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To Virna, il Corsera greco, al Financial Times, la stampa cambia tono. E le nuove generazioni ora pensano di avere il diritto di vincere». Il manifesto, 25 gennaio 2015

«Ieri sera, subito dopo la con­fe­renza stampa, sono andato a Creta per il comi­zio finale a Hera­clion. È stato incre­di­bile. Se quello che ho visto in piazza nella più grande isola greca, sto­rica per la sua epo­pea resi­sten­ziale, si tra­duce dav­vero in voti, allora vuol dire che abbiamo fatto dav­vero il pieno. Credo che la prin­ci­pale dif­fe­renza fra que­ste ele­zioni e quelle del 2012 sia pro­prio lo spo­sta­mento che si è veri­fi­cato nella pro­vin­cia. Nella grande regione di Atene siamo sem­pre stati forti, ma fuori fino ad oggi non ave­vamo altret­tanta adesione».

Così mi dice Ale­xis Tsi­pras, men­tre stiamo chiac­chie­rando in una pausa pranzo, nel giorno della vigi­lia, quando la cam­pa­gna elet­to­rale è chiusa e il lea­der di Syriza si con­cede un momento di nor­ma­lità. Sfo­gliamo assieme i gior­nali greci e sor­ri­diamo: il quo­ti­diano con­ser­va­tore più auto­re­vole, il Cor­riere della Sera locale, To Vima, porta in prima pagina una pic­cola foto di Sama­ras (che venerdì ha con­cluso piut­to­sto melan­co­ni­ca­mente la sua cam­pa­gna elet­to­rale) col­lo­cata in alto, quasi solo una stri­scia. A tutta pagina, invece, c’è l’immagine di Tsi­pras, sor­mon­tata da un titolo che dice: «I piani per i pros­simi giorni». Ecco: Tsi­pras viene già inter­vi­stato come capo di governo. Ai suoi pro­grammi To Vima dedica una inter­vi­sta di ben quat­tro pagine, dove si dice nel som­ma­rio: «Ale­xis parla del governo, del pre­si­dente della Repubblica, della Troika, della Mer­kel, delle ban­che». «Un vento di cam­bia­mento e spe­ranza». E, ancora: «Vogliamo costruire un’altra rela­zione con la Ger­ma­nia». Ancora ieri To Vima aveva ospi­tato una dichia­ra­zione di Sama­ras in cui il capo del governo annun­ciava che se Syriza avesse vinto le ele­zioni la Gre­cia sarebbe diven­tata come la Corea del nord.

A guar­dare la stampa la vit­to­ria sem­bra già con­sa­crata. Defe­renti i fino a ieri più offen­sivi gior­na­li­sti di Atene ora lo attor­niano e, anzi, si strin­gono a lui sor­ri­denti per una foto ricordo. Nella lun­ghis­sima inter­vi­sta di To Vima c’è per­fino spa­zio per un ammic­ca­mento ami­che­vole: «Nel 2030, quando i tuoi due bam­bini saranno al liceo – chiede il gior­na­li­sta – e tu sarai ancora parec­chio più gio­vane di quanto siano oggi Sama­ras e Veni­ze­los (segre­ta­rio del Pasok), quale Gre­cia avranno ere­di­tato? Saranno sod­di­sfatti o pronti a occu­pare le scuole come hai fatto tu negli anni ’90?». «Spero che la gene­ra­zione dei miei figli, che oggi hanno 3 e 5 anni, sia pronta a fare altret­tanto – risponde Tsi­pras – per­ché la vita è in movi­mento e devono esser pronti a cam­biare nuo­va­mente tutto».

Non è solo la stampa greca. Anche il Finan­cial Times ad Ale­xis dedi­cava ieri una pagi­nona, la sua foto con le brac­cia alzate in segno di vit­to­ria sovra­state dal titolo: «Radi­cale o rea­li­sta?». Si tratta di una rico­stru­zione det­ta­gliata della vita di Ale­xis, da quando, sedi­cenne alunno del liceo Ampe­lo­ki­poi, con­qui­stò la lea­der­ship nella bat­ta­glia che, nel 1991, oppose gli stu­denti greci – 90 per cento delle scuole occu­pate – al governo di cen­tro destra.

È una sto­ria simile a quella di molti dei nostri paesi euro­pei, salvo che dell’Inghilterra, e il gior­na­li­sta del Finan­cial Times si muove con qual­che inge­nuo diso­rien­ta­mento nel raccontarla. Ma è inte­res­sante vedere come sco­pre che con­dan­nare la vio­lenza che emerge dalle frange di ogni movi­mento non vuol dire non sfor­zarsi di capirne le ragioni; che si può avere un pro­getto molto inno­va­tore e di lungo periodo sulla scuola e però con­trat­tare risul­tati con­creti (nel caso della Gre­cia otte­nendo il ritiro della riforma pro­po­sta dal governo); che la vita quo­ti­diana delle nostre sini­stre è fatta di dis­sensi che sem­pre ruo­tano attorno all’essere troppo estre­mi­sta o troppo acco­mo­dante. Sono cose che tutti cono­sciamo. Il punto che sfugge ancora a tutti è come è potuto acca­dere che qui in Gre­cia Syriza, con Tsi­pras alla guida, abbia potuto far­cela in così poco tempo a imporsi come il più grande par­tito del paese. Ci sono le ragioni ogget­tive, evi­den­te­mente. Ma anche una buona dose di ragioni sog­get­tive: su come si è costruito il nuovo sog­getto della sini­stra greca abbiamo riflet­tuto tutti troppo poco.

Ne discu­tevo in que­sti giorni con vec­chi amici e com­pa­gni greci: per via della tre­menda espe­rienza delle gene­ra­zioni pre­ce­denti – occu­pa­zione fasci­sta e nazi­sta, guerra civile, dit­ta­tura, decenni di pri­gione – anche i migliori uomini della vec­chia sini­stra (non parlo della paz­zia set­ta­ria del Kke) ave­vano inte­rio­riz­zato il timore del peg­gio, e per que­sto mai pun­tato a vin­cere, nel timore di una rea­zione della destra estrema.

La nuova gene­ra­zione, che è nata dopo la caduta dei colon­nelli, è invece final­mente sicura di sé. Punta a vin­cere, pensa di averne il diritto. Ma non nel senso di Renzi, al con­tra­rio ripro­po­nendo come logica una pro­pria defi­nita iden­tità. «Sono favo­re­vole ai com­pro­messi per­ché ho obiet­tivi rea­li­stici – dice Ale­xis. Ma al tempo stesso - aggiunge - sono molto deciso se so che è neces­sa­ria una bat­ta­glia». In que­sti ultimi due anni ne ha dato la prova.

Gli ita­liani della bri­gata Kali­mera, intanto, sono in giro a visi­tare i quar­tieri dove si è radi­cata la forza di Syriza met­ten­dosi al ser­vi­zio dei biso­gni della gente deva­stata dalla crisi. Ne ho incon­trato un gruppo nel quar­tiere di Nea Smirne, in visita a uno dei tanti cen­tri di assi­stenza medica e far­ma­ci­stica per chi è rima­sto privo di assi­stenza sani­ta­ria pub­blica (almeno 3 milioni). Qui lavo­rano, da volon­tari, 30 medici e infer­mieri, più altret­tanti cit­ta­dini che sbri­gano le pra­ti­che orga­niz­za­tive. Una appas­sio­nante e det­ta­gliata descri­zione di un’esperienza che pro­se­gue da ormai più di due anni.

La Repubblica, 25 gennaio 2015

A CHI qualche mese fa domandava se dopo la condanna per frode fiscale emessa dalla Cassazione con sentenza definitiva Silvio Berlusconi era da considerarsi ormai fuori dal gioco politico, le risposte di quanti si occupano di queste cose come osservatori imparziali erano quasi tutte affermative: sì, ormai è fuori, è politicamente finito e non solo per la condanna ma perché delle promesse fatte e degli impegni presi con gli elettori fin dal 2001, non c’è alcuna traccia. Ha puntato sulle debolezze e la faciloneria degli italiani e non sulle loro virtù; li ha diseducati col suo esempio. Personalmente davo anche io questa risposta.

Sono passati quattordici anni da allora. La parte della risposta che riguarda la diseducazione politica e morale data da Berlusconi resta ferma, ma lui non è affatto finito. Anzi. L’accordo con Renzi da lui gestito con grande abilità, l’ha rimesso in piedi, gli ha ridato un compito importante, è allo stesso tempo all’opposizione e nella maggioranza. Ancora non è al governo, ma tra poco ci sarà.

Il partito della nazione è ormai sbocciato e lui ne fa parte integrante. Renzi — Berlusconi l’ha detto e lo ripete — è il suo figlio buono, ben riuscito. Lui è il papà, scavezzacollo come tanti padri ma pur sempre il padre che vede il figlio diventato il primo della classe, che da lui ha preso il talento di incantare la gente. E dici poco.

È pur vero che nel frattempo Forza Italia è diventata una sigla e il partito non c’è più, ma a guardar bene quel partito non c’è mai stato, nacque come la proiezione politica della sua società pubblicitaria
Ha tenuto un solo congresso, tutto è stato sempre deciso dal “boss” e dal suo “cerchio magico”, variabile secondo gli umori del Capo. Adesso è fatto da un paio di signore bellocce, molto legate a sua figlia Marina, ma è sempre lui che decide applicando la sua tecnica: prometti mille e — ben che vada — realizzi dieci e ogni giorno cambi posizione, poiché sei un bersaglio ti sposti per non esser colpito.

Adesso lui vuole tre cose: che questa legislatura duri fino al 2018 perché le elezioni oggi lo farebbero sbattere contro un muro; che la sua alleanza con Renzi sia il perno intorno al quale gira tutto il resto; che lui sia riconosciuto come il Padre della Patria e possa quindi ricevere quella clemenza che gli ridia piena agibilità politica e partecipazione personale, elezioni comprese se a lui piacerà di farle. E Renzi che ne dice?

Renzi è l’autore della riabilitazione berlusconiana. Naturalmente rifiuta d’essere il figlio buono di tanto padre. Forse dentro di sé il sospetto di esserlo ogni tanto emerge, ma non accetterà neanche sotto tortura che i berlusconiani entrino nel governo da lui presieduto. Qui però ci può essere una trappola: il Pd è alleato di Alfano, il quale però si è riavvicinato a Berlusconi. Qualche sottosegretario alfaniano potrebbe dimettersi e Alfano, che da Forza Italia proviene, potrebbe indicare dei nomi di persone di quel partito che stanno meditando di passare con lui e se ricevessero in premio un sottosegretariato lo farebbero. Come si fa a dirgli di no?

Naturalmente anche il Pd, che però è un vero partito, ora è spaccato in due e forse in tre parti. L’elezione del presidente della Repubblica sarà da questo punto di vista decisiva. Mancano cinque giorni a quell’appuntamento. Renzi deciderà con il partito o con Berlusconi? Ancora non si sa; secondo lui è la direzione che deve decidere o addirittura l’assemblea (una sorta di comitato centrale molto numeroso). Ma sono organi dominati dal leader. I gruppi parlamentari? Anche lì la maggioranza è renziana. Quindi Renzi è in quelle sedi che proporrà il nome da votare. E ancora una volta vincerà.

Tuttavia c’è un ostacolo: la minoranza si considera come un coniuge che convive con l’altro da “separato in casa”. Quello che si decide nelle sedi istituzionali del partito non può sostituirsi alla convivenza dei due separati. Debbono decidere in due, non in trecento. E poi, nel “plenum” parlamentare vige il voto segreto e ancora poi i renziani furono tra i centouno che silurarono Prodi. Perciò la partita del nome è tutta da giocare e se per caso, fin dalla prima votazione, ci fosse un pacchetto di cento voti per Prodi, sarebbe difficile che il partito rifiutasse quel nome e comunque molti che oggi sono con Renzi potrebbero cambiar posizione. Non avverrà, dipende anche da Grillo, ma insomma non si può escludere.

Nell’incontro a Firenze con la Merkel, oltre a farle vedere uno splendido Botticelli e la cupola del Brunelleschi da lui illustrati con facondia, Renzi l’ha rassicurata: metterà il turbo alle riforme. Ma quali riforme? Questo non l’hanno detto ne l’uno né l’altra. Della riforma elettorale alla Merkel non gliene importa niente. Di quella costituzionale che regola soprattutto il Senato, gliene importa ancor meno, ma quella comunque Renzi l’ha rinviata. E dunque di quali riforme si parla?

Solo Draghi ha precisato: riforme economiche che riguardano soprattutto la produttività. La sola che può far ripartire la crescita, gli investimenti, i consumi e l’occupazione.

La manovra monetaria è un grande aiuto per Renzi e Draghi, con prudenza, scommette sul coraggio del presidente del Consiglio. Ma non è una riforma semplice da attuare perché deve stare attento a non gravare sui salari dei lavoratori perché in quel caso si troverebbe a fare i conti con i sindacati. Tutti i sindacati, Cisl compresa. Personalmente credo che si cimenterà mettendo insieme rapidità (il turbo) e coraggio. Non gli mancano né l’uno né l’altro. C’è comunque uno stretto intreccio tra il nome scelto per il capo dello Stato e la riforma del lavoro (che non è il “Jobs Act”). Deve aver l’accordo dei sindacati e dei “separati in casa”. Ma molto dipende dalla scelta del primo inquilino del Quirinale. Non può essere un tecnico né un pupazzetto (o una pupazzetta) di Renzi. Deve essere un uomo politico di provata esperienza e autorevolezza, che interpreti con necessario vigore i poteri-doveri che le sue prerogative gli garantiscono e che abbia un prestigio all’estero e anche nel partito socialista europeo.

Non sono molti i nomi che corrispondono a questo identikit. I nomi è sempre rischioso farli ma forse un osservatore che si sforzi di essere oggettivo può indicarne qualcuno. Io ne vedo tre: Prodi, Veltroni, Amato. Altri nomi egregi tra i tanti dei quali in questi giorni si è parlato, certamente ci sono, ma sono poco conosciuti sia nel partito sia all’estero e quindi sembrano meno adatti e scatenerebbero i fuochi dei franchi tiratori. Nessuno ama vederli all’opera ma tutto dipende dalle scelte di Renzi. Se sceglie bene, i franchi tiratori non ci saranno e sarà merito suo. Se sceglie male sarà sua la colpa. *** Concludo con qualche cenno sull’Europa.

La manovra monetaria di Draghi, con il 20 per cento di condivisione dell’intervento sui mercati della Bce, pone il tema dei bond europei e del bilancio comune dell’Unione. Faccio osservare un aspetto che non viene mai ricordato e che invece dovrebbe avere un notevole peso: un articolo del trattato di Lisbona stabilisce esplicitamente che l’Unione europea deve avere una sua realizzazione politica, ottenuta con le necessarie cessioni di sovranità dei governi nazionali.

Perché quell’articolo non viene mai tenuto presente? Esso implicherebbe un bilancio comune, un fisco comune, una politica estera comune, una presenza permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu e un debito sovrano comune, un Parlamento votato in comune dagli elettori europei.

Spetta soprattutto alla Germania assumere l’iniziativa di questo sogno e il rispetto del trattato di Lisbona ma spetta ai governi di tutti i membri dell’Ue di obbligare la Germania a prendere l’iniziata o a prenderla senza di lei.

Il vero guaio è che i capi dei governi non amano affatto cedere una parte rilevante della loro sovranità. Questo fa paventare il peggio per un futuro molto e molto prossimo: in una società globale sono i continenti a confrontarsi e non gli staterelli, ciascuno padrone in casa propria ma irrilevante fuori essa. I coraggiosi, caro Renzi, debbono mostrare su questo tema il loro coraggio ma finora nulla si è visto e semmai si è visto il contrario. Alla fine voi personalmente conterete di più ma i Paesi che governate non conteranno niente, Germania compresa. È questo che volete? La via europea è estremamente importante e bisogna percorrerla. Noi non siamo gufi, ma contro i mercanti che rivendicano i loro interessi perfino Gesù prese il bastone.

Il manifesto, 24 gennaio 2015 (m.p.r.)

Il governo fa retro­mar­cia sulla ven­dita delle case popo­lari. Il prov­ve­di­mento dispo­sto dall’articolo tre del piano Lupi sulla casa è stato cam­biato a seguito di un’intesa rag­giunta dalla Con­fe­renza uni­fi­cata Stato e Regioni. La noti­zia è stata comu­ni­cata dal sin­da­cato dell’Unione Inqui­lini che si dice sod­di­sfatto: «È una vit­to­ria della mobi­li­ta­zione di inqui­lini e assegnatari».Il piano Lupi pre­ve­deva infatti la ven­dita all’asta dell’intero patri­mo­nio della case popo­lari a prezzi di mer­cato con la sola pos­si­bi­lità per l’assegnatario di eser­ci­tare la pre­la­zione sul prezzo di aggiu­di­ca­zione dell’asta. La mobi­li­ta­zione ha costretto il governo a modi­fi­care la pro­ce­dura di ven­dita e il prezzo.

Ora agli asse­gna­tari dev’essere comu­ni­cato pre­ven­ti­va­mente il prezzo fisso al valore cata­stale fino al 20%. Se non ha la capa­cità eco­no­mica di acqui­stare l’appartamento, entro il limite della deca­denza dev’essere indi­cato un allog­gio alter­na­tivo, nel comune di resi­denza. Gli anziani, i malati ter­mi­nali e i por­ta­tori di han­di­cap hanno il diritto di restare nell’appartamento nel caso in cui non siano in grado di acqui­starlo. Nel nuovo decreto non si parla più di ven­dita in blocco degli sta­bili interi.

«Per noi resta una cri­tica di fondo all’operato del governo – sostiene Wal­ter De Cesa­ris, segre­ta­rio dell’Unione Inqui­lini – In Ita­lia non c’è biso­gno di disfarsi del patri­mo­nio pub­blico ma di incre­men­tarlo. Per risol­vere la sof­fe­renza abi­ta­tiva strut­tu­rale, occorre aumen­tare l’offerta di abi­ta­zioni sociali e non dismet­tere quelle che ancora ci sono».

Il manifesto, 24 gennaio 2015

L’ha detto in piazza e l’ha riba­dito ieri alla stampa di tutto il mondo: «Da lunedì il Memo­ran­dum sarà carta strac­cia». E ancora: «Non rico­no­sce­remo la troika».

Applausi invece per Mario Dra­ghi, un baluardo con­tro le poli­ti­che di auste­rity della Ger­ma­nia: «Ha accolto le richie­ste che face­vamo da tempo». Nell’ultimo giorno di cam­pa­gna elet­to­rale, Ale­xis Tsi­pras riaf­ferma in con­fe­renza stampa, con toni pacati e la stessa sostanza del comi­zio del giorno pre­ce­dente ad Atene, quali saranno le linee guida del suo governo. Rimanda il pro­blema delle alleanze a dopo il voto («ci pen­se­remo da lunedì») e torna a chie­dere un man­dato pieno agli elet­tori, che gli con­sen­ti­rebbe di «avere più forza» per rine­go­ziare il debito con le isti­tu­zioni europee.

Quella di ieri è stata soprat­tutto la gior­nata del dopo-Bce. Ne aveva par­lato molto poco a caldo in piazza Omo­nia, l’altra sera.

Invece ora risponde alle domande dei gior­na­li­sti schie­ran­dosi con deci­sione dalla parte di Mario Dra­ghi: «Ha messo fine al cata­stro­fi­smo di Sama­ras, che avrebbe voluto la Gre­cia fuori dal pro­gramma di acqui­sto di titoli e cer­cava un appog­gio che non ha avuto. Invece ha deciso quello che noi chie­de­vamo da tempo e che Sama­ras ci diceva essere fuori dalle regole della Bce. Ci ha dato tempo fino al luglio 2016 per attuare il nostro pro­gramma e dimo­strare che la Gre­cia può tor­nare a crescere».

Tsi­pras è con­sa­pe­vole che per rea­liz­zare quello che pro­mette sono neces­sari i numeri giu­sti, anche se «dopo il voto, comun­que vada, chie­de­remo il con­senso a tutti i par­titi sul nostro piano di riforme», e ammette che sarà neces­sa­rio scon­trarsi, «sia in Europa che in Gre­cia». Ma si dice più pre­oc­cu­pato da quello che potrebbe acca­dere nel suo Paese piut­to­sto che a Bru­xel­les, dove «si scon­trano due linee, quella di Mer­kel e Schau­ble da una parte e quella di Mario Dra­ghi dall’altra». «L’Europa cam­bia, len­ta­mente ma cam­bia», per Tsi­pras. «L’importante è arri­vare forti a que­sti nego­ziati, per­ché il piano B della troika è che Syriza non ottenga la mag­gio­ranza asso­luta e sia obbli­gata a gover­nare con i pro­pa­gan­di­sti che difen­dono le sue posi­zioni», ha spiegato.

La par­tita più dif­fi­cile Tsi­pras la gioca invece in Gre­cia, con­sa­pe­vole che se non man­terrà le pro­messe della vigi­lia il con­senso rischierà di eva­po­rare, facendo un danno gigan­te­sco all’intera sini­stra: cosa acca­drà quando, come annun­ciato, tirerà fuori le liste degli eva­sori e tas­serà i grandi patri­moni, «le ville con due, tre, quat­tro piscine nelle mani di società off­shore», quando sarà col­pita la grande pro­prietà, quando si met­terà mano a una riforma della poli­zia, che «dovrà difen­dere la sicu­rezza dei cit­ta­dini nei quar­tieri e non repri­mere le mani­fe­sta­zioni paci­fi­che»? Come rea­gi­ranno i poteri forti locali all’annuncio che «il trian­golo del pec­cato», quei legami opa­chi tra poli­tica, grande impren­di­to­ria e media sarà messo in discussione?

Un primo assag­gio di quanto possa essere com­pli­cato met­tere mano a ciò che non fun­ziona in Gre­cia è arri­vato pro­prio in que­sti giorni: ban­chetti e gazebo del par­tito sono stati presi di mira a più riprese da ultras dell’Aek Atene. Tutto è legato al fatto che Syriza si oppone a una spe­cu­la­zione edi­li­zia legata alla costru­zione del nuovo sta­dio a Nea Phi­la­del­phia, un comune della Grande Atene gover­nato dalla coa­li­zione della sini­stra radi­cale. In più occa­sioni gli atti­vi­sti di Syriza si sono tro­vati accer­chiati da bande di gio­vani con le sciarpe gial­lo­nere dell’Aek, ma il par­tito ha deciso di non ali­men­tare ten­sioni in cam­pa­gna elet­to­rale e non ha denun­ciato pub­bli­ca­mente i fatti.

«Ci scon­tre­remo con l’establishment, con la cor­ru­zione, con chi ha preso deci­sioni che hanno por­tato a que­sta situa­zione, con le regole dei mezzi di comu­ni­ca­zione», afferma con sicu­rezza Tsi­pras. Ma ammette che non sarà facile. «Ho l’impressione che cer­che­ranno di inde­bo­lire Syriza. Cree­ranno delle situa­zioni molto dif­fi­cili», sostiene Tsi­pras, per il quale «solo la forza potrà garan­tirci», quella che sarà deter­mi­nata dal suc­cesso elet­to­rale. In ogni modo, «la sini­stra non ha mai avuto un’occasione sto­rica come que­sta. Ed è anche l’ultima occa­sione per il Paese. Se fal­li­remo, tutti saremo giu­di­cati dalla sto­ria», dice rivolto a quelle forze che a sini­stra rifiu­tano qual­siasi alleanza, in par­ti­co­lare ai comu­ni­sti del Kke (e pure all’altro par­tito dell’ultrasinistra Antar­sya), ai quali lan­cia un amo: «Anche se doves­simo avere la mag­gio­ranza asso­luta, cer­che­remo alleanze e col­la­bo­ra­zioni con chi si è oppo­sto ai Memo­ran­dum e alla troika».

Ma, se pur l’aspirante pre­mier ha riba­dito che i primi passi saranno il soste­gno alle classi disa­giate, che più hanno sof­ferto la crisi, e le misure a favore della classe media impo­ve­rita (dalla riforma fiscale al tetto dei 12 mila euro al di sotto del quale non si paghe­ranno tasse, una misura richie­sta in par­ti­co­lare da con­ta­dini e liberi pro­fes­sio­ni­sti, fino all’abolizione della tassa sulla prima casa), le novità di ieri riguar­dano essen­zial­mente il rap­porto con l’Europa. «Ono­re­remo tutti i trat­tati per­ché siamo mem­bri dell’Ue, ma non rispet­te­remo gli impe­gni presi dai governi pre­ce­denti. Con i Memo­ran­dum non sono stati rispet­tati i patti fon­da­men­tali, non è pos­si­bile che la Gre­cia sia gover­nata da pic­coli fun­zio­nari di Bru­xel­les. Vogliamo nego­ziare con pari diritti. E’ una que­stione di dignità», dice Tsi­pras, che non si spiega per­ché la Com­mis­sione euro­pea abbia lasciato tanto potere a un’istituzione come la troika, non pre­vi­sta da nes­sun trat­tato e che non può controllare.

Syriza si dice pronta ad aprire anche un altro fronte di scon­tro in Europa: quello sui debiti di guerra. «La Ger­ma­nia deve pagare per l’occupazione nazi­sta, è un impe­gno che abbiamo nei con­fronti della gene­ra­zione che ha fatto la Resi­stenza. Riven­di­che­remo que­sto cre­dito verso tutti i Paesi euro­pei. Su que­sto non pos­siamo fare com­pro­messi, si tratta di un debito sto­rico. Vogliamo che non sia una richie­sta greca, ma che si fac­cia all’interno degli organi euro­pei». Non sarà facile nep­pure que­sto, con Ber­lino sul banco degli impu­tati. E’ un brac­cio di ferro annun­ciato, quello tra Mer­kel e Tsi­pras. Che avverte i tede­schi: «In Fran­cia Marine Le Pen rischia di vin­cere le ele­zioni, qui Alba Dorata avrà un risul­tato impor­tante. C’è il rischio di un ritorno del fasci­smo in tutta Europa. Devono capire che non pos­sono con­ti­nuare così»

Corriere della Sera, 23 gennaio 2014 (m.p.r.)

Milano. Sarà la Corte costituzionale a stabilire se sia legittima la scelta del Politecnico di Milano, che ha deciso di passare all’inglese come lingua esclusiva per i corsi e gli esami delle lauree magistrali e dei dottorati. Il passaggio (nelle intenzioni dell’Università) a un’istruzione internazionale e all’avanguardia è stato bocciato da una sentenza del Tar del 2013. Nei mesi successivi, con un contro-ricorso del Politecnico e del ministero dell’Istruzione, la questione è arrivata al Consiglio di Stato. Che ora, con un’ordinanza pubblicata ieri, sospende il giudizio e trasferisce tutto alla Consulta. Affermando però alcuni punti: il Politecnico ha fatto una scelta del tutto legittima con la legge di riforma dell’università del 2010, ma allo stesso tempo quella legge presenta profili potenzialmente contrari alla Costituzione, che devono essere quindi approfonditi.

Per mettere ordine in questa contesa che riguarda il futuro del mondo universitario italiano bisogna riannodare i fili dall’inizio. Una delibera del senato accademico del Politecnico (21 maggio 2013) stabilisce che l’inglese diventi lingua obbligatoria per lauree superiori e dottorati, attuando «l’obiettivo di internazionalizzazione degli atenei» fissato nel 2010. Un corposo numero di professori presenta un ricorso al Tribunale amministrativo della Lombardia. E il Tar boccia il Politecnico: l’ateneo avrebbe «marginalizzato in maniera indiscriminata l’uso della lingua italiana, che il sistema normativo vuole, invece, preminente e che è funzionale alla diffusione dei valori che ispirano lo Stato italiano». Non solo. Il Politecnico, secondo i giudici amministrativi, «avrebbe dovuto consentire la scelta tra l’apprendimento in italiano e quello in lingua straniera». Dopo questa decisione, il progetto del Politecnico va avanti, ma non si completa: circa un quarto dei corsi, oggi, è ancora in italiano.

Con la decisione pubblicata ieri, il Consiglio di Stato ribalta in parte le conclusioni del Tar lombardo. E afferma: se si considera la legge del 2010, la decisione del Politecnico, «che appartiene alla libera scelta dell’autonomia universitaria», è stata pienamente legittima. Il dubbio però non scompare, e anzi si sposta alla radice: il quadro legislativo entro il quale si è correttamente mosso il Politecnico rispetta la Costituzione? Cambiando il piano di giudizio, il Consiglio di Stato manifesta notevoli perplessità. E lo fa su tre punti. Pur con complicate forme linguistiche, i giudici sostengono che «l’attivazione generalizzata ed esclusiva di corsi in lingua straniera, non appare manifestamente congruente, innanzitutto, con l’articolo 3 della Costituzione».

Certo, la formula «non manifestamente congruente» non vuol dire contrario. Il tema è questo: un conto è insegnare in inglese «tecnica delle costruzioni», un altro è usare esclusivamente la lingua straniera per la storia dell’arte. In quest’ottica «appare ingiustificata - dicono i giudici - l’abolizione integrale della lingua italiana». Altro nodo controverso è la tutela delle minoranze linguistiche assicurata dall’articolo 6 della Costituzione: siamo sicuri, sembrano chiedersi i giudici, che si possa passare all’inglese come lingua unica ed eliminare l’italiano, che si ritroverebbe così senza nemmeno la tutela riservata alle minoranze? Sotto esame sarà infine la conformità con il valore della libertà di insegnamento (articolo 33). L’obbligo dell’inglese «non appare rispettoso della libera espressione della comunicazione con gli studenti, dal momento che elimina qualsiasi diversa scelta, eventualmente ritenuta più proficua da parte dei professori, ai quali appartiene la libertà, e la responsabilità, dell’insegnamento».

Sbilanciamoci.info, 21 gennaio 2015

L'introduzione dell’immunità per gli evasori fino al 3% dell’imponibile, misura che abbatterebbe la pena a Berlusconi, è passata senza troppi scandali, mentre forte è stato il clamore contro i vigili accordatisi per allungare illecitamente le festività di capodanno. Siamo il paese dei due pesi e due misure. E con un’idea bizzarra dell’etica pubblica e privata

Chi ha introdotto nell’ennesima legge dello stato l’immunità per gli evasori fino al 3 per cento dell’imponibile, misura assai discutibile che abbatterebbe la pena assegnata a Berlusconi? Nessuno, chissà come si è infilata nel testo di un distratto Padoan e nella lettura di un distratto Renzi; quanto agli uffici tecnici che lo hanno passato, devono aver pensato che era una misura da attendersi nella filosofia delle larghe intese.

Più accorti sono stati i giornalisti che hanno scritto peste e corna contro i dipendenti pubblici (e i medici) che si sono accordati per allungare illecitamente le festività di capodanno. I giornalisti si sono indignati ma moderatamente, volete mettere lo scandalo di quella massa di sfruttatori dello Stato di fronte a qualche centinaio di ricchi che hanno evaso in varie forme per decine di migliaia di euro le imposte, o si sono avvantaggiati in vario modo, incluse corruzione e concussione, sulla pubblica finanza?

Colpisce in questo sfoggio di moralità la duplice misura usata verso i poco abbienti e verso l’ex presidente del consiglio e profittatore numero uno d’Italia, Berlusconi Silvio. È l’abitudine nazionale di risparmiare i ricchi e i potenti e usare la frusta con chi non lo è. Siamo un paese con un’idea bizzarra dell’etica pubblica e privata.

Alla quale ha dato un vasto contributo Giorgio Napolitano che ho sotto gli occhi dal 1945 come dirigente del mio stesso partito, il Pci. Lo sapevo antifascista a Napoli e autore di scritti interessanti sulla questione meridionale. Non l’ho apprezzato nella sua sorda (ma non tanto) opposizione all’ultimo Berlinguer e neanche come Presidente della Camera, quando avrebbe avuto occasione di far qualcosa contro la crisi della politica, se l’avesse vista venire dall’osservatorio privilegiato che aveva.

Ugualmente non ho apprezzato che nulla abbia fatto per risanare qualche ferita inferta dal suo partito a innocenti del suo partito nell’emergenza, ma nel merito la pensavamo in modo opposto. Quel che mi ha sorpreso è che, appena il Cavaliere è stato condannato a una pena assai mite ma almeno a stare fuori dalla porta del potere pubblico, si sia affrettato a proporre la formula delle “larghe intese” che significava allargare la maggioranza di fatto a Forza Italia, ogni qualvolta il dissenso da sinistra del Pd potesse minacciare la linea Renzi. Non solo, ma tale operazione è nata negli incontri clandestini presso la sede del Pd in via del Nazareno, dei quali non conosciamo né il numero dei partecipanti, né gli accordi intervenuti. Sappiamo solo ormai che essi hanno regolarmente preceduto le riunioni del Pd, del quale Renzi sarebbe il segretario. Non vedo quale insegnamento sia venuto da questa prassi alla coscienza scombussolata del paese, e perché ne sia derivata al nostro Presidente della Repubblica la fama di “grande italiano”.

Si può chiedersi se anche la norma del condono sia un frutto di questo guasto. Vedremo se Renzi la corregge. Intanto il governo ha dichiarato che non se ne era accorto: “Peso el tacon del buso”, come si dice dalle mie parti. Il governo intero lo ha avuto sotto gli occhi per un’intera seduta, ma non ha protestato. È vero che era stato convocato dal frettoloso premier la vigilia di Natale, ma non è da grandi figure l’avere condotto il paese in questo modo e tantomeno favorire gli evasori fiscali, soprattutto uno di essi condannato per aver fatto diverse porcherie in materia fiscale, corruzione e concussione. Già la giustizia è stata particolarmente indulgente sul resto delle sue imputazioni; per non parlare di un parlamento che ha considerato normale le sue menzogne telefoniche alla Questura di Roma per tirar fuori di guardina la denominata Ruby rubacuori.

Sono enormità imperdonabili. Non ho mai apprezzato le galere, quindi pace al vecchio e ormai ridicolo profittatore, ma se si vuole essere decenti bisogna tenerlo fuori dalla politica.

Penso di rientrare nella categoria dei gufi e rosiconi, anche se ignoro quali animali siano questi ultimi nell’italiano approssimativo del nostro presidente del Consiglio; ma preferisco essere un rispettabile uccello notturno, o anche forse un meno rispettabile topo, che un suddito silenzioso e ipocrita.

La Repubblica, 23 gennaio 2014 (m.p.r.)

Una metropoli come Parigi, Londra o New York ospita dieci milioni di persone in un’area non più estesa di un tipico ranch americano. Se la cittadinanza fosse tutta di un’unica razza, religione e mentalità, il problema della libertà di parola potrebbe anche non presentarsi mai. Nella realtà moderna però un città può ospitare in qualche ettaro tutte le razze del pianeta, qualunque concezione politica, religiosa e esistenziale. Si può essere convinti che i propri testi sacri corrispondano esattamente alla parola di Dio abitando a un tiro di schioppo da chi non si professa neppure ateo: la questione dell’autorità soprannaturale non si pone proprio, interessa quanto l’esistenza di religioni estinte come il culto di Thoth, Frigg o Apollo. Dai loro diversi templi le religioni fanno quotidiano esercizio di blasfemia l’una contro l’altra. Gesù è il figlio di Dio? Non per i musulmani. Maometto è l’ultimo messaggero di Dio sulla terra? Non per i cristiani. L’universo si può spiegare o esplorare meglio secondo la cosmologia basata sulla fisica, lasciando Dio da parte? Non per i musulmani o i cristiani.
Chi si farà garante della pace? Non la religione. La storia europea ci rammenta che all’epoca in cui il cristianesimo viveva il suo massimo splendore totalitario pre illuministico e poi il suo massimo scisma, l’intolleranza nei confronti di piccole diversità fu causa, come nel caso della Guerra dei trent’anni, di barbarie e carneficine di dimensioni terrificanti. E di persecuzione, tortura e terrore, dalla condanna al rogo di William Tyndale per aver tradotto la Bibbia in inglese, allo scandalo dell’inquisizione spagnola e, in reazione, a sconvolgenti barbarie a spese dei cattolici. L’Islam, dal Pakistan all’Arabia Saudita e altri paesi del Golfo, dall’Indonesia alla Turchia e all’Egitto, sta vivendo in questa fase una propria versione di totalitarismo.
Leggiamo quotidianamente di torture, carcerazioni e condanne a morte ai danni di musulmani che vogliono abbandonare l’Islam o quanto meno metterlo in discussione. Vengono puniti per aver violato i codici islamici di apostasia e blasfemia, passibili di ampie interpretazioni. In Pakistan, i politici usano le leggi contro la blasfemia come armi letali. In Egitto un insegnante è stato in carcere per tre anni per aver parlato a lezione di altre fedi religiose. In tutto il Medio Oriente il cristianesimo e il zoroastrismo sono scacciati dalle loro terre d’origine. In Turchia la libertà di stampa è oggetto di continui attacchi da parte dei conservatori religiosi. I regimi autoritari arabi fanno un uso cinico e strumentale della legge della Sharia per bloccare l’opposizione politica. Boko Haram e l’Is, con la loro intolleranza assurda e terribile, portano all’esasperazione le prassi di alcuni stati dando vita a un incubo. In Arabia Saudita, sede dei più venerati santuari dell’Islam, l’apostasia comporta la pena capitale. Il più recente, brutale, atto di repressione saudita contro la libertà di parola - la condanna a mille frustrate e dieci anni di prigione - mostra lo spregio delle autorità per l’Islam come religione di pace, ed ha provocato in tutto il mondo un’ondata di disgusto, in alcuni casi espresso esplicitamente da parte musulmana.
Nelle città dell’Occidente, ampiamente stratificate di razze e religioni, il solo garante della libertà di culto e della tolleranza universale è lo stato laico. Esso rispetta tutte le religioni in seno alla legalità e crede a tutte - o a nessuna. La differenza è trascurabile, perché non tutte le religioni possono corrispondere a verità. Il principio di libertà di parola è fondamentale. Il prezzo da pagare è l’offesa occasionale. È lecito pretendere che l’offesa non conduca alla violenza o a minacce di violenza. La ricompensa è la libertà per tutti di badare ai propri affari nella pratica lecita del proprio credo.
La libertà che consente ai redattori di Charlie Hebdo di fare satira è la stessa libertà che consente ai musulmani di Francia di praticare il loro culto e di esprimere apertamente le loro opinioni. Il credente non accetta questa doppia faccia della libertà. La libertà di parola è dura, fa rumore, a volte ferisce, ma quando è necessario far convivere una simile pluralità di opinioni non lascia alternative, se non l’intimidazione, la violenza e l’aspro conflitto tra comunità. La libertà di parola non è mai esagerata. Non è un lusso che si permettono i giornalisti e i romanzieri. E non è assoluta. Le limitazioni che le si impongono (ad esempio per circoscrivere il campo d’azione online dei pedofili) devono essere frutto di leggi approvate in seno a istituzioni democratiche.
Ma senza libertà di parola la democrazia è una finzione. Tutte le libertà che possediamo o vorremmo possedere (inclusa la parità dei sessi, la libertà di orientamento sessuale, l’habeas corpus e il giusto processo, il suffragio universale, la libertà di associazione - e così via) sono frutto di pensieri, parole e scritti liberi. La libertà di parola, di dare e ricevere informazioni, porre domande scomode, di ricerca accademica, di critica, di fantasia, di satira - l’interscambio dell’intera gamma delle nostre capacità intellettuali, è la libertà che fa esistere tutte le altre. La libertà di parola non è il nemico della religione, è il suo nume tutelare. È grazie alla sua presenza che Parigi Londra e New York sono piene di moschee. A Riyadh, dove è assente, le chiese sono vietate. Oggi come oggi chi importa una Bibbia lì rischia la pena di morte.
Traduzione di Emilia Benghi

Il manifesto, 23 gennaio 2014

Con l’approvazione dell’emen­da­mento di un sena­tore gio­vin ita­lico (non più turco) la par­tita delle riforme sem­bra pro­ce­dere per il governo con la pre­ve­di­bile speditezza. La cosa più stra­va­gante, sulla nuova legge elet­to­rale, l’ha pro­nun­ciata pro­prio il pre­si­dente del con­si­glio. Davanti ai suoi depu­tati in sub­bu­glio, ha detto che l’Italicum è così geniale, nella solu­zione dell’enigma della gover­na­bi­lità, che il crea­tivo con­ge­gno sarà pre­sto imi­tato in tutta Europa.

I mal­de­stri gover­nanti inglesi, che non sem­pre rie­scono a garan­tire il valore costi­tu­zio­nale della gover­na­bi­lità, cioè ad ulti­mare gli scru­tini con un vin­ci­tore sicuro rico­no­sci­bile la sera stessa dello spo­glio, faranno subito la fila al Naza­reno per com­prare la ricetta mira­co­losa e archi­viare il loro seco­lare, e piut­to­sto stu­pido al cospetto della sin­go­lare tro­vata toscana, for­mato mag­gio­ri­ta­rio uni­no­mi­nale, che non sem­pre dà il volto del gran trionfatore.

E così si appre­sta a fare anche la can­cel­liera Mer­kel. Depo­sta la teu­to­nica pre­sun­zione di suf­fi­cienza, per via di una decen­nale sta­bi­lità e gover­na­bi­lità supe­riori a quella di ogni altro sistema poli­tico euro­peo, la poli­tica tede­sca freme per appren­dere dalla pre­miata ditta Boschi-Verdini come si fa a vin­cere con cer­tezza e a dor­mire tran­quilli la sera stessa del voto, senza essere più appesi alle mano­vre per varare la grande coa­li­zione e quindi indotti al fasti­dioso rito delle migliaia di iscritti della Spd che devono dare la loro appro­va­zione al con­tratto di governo siglato.

Per non dire degli spa­gnoli o dei greci, che devono fati­care sovente per rac­ca­pez­zare sin­goli voti di sigle minori per garan­tire la fidu­cia a un governo malconcio. O dei vir­tuosi sta­ti­sti dei paesi nor­dici, che spesso dal con­teg­gio dei voti non sanno a chi toc­chi lo scet­tro e si affi­dano abi­tual­mente a lun­ghi governi di minoranza. E anche i fran­cesi tro­ve­ranno pre­sto il modo per sep­pel­lire il loro incerto mag­gio­ri­ta­rio uni­no­mi­nale a dop­pio turno e sosti­tuirlo con il sen­sa­zio­nale mag­gio­ri­ta­rio di lista esco­gi­tato al Nazareno.

Ora che l’Italicum ha sve­lato i sacri misteri della vit­to­ria certa, l’Europa può vol­tare pagina nella sto­ria delle isti­tu­zioni e acqui­stare a buon mer­cato il pre­zioso bre­vetto della governabilità. La vit­to­ria certa, da con­se­gnare al calar della sera, nel timore che i depu­tati siano chia­mati per espri­mere una mag­gio­ranza tra­mite le dina­mi­che seco­lari che sor­gono in aula, è però del tutto estra­nea alla logica del parlamentarismo.

Il vincitore è una possibilità, non un obbligo

La costru­zione mec­ca­nica di un vin­ci­tore, altera a tal punto la strut­tura del par­la­men­ta­ri­smo, che pre­fe­ri­bile sarebbe pas­sare, con il rigore neces­sa­rio e soprat­tutto i con­tro­po­teri richie­sti, all’incognita di una forma di governo pre­si­den­ziale piut­to­sto che for­zare in maniera così irra­zio­nale e costosa le com­pa­ti­bi­lità del regime par­la­men­tare sino a sfigurarlo.

L’obbligo della vit­to­ria fa incli­nare tutto il con­ge­gno com­pe­ti­tivo nella dire­zione della gover­na­bi­lità come arti­fi­cio e la rap­pre­sen­tanza perde qual­siasi rilievo fon­da­tivo del rap­porto poli­tico, è un mero con­torno inessenziale. Non è dalla rap­pre­sen­tanza che si esprime la fun­zione di governo ma è dalla posta­zione del governo, aggiu­di­cata da un capo di coa­li­zione, che si pro­cede alla riem­pi­tura della rap­pre­sen­tanza con nomi­nati ben retri­buiti ma desti­nati a un ruolo pas­sivo nella legislazione.

E’ evi­dente che una logica pre­miale, già di dif­fi­cile com­pren­sione nella sua con­fi­gu­ra­zione siste­mica, è comun­que ammis­si­bile come un ecce­zio­nale sup­porto for­zoso ad una ricerca di gover­na­bi­lità (in paesi fran­tu­mati e bloc­cati, senza ricam­bio), altri­menti non garan­tita, solo se com­pare come una pos­si­bi­lità. Cioè, fis­sata al 40 per cento l’opportunità di otte­nere un pre­mio in seggi, se il bonus non scatta, per­ché nes­suna lista ha var­cato la soglia pre­vi­sta, diventa una palese for­za­tura costrin­gere l’elettorato ad una seconda tor­nata, dove l’entità della par­te­ci­pa­zione peral­tro sfuma.

Se la pre­vi­sione di un dop­pio turno è effi­cace nei sin­goli col­legi per ampliare il radi­ca­mento ter­ri­to­riale del depu­tato che in astratto si separa dalla disputa nazio­nale per il governo, del tutto insen­sato diventa come cor­nice di una com­pe­ti­zione tra liste. La volontà del corpo elet­to­rale, in merito al pre­mio, può mani­fe­starsi nel primo pas­sag­gio elet­to­rale. Se gli elet­tori non hanno offerto un soste­gno espli­cito al par­tito mag­giore, è una cami­cia di forza alquanto impro­pria pre­ve­dere la costri­zione a dare comun­que il pre­mio attra­verso un bal­lot­tag­gio di lista.

Il premio può essere eventuale, non obbligatorio

Se poi il pre­mio otti­male dal punto di vista nume­rico è sti­mato dal legi­sla­tore al 15 per cento dei seggi (per­ché non si può gover­nare con il 50,1 per cento? Kohl aveva nel Bun­de­stag un solo voto di scarto), salta ogni rife­ri­mento a un incen­tivo ragio­ne­vole se viene rap­por­tato alla quan­tità di con­senso riscossa nel primo turno. Alla luce dei son­daggi odierni, il Pd avrebbe, in caso di suc­cesso al bal­lot­tag­gio, un pre­mio di oltre il 20 per cento, il M5S del 35 per cento e Forza Ita­lia del 40 per cento.

Le distor­sioni del prin­ci­pio di rap­pre­sen­ta­ti­vità, e la can­cel­la­zione della pari influenza delle sin­gole espres­sioni di voto, restano evi­denti. Nell’Italicum, le liste con ripar­ti­zione dei seggi sta­bi­lita a livello nazio­nale sono evo­cate per tra­scen­dere i col­legi, e il capo di coa­li­zione, inve­stito del supremo comando, è intro­dotto per ren­dere irri­le­vanti le liste.

Nel modello per­si­stente di una inve­sti­tura del lea­der o sin­daco d’Italia, il par­la­mento non deve in alcun modo esal­tare la sua auto­no­mia fun­zio­nale di organo di con­trollo e di indi­rizzo. Con­nessa a tale voca­zione all’opacità del ruolo del par­la­mento, è la stroz­za­tura di ogni nesso tra depu­tato ed elet­tori, tra col­legi e territori. Il capo vin­ci­tore crea la rap­pre­sen­tanza, e una schiera di nomi­nati fa da scudo alla sua volontà di potenza. L’anomalia di un governo costi­tuente, che si crea la legge elet­to­rale per vin­cere, e la con­fe­ziona secondo un cal­colo di imme­diata con­ve­nienza, è dav­vero un uni­cum in demo­cra­zie di un qual­che pregio.

La gran fretta di appro­vare la legge elet­to­rale prima dell’elezione del capo dello Stato (e quindi anche dell’opportunità di un suo pre­li­mi­nare vaglio di costi­tu­zio­na­lità) svela una pre­oc­cu­pante caduta del ren­di­mento demo­cra­tico di isti­tu­zioni sfre­giate a colpi di canguro.

come stanno distruggendo i pilastri della democrazia rappresentativa e i fondamenti delle istituzioni repubblicane. Il perchè lo fanno lo sappiamo già: rafforzare il potere dei già potenti senza l'ingombro degli altri. Articoli di Gaetano Azzariti e di Gianpasquale Santomassimo. Il manifesto, 22 aprile 2015


IL CANGURO ILLEGITTIMO
di Gaetano Azzariti

Lo stra­ta­gemma archi­tet­tato que­sta volta per scon­fig­gere “fre­na­tori e gufi” potrà essere ripe­tuto in futuro, altri espe­dienti potranno essere esco­gi­tati per silen­ziare il par­la­mento, le voci di oppo­si­zione, la dia­let­tica poli­tica. Ma alla fine che rimarrà del sistema parlamentare?

L’approvazione dell’emendamento Espo­sito rap­pre­senta un colpo al cuore del sistema par­la­men­tare. Frutto di un esca­mo­tage pro­ce­du­rale, esprime esem­plar­mente la cul­tura machia­vel­lica di una classe poli­tica dispo­sta ad adot­tare ogni mezzo pur di con­se­guire il fine, senza pre­oc­cu­parsi delle con­se­guenze di più lungo periodo. Se si guarda alla sostanza della vicenda appare chiaro l’uso stru­men­tale delle regole par­la­men­tari. L’emendamento pro­po­sto, infatti, ha avuto come unico scopo quello di impe­dire la discus­sione e la vota­zione sulle pro­po­ste dei parlamentari.

«Blin­dando» l’accordo poli­tico defi­nito in sede extra­par­la­men­tare. È l’ultimo tas­sello di un più ampio mosaico costruito per sot­trarre ogni auto­no­mia al par­la­mento. Già erano state for­zate le ordi­na­rie pro­ce­dure di for­ma­zione della legge quando si è impo­sto alla com­mis­sione affari costi­tu­zio­nali di inter­rom­pere i pro­pri lavori prima di aver ulti­mato l’esame e prima di poter votare sul dise­gno di legge tra­smesso dalla Camera. Si è così pas­sati all’esame dell’Aula senza che fosse con­sen­tito ai sena­tori in com­mis­sione di pro­nun­ciarsi nel merito della riforma. E ciò è avve­nuto nono­stante una pre­vi­sione costi­tu­zio­nale — l’art. 72 — imponga l’adozione della pro­ce­dura “nor­male” di esame e di appro­va­zione in mate­ria elet­to­rale. In modo disin­volto, si è giu­sti­fi­cato lo strappo con­fi­dando sull’esame dell’Aula. In fondo — qual­che inge­nuo poteva rite­nere — in que­sta seconda sede non si poteva di certo sfug­gire a quanto scrive la nostra costi­tu­zione che sta­bi­li­sce che ogni dise­gno di legge deve essere appro­vato arti­colo per arti­colo e con vota­zione finale. E invece la fan­ta­sia ha supe­rato ogni osta­colo, riu­scendo a libe­rare la mag­gio­ranza di governo da ogni fasti­dioso limite d’ordine costituzionale.

L’emendamento Espo­sito ribalta la ratio della dispo­si­zione costi­tu­zio­nale e impone anzi­tutto una sorta di “vota­zione finale” per poi obbli­gare i nostri par­la­men­tari ad ade­guarsi nelle suc­ces­sive vota­zioni arti­colo per arti­colo. Con­tro ogni tec­nica di buona legi­sla­zione fa pre­met­tere alla legge una dispo­si­zione (signi­fi­ca­ti­va­mente indi­cata come art. 01) che non ha nes­sun con­te­nuto pre­cet­tivo, bensì si limita a rias­su­mere per intero i prin­cipi che devono essere con­te­nuti nelle suc­ces­sive dispo­si­zioni. Un inu­suale e inu­tile pre­am­bolo d’intenti. Si pensa così di aver tro­vato il modo per impe­dire ogni ulte­riore pos­si­bile discus­sione, vota­zione ed even­tuale appro­va­zione di arti­coli non con­formi (secondo il rego­la­mento del Senato, infatti, non sono ammessi emen­da­menti in con­tra­sto con deli­be­ra­zioni già adot­tate sull’argomento nel corso della discus­sione). Lo stra­vol­gi­mento di ogni logica par­la­men­tare appare evi­dente, l’uso stru­men­tale del rego­la­mento palese. Eppure tutto ciò sta avve­nendo sotto i nostri occhi senza scan­dalo, in nome del cam­bia­mento, sotto la pres­sione di una poli­tica con­cen­trata sul risul­tato da con­se­guire ad ogni costo. Una poli­tica miope e pericolosa.

Miope per­ché, ridotto il par­la­mento ad una sala da poker, dove vince il più abile e più spre­giu­di­cato tra i con­ten­denti, non sarà facile garan­tire la sta­bi­lità del governo. Di volta in volta il pre­si­dente del con­si­glio dovrà ricer­care una sua mag­gio­ranza, varia­bile se non pro­pria­mente occa­sio­nale: ora con la mino­ranza interna ora con frange delle oppo­si­zioni. Con ben poche garan­zie di tenuta e coe­renza dell’indirizzo poli­tico com­ples­sivo. Inol­tre, i governi a mag­gio­ranze varia­bili sono ine­so­ra­bil­mente espo­sti al potere di “ricatto” ovvero di veto degli alleati occa­sio­nali, i quali, non essendo legati alla stra­te­gia com­ples­siva dell’esecutivo, potranno legit­ti­ma­mente porre le pro­prie con­di­zioni e far valere i pro­pri inte­ressi poli­tici e per­so­nali del momento. Con­fi­dare sul fatto che tanto qual­cuno alla fine si trova per far pas­sare le pro­prie pro­po­ste, vista anche l’attuale fran­tu­ma­zione di tutte le for­ma­zioni poli­ti­che orga­niz­zate, sia di mag­gio­ranza che di oppo­si­zione, fran­ca­mente non appare una stra­te­gia lun­gi­mi­rante. Ma i gio­ca­tori di poker — si sa — con­fi­dano più sulla pro­pria abi­lità e sulla for­tuna che non sul rispetto delle regole del gioco.

Ed è qui che si nasconde il peri­colo mag­giore di una simile poli­tica. Fino a quando e fino a dove può arri­vare l’interpretazione disin­volta e cinica dei rego­la­menti, delle prassi, delle leggi, della Costi­tu­zione? Lo stra­ta­gemma archi­tet­tato que­sta volta per scon­fig­gere “fre­na­tori e gufi” potrà essere ripe­tuto in futuro, altri espe­dienti potranno essere esco­gi­tati per silen­ziare il par­la­mento, le voci di oppo­si­zione, la dia­let­tica poli­tica. Ma alla fine che rimarrà del sistema parlamentare?

UNO SCEMPIO COSTITUZIONALE
di Gianpasquale Santomassimo


Si pro­cede verso la nega­zione di ogni forma di lim­pida rap­pre­sen­tanza, verso l’instaurazione di un rigi­dis­simo prin­ci­pio oli­gar­chico, che nega alla radice qua­lun­que inter­lo­cu­zione con la società.

Stiamo uscendo dalla demo­cra­zia par­la­men­tare, ma la cosa sem­bra non inte­res­sare a nes­suno. Anche le oppo­si­zioni, interne ed esterne al par­tito di mag­gio­ranza rela­tiva, agi­tano emen­da­menti su que­stioni abba­stanza secon­da­rie, come le pre­fe­renze, ma sem­brano accet­tare il prin­ci­pio di fondo, lo stra­vol­gi­mento della rap­pre­sen­tanza, il con­si­de­rare le ele­zioni come pura e sem­plice inve­sti­tura di un potere asso­luto e senza controllo.

Mi pare che l’opposizione all’Italicum, in Par­la­mento come nel discorso pub­blico, guardi all’albero senza vedere la fore­sta, come si usava dire. L’evidenza è quella di una legge-truffa che dà a un solo par­tito, che rap­pre­sen­terà in ogni caso una mino­ranza rela­tiva sem­pre più esi­gua di fronte al crollo della par­te­ci­pa­zione popo­lare, una con­si­stenza par­la­men­tare spro­po­si­tata, che può con­sen­tire di fare il bello e il cat­tivo tempo, di nomi­nare tutte le cari­che isti­tu­zio­nali, di cor­reg­gere e stra­vol­gere la Costi­tu­zione a colpi di maggioranza.

Distrug­gere insomma la divi­sione e l’equilibrio dei poteri che nell’esperienza repub­bli­cana furono comun­que salvaguardati.

La demo­cra­zia par­la­men­tare è stata rico­no­sciuta, da tutte le cul­ture demo­cra­ti­che, come il qua­dro isti­tu­zio­nale in cui le lotte sociali pote­vano svol­gersi libe­ra­mente e pote­vano otte­nere con­qui­ste dura­ture, in un clima che pur nell’asprezza dello scon­tro poteva garan­tire con­di­vi­sione di prin­cìpi e ascolto di istanze. A mag­gior ragione ciò è stato com­preso dopo le espe­rienze del Nove­cento, e la Costi­tu­zione repub­bli­cana rece­piva il lascito di quella consapevolezza.

Ma in Ita­lia sem­bra essersi smar­rita, nell’ultimo quarto di secolo, la nozione di cosa sia e a cosa debba ser­vire il Par­la­mento: rap­pre­sen­tare fedel­mente il paese, dibat­tere libe­ra­mente, ela­bo­rare e scri­vere le leggi, non votare a comando i decreti del governo.

Si sta per abo­lire il Senato, tra­sfor­mato in un “dopo­la­voro” di con­si­glieri regio­nali. Per­ché non abo­lire anche il Par­la­mento, a que­sto punto? Il con­traente più anziano del Patto del Naza­reno pro­po­neva di far votare sol­tanto i capi­gruppo, col loro pac­chetto di voti, e il ducetto di con­tado che domina que­sta fase ter­mi­nale della demo­cra­zia ita­liana non sem­bra avere idee molto diverse quanto ad auto­no­mia e libertà dell’istituzione parlamentare.

Il par­tito di nota­bili che si appre­sta a que­sto scem­pio del prin­ci­pio costi­tu­zio­nale sem­bra aver rin­ne­gato tutta la sua espe­rienza repub­bli­cana, e sem­bra oscu­ra­mente far rie­mer­gere dal suo lon­ta­nis­simo pas­sato solo l’antica pro­pen­sione alle dit­ta­ture di mino­ranza, dove il segre­ta­rio di par­tito coman­dava su tutto (ma almeno si aveva il buon gusto di dif­fe­ren­ziare la carica di primo ministro).

Andiamo verso tempi duris­simi, ancor più oscuri di quelli che abbiamo vis­suto recen­te­mente, nei quali sarebbe fon­da­men­tale avere isti­tu­zioni rap­pre­sen­ta­tive che rispec­chino real­mente e fedel­mente la società, pur nella sua fram­men­ta­zione a volte cao­tica. Si pro­cede invece verso la nega­zione di ogni forma di lim­pida rap­pre­sen­tanza, verso l’instaurazione di un rigi­dis­simo prin­ci­pio oli­gar­chico, che nega alla radice qua­lun­que inter­lo­cu­zione con la società.

Tutto que­sto è dram­ma­ti­ca­mente peri­co­loso, è una china che andrebbe arre­stata in qua­lun­que modo, prima che sia troppo tardi. Biso­gna che qual­cuno, anche tra i “corpi inter­medi” così vili­pesi e umi­liati, cominci a met­tere in dub­bio la stessa legit­ti­mità di un potere mino­ri­ta­rio che vuole spa­dro­neg­giare col sopruso, a con­te­stare il deli­rio di onni­po­tenza di un’accozzaglia di par­la­men­tari eletti con una legge inco­sti­tu­zio­nale e che pre­tende di riscri­vere a suo pia­ci­mento la Costituzione


Il manifesto, 21 gennaio2015, con postilla

Le cri­ti­che da sini­stra alla pro­po­sta di legge elet­to­rale del governo sono con­cen­trate, soprat­tutto den­tro il Pd, sulle pre­fe­renze. E ieri il dis­senso si è mani­fe­stato con la spac­ca­tura del gruppo nell’assemblea del senato. La scelta dei capi­li­sta affi­data ai par­titi e quindi alle loro segre­te­rie, si sostiene, toglie moti­va­zione e potere agli elet­tori e ne riduce la rappresentanza.

La cri­tica è cer­ta­mente fondata. Se, però, ricor­diamo quanto nel pas­sato avve­niva e non solo al sud con pre­fe­renze e voto di scam­bio, l’alternativa migliore non sem­bra essere tanto la rein­tro­du­zione delle pre­fe­renze, quanto l’introduzione di col­legi uni­no­mi­nali pic­coli attra­verso i quali avvi­ci­nare can­di­dati ed elet­tori e, quindi, eletti ed elettori.

Ma la que­stione pre­fe­renze che oggi domina il dibat­tito, e rin­salda l’alleanza Renzi-Berlusconi non è, a mio parere, la prin­ci­pale cri­ti­cità dell’Italicum. Essa è solo una fac­cia della meda­glia che in nome della gover­na­bi­lità e dell’efficienza di governo tende a sacri­fi­care la rap­pre­sen­tanza degli elet­tori. Sen­tirsi rap­pre­sen­tati nelle isti­tu­zioni, dipende da due fat­tori: la pre­senza negli orga­ni­smi eletti delle diverse istanze pre­senti nel paese nelle quali i sin­goli cit­ta­dini pos­sono ritro­varsi anche se mino­ranze e la par­te­ci­pa­zione attiva dei cit­ta­dini, attra­verso l’espressione del voto, alla com­pe­ti­zione elettorale.

L’altra fac­cia della legge elet­to­rale è costi­tuita dalla pro­po­sta di dare un forte pre­mio di mag­gio­ranza alla “lista” che rag­giunge il 40% dei voti espressi fino ad attri­buirle il 55% dei seggi. Di fronte a que­sta pro­po­sta la “legge truffa” di Scelba appa­ri­rebbe oggi iper-democratica ed iper-rappresentativa e se essa fosse stata pre­sen­tata ai tempi di Craxi, cer­ta­mente l’avremmo eti­chet­tata come segno di una ten­denza accen­tra­trice e neo auto­ri­ta­ria. Eppure allora la par­te­ci­pa­zione al voto si aggi­rava intorno all’80%, il che avrebbe signi­fi­cato attri­buire il 55% dei seggi ad una lista che col 40% dei voti avrebbe rac­colto il con­senso del 32% degli elettori.

Oggi, con una par­te­ci­pa­zione al voto ten­dente al 50% la pro­po­sta con­te­nuta nell’Italicum signi­fica attri­buire la mag­gio­ranza asso­luta della Camera, adesso unico orga­ni­smo abi­li­tato a sce­gliere governo, com­po­nenti di organi isti­tu­zio­nali ed a deci­dere leggi e poli­ti­che eco­no­mi­che e sociali, ad una lista scelta dal 20% del corpo elet­to­rale. Un quinto degli elet­tori, quindi, deci­de­rebbe il futuro di tutto il paese.

Que­sta seconda fac­cia dell’Italicum è, a mio parere, peri­co­lo­sis­sima e mera­vi­glia che pochi finora abbiano par­lato di una legge non tanto ad per­so­nam, ma “su misura” per­ché essa nasce dalla par­ti­co­lare situa­zione che il nostro paese sta vivendo e che, per la crisi del sistema poli­tico ita­liano, vede un unico par­tito al comando, anche per le indub­bie capa­cità di Renzi di muo­versi nel nuovo pano­rama poli­tico e di dominarlo.

Ma si può fare una legge elet­to­rale che dovrebbe durare molti anni (negli altri paesi euro­pei le leggi elet­to­rali durano decenni) in base alla con­tin­genza poli­tica ed alla cer­tezza che il pos­si­bile vin­ci­tore di oggi è un demo­cra­tico e, quindi, non cor­re­remmo peri­coli? E si può fare una legge elet­to­rale che si basa su un assetto poli­tico in tran­si­zione che non sap­piamo in quale dire­zione evol­verà visto che le forze poli­ti­che che seguono al secondo e terzo posto sono forze nuove ed impre­gnate di populismo.

postilla

L'autore segnala un aspetto certamente molto rilevante del "Renzosconicum". Tuttavia stupisce un'affermazione che egli formula: la sua «cer­tezza che il pos­si­bile vin­ci­tore di oggi è un demo­cra­tico». A noi sempra che il distruttore della democraza italiana oggi si chiamo proprio Matteo Renzi.

La Repubblica, 20 gennaio 2015 (m.p.r.)

Dopo il pugno, ora arriva il «calcio dove non batte mai il sole»: decisamente gagliardo il Papa! L’intervista rilasciata nel viaggio di ritorno dalle Filippine tocca temi interessanti. Ma soprattutto mostra un Papa dal linguaggio forse ancora più colorito del solito: segno, a mio avviso, di particolare rilassatezza. Papa Francesco appare proprio contento del grande affetto e dell’enorme simpatia che il mondo intero gli manifesta e si lascia andare al cospetto della stampa mondiale come fosse tra amici. Il che sembra proprio la maniera migliore di interpretare il ruolo di per sé così pesante che l’essere Papa comporta, una spontaneità che l’aveva portato il giorno prima, durante la messa più seguita della storia, a tenere a braccio l’omelia davanti ai sette milioni di partecipanti. Quanta differenza rispetto al rigoroso plurale maiestatis che regnava fino a Paolo VI o anche rispetto ai lunghi discorsi letti su fogli accuratamente preparati prima (e spesso da altri) di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, i quali anche nelle conferenze stampa mai e poi mai avrebbero potuto usare le popolaresche espressioni di Francesco.

Ma il punto è esattamente questo: il popolo. Ovvero la vicinanza totale che questo pastore straordinario intende mostrargli in continuazione. Se Francesco con il suo linguaggio sta introducendo davvero qualcosa di inedito nella storia pontificia, e direi persino di scandaloso per il sussiegoso protocollo pontificio e per le orecchie dei cattolici tradizionalisti, non è certo per gioco: la scelta di questo linguaggio è diretta espressione del contenuto che Francesco intende dare e sta dando al suo pontificato. Come può parlare del resto un Papa che non vuole macchine di lusso ma utilitarie, che non sta nell’appartamento papale ma nel convitto di Santa Marta, che non indossa croci e anelli d’oro ma semplicemente di ferro, che rinuncia insomma con sistematicità a tutti i segni del potere? Esattamente come parla questo Papa, che fa della vicinanza al popolo la stella polare del suo essere pontefice, e quindi si rallegra di poter riferire che quel giorno a Buenos Aires a quel tipo che tentava di corromperlo lui avrebbe dato più che volentieri «un calcio dove non batte mai il sole».
Possono piacere, o lasciare perplessi, o dispiacere del tutto, questi esempi così fisici e anche un po’ violenti che parlano di pugni e di calci. Personalmente, in un mondo già così intriso di violenza, non posso dire di amarli particolarmente né di ritenerli proprio del tutto opportuni, perché un domani a uno scatto di violenza incontrollata si potrà sempre trovare un appiglio nelle parole papali: «Se persino il papa può dare un pugno o un calcio, figuriamoci io». Né è certo un caso che all’imam radicale Anjem Choudary, lo stesso che assicura che un giorno Roti ma vivrà sotto la legge islamica, l’esempio del pugno sia particolarmente piaciuto. Questo però attiene ai singoli esempi scelti dal Pontefice e alla sensibilità di ciascuno, il punto decisivo consiste invece nel comprendere l’efficacissima denuncia papale contro la mancanza di rispetto della religione altrui e contro la corruzione.
Venendo ai temi dell’intervista di ieri, la questione più scottante è certamente quella della procreazione responsabile. Anche qui il linguaggio papale si segnala per l’espressione colorita quando, a proposito di una donna incinta dell’ottavo figlio averne avuti sette mediante cesareo che lui ebbe a incontrare in una parrocchia, dice: «Alcuni credono, scusatemi la parola, che per essere buoni cattolici dobbiamo essere come i conigli». Forse qualcuno aveva mostrato quella donna al Papa come esempio di maternità generosa e devota, ma la reazione del Papa, come riferisce egli stesso, è stata di ben altro tipo perché l’ha rimproverata così: «Ma lei ne vuole lasciare orfani sette? Ma questo è tentare Dio». Come siamo distanti dall’immagine di madre che si sacrifica totalmente per i figli, arrivando persino a morire per metterli al mondo, tanto cara al cattolicesimo tradizionale! Il Papa dice al contrario che una maternità non controllata e non responsabile equivale a tentare Dio.
Occorre però aggiungere che sul tema specifico della contraccezione, proprio come un abile pugile che oltre a saper dare i pugni li sa anche evitare, il Papa ha schivato abilmente la domanda. Il punto caldo della questione infatti non è il numero dei figli, che il Papa stabilisce canonicamente in tre (probabilmente memore dell’adagio medievale omne trinum est perfectum ), ma come evitare altre procreazioni dopo che il numero tre, o qualunque altro numero una coppia voglia o possa permettersi, sia stato conseguito. Paolo VI aveva stabilito nell’enciclica Humanae vitae del 1968 l’esistenza di un nesso inscindibile ( nexus indissolubilis ) tra unione sessuale e procreazione, dichiarando che ogni singola unione sessuale deve necessariamente essere sempre aperta alla procreazione. Anche l’unione con il legittimo marito di una donna che ha avuto già sette figli?, potremmo chiedere. Anche quella, risponde la dottrina cattolica ufficiale (si legga l’articolo 2366 dell’attuale Catechismo).
Per evitare la procreazione indiscriminata come i conigli, secondo l’esempio scelto dal Papa, o come tante nostre donne delle generazioni precedenti, secondo la memoria di molti, la Chiesa propone i cosiddetdopo “metodi naturali”, ma si tratta di un procedimento che solo poche coppie riescono ad attuare, le statistiche dicono che tra i cattolici praticanti coloro che l’osservano variano dall’8 all’1 per cento. Consapevole di queste cose il cardinal Martini nella sua ultima intervista aveva dichiarato: «Dobbiamo chiederci se la gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale: la Chiesa è ancora in questo campo un’autorità di riferimento o solo una caricatura dei media?» ( Corriere, 1 settembre 2012). E l’anno scorso il cardinal Kasper: «Dobbiamo essere onesti e ammettere che tra la dottrina della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia e le convinzioni vissute di molti cristiani si è creato un abisso».
Il Papa sa benissimo che questa è la situazione, come lasciano trapelare le sue parole quando dice che nella Chiesa «si cerca »; aggiungendo poi: «E io conosco tante vie di uscita, lecite ». Di che cosa si tratterà? Dei soliti metodi naturali? Di qualche particolare escamotage di cui i gesuiti sono sempre provvisti? Sarà uno degli argomenti scottanti del Sinodo del prossimo ottobre, la seconda puntata della grande riflessione sulla famiglia voluta da Francesco. Qui nessuno ovviamente se la potrà cavare con le battute, ma forse un calcio papale a qualche porporato particolarmente testardo potrebbe aiutare.

Il manifesto, 17 gennaio 2015

Riu­nione di fami­glia della sini­stra anti-renzista ieri a Mon­te­ci­to­rio. Ci sono tutti, nuovi amici ex com­pa­gni, vec­chi com­pa­gni ex amici: da Nichi Ven­dola a Pippo Civati a Ste­fano Fas­sina, ma c’è anche Paolo Fer­rero, Anto­nio Ingroia, Luca Casa­rini, l’attore Ivano Mare­scotti, il costi­tu­zio­na­li­sta Gianni FerraraChi non poteva, ha inviato un mes­sag­gio, come il socio­logo Marco Revelli.

A pochi passi, nel Tran­sa­tlan­tico, infu­ria la bat­ta­glia sul pros­simo pre­si­dente della repubblica. Qui, nell’auletta delle con­fe­renze stampa, le cin­quanta sfu­ma­ture della sini­stra sono d’accordo su un nome. Però è Ale­xis Tsi­pras, e non stiamo par­lando dell’Italia ma della repub­blica greca che il pros­simo 25 gen­naio andrà al voto. Tsi­pras e la sua Syriza, la coa­li­zione della sini­stra radi­cale, sono favo­riti e da ieri pun­tano per­sino a un governo monocolore.

L’occasione della rim­pa­triata è la pre­sen­ta­zione ai media della cam­pa­gna di soli­da­rietà “Cam­bia la Gre­cia, cam­bia l’Europa”. C’è un appello fir­mato da mille e cin­que­cento per­sone e c’è una spe­di­zione della auto­no­mi­nata (e autoi­ro­nica) “Bri­gata Kali­mera”, due­cento ita­liani che andranno ad Atene, spiega Raf­faella Bolini (dell’Altra Europa, già dell’Arci), «a por­tare a Syriza la nostra vici­nanza e ammi­ra­zione, a chie­dere a loro di vin­cere anche per noi».

La cam­pa­gna di soli­da­rietà infatti «va rove­sciata», spiega Luciana Castel­lina, gior­na­li­sta e fon­da­trice del mani­fe­sto ma anche poli­tica di lungo corso, «in realtà non è Syriza a rice­vere la nostra soli­da­rietà, ma noi la loro». Non è una bat­tuta: in Gre­cia la sini­stra sta per vin­cere le ele­zioni, in Ita­lia fin qui ha mira­co­lo­sa­mente messo insieme un 4 per cento alle euro­pee, un milione di voti. Ma la spe­ranza c’è: «Non avrei mai pen­sato - dice Castel­lina - che la sini­stra greca, liti­giosa come e più di quella ita­liana, sarebbe riu­scita a stare unita».

Ma il punto non è (per ora) l’Italia, o solo l’Italia, ma il cata­cli­sma poli­tico che può por­tare su tutta Europa l’eventuale vit­to­ria di Ale­xis Tsipras.

«Tsi­pras è l’alternativa alla povertà e alla paura», attacca Ven­dola, al con­tra­rio di Renzi che ha vis­suto il «fal­li­men­tare» seme­stre di pre­si­denza della Ue «come una cri­tica di costume alle poli­ti­che dell’austerità, non come una cri­tica poli­tica all’impianto libe­ri­sta dell’Europa». Per Pippo Civati le ele­zioni in Gre­cia «rap­pre­sen­tano una sfida che inve­ste anche il Pd. C’è una con­ti­nuità che dob­biamo ritro­vare», dice, all’indirizzo degli ex alleati di Sel, quelli della ‘sini­stra di governo’.

Sta­volta con Civati è d’accordo anche Paolo Fer­rero, segre­ta­rio di Rifon­da­zione comu­ni­sta, che riven­dica la pri­ma­zia dei rap­porti con la sini­stra radi­cale greca, quando da noi Tsi­pras era un nome sco­no­sciuto. Oggi in Gre­cia si può pun­tare, dice, a «un’alternativa che non sia solo pra­tica di oppo­si­zione e di con­flitto ma anche di governo. E’ il segnale che dovremmo dare anche noi in Italia». Insomma, la morale è che per vin­cere le scom­messe ita­liane serve innan­zi­tutto che i greci vin­cano le loro.

Per Ste­fano Fas­sina, Pd, sono «inac­cet­ta­bili le inge­renze che tanti governi e isti­tu­zioni euro­pee hanno fatto pesare sulla Gre­cia» (Più tardi, alla dire­zione del suo par­tito pro­pone una mozione che dice esat­ta­mente così: e sarà appro­vata, anche Renzi dirà sì). Quelle di Tsi­pras, con­clude Fas­sina, non sono ricette estre­mi­sti­che: «E’ pro­prio il con­tra­rio: la pro­po­sta di Syriza è rea­li­stica e mette in evi­denza che un’alternativa è pos­si­bile e neces­sa­ria. La sini­stra rie­sce a unirsi e a vin­cere, quando costrui­sce un pro­gramma auto­nomo rispetto al para­digma dominante». E anche qui si parla di Gre­cia, ma il discorso sem­bra per­fetto anche per l’Italia.

Linkiesta.it, 18 gennaio 2015

L’Italia è uno dei Paesi con la popolazione più anziana del mondo. E anche le nostre case lo dimostrano. I palazzi sparsi lungo la nostra penisola sono vecchi, divorano energia in eccesso e hanno bisogno di continui interventi di manutenzione. Lo aveva detto il rapporto Cresme 2013 sull’edilizia italiana. Ora lo conferma l’ultima indagine dell’Ufficio studi di Immobiliare.it, il portale degli annunci immobiliari online: il 36,6% delle abitazioni italiane, ossia 11,6 milioni di unità immobiliari, ha più di 40 anni di vita, con picchi di oltre il 40% in alcune città come Potenza, Palermo, Napoli e Catanzaro. Solo a Palermo, il Comune di recente ha censito 1.300 edifici instabili, di cui 228 a rischio crollo.

Se si considera come anno di riferimento il 1977, momento cruciale per l’edilizia per via dell’entrata in vigore delle prime norme sull’efficienza energetica degli edifici, la percentuale di abitazioni costruite prima di questa data arriva al 58,4%: 18,5 milioni di immobili su tutto il territorio nazionale non sono stati progettati quindi in un’ottica di risparmio energetico. L’età avanzata dell’Italia del mattone la rende quindi, oltre che anziana, anche particolarmente energivora: un immobile che supera i 30 anni di età consuma in un anno, mediamente, dai 180 ai 200 chilowattora ogni metro quadro. Un fabbisogno enorme se si considera che un’abitazione in classe B, standard minimo per le nuove costruzioni, arriva a consumare in media tra i 30 e i 40 chilowattora al metro quadro all’anno.

«È ora di riqualificare il nostro patrimonio immobiliare», dice Carlo Giordano, amministratore delegato di Immobiliare.it, «e per farlo bisogna limitare la costruzione di nuove abitazioni, puntando alla manutenzione di quelle già esistenti e invecchiate. In questo modo, si ridurranno il consumo del suolo, il fabbisogno energetico globale e la necessità di infrastrutture per la mobilità. Reinvestire sui quartieri obsoleti delle nostre città, infine, può rivelarsi la risposta migliore alla nuova domanda abitativa».

Le case più vecchie si trovano nel Mezzogiorno. Tra le regioni, quella che conta il maggior numero di abitazioni costruite prima del 1970 è la Basilicata, dove gli edifici obsoleti sono il 39,3% del totale. In Sicilia, Campania e Abruzzo la percentuale di abitazioni con oltre 40 anni di età rappresenta il 38,3%; nelle Marche e in Calabria il 38,2 per cento. In Friuli Venezia Giulia e in Trentino Alto Adige si registra invece la percentuale più bassa di edifici precedenti al 1970, con percentuali rispettivamente del 31,2% e del 31,3% sul totale, che restano comunque molto alte.

Tra le città, la più traballante è Potenza, con il 42% del totale delle abitazioni che hanno più di 40 anni. La segue Palermo, dove l’incidenza degli immobili vecchi è a quota 41,3 per cento. A contare il dato più basso è Rimini, dove ci si ferma al 32,2 per cento. A Roma il livello è elevato, toccando quota 38,3%; più bassa l’età del patrimonio immobiliare di Milano, dove il 33,5% degli edifici risale a prima del 1970.

Secondo i calcoli dell’ufficio studi di Immobiliare.it, gli appartamenti over 40 non ristrutturati hanno un prezzo al metro quadro mediamente inferiore del 25% rispetto ad abitazioni realizzate a partire dal 2000. Effettuare lavori di ristrutturazione permetterebbe quindi di evitare la svalutazione degli immobili. Le differenze di prezzo più alte tra immobili ultraquarantenni allo stato originale e immobili nuovi si riscontrano a Trieste e Torino, dove le abitazioni più vecchie costano in media circa il 30% in meno. In base ai calcoli dell’ultimo rapporto Cresme, fra soli dieci anni nelle 14 città metropolitano gli appartamenti con oltre 40 anni di vita saranno l’85 per cento. Se non si interviene, gran parte del nostro patrimonio immobiliare continuerà a divorare energia e a svalutarsi di anno in anno.

Le case più vecchie si trovano nel Mezzogiorno. Tra le regioni, quella che conta il maggior numero di abitazioni costruite prima del 1970 è la Basilicata, dove gli edifici obsoleti sono il 39,3% del totale. In Sicilia, Campania e Abruzzo la percentuale di abitazioni con oltre 40 anni di età rappresenta il 38,3%; nelle Marche e in Calabria il 38,2 per cento. In Friuli Venezia Giulia e in Trentino Alto Adige si registra invece la percentuale più bassa di edifici precedenti al 1970, con percentuali rispettivamente del 31,2% e del 31,3% sul totale, che restano comunque molto alte.

Tra le città, la più traballante è Potenza, con il 42% del totale delle abitazioni che hanno più di 40 anni. La segue Palermo, dove l’incidenza degli immobili vecchi è a quota 41,3 per cento. A contare il dato più basso è Rimini, dove ci si ferma al 32,2 per cento. A Roma il livello è elevato, toccando quota 38,3%; più bassa l’età del patrimonio immobiliare di Milano, dove il 33,5% degli edifici risale a prima del 1970.

Secondo i calcoli dell’ufficio studi di Immobiliare.it, gli appartamenti over 40 non ristrutturati hanno un prezzo al metro quadro mediamente inferiore del 25% rispetto ad abitazioni realizzate a partire dal 2000. Effettuare lavori di ristrutturazione permetterebbe quindi di evitare la svalutazione degli immobili. Le differenze di prezzo più alte tra immobili ultraquarantenni allo stato originale e immobili nuovi si riscontrano a Trieste e Torino, dove le abitazioni più vecchie costano in media circa il 30% in meno. In base ai calcoli dell’ultimo rapporto Cresme, fra soli dieci anni nelle 14 città metropolitano gli appartamenti con oltre 40 anni di vita saranno l’85 per cento. Se non si interviene, gran parte del nostro patrimonio immobiliare continuerà a divorare energia e a svalutarsi di anno in anno.

La Repubblica, 17 gennaio 2015

Succede che due ragazze, due ventenni, decidano di andare in Siria a portare aiuti umanitari. Succede che queste due giovani donne vengano rapite e tenute prigioniere per più di cinque mesi. Succede che al loro ritorno in patria si trovino sommerse da una valanga di insulti. Succede in Italia: anche questo è il nostro Paese. È incredibile leggere sui social e su certi giornali i commenti che riguardano Greta Ramelli e Vanessa Marzullo: una quantità infinita di insulti che vengono, ovviamente, dalla parte più rancorosa dell’Italia. «Ragazzine viziate», «se la sono cercata», «perché sono andate in Siria? », «spendiamo 12 milioni di tasca nostra!».

Eppure Greta e Vanessa non erano alla loro prima missione umanitaria, non erano ragazzine sprovvedute, ma giovani donne con degli interessi e degli ideali. Qualche decennio fa alla loro età si era già madri: cerchiamo di uscire quindi dal luogo comune della gioventù irresponsabile che va criticata se perde tempo a laccarsi le unghie, a farsi canne o a bere birre ai bar, ma che diventa bersaglio anche quando occupa la propria vita in maniera diversa. Greta e Vanessa, due giovani donne, non due ragazzine viziate, non due amanti dell’uomo con il kalashnikov, fondano, insieme a Roberto Andervill, Horryaty, un progetto di assistenza con l’obiettivo di portare medicine e generi di prima necessità alla popolazione siriana. Ecco perché partono, per portare aiuti alla popolazione che sta subendo gli attacchi di Assad. Ma al commentatore medio che ci siano centinaia di migliaia di persone a cui manca tutto non interessa: gli elementi su cui si basano le critiche a Greta e Vanessa sono la loro giovane età, l’essere donne e le foto che vengono diffuse dai media, che le ritraggono insieme, abbracciate e sorridenti. Foto ingenue di ragazze abbracciate, foto allegre, che sono in ogni album di famiglia. Come se chi critica non avesse foto come quelle, come se non le avessero i loro figli.

Come è possibile — c’è addirittura chi si domanda in un ignobile e falso paragone — prodigarsi, lavorare, pagare per loro e non per i marò?

Che sia stato pagato o no un riscatto, la canea è scattata sulla cifra dei 12 milioni che sarebbero stati pagati. La notizia è stata diffusa tramite un account Twitter (@ekhateb88) ritenuto vicino alle milizie jihadiste. Qualsiasi altra affermazione avesse diffuso non sarebbe stato creduto: ma in questo caso la frase è diventata oro colato.

Tutto serve a sporcare la vicenda di Vanessa e Greta. Come le balle diffuse da alcuni media, che le accusano di essere sostenitrici dei terroristi, per una foto scattata in Italia durante una manifestazione che si è tenuta a Roma il 15 marzo scorso. In quell’immagine Greta e Vanessa, coperte da bandiere della Siria libera, mostrano un cartello in arabo con su scritto “Agli eroi di Liwa Shuhada grazie per l’ospitalità e se Dio vuole vediamo la città di Idlib libera quando ritorneremo”. Uno slogan di chiaro sostegno alla dissidenza laica in Siria, proprio quella abbandonata, proprio quella schiacciata da Assad e da chi lo sostiene.

Greta e Vanessa non erano e non sono dalla parte dei terroristi, ma dalla parte del pane. Erano in Siria per portare impegno. E qui arrivano gli insulti che più di tutti mi colpiscono perché, se non puoi dir loro che sono contigue ad Al Qaeda e all’Is, se non puoi dir loro che sono bambine viziate, se non puoi dir loro che sono due incoscienti, allora hai sempre a disposizione l’accusa più inutile, quella però che fa subito presa perché è banale e in fondo non sembra offensiva: «Ma se volevano fare del bene, non potevano farlo in Italia?». Come è accaduto a Fabrizio Pulvirenti, il medico di Emergency colpito da Ebola in Sierra Leone: quando rientrò in Italia ci fu una parte del Paese che senza vergogna disse che se l’era cercata. Il pensiero principale sembra essere che siano responsabili delle loro sciagure e che per questo motivo non solo non devono essere aiutate, ma magari anche punite.

E qui dobbiamo fare uno sforzo, dobbiamo andare oltre le parole e capire il fallimento del Paese insito in questi giudizi. Parole che sono una scarica incontenibile di frustrazione, la frustrazione di chi non è in grado di muovere un passo, di chi è fermo al palo, di chi non riesce a immaginare una vita diversa e se la prende con chi decide di mettere la propria a disposizione di un ideale.

L’Italia è un Paese che esporta soprattutto solidarietà ed è molto triste pensare che gli stessi che insultano Greta e Vanessa ritengano invece che sia fondamentale imbracciare fucili e organizzare missioni militari. «Dobbiamo difendere, dobbiamo attaccare, dobbiamo prevenire con la forza, ma gli aiuti umanitari, quelli sono materia per ragazzine viziate ». Tutti Charlie Hebdo, ma a casa propria ché se poi vi capita qualcosa ve la siete cercata.

Un Paese che non riesce a mostrare solidarietà verso due ragazze sequestrate rischia di essere un Paese fallito, che fa vincere il livore, la rabbia, l’idiozia. Stati Uniti e Gran Bretagna hanno deciso di non pagare riscatti e questo è il motivo per cui i loro giornalisti vengono uccisi così barbaramente: lì il dibattito è esattamente l’opposto di quello che sta animando la nostra peggiore stampa. Ma in quei Paesi non passa per la mente a nessuno di dire che in luoghi come la Siria le missioni umanitarie non vadano fatte, che meglio sarebbe fare beneficenza a casa propria per non correre rischi. Non passa per la mente a nessuno di dire che chi viene rapito e poi magari ucciso da giornalista in trincea, poteva restare in patria e accontentarsi di rimasticare agenzie.

Se incoscienza c’è stata, c’è stata dalla parte del pane, delle bende, del mercurocromo, delle tende da montare, dell’acqua e il nostro Paese sta dando uno spettacolo indegno, sta mostrando la sua incapacità di sognare, di lottare, di impegnarsi, di prendere parte alla trasformazione della realtà. La cooperazione internazionale è la migliore esportazione possibile. Il nostro Paese sta dando prova di non capire che esistono diversità, che c’è chi resta in Italia e lavora per rendere il Paese migliore dall’interno e chi va fuori e si occupa di cose apparentemente lontane, ma che hanno un’ovvia connessione con ciò che ci circonda. L’Italia sta dando prova di non capire che il mondo non è diviso per compartimenti stagni, che ciò che accade in Siria interessa anche noi, che a essere contagiosa non è la presenza di democrazia, ma la sua assenza. Il mondo non è sotto casa, quel che accade in Siria ci riguarda da molto vicino. È al cospetto di queste situazioni che si tempra l’unità del Paese e la sua capacità di vedere oltre il proprio recinto. Mi vergogno delle reazioni di molti miei connazionali, delle loro parole, del loro livore, del loro odio. Se un Paese non è capace di stare accanto a due giovani donne volontarie, che hanno passato in condizioni di sequestro quasi sei mesi della loro vita, allora merita il buio in cui sta vivendo.

Il manifesto, 16 gennaio 2015

Un week end di discus­sione, il pros­simo, a Bolo­gna orga­niz­zato dall’Altra Europa; quello suc­ces­sivo a Milano con­vo­cato da Sel. Poi il voto per le pre­si­den­ziali gre­che, che cadrà il 25 gen­naio, dove è molto pro­ba­bile la vit­to­ria di Ale­xis Tsi­pras, lea­der della coa­li­zione Syriza. Un voto, quello greco, che cade prima di quello per il capo dello stato ita­liano e rischia di avere un impatto anche più forte sulla poli­tica del nostro paese. Nella varie­gata galas­sia delle sini­stre nostrane parte una mobi­li­ta­zione che punta su Atene per arri­vare a Stra­sburgo, pas­sando per Roma.

Sta­mat­tina infatti alla camera un gruppo di per­so­na­lità diver­sa­mente col­lo­cate a sini­stra (fra gli altri Luciana Castel­lina, Nichi Ven­dola, Paolo Fer­rero, Marco Revelli, Anto­nio Ingroia ma anche Pippo Civati e Ste­fano Fas­sina) pre­sen­te­ranno le ini­zia­tive di una cam­pa­gna di mobi­li­ta­zione inter­na­zio­nale nata dall’appello ’Cam­bia la Gre­cia, cam­bia l’Europa’ fir­mato ormai da migliaia di cit­ta­dini per «soste­nere la libera scelta del popolo greco con­tro le pres­sioni dei mer­cati finan­ziari e la disin­for­ma­zione di molte testate gior­na­li­sti­che sul pro­gramma di Syriza». Fra le ini­zia­tive, quella della ’Bri­gata Kali­mera G25’, che dall’Italia si pre­para ad andare ad Atene a soste­nere Tsi­pras e Syriza nei giorni del voto. Ini­zia­tive ana­lo­ghe sono par­tite nelle capi­tali di tutta Europa. Occhi pun­tati sulla Gre­cia, ma anche sull’Italia che dal voto greco potrebbe rice­vere una scossa se non uno scrollone.

A que­sto sarà dedi­cato gran parte del dibat­tito che si terrà a Bolo­gna (al cinema Nosa­della) sabato e dome­nica pros­simi. Lì l’Altra Europa con Tsi­pras, la lista che si è pre­sen­tata alle scorse euro­pee, discu­terà di Gre­cia ma anche del mas­sa­cro della reda­zione del Char­lie Ebdo pari­gino. Nel pome­rig­gio di sabato affron­terà invece il ’mani­fe­sto siamo a un bivio’ (testo inte­grale su lista tsi pras .eu). Il ’bivio’ fa rife­ri­mento alla strada euro­pea del dopo-voto greco, ma anche alla strada ita­liana che potrebbe tra­sfor­marsi, dal viot­tolo di un’ennesima nuova sigla a sini­stra, nella via più larga di una ’cosa’ comune a sini­stra, invo­cata ago­gnata e data per immi­nente per­sino da chi non se la augura — come il pre­si­dente del con­si­glio Mat­teo Renzi — ma ancora impe­la­gata in una lun­ghis­sima fase di gesta­zione. Il docu­mento che arriva alla discus­sione dell’assemblea nazio­nale, con­di­viso dalla stra­grande mag­gio­ranza del gruppo pre­pa­ra­to­rio ma non da tutti, parla chiaro: «Inten­diamo met­terci al ser­vi­zio di un pro­cesso che porti alla costi­tu­zione di una sola “casa comune della sini­stra e dei demo­cra­tici ita­liani in un qua­dro euro­peo”» che dovrebbe sfo­ciare alle poli­ti­che in «un’unica lista», come suc­cede già in Gre­cia e in Spa­gna, «in grado di unire tutte le com­po­nenti sia orga­niz­zate che disperse di una sini­stra non arresa alla auste­rità euro­pea e alla sua ver­sione auto­ri­ta­ria ita­liana incar­nata dal ren­zi­smo». «Il 2015 può essere dav­vero l’anno del cam­bia­mento», è la con­clu­sione «fac­ciamo cia­scuno un passo indie­tro, per fare insieme due passi avanti».

Il week end suc­ces­sivo, quello che va dal 23 al 25 gen­naio, gli atti­vi­sti dell’Altra Europa, ma sta­volta insieme a molti altri pro­ve­nienti da mondi diversi e anche dalla sini­stra Pd, si ritro­ve­ranno a Human Fac­tor, la ’Leo­polda rossa’ di Sel, a Milano. Incon­tri rav­vi­ci­nati che dovreb­bero supe­rare le incom­pren­sioni e le divi­sioni del dopo-europee. Almeno nelle inten­zioni di tutti, o quasi. E che potreb­bero por­tare a can­di­dati uni­tari anche alle pros­sime regio­nali, in calen­da­rio per mag­gio. Così è già nelle Mar­che, dove ieri un ampio car­tello delle sini­stre ha annun­ciato la corsa con­tro il can­di­dato del Pd qua­lun­que sarà (in regione i dem si stanno dila­niando nella scelta se fare o no le pri­ma­rie). Così potrebbe essere anche in Ligu­ria, dove Ser­gio Cof­fe­rati è stato scon­fitto alle pri­ma­rie del cen­tro­si­ni­stra ed ora molte voci, alcune anche del Pd, chie­dono un nome alter­na­tivo alla bur­lan­diana Lella Paita.

Nell’album delle figu­rine di fami­glia manca ancora anche la casella di Pippo Civati. Che da tempo guarda a sini­stra fuori dal suo par­tito ed ha già spie­gato che «se si andasse al voto ora» non si rican­di­de­rebbe su un pro­gramma «che non con­di­vido», quello di Renzi. Sulla sua scelta peserà il nome del pre­si­dente della repub­blica che Renzi pro­porrà al Pd. Se sarà evi­den­te­mente frutto del Patto del Naza­reno, o un nome con­cor­dato con la sini­stra del suo partito.

«Vi sono nelle nostre culture utopie positive alle quali fare appello perché il futuro sia sottratto all’orizzonte pessimistico? Oggi la libertà è minacciata ma in questo momento la parola più difficile da pronunciare è fraternità o solidarietà. Ma solidali con chi?». La Repubblica, 16 gennaio 2015

IN TUTTO il mondo, in questi giorni, milioni di persone hanno proclamato “Je suis Charlie”. E questo non può essere l’esercizio retorico o strumentale di un momento. La rivendicazione della libertà d’espressione contro ogni forma di violenza è sacrosanta, ma terribilmente impegnativa. Fino a che punto siamo disposti a riconoscerla anche a chi manifesterà opinioni estreme o fondamentaliste? Ieri il Papa ha indicato quello che gli sembra essere un limite insuperabile: le parole aggressive contro la religione altrui, contro qualsiasi fede religiosa. Posizione ben comprensibile da parte del capo supremo della Chiesa cattolica. Ma essa non appartiene a quella laicità delle istituzioni che ha fondato, insieme alle altre libertà, anche quella di esprimere liberamente il proprio pensiero. Proprio qui la stessa libertà religiosa ha trovato il suo fondamento. Non è vero, quindi, che la laicità abbia guardato alla religione e alle espressioni religiose come “sottoculture tollerate”, considerate invece come parte di un contesto culturale nel quale tutte le opinioni, anche quelle sgradite, meritano rispetto. Un punto fermo, che non può essere travolto dalla concitazione che accompagna il nostro tempo difficile.

Riprendendo un discorso di Benedetto XVI, Papa Bergoglio è tornato sulle presunte colpe dell’Illuminismo. È bene ricordare, allora, che proprio lì ha le sue radici la frase attribuita a Voltaire (ma in realtà costruita da Evelyn Hall) infinite volte citata in questi giorni: «Non sono d’accordo con quel che dici, ma mi batterò fino alla morte perché tu abbia il diritto di farlo». Una indicazione forte, che ci ha accompagnato tutte le volte che si era di fronte a regimi totalitari e autoritari e che non possiamo perdere di vista, perché libertà e diritti esigono una continua e intransigente difesa. La letteratura da sempre ci racconta il futuro, e talvolta ci ammonisce sui suoi pericoli. Il secolo passato è stato segnato da due grandi distopie, da due utopie negative sui rischi dell’uso della biologia e della società della sorveglianza, consegnata a due libri - Il mondo nuovo di Aldous Huxley e 1984 di George Orwell. Oggi altri due libri sono davanti a noi. Il cerchio di Dave Eggers ci parla di una società della trasparenza totale, resa possibile dalla costruzione di una grande impresa planetaria che si impadronisce della vita di tutti, nella quale si può riconoscere la proiezione nel futuro di una combinazione di Google, Facebook, Twitter. Ma le drammatiche vicende francesi hanno conferito una inquietante attualità a Sottomissione di Michel Houellebecq, che colloca in un futuro non lontano, nel 2020, la trasformazione della Francia in uno Stato islamico.

Vi sono nelle nostre culture utopie positive alle quali fare appello perché il futuro comune sia sottratto a questo orizzonte pessimistico? Qui deve innestarsi la riflessione storica, che ci fa scoprire radici profonde e le connette con il presente. È stato commovente cogliere nelle parole prive di retorica del fratello del poliziotto musulmano assassinato il richiamo a libertà, eguaglianza, fraternità. Oggi la libertà è minacciata, le diseguaglianze ci sommergono, ma in questo momento la parola più difficile da pronunciare è “fraternità” o, come più spesso si dice, “solidarietà”. Ma solidali con chi, verso chi? Soltanto verso chi ci è vicino, costruendo così una solidarietà “escludente” ogni altro, che ci spinge verso identità oppositive, destinate ad alimentare conflitti sempre più acuti? Riflettendo sulla condizione europea, Jurgen Habermas aveva affermato che solo la solidarietà può liberarci dall’odio tra paesi creditori e paesi debitori. Mentre diverse forme di odio montano in maniera che a qualcuno pare irresistibile, la pratica difficile e impegnativa della solidarietà non è forse una via che sarebbe cieco abbandonare?

Questi casi, insieme ad altri altrettanto eloquenti che potrebbero essere richiamati, mostrano come le stesse concrete difficoltà presenti possano essere affrontate solo con una adeguata riflessione culturale. Voltaire e la triade rivoluzionaria - libertà, eguaglianza, fraternità - evocano direttamente l’Illuminismo, la sua lunga storia, i riconoscimenti e le trasformazioni di libertà e diritti che da lì hanno avuto origine. E proprio su questa eredità non da oggi ci stiamo interrogando, con un riflesso che cogliamo proprio in due tra i libri ricordati all’inizio. Houellebecq vede nell’abbandono delle premesse illuministiche, o nella impossibilità di restare ad esse fedeli, l’origine della sottomissione all’islamismo, della nuova servitù volontaria che ci attende nel futuro prossimo. All’opposto Eggers, in un libro di grana assai meno fine, vede nella società della trasparenza totale proprio un compimento dell’Illuminismo. E così, discussioni più analitiche a parte, entrambi indicano in quella radice culturale un nodo non ancora sciolto, e che davvero sembra che possa essere affrontato solo con un colpo di spada.

Il modo in cui Alessandro Magno recise l’inestricabile nodo di Gordio, come vuole la leggenda, ben può apparire oggi come metafora di un tempo in cui si contempla quasi esclusivamente il bene della decisione. Decisione subitanea, immediata, magari non meditata, ma rapida e definitiva. E invece proprio i fatti di ieri e di oggi ci dicono che non può essere questo il modo per uscire da una situazione divenuta sempre più aggrovigliata e difficile, anche per l’assenza di adeguate politiche in Europa e negli Stati Uniti, e che non può essere affrontata richiamando in servizio logore parole d’ordine, con il solito crescendo va dallo sbaraccamento della tutela della privacy fino alla pena di morte. Ha fatto bene il nostro ministro degli Esteri a dire di no alla proposta di rivedere il trattato di Schengen, negando il diritto di libera circolazione proprio nel momento in cui l’Europa ha massimo bisogno di tenere uniti tutti i suoi cittadini. E questa è la risposta giusta anche per evitare che, con l’argomento della lotta al terrorismo, si introducano non accettabili misure repressive. In modo assai sbrigativo si è detto che il 10 dicembre parigino rappresenta l’11 settembre dell’Europa. Ma, se così fosse, qualche lezione dovrebbe allora essere appresa dalle politiche americane successive a quella data, con i molti errori politici ormai comunemente riconosciuti: incauti interventi militari, difficoltà di liberarsi di eredità pesanti (i prigionieri di Guantanamo), trasformazione di iniziative antiterrorismo in strumenti di puro controllo politico (il cosiddetto Datagate).

Al tempo stesso, si sono fatte più nette le alternative concrete. Leggi speciali o radicali misure organizzative anche a livello europeo? Raccolte mirate e legittime di informazioni o pesca con lo strascico di masse di dati che si rivelano poi illeggibili? Ingannevoli rassicurazioni dell’opinione pubblica con restrizioni di diritti, alla prova dei fatti inutili e pericolose, o forme di collaborazione (oggi si parla di coordinamento tra i servizi di sicurezza dei diversi paesi)?

Siamo di fronte ad una situazione che non può essere affrontata come se si trattasse solo di una questione di ordine pubblico. E, come hanno opportunamente sottolineato Gustavo Zagrebelsky e Massimo Cacciari, non cediamo alla tentazione di parlare irresponsabilmente di guerra. La democrazia sfidata deve piuttosto recuperare quel pieno riconoscimento e quella legittimazione da parte dei cittadini che sono sempre stati la sua forza nelle situazioni estreme. So bene quanto sia difficile, soprattutto quando la violenza si manifesta nell’estrema sua forma di assassini e massacri, ricordare l’ammonimento che T. B. Smith rivolgeva ai suoi concittadini americani dicendo che «i mali della democrazia si curano con più democrazia». Ma è comunque ineludibile la domanda che in queste situazioni dobbiamo sempre rivolgerci: può, per difendersi, la democrazia perdere se stessa?
Dovremmo sapere che la risposta è obbligata, ed è negativa.

L’altra risposta, esplicita o implicita che sia, viene dalle menti deboli ed è terribilmente pericolosa soprattutto perché distoglie dalla ricerca dei mezzi legittimi e dalla riflessione politica e culturale che deve accompagnare ogni cambiamento d’epoca. Oggi serve un inventario intelligente e difficile di una storia che, con il trascorrere del tempo, si è fatta sempre meno europea, che si è liberata dello stigma di un colonialismo al seguito dell’affermazione dei diritti, e sta approdando ad un costituzionalismo globale che mette al centro il rispetto integrale della persona, della sua vita e della sua dignità, dunque radicalmente ostile ad ogni forma di fondamentalismo. Questa è la mobilitazione culturale di cui abbiamo bisogno, né regressiva né difensiva, per delineare i tratti di una politica democratica alla quale possa appartenere il futuro.

mass media tentano di cancellare: la proposta politica della sinistra europea, presentata in Grecia dalla lista Syriza, è ragionevole e realistica la vittoria di Tsipras il 25 gennaio: aiuterebbe davvero l'Europa a uscire dalla crisi. Il manifesto, 16 gennaio 2015

«Il rischio per l’Europa non è Tsi­pras ma la Mer­kel». Que­sta verità espressa qual­che set­ti­mana fa da Piketty mi ha dato una botta di otti­mi­smo. Per­ché Piketty, pur non avendo alcun potere deli­be­ra­tivo, si è accre­di­tato come voce ascol­tata e rispet­tata (basti pen­sare alle astro­no­mi­che cifre rag­giunte dalla ven­dita del suo ultimo libro); e, sia pure sem­pre meno, l’opinione pub­blica ancora conta un po’.

Piketty non è del resto il solo eco­no­mi­sta impor­tante ad essersi espresso in que­sto senso su Syriza: sui più impor­tanti quo­ti­diani euro­pei e per­sino ame­ri­cani sono state non poche le voci auto­re­voli che hanno ana­liz­zato con serietà il pro­gramma del par­tito che nei son­daggi appare vin­cente nelle pros­sime ele­zioni gre­che, e ne hanno tratto la con­se­guenza che non si tratta di grida di un insen­sato estre­mi­smo, ma di pro­po­ste lar­ga­mente condivisibili.

Se que­sto è acca­duto è per­ché Tsi­pras non ha solo otte­nuto l’appoggio di così larga parte del popolo greco che chiede giu­sti­zia, ma anche di un bel nucleo di eco­no­mi­sti del paese che sono diven­tati suoi con­si­glieri (e alcuni can­di­dati a mini­stro nell’ipotesi di con­qui­stare la dire­zione del governo di Atene). Si tratta di ex stu­denti greci che, come tan­tis­simi, sono emi­grati nel mondo per fre­quen­tare le uni­ver­sità eccel­lenti del Regno Unito, della Fran­cia, della Ger­ma­nia; e anche di quelle ame­ri­cane. Per que­sto sono cono­sciuti e ascol­tati anche fuori dal loro paese.

Il potere deli­be­ra­tivo ce l’ha per ora que­sto ese­cu­tivo dell’Unione euro­pea che pro­prio nel suo ultimo ver­tice - sordo e cieco rispetto alla realtà greca - ha riba­dito le solite posi­zioni: no a ogni ristrut­tu­ra­zione del debito, ma solo un breve pro­lun­ga­mento dei tempi di resti­tu­zione. Del tutto insuf­fi­ciente a impo­stare una poli­tica di lungo periodo per garan­tire una ripresa eco­no­mica quale sarebbe necessaria.

Né le annun­ciate pro­messe di aumento della liqui­dità annun­ciate dalla Bce (il Qe, quan­ti­ta­tive easing) sem­bra pos­sano dav­vero aiu­tare: l’esperienza di que­sti anni sta lì a dimo­strare come ogni volta che le ban­che otten­gono soldi si affret­tano a darli ai big più sicuri e non ai pro­ta­go­ni­sti di una dif­fusa e minuta eco­no­mia autoctona.

Quanto la Gre­cia chiede non è l’elemosina, ma i mezzi per impo­stare un nuovo modello di svi­luppo, che non sia la ripro­po­si­zione di quello ete­ro­di­retto adot­tato negli anni pas­sati dagli spe­cu­la­tori stra­nieri in com­butta con quelli locali, respon­sa­bile di aver por­tato il paese alla catastrofe.

Senza nep­pure porsi qual­che inter­ro­ga­tivo auto­cri­tico l’esecutivo euro­peo, e i governi che ne sosten­gono le posi­zioni, non inten­dono capire che non si uscirà dalla crisi se non con un muta­mento radi­cale, non limi­tan­dosi a con­sen­tire ai cit­ta­dini un po’ più di inu­tile con­sumo nelle catene dei super­mar­ket inter­na­zio­nali (il modello degli 80 euro di Renzi). Una vit­to­ria di Syriza il pros­simo 25 gen­naio può aiu­tare tutti a ripro­porsi que­sto ordine di pro­blemi. Speriamo.

il manifesto 14 gennaio 2014 (m.p.r.)

VANDANA SHIVA: «GLI EUROPEI ANTI OGM
ADESSO SONO PIU' LIBERI »
di Luca Fazio

Il bic­chiere è mezzo pieno, ma non per que­sto biso­gna ber­selo tutto d’un fiato. Con­si­de­rando la posta in gioco, le asso­cia­zioni ambien­ta­li­ste non inten­dono accon­ten­tarsi della nor­ma­tiva appro­vata dal Par­la­mento euro­peo che lascia ai paesi mem­bri la facoltà di deci­dere se col­ti­vare o meno Ogm. La palla adesso passa al governo Renzi, anche per­ché a feb­braio sca­drà il bando prov­vi­so­rio che vieta gli Ogm in Italia.

Per l’attivista indiana Van­dana Shiva le norme appro­vate ieri sono anche un suc­cesso dei movi­menti: «Gli euro­pei sono da oggi un po’ più liberi e il resto del mondo ha un modello da seguire». Tut­ta­via c’è qual­cosa che non va, in par­ti­co­lare “alcuni regali” fatti alle «Gli stati hanno il diritto di non per­met­tere la col­ti­va­zione di Ogm per que­stioni socio-economiche, men­tre non pos­sono ricor­rere a moti­va­zioni essen­ziali come quelle ambien­tali, che riman­gono di com­pe­tenza euro­pea. Il timore è che il paese che dice no al bio­tech diventi giu­ri­di­ca­mente fra­gile e possa essere aggre­dito dalle mul­ti­na­zio­nali». Anche per­ché pre­sto in Europa arri­ve­ranno nuovi bre­vetti da valu­tare. Van­dana Shiva rivolge poi un appello all’Italia: «Approvi leggi per raf­for­zare le basi giu­ri­di­che della scelta anti-Ogm. Fac­cia­molo subito».

Sono le mede­sime pre­oc­cu­pa­zioni di Green­peace. «E’ una norma lacu­nosa - spiega Fede­rica Fer­ra­rio - che avrà biso­gno di mesi prima di essere rece­pita in Ita­lia: dob­biamo invece difen­derci subito dal mais della Mon­santo”. Fer­ra­rio si sof­ferma sulla lacuna più insi­diosa: «I governi non pos­sono basare i divieti su spe­ci­fici impatti ambien­tali o evi­denze di pos­si­bili danni da parte delle col­ti­va­zioni Ogm a livello nazio­nale, anche nel caso in cui que­sti rischi non siano stati presi in con­si­de­ra­zione da parte della valu­ta­zione dell’Efsa» (agen­zia euro­pea, ndr).

Anche Legam­biente, pur espri­mendo sod­di­sfa­zione, chiede al governo una prova di “fedeltà” alla nuova «Adesso per sal­va­guar­dare l’agricoltura ita­liana va subito pro­ro­gato il decreto di divieto di col­ti­va­zione degli Ogm attual­mente in vigore nel nostro paese», dice il pre­si­dente Vit­to­rio Cogliati Dezza. Vin­cenzo Vizioli, pre­si­dente di Aiab, punta il dito con­tro la “vaghezza” di alcune norme ed è pre­oc­cu­pato anche per i pos­si­bili gio­chi si sponda che si potranno aprire tra la nuova nor­ma­tiva sugli Ogm e il Ttip (trat­tato di libero scam­bio tra Usa e Ue), poi­ché non gli sem­bra cre­di­bile che gli Usa rinun­cino ad imporre le sementi modi­fi­cate. Ecco per­ché chiede «l’approvazione di una norma che estenda l’obbligo di eti­chet­ta­tura anche ai pro­dotti deri­vati da ani­mali ali­men­tati con Ogm».

Chi invece non esprime alcuna riserva è Roberto Mon­calvo, pre­si­dente di Col­di­retti: «Siamo di fronte ad un impor­tante e atteso rico­no­sci­mento della sovra­nità degli stati di fronte al pres­sing e alle ripe­tute pro­vo­ca­zioni delle mul­ti­na­zio­nali del bio­tech. L’Europa da un lato, le Alpi e il mare dall’altro, ren­de­ranno l’Italia final­mente sicura da ogni con­ta­mi­na­zione Ogm a tutela della straor­di­na­ria bio­di­ver­sità e del patri­mo­nio di distin­ti­vità del made in Italy”.

NO ALLE COLTIVAZIONI OGM. ORA SI PUO'
di Luca Fazio

Dopo quat­tro anni di trat­ta­tive ser­rate poco tra­spa­renti e molto com­pli­cate, ieri a Stra­sburgo il Par­la­mento euro­peo ha appro­vato la nuova diret­tiva Ue che per­met­terà agli stati mem­bri di vie­tare sul pro­prio ter­ri­to­rio la col­ti­va­zione di orga­ni­smi gene­ti­ca­mente modi­fi­cati (Ogm); pos­si­bi­lità che viene garan­tita anche per que­gli Ogm che sono già stati auto­riz­zati a livello comunitario.

Si tratta dun­que di una norma che raf­forza quella sovra­nità nazio­nale che le mul­ti­na­zio­nali del bio­tech hanno cer­cato di met­tere in discus­sione in nome di una libertà di com­mer­cio che avrebbe potuto (e potrebbe) con­di­zio­nare il sistema agroa­li­men­tare del pia­neta. La par­tita non è ancora finita e con­si­de­rando la posta in gioco a pen­sar male non si fa pec­cato. Si spiega così la pru­denza con cui alcune asso­cia­zioni ambien­ta­li­ste hanno accolto la (sostan­zial­mente) buona noti­zia che in fondo era attesa da anni. Il timore è che alcune parti piut­to­sto deboli e con­fuse della diret­tiva sem­brano scritte dagli azzec­ca­gar­bu­gli per lasciare spazi di agi­bi­lità alle aziende che com­mer­ciano sementi modificate.

Il mini­stro delle Poli­ti­che agri­cole Mau­ri­zio Mar­tina non nutre dubbi in pro­po­sito e passa all’incasso. «In mate­ria Ogm - spiega - il punto di novità euro­peo è molto impor­tante e si iscrive nei suc­cessi della pre­si­denza ita­liana. Non era scon­tato che finisse così». Il mini­stro ha anche con­fer­mato la voca­zione Ogm-free del governo. Altro fatto tutt’altro che scon­tato, anche se nes­sun governo euro­peo (Spa­gna e Por­to­gallo a parte) oggi potrebbe per­met­tersi di sfi­dare l’opinione pub­blica lasciando campo libero agli Ogm: 8 ita­liani su 10 da un decen­nio dicono di non volerne sapere. «Con­ti­nuo a rima­nere dell’idea che l’Italia - riba­di­sce il mini­stro - fac­cia bene a lavo­rare oltre il tema Ogm sì Ogm no, con­fer­mando la non col­ti­va­zione per­ché il modello agroa­li­men­tare ita­liano ha biso­gno di posi­zio­narsi sem­pre di più su fat­tori distin­tivi che stanno tutti den­tro il lavoro sulle qua­lità agroa­li­men­tari ita­liane. Per que­sto una col­ti­va­zione Ogm mi sem­bre­rebbe incoe­rente con que­sto lavoro che dob­biamo fare”.

La nuova diret­tiva è stata appro­vata con 480 voti favo­re­voli, 159 con­trari e 58 aste­nuti (tra due anni si cer­cherà di rag­giun­gere un nuovo accordo una­nime). Le nuove norme entre­ranno in vigore in aprile. Si può dire che il brac­cio di ferro tra paesi pro e con­tro gli Ogm alla fine si sia risolto in favore di que­sti ultimi, anche se non va tra­scu­rato il fatto che la libertà di dire “no” agli Ogm viene com­pen­sata dall’introduzione di pro­ce­dure più snelle per la loro auto­riz­za­zione a livello comu­ni­ta­rio. Signi­fica che uno stato d’ora in poi potrà più facil­mente deci­dere anche di “aprirsi” agli Ogm, creando non pochi pro­blemi ai paesi con­fi­nanti (per­ché mai uno stato dovrebbe con­ver­tirsi agli Ogm, per fare un esem­pio, lo spiega il caso dell’Ucraina che ha appena fatto gli onori di casa a Mon­santo, men­tre prima della “svolta” filo occi­den­tale quei semi erano vietati).

Le norme appro­vate ieri dicono che gli stati mem­bri con­trari agli Ogm pos­sono espri­mere il pro­prio diniego durante la fase di appro­va­zione comu­ni­ta­ria, inol­tre potranno vie­tare la col­ti­va­zione con un divieto valido entro dieci anni dall’approvazione comu­ni­ta­ria (il testo pre­ce­dente ne indi­cava due). In più, potranno vie­tare la col­ti­va­zione non solo di un sin­golo tipo di Ogm ma anche di un gruppo di Ogm che pre­sen­tano carat­te­ri­sti­che simili. Un altro miglio­ra­mento deci­sivo, rispetto al testo pre­ce­dente, can­cella la norma secondo cui uno stato per vie­tare gli Ogm avrebbe dovuto con­fron­tarsi diret­ta­mente con la società bio­tech: sarà invece la Com­mis­sione euro­pea a fare da cusci­netto per la trattativa.

L’aspetto più sci­vo­loso della nor­ma­tiva, quello che lascia per­plesse alcune asso­cia­zioni, si rife­ri­sce invece alla moti­va­zioni con cui uno stato sarà chia­mato a spie­gare il divieto di col­ti­va­zione. I divieti potranno essere moti­vati per ragioni socio-economiche, di poli­ti­che agri­cole, di inte­resse pub­blico, di pia­ni­fi­ca­zione urbana e - natu­ral­mente - anche per “ragioni di poli­tica ambien­tale”. Tut­ta­via in quest’ultimo caso la valu­ta­zioni non potranno for­nire valu­ta­zioni oppo­ste rispetto a quelle for­nite dall’Autorità euro­pea di sicu­rezza ali­men­tare (Efsa), soli­ta­mente piut­to­sto tenera nel valu­tare l’impatto degli Ogm.

Il pro­blema rela­tivo al poten­ziale inqui­na­mento dei campi Ogm nei pressi delle fron­tiere è stato risolto impo­nendo alcuni vin­coli: misure obbli­ga­to­rie di “coe­si­stenza” (la distanza di sicu­rezza tra un campo e l’altro, poi­ché i pol­lini volano per chi­lo­me­tri) e la costru­zione di bar­riere fisi­che, a meno che i paesi non siano sepa­rati da mon­ta­gne o mare. Stando così le cose - e forse sot­to­sti­mando la capa­cità di per­sua­sione delle mul­ti­na­zio­nali del bio­tech - l’Europa può dirsi quasi salva dall’invasione. Oggi, infatti, solo la Spa­gna col­tiva una super­fi­cie con­si­de­re­vole di Ogm (116 mila ettari di mais Mon­santo 810, l’unico fino ad ora auto­riz­zato dalla Ue). Men­tre altri paesi col­ti­vano pic­coli appez­za­menti (Por­to­gallo 9 mila ettari, Roma­nia 217 e Slo­vac­chia 189).

La Repubblica, ed. Firenze, 14 gennaio 2015 (m.p.g.)

Quanti secoli ci ha messo il cristianesimo a ripudiare la convinzione che si possa uccidere in nome di Dio? Quando aveva l'età che ha ora l'Islam, in Europa scorrevano fiumi di sangue. E sembra che ci siamo dimenticati che, in nome del cristianesimo, solo vent'anni fa furono uccise decine di migliaia di musulmani bosniaci, a poche centinaia di chilometri da Ancona.Se vogliamo accelerare un simile ripudio nell'Islam italiano, se vogliamo che siano più numerose e più forti le voci di chi dice «not in my name» (come ha subito gridato Igiaba Scego, scrittrice musulmana di origine eritrea, che vive a Roma), abbiamo un'unica strada: accelerare l'integrazione. Ma quella vera.

Per far questo occorre radicalizzare la laicità, e dunque la terzietà religiosa, dello Stato: e contemporaneamente consentire il più pieno esercizio della vita religiosa delle comunità islamiche nel nostro Paese. Esattamente il contrario di ciò che propone la Destra (Lega e Forza Italia): che difende i presepi e i crocifissi nelle scuole (così che i bambini musulmani che ci studiano mai potranno sentirsi pienamente cittadini italiani) e al tempo stesso si oppone vigorosamente alla costruzione di nuove moschee. Ma anche la Sinistra, e l'intera classe dirigente italiana, non sembrano consapevoli che questa è una delle partite cruciali per il futuro del Paese.

Il caso di Firenze è emblematico. Qui la comunità islamica ha presentato un progetto per una grande moschea nel settembre del 2010. L’arcivescovo (cui certo non spettava esprimere un giudizio) sostenne che sarebbe stato meglio non pensare ad un unico tempio, ma a tanti piccoli luoghi di preghiera, possibilmente senza minareto. E il sindaco Matteo Renzi mise subito le mani avanti, dichiarando: «al momento non c’è un progetto, non c’è un’ipotesi di lavoro». Per poi chiudere ogni prospettiva: «Non vedo spazi nel centro storico di Firenze per farla, in questo momento». Oggi, cinque anni dopo questo esorcismo, tutto è ancora fermo: e l'assenza della moschea è assai eloquente sulle vere intenzioni di chi parla di integrazione.

Ebbene, è da questa miopia che dobbiamo liberarci: quando ci sembrerà finalmente venuto il momento di costruire l'Italia del futuro? Soffocati dagli eterni tatticismi della politica e prigionieri in un discorso pubblico inchiodato alla cronaca di un presente mortificante, sembriamo non sapere che presto anche in Italia si porranno le questioni che oggi agitano la Francia.

La sera del massacro di Charlie Hebdo, davanti a una televisione inevitabilmente accesa, mio figlio (che fa la prima elementare in una scuola pubblica fiorentina) mi ha detto che lui non ha paura dei suoi (tanti) compagni di classe musulmani. Mi sono chiesto quanto ci metteremo a rovinare questa naturale armonia: quanto ci vorrà perché cambi idea?

Tutto si deciderà nelle nostre città, così strettamente legate alla storia delle libertà (appunto) civili italiane. Come dimostra ciò che è successo nelle banlieuses francesi, le politiche urbanistiche hanno un peso straordinario nel futuro sociale di un Paese. Per secoli le città italiane hanno creato cittadini: italiani non per stirpe, ma per cultura. Siamo una nazione non per via di sangue, ma – letteralmente – iure soli: per la forza di un territorio che ci ha fatto comunità. Lo riconosce l'articolo 9 della Costituzione, uno dei pochissimi che spenda appunto la parola 'nazione': associandola al patrimonio storico e artistico e al paesaggio. Cioè allo spazio pubblico: luogo terzo in cui non siamo divisi né per fede né per censo, ma siamo cittadini ed eguali.

Oggi questo patrimonio può tornare a giocare nella direzione del futuro. Quante chiese abbandonate potrebbero diventare moschee (invece che alberghi di lusso)? Quanti centri storici possono rinascere accogliendo anche un'altra cultura, invece che avviarsi ad un'imbalsamazione turistica? Una moschea nel centro di Firenze sarebbe un segno potente, capace di indicare la direzione del cammino che dobbiamo intraprendere. Un modo per dire che ora, sì, sappiamo come costruire un'integrazione vera. Che passa attraverso città che permettono l'incontro quotidiano, la mescolanza, la conoscenza. E non attraverso quartieri ghetto: periferie chiuse e separate, luoghi fatti apposta per fomentare il risentimento verso quella separazione e nutrire un'identità basata sull'alterità radicale.

È una partita che ci mette di fronte alle nostre antiche carenze: non siamo mai riusciti a formare veri cittadini, a costruire uno Stato impermeabile al pervasivo secolarismo della Chiesa, a dare un senso attuale e progressivo al patrimonio storico e artistico delle nostre città. Ebbene, è venuto il momento di farlo.

Corriere della Sera, con chi invoca la guerra contro l'Islam come risposta ai terroristi . Il manifesto, 13 gennaio 2015

Come l’11 set­tem­bre 2001 new­yor­chese, così il 7 gen­naio 2015 pari­gino ha susci­tato, accanto e quasi in con­tem­po­ra­nea al rac­ca­pric­cio e all’orrore, le per­ples­sità, i dubbi. E gli inter­ro­ga­tivi sono così affio­rati, col tra­scor­rere delle ore. Ma il fatto è acca­duto, e l’esecrazione è d’obbligo, e giusta.

E, come si poteva pre­ve­dere, la rispo­sta c’è stata, anche se ha non solo com­pli­cato le cose, ma non è escluso che abbia aggra­vato il bilan­cio delle vit­time; men­tre non v’è dub­bio che ha acuito la paura e l’odio, a dispetto dei car­telli innal­zati nella prima mani­fe­sta­zione spon­ta­nea già della sera del 7 genaio scorso, della quale sono stato testi­mone diretto, a Place de la Répu­bli­que, che pro­po­ne­vano matite piut­to­sto che mitra, amore invece di odio, tol­le­ranza invece di discri­mi­na­zione, acco­glienza in luogo di rifiuto.

Ma que­ste erano le belle e se si vuole inge­nue richie­ste dal basso: ancora una volta le classi diri­genti – poli­tici e intel­let­tuali – si sono rive­late al di sotto del sen­ti­mento delle popo­la­zioni. E in Ita­lia, mi pare, in modo più pesante che in Fran­cia, che pure è la prima vit­tima degli eventi di que­sti giorni da cane.

Era ovvio che la destra si sarebbe sca­te­nata, e in un paese dove il lepe­ni­smo è diven­tato la prima forza poli­tica, era il minimo sen­tire l’appello della lea­der alla rei­sti­tu­zione della pena capi­tale, ma con un certo bon ton la signora si è limi­tata a pro­porre un refe­ren­dum con­sul­tivo. Men­tre il suo amico e sodale ita­liano, il Sal­vini, che ormai ha la lea­der­ship della destra nostrana, ha rag­giunto nuovi ver­tici par­lando del nemico in mezzo a noi, che abita sul nostro stesso pia­ne­rot­tolo ed è «pronto a sgoz­zarci». La pre­messa teo­lo­gica è che non vi sono distin­zioni né dif­fe­ren­zia­zioni pos­si­bili: l’Islam «non è una reli­gione come le altre». E ad essa si deve rispon­dere, dun­que, con mezzi ade­guati: la forza. Magari bru­ciando il Corano?

Non si pensi che l’estremismo becero di que­sto rozzo bestione (uso la nobile espres­sione di Giam­bat­ti­sta Vico, non si offenda il Mat­teo «lum­bard»), sia mero fol­clore leghi­stico. Si sfo­gli la stampa nazio­nale: lascio stare fogli come Il Gior­nale, Libero, e anche gior­nali locali come Il Tempo e la galas­sia del Quo­ti­diano Nazio­nale, per­ché vi si trova ciò che ci si attende.

Mi sof­fermo invece niente meno sul Cor­riere della Sera, il «più auto­re­vole» gior­nale italiano.

Da tempo que­sta impo­nente mac­china volta alla costru­zione del senso comune sta indi­riz­zando la pub­blica opi­nione verso l’idea di una ine­vi­ta­bi­lità ma anche di una neces­sità della guerra «con­tro il Ter­rore», con i suoi Pane­bianco e Galli della Log­gia, ed altri minori, fino ad Anto­nio Polito, il cui edi­to­riale del 10 gen­naio a dir poco fa cascare le braccia.

Se la prende con il Par­la­mento che era a ran­ghi ridotti quando il mini­stro Alfano pro­fe­riva le solite vuote parole. E Polito accusa: «È lo stesso Par­la­mento che, rinun­ciando agli F35, sarebbe pronto a disfarsi dell’arma aero­na­vale nel Paese che è geo­gra­fi­ca­mente una por­tae­rei nel Medi­ter­ra­neo» . Ma di che anno è que­sto gior­nale, si chie­de­rebbe un let­tore distratto? 1935? Ma l’editorialista con­ti­nua, e il ber­sa­glio diventa — come non aspet­tar­selo? — «un’intellettualità dif­fusa», «colta», deve ammet­tere, ma «faziosa», nella quale «pul­lu­lano»… chi? «Anti­a­me­ri­cani» e «filo­russi». Di nuovo, l’effetto di spiaz­za­mento: siamo negli anni Cinquanta?

Ma arriva al top, quando lamenta che non abbiamo da noi un Houel­le­becq, sin­cero nemico dell’Islam, e nes­suno abbia perso il posto della Oriana Fal­laci, che sulla mede­sima prima pagina del quo­ti­diano mila­nese, viene evo­cata con la ri-pubblicazione di una inter­vi­sta del 1970. Quali colpe, dun­que, hanno gli intel­let­tuali «faziosi» (ossia di sini­stra), secondo Polito? Ecco: «sono molto più a loro agio con l’appeasement che con la guerra, se la cavano meglio con la reto­rica del dia­logo che con quella dello scon­tro di civiltà. Sanno apprez­zare un ‘ritiro’ e depre­care una battaglia».

Non c’è che dire: con il richiamo all’inevitabile Hun­ting­ton, il qua­dro è com­pleto. Siamo alla chia­mata alle armi. Una vec­chia sto­ria per il gior­nale di Via Sol­fe­rino. Nel 1911 con la Libia, nel 1915 con la Grande guerra, nel 1935 con l’Etiopia, nel 1936 con la Spa­gna, nel 1940 con il Secondo con­flitto mon­diale, è sem­pre il dan­nun­ziano mag­gio radioso. Una bella cro­ciata, come ai vec­chi tempi, insomma: la croce che diventa spada. Ma pos­si­bile che Afgha­ni­stan, Iraq, Libia, Siria, e via enu­me­rando, non inse­gnino nulla

Libération (9 gennaio) e ripreso da il manifesto (13 gennaio 2015), riflette su tre parole chiave: comunità, imprudenza, jihad
Un vec­chio amico giap­po­nese, Haru­hisa Kato, già pro­fes­sore all’Università Tôdai, mi ha scritto: «Ho visto le imma­gini della Fran­cia intera in lutto. Ne sono rima­sto scon­volto. A suo tempo ho molto amato gli album di Wolin­ski. Sono abbo­nato da sem­pre al Canard Enchaîné. Ogni set­ti­mana ho apprez­zato le vignette del Beauf di Cabu. Ho sem­pre a fianco del mio tavolo di lavoro il suo album “Cabu et Paris”, che com­prende schizzi ammi­re­voli di ragazze giap­po­nesi, turi­ste rag­gianti sugli Champs-Elysées». Ma subito dopo, una riserva: «L’editoriale di Le Monde del primo gen­naio comin­ciava così: “Un mondo migliore? Que­sto sup­pone, in primo luogo, l’intensificazione della lotta con­tro lo ‘Stato isla­mico’ e la sua cieca bar­ba­rie”. Sono rima­sto molto col­pito dall’affermazione, abba­stanza con­trad­dit­to­ria mi sem­bra, che per avere la pace biso­gna pas­sare per la guerra!».

Altri mi scri­vono da vari luo­ghi: Tur­chia, Argen­tina, Stati Uniti…Tutti espri­mono com­pas­sione e soli­da­rietà, ma anche inquie­tu­dine: per la nostra sicu­rezza, demo­cra­zia, civiltà, direi quasi per la nostra anima. È a loro che voglio rispon­dere, cogliendo l’occasione dell’invito di Libé­ra­tion.
È giu­sto che gli intel­let­tuali si espri­mano, senza pri­vi­legi, soprat­tutto senza pre­ten­dere una par­ti­co­lare luci­dità, ma senza reti­cenze e senza cal­coli. È un dovere fun­zio­nale, affin­ché la parola cir­coli nell’ora del pericolo. Oggi, nell’urgenza, non voglio enun­ciare che tre o quat­tro parole.

Comu­nità

Sì, noi abbiamo biso­gno di comu­nità: per il lutto, per la soli­da­rietà, per la pro­te­zione, per la rifles­sione. Que­sta comu­nità non è esclu­siva, in par­ti­co­lare non lo è rispetto a coloro fra i cit­ta­dini fran­cesi o immi­grati che una pro­pa­ganda sem­pre più viru­lenta, che ricorda i più sini­stri epi­sodi della nostra sto­ria, assi­mila all’invasione e al ter­ro­ri­smo per farne i capri espia­tori delle nostre paure del nostro impo­ve­ri­mento o dei nostri fantasmi.

Ma non lo è nep­pure rispetto a coloro che cre­dono alle tesi del Fronte nazio­nale o che si lasciano sedurre dalla prosa di Houel­le­becq. Essa deve dun­que spie­garsi con se stessa. Non si arre­sta alle fron­tiere, dal momento che è chiaro che la con­di­vi­sione dei sen­ti­menti, delle respon­sa­bi­lità e delle ini­zia­tive evo­cate dalla “guerra civile mon­diale” in corso deve farsi in comune, su scala inter­na­zio­nale, e, se pos­si­bile (Edgar Morin ha per­fet­ta­mente ragione su que­sto punto), in un qua­dro cosmopolitico.

Per que­sto motivo la comu­nità non si con­fonde con l’unione nazio­nale. Que­sto con­cetto non è in pra­tica ser­vito ad altro che a scopi incon­fes­sa­bili: imporre silen­zio alle domande sca­brose e far cre­dere all’inevitabilità delle misure d’eccezione. La stessa Resi­stenza (per buone ragioni) non ha invo­cato que­sto ter­mine. E abbiamo già visto come, pro­cla­mando il lutto nazio­nale in base alle sue pre­ro­ga­tive, il Pre­si­dente della Repub­blica ne abbia appro­fit­tato per giu­sti­fi­care di sop­piatto i nostri inter­venti mili­tari, che pro­ba­bil­mente hanno con­tri­buito a far sci­vo­lare il mondo sulla china attuale. Dopo di che ven­gono tutte le discussioni-trappola sui par­titi che sono “nazio­nali” o meno, anche se ne por­tano il nome. Si vuol far con­cor­renza alla signora Le Pen?

Impru­denza

I vignet­ti­sti di Char­lie Hebdo sono stati impru­denti? Sì, ma la parola ha due sensi, più o meno age­vol­mente distri­ca­bili (e qui c’entrano certo valu­ta­zioni sog­get­tive). Sprezzo del peri­colo, gusto del rischio, eroi­smo se vogliamo. Ma anche indif­fe­renza per le con­se­guenze even­tual­mente disa­strose di una pro­vo­ca­zione: magari il sen­ti­mento di umi­lia­zione di milioni di uomini già stig­ma­tiz­zati, abban­do­nati alle mani­po­la­zioni di fana­tici organizzati.

Credo che Charb e i suoi col­le­ghi siano stati impru­denti nei due sensi del ter­mine. Oggi che que­sta impru­denza è costata loro la vita, rive­lando allo stesso tempo il peri­colo mor­tale che corre la libertà di espres­sione, non voglio pen­sare che al primo aspetto. Ma domani e dopo­do­mani (que­sta sto­ria non si esau­rirà in un giorno) pre­fe­ri­rei che si riflet­tesse sul modo più intel­li­gente di gestire il secondo e la sua con­trad­di­zione con il primo. E non si trat­terà neces­sa­ria­mente di viltà.

Jihad

Di pro­po­sito pro­nun­cio solo alla fine la parola che fa paura, per­ché è tempo di esa­mi­narne tutte le impli­ca­zioni. Ho appena uno spunto di idea in mate­ria, ma ci tengo: la nostra sorte sta nelle mani dei Musul­mani, per impre­cisa che sia tale denominazione.

Per­ché? Per­ché è giu­sto, certo, met­tere in guar­dia con­tro gli amal­gami e con­tra­stare l’islamofobia che pre­tende di ritro­vare l’appello all’omicidio nel Corano o nella tra­di­zione orale. Ma que­sto non basterà. Allo sfrut­ta­mento dell’Islam ope­rato dalle reti jiha­di­ste –di cui, non dimen­ti­chia­molo, i Musul­mani ovun­que nel mondo e anche in Europa sono le vit­time prin­ci­pali– non può rispon­dere se non una cri­tica teo­lo­gica e, da ultimo, una riforma del “senso comune” della reli­gione, che fac­cia dello jiha­di­smo una con­tro­ve­rità agli occhi dei cre­denti. Altri­menti saremo tutti presi nella morsa letale del ter­ro­ri­smo, capace di atti­rare a sé tutti gli umi­liati e offesi della nostra società in crisi, e delle poli­ti­che sicu­ri­ta­rie, liber­ti­cide messe in opera da Stati sem­pre più militarizzati.

C’è dun­que una respon­sa­bi­lità dei Musul­mani, o piut­to­sto un com­pito che tocca loro. Ma è anche il nostro, non solo per­ché il ‘noi’ di cui parlo, qui e ora, include per defi­ni­zione molti Musul­mani, ma per­ché le pos­si­bi­lità, già esili, di tale cri­tica e di tale riforma diver­reb­bero fran­ca­mente nulle se noi ci con­ten­tas­simo ancora a lungo di discorsi di iso­la­mento di cui essi, con la loro reli­gione e la loro cul­tura, sono gene­ral­mente il bersaglio.

La Repubblica, 13 gennaio 2015

C’è chi ha contato i turchi di Imperia e chi ha fotografato i cinesi di La Spezia, chi ha ascoltato i marocchini ad Albenga e chi ha avvistato gli alfaniani a Genova, e vai a sapere quanto hanno pesato queste incursioni sospette sulla vittoria della renziana Raffaella Paita.

Ma sulle primarie del Pd per la presidenza della Regione Liguria pesa l’inaccettabile sospetto che siano state decise da quegli stranieri che nel loro italiano pasticciato chiedevano la scheda per scegliere il successore di Burlando e poi, all’uscita, domandavano ingenuamente dove dovevano andare per ritirare il premio promesso.

È vero: non si raccolgono 29mila voti — quattromila in più di Sergio Cofferati, uno che non ha mai avuto bisogno di stampare volantini per farsi riconoscere dai suoi elettori — portando ai seggi i cinesi con il pulmino. E infatti persino ad Albenga, dove i marocchini reclamavano la ricompensa, non basterebbe annullare il voto di tutti i 147 extracomunitari che hanno votato lì per riequilibrare un risultato davvero senza storia: 1320 voti per la Paita, 246 per Cofferati. Eppure c’è qualcosa che non va, in quelle comitive di cinesi che si so- no presentati al seggio di La Spezia o in quella processione di settanta turchi che andavano a votare a Porto Maurizio.

Così come c’è qualcosa che non va in quel sindaco ex An di Albisola Superiore che ha radunato gli amministratori della Riviera per sostenere la Paita, o in quel capogruppo dell’Ncd che candidamente annuncia che manderà i suoi elettori a votare per la candidata renziana, dando nomi e volti ai sospetti di un inquinamento politico di una consultazione promossa, organizzata e riconosciuta dal Partito democratico.

Cosa c’è che non va? C’è che le primarie, quella festa della democrazia e della partecipazione che abbiamo importato — insieme a tante altre cose — dalla politica americana, rischiano di essere macchiate, snaturate e delegittimate dalle incursioni e dalle scorribande di chi non c’entra nulla né col Pd né con le elezioni italiane, e si presenta al seggio solo per dare un voto venduto davanti alla porta oppure per scegliersi l’avversario preferito. Non è, quella di Genova, una storia nuova. Le primarie per il sindaco di Napoli, quattro anni fa, furono annullate per i troppi sospetti, e poi si scoprì il tariffario del clan Lo Russo: dalla borsa di pane-latte-carne per un voto singolo ai cinquanta euro per un voto doppio, il primo alle primarie e il secondo alle amministrative. E anche adesso, in Campania, organizzare le primarie è diventato un incubo, visto che dopo aver rinviato la data per due volte stanno cercando di “superarle” con un candidato scelto a Roma.

L’invocazione delle primarie si è tramutata nella paura delle primarie. Ma sarebbe un errore imperdonabile tornare indietro. Senza le primarie, uomini estranei alla nomenklatura di partito non sarebbero diventati sindaci di Milano, di Genova, di Roma o di Cagliari. Senza le primarie, i partiti — non tutti: quelli che le hanno adottate, perché per gli altri non è cambiato nulla — continuerebbero a scegliere i candidati senza tener conto della volontà dei loro militanti, dei loro iscritti, dei loro elettori.

Ma le primarie, per funzionare, hanno bisogno di regole efficaci. La prima regola è che le primarie funzionano quando più persone si battono per una sola candidatura, perché così lo scontro diretto per la maggioranza assoluta fa emergere pregi e difetti di ciascuno. Sono invece un disastro se vengono organizzate per compilare una lista, quando basta un consenso parziale, perché allora si torna alla guerra delle preferenze (e ci sarà un motivo se il candidato più votato d’Italia alle primarie del Pd per il Parlamento, il messinese Francantonio Genovese, è stato anche il primo a finire in galera).

La seconda regola è che devono parteciparvi solo i cittadini che siano riconosciuti come elettori di quel partito. Negli Stati Uniti chi voleva scegliere tra Barack Obama e Hillary Clinton doveva essere un “registered democrat”, un elettore democratico regolarmente registrato nelle liste ufficiali. Quanto agli immigrati, nel Paese più multietnico del pianeta, possono votare tutti — cinesi, marocchini, turchi e sudamericani — ma solo dopo essere diventati cittadini americani.
La terza regola — la regola delle regole — è che le primarie vanno organizzate non con uno statuto ma con una legge dello Stato. Non giriamoci intorno: se vogliamo le primarie all’americana, dobbiamo adottare anche quelle scomode regole che lì le fanno funzionare. È finito il tempo delle primarie alle vongole.

Il Sole 24Ore, 11gennaio 2015

La portata e il significato dei tragici fatti dì sangue di Parigi, nonostante le divergenti e contraddittorie interpretazioni che provengono da ogni dove, meritano una più meditata riflessione di quanto oggi non sia ancora possibile fare. Nel cuore dell'Europa pare essere ritornato improvvisamente quello "stato di natura" descritto da Thomas Hobbes, una guerra di tutti contro tutti, e comunque una situazione di insicurezza generale. Considerare questo fenomeno alla stregua di un puro atto terroristico è sicuramente riduttivo.

Il contesto politico nel quale questa sanguinosa battaglia ha avuto luogo suggerisce la strisciante esistenza di un conflitto mondiale, reso ancor più dirompente dalla globalizzazione economica, con le sue profonde disuguaglianze. L'ideologia dominante che si è affacciata al nuovo millennio ha via via ridotto il potere e la sovranità degli Stati, scardinando alcuni principi delle democrazie liberali.

Gli Stati stessi, da fonti del diritto sono diventati meri esecutori di una governance tanto generica quanto vaga. Fu già Hegel a rilevare che quando il diritto privato ha il completo sopravvento sul diritto pubblico e lo Stato arretra di fronte agli interessi dei privati, la decadenza dei sistemi politici minaccia le stesse basi della civiltà. La sostituzione della governance alla norma giuridica produce un sistema mondiale privo di ordine e di coerenza. È quel che è avvenuto anche nell'ambito del diritto internazionale. Dove le grandi istituzioni, nate nel secondo dopoguerra, come le Nazioni Unite, atte a garantire un diritto cosmopolitico internazionale di piena effettività diretto ad assicurare la pace nel mondo, sono state sostituite da varie organizzazioni di natura plurilaterale.
Tra queste, quella di maggior rilievo, dominata dagli Stati Uniti, è la Nato, che, come ha sostenuto giustamente John Mearsheimer sull'ultimo numero di Foreign Affairs, è certamente, a causa del suo allargamento ai vari Stati confinanti con la Russia, motivo di nuovo conflitto, alla base della reazione in Ucraina e dell'annessione della Crimea da parte di Putin, in preventiva difesa dell'imperialismo russo. Fenomeno di guerra generalizzata che, pur completamente diverso dai fatti di Parigi, si inserisce nella medesima disordinata cornice.

Ma il caso più clamoroso è la subalternità degli Stati, soprattutto in Europa, fortemente indebitati, la cui operatività di politica economica, completamente privatizzata, è costretta ad adottare misure di austerità soggette ai voleri dei creditori e dei loro diritti contrattuali, di cui si fanno interpreti l'opacità dei mercati ed i suoi protagonisti, dagli hedge funds; alle società di rating, ai fondi sovrani, nel marasma dei loro conflitti di interessi.

Ed è così che alla certezza del diritto si sostituisce l'incertezza della governance, dove i protagonisti del capitalismo finanziario sono molto spesso occulti o privi di qualunque giuridica legittimazione internazionale, come nel caso della c.d. troika, che detta le regole agli Stati o impone norme costituzionali contrarie ai diritti fondamentali, quale il vincolo al pareggio di bilancio, introdotto nel 2012 nella Costituzione italiana con la sostituzione dell'art. 8I.

Che lo Stato sia pericolosamente diventato il mediatore di interessi privatistici l'aveva già rilevato con straordinaria lucidità Norberto Bobbio. Ma il fenomeno si è via via allargato, tant'è che recentemente, in democrazie avanzate come quella americana, le interpretazioni dei diritti costituzionali sono state manipolate a favore della governance privata del capitalismo finanziario. La sentenza della Corte Suprema del 2010 Citizen United v. FEC, sulla quale mi sono già più volte intrattenuto, ha parificato la sovranità del popolo alle corporations e la libertà di espressione (freedom of speech) al denaro (money), togliendo ogni limite ai finanziamenti alla politica da parte delle grandi società. I più autorevoli commentatori hanno dichiarato che questo è stato un modo per rendere legale la corruzione polìtica.

Non diverso comportamento è stato seguito in molteplici casi dalla Corte di Giustizia europea, nel difficile bilanciamento tra i principi fondamentali dell'Unione e le misure restrittive di natura finanziaria e di risanamento economico, come chiaramente documentato il costituzionalista Gaetano Azzariti. Altre volte abbiamo stigmatizzato la pericolosità delle misure economiche alternative alla sanzione penale. Questa justice by deal, questa sanzione attraverso la contrattazione è un indice che anche il potere giudiziario, come quello politico, può diventare come è stato più volte denunciato dal New York Times, uno strumento dell'ideologia del capitalismo finanziario.

L'arretramento degli Stati e del diritto a favore di interessi particolaristici finisce per conferire una assurda attrattiva ai fatti di Parigi, che si inquadrano invece in una violenta barbarie, alla quale non può riconoscersi alcun valore universale. La brutalità del fanatismo religioso nasconde invece i veri scopi di dominio di territori e di risorse economiche, come si è verificato in Iraq e in Siria. L'attuale erratico andamento del prezzo del petrolio, che sta sconvolgendo tutte le previsioni economiche, riguardanti anche i paesi c.d. emergenti, ne è l'indice più evidente. Attaccare i principi fondamentali della libertà di stampa e di opinione invocando esclusivamente idolatrie religiose con il miraggio di nuovi Stati fondamentalisti cela le finalità di carattere economico che altrimenti non potrebbero certo qualificarsi come valori universali.

Due conclusioni mi paiono a questo punto certe.

La prima è che l'affermazione dei diritti umani -nucleo centrale della civiltà occidentale -deve prevalere sulla governance del capitalismo neoliberista e sul simulato riferimento scorretto al diritto di libertà, con cui è stato giustificato ogni tipo di sopraffazione, e quindi di violazione del diritto alla dignità dell'uomo. Purtroppo l'ideologia di base del neoliberismo ha trascurato un principio fondamentale; già Bentham aveva affermato che compito del diritto e dello Stato era proprio indicare i limiti all'esercizio delle libertà, discorso poi ripreso fino a Isaiah Berlin col concetto di libertà negative. Alla base di ogni programma politico futuro che si ponga come obiettivo l'uscita dalla crisi, soprattutto in Europa, si deve tener conto che senza uguaglianza non c'è libertà, e quindi se i principi dell'economia portano alla creazione continua di diseguaglianze e di smisurate ricchezze, soprattutto a livello globale, i conflitti non potranno mai esser risolti. E i ritorni allo "stato di natura" previsto da Thomas Hobbes saranno ancora più frequenti.

La seconda conclusione che ne deriva è il fallimento delle politiche di "austerità espansiva", che devono porre fine anche all'ideologia del sopravvento della governance economica sul diritto. Il monito a «non sovrastimare l'importanza del problema economico, o sacrificare alle sue presunte necessità altre materie di maggiore o più duraturo significato» era già stato espresso da Keynes nel 1931; ovviamente egli si riferiva ai diritti fondamentali.

Barbara Spinelli al ministro Padoan: le norme antievasione favoriscono Berlusconi
Comunicato stampa, Strasburgo, 12 dicembre 2015
Barbara Spinelli è intervenuta nella riunione straordinaria della Commissione per i problemi economici e monetari, rivolgendosi al ministro Pier Carlo Padoan, ex Presidente ECOFN e ministro italiano dell'Economia e delle Finanze, presente a Strasburgo per un bilancio della presidenza italiana dell’Ue. «Mi soffermo sulle recenti misure di politica economica del suo governo, e più in particolare sull’indulgenza mostrata verso corruzione ed evasione, nonostante le ottime misure europee adottate durante il semestre di presidenza», ha detto la deputata del GUE-NGL. «Non elenco qui tutti gli articoli dell’ultima legge di bilancio che depenalizzano i reati fiscali. Ricordo solo alcuni calcoli che sono stati fatti: ogni anno la corruzione comporta in Italia una riduzione dello 0,14 per cento del PL. E dico che delle norme sull’evasione connesse alla legge di bilancio lei è responsabile. Anche di quella che avvantaggia condannati di frode fiscale come Silvio Berlusconi, e che è stata per il momento rinviata. Lo è in ambedue i casi, per quanto concerne la frode fiscale: sia che lei fosse d’accordo con queste norme, sia che non ne sapesse nulla (ipotesi ancora più grave)».

Il ministro Padoan ha respinto l’accusa che le misure contenute nel pacchetto antievasione intendessero favorire un specifico individuo.

«Se vincerà Syriza, gli ha inoltre domandato Barbara Spinelli, evocando lo scenario del prossimo voto in Grecia, l’Unione si troverà alle prese con una domanda di rivoluzionamento dell’austerità. Verranno chiesti una parziale europeizzazione del debito, una Conferenza europea simile a quella che condonò i debiti di guerra tedeschi nel ‘53, e un New Deal, con massicci investimenti pubblici finanziati dalla Banca europea per gli investimenti e dal Fondo europeo per gli investimenti, tramite emissione di eurobond, e acquisto simultaneo da parte della BCE di titoli pubblici con denaro di nuova emissione».

Anche su questo punto il ministro è stato evasivo: «Lei mi chiede un commento su qualcosa che ancora non c’è, e quindi non mi è possibile darle una risposta»

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