e filosofo, che ha dedicato la sua opera a far conoscere l’islam all’occidente e a proporre un “islam illuminista” (Manifeste pour un islam des Lumières, Hachette, 2004). Nel 2009 ha pubblicato una nuova traduzione del Corano e lungo la sua lunga carriera di saggista si è occupato anche dell’erotismo e del rapporto tra islam e corpo. Lunedi’ sarà in libreria il suo nuovo libro, L’inconscient de l’islam (ed.Cnrs).
Di fronte alla settimana tragica francese, quale è la sua interpretazione? Ci vuole una lettura più sociale o religiosa?
“C’è un doppio livello di lettura, francese e internazionale. In Francia, parte della gioventù musulmana si sente abbandonata da anni e cosi’ si è messa ad ascoltare ideologici fanatici. A livello internazionale, l’islam in crisi sviluppa un’ideologia della morte integralista. Poiché la caccia all’uomo è finita come è finita, adesso bisognerà riflettere a come ristabilire i legami con la gioventù musulmana”.
La marcia di domenica sarà un momento importante, anche per vedere la mobilitazione dei francesi di religione musulmana? Oppure è assurdo soffermarsi su questo, chiedere di prendere la distanze dalle derive estremiste?
“C’è una debolezza del sistema. C’è un avversario, che non viene nominato, ma che è ben presente: è la comunità musulmana. Tocca quindi ai musulmani dimostrare che non si puo’ dare cauzione a questi avvenimenti. Ma la via d’uscita sarà trovata – oppure no – sul terreno quotidiano: cosa farà che domani i giovani saranno maggiormente integrati? Oppure che lo saranno sempre meno? Solo quando si sentiranno maggiormente francesi si vincerà. In caso contrario, perderemo. Ma per il momento siamo sotto il dominio dell’emozione. E i musulmani ne hanno abbastanza di essere assimilati al terrorismo”.
Come mai sono i giovani di cultura musulmana oppure dei convertiti all’islam che si fanno sedurre dall’estremismo religioso, nel senso che le altre religioni non producono questi effetti?
“C’è una cronologia occidentale fatta di de-ritualizzazione. La chiesa cattolica fa di tutto per conservare i fedeli, mentre l’islam è in fase ascendente. Con una deriva settaria e fondamentalista. I giovani non si riconoscono né nell’ateismo, né nel marxismo, non sono massoni, ma diventano credenti. Con tutta l’opacità di un’ideologia religiosa della morte. L’occidente non capisce, abbiamo difficoltà a comprendere questa scelta”.
I due fratelli Kouachi e Coulibaly erano francesi, avevano frequentato le stesse scuole dei nostri figli. Cosa non ha funzionato?
“Fino a che punto sono andati a scuola? Come sono stati accolti? Hanno soddisfatto le loro ambizioni? Sono passati all’atto, tragicamente. Ma se non facciamo niente, se la sola alternativa che viene proposta loro è o di vivere come dei poveracci in una banlieue, di essere disoccupati o di farsi sedurre dai fanatici, avremo un fenomeno destinato ad accelerarsi con la crisi economica”.
Il sociologo Farhad Khoskohavar li definisce dei born again. E’ una spiegazione che condivide?
“Si, pensano di rinascere dalla desocializzazione di cui si sentono vittime. La resurrezione avviene con i viaggi in Yemen o altrove, si sentono esistere di nuovo, tornano, sono ben nutriti e ben alloggiati. Sarà molto difficile lottare contro questo fanatismo. Il corpo sociale non è un meccanismo ben oliato, è un insieme complesso, con velocità differenti, maturazioni differenti, musiche diverse, atmosfere diverse. Non si puo’ chiedere a tutti i giovani di reagire allo stesso modo”.
C’è poi il ruolo centrale svolto dal carcere nella radicalizzazione di questi individui.
“Della radicalizzazione in carcere si parla da anni. Ma poi non viene fatto nulla. Troppe cose sono contro di noi, il messaggio del magnifico vivere assieme come cittadini responsabili non passa. Dopo le reazioni di oggi, c’è il rischio che tra due-tre settimane tutto venga dimenticato e tra 6 mesi o un anno ci siano altri Kouachi, perché nessuno avrà fatto il necessario per venire incontro a questi disperati. Siamo di fronte a un’inadempienza collettiva. Ma per farvi fronte ci vogliono soldi, delle strutture pubbliche determinate. Invece, gli estremismi gettano olio sul fuoco. L’atmosfera era pesante in questo periodo, con le prese di posizione di Eric Zemmour o il libro di Houellebecq, con un razzismo ormai mostrato alla luce del sole, senza che nessuno reagisca".
Il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2015 (m.p.r.)
Eppure non è poi così difficile capirlo che difendere la libertà di espressione non significa condividere tutto quello che pensano, dicono, scrivono e disegnano quelli che se ne avvalgono. Non è poi così difficile capire che difendere la satira senza limiti non vuol dire che chi la fa non possa avere limiti (tutti ne abbiamo, e sono unici al mondo: dipendono dallo stile, dalla cultura, dall’educazione, dalla sensibilità, dall’eventuale fede di ciascun individuo). Vuol dire che quei limiti non possono e non devono essere fissati per legge, con tanto di sanzione a chi li viola: fermo restando il Codice penale per punire chi commette violenze, o istiga a commetterle, ma non chi esprime un pensiero, foss’anche il più bieco e ributtante.
Giovedì a Servizio Pubblico e venerdì sul Fatto ho ricordato come i nostri politici e i loro servi hanno risolto in Italia il secolare dibattito sulla satira: abolendola dalla Rai. Ieri un poveretto con le mèches che scrive su Libero mi ha accusato di aver fatto «senza vergogna» un «odioso paragone tra l’editto islamico e quello bulgaro», cioè di aver messo sullo stesso piano «la vostra industrietta macinasoldi e le vostre barzellette sporche» con «la satira vera, quella degli ammazzati di Parigi». Poi ha ripetuto la vecchia barzelletta dei programmi di Luttazzi e di Sabina Guzzanti «morti da soli» perché «non facevano ascolti» (uahahahahahah). Se ogni tanto capisse ciò che legge e ascolta, il tapino scoprirebbe che non ho fatto alcun paragone («quella di Parigi è una tragedia, in Italia siamo sempre alla farsa», ho detto).
Ho semplicemente sbeffeggiato l’ipocrisia di una classe politica e giornalistica, con e senza mèches (questa sì “macinasoldi”, e pubblici), che ha passato la vita a praticare e giustificare le peggiori censure, salvo poi strillare «Je suis Charlie» e difendere la satira senza limiti, ma solo in Francia e dopo che l’hanno ammazzata. Ieri ho citato un articolo di Pigi Battista sul Corriere nel 2006: diceva – capita persino a lui - cose condivisibili e liberali. E cioè che «non sarà superfluo un supplemento di attenzione per scorgere qualcosa di repellente in quelle vignette di cui pure deve essere libera la circolazione». Cioè criticava delle criticabilissime vignette, ma al contempo metteva in guardia chiunque osasse anche soltanto pensare di vietarle per legge o di chiudere i giornali che le pubblicavano.
È la stessa critica che faceva Vauro, sulla reazione violenta che certe vignette sul Profeta potevano innescare, senza citare
Charlie Hebdo né invocare censure o chiusure: quindi è ridicolo che oggi Battista additi Vauro al pubblico ludibrio. La satira scortica tutto e tutti, ci mancherebbe che pretendesse l’immunità dalle critiche. Perciò è sciacallesca l’operazione del Giornale, che sbatte Vauro in prima pagina accusandolo di versare «lacrime di coccodrillo» sui giornalisti e i vignettisti assassinati. Come se chi ha criticato una vignetta su Maometto bombarolo fosse un complice dei macellai islamisti. Ciascuno è libero di ritenere sbagliata o anche repellente una vignetta, un articolo, un libro, un programma tv, un film. Ciò che nessuno può fare è proibirli o chiuderli (come s’è fatto ripetutamente in Italia, con buona pace dei servi di regime), in nome di un “limite” che nessuno ha il diritto di fissare.
Cantava Lucio Dalla: «È chiaro: il pensiero dà fastidio, anche se chi pensa è muto come un pesce, anzi è un pesce, e come pesce è difficile da bloccare, perché lo protegge il mare, com’è profondo il mare. Certo, chi comanda non è disposto a fare distinzioni poetiche: il pensiero, come l’oceano, non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare...». A me, personalmente, non verrebbe mai in mente di pensare o di scrivere che “il Corano è merda”, come dice una delle vignette incriminate di Charlie Hebdo. Perciò, se ci arrivasse una vignetta così gratuita sul Corano, sul Vangelo, sul Talmud o sul libro sacro o sul simbolo di qualsiasi altra religione, anche noi che ospitiamo più satira di tutti gli altri ci penseremmo un bel po’ prima di pubblicarla.
In nome di un limite che è chiaro e dichiarato: la sensibilità dei lettori, fossero anche soltanto uno o due quelli che potrebbero offendersi. Un quotidiano libero di informazione non è la buca delle lettere né Hyde Park Corner, ma un servizio ai propri lettori. Al contempo, è giusto e liberatorio che esistano giornali come
Charlie Hebdo (ne avevamo anche in Italia, pensiamo al
Male e a certe fasi di
Cuore), interamente consacrati alla satira più libertina, che non hanno né debbono avere limiti. E, se qualcuno tenta di zittirli, chiudendoli o addirittura decimandone la redazione a raffiche di
kalashnikov, le pagine di questo giornale libero sono a loro disposizione per ospitarli. A scatola chiusa.
Ronald Reagan, ancora in piena guerra fredda, raccontava questa barzelletta: «Un giornalista americano dice a un collega sovietico: "La differenza fra i nostri paesi è che io posso scrivere che Reagan è uno stronzo e non mi succede niente, perché noi siamo una democrazia". E il sovietico: "Ma pure noi! Infatti anch’io domani posso scrivere che Reagan è uno stronzo"...». È facile per gli integralisti cattolici, protestanti, ebrei solidarizzare con la satira, ora che è stata colpita da tre islamisti sanguinari: bisognerebbe farlo sempre contro ogni censura (non contro ogni critica), anche quando nel mirino c’è la propria religione.
Invece era tutt’altro che scontata la condanna degli stragisti parigini da parte degli ultraradicali di Hamas e di Hezbollah. La satira ha questo di bello: il suo linguaggio immediato e scioccante illumina e spalanca i cervelli. Chissà, forse il sacrificio dei ragazzacci di Charlie non è stato inutile.

il manifesto dell'11 gennaio 2015 ricorda l'autore de "Le mani sulla città", un film che ha riacquistato la sua attualità nell'Italia de Craxi-Berlusconi-Renzi (ma forse non l'aveva mai del tutto persa).
FRANCESCO ROSI,
IL CINEMA COMBATTENTE
di Luciana Castellina
L’ultima volta che l’ho visto era circa un anno fa: ero andata a casa sua assieme ad Agostino Ferrente che voleva vedesse il suo film su Napoli –
Le cose belle. Agostino, almeno due generazioni più giovane, ci teneva molto e ha approfittato della mia vecchia amicizia con il «maestro» per incontrarlo. Un film su Napoli non poteva non esser visto e giudicato da un napoletano così napoletano come Franco Rosi. La visione fu un disastro tecnico: perché il grandissimo regista non possedeva uno schermo degno di questo nome, né un televisore di proporzioni umane. Dovemmo infilare il dvd in un apparecchietto minuscolo e che per di più offriva solo un suono intermittente, inaudibile.
Rosi non si era conciliato con la tecnologia, già vedere un film su una tv gli era inconcepibile. Non perché fosse un uomo dell’altro secolo, per carità: era tutt’ora molto molto contemporaneo, uno sguardo lucidissimo sulla nostra epoca, e sui guai della sua sinistra. La stessa intelligenza della realtà che aveva avuto da giovanissimo, parte di quel gruppo particolarissimo di intellettuali napoletani socialisti di sinistra che hanno contribuito molto a raccontare il tempo della mia generazione e di parecchie successive.
In mezzo a tanta discussione sul rapporto fra storia e fiction, basterebbero i film di Franco Rosi a far capire quanto e come l’artista - se lo è davvero - riesce a dire, più di chi riferisce di documenti e archivi, della realtà, svelandone, attraverso l’invenzione narrativa, anche quanto non è altrimenti visibile. Un elemento essenziale della politica di cui proviamo oggi una struggente nostalgia. I suoi film sono stati un contributo primario insostituibile alle nostre battaglie del dopoguerra. Franco era passionale, nel senso che ci teneva a che i suoi film suscitassero passioni, alimentassero il fare politico.
Ricordo quanto avvenne parecchi anni prima dell’infortunio tecnologico col film di Ferrente in Cina, un altro assurdo incidente. Eravamo a Pechino con una delegazione di Cinecittà - la prima - presidente all’epoca Gillo Pontecovo (io ero lì perché allora ero presidente di Italia Cinema, l’agenzia di promozione dei film italiani). Si doveva proiettare La Tregua e naturalmente non c’era sottotitolazione perché allora né lì né, del resto, in tutta l’Europa dell’est, era abituale. Si procedeva con l’«overvoice»: la voce del traduttore, collocato nella sala, che si sovrapponeva a quella dei protagonisti del film. Franco era sospettoso circa il risultato e per questo assai nervoso. Poco prima di cominciare si informò dal traduttore se aveva capito bene di cosa trattava il film e quello rispose sicuro: «Sì, certo, è un film sulla vita di John Turturro (se ricordate era lui che interpretava Primo Levi).
Alla risposta Franco stava per riprendersi la pellicola e andarsene infuriato. Accettò di restare quando gli fu spiegato che Primo Levi non era mai stato tradotto in Cina, era uno sconosciuto. Ma contravvenendo a tutte le regole della sicurezza in vigore in Cina, dove nessuno avrebbe potuto rivolgersi ad un pubblico grandissimo qual era quello che affollava l’anfiteatro ove il film doveva essere proiettato, saltò sul palco e improvvisò un appassionato riassunto de
La tregua. Ricordo bene le sue ultime parole, in cui descriveva la prima scena del film: «ecco, adesso vedrete una pattuglia dell’Armata rossa a cavallo che arriva in vista del campo di sterminio dove sono rinchiusi gli ebrei superstiti delle camere a gas». «Ecco – aveva aggiunto – spegnete le luci»; e si aspettava apparisse sullo schermo la bellissima, emozionante inquadratura con cui si apre quel film. E invece, a interrompere brutalmente l’emozione che era riuscito a suscitare nel pubblico con le sue parole, e che certo l’«
overvoice»non avrebbe potuto animare, il proiezionista cinese per un errore mandò un documentario sui mondiali di calcio che dovevano tenersi in Italia. Durò 40 minuti. Ci nascondemmo tutti per una giornata intera, non avevamo il coraggio di affrontare il suo furore sacrosanto.
Era il 2000, 15 anni fa, e la nuova Cina stava spiccando il volo, già nel mercato mondiale ma ancora terzo mondo. Alla riunione con il giovanissimo direttore della produzione cinematografica cinese che il rappresentante del Ministero dei beni culturali, membro della nostra delegazione, cercava di convincere ad intraprendere il negoziato per un accordo di coproduzione con l’Italia, per cui era necessario un voto parlamentare e un accordo fra governi come per i Trattati internazionali, il giovanotto ci guardò e disse: «Ma ce li avete i soldi? Perché con gli americani di tutte queste procedure non c’è bisogno, ma loro ci hanno i soldi». Non dimenticherò mai la faccia di Gillo, di Angelo Guglielmi allora direttore del Luce, di tutti i nostri, ma soprattutto quella di Franco Rosi.
Scusate se mi perdo in questi anneddoti, ma sono proprio queste vicende vissute assieme che tornano alla mente quando qualcuno scompare. Almeno in un primo momento, perché subito dopo la ferita penetra nel profondo e si avverte il vuoto che la morte lascia quando colpisce una persona come Franco Rosi che per via del suo cinema ha così tanto segnato la nostra cultura e coscienza. Vorrei ricordare però anche anni più spensierati, le serate con Franco e Giancarla nell’attico di via della Croce, o i bagni sulla spiaggia avanti alla loro casa al Villaggio dei Pescatori a Fregene, il luogo mitico dove si radunava allora il nostro miglior cinema: Ettore Scola, Citto Maselli, Franco Solinas, Felice Laudadio… Erano gli anni ’60, un grande tempo e perciò anche un grande cinema
LA CITTÁ CHE HA DIVORATO L'ITALIA
di Alberto Ziparo
In occasione della morte di Francesco Rosi ripubblichiamo questo articolo di Alberto Ziparo, uscito sul manifesto del 25 agosto 2013 come anteprima dell’omaggio del Festival di Venezia al regista napoletano. (aggiornamento del 10 gennaio 2015
Martedì prossimo, a Venezia, verrà proiettato «Le mani sulla città» di Francesco Rosi, nella versione restaurata dalla Cineteca Nazionale. Si celebra così il cinquantennio del conferimento del Leone d’oro al capolavoro neorealista del regista (sempre quel giorno Rai Movie ne offrirà visione in tv).
Com’è noto, Rosi denunciava lo sfascio urbanistico e politico di Napoli, in grande espansione in quegli anni. Non poteva sapere – ma forse lo intuiva — che la sua opera avrebbe costituito una magistrale, anche se assai inquietante, previsione circa i disastri delle politiche, non solo urbanistiche, che avrebbero segnato l’Italia intera nel cinquantennio successivo. Sfregiandone irrimediabilmente quel volto «illuminato e gentile» colto dai viaggiatori del Gran Tour e che le era valso il soprannome di «Belpaese».
Nel film Rod Steiger (nei panni del costruttore e politico Nottola) che spiega come un terreno agricolo «che vale 500 lire» se diventa edificabile «ne vale 50.000» costituisce una sintesi mirabile del ruolo della rendita speculativa nella crescita urbana, più efficace di molte lezioni di analisi urbanistica. Il film spiega appunto il disfacimento della politica rispetto agli interessi della rendita speculativa (la camorra restava sullo sfondo, allora, o come «utilizzatore finale» di piccolo cabotaggio).
Il film venne premiato con il Leone d’oro nel settembre 1963: un mese dopo si sarebbe registrato il disastro del Vajont, seguito dalla frana di Agrigento e dall’alluvione di Firenze (1966). Eventi che dimostravano già come la crescita urbana, pure ancora relativa –e circoscritta alle città grandi e medio grandi — avveniva a scapito della sicurezza territoriale e della qualità ecopaesaggistica.
Nonostante i disastri, i tentativi di riforma urbanistica e di «nuovo regime dei suoli» portati avanti dal democristiano Fiorentino Sullo con l’appoggio della sinistra socialista e del Pci vennero bloccati, segnando addirittura la fine politica dell’ex ministro. Le emergenze ambientali della crescita territoriale portarono a una serie di provvedimenti normativi parziali, che nell’arco di un decennio, dal 1967 alla fine dei Settanta, avviarono un processo pure timidamente riformista: la legge Ponte-Mancini sulla scissione tra diritto di proprietà e di superficie (1967); i decreti su zoning e standard (’68); la legge sulla casa e gli espropri (1971); l’onerosità della concessione a costruire e degli oneri di urbanizzazione (1977); l’avvio dei piani di recupero (1978).
Questa intenzione – e i modesti tentativi di pianificazione progressista che avevano comportato– venivano frustrati nel decennio successivo da una serie di sentenze della Corte Costituzionale che mettevano in discussione vincoli urbanistici e criteri di esproprio. Annunciavano gli anni Ottanta, con la crisi del welfare state e l’avvio di un ventennio abbondante di iperconsumismo e una sorta di controriforma urbanistica, introdotta dalle sentenze citate e continuata con i tentativi di svuotare le capacità prescrittive dei piani con la cosiddetta «programmazione concertata», in nome di un «Nuovo», che invitava a «Fare», ma in realtà a consumare senza senso né limiti, anche il territorio. E meno male che di lì a poco esplodeva anche in Italia la «questione ambientale».
In realtà, le criticità urbane e le «mani sul territorio» non si erano mai fermate; la rendita speculativa, agraria ed edilizia, diventava prima industriale, poi commerciale e infrastrutturale, infine finanziaria: la semplice operazione di trasformazione diventava un affare, con i relativi lavori più o meno grossi; migliore, se la nuova, anche ipotetica destinazione d’uso, trovava dei potenziali investitori. Neutralizzata la pianificazione efficace, razionalmente basata sulla domanda sociale, la «città diffusa» pervadeva sempre più i vari ambiti del territorio nazionale: una blobbizzazione cementizia industriale che cancellava il paesaggio, seppelliva i beni culturali, degradava l’ambiente, deterritorializzava.
L’ex Belpaese è diventato così il Bengodi delle costruzioni e del consumo di suolo: laddove nel mondo, dal 1945 al 2005, si sono quintuplicati i volumi urbanizzati, e in Europa si è registrata una crescita di quasi otto volte, in Italia tale tasso supera i dieci punti, e nelle tre regioni del Sud ad alta densità mafiosa l’incremento è di oltre 13 volte!
Così, mentre si intensificavano i disastri sismici ed idrogeologici di un territorio fortemente indebolito dalla cementificazione, la quota di suolo nazionale consumato è oggi pari ad oltre il 20% dei 301.000 Kmq di superficie (raddoppio dell’ingombro negli ultimi 15 anni) e si producono costruzioni per una domanda inesistente (oltre 25 milioni di stanze vuote), mentre il bisogno sociale di abitazioni permane inevaso.
Certo, questo è dovuto anche al fallimento della politica: il film di Rosi rappresentava perfettamente il dissolvimento dell’etica e della razionalità sociale che dovrebbe caratterizzare la gestione della cosa pubblica: il sistema decisionale viene prima circuito, poi incorporato dall’offerta di trasformazione urbana e territoriale, dettata da interessi speculativi. Finché –a partire dagli anni Novanta– una governance «ubriacata di pseudoliberismo» se ne fa strumento dichiarato.
Oggi le politiche urbane e territoriali ai diversi livelli sono spesso extraistituzionali, dettate dalle imprese e soprattutto dagli istituti finanziari. Carlo Fermariello, che nel film rappresenta se stesso, è un’icona della buona politica legata alla reale domanda sociale: figura sempre più rara, poi quasi sparita, dalle nostre assemblee elettive.
Per tutto questo – ha ragione Roberto Saviano– il film resta un capolavoro, «una grande rappresentazione non solo di Napoli, ma dell’Italia, anche di oggi». Anche se oggi forse Rosi girerebbe gli esterni in Val di Susa e gli interni tra parlamento e ministeri.
(Articolo originale pubblicato sul manifesto digitale il 24 agosto 2013 alle 18.11, sul manifesto in edicola il 25 agosto 2013
Malcom Pagani e Fabrizio Corallo. Il Fatto quotidiano
e la Repubblica
, 11 gennaio 2015
Il Fatto Quotidiano
IL CORAGGIO E L'ORGOGLIO
DEL CITTADINO FRANCO ROSI
di Furio Colombo
Muore un grande regista e lascia uno spazio diserbato di dolore e rimpianto, uno strappo senza rimedio, per chi gli è stato accanto negli ultimi giorni, nelle ultime ore, amici stretti e devoti come Tornatore, Giordana, Andò, Scola. Soprattutto la figlia Carolina, bella e forte come la madre Giancarla mancata da poco, due parti essenziali della vita di questo artista. Ma il caso di Rosi, nel giorno della sua morte, è diverso. Ognuno dei suoi film ha sfidato un Paese umiliato dal conformismo, dall’opportunismo, dalla mafia, dal crimine organizzato, dalla corruzione. Ognuno dei suoi film è una ricerca di verità e una denuncia di reato. Ognuno dei suoi film è fatto per dare coraggio e orgoglio perché sempre, nelle sue storie vere, qualcuno resiste e anche se muore, l’autore ci fa sapere che ha lottato ed è esistito.
Un uomo che ci lascia, come traccia della sua vita Salvatore Giuliano, Le mani sulla città, Il caso Mattei, Uomini contro, Cadaveri eccellenti, La tregua, un percorso che continuerà a sostenere chi si batte per il ritorno alla legalità di questo Paese persino in momenti in cui i valori di civiltà, di libertà e di accertamento implacabile della verità sono stati buttati via. Il fatto è questo: la morte di Francesco Rosi strappa dalla vita e dalla memoria dei suoi amici di una vita la radice di un lungo e splendido sodalizio. Ma non spegne le luci di atterraggio lasciate lungo il percorso dal suo lavoro.
Sono in molti a riconoscere, prima di tutto alcuni maestri di Hollywood, che Rosi ha cambiato il modo di fare il cinema, ha abbattuto i confini fra documentario e fiction e fra immaginazione, per quanto realistica, e fatti realmente accaduti. Di questi fatti ciò che attirava l’attenzione di Rosi, ma anche una sorta di istinto indomabile per l’accertamento, erano le evidenze persino ovvie, erano gli eventi ingombranti negati o ignorati o tranquillamente trascurati, come se fosse possibile accantonare la realtà scomoda. Ecco, Rosi ha fatto della realtà scomoda e impraticabile il suo tipico territorio. E anche se nell’elenco del suo lavoro trovate bellissimi film di narrazione e invenzione o trasformazione dal racconto alla musica (Il momento della verità, C’era una volta..., Carmen), resta il senso fondamentale del suo passaggio rivoluzionario nel cinema.
So che una persona irritata da ogni tipo di iperbole, come Rosi, avrebbe giudicato inadatta la parola “rivoluzione” come chiave di interpretazione del suo lavoro di cinema (che lui, come ricorda il bel libro scritto insieme a un altro importante personaggio del cinema mondiale, Giuseppe Tornatore, chiama “cinematografo”). Però, come definire diversamente quel suo arrischiato accostarsi ai fatti fino al punto da svelarli persino se autorevolmente negati, persino se smentiti da protagonisti potenti non del cinema ma della politica, in tempo reale? Prendete Lucky Luciano in cui il rapporto fra mafia e guerra, e una strana alleanza fra liberatori e dominio della Sicilia (al rischio di una sottomissione perenne) viene narrata come se fosse la trama fantasiosa di un buon thriller.
Quel film affronta e racconta una verità tremenda che i libri di storia, e persino buoni e rispettati testi universitari, ignorano o tengono in ombra. Ma quel film (1973) è per forza una parte della straordinaria e inconcepibile audacia con cui è stato pensato, scritto e girato, nel 1962,
Salvatore Giuliano. Contiene il Dna della mafia come originale associazione di crimine organizzato allo stesso tempo locale e mondiale, dramma di famiglia e secessione di un Paese, passando attraverso la prima prova politica della strage (
Portella della Ginestra, che è allo stesso tempo la più bella sequenza d’azione mai girata nel cinema italiano, e un pezzo di storia patria mancante). A Francesco Rosi interessa sapere e mostrare come funziona la macchina del dominio (grande, in questo senso, più grande di tanti film di guerra,
Uomini contro e il rapporto fra il cinismo delle classi dominanti e l’eroismo spontaneo e ribelle di chi dovrebbe soltanto ubbidire) e fin dove arriva la macchina degli interessi di potere che devono prevalere su un mondo equo di diritti rispettati (
Cadaveri eccellenti).
Ma il momento straordinario del lavoro di Rosi, in cui il cinema è allo stesso tempo cronaca, storia, profezia, è Le mani sulla città (1963) in cui la politica è già corruzione, e la frase gridata dai consiglieri comunale di Napoli, mentre stanno votando un altro scempio edilizio (“Mani pulite, noi abbiamo le mani pulite”) diventa il nome di una grande indagine giudiziaria contro quella stessa corruzione moltiplicata in dimensioni immense, nel 1992. Nessuno che rifletta e ripensi alla grande eredità che Francesco Rosi lascia all’Italia e al cinema del mondo nel giorno della sua morte, potrebbe dimenticare Il caso Mattei. Io ho una ragione in più. In quell’anno (1972 ), Francesco Rosi mi ha chiesto di partecipare al film nel ruolo dell’assistente e traduttore di Enrico Mattei (Gian Maria Volonté) e in particolare alla sequenza in cui il petroliere americano respinge ogni possibilità di collaborazione. Era come partecipare, allo stesso tempo, alla realtà e alla finzione. Non solo perché Volonté era una specie di medium che diventava la persona interpretata. Ma perché quel film sulla morte inspiegata e misteriosa di Mattei ha portato alla morte inspiegata e misteriosa del giornalista Mauro De Mauro, incaricato da Rosi, in una telefonata che si vede nel film, di cercare piste e spiegazioni per la storia che intanto si stava filmando.
Come vedete, non abbiamo parlato di una carriera, per quanto straordinaria, ma di una parte importante della storia italiana, dei suoi misteri e delle sue rivelazioni, E capite perché Francesco Rosi, a Venezia, dopo avere ricevuto il Leone d’Oro alla carriera, ha concluso così il suo breve discorso di accettazione : «Voglio essere ricordato solo con queste parole: Francesco Rosi, cittadino».
La Repubblica
LA CAPRIA: “A PASSEGGIO INSIEME,
COSI' NACQUE LE MANI SULLA CITTA”
di Francesco Erbani
Roma. Li divideva poco più di un mese. L’anno era lo stesso, il 1922. Francesco Rosi è nato a metà novembre, Raffaele La Capria i primi di ottobre. Ma erano ancora bambini quando d’estate si tuffavano dagli scogli di Posillipo, a Napoli, sotto villa Rosebery. Racconta La Capria: «È stato il mio amico più caro, con lui in ottant’anni non ho mai perso i contatti. Ci sentivamo quasi tutti i giorni. Ma con un amico si scambiano i sentimenti, Franco e io abbiamo lavorato insieme, dunque all’affetto abbiamo aggiunto la consuetudine delle idee». Lo stesso mare, lo stesso liceo, l’Umberto, gli stessi amici - Peppino Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Francesco Compagna... - la stessa idea di lasciare Napoli, «forti solo dei nostri sogni» e quindi i film - Rosi regista, La Capria sceneggiatore. Basta ricordarne due, Mani sulla città ( 1963) e Cristo si è fermato a Eboli ( 1979).
Con Rosi avete condiviso la stessa formazione?
«Al liceo Umberto avevamo un preside, D’Alfonso, che s’ispirava a Croce. L’ambiente era naturalmente antifascista e da lì scaturirono due filoni, quello comunista e il nostro, liberaldemocratico. Dopo la guerra demmo vita alla rivista Sud, diretta da Pasquale Prunas. Collaboravano Luigi Compagnone, Anna Maria Ortese, Domenico Rea. Io mi occupavo di letteratura angloamericana, Franco scriveva note di cinema. A guardarle ora, quelle pagine emanavano un entusiasmo che fa sorridere, ma si resta sorpresi dalle cose che sapevamo».
Nel ’48, a ventisei anni, Rosi era già assistente di Visconti per La terra trema.
«La naturale precocità di un artista. Fin da ragazzo, più che elaborare intellettualmente, Franco coltivava immagini che immagazzinava. Eravamo in un clima neorealista, ma lui pur ammirando quel cinema, diffidava di certo sentimentalismo patetico. Era un razionalista, tendeva a raffreddare gli umori».
Che cosa ricorda di Mani sulla città?
«Un giorno, a Roma, Franco mi disse che voleva girare un film su Napoli, ma diverso dai soliti modelli. Passeggiavamo e non so chi dei due parlò per primo di un palazzo che crolla come spunto per indagare su che cosa la nostra città era diventata».
La speculazione edilizia patrocinata da Achille Lauro.
«Sì, ma senza impigliarsi in questioni teoriche. Ricorda la scena in cui Rod Steiger traccia con un bastone un quadrato per terra e dice: “Questo quadrato vale tanto, ma se noi ci portiamo la luce, le strade, le fogne, questo stesso quadrato varrà mille volte di più”? Ecco: con quell’immagine e quelle parole raccontammo la speculazione edilizia, che cambiò la morfologia della città e dell’Italia intera, distruggendo valori e rapporti umani».
Nel film Rosi faceva emergere una terribile realtà politica, anche quella non solo napoletana.
«È vero. Ma sempre e solo manovrando la macchina da presa. Franco la metteva a pochi centimetri dai volti dei consiglieri comunali, ne catturava le occhiate, le smorfie e così documentò il passaggio di alcuni di loro da Lauro alla Dc. Una vicenda politicamente dirompente, testimoniata attraverso un artificio, un’invenzione. Direi, uno stile».
Lavoraste insieme per C’era una volta (1967), liberamente tratto da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, poi per Uomini contro (1970) ispirato al romanzo di Emilio Lussu. E quindi per Cristo si è fermato a Eboli.
«Il suo film più bello. Franco cercava la verità di quel Mezzogiorno entrando nelle case dei contadini, misurando la distanza fra la civiltà e un’arcaica forma di vita. Quando la domestica Giulia, interpretata da Irene Papas, fa il bagno a Gian Maria Volontè, nei panni di Carlo Levi, Franco fece l’impossibile perché i gesti avessero qualcosa di mitologico».
Quale idea di Napoli vi accomunava?
«Un’idea non convenzionale. Al pari di tutte le città del Mediterraneo, la immaginavamo come una capitale della decadenza, impegnata nella contemplazione del passato. Ma, a differenza di altre città, Napoli conserva una continuità con l’antica Grecia. E per questo, ci dicevamo, mentre altrove domina un’aridità comunicativa, Napoli è un’ansa che custodisce un certo calore. Franco, uomo buono, ne era un esempio ».
Il Fatto Quotidiano
“NEI MIEI FILM AVEVO PREVISTO OGNI COSA”
stralcio dell’intervista concessa da Francesco Rosi a Malcom Pagani e Fabrizio Corallo il 30 giugno 2012.
Il grande misantropo aveva iniziato a chiamarlo spesso: «Ciao Francesco, ci vediamo?». Poi, osservata la voliera dello zoo dalla torretta del suo residence-trincea, Dino Risi aspettava che il collega quasi omonimo, nello scambio casuale di interessi, ricordi e vocali, contaminasse il suo mondo. La tardiva amicizia tra Risi e Rosi: «Lo sai che ti voglio veramente bene?» è uno dei lampi che attraversa i 90 anni (il 15 novembre) di un napoletano di frontiera. Libri sulla mafia, monografie, manifesti, fotografie alla parete. Da una (il set è quello di Carmen, Siviglia, 1984) aspira un sigaro nascosto dagli occhiali e sembra lo stesso che in jeans, seduto a un tavolo colmo di copioni, non soffre il caldo andaluso di una Roma trasfigurata dal caldo. Il Festival di Venezia, il 31 agosto, gli consegnerà il Leone d’oro alla carriera e proietterà Il caso Mattei, l’inchiesta di Rosi sul fu presidente dell’Eni, Palma d’oro a Cannes ’72. Dopo aver messo insieme ventenni in nero, guerre, repubbliche fragili e candidature all’Oscar, l’età non pesa. L’emozione si annacqua in un gesto: «Volete un po’ di minerale?». Rosi è contento. Scrive memorie di vita e di set con la complicità di Tornatore, pensa al teatro (recente digressione da palco con tre opere di De Filippo) e a dirigere, se capita la storia giusta, tornerà. «Nei miei film avevo previsto ogni cosa», dice distrattamente, e ripensando a una poetica in cui l’impegno dava la destra al piano sequenza, di smentire l’affermazione, non c’è modo.
Torna mai alle origini?
L’infanzia ci segna. Sono nato a Napoli, figlio di genitori ossessionati da onestà e rispetto. C’erano le regole. Bisognava averne cura.
Lei osservò il Fascismo con occhi da bambino.
Al principio, non ne vedevo il lato grottesco. Percepivo la sopraffazione, la noia, l’idolatria dell’istituzione paramilitare. Un implicito decalogo per i giovanissimi. Puntava a formarli, a vestirli da Balilla, a comandare sui momenti di libertà, inquadrandoli in una cornice.
Crescendo?
La Liberazione mi colse nei miei 20 anni. L’epoca del Liceo Umberto. Le giornate trascorse con Patroni Griffi, La Capria e Ghirelli. C’era la consapevolezza della vita che si apriva. La scoperta della questione meridionale. Il Fascismo aveva volutamente trascurato molti aspetti, ce ne riappropriammo in ritardo, ma non fuori tempo massimo.
È vero che avrebbe voluto fare il disegnatore?
Mi ero inventato illustratore di pupazzi. Un amico di mio padre, libraio, volle pubblicare un sillabario con i miei schizzi. Non erano adatti, ma qualcosa forse dovevano valere. Lino Miccichè, anni dopo, li volle inserire in un volume su La Terra trema.
Uno dei tanti capolavori a cui collaborò.
Cercavo il cinema. L’arte che ti mette di fronte ai problemi irrisolti e ti sfida a cercare una chiave. Moravia scrisse che i giovani non sarebbero riusciti a trovare nei libri di storia quello che un film sapeva restituire. Aveva ragione.
Visconti era burbero?
Severo, al limite. Ma gli devo tutto. Il suo rigore era necessità morale. All’inizio per Luchino preparavo il bollettino tecnico e segnalavo le incongruenze al suo aiuto, Zeffirelli. La terra trema rivelava una Sicilia di frontiera. Arcaica, brada, verghiana. Quando il dialetto si faceva aspro, Visconti non capiva. Bisognava tradurre. Per assonanza meridionalista, il compito toccava a me.
La terra ha tremato anche nei suoi film.
Non mi sono mai interessate le narrazioni piane. La mafia intenta a proteggere i suoi affiliati e ad ammazzare gli altri come cani era un territorio obbligato per un curioso come me.
Se ne è occupato spesso.
Da Salvatore Giuliano in poi. Ricordate l’incipit di Besozzi sull’Europeo? «Di sicuro c’è solo che è morto». In Le mani sulla città, Lucky Luciano, Cadaveri eccellenti o Dimenticare Palermo emergeva il rapporto di collusione e complicità tra istituzioni e crimine. La criminalità è diventata un enorme potere sfruttando eredità moderne: grande finanza e narcotraffico.
Sarebbe stato un bravo giornalista.
Ho lavorato con molti bravi giornalisti, è diverso.
Per Uomini contro ebbe qualche problema.
Mettevo in scena la follia del conflitto ’15-’18. Con Guerra e La Capria ci ispirammo al Lussu di Un anno sull’altopiano. Attaccavo la retorica della patria. L’Msi si scatenò. «Rosi, il comunista che infanga l’Italia». L’esercito mi denunciò per vilipendio. Le sale mi boicottarono e in tv ne parlò malissimo il generale golpista De Lorenzo. Un onore.
Crede che certi film dovrebbero essere proiettati nelle scuole?
Se c’è l’ora di religione, ci deve essere anche l’ora di storia del cinema. Un po’ di laicità non guasterebbe.
E a Cuba non trovò laicità, all’epoca in cui viaggiò per indagare su Ernesto Guevara.
Quando morì, pensai subito a un film sulla sua figura. Partii per l’isola e rimasi a lungo, ma la pretesa di approvare copione e girato da parte dell’Istituto cubano d’arte cinematografica, mi fece desistere. Era il mio film. Non il loro. Glielo dissi: «Voi siete rivoluzionari, per definizione non potreste imporre niente».
De Le mani sulla città, uno dei più potenti affreschi sul degrado della politica italiana di sempre, cosa rammenta?
Le riunioni dei consigli comunali a cui assistemmo a Napoli io e La Capria per documentarci. Mio padre, fotografo dilettante, che durante le riprese spunta dai calcinacci di un palazzo abbattuto in Via Marittima con la sua Rollerflex in mano. Carlo Fermariello, un dirigente del Pci locale, meraviglioso interprete di se stesso nel film. Persuadere il partito ad autorizzarlo fu un’impresa: «I nostri iscritti non fanno gli attori». Poi cenai con Amendola. Pragmatico, risolse il problema: «Basta con queste manie borghesi, può essere molto utile anche al partito. Fermariello reciti».
Lei è sempre stato di sinistra.
Un riformista consapevole dei propri limiti. Una volta in piazza, durante un comizio, evasi dalla mia natura. Ingenuamente urlai: «Abbasso il Papa». Si girò un operaio: «E che cazzo, ma se cominciamo a dire strunzate pure nuie è la fine». Mi fulminò.
Per Il caso Mattei ebbe contatti con Mauro De Mauro.
Gli chiesi un resoconto delle ultime giornate siciliane di Mattei. Poi sparì. Sulla scomparsa ci sono tante teorie, una di queste poggia sul lavoro che De Mauro aveva svolto sul presidente dell’Eni.
Pasolini affrontò l’argomento scrivendo Petrolio.
Un’opera incompiuta, nella quale non si scorgono cause e nessi in maniera definita. Ipotesi. E le ipotesi non di rado abbracciano la fantasia.
Gassman e Volontè le regalarono prove intense.
Gian Maria, serissimo, copiava sempre a mano la sceneggiatura 4 volte. «Così», diceva, «le battute non le scordo». Io e Gassman avevamo debuttato nella regia dirigendo insieme nel ’56 un trattamento dal suo Kean, poi lui interpretò per me un principe recluso in albergo in Dimenticare Palermo. Aveva poche battute, ma ebbe l’umiltà di chiedere: «Sono andato bene?». Mi manca.
Oggi ha senso parlare di cinema civile?
Diaz e Romanzo di una strage sono ottimi film. Io mi vedo altrove, ho pensato a lungo a un progetto su Cesare e Bruto, ma è improbabile che mi impegni sul conflitto di interessi dopo Le mani sulla città. Ho già dato.
Pensa mai all’addio?
Alla morte penso, ma non ho l’afflato dell’aldilà come spagnoli o siciliani. Mi piace la vita. Però, lo so, bisogna morì.

Il manifesto, 11 gennaio 2015
Sono stato colpito, - per una volta molto positivamente, - dalle reazioni della grande stampa d’informazione e di una parte di quella televisiva (quella libera, naturalmente) di fronte al caso della norma che depenalizza sotto una certa soglia le frodi fiscali, - passata ormai universalmente alla storia come il comma del 3%, che, una volta approvato, avrebbe restituito a Silvio Berlusconi il pieno esercizio dei suoi diritti politici e civili (valgano, per tutti gli altri, articoli esemplari come quelli di Antonio Polito sul
Corriere della sera del 6 gennaio e di Claudio Tito su l
a Repubblica del 7). Continua invece a sorprendermi, - anzi, a questo punto, dopo tali prese di posizioni libere e severe, mi sorprende ancora di più, - che, una volta individuata la natura clamorosa (e, diciamolo pure, vergognosa) dell’errore (errore?), non si risalga ancora alla fonte dell’errore. Tale fonte ha un nome preciso, e non è molto difficile scovarla e descriverla: si chiama il Patto del Nazareno.
Non è solo sugli aspetti etico-politici di tale scelta che vorrei richiamare l’attenzione: se Silvio Berlusconi, dopo condanne ed espulsioni esemplari dal Parlamento, è stato recuperato ad un pressoché pieno agire politico, e alla sua dimensione di Capo influente e dialogante (non a caso, gli incontri si sono svolti nella sede nazionale del Pd, da cui quel nome pieno di fascino, come dire, ecumenico), lo si deve non alla misura agevolante del 3%, ma, appunto, al Patto del Nazareno (causa persino, a voler essere più realisti del re, di una mortificazione eccessiva per gli alleati di Governo, il Ncd, che almeno se n’erano andati dal Padre Padrone, sbattendo la porta).
E non è neanche perché, a voler essere più precisi di quanto le stesse prese di posizioni critiche, ben positive e ben arrivate, di questi giorni non dimostrino, cosa ci sia davvero nel Patto del Nazareno nessuno di noi lo sa (potrebbero esserci dieci, venti 3%, ed è ipotizzabile che da un certo momento in poi neanche tali e anche più robuste proteste riuscirebbero più a sbarrare la strada al nostro, per tutti i versi anomalo, Presidente del Consiglio).
Ma perché il Patto del Nazareno ha sconvolto e inquinato, e sempre più inquinerà, tutte le modalità (“modalità”, dico, persino indipendentemente dai contenuti concreti delle singole proposte e delle singole leggi) della vita politica e civile italiana: strappando brutalmente al Parlamento le sue prerogative; umiliando, e alla fine persino distruggendo, l’unica forza politica, il Pd, che fino alle ultime elezioni sembrava (sia pure minimamente) in grado, con il consenso degli italiani, di tirare il paese fuori da questa melma; prefigurando (v. la prossima legge elettorale, l’Italicum) un cammino sempre più autoritario e sempre più sbilanciato a destra della nostra vita nazionale; vanificando pubblicamente, dopo gli utili sforzi dell’Autorità giudiziaria e del Parlamento, la barriera, che dovrebbe essere invalicabile, fra vita pubblica e corruzione.
Ora, è chiedere troppo che, dopo essersi pronunciati quanto mai opportunamente sul famoso 3% ci si pronunci sul Patto del Nazareno? Un’occasione più grande per farlo, più grande di qualsiasi altra, ci sta venendo incontro a passi da gigante: l’elezione del Presidente della Repubblica. La domanda è: si può accettare che il nuovo presidente della Repubblica nasca dall’accordo consensuale del (cosiddetto) centro-sinistra con… con… (molti appellativi vengono in mente, ma tanto nomini nullum par elogium) con Silvio Berlusconi? Non è problema di nomi (di cui si fa un dispendio senza limiti, forse per nascondere, per nascondersi, il vero nocciolo del problema). Infatti: chiunque salisse al Quirinale sulla base di tale accordo ne uscirebbe irrimediabilmente infangato per tutto il corso del suo mandato: sarebbe sempre, e in tutte le condizioni, sottoposto al ricatto del 3%, o a uno dei molti altri possibili ricatti del 3%, che allignano nel brodo di coltura del Patto del Nazareno. Non sarebbe dunque il caso di spostare l’attenzione su questa tematica, che, diversamente dall’altra non è episodica ma decisiva

In queste ore, il Senato esamina nuovamente la proposta di nuova legge elettorale che il Presidente del Consiglio e Segretario del PD vuole approvata con la massima velocità, o, come dice Lui, col massimo ‘ritmo’. Volontà che corre il rischio di trovare attuazione, vista la attuale composizione del Parlamento, costituito grazie a una legge dichiarata incostituzionale perché non consente ai cittadini di esercitare la sovranità riconosciuta loro dall’articolo 1 della Costituzione.
La nuova legge manterrebbe sostanzialmente gli stessi caratteri di incostituzionalità della precedente, consentendo la deformazione della volontà espressa dagli elettori fino a rischiare di capovolgerla e potrebbe assegnare la maggioranza della (unica) Camera a un partito che abbia ricevuto una percentuale minima di voti al primo turno, purché sia arrivato secondo e il primo non abbia ottenuto almeno il 45% dei voti, consentendogli di partecipare al ‘ballottaggio’, valido qualunque sia il numero degli elettori partecipanti. Inoltre prevede che molti degli eletti siano sottratti alla valutazione degli elettori grazie alla priorità assegnata ai capilista, scelti dalle segreterie dei partiti, e la possibilità che un’alta percentuale di votanti non sia rappresentata nell’assemblea a causa del meccanismo delle ‘soglie’ e del ‘premio’ che, assegnando al vincitore molti più seggi, li sottrae alle altre forze politiche.
La sostanza della sentenza n.1/2014 della Consulta viene così elusa, in una visione che privilegia una discutibile ‘stabilità’ (tutta la dimostrare, viste le divisioni interne anche agli stessi partiti) al criterio essenziale e irrinunciabile della rappresentanza democratica, sconfinando in una prospettiva presidenziale e autoritaria che contraddice i fondamenti della nostra Costituzione.
Se appare comprensibile, anche se non accettabile, la scarsa attenzione di gran parte della opinione pubblica sottoposta al bombardamento mediatico-propagandistico di quasi tutti i mezzi di informazione, impegnati in una gara accanita a chi dedica più tempo agli annunci, ai proclami, perfino ai tweet e alle vacanze di Renzi, meno giustificabili appaiono le esitazioni di esponenti politici che continuano i loro esercizi di contorsionismo fra la critica verbale e il rifiuto di una indispensabile unità di tutti coloro che nella difesa delle Istituzioni democratiche potrebbero trovare un denominatore comune.
La percentuale ormai altissima degli astenuti ha dimostrato che il degrado morale e l’arroganza dei attuali professionisti della politica rischia di cancellare la credibilità degli stessi meccanismi democratici; dovendo scegliere fra le attuali proposte del quadro politico, sempre di più sono gli elettori che si rifiutano di dare il proprio avallo a quella che è ormai una oligarchia impegnata a ridisegnare ‘regole del giuoco’ per la propria auto-conservazione.
E’ invece indispensabile recuperare una piena coscienza delle conseguenze di questa deriva autoritaria, anche per opporsi efficacemente alla involuzione di una Europa colpevolmente asservita a un modello di sviluppo suicida e alle logiche liberiste della finanza internazionale, per rilanciare, come accaduto nell’ultimo dopoguerra, un grande movimento di civiltà, che rimetta al centro della cultura politica pace, solidarietà, eguaglianza, giustizia come fondamenta di una nuova convivenza e di un impegno comune per la salvezza del pianeta.
Gli effetti della nuova legge elettorale, minando alla base i principi costituzionali e sottraendo ai cittadini il diritto alla autodeterminazione, rischiano di andare ben al di là di una, già grave, esplicita concentrazione del potere, soffocando nel nostro Paese quella ricerca di alternative culturali e civili che si sta diffondendo e acquistando dimensioni significative in molte altre Nazioni. Sarebbe come uscire dalla Storia.

iceberg che sta sotto ad un attentato come questo? Cerchiamo di scoprirlo iniziando col porci un’altra domanda: a chi serve questa guerra?». Comune-info.net, 7 gennaio 2015 (m.p.r.)
I terroristi entrano nel telefono di Jean Louise mentre mangiamo in un Bar del Marais a Parigi. Le notizie ormai ci raggiungono ovunque. Non è indispensabile comprare un giornale di carta o accendere la televisione. «Hanno ammazzato dodici persone» dice Jean Louise leggendo sullo smartphone. «Giornalisti di un settimanale satirico sono stati ammazzati a colpi di kalashikov» dice “ma sembra che gli assassini siano scappati e non li hanno presi”.
Allora ci facciamo i calcoli sulla strada che faremo per tornare a casa. Jean Louise e Patrick devono prendere il treno per tornare a Liege e a Bruxelles, Paolo va a Belville e io all’aeroporto di Orly. Gli sparatori sono ancora in giro, chi li incontrerà? All’aeroporto mi sequestrano lo sciampo. Niente di tragico, era una bottiglietta presa in albergo tanto per non buttare nel water un goccio di sapone, ma in un giorno come questo i controlli sono più severi. I terroristi (si chiamano così) non riusciamo a capirli, sparecchiano la nostra tavola rovesciando tutto in un solo colpo.
Ma chi ha inventato questa guerra che dalle trincee di cento anni fa arriva fino alla porta di casa nostra? Penso alle trincee perché da un anno si parla della prima guerra mondiale. Si pubblicano e ripubblicano libri. Escono film e si fanno trasmissioni televisive sulla grande guerra. In molti ricordano l’attentato di Sarajevo. Gavrilo Princip uccise l’erede al trono austro-ungarico in una giornata che ebbe un andamento grottesco. A scuola ci dicevano che la guerra scoppiò dopo quel fatto, ma era solo una semplificazione.
L’Europa si preparava già da dieci anni e tutti i paesi avevano interesse a spararsi addosso. L’Austria cercava un pretesto per mettere le mani sui Balcani e presentò un ultimatum alla Serbia senza aspettare la risposta, la Russia voleva uno sbocco sui mari caldi, la Germania pensava all’egemonia continentale ma anche all’espansione coloniale, l’Inghilterra non voleva un paese egemone nel continente europeo, la Francia non poteva non intervenire davanti ad Austria e Germania che si muovevano, l’Italia temporeggiò per un anno poi prese al volo l’invasione del Belgio per cambiare schieramento e mettersi in trincea contro gli austriaci.
E poi tutti avevano paura del socialismo. La guerra avrebbe fermato la rivoluzione. In Russia successe il contrario: fu la rivoluzione a scoppiare grazie alla guerra, ma queste due anime furono comunque legate l’una all’altra anche in quel caso. Queste cose le sappiamo dopo anni di studi e pubblicazioni, ma cento anni fa i nostri nonni avevano a disposizione una versione completamente diversa. La storia ci ricorda che gli avvenimenti sono soltanto la punta visibile di un iceberg che si scopre solo col tempo e con lo studio. Dunque: qual è l’iceberg che sta sotto ad un attentato come questo? Cerchiamo di scoprirlo iniziando col porci un’altra domanda: a chi serve questa guerra?
La Repubblica, 8 gennaio 2015
NON è vero che a Charlie Hebdo niente è sacro. Sacra, in quel vecchio giornale parigino, è la libertà. Danzava, la libertà, allegra e nuda come le donnine di Wolinsky, attorno alla fragile trincea di scrivanie coperte di carta, matite, giornali, pennarelli (l’arsenale delle vittime) sulle quali sono caduti gli impenitenti artisti della satira francese, molti dei quali anziani, freddati dai loro giovani assassini.
Ragazzi bigotti che uccidono vecchi libertini. Autori di lungo corso come Georges Wolinsky, Charb, Cabu, usciti indenni da cento processi per oscenità, scampati a licenziamenti, fallimenti e censure, sopravvissuti perfino alle tante rissose diaspore interne al mondo (litigiosissimo) del giornalismo satirico, per poi morire così, macellati da due imbecilli sanguinari che della libertà niente possono e vogliono sapere: la libertà sta ai fanatici come la bicicletta ai pesci. Il ceppo di Charlie e del suo antenato Hara Kiri è quello, così solido in Francia, del radicalismo laico e repubblicano. Con una forte innervatura sessuomane, anarchica e anticlericale esplosa con lo spirito sessantottardo ma ben presente anche prima, a ritroso lungo Nove e Ottocento. Ispiratore indiscusso della rivista fu François Cavanna (origini piacentine), un vecchio hippy ribelle autore di versi esilaranti e spietati sulla soggezione dei popoli al potere e alle religioni. È morto nel suo letto quasi un anno fa, novantenne, candido e magro come un sacerdote, risparmiandosi questo orrore, e lo strazio di sapere offesa così in profondità la sua ilare tribù.
Il marchio di fabbrica di quel milieu satirico, immutato negli ultimi decenni e attraverso numerose testate, è una sorta di oltranzismo libertario e libertino che irrita anche la sinistra perbenista ed è sempre stato odiato dalla destra tradizionalista: il precedente direttore del giornale Philippe Val, omosessuale, pochi anni fa venne inseguito e picchiato per la strada, dopo un dibattito televisivo, da un gruppo di cristiani omofobi che voleva insegnarli come si sta al mondo. Una umiliante rappresaglia, ma niente in confronto al mostruoso esito del nuovo conflitto nel quale Charlie Hebdo, diciamo così per sua natura, non poteva non immischiarsi: quello tra la libertà di espressione e il fondamentalismo islamista. La lunga guerra iniziata “ufficialmente” nell’ormai lontano 1989 con la fatwa contro Salman Rushdie e i suoi Versi satanici . Guerra intestina all’Europa, va ricordato, fino dal suo primo atto: pare certo che la condanna a morte di Rushdie sia stata ispirata da ambienti islamisti londinesi, come se la refrattarietà di quel pezzo di Islam alla libertà di parola e di immagine fosse acuita, irreparabilmente, dalla promiscuità con i nostri costumi, ivi compresa la nostra (benedetta) scostumatezza.
La satira è, di suo, un linguaggio di confine, estremo e poco conforme alla disciplina. Restando (e purtroppo ci tocca) nella metafora bellica, è come un corpo di guastatori, le cui sortite non possono che scompaginare i ranghi, destabilizzare i ruoli. Sarebbe del tutto immorale, qui e ora, aprire il dibattito sulla liceità della blasfemia, o se volete della insolenza verso i dogmi religiosi. Sarebbe la cosa più blasfema da fare accanto a quei morti innocenti, e certamente morti di libertà (a causa della libertà, in nome della libertà). Sarebbe come se dalle retrovie, e con il culo al caldo, ci permettessimo di discettare sul rischio che si sono presi quei caduti.
Limitiamoci a constatare che, sul fronte della libertà di parola e di immagine, la satira non può che essere in prima linea. E a Charlie Hebdo avevano deciso di non arretrare di un passo. Ben sapendo — tra l’altro — che per una rivista fatta sostanzialmente da disegnatori la collisione con l’iconoclastia islamista è nelle cose. Le vittime di questa carneficina avevano tutte, metaforicamente o nella realtà, la matita in mano. E’ la matita, in questo vero e proprio Ground Zero della libertà di stampa, il minimo eppure potentissimo grattacielo abbattuto. Mettetevi una matita nel taschino, nei prossimi giorni, per sentirvi più vicini a Charlie, anche se non l’avete mai letto, anche se la satira vi piace così così, e la trovate eccessiva o sguaiata o provocatoria.
Salutiamo con un sorriso aperto — loro non vorrebbero di meglio — quella gente appassionata, intelligente e inerme, il direttore Charb (Stéphane Charbonnier), Cabu (Jean Cabus), Tignous (Berdard Verlhac), Georges Wolinsky, ingoiati dal buco nero dell’odio politico-religioso insieme al giornalista Bernard Maris, ad altri cinque compagni di lavoro e a due agenti di polizia. Provate a immaginare, per prendere le misure della strage di rue Nicolas- Appert, se i vignettisti che ogni giorno vi fanno ragionare o ridere sui giornali italiani venissero falciati tutti o quasi da un pogrom di fanatici, lasciando vuoto, sulla pagina, quel quadrato così superfluo e così indispensabile. Non dimentichiamoci mai, neanche per un secondo, come profuma di buono la libertà, e quanto siamo debitori, come europei, alla Francia e a Parigi.
La Repubblica, 8 gennaio 2014
DODICI morti e decine di feriti per «vendicare il Profeta»: così gli assassini che hanno attaccato la sede di Charlie Hebdo giustificano il loro crimine. Ma né il Profeta (il suo spirito), né alcun teologo serio li ha mai incitati a massacrare giornalisti liberi, impegnati nel campo della satira, che mai hanno avuto riguardi per le religioni in genere. Dal 1905 la Francia è un Paese laico, in cui la Chiesa è separata dallo Stato. Ma questo, i terroristi armati e decisi a uccidere non lo riconoscono.
È il caso di ricordare le parole del Profeta Maometto, quando esortò i suoi soldati a recarsi a Mu’ta, in Siria, a combattere contro i Gassanidi protetti dai Romani: «Andate in nome di Dio. Combattete i nemici di Dio che sono vostri nemici. In Siria troverete monaci che vivono nelle loro celle, lontano dalla gente: non li importunate. Troverete guerrieri votati a Satana: combatteteli con la sciabola in mano. Non uccidete né donne, né bambini né vecchi, non sradicate nessun albero o palma, non distruggete nessuna casa».
Non è la prima volta che i fondamentalisti musulmani aggrediscono un organo di stampa. Quando Charlie Hebdo pubblicò le caricature del Profeta Maometto, il giornale e i suoi redattori furono oggetto di minacce. Ma con l’attentato di mercoledì mattina si è passati a un altro livello. I terroristi sono apparsi come guerrieri armati fino ai denti, e hanno ucciso deliberatamente chiunque si trovasse sul posto. Purtroppo quel giorno tutte le maggiori firme erano presenti. Per l’ultimo numero del giornale, Charb (che è tra le vittime) aveva disegnato una vignetta alquanto provocatoria. Si vede un uomo armato di bombe, e Charb gli dice: «Ancora niente attentati?» L’uomo risponde: «Aspetta, c’è tempo fino a fine gennaio per fare gli auguri». Eccoli: li hanno fatti il 7 gennaio, alle 11.30. I miei amici Cabu e Wolinski sono morti insieme ad altri dieci giornalisti. E ancora una volta si parlerà dell’Islam. Sì, gli assassini hanno gridato «Allah Akbar», come per firmare il loro crimine. Ma non è detto da nessuna parte che si debba assassinare chi non la pensa come voi.
Ovviamente il rettore della Moschea di Parigi ha condannato quest’atto barbarico, e molti musulmani francesi hanno espresso tutto il loro orrore. Che altro fare? Una soluzione ci sarebbe, ma per questo la Francia dovrebbe lavorare mano nella mano coi musulmani residenti sul suo territorio, riconoscendoli e considerandoli come cittadini a pieno titolo, integrandoli nei valori repubblicani. Perché di fatto quest’atto criminale è un attacco contro l’Islam, contro i musulmani che vivono pacificamente in Europa.
Ma prima ancora dobbiamo ricordare che i questi ultimi tempi sembrava si fosse aperta una caccia contro l’Islam e i musulmani, stigmatizzati in continuazione, segnati a dito ogni volta che una certa Francia si lasciava andare allo sconforto e alla ricerca di capri espiatori, per spiegare la crisi morale o la paura del futuro. C’era nell’aria qualcosa di funesto, di malsano — umori e toni di razzismo trasudanti dalle pagine di alcuni libri che hanno avuto un’eco notevole.
Si è fatto commercio con l’odio e la paura, le ossessioni e le crisi d’identità. Si sono presi di mira gli immigrati extra-comunitari e l’Islam. Il Front National si fregava le mani vedendo aumentare i propri voti alle elezioni parziali. L’ideologia dominante in questa Francia in crisi, dove il morale della popolazione è basso e non si vedono soluzioni alla disoccupazione e alla precarietà, si riduce a segnare a dito gli stranieri. Dopo il saggio sul Suicidio francese di Éric Zemmour, ora è la volta dell’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, che pronostica per il 2020 un presidente della Repubblica musulmano.
La paura ha ormai preso piede. I musulmani sono stanchi di essere sospettati, ostaggi di una crisi morale e identitaria. So- no i primi a essere inorriditi dalla barbarie dell’Is e di Al Qaeda. E sono le prime vittime di questo terrorismo. La Francia sta pagando in qualche modo il proprio impegno in Africa, in Siria e in Iraq. I suoi soldati combattono il terrorismo. In Mali sono riusciti a farlo arretrare; l’aviazione francese ha messo a segno ogni settimana diversi attacchi contro l’Is; e la portaerei Charles De Gaulle sarà inviata in prossimità della Siria. La Francia è in guerra contro quest’Islam barbaro e deviato. Non so se l’attentato contro Charlie Hebdo sia una vendetta o una risposta dell’Is alla Francia, che si è alleata con l’America per combatterlo. Sia come sia, oggi sono i musulmani di Francia a essere i più malvisti da una maggioranza della popolazione. Per quanto possano denunciare e condannare questi atti intollerabili, il sospetto su di loro rimane.
La Repubblica, 8 gennaio 2015 (m.p.r.)
Con un’azione militare contro il settimanale satirico Charlie Hebdo a Parigi il terrorismo islamista porta la morte nel cuore dell’Europa e della sua crisi, scagliando il nome di Allah e il fuoco dei
kalashnikov contro un altro simbolo della democrazia: un giornale. Restano uccise 12 persone, poliziotti, giornalisti, un economista, il direttore, i vecchi vignettisti famosi in tutto il mondo come Wolinski, con una vita irriverente trascorsa a celebrare l’amore e a mettere a nudo il potere, i suoi riti e i suoi inganni. Anche il potere del fanatismo, naturalmente, quello che Salman Rushdie chiama oggi su Repubblica il “totalitarismo religioso”. Il pretesto antico, eterno e meccanico come una
fatwa, è quello delle vignette su Maometto pubblicate nel 2006, già bersagliate da bombe molotov contro il giornale quattro anni fa.
Ma il bersaglio, com’è evidente, è la libertà in cui viviamo credendo di essere in pace, senza nemmeno accorgerci che quella libertà è eversiva e colpevole per il fanatismo proprio perché diventa costume civile quotidiano, normale modo di vivere, meccanismo di garanzia reciproca che ci scambiamo l’un l’altro in ciò che chiamiamo società, dove la nostra esistenza si incontra e si combina con le vite degli altri, trovando una regola comune nel rispettare i diritti altrui mentre vogliamo vengano tutelati i nostri. C’è uno scarto evidente, a volte vistoso, tra i principi che affermiamo e la traduzione che ne facciamo nella politica, nelle pratiche di potere grandi o piccole, nell’operato degli Stati democratici, nella nostra condotta personale. E tuttavia c’è un orizzonte collettivo in cui ci riconosciamo che molto semplicemente tende al bene comune, ad uno sviluppo inclusivo che sappia tenere insieme la libertà economica e le libertà individuali che sono nate proprio in questa parte del mondo.
Oggi ciò che noi siamo è ciò di cui moriamo. Perché il terrorismo fanatico sembra esattamente consapevole di una nostra identità trascurata, mal sopportata da noi stessi, considerata stanca come le nostre istituzioni estenuate, la nostra democrazia ingrigita ed esausta. Poi alziamo gli occhi, davanti agli spari nella redazione di un settimanale trasformato in simbolo, e scorriamo l’elenco dei santuari civili della grandiosa banalità democratica scelti come bersaglio: una scuola a Tolosa, un museo ebraico a Bruxelles, un caffè a Sidney, il parlamento a Ottawa e infine oggi un giornale a Parigi. Sono cinque angoli - tra i tanti - della nostra struttura civile in cui si incontrano le credenze democratiche nella libertà e nel progresso. Libertà di studiare, di far politica, di non discriminare tra le creature umane, di confidare nella trascendenza o nell’umano, di scambiare lavorare e consumare, di conoscere e di essere informati, per poter partecipare.
L’assalto a un settimanale ci ricorda quanto i giornali siano insieme simbolo e sostanza di questa civiltà che chiamiamo Occidente e di cui siamo meno consapevoli di coloro che ci hanno trasformati in nemici, anzi in vittime designate. I giornali portano in sé il dovere di informare e il corrispondente diritto di conoscere e sapere. Sono il prodotto e il metro di misura della democrazia di un Paese, la conferma che il potere è obbligato al rendiconto, la garanzia che non esistono zone franche, la testimonianza che in una società aperta ci sono diverse letture della realtà possibili, e il cittadino può confrontarle tra loro, così come può scegliere.
I terroristi ci confermano che non c’è libertà senza i giornali. E che la libertà dei giornali arriva fin dov’è necessario, fino all’irriverenza nella storia di Charlie Hebdo. La dimensione fanatica, il meccanismo totalitario non tollerano un’informazione libera. Addirittura non concepiscono la satira. Sanno perfettamente, nel loro istinto, che informazione, libertà e satira sono elementi fondamentali, naturali di una democrazia. E la democrazia è il loro vero bersaglio. Non tanto la democrazia delle istituzioni, giustamente protetta nei suoi luoghi sacri: piuttosto la democrazia dei diritti che si traduce nella materialità della vita quotidiana, nel nostro costume civile comune, così naturale connaturato da diventare quasi inconsapevole.
Se vogliamo che i morti di Parigi abbiano un significato morale e politico anche per noi, oltre al significato simbolico e militare per i terroristi, dobbiamo recuperare questa consapevolezza di ciò che noi siamo. Si chiama Occidente, cioè quella parte della cultura e del mondo che afferma di credere appunto nella democrazia come pratica che regge la cosa pubblica e la convivenza civile. Recuperata questa coscienza, dobbiamo prendere atto che proprio a questa identità è stata dichiarata una guerra mortale. Tanto più mortale quanto più i terroristi usano l’asimmetria come l’arma più potente, invincibile: kalashnikov contro la potenza disarmata di carta, inchiostro e idee, per esempio. Noi crediamo di vivere in pace e, fuorusciti con la democrazia vittoriosa da un secolo che ha regalato al mondo due totalitarismi, vorremmo estendere pace e democrazia nel mondo. Il terrorismo ci ricorda che i nostri valori più universali sono in realtà semplicemente occidentali, quindi colpevoli. È la profezia di Huntington che mirano a realizzare, nel rovesciamento del cal- colo razionale tra costi e benefici, nel ribaltamento terroristico del nostro codice che regola il rapporto tra l’ordine e il disordine, il bene e il male.
La religione armata contro la civiltà dei giornali è un doppio choc per la Francia che vuole nude le pareti della République, senza simboli religiosi, ritenendo laicamente che nella convivenza pubblica tra la legge del creatore e la legge delle creature debba prevalere quest’ultima, perché tutela i diritti - tutti - ma di tutti, quindi di chi crede e di chi non crede. Arriva fin qui l’attacco dell’islamismo radicale: fino alla separazione tra Chiesa e Stato. Fino a indurre la paura che l’edificio statale classico stia traballando di incertezze di fronte all’urto dei fondamentalisti. Che le parole con cui siamo cresciuti - laicità, tolleranza, uguaglianza, libertà - non riescano a definire di senso compiuto il nuovo mondo. Che quindi anche la cultura politica sia disarmata.
Nasce a questo punto il dovere di difendere non soltanto noi stessi ma addirittura la democrazia che è il vero bersaglio: il nostro modo di vivere, di amministrare noi stessi, la libertà di portare a scuola i nostri figli, di credere nel loro futuro, di accompagnarli in una chiesa o in un museo, di riunire i nostri parlamenti. È evidente che se tutti diventiamo bersaglio in quanto tutti siamo ogni giorno espressione, per strada e al lavoro, di libere scelte di vita, difenderci con le misure classiche di polizia diventa impossibile.
Occorre prendere atto che il Califfato e ciò che resta di Al Qaeda sono il cuore della minaccia per noi e per la libertà di tutti: anche dell’islam moderato civile, naturalmente, che deve separarsi radicalmente dal totalitarismo fanatico che strumentalizza la religione a fini criminali di potenza. Da questa minaccia dobbiamo difenderci con ogni mezzo, naturalmente con il dovere di rimanere noi stessi cioè fedeli, anche nella difesa, ai principi democratici e alla legalità internazionale. L’altro dovere è un riarmo culturale della democrazia, nei cui principi dobbiamo dimostrare fiducia e non disprezzo come troppo spesso facciamo. Vale in primo luogo per il potere, che ha responsabilità grandissime con le sue pratiche incoerenti, soprattutto la mancata consapevolezza che il lavoro è il fondamento della dignità e della libertà materiale. Ma vale per ognuno di noi: difendere la democrazia oggi per poterla affidare domani ai nostri figli. Così come per ognuno di noi, oggi, suona la campana di Parigi.

La Repubblica, 5 gennaio 2015
Rabouni (Algeria meridionale). VISTO da lontano più che di un’invalicabile barriera militarizzata il “muro della vergogna” ha l’aspetto di una duna giallognola che si erge di pochi metri chiudendo allo sguardo l’orizzonte esagerato del Sahara. A un paio di chilometri riesci appena a scorgere i cavalli di frisia che lo precedono e le parabole dei radar posti a scandagliare il nulla di un deserto punteggiato da acacie contorte e spinosissime. Per via delle mine anti-uomo con cui sono state lardate queste sabbie è impossibile avvicinarsi ulteriormente. Mohammed, la nostra guida sahrawi, ci indica un sentiero segnato con piccoli massi a uso delle poche delegazioni di politici o di attivisti che si spingono fin qui: «Questa strada è “pulita”, ma non possiamo percorrerla perché i marocchini ci hanno appena individuati ». Infatti, accanto a una garitta, indoviniamo le sagome di tre o quattro soldati.
Assieme a quello di Cipro e a quello israeliano, il valico che separa il Sahara Occidentale “occupato” da quello “liberato” è una delle ultime, spietate barriere che nel pianeta tagliano in due una comunità o un’intera nazione. Lungo 2720 chilometri, il “muro” nel deserto è senz’altro il più armato e il meglio presidiato. Dice Mohammed: «È protetto da 160mila soldati marocchini, 240 batterie di artiglieria pesante, 20mila chilometri di filo spinato e 7 milioni di mine anti-uomo e anti-carro. A Rabat costa 4 milioni di dollari al giorno». Costruita a difesa dell’ultima colonia d’Africa, per i sahrawi questa barriera tiene prigioniero tutto un popolo, impedendogli l’accesso alle ricche miniere di fosfati e alle pescosissime coste dell’Atlantico, entrambe nella porzione di Sahara occidentale “occupata” dai marocchini nel 1975. Per Rabat, invece, si tratta di una “cinta di protezione” eretta per arginare le falangi del Fronte Polisario, movimento in lotta per l’autodeterminazione dei sahrawi in quelle terre. Quel movimento, però, ha rinunciato alla lotta armata quasi un quarto di secolo fa, quando, nel 1991, optò per la via diplomatica nella speranza che grazie all’aiuto della comunità internazionale venisse indetto un referendum sul Sahara Occidentale. Un sogno ancora irrealizzato.
Mohamed Abdelaziz, segretario generale del Fronte Polisario e presidente in esilio della Repubblica araba sahrawi democratica, ci riceve a Rabouni, campo profughi nel Sud. L’ex combattente Abdelaziz, che vanta 13 cicatrici di guerra e una presidenza da primato, cominciata nel 1978, considera il “muro” il simbolo della separazione. «Rabat ha chiuso la porta a ogni soluzione pacifica e calpesta i diritti della nostra comunità. Siamo stanchi dello status quo e nei campi profughi i nostri giovani invocano la ripresa della lotta armata. Siamo noi sahrawi che dobbiamo decidere che cosa fare della nostra terra. Non il Marocco che la occupa illegalmente, come sancì la Corte internazionale di giustizia dell’Aja ».
Dal presidente Abdelaziz è andata una nostra delegazione parlamentare capeggiata dal senatore Pd Stefano Vaccari. All’Italia, il presidente chiede il riconoscimento della Repubblica araba sahrawi, come hanno già fatto un’ottantina di Paesi, e la condanna della Francia, «che da membro del Consiglio di sicurezza dell’Onu ha sempre usato del suo diritto di veto per favorire la monarchia marocchina».
Anche per il primo ministro sahrawi, Abdelkader Taleb Omar, senza una risoluzione dell’Onu il suo popolo ricomincerà presto a guerreggiare. «I giovani non hanno lavoro e per loro l’unica soluzione è il ritorno alle armi. Insomma, o patria o morte». Taleb Omar dà tutte le colpe all’intransigenza del Marocco «che da sei mesi non riceve Christopher Ross, inviato del segretario generale dell’Onu Ban Kimoon, che blocca l’ingresso nel Sahara occidentale alle delegazioni straniere, ai giornalisti e alle ong, e che impedisce persino l’arrivo nel capoluogo El Ayun del nuovo capo della Minurso, l’agenzia delle Nazioni Unite per il referendum ».
Il Sahara occidentale ha anche altri problemi, quelli che nascono alle sue frontiere: con la Libia nelle mani delle milizie, diventata un gigantesco mercato di armi, con il Mali, roccaforte di Al Qaeda, con il Marocco da dove i narco-trafficanti sperimentano nuove rotte per il trasporto della droga verso l’Europa. «Se i negoziati non dovessero trovare uno sbocco, i giovani sahrawi che scalpitano per tornare a combattere potrebbero finire nelle fila dei jihadisti, aggiungendo instabilità a una regione di per sé già incandescente», sostiene Abdeslam Omar Lahsem, presidente dell’Associazione delle famiglie dei prigionieri e dei desaparecidos. «Nel 1975 fu un’invasione barbara, con ammazzamenti e deportazioni di massa. Con la repressione marocchina sono già scomparse almeno 500 persone».
L’8 ottobre 2010, a pochi chilometri da El Ayun, nel Sahara occidentale “occupato”, 20mila sahrawi montarono 7000 tende in località Gdein Izik. Fu l’equivalente di una locale piazza Taksim, in anticipo di tre anni sulla rivolta turca. I manifestanti chiedevano case e lavoro al “tiranno” marocchino. Un mese dopo le forze di sicurezza sgomberarono l’accampamento. Secondo il linguista statunitense Chomsky fu quell’episodio, e non un mese dopo l’immolazione del tunisino Mohamed Bouazizi, a segnare l’inizio delle primavere arabe.

Corriere della Sera e la Repubblica, 5 gennaio 2015, con postilla
Corriere della Sera
FURBIZIA O SOLO IGNORANZA?
di Luigi Ferrarella
Al supermercato c’è la tracciabilità del cotechino e si può sapere tutto della filiera di provenienza di un kiwi: nei Consigli dei ministri del governo di Matteo Renzi, invece, sembra difettare la tracciabilità delle norme «orfane» o «desaparecide». Soprattutto nei decreti legislativi, dove deleghe troppo generiche ed estese conferiscono all’esecutivo un potere sottratto a un effettivo controllo parlamentare, persino superiore a quello dei già troppo abusati decreti legge. Sempre più spesso nelle sedute di governo non si capisce chi e perché faccia sparire in uscita norme che in entrata c’erano; o chi invece infili e faccia votare a distratti ministri norme che in entrata non c’erano, e che all’uscita nessuno più nel governo sembra riconoscere o addirittura conoscere.
È successo già tre volte solo nell’ultimo mese. Sull’applicabilità o meno della licenziabilità del Jobs act ai dipendenti pubblici si sono visti un influente senatore (Ichino) affermare che in Consiglio dei ministri fosse entrata una norma poi depennata, due ministri (Madia e Poletti) smentirlo e assicurare che mai vi fosse stata una norma del genere, e infine il premier ammettere che sì, insomma, la norma c’era ma era poi stata tolta in vista di un altro più coerente contenitore legislativo.
Pochi giorni prima, quando il governo aveva (per ora solo) annunciato una già striminzita legge anticorruzione, in Consiglio dei ministri era entrata, ma misteriosamente non era più uscita per mano di non si sa chi, una norma premiale per il primo tra corrotto e corruttore che spezzasse il vincolo d’omertà e denunciasse il complice. E adesso, dopo due casi di norme «desaparecide», eccone uno di legge «orfana»: cinque parole che, nell’attuazione delle delega sui reati fiscali, alla vigilia di Natale paracadutano una inedita «clausola di non punibilità» che, per una serie di rimbalzi procedurali, di sponda avrebbe l’effetto finale di dare a Berlusconi la chance di chiedere la revoca della condanna definitiva per frode fiscale sui diritti tv Mediaset e ritornare alla politica sinora preclusagli da quella legge Severino che come presupposto ha appunto l’esistenza di una condanna definitiva.
Ora Renzi, che in conferenza stampa aveva magnificato il decreto legislativo sorvolando su questa norma, nel più classico degli schemi lideristici annuncia, quasi parlasse di un meteorite piovuto chissà da quale galassia, che lo fermerà e farà riesaminare in un nuovo Cdm. Sarà interessante vedere come, giacché il dichiarato intento governativo - un fisco amichevole che non usi più il bastone penale su chi tutte le tasse non paga non perché voglia evaderle ma perché non ce la fa per la crisi - pareva già ampiamente (anche troppo) soddisfatto dalle modifiche che nelle singole fattispecie di reati fiscali rendono non punibili la «dichiarazione infedele» fino a 150.000 euro, l’«omessa dichiarazione» fino a 50.000 euro, la «dichiarazione fraudolenta mediante artifici» fino a 30.000 euro di imposta evasa e 1 milione e mezzo di imponibile sottratto al fisco o 5 per cento di elementi attivi indicati, e la «dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti» fino a 1.000 euro l’anno.
Ecco perché ora non può finire solo con il ritiro dell’articolo 19-bis, ibrida «clausola di non punibilità» che, «per tutti i reati del presente decreto», metteva al riparo chi evade in una modica quantità (come la droga) stabilita in un per nulla modico 3% dell’imponibile dichiarato. Clausola che nel passato calza a pennello alla sentenza di Berlusconi, e che per il futuro equivale tra l’altro anche ad autorizzare (e quasi incentivare) una media-grande impresa, ad esempio da 50 milioni di imponibile, ad accantonare impunemente un milione e mezzo di «fondi neri» utilizzabili per alimentare poi tangenti.
Delle due l’una: o Palazzo Chigi sapeva bene cosa stesse approvando e allora non si capisce perché oggi Renzi faccia precipitosa marcia indietro; oppure non lo sapeva, e allora c’è da preoccuparsi. Come antidoto alla tossicità di questo procedere opaco di legiferare, infatti, un governo che non lesina tweet fatui, e proclama trasparenza online sul buongoverno.it , dovrebbe anche rendere pubblico quali ministri o burocrati o consulenti hanno scritto o interpolato o veicolato quell’articolo 19-bis; quali motivazioni, magari serie, lo argomentavano; chi e dove e quando ha valutato i pro e contro della norma; quali posizioni hanno assunto sul punto i ministri più interessati (Economia, Giustizia, Rapporti col Parlamento, presidenza del Consiglio).
Perché si può fare tutto, anche depenalizzare questo o quel reato, magari pure con benefici indiretti per questo o quel soggetto: ma alla luce del sole, con trasparenza dei percorsi e consapevolezza dei risultati. Per migliorare i quali, forse, ogni tanto non guasterebbe qualche sfottuto «professorone» in più, e qualche fedele ma incompetente in meno.
La Repubblica
IL TRUCCHETTO DEL TRE PER CENTO
di Gianluigi Pellegrino
Il ripensamento ha senz’altro il sapore giusto dell’atto dovuto. Il riconoscimento di un errore inaccettabile che il governo stava compiendo. E che si deve stare in guardia non si ripresenti nei prossimi passaggi del provvedimento in Consiglio dei ministri. Ciò detto, non pochi interrogativi restano appesi, e aspettano risposte ugualmente doverose.
La norma inserita nel decreto fiscale era infatti, prima ancora di ogni finalità sospetta, del tutto indifendibile nel merito. Un autentico sgorbio grave quanto odioso. Stabiliva espressamente che un ricco che froda al fisco milioni di euro se ne esce con una semplice sanzione amministrativa, solo per la sua alta dichiarazione dei redditi. Mentre per uguale o minore evasione un cittadino comune deve essere punito severamente con la galera.
Una norma che non c’entrava nulla con i meritori contenuti del decreto delegato e che contraddiceva gli obiettivi indicati più volte da Renzi: punire i grandi evasori senza per questo mostrare ai cittadini un fisco nemico, arrabbiato e aguzzino. Qui invece si faceva l’esatto contrario. E allora la domanda è come sia potuto avvenire. Come abbia potuto lo stesso governo approvare quel testo. Nessuno si era accorto delle conseguenze? O qualcuno sperava che il provvedimento sarebbe passato inosservato? Non si sa quale sia l’ipotesi peggiore.
E nel mistero della manina autrice del codicillo non può sorprendere che si sottolinei come quella normetta traduceva alla lettera il ritornello berlusconiano: come fate a condannare per frode fiscale me, che pago milioni di tasse? Che è un po’ come pretendere di giustificare l’omicidio di un medico se per il resto ha curato molti malati. O la pedofilia di un prete o di un insegnante se per il resto hanno educato tanti bambini.
In realtà il furto del ricco dovrebbe al più essere un’aggravante. Eppure esattamente quel principio declamato dal Cavaliere risultava tradotto in legge, perché si rendeva non più punibile la orchestrata frode milionaria, in ragione della complessiva dichiarazione di redditi del colpevole. Utilizzando il giochetto del 3 per cento che cadeva a pennello per cancellare con un colpo di spugna le frodi del leader di Forza Italia, aprendo la voragine di unsalvacondotto per tutti i grandi evasori.
Ora, dopo il clamore suscitato, il governo fa giustamente macchina indietro. Ma delle due l’una. O era una norma approvata consapevolmente e doveva allora dichiararsene la suo esplicita finalità all’interno di una più o meno malintesa pacificazione con Berlusconi. Oppure, se è stata inserita da altri è grave che il premier l’abbia firmata. Adesso non può certo covare in seno a Palazzo Chigi serpi che giocano proprie indicibili partite. E nemmeno può accettare che chi doveva non lo abbia avvertito né messo in campana. Altrimenti è lui, il premier, a non dirci tutto.
Passa a ben vedere da qui, alla vigilia di una fase decisiva, una prova non secondaria per la credibilità della complessiva azione del governo, anche al di là di un codicillo abusivo quanto grossolano. Anche per fugare il terribile dubbio che fosse vile moneta di scambio per il voto sul Quirinale.
Corriere della Sera
RIMPALLO TRA PALAZZO CHIGI E TESORO.
POI RENZI SI ASSUME LA RESPONSABILITA'
di Antonella Baccaro e Marco Galluzzo
Roma. La tesi della «manina», del fantasma di Palazzo Chigi, del giallo del rimpallo di responsabilità fra ministero dell’Economia e staff del premier, si rincorre per tutto il giorno. Ma alla fine è lo stesso Renzi a metterla a tacere. A chi lo chiama, a chi chiede spiegazioni, nel pomeriggio, il capo del governo dice che non c’è alcun mistero, che la norma incriminata l’ha voluta lui, è stata condivisa con il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, discussa con gli altri ministri, che fa parte dello spirito del provvedimento.
Nel governo, più o meno nelle stesse ore, c’è chi dice che si è trattato di «una leggerezza spaziale». C’è chi aggiunge, con una punta di imbarazzo, anche a Palazzo Chigi, che semplicemente, la norma, «ci è sfuggita». Ovviamente nessun ci fa una grande figura: un Consiglio dei ministri composto da politici e tecnici ha discusso di una norma su un reato delicato, sensibile, controverso, su cui il Cavaliere ha ricevuto una condanna appena nel 2013 e nessuno si è accorto di nulla. Nessuno ha avuto nulla da obiettare. Una versione per certi tratti verosimile, visto che in quella stessa riunione fu dedicato molto più tempo al Jobs act. Ma resta «la leggerezza», tanto macroscopica da infuocare il clima politico, e alla fine l’ammissione della stessa.
Questione chiusa? Mica tanto. La tensione provocata dalle polemiche sorte intorno alla norma che, secondo alcune interpretazioni, regalerebbe a Berlusconi l’agognato rientro a pieno titolo nella gara elettorale, ha alimentato per tutto il giorno veleni e sospetti che emergono, qua e là, nelle versioni alcune concordanti, altre meno, sulla genesi della norma e sul suo obiettivo. Basta riavvolgere il nastro. La prima scena si svolge al ministero dell’Economia, dove il lavoro preparatorio sul decreto si è concluso il giorno prima del Consiglio dei ministri della vigilia di Natale. Sui giornali c’erano già state polemiche su alcune bozze circolate del decreto fiscale, ma avevano riguardato l’innalzamento della soglia di punibilità della dichiarazione infedele da 50 mila a 150 mila euro. Della famigerata soglia del 3%, quella al di sotto del quale si guadagnerebbe l’impunità, nessuno aveva mai sentito parlare.
«Fino al 23 dicembre mattina quella norma non c’era — conferma il sottosegretario Enrico Zanetti —. Il 24 io non c’ero, il 25 e 26 mi sono dedicato alla famiglia, ma poi il giorno dopo sono andato a leggermi il testo del decreto direttamente sul sito web del governo». E lì si è accorto della novità, sollevando l problema. Il viceministro Luigi Casero concorda: «Neanche io ho sentito mai parlare di una soglia del 3% prima di vedere il testo uscito dal Consiglio dei ministri, quando ormai ero tornato a Milano. Del resto non è stata l’unica novità: ce ne sono almeno 3 o 4 rispetto alla versione che avevamo licenziato».
Padoan ieri non ha parlato, né il suo portavoce ha fornito spiegazioni sulla dinamica della vicenda. Alla domanda se il ministro difenda o meno la norma incriminata, si è limitato a rispondere che «non c’è una posizione nel merito della norma ma una disponibilità a valutare gli effetti della sua applicazione». Cioè? «Il principio discusso in Consiglio dei ministri va salvato: è opinione diffusa che così come sono oggi le norme consentono a quelli “bravi a evadere” di sfuggire, mentre vengono colpiti comportamenti di rilevanza minore». Proprio di questo si sarebbe parlato in un Consiglio dei ministri che i presenti, a dire il vero, ricordano più per l’animata discussione sul Jobs act. Un ministro, che in Consiglio c’era, rammenta che Padoan presentò il testo del decreto ma che Renzi aprì una discussione su alcuni punti per aumentare, in alcuni casi, e diminuire, in altri, le sanzioni. Si parlò delle ricadute della norma del 3% su Berlusconi? Il ministro giura di no.
Alla fine il testo rimaneggiato ottenne l’approvazione «salvo intese» per consentire agli uffici di verificare le compatibilità normative della nuova versione. Cosa che si sarebbe fatta al termine del Consiglio, finito alle 15.45, nel pomeriggio del 24, a Palazzo Chigi, dove l’ufficio legislativo guidato da Antonella Manzione stese la versione definitiva insieme a esponenti del ministero della Giustizia e dell’Economia e non si sa se c’era anche qualcuno del gabinetto di Renzi. Il testo del decreto appare sul sito del governo già il 24 sera. L’attenzione si sposta dunque sul gabinetto che ha steso il testo finale: qualcuno dei tecnici era più consapevole degli altri delle possibili ricadute della norma? Sul punto resta il mistero. Certo, il rimpallo delle prime ore viene in qualche modo depotenziato dall’assunzione di responsabilità del premier. Il testo del Mef è stato cambiato, Palazzo Chigi vi ha apportato almeno quattro o cinque modifiche, «ma Padoan le ha condivise tutte», e poi «è del tutto normale che in sede di approvazione un testo venga in qualche modo modificato per essere migliorato».
Se ai suoi uffici dice di respingere qualsiasi insinuazione «strampalata» di scambi con l’ex premier, se in tv va a spiegare che il provvedimento sarà fermato, rivisto e inviato alle Camere solo dopo l’elezione del capo dello Stato, per fugare ogni dubbio di «inciucio», a chi gli parla nella giornata, in sostanza il capo del governo ammette che è stato fatto un errore, che ci si trova di fronte a una svista, per quanto macroscopica. Basterà a fugare tutte le ombre?
La Repubblica
“MATTEO TROPPO DISINVOLTO E PADOAN HA SBAGLIATO"
Intervista a Stefano Fassina
«Quella norma è agghiacciante ». Più chiaro di così, Stefano Fassina non può essere. Lui che a via XX settembre ha trascorso quasi un anno da viceministro, stavolta non ha dubbi: «Sono colpito e preoccupato. Per il deficit di autonomia e la marginalità che il ministero dell’Economia ha dimostrato in questo passaggio, visto che si trattava di un tema di stretta competenza del ministro. E per la disinvoltura di Renzi».
Perché dice che il premier è stato disinvolto?
«Perché prima ha forzato la mano sull’Economia, introducendo una norma che il ministro non condivideva. E poi, di fronte alla reazione della stampa e dell’opinione pubblica, ha fatto una retromarcia imbarazzante. Su un tema, fra l’altro, molto delicato come la depenalizzazione della frode fiscale».
Con una norma che potrebbe favorire anche Berlusconi.
«L’attenzione mediatica adesso si è concentrata sul leader di Forza Italia, ma non è quello l’unico elemento preoccupante della norma. Se si depenalizza la frode fiscale in un Paese che ha il record mondiale di eversione, non va bene. Il governo dovrebbe rimuovere le condizioni che determinano l’evasione di sopravvivenza, colpendo allo stesso tempo i grandi evasori. Qui invece si fa l’opposto».
Lei pensa che c’entri il patto del Nazareno?
«Non voglio credere che sia un elemento del patto del Nazareno, anche perché è evidente che un intervento di questo tipo non sarebbe passato inosservato. Credo invece che sia stato un errore grave».
Può accadere che una sanatoria del genere entri nel decreto senza che il ministero dell’Economia comprenda gli effetti?
«Non esiste che il ministro e il ministero si facciano infilare una norma del genere durante il consiglio dei Ministri. Non è un dettaglio, quindi ci sono due possibilità: il ministro era d’accordo, oppure non se n’è accorto. E non so se questa seconda ipotesi sia migliore. L’unico modo per cui si può inserire una norma del genere senza che se ne accorga il ministro è che il Dipartimento degli affari giuridici di Palazzo Chigi lo inserisca nel testo a consiglio dei ministri concluso».
Tutto accade a pochi giorni dalla sfida per il Colle. Questo incidente può pesare?
«La disinvoltura con cui il premier ha portato avanti questa vicenda non crea il clima migliore in vista dell’elezione per il Quirinale. Credo che il nuovo Presidente vada scelto con la più ampia convergenza possibile, Forza Italia compresa. Dopodiché questa situazione complica il quadro».
Corriere della Sera 5 Gennaio, 2015
«ALL'ECONOMIA HANNO COMUNQUE SBAGLIATO»
Intervista a Vincenzo Visco
Professor Visco, da ex ministro del Tesoro, che idea si è fatto del decreto «incriminato»?
«Si tratta di un provvedimento attuativo di una legge delega che ha l’obiettivo, tra l’altro, di riordinare il penale tributario secondo una logica di attenuazione. Ma di certo l’aspettativa generale non era quella di arrivare a depenalizzare i reati tributari. Non credo che la gente pensi che chi commette tali reati contribuisca all’affollamento delle carceri... ».
Quindi non c’è solo una norma considerata favorevole a Berlusconi. Secondo lei il nuovo decreto introduce una generale depenalizzazione dei reati tributari?
«Sì, una depenalizzazione di tutto, cominciando dall’elusione, in contrasto logico col fatto che in sede Ocse e G20 ci battiamo contro le multinazionali che operano in questo modo».
Ci faccia un altro esempio.
«Chi fa fatture false per mille euro non è punibile. Ma se una fattura è falsa è falsa, non c’è da mettere limiti. Uno può fare una cartiera che produce fatture false per cento, mille contribuenti e non viene punito? È inquietante».
C’è altro?
«Sì, tutte le frodi colpite negli ultimi anni nelle quali sono stati usati strumenti derivati dalle banche d’affari vengono depenalizzate».
Poi c’è la soglia di punibilità che passa da 50 mila a 150 mila euro.
«Esatto, questo vuol dire che l’evasore fino a 3-400 mila euro di materia imponibile non è punibile penalmente: forse è troppo. E poi non è più reato l’imputazione di costi non inerenti all’attività d’impresa, cioè ad esempio quando si portano in deduzione costi di consumi che sono del contribuente o dei suoi familiari. Non è più reato neanche l’omessa dichiarazione del sostituto d’impresa, questa deve essere stata una dimenticanza, ma ci sono altre norme che possono comportare una perdita di gettito importante».
Quali?
«Ad esempio quella che elimina una norma, che avevo introdotto io, che raddoppiava i termini ordinari di accertamento nel caso in cui, durante l’attività di verifica, gli uffici avessero riscontrato la rilevanza penale di determinati comportamenti. Con la modifica gli anni da otto passano a quattro. Impossibile agire».
Sì, ma sul comma che esclude la punibilità se l’importo delle imposte sui redditi evase non è superiore al 3% dell’imponibile che pensa?
«Che è in contrasto con l’intero impianto della riforma che si basa sulle soglie: non ha senso».
postilla
Questa vicenda rivela la profondità dell'abisso nel quale Mattei Renzi, e l'ideologia di cui è portatore, ci hanno gettato. Un governo che adopera il linguaggio del twitter perché non conosce la sintassi, la grammatica e l'ortografia della lingua italiana; che alla fretta sacrifica la ponderazione; che preferisce lo strillo all'argomentazione e lo slogan al ragionamento; che assegna ai "burocrati" il ruolo dei servi del Capo invece di quello di servitori del popolo (civil servant) é nefasto per il paese sul quale esercita il suo dominio. Che poi il beneficiario (il consumatore finale) di questo degrado sia Silvio Berlusconi è scritto nelle cose. E' lui il padre ideale (e il padrino) della compagine che attornia il premier. Non è poi difficile stilare l'elenco dei complici, passati e presenti, dell'uno e dell'altro, di Matteo e di Silvio.

Il Fatto Quotidiano, 4 dicembre 2014 (m.p.r.)
Per dire quanto poco siamo prevenuti, ieri avevamo deciso di pubblicare per oggi su questa colonna un articolo intitolato: “Renzi ha ragione”, o “Bravo Renzi”, o ancora “Forza Matteo”. Non per i suoi virtuosismi sciistici sulle nevi di Courmayeur, già magnificati a dovere dall’agenzia Ansa-Stefani, ma per la battaglia contro l’assenteismo nel pubblico impiego, annunciata su twitter con i toni giusti, senza la petulanza offensiva di Brunetta, che provò a far qualcosa ma rovinò tutto con le solite scalmane demagogiche.
Poi ci ha chiamati un amico e ci ha messo una pulce nell’orecchio, a proposito del nostro titolone di ieri sulla denuncia del sottosegretario Zanetti riguardo al codicillo salva-evasori infilato da una manina di Palazzo Chigi (all’insaputa del ministero dell’Economia) nel decreto fiscale varato alla vigilia di Natale: “Ma lo sai perché e per chi lo fanno?”. Ma per il solito, per Berlusconi. Tenetevi forte, perché questa è strepitosa. Il Caimano è stato condannato il 1° agosto 2013 a 4 anni per frode fiscale. Una sentenza che gli è costata pochissimo sul piano penale (mezza giornata a settimana a Cesano Boscone per nove mesi e 10 milioni di euro da rifondere all’Agenzia delle Entrate), ma moltissimo da quello politico: 2 anni di interdizione dai pubblici uffici, 6 anni di ineleggibilità e decadenza immediata da senatore in base alla legge Severino.
Che cosa prevede la nuova legge penale tributaria, in base al codicillo-colpo di spugna (art. 19-bis)? Che i reati fiscali di evasione e frode sono depenalizzati se l’Iva o l’imposta sul reddito evasa non supera “il 3% rispettivamente dell’imposta sul valore aggiunto o dell’imponibile dichiarato”. Una vastissima area di franchigia regalata a evasori e frodatori al riparo da procure e tribunali. Ora, B. è stato condannato per aver frodato il fisco per 7,3 milioni: 4,9 sul bilancio Mediaset del 2002 e 2,4 su quello del 2003. Tutto il resto della monumentale frode fiscale (368 milioni di dollari) con film comprati dalle major americane a prezzi gonfiati e rimbalzati su una serie di società offshore occultamente controllate da lui o da prestanome fra il 1995 e il ’98, si è prescritto. Ma, alla mannaia del fattore-tempo, accelerata da varie leggi
ad suam personam (falso in bilancio, condoni fiscali ed ex-Cirielli), sono scampati gli effetti fiscali “spalmati” sugli ammortamenti delle due annualità contabili.
Ora che Renzi, o chi per lui (a proposito: di chi è la manina?), ha inventato il salvacondotto del 3%, la domanda è semplice: quella frode residua è sopra o sotto il nuovo tetto? La risposta, nell’era del Patto del Nazareno, è scontata: sotto, e di parecchio. Il calcolo è presto fatto. Negli anni 2002 e 2003 Mediaset dichiara un imponibile di 397 e di 312 milioni e B. ne froda 4,9 e 2,4. Che corrispondono all’1,2 e allo 0,7%, ben al di sotto della soglia del 3% di non punibilità. Ergo, in base alla retroattività delle norme penali più favorevoli (favor rei, art.2 Codice penale), “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”. Grazie a una legge fascista, la n. 4/1929, il favor rei in materia fiscale e finanziaria non valeva: ma il centrosinistra, con la norma fiscale n.507/1999, la cancellò 15 anni fa.
È già accaduto a Romiti, De Benedetti e Passera, condannati definitivamente per falso in bilancio: nel 2003, dopo la controriforma berlusconiana che lo depenalizzava, chiesero un “incidente di esecuzione” alla Corte d’appello, che non potè che revocare le loro condanne. Anche B. dunque potrà ottenere la cancellazione della sua, per una frode che non è più reato. E, se evapora la condanna, spariscono anche decadenza, ineleggibilità e interdizione. Così alle prossime elezioni potrà ricandidarsi, lindo come giglio di campo. Quando ce l’hanno raccontato, stentavamo a credere che Renzi potesse arrivare a tanto. Ma, come diceva Montanelli, di certi politici non si riesce mai a pensare abbastanza male.
Il Fatto Quotidiano, 4 gennaio 2015 (m.p.r.)
Formica, che succede?
Confesso: sono disorientato. Sembra un’elezione degli anni Sessanta o Settanta, quando tutto era normale e la scadenza istituzionale imponeva al Paese di risolvere un’incombenza de plano, senza alcuna difficoltà.
Invece come siamo messi?
Nessuno nota la straordinarietà della situazione politica del Paese, siamo di fronte a un momento di scelte profonde: o si marcia spediti verso l’unità politica dell’Unione Europea o si torna alla disgregazione in staterelli rissosi e ribelli, pieni di divisioni e difficoltà.
Servirebbe un capo dello Stato all’altezza.
C’è un deficit terribile nell’informazione. Nessuno si domanda: a che serve questo Presidente della Repubblica? Sembriamo quasi rassegnati all’idea che sarà un inutile fantoccio.
Eppure Napolitano ha ribadito anche nel discorso di fine anno la grande sfida che ha davanti l’Italia. La sua è una disperazione fiduciosa, userei questo ossimoro. Ma io lo giudico eccessivamente ottimista nelle capacità di riscossa delle coscienze individuali. Mentre lui pronunciava quel discorso accorato, i due che dispongono del pacchetto di voti per l’elezione erano lì che trafficavano....
Ce l’ha con Renzi e Berlusconi.Uno cerca un presidente della Repubblica che lo aiuti ad asfaltare, come dice lui, l’opposizione interna. L’altro si preoccupa della sua agibilità politica, ovvero della chiusura delle code giudiziarie e del salvataggio delle sue aziende. Mi spiega cosa c’entra tutto questo col Paese?
Nessuno sembra animato da alti principi.
E infatti l’intesa tra i due si troverà al livello più basso: finirà che chiederanno al primo cameriere di turno, magari a un vigile urbano di Roma...
Il Parlamento troverà il modo per dire la sua?
Macché. Tutto questo avverrà in un seggio fatto di mille persone che sono impedite: sia per l’incostituzionalità della loro elezione (la Consulta ha bocciato la legge elettorale che li ha portati in Parlamento, ndr) sia perché sono terrorizzati da nuove elezioni: sono tutti senza partito.
Non prendono la situazione abbastanza sul serio?
È la prima volta in cui siamo di fronte a un’elezione del Quirinale che non tiene conto del futuro del Paese. Ma la scelta del Presidente della Repubblica non è un atto di devozione alla Carta, non è una cerimonia di folclore.
Qui si gioca con le figurine: il tecnico, il cattolico, …
È impressionante questo ragionare da vecchi. Sembra di stare negli anni Sessanta... Ma ora, da garante dell’unità nazionale, il presidente dovrà accompagnare il Paese nel salto nel buio di cui dicevamo sopra: o verso gli Stati Uniti d’Europa o verso il ritorno agli staterelli. Lo ha detto anche Mario Draghi, dalla Bce: se non vi muovete politicamente, io non posso fare nulla.
C’è chi pensa allo stesso Draghi come uomo giusto per il Colle.
Non basta nemmeno lui. Servono forze politiche in grado di sostenerlo, se no ci ritroviamo un predicatore e basta.
Come va a finire?
Se in queste ultime ore non si apre un grande dibattito - e lo potete aprire solo sui giornali - finisce che l’elezione sarà l’occasione per lo spettacolo di mille vendette individuali. I partiti non ci sono più. Gli ultimi tre presidenti della Repubblica si sono illusi della capacità di autoriforma del sistema politico. Non hanno voluto cogliere l’avvertimento di Cossiga, che li aveva messi in guardia sulla fine della democrazia parlamentare. Si sono cullati nella grande illusione. E ci siamo ritrovati con Renzi e Berlusconi.
La Repubblica, 4 gennaio 2015 (m.p.r.)
In cantina c ’erano il vino, l’olio, la conserva di pomodoro, lo strutto. In solaio, grano o farina e poi salami, coppe, pancette… Se le scorte erano buone, nelle case contadine l’inverno sembrava meno freddo e la primavera non troppo lontana. C’erano ovviamente le dispense ricche e quelle povere. Ma nell’anno appena arrivato a essere in crisi è l’intera “Dispensa Italia”, perché i raccolti non sono stati buoni e - 70 anni dopo la guerra - si torna a parlare di “razionamento”. L’allarme è lanciato dalla Coldiretti. «L’olio di oliva extravergine e made in Italy - dice Lorenzo Bazzana, responsabile economia di questa organizzazione di coltivatori - è razionato e con le scorte si arriverà soltanto a metà 2015. Stessa sorte per il grano duro, quello che serve all’industria per fare la pasta. Sei mesi in tutto anche per il miele. E ci sono problemi per il vino, per gli agrumi e per le castagne».
Ha un nome che spiega tutto, il virus che attacca le arance: «Citrus Tristeza», ovvero la «tristezza degli agrumi». La pianta sembra depressa, poi si secca e muore. Per combattere il virus, bisogna tagliarla e bruciarla. «Quest’anno la “tristezza degli agrumi” ha provocato un calo di produzione del 25%. Il virus è in espansione ormai da anni e non siamo riusciti a fermarlo». Ma a mancare sulle tavole italiane sarà soprattutto l’olio extravergine. «In Puglia, prima regione d’Italia per la produzione, il calo è stato del 40%. A provocarlo è stato un batterio, la Xjlella fastidiosa. Nel resto del Paese, a fare danni, è arrivata la mosca olearia. Se la produzione quasi si dimezza i prezzi salgono. Alla borsa di Bari l’olio in questi giorni si vende a 7 euro al chilo, il doppio rispetto all’anno scorso».
Navi cisterna e autobotti sono già viaggio verso l’Italia da Turchia, Grecia, Tunisia… «Bisognerà stare attenti alle frodi. Sui mercati internazionali girano oli che non hanno mai visto un ulivo e che diventano verdi perché vengono colorati con la clorofilla. C’è il rischio che olio straniero sia venduto come made in Italy e che addirittura cerchi di spacciarsi come Dop o Igp». Epicentro della crisi a tavola, il piatto clou della dieta mediterranea: la pasta. Scarso l’olio per condirla, scarsa anche la materia prima, il grano duro. «In Italia - dice Lorenzo Bazzana - il calo è stato del 4% ma noi importiamo il 40% del grano che ci serve. In Canada, che è il nostro fornitore principale, la produzione è diminuita del 27% e non ci sono eccedenze in altri Paesi, perché nel mondo c’è stato un calo complessivo del 15%. Dovremo imparare a produrlo noi, il grano che ci serve».
Sarà difficile trovare miele (che anche in annate normali per il 50% arriva dall’estero). Dopo il Varroa destructor, acaro parassita che si attacca al corpo dell’ape, è arrivato anche il coleottero Aetina tumida, che mangia il miele prima della raccolta. Le larve rovinano i favi. Unico rimedio, il fuoco. «Ma è difficile bloccare famiglie di coleotteri in grado di spostarsi per più di 10 chilometri in un giorno». In crisi il bicchiere di vino. La vendemmia 2014 è stata la più scarsa dopo quella del 1950 e per gli italiani abituati a bersi 38 litri all’anno (a testa) non sarà semplice trovare un prodotto di qualità a un prezzo giusto. Le castagne sono quasi scomparse, con una produzione di appena 18 milioni di chili, appena un terzo rispetto a 10 anni fa.
«Se non c’è farina bianca, prepara la polenta», si diceva nelle cucine di campagna. Ma anche il mais ha i suoi problemi. «Quest’anno - racconta Daniele Sfulcini, direttore di Confagricoltura a Mantova - non ci sono state le aflatossine provocate dalla siccità ma abbiamo problemi con le “vomitossine”, o “don” che creano danni alla salute degli animali». La vacca rigetta il mais malato, il maiale viene colpito al fegato e non cresce più bene. «E così, per evitare problemi agli animali, siano costretti a importare sempre più mais dall’estero e a prezzi sempre più alti. Al contrario, per il mais italiano che ha avuto una buona produzione, i prezzi sono crollati».
I bollettini della borsa merci di Mantova confermano. Il mais nazionale che nel primo trimestre 2014 era pagato 182 euro la tonnellata ora costa 149 euro. Rispetto alla media dell’anno scorso è crollato del 40%. Il mais estero, anche quello Ogm, viene pagato invece 158 euro. Buona pure la produzione di soia ma copre appena il 10 - 15% del fabbisogno nazionale. Tutto il resto arriva da lontano. «Dal 2007 fino al terzo trimestre del 2011 - dice il direttore di Confagricoltura - nei bollettini della borsa merci si specificava che la soia importata era Ogm. Adesso si scrive soltanto che si tratta di “soia estera”. Meglio non fare sapere che questa soia, quasi tutta Ogm, viene pagata al quintale 5 euro in più della nostra soia, non Ogm».
Non sarà dunque un anno facile, il 2015, nelle campagne e a tavola. «Con il crollo dei raccolti nazionali - dice Roberto Moncalvo, presidente della Coldiretti - rischiamo di metterci in casa prodotti di bassa qualità spacciati per made in Italy. Meglio leggere bene le etichette, soprattutto per olio, miele, agrumi freschi, dove è in vigore l’obbligo di indicare la provenienza ». Ma navi, Tir e autobotti stanno già arrivando. Tutti alla conquista della “Dispensa Italia”.
Il manifesto, 3 dicembre 2015 (m.p.r.)
«Voglio sgonfiare il mito della meritocrazia come la via da seguire per tutti. E credo che in una certa misura si stia già sgonfiando da sé: le persone sanno che non esiste più la mobilità sociale di un tempo. Come disse Raymond Williams anni fa, la meritocrazia inocula l’idea velenosa della legittimità delle gerarchie. Che sulla ’scala’ sociale possano salire solo alcuni». Così Jo Littler,
senior lecturer in
cultural studies alla City University di Londra, incontrata a Soho nei giorni scorsi. Littler sta lavorando a un libro, titolo provvisorio Against Meritocracy, che Routledge pubblicherà verso la fine del 2015. Quell’
against, lascia poco spazio alle interpretazioni: è un libro contro una meritocrazia vista come volano di darwinismo sociale. Basti pensare a certe scelte lessicali di Matteo Renzi per capire quanto la metafora sub specie finanziaria della «scalata» sia ormai iscritta nella dialettica politica delle post-sinistre europee. Per questo è urgente esplorarne l’ambiguità e smascherarne l’uso ideologico.
Nel dibattito politico contemporaneo la meritocrazia, infatti, imperversa. Sbandierandola enfaticamente come panacea della disuguaglianza - quando in realtà può esserne altrettanto tranquillamente annoverata tra le cause - la cultura d’impresa si fa spazio nel corpo sociale, sostituendo le proprie logiche di profitto a quelle su cui si è retto l’assetto welfarista europeo del secondo dopoguerra. E poi, come si fa a scagliarsi contro il merito? Nel lessico politico da ricreazione scolastica ora vigente, una puntuale accusa di «gufi» è pressoché assicurata. Peggio che mettere l’iPhone dentro a un gettone.
Elite sempre in testa
Sì, perché il merito è il cavallo di Troia con il quale il neoliberismo ha fatto un’etica irruzione nella cittadella post-socialdemocratica della sinistra europea. In questo cavallo Matteo Renzi - un tardivo epigono blairista quando Blair in patria è ormai plebiscitariamente un paria - non ha certo bisogno di nascondersi: anzi, lo cavalca come Tex Willer, strappando ovazioni al giovane esercito di riserva, plurititolato e sottoccupato, che di Renzi è entusiasta sostenitore. Ma il conio del termine è naturalmente avvenuto nella sfera angloliberale, ed è qui che si è avviata una discussione interessante sull’uso ideologico a tappeto che ne fanno i media anglosassoni.
«Comincia a diffondersi un sano scetticismo sulla meritocrazia, nonostante la pioggia mediatica che ci propinano i talent shows - spiega ancora Littler - Sto indagando sulle modalità con le quali le élite drammatizzano e sensazionalizzano le proprie vicende biografiche per propagandarle. Come cercano di presentarsi in qualità di individui ordinari per dissimulare il proprio privilegio e diffondere l’idea che si trovano lì perché se lo sono meritato. La famiglia reale, in questo senso, è molto interessante: è riuscita a riabilitarsi come appunto ’normale’. Oppure basti pensare al successo di serie televisive come Dawnton Abbey, dove le differenze sociali sono rese glamour e legittimate attraverso l’espediente narrativo».
È ovvio che il merito abbia anche molti aspetti positivi, come ad esempio la creatività, che vanno senz’altro sottolineati. Per questo Littler intende ricrearne la traiettoria storica e ideologica. «M’interessa ricostruirne lo sviluppo nella teoria sociale, nel dibattito politico, nella cultura. Questi tre fili sono molto intrecciati e troppe volte utilizzati in modo da sottrarre terreno morale all’indignazione nei confronti della disuguaglianza». Il libro è un tentativo di ricostruire la nascita e la circolazione del termine nei suoi rivoli semantici, «giacché talvolta è usato in modo addirittura sprezzante, cosa secondo me pericolosa. Naturalmente il rischio è che mi si possa scambiare per autocratica».
Vista inizialmente con sospetto dalla sociologia d’ispirazione Labour, la meritocrazia è stata poi sdoganata dai think tank conservatori britannici che, dagli anni Ottanta in poi, sono diventati i laboratori - egemonici e paneuropei loro malgrado - di politiche bipartisan di riforma del welfare e tendenti a una sempre maggiore invadenza del privato nel pubblico. Il termine meritocracy viene convenzionalmente fatto risalire al sociologo di area Labour Michael Young (1915–2002), che nel 1958 scrisse il saggio satirico The Rise of the Meritocracy, anche se era stato usato due anni prima da un altro sociologo, Alan Fox, per poi passare nel repertorio «anti-ideologico» di Daniel Bell. In Young il termine ha una connotazione negativa. È una visione distopica, che paventava ciò che sostanzialmente sta accadendo oggi: una crescente distanza e impermeabilità tra l’élite dei meritevoli e la stragrande maggioranza dei «non meritevoli», ai quali si tolgono gli ammortizzatori sociali proprio in quanto tali.
È uno di quei casi ironici della storia che il figlio di Young, l’assai più noto Toby, sia un giornalista patinato in forza al Daily Telegraph. «È stato il padre di Toby a scrivere il libro, è vero, un’ironia che viene spesso evidenziata - afferma Littler - Ma lo stesso Young padre presentava delle ambiguità. Michael era più interessato alle politiche dell’istruzione e alla stratificazione sociale, ed è lì che il termine assume una connotazione più sfocata. Anche se lo usa in modo satirico o come per riferirsi sfrontatamente alle divisioni sociali, in ultima analisi la sua critica del capitalismo è a dire poco ambigua. A rileggere i suoi scritti, Young emerge come figura davvero interessante. Era uno studioso innovativo, ma non privo di una certa ambiguità: come per esempio quando disse di non essere del tutto a favore delle comprehensive schools, una strana dichiarazione. Se poi si considerano gli ambienti sociali che frequentava, era vicino all’assai più liberale Daniel Bell».
Individuo prigioniero
Proprio l’autore del topico La fine dell’ideologia, un libro-chiave nell’allineamento della sinistra moderata in difesa del capitalismo in cui sono ravvisabili i prodromi dell’uso del concetto da parte del neoliberismo nella sua declinazione thatcheriana. «Thatcher è stata senz’altro una figura chiave nella diffusione delle idee neoliberiste, ma pensando a lei va ricordata soprattutto la partnership fondamentale con Ronald Reagan: tanto per ricordare che non era soltanto ’una malvagia donna, una strega’, come spesso l’apostrofavano i suoi detrattori, l’unica responsabile di un processo storico complesso. È utile pensare anche a cosa abbia rappresentato, al modo in cui ha immaginato la politica».
Eppure, dai
media mainstream, Thatcher è costantemente additata a simbolo di possibili conquiste femminili, quasi una forza emancipatrice. «È interessante l’aspetto ’femminista’ attribuito alla sua figura. Era tutt’altro che femminista ovviamente, e cercò di distanziarsi il più possibile da qualsiasi accostamento a obiettivi femministi: ne è riprova la demonizzazione sociale e culturale delle madri
single operata dal suo governo, la cui strategia sembra tuttora quella di incolpare le vittime di privatizzazioni e disoccupazione per il proprio malessere sociale».
È con Thatcher che si sostanzia per la prima volta il concetto nel senso della contrapposizione fra l’individuo e le sue chance di rispondere alle sfide del mercato. Nel suo presentarsi come matrona della nazione, Thatcher ha fatto uso di particolari elementi del femminismo e deliberatamente a meno di altri. «La sua è una femminilità quasi astratta, desessualizzata: per esempio, non faceva mai riferimenti alla propria famiglia. Ci sono molti studi che al momento affrontano il riposizionamento della femminilità in una vera e propria cultura d’impresa, dove la donna è incoraggiata a pensare a sé in quanto progetto individuale, a migliorare il proprio status e mobilità sociale attraverso l’autopromozione. L’individuo è incoraggiato a pensarsi come progetto: una sorta di ’imprenditorializzazione’ del sé».

Il manifesto, 3 gennaio 2015
La rinegoziazione radicale dei debiti pubblici dei paesi dell’eurozona in difficoltà, inclusa da tempo nel programma di Syriza e condivisa dall’Altra Europa, presenta risvolti complessi e delicati che vanno affrontati anche in sede tecnica: per prevederne le conseguenze macroeconomiche più dirompenti e cercare di prevenirle; ma soprattutto per proteggere i piccoli risparmiatori.
Nell’affrontare questi problemi occorre mettere però al primo posto la «politica» e non l’«economia», le scelte che possono orientare il conflitto sociale e non l’idea che il sistema possa continuare o addirittura riprendere a funzionare come sempre. Siamo di fronte o alla vigilia di una grande rottura: «L’Europa è a un bivio», come recita l’incipit dell’appello da cui è nata la lista L’Altra Europa con Tsipras. Per questo, prima di entrare negli ineludibili aspetti tecnici è opportuno fissare alcuni punti di carattere generale.
1. I debiti pubblici di alcuni paesi dell’eurozona, tra cui Grecia e Italia, ma non solo, sono insostenibili. Quale che sia lo spread, gli interessi da pagare sono tali che divorano le risorse senza consentire, non solo una «crescita» duratura, ma nemmeno il livello di attività economica raggiunto in passato. Per non parlare della restituzione di una parte consistente del debito, come previsto dal fiscal compact, di cui non a caso nessuno parla più - in realtà gli economisti ne hanno sempre parlato il meno possibile e nessuno ha ancora esibito un calcolo attendibile sul tasso (astronomico) di crescita necessario per rispettarlo: cioè per riportare in 20 anni il debito al 60 % del Pil.
2. La crisi greca non fa che portare alla luce questo dato. L’intervento della Trojka (Bce, Fmi e Commissione europea) ha già comportato - bisogna ricordarlo a chi si lascia spaventare dalle parole - ben due default, per quanto «pilotati»; ma giunto al suo termine programmato, era chiaro, sia al governo greco che alla Trojka, che nessun problema era stato risolto; e nemmeno affrontato seriamente. Il presunto ritorno della Grecia a una crescita, peraltro irrisoria, è solo — come ha dimostrato l’economista greco Jannis Milios sul manifesto del 30.12 - l’effetto di un’illusione contabile.
Il premier greco Samaras ha così cercato di aggirare la resa dei conti con una mossa politica, antici pando le elezioni e sperando di prendere in contropiede Syriza, soprattutto per non rispondere - e per permettere alla Trojka di non rispondere - di questo fallimento.
3. A livello macroeconomico i problemi che si troverà di fronte Syriza, se andrà al governo, sono gli stessi che si sarebbe trovato di fronte Samaras a febbraio. L’insostenibilità del debito greco sarebbe comunque emersa, con gli stessi effetti dirompenti che tutti si aspettano da un governo Tsipras; effetti che non derivano tanto dalle dimensioni del debito greco, complessivamente ridotte rispetto al Pil dell’eurozona, ma dal fatto di mettere in evidenza l’insostenibilità di tanti altri debiti, a partire da quello italiano, assai più consistenti. Ora la probabile vittoria di Syriza obbliga tutti i giocatori di questa partita a scoprire le loro carte.
4. Carte che però non ci sono. Debiti e politiche di austerity sono gestiti da un personale che, in tutte le sue articolazioni - finanziarie, amministrative e politiche (partiti, sindacati e associazioni imprenditoriali) - non ha la cultura per elaborare delle alternative (un «piano B») al disastro provocato dalla strada imboccata: «Non c’è alternativa», diceva la Thatcher. Juncker e il suo piano da 300 miliardi fantasma ne sono la manifestazione più evidente. Le misure di sostegno attivate, comprese quelle preannunciate da Draghi, non fanno che liberare le banche francesi, tedesche e inglesi dai crediti incagliati, trasferendone l’onere sia sulle banche dei paesi più a rischio (che hanno usato i fondi della Bce per rilevare una parte del debito detenuto all’estero), sia direttamente, su Bce e fondo salvastati. Manca qualsiasi idea seria su come sostenere occupazione (che non dipende certo dalle cosiddette «riforme», cioè dalla precarizzazione del lavoro) e investimenti (sostenibili solo se destinati alla conversione ecologica - cosa che richiede una forte iniziativa a livello locale - e non, come si pensa di fare, a Grandi Opere, che disperdono risorse, devastano territori, opprimono le popolazioni e producono mafia e corruzione).
5. In queste condizioni la deflagrazione dell’euro - anche a prescindere dalle questioni più gravi che premono ai confini della «fortezza Europa» - belligeranze senza più frontiere, crisi ambientale, ritorno alla guerra fredda e milioni di profughi - è solo questione di tempo. Ma le sue conseguenze sarebbero certamente più gravi di alcuni default pilotati, come quelli che potrebbero venir decisi nella conferenza sul debito proposta da Syriza. È poi inutile ripetere che l’«uscita dall’euro» predicata da Grillo, Salvini, Marine Le Pen e Alternative für Deutschland non è una soluzione: provocherebbe, a catena, altrettanto sconquasso nei singoli stati e una corsa generalizzata alle svalutazioni competitive da cui lavoratori e famiglie ricaverebbero solo bastonate. Diverso è il caso dell’eventuale introduzione di monete alternative locali non convertibili, o dei certificati di credito fiscale proposti da Ruffolo e Sylos Labini, per sostenere la domanda: potrebbero far fronte alle esigenze più impellenti.
6. La proposta di Syriza ha comunque il duplice merito di mettere all’ordine del giorno il problema della sostenibilità dell’euro nei suoi termini reali e di prospettare una via per affrontarlo. Naturalmente, per andare a buon fine, dovrà trovare adeguato sostegno sia dalle forze politiche - innanzitutto da quelle della Gue che ne hanno condiviso il programma, a partire dalla tedesca Die Linke, il cui ruolo è per questo strategico - sia dalle forze sociali che si stanno mobilitando contro l’austerità.
7. L’obiettivo di una ristrutturazione del debito pubblico italiano va inserito e sostenuto in questo contesto. È compito delle forze che lo condividono tradurlo in misure praticabili e renderlo comprensibile e accettabile distinguendo la difesa del piccolo risparmio dal disarmo delle istituzioni finanziarie nazionali ed estere responsabili delle attività speculative che hanno messo alle corde molti Stati.
Non è cosa facile: anche se il valore dei titoli di stato in mano ai risparmiatori italiani è ridotto (non supera i 200 miliardi), molte altre forme di risparmio - fondi, assicurazioni e previdenza integrativa - dipendono da investimenti in questi titoli. Per questo occorre esigere la separazione delle funzioni, non solo tra banche commerciali e banche di investimento, ma anche tra l’allocazione del debito pubblico su varie forme di risparmio minuto e le operazioni speculative fatte in proprio da fondi e banche d’affari.
8. Tutto ciò rende urgente un confronto sulle soluzioni per ridurre e rendere accattabile il ridimensionamento forzoso dei debiti pubblici. La più semplice, più volte prospettata, è la mutualizzazione della parte dei debiti degli Stati membri che eccede il 60 per cento dei rispettivi Pil, finanziandola con un piano pluriennale di creazione di nuova moneta (quantitative easing) o con l’emissione di eurobond da parte della Bce. Ciò riporterebbe gli interessi a un livello sostenibile, anche se con la seconda soluzione si lascerebbe comunque tutto il debito pubblico in mano alla finanza privata, perpetuando la scelta di fondo - il «divorzio» tra banca centrale e autorità politica - che ci ha portato in questo caos. Ma contro quelle soluzioni è stato già eretto un muro di no. Se la prova di forza di un governo greco guidato da Syriza non riuscirà ad abbatterlo, si dovranno cercare altre soluzioni; che vanno comunque tutte in direzione di una rifondazione dell’Unione Europea su basi mutualistiche e solidali.
9. Per aprire la discussione sulla rinegoziazione dei debiti e su questi temi servirebbe un gruppo di lavoro che scavalchi le divisioni tra le diverse componenti delle forze che si oppongono alle politiche di austerità. Sarebbe un primo esempio di una iniziativa unitaria, costruita su temi concreti, ma di portata strategica.
Il manifesto, 2 gennaio 2015
Il discorso di Napolitano è tutto quello che ci si poteva aspettare in un commiato dopo nove anni difficili. Va dal ricordo al monito, all’auspicio. Non mancano i toni crepuscolari.
Non stupisce cogliere una ferma difesa delle proprie scelte, soprattutto quelle fatte nel passaggio alla XVII legislatura nel 2013. In sostanza, ribadisce l’appoggio al governo Renzi, quasi a certificarne conclusivamente e senza possibilità di prova contraria la natura di «governo del Presidente». Gli argomenti sono noti.
L’esigenza preminente di stabilità, l’immagine internazionale dell’Italia, l’impellente necessità di un contrasto efficace alla crisi. Si potevano perseguire i medesimi obiettivi con scelte diverse? Ad esempio mandando Bersani in Parlamento a cercare una maggioranza per la fiducia, tornando alle urne in caso avesse fallito? Forse. È stata una lettura della situazione politica e istituzionale sostanzialmente non dissimile da quella che, con il supporto di Napolitano, aveva suggerito di ritardare il voto sulla mozione di sfiducia contro Berlusconi, quel tanto che bastò al cavaliere per riguadagnare con nobili argomenti la manciata di voti necessaria a resistere (Camera dei deputati, 14 dicembre 2010, 314 no e 311 sì). Fu giusto, o sbagliato? Scelte opinabili, e tuttavia non incompatibili con la lettura — familiare ai costituzionalisti — del ruolo del presidente come motore istituzionale nei momenti di crisi.
Quel che invece può far discutere davvero è la difesa nel merito, e persino nel dettaglio, delle scelte politiche poi fatte dal governo. Un apprezzamento non indispensabile. Volendo farlo, si dovrebbe guardare a tutti i risvolti, positivi e negativi. Così — dice Napolitano — l’Italia ha colto l’opportunità del semestre di presidenza del Consiglio per sollecitare un cambiamento nelle politiche dell’Unione. Ma vogliamo anche dire che i risultati sono scarsi o nulli? Apprezza il superamento del bicameralismo paritario. Ma non è forse vero che l’opposizione è stata ed è volta non al superamento del bicameralismo perfetto, ma alla sostituzione del senato con un’assemblea non elettiva imbottita del peggior ceto politico del paese?
Una nuova legge elettorale è un passaggio ineludibile. Ma conta o no che in punti molteplici la proposta in campo sia chiaramente elusiva dei principi stabiliti dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 1/2014? E il necessario più vasto programma di riforme istituzionali e socio-economiche messo in cantiere dal governo comprende senza alternative il Jobs Act nella formulazione conclusivamente approvata e realizzata nei decreti delegati, o potrebbe avere avuto o avere una diversa declinazione? E infine, il dubbio principale: si può affidare un carico così pesante — e in specie una radicale riforma della Costituzione — a istituzioni geneticamente distorte da una legge elettorale incostituzionale, a una maggioranza che è tale proprio per norme incompatibili con la Carta fondamentale? E dunque a una maggioranza che soddisfa forse criteri di legittimità formale, ma non di legittimazione sostanziale?
Tutto questo non compare nel discorso del Capo dello Stato. Dovrebbe? Sì, quanto meno per cenni. Soprattutto considerando che per lo stesso Napolitano il «senso della Costituzione» è una stella polare che va seguita per risanare e rilanciare il paese.
Ma cosa è il «senso della Costituzione»? Forse qualche costituzionalista storcerà il naso, perché non è giustiziabile, e dunque tamquam non esset. Ma noi concordiamo con Napolitano. Il «senso della Costituzione» esiste, e dovrebbe anzitutto orientare la politica e le istituzioni. Non è dato dal dettaglio del dettato normativo, ma dal messaggio che la Costituzione complessivamente dà. Che è un messaggio non legato al tempo in cui è stata scritta, ma ha ad oggetto piuttosto il futuro, il modo di essere del paese e delle donne e uomini che in esso vivono. Ed è — a nostro avviso — un messaggio di solidarietà, di diritti, di eguaglianza, di condivisione, di partecipazione democratica, di apertura e di rappresentatività della politica e delle istituzioni. Un messaggio che non è fatto di articoli e commi, ma di un animo personale e collettivo. E che ci orienta nella lettura di quel che accade intorno a noi e nei nostri comportamenti pubblici e privati, individuali e collettivi.
Non è dubbio che nel «senso della Costituzione» ci sia tutto il necessario per dare risposta ai problemi di oggi, per quanto pressanti: dalla crisi economica alla corruzione, alla riqualificazione della politica, all’orgoglio di essere nazione. Ma altrettanto non è dubbio che il senso della Costituzione non sembra affatto ispirare l’azione del governo, e le scelte della maggioranza in parlamento. Al contrario, come abbiamo ripetutamente argomentato. Del resto, non è un caso che la Costituzione non compaia nel fiorito eloquio del premier, che pure del parlare s’intende, e molto. E che sia piuttosto parola d’ordine di quanti gufano.
Di tutto questo avremmo voluto sentire nel discorso di Napolitano. Non avrebbe — a nostro avviso — indebolito la difesa delle sue scelte fondamentali e della sua presidenza. L’avrebbe invece rafforzata. Perché la Costituzione è l’anima di un paese. E un paese che non crede nella sua Costituzione è un paese senz’anima

Il manifesto, 2 gennaio 2015 (m.p.r.)
Delle due condizioni che aveva indicato all’inizio del secondo mandato - «resterò presidente fino a quando la situazione del paese e delle istituzioni me lo farà ritenere necessario e fino a quando le forze me lo consentiranno» - se n’è dunque verificata almeno una. Giorgio Napolitano lascia, e nel farlo insiste sul peso degli anni. Un dato di fatto: «Ho il dovere di non sottovalutare i segni dell’affaticamento». Ma si è anche creata quella condizione di «sicurezza» del paese che il presidente cercava? Aveva preso l’incarico di orientare, e per un tratto ha direttamente guidato, una faticosa transizione; se ne vede l’approdo? Questo neanche Napolitano riesce a dirlo. Nell’ultimo messaggio di capodanno cerca di indicare una speranza - ma l’ha sempre fatto e sempre è andata delusa. Il vecchio presidente fa un piccolo elenco di successi, tutti parziali, incerti e discutibili. La scommessa del doppio mandato «eccezionale» non è vinta. Lascia e non siamo lontani dal punto in cui aveva raddoppiato.
Il lascito è già un trauma. Napolitano ne è consapevole e insiste che le dimissioni sono previste dalla Costituzione, che sarà un bene tornare alla normalità di un unico mandato completo al Quirinale, e - c’è l’eco delle discussioni con Renzi e delle preoccupazioni di palazzo Chigi - che le dimissioni non devono condizionare la vita del governo e del parlamento (ma anche che le esigenze degli altri organi costituzionali non possono impedire una scelta «personale» del presidente). Eppure Napolitano sa bene che andando via lancia Renzi di fronte all’ostacolo più alto. Il parlamento è lo stesso che due anni fa mandò a vuoto cinque scrutini per il presidente, una situazione niente affatto inedita ma che si è voluta drammatizzare — anche da Napolitano che ha visto il baratro, il «vuoto».
Il capo dello stato ha fatto un ultimo regalo al giovane premier, del quale approva esplicitamente ogni scelta politica. Aspetterà almeno altre due settimane prima di far avere le sue dimissioni alla presidente della camera; lo avesse fatto già a capodanno la convocazione delle camere in seduta comune con i delegati regionali avrebbe sbarrato troppo presto la strada parlamentare delle «riforme». Che invece così (almeno quella elettorale) possono fare un altro passo, che non è ancora quello definitivo. Il presidente le approva entrambe, anche la revisione costituzionale scritta dal governo e fatta ingoiare al parlamento con costante minaccia di voto anticipato. Non è la riforma che aveva applaudito ai tempi di Letta, né quella che aveva incoraggiato quando si preoccupava di mettere al centro sempre la separazione dei poteri. Ma è qualcosa per riempire il bilancio del novennato.
La scelta del suo successore «sarà una prova di maturità e responsabilità nell’interesse del paese», dice agli italiani il capo dello stato uscente. Ed è appena un auspicio. I giochi sono tutti da farsi e lo stesso Napolitano qualche pedina muove, quando dice che le sue «riflessioni» sul paese hanno «per destinatario anche chi presto mi succederà»: l’identikit che ha in mente non è quello di un uomo (o di una donna, visto ne cita tre su quattro «italiani esemplari») destinato a vivere nell’ombra del capo del governo.
Come nel messaggio dell’anno scorso, il presidente deve tornare a difendere la scelta di aver accettato un secondo mandato. «È risultata — dice — un passaggio determinante per dare un governo all’Italia, rendere possibile l’avvio della nuova legislatura e favorire un confronto più costruttivo tra opposti schieramenti». «L’aver tenuto in piedi la legislatura è stato di per sé un risultato importante (…) si è evitato di confermare quell’immagine di un’Italia instabile che tanto ci penalizza». Eppure: il governo delle «larghe intese», costruito al Quirinale a fine aprile 2013, ha retto nove mesi appena. Le larghe intese anche meno. A palazzo Chigi c’è il terzo presidente del Consiglio consecutivamente scelto dal Colle senza mandato elettorale. Anche questa è stabilità. Un appello all’altruismo e alla responsabilità chiude l’ultimo messaggio di Napolitano, il presidente indica nell’impegno pubblico l’antidoto all’antipolitica che da tempo lo preoccupa. E che proprio le larghe intese, il rigore «tecnico» e le elezioni negate hanno alimentato.
Sulla crisi economica il bilancio di una sconfitta: «Tutti gli interventi pubblici messi in atto dall’Italia negli ultimi anni stentano a produrre effetti decisivi». Sconfitta per chi tutte quelle misure di austerità ha approvato e spinto ad approvare, fino a chiedere alle minoranze e ai sindacati di non mettersi di traverso. Quanto al fatidico semestre di presidenza italiana in Europa, «l’Italia ha colto l’opportunità per sollecitare un cambiamento nelle politiche», dice Napolitano. C’è stato questo cambiamento? Nemmeno lui può affermarlo, lo facciano altri: «Renzi tirerà le somme dell’azione critica e propositiva svolta a Bruxelles». E ancora le riforme. Non c’è più un’ombra di quello spirito di «condivisione» che proprio il capo dello stato ha sempre raccomandato. Il rapporto con una parte della non maggioranza passa per un patto segreto che ha assai poco dello «spirito costituzionale». Eppure devono andare avanti «senza battute d’arresto» insiste Napolitano. Che ha ormai superato anche il doppio binario che teorizzava con Monti e Letta — al governo l’economia, al parlamento le riforme. Faccia tutto Renzi.
Infine le parole dure contro la corruzione, a tutti piaciute. Eppure anche in queste c’è la traccia di un equivoco, quando Napolitano riprende il gergo dell’inchiesta romana sui rapporti «tra mondo di sotto e mondo di sopra». «Sì — dice — dobbiamo bonificare il sottosuolo marcio e corrosivo della nostra società». E invece no, presidente. Quello marcio era il soprassuolo.