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Sbilanciamoci.info, 10 febbraio 2015

La questione greca assume la valenza soprattutto politica di un banco di prova per le possibilità del progetto europeo di andare avanti o di tornare indietro. La “questione greca” emersa dopo le recenti elezioni vinte da Syriza richiama l’attenzione anche sulle relazioni tra economia e politica e fa capire che se negli ultimi anni la prima ha preso il sopravvento sulla seconda, la spiegazione non sta solo nell’egemonia assunta dal neoliberismo, ma anche nella minore capacità della politica di fare la propria parte.

Rispetto a quando si verificò la prima crisi greca, oggi l’Unione europea è finanziariamente molto più protetta da una rete di strumenti specifici ideati dalla tecnocrazia per sostenere i paesi in carenza di liquidità (i fondi ESM ed EFS, i prestiti a lungo termine LTRO della BCE, i suoi acquisti di titoli di stato OMT, le misure non convenzionali come il QE); ma, più in generale, è stata decisiva la forte presa di posizione espressa nel 2012 dal presidente della BCE Mario Draghi nel suo famoso discorso del “wathever it takes” (“la BCE è pronta a fare tutto il necessario per preservare l'euro. E credetemi, sarà sufficiente”). Tuttavia, a riprova delle cause strutturali della crisi che riguardano l’economia reale e l’assetto politico-istituzionale della costruzione europea, nei paesi dell’UE, e in particolare dell’Area Euro, persiste una grave condizione recessiva che ha ridotto non solo il reddito effettivo, ma anche quello potenziale. Le recenti previsioni di una pur modesta ripresa della crescita nel 2015 e nel 2016 sono labili e non più credibili di quelle sistematicamente smentite negli anni passati proprio perché gli organismi intergovernativi e i responsabili politici dell’Unione poco o nulla stanno facendo sul versante strutturale della crisi.

Tra le cause della specificità negativa dalla crisi in Europa e delle perplessità sulla sua evoluzione c’è il disegno politico della Germania di estendere a livello continentale il suo tradizionale modello di crescita guidato dall’austerità interna e dalle esportazioni che nei due passati decenni ha accentuato il perseguimento della competitività di prezzo, del contenimento dei salari, dei bassi consumi interni e dell’avanzo commerciale. Quel modello è miope poiché non valorizza l’innovazione e i connessi vantaggi comparati del sistema produttivo europeo storicamente fondati sulla conoscenza e sulle elevate condizioni sociali favorite dai nostri più sviluppati sistemi di welfare; i quali non sono un costo - come da qualche decennio viene sostenuto anche in Europa, cedendo politicamente alla vulgata neoliberista - ma uno strumento e una caratteristica del nostro sviluppo. Quel modello, oltre a peggiorare l’iniquità e le divisioni sociali connesse all’aggravarsi delle diseguaglianze degli ultimi decenni, diventerebbe ancor più insostenibile se esteso all’intera Unione: un persistente ed elevato avanzo commerciale dell’intera UE come da anni accade in Germania implicherebbe uno squilibrio nei rapporti internazionali più grave di quello che ha alimentato la crisi globale esplosa nel 2008.

Rispetto a questi problemi e alle prospettive incerte dell’UE, la “questione greca”, da un lato, ha dimensioni economiche relativamente molto modeste (il Pil greco è l’1,5% di quello dell’UE e il 2% di quello dell’Area Euro) e potrebbe indurre erroneamente a sottovalutarla; d’altro lato, assume la valenza soprattutto politica di un banco di prova per le possibilità del progetto europeo di andare avanti o di tornare indietro. Questo secondo aspetto è il più rilevante e lo diventa ancor più se si considera l’evoluzione in corso del contesto internazionale resa preoccupante dal confronto tra USA, paesi europei e Russia sui rapporti di quest’ultima con l’Ucraina; l’indebolimento della costruzione europea alimenterebbe la diversità degli interessi e delle singole posizioni nazionali e non aiuterebbe la stabilizzazione degli equilibri complessivi.

Finora il nuovo governo di Atene e la BCE hanno fatto ciascuno la propria parte seguendo percorsi non sorprendenti. Il primo ha opportunamente denunciato agli altri paesi dell’UE gli aspetti iniqui e controproducenti delle condizioni imposte alla Grecia per il suo cosiddetto salvataggio nella prima crisi, evidenziando anche l’incongruità istituzionale della Troika che non è certo un organismo dell’UE. Le richieste di ricontrattazione - non di ripudio - del debito e dei rapporti con i creditori sono coerenti con la più complessiva necessità di rivedere la visione politica dominante nell’Unione, una revisione che è indispensabile per la stessa sopravvivenza del progetto d’unificazione europea il quale è sempre stato e rimane l’obiettivo del neo capo di governo Tsipras.

D’altra parte, almeno negli ultimi tempi, la BCE ha spesso ricordato che con le funzioni di politica monetaria che le sono assegnate non può sopperire più di tanto alle responsabilità degli organismi politici dell’UE e dei governi dei paesi membri rispetto alla crescita e al consolidamento del progetto europeo. Il comunicato della BCE sull’incontro tra Draghi e Varoufakis, dopo aver specificato che non è nelle possibilità della banca rivedere un programma concordato dal precedente governo greco con i creditori internazionali, ha precisato che il Presidente “ha chiarito il mandato istituzionale della banca e sollecitato il nuovo Governo a confrontarsi in modo costruttivo e rapido con l’Eurogruppo per assicurare la continuazione della stabilità finanziaria”. Insomma, questa volta (anche se non sempre è stato così), a ciascuno le proprie funzioni e adesso la parola va alla politica con le riunioni previste nei prossimi quindici giorni dell’Eurogruppo, del Ecofin e del Consiglio europeo.

E’ giunto il momento che anche i responsabili delle decisioni politiche dicano e dimostrino con azioni concrete ed efficaci che vogliono e sapranno realizzare la costruzione dell’Unione europea “whatever it takes”, a cominciare dalla soluzione della questione greca che rappresenta un’occasione decisiva per gli organismi comunitari d’invertire le politiche controproducenti finora seguite e di non farsi travolgere dalle tattiche di contrattazione dei governi nazionali.

Il manifesto,12 febbraio 2015 (m.p.r.)

Dopo la strage dei gom­moni, par­lare di fata­lità sarebbe osceno. Basta ricor­dare che dall’ottobre scorso si sono mol­ti­pli­cati gli ammo­ni­menti euro­pei a sal­vare meno migranti pos­si­bile, soprat­tutto in aree lon­tane dai limiti dell’“Operazione Tri­ton” (trenta miglia marine). Ha comin­ciato il governo Came­ron, soste­nendo che i sal­va­taggi avreb­bero incen­ti­vato l’immigrazione clan­de­stina. Ha con­ti­nuato a dicem­bre un capo ope­ra­tivo di Fron­tex, di nome Klaus Rosler, già diri­gente della poli­zia bava­rese (ma chi li sce­glie que­sti tomi?), secondo il quale l’Italia è di manica troppo larga con gli stra­nieri che si avven­tu­rano in mare. L’Europa non vuole spen­dere per sal­vare vite umane e quindi migliaia e forse decine di migliaia di migranti potreb­bero anne­gare con l’arrivo della buona sta­gione: que­sta è la banale verità, che con­tra­sta con le affer­ma­zioni roboanti di Alfano, quanto l’operazione Tri­ton (ma chi avrà esco­gi­tato un nome così idiota?) ha sosti­tuito Mare Nostrum (altra bella siglia!), che era dotata di mezzi molto più consistenti.

Solo Came­ron o un poli­ziotto bava­rese può cre­dere o far cre­dere che la pro­spet­tiva di anne­gare con­vinca gente del Mali, del Paki­stan, dell’Eritrea, o di altri cento luo­ghi in cui si muore di fame o di guerra, a restare ad ago­niz­zare a casa loro. Solo una tre­menda, colos­sale ottu­sità, o qual­cosa di infi­ni­ta­mente peg­giore, può moti­vare quest’atteggiamento di chiu­sura verso le ragioni di una minima uma­nità e delle leggi del mare. Noi imma­gi­niamo la dispe­ra­zione dei nostri mari­nai che si sono visti morire assi­de­rati, accanto a sé, ragazzi che si sareb­bero potuti sal­vare se solo l’operazione Tri­ton avesse pre­vi­sto l’invio di navi più grandi a occor­rere i gom­moni. Noi sap­piamo, per­ché l’hanno detto a destra e manca, che i nostri pesca­tori e la nostra gente di mare non dorme la notte al pen­siero di quelli che sono anne­gati, anne­gano e anne­ghe­ranno al di là dei limiti pre­vi­sti dall’agenzia Fron­tex e dall’operazione Tri­ton, che Dio le male­dica entrambe.

E qui si misura come l’ottusità e la mio­pia dell’Europa bot­te­gaia si siano tra­mu­tate in delitti con­tro l’umanità. I soprav­vis­suti della strage dei gom­moni hanno dichia­rato che sono stati imbar­cati sotto la minac­cia delle armi dai mili­ziani in Libia. E que­sto non sor­prende pro­prio, vista la situa­zione che il genio poli­tico di Came­ron, Sar­kozy, Obama, per non tacere di Ber­lu­sconi hanno creato dalle parti di Tri­poli, Derna e Ben­gasi. Ora, igno­rare le con­se­guenze umane delle pro­prie insen­sate poli­ti­che è il prin­ci­pale tratto che acco­muna l’accozzaglia di stati egoi­sti che va sotto il nome di Unione euro­pea. Pen­sate solo alla povertà in Gre­cia, ai bam­bini senza latte, alla sven­dita delle infra­strut­ture di un intero paese che doveva essere punito per essersi inde­bi­tato. Un paese, la Gre­cia, il cui Pil rap­pre­senta il 2 per cento di quello euro­peo e il cui debito potrebbe essere con­do­nato senza danni per la Ue!

Ma die­tro l’indifferenza per le sorti dei greci e dei migranti che si avvie­ranno verso la morte c’è ormai un disprezzo asso­luto, con­cla­mato, trion­fale per il diritto che un tempo si sarebbe chia­mato delle genti. I soldi euro­pei devono restare nelle ban­che, e non spesi per sal­vare vite umane, que­sto è il mes­sag­gio di Fron­tex, di Came­ron, della troika, di Mer­kel, di Herr Rosler e di tutti quelli che si inchi­nano davanti alle ragioni dei più forti e dei più ricchi.

Sarebbe que­sta la “civiltà euro­pea” (parole di Renzi) per cui sono morte decine di milioni di esseri umani nella seconda guerra mon­diale?

Il manifesto, 12 febbraio 2015 (m.p.r.)

Più che di inge­gne­ria finan­zia­ria, l’Eurogruppo straor­di­na­rio di ieri sera era alla ricerca di un’ingegneria lin­gui­stica, per evi­tare a tutti i con­ten­denti di per­dere la fac­cia e far trion­fare la ragione dopo quin­dici giorni di scon­tri ver­bali sem­pre più vio­lenti. Nei fatti, si va verso un’accettazione da parte di Atene di un’«estensione tec­nica» del piano attuale di «aiuti» fino a fine ago­sto, per pre­pa­rare un «accordo olim­pico» di 4 anni.

Ieri, è entrata in vigore la deci­sione della Bce, annun­ciata il 4 feb­braio scorso, di chiu­dere uno dei rubi­netti della liqui­dità per le ban­che gre­che (Fran­co­forte non accetta più in «garan­zia» le obbli­ga­zioni gre­che) e tra due set­ti­mane, cioè quando scade il secondo piano di aiuti alle Gre­cia (130 miliardi), Atene sarà di fronte allo spet­tro del Gre­xit e del default, in man­canza di un accordo: dovrebbe rim­bor­sare 3 miliardi di euro all’Fmi a marzo e 7 miliardi alla Bce quest’estate. La Bce ha in mano l’arma ato­mica, per­ché, in caso di non accordo, potrebbe anche bloc­care l’Ela alla Gre­cia, cioè la liqui­dità di emergenza.

L’obiettivo degli incon­tri di que­sti giorni - dopo l’Eurogruppo dei 19 dell’euro ieri, oggi c’è il Con­si­glio dei capi di stato e di governo Ue e lunedì 16 un altro Euro­gruppo – è arri­vare a un accordo-quadro che dia il tempo di tro­vare una via d’uscita per evi­tare che la Gre­cia vada con­tro un muro e che per l’euro si apra un periodo di peri­co­losa incertezza.

I con­ten­denti sono arri­vati a Bru­xel­les con posi­zioni decise: Ale­xis Tsi­pras, nel discorso della fidu­cia ad Atene mar­tedì, ha affer­mato che la Gre­cia «non chie­derà un pro­lun­ga­mento del piano di aiuti». La Ger­ma­nia, capo­fila degli orto­dossi, ha ribat­tuto che «non ci sarà un nuovo pro­gramma» e, ha pre­ci­sato il mini­stro delle finanze Wol­fgang Schäu­ble, se la Gre­cia non accetta il ver­sa­mento dell’ultima tran­che (7,2 miliardi) nel qua­dro del pro­gramma di «aiuti» in corso, «è finita». Per la Ger­ma­nia, Atene deve comun­que pas­sare per la troika, che Tsi­pras non vuol più vedere all’orizzonte.

Pierre Mosci­vici, com­mis­sa­rio agli Affari eco­no­mici e mone­tari, non esclude una solu­zione ponte: «La Gre­cia deve esten­dere il pro­gramma per avere il tempo di tro­vare una solu­zione di ampio respiro». Per Schäu­ble il 16 è la dead­line visto che il 28 scade il pro­gramma di aiuti e, se ci sarà un nuovo accordo, alcuni par­la­menti lo dovranno votare (Ger­ma­nia, Fin­lan­dia). Il pre­si­dente dell’Eurogruppo, l’olandese Jeroen Dijs­sel­bloem, ha riba­dito che «even­tuali modi­fi­che devono essere in linea con gli accordi esi­stenti con i cre­di­tori inter­na­zio­nali di Atene».

Il piano pre­sen­tato ieri dal mini­stro dell’economia Yanis Varou­fa­kis è stato con­ce­pito con l’aiuto dell’Ocse. Il segre­ta­rio gene­rale, Angel Gur­ria ieri era ad Atene, e Tsi­pras potrebbe venire a Parigi ben pre­sto. Ma Gur­ria ha un po’ gelato le spe­ranze gre­che, pre­ci­sando che non sarà l’Ocse «a veri­fi­care i conti», cioè che l’organizzazione non si sosti­tuirà alla troika per «il monitoraggio».

Il piano in quat­tro punti di VArou­fa­kis è un pro­getto di inge­gne­ria finan­zia­ria per alleg­ge­rire il peso del debito «inso­ste­ni­bile» (175% del Pil), la Gre­cia accet­te­rebbe di appli­care il 70% delle riforme impo­ste dalla troika, men­tre il 30% restante, quelle defi­nite «tos­si­che» da Varou­fa­kis, saranno sosti­tuite da un impe­gno con­ce­pito assieme all’Ocse, una decina di misure che com­pren­dono la lotta all’evasione fiscale, alla cor­ru­zione e al clien­te­li­smo, che minano l’economia greca. La Gre­cia chiede poi una revi­sione al ribasso del dik­tat sull’avanzo pri­ma­rio dal 3% all’1,49%, per poter avere la pos­si­bi­lità di rispet­tare gli impe­gni elet­to­rali presi con la popo­la­zione, ed affron­tare la «crisi uma­ni­ta­ria» con inter­venti con­tro la povertà. Per poter met­tere in atto un «nuovo con­tratto» che deve ancora venire pre­ci­sato e che per­metta di uscire dall’austerità, Atene ha biso­gno infine di un programma-ponte per evi­tare il default, che copra sei mesi, fino al 1° set­tem­bre. «Un errore», avverte Schäu­ble. La Gre­cia vor­rebbe rinun­ciare ai 7,2 miliardi dell’ultima tran­che per sfug­gire alle grin­fie della troika ma chiede di recu­pe­rare subito 1,9 miliardi dalla Bce a titolo di inte­ressi matu­rati sulle obbli­ga­zioni gre­che. Inol­tre, chiede anche che la Bce aumenti di 8 miliardi la capa­cità del paese ad emet­tere buoni del Tesoro, oltre­ché l’accesso a 11 miliardi del Fondo elle­nico di sta­bi­lità finanziaria.

Ad avve­le­nare il clima ha con­tri­buito la richie­sta greca alla Ger­ma­nia di pagare «inden­nizzi di guerra», che la Corte dei conti greca valuta a 162 miliardi di euro. Subito è arri­vato il nein tede­sco (dopo l’accordo del ’53, nel ’60 c’è stato il ver­sa­mento di 115 milioni di mar­chi alla Gre­cia e nel ’90 il trat­tato 2+4, appro­vato dalla Gre­cia, avrebbe chiuso il caso).

Tsi­pras gioca anche la carta russa (oggi è a Mosca il mini­stro degli esteri, Nikos Kotzias e Ser­gei Lavrov ha pro­messo «aiuti finan­ziari se tale richie­sta arri­verà», usando i pro­blemi Atene nel con­fronto sull’Ucraina) e cinese (il pre­mier Li Keqiang ha invi­tato Tsi­pras a Pechino).

La strage nel Mediterraneo prosegue. Pochi, nel Primo mondo, se ne fanno carico cominciando col ricordare le pesanti responsabilità degli USA e dell’Europa nel produrre e alimentare le la politica di saccheggio del Terzo mondo e, nei decenni più vicini, alla distruzione degli equilibri politici sella sponda meridionale del Mediterraneo: quindi le responsabilità che ne conseguono. Le stesse guerre che dilaniano i paesi della “Mezzaluna fertile sono il prodotto delle politiche degli stati del Nordatlantico. Noi siamo i principali colpevole, a noi tocca individuare le soluzioni appropriate, nel breve e nel lungo periodo.

Tra i pochi che fanno il proprio dovere troviamo Barbara Spinelli, eurodeputata italiana della sinistra europea, eletta nella lista “L’altra Europa con Tsipras”. Riportiamo qui il testo di un suo comunicato stampa.

Restaurare "Mare nostrum"

«Le notizie dal Mediterraneo sono tragiche: fra 300 e 400 morti, come nel 2013 a Lampedusa”, ha detto Barbara Spinelli intervenendo nella seduta plenaria di Strasburgo dedicata alla discussione sull’agenzia europea Frontex e sull’EASO.

«Ormai i fatti parlano da sé, afferma: la fine di “Mare Nostrum” produce ancora una volta disastri umanitari, e la missione Frontex che era stata descritta come risolutiva – mi riferisco a "Triton" – si rivela quella che è: una falsa sostituzione, e un fallimento radicale. È il motivo per cui non ritengo, nelle presenti circostanze, che Frontex debba ricevere ulteriori risorse: a dispetto di regolamenti troppo vaghi e non applicati, il suo compito è esclusivamente il pattugliamento delle frontiere, non la ricerca e il salvataggio di fuggitivi da guerre e caos che s’estendono anche per nostra responsabilità.

«Frontex mette addirittura in guardia il governo italiano, ricordando che i soccorsi da lei coordinati sono vietati oltre le 30 miglia dalla costa, ha continuato l’eurodeputata del GUE-NGL I naufragi di questi giorni sono tutti avvenuti in alto mare, presso le coste libiche. Dove appunto operava" Mare Nostrum". La verità è che “Mare Nostrum”, nonostante le dichiarazioni delle autorità europee e italiane, non è mai stato sostituito.

«Due cose dovremmo a questo punto chiedere, come Parlamento», ha concluso l’onorevole Spinelli. »Primo: che Frontex non opponga ostacoli, quando è chiamata a soccorrere oltre le 30 miglia. Secondo: che l’Europa si decida a sostenere finanziariamente la restaurazione di missioni come Mare Nostrum. Sia l’Alto Commissariato dell’Onu, sia il Consiglio d’Europa, hanno dichiarato che Triton ‘non è all’altezza’. Cosa aspettiamo per far sentire la nostra opinione? Ha detto il presidente del Senato italiano, Pietro Grasso: ‘Agire ora è già troppo tardi’».

Il manifesto, 11 febbraio 2015

A due set­ti­mane dalla vit­to­ria elet­to­rale di Syriza i ter­mini dello scon­tro tra il nuovo Governo greco e l’Unione Euro­pea si deli­neano con chia­rezza. Non è solo scon­tro tra dot­trine e poli­ti­che eco­no­mi­che diverse: una favo­re­vole alla spesa pub­blica, l’altra attac­cata all’austerity. E meno che mai un con­fronto tra euro sì ed euro no. In que­sta vicenda l’economia ha ceduto il posto alla poli­tica; anzi, a un puro rap­porto di forze.

Non è nem­meno, anche se così ci avvi­ci­niamo al nucleo del con­ten­dere, un con­fronto tra una poli­tica che mette al cen­tro le per­sone e una poli­tica incen­trata sul denaro. In gioco c’è l’accettazione o il rifiuto del domi­nio incon­tra­stato di chi ha il denaro su chi denaro non ne ha: quel domi­nio che Marx chiama Capi­tale, ben sapendo che esso è un rap­porto sociale, le cui poste sono la ripar­ti­zione del red­dito tra salari e pro­fitti (nelle loro varie forme), modi e tempi del lavoro, accesso ai ser­vizi sociali, appro­pria­zione di tutto l’esistente: risorse natu­rali, vita asso­ciata, ser­vizi pub­blici, sapere, genoma, salute.

Il pro­blema non è se la Gre­cia resti­tuirà o no il debito che i suoi gover­nanti hanno con­tratto per suo conto, come cer­cano di farci cre­dere gli apo­lo­geti della finanza, spie­gan­doci che a pagare per i Greci rischiamo di essere noi. È chiaro che quel debito «i Greci» non lo paghe­ranno mai: non hanno il denaro per farlo ora; non lo avranno nem­meno in futuro; per almeno una gene­ra­zione. Lo sanno tutti. Ma a chi tiene i cor­doni della borsa que­sto non inte­ressa: basta che quel debito sia regi­strato nelle scrit­ture con­ta­bili e che tutti - cre­di­tori e debi­tori - si inchi­nino di fronte al suo potere. Per­ché è con quelle scrit­ture con­ta­bili che gli «gnomi» della finanza pos­sono man­dare in rovina, in 24 ore, un intero popolo per diverse gene­ra­zioni. Se e fin­ché quel potere verrà loro rico­no­sciuto. Ma disco­no­scerlo non è facile. E mette paura. Soprat­tutto se a disco­no­scerlo si rimane da soli.

Anche il con­fine tra cre­di­tori e debi­tori, peral­tro, è tutt’altro che netto. Pren­dete l’Italia. Uffi­cial­mente è cre­di­trice della Gre­cia per 40 miliardi, pre­stati attra­verso il, Bce, Fmi e Fondo salva-stati. Pec­cato che per pre­stare quel denaro alla Gre­cia con il Fondo salva-stati, il nostro paese si sia inde­bi­tato di altret­tanti miliardi, andati ad aggiun­gersi alla mon­ta­gna del suo debito pub­blico: tanto grande da met­terla a rischio di fare la stessa fine della Gre­cia. Ma è così per tutti: il debito è come una serie di sca­tole cinesi, una den­tro l’altra, di cui, soprat­tutto in Europa - dove non esi­ste più una Banca cen­trale «pre­sta­tore di ultima istanza» - non si intra­vede la fine.

Chi detiene il debito dell’Italia? Ban­che, assi­cu­ra­zioni e fondi spe­cu­la­tivi (più qual­che pic­colo rispar­mia­tore). Ma ban­che e spe­cu­la­tori hanno acqui­stato quel debito facendo altri debiti. E que­sti chi li detiene? Altre ban­che, altri fondi, altri spe­cu­la­tori. E così di seguito, fino a che non si incappa in un pugno di ric­ca­stri (l’1 per cento - o forse per mille - della popo­la­zione mon­diale) che non sareb­bero mai diven­tati tali senza essere ben inse­riti in que­sto mar­chin­ge­gno; e in un eser­cito di polli pronti per essere spen­nati. Che, per svol­gere nor­mali atti­vità di com­pra­ven­dita, o per garan­tirsi cure medi­che, vec­chiaia e istru­zione, hanno affi­dato i loro risparmi a que­gli ope­ra­tori. I quali, gra­zie alla man­canza di con­trolli, rie­scono a mol­ti­pli­care quel denaro a loro esclu­sivo van­tag­gio. Sono loro, ora, i «pre­sta­tori di ultima istanza»: quelli che hanno il col­tello dalla parte del manico. Ma è un sistema tanto più fra­gile quanto più è mac­chi­noso. Un gra­nello di sab­bia potrebbe farlo cadere rovi­no­sa­mente, come sette anni fa con il fal­li­mento Leh­man Bro­thers. Ma cadere da che parte? Verso un regime ancora più auto­ri­ta­rio, o verso una società che impara a gover­narsi da sola?

Messa in que­sti ter­mini, si capi­sce la durezza di governi e auto­rità euro­pee con­tro il pro­gramma di Syriza. In gioco c’è pro­prio quel mar­chin­ge­gno, da cui dipende il destino dell’Europa così come è ora; e forse anche gran parte dei rap­porti tra le classi sociali e tra la società e l’ambiente in tutto il mondo. Se il governo Greco riu­scirà a «spun­tarla» è per­ché man­darlo in malora rischia di far crol­lare il castello su cui è costruito il potere di tanti governi fat­tisi tra­mite degli inte­ressi dell’alta finanza. E rischia di inne­scare un «effetto domino» capace di risuc­chiare den­tro un grande buco nero tutti i paesi più fra­gili dell’Unione euro­pea, per arri­vare poi a coin­vol­gere, uno die­tro l’altro anche quelli più solidi. Ma se il Governo greco la spun­terà, sarà anche e soprat­tutto per l’appoggio che rice­verà da una mobi­li­ta­zione che può e deve coin­vol­gere l’Europa intera. Per que­sto è così impor­tante la mobi­li­ta­zione di sabato pros­simo a soste­gno del popolo e del governo greco!

Non sarebbe una vit­to­ria da poco; sarebbe la dimo­stra­zione pra­tica che l’autorganizzazione di base e il mutuo soste­gno pagano: che le far­ma­cie e gli ambu­la­tori aperti dal volon­ta­riato, le mense popo­lari, le coo­pe­ra­tive e i far­mers mar­ket (i Gas), la tele­vi­sione di Stato che ha con­ti­nuato a tra­smet­tere su basi volon­ta­rie dopo la sua chiu­sura, le fab­bri­che auto­ge­stite, le monete alter­na­tive locali, e tutte quelle ini­zia­tive appog­giando e pro­muo­vendo le quali Syriza è diven­tata mag­gio­ranza pos­sono essere l’inizio di una rior­ga­niz­za­zione dei rap­porti sociali: un’organizzazione incen­trata non più sul potere del denaro, ma sui biso­gni delle persone.

Que­sta è la vera posta in gioco dello scon­tro in atto. Le auto­rità euro­pee non esclu­dono certo nuove forme di «aiuto» finan­zia­rio per le casse esau­ste del governo e delle ban­che gre­che; a con­di­zione, però, che venga rin­ne­gato quel soste­gno a una popo­la­zione esau­sta, a un’occupazione ridotta ai minimi ter­mini, ai biso­gni più ele­men­tari della gente; cioè al pro­gramma che l’elettorato ha votato per far valere la pro­pria dignità.

Con­ce­dere qual­cosa in ter­mini finan­ziari a un governo in crisi non costa molto: è solo un tra­sfe­ri­mento di qual­che posta da un capi­tolo all’altro dei bilanci delle parti in causa. Ma con­ce­dere qual­cosa oggi alla Gre­cia che si è ribel­lata al giogo della finanza coste­rebbe molto: sarebbe il segno che, se si vogliono rico­sti­tuire le basi di una con­vi­venza civile, si può e si deve fare a meno di «loro anche in ogni altro paese. Le pre­messe ci sono tutte e in Spa­gna con Pode­mos, o in Croa­zia con «Bar­riera umana», già si intrav­ve­dono forze che, cia­scuna a modo suo, si sono messe sulla strada che ha por­tato Syriza al governo.

E in Ita­lia? Pre­messe ce ne sono anche qui. Anzi, forse non c’è un altro paese euro­peo che abbia una ric­chezza e una varietà di lotte, di movi­menti, di comi­tati, di asso­cia­zioni, di mobi­li­ta­zioni, di ini­zia­tive grande come da noi. Ma in nes­sun altro paese la pos­si­bi­lità di que­ste forze di rap­pre­sen­tarsi poli­ti­ca­mente è così com­pressa e dispersa. Soprat­tutto dal biso­gno di auto­per­pe­tuarsi dei tanti par­titi «di sini­stra», inca­paci di quel passo indie­tro che tante volte si sono impe­gnati a fare e che mai – nem­meno ora – sem­brano capaci di attuare: per non per­dere quei pic­coli poteri che rica­vano, soprat­tutto a livello locale, di una con­so­li­data subal­ter­nità al Pd. Ma i tempi sono ormai maturi per la com­parsa di una realtà nuova, men­tre le respon­sa­bi­lità di chi impone que­sto stallo sono sem­pre più gravi.

La Nuova Sardegna, 10 febbraio 2015

Non c'era la Sardegna nel primo confuso elencone Verybello per Expo. È bastato un ritardo di poche ore - prima che comparissero alcune delle manifestazioni previste nell'isola durante l'estate - per suscitare un vespaio di rimostranze risentite. I soliti i bla bla sull' identità misconosciuta e l'orgoglio ferito dalla imperdonabile dimenticanza; per cui qualcuno è andato avanti con la presunzione, “deo so sardu”, la Sardegna che concorre alla bellezza italiana con un profilo distinto che ci dovrebbero ringraziare. Implicita la domanda sulla percezione dell'isola da parte dei forestieri consumatori; e dai sardi, il cui sguardo, è stato/ è molto distratto, anche omertoso sulla Sardegna com'è, e molto esitante sul futuro.

Ajò all'Expo: ma come ? La domanda non è di poco conto, dipende da come si pensa l'Expo, guai a confonderlo con la Borsa del Turismo (BIT) o con una delle grandi fiere enogastronomiche. Nelle Esposizioni Universali dai tempi del Crystal Palace, si trattano questioni ragguardevoli per l'umanità, e ogni Paese partecipante è chiamato a fornire la propria visione sul tema all'ordine del giorno. A mettere in vetrina idee, più che mercanzie in un'ottica bottegaia all'ingrosso. Il palcoscenico milanese è un'occasione per confrontarsi senza boria su emergenza alimentare e sprechi della terra.

Leggo su queste pagine il piano della Regione, l'idea di presentare “l'sola della qualità” attraverso la produzione agricola, le eccellenze naturali (con accenti su longevità e innovazione sostenibile). Il programma è solo delineato. E immagino che si assoceranno presto altri contributi, non solo semplici didascalie su cannonau e ballo tondo (e divagazioni su bandiere da rinnovare). Insomma non potrà mancare un apparato critico/ autocritico sul modello di sviluppo luogo per luogo, per ripensarlo come ha suggerito Francesco («Dio perdona sempre, l’uomo perdona a volte, la terra non perdona mai»), in sintonia con le attese di tanti credenti e miscredenti come me.

Il tema è il governo del territorio in una fase cruciale per la disorientata popolazione sarda. Nel 2006, un piano finalmente progredito è stato contrastato soprattutto per le scelte a difesa degli usi agricoli. Nei quali l'isola avrebbe potuto primeggiare se avesse creduto almeno un po' alla sua natura, al suolo fertile, all'aria buona, al sole generoso. La produzione agroalimentare conta su qualche prelibatezza, ma la Sardegna consuma otto prodotti su dieci importati, come scrive da un po' Giacomo Mameli preoccupato per le troppe ambiguità della produzione locale (torrone con ingredienti istranzi, bottarga fatta chissà dove, mirto da bacche non locali, ecc.) in danno di bravi artigiani.

La natura della Sardegna ha caratteri superstiti di primo livello - record di biodiversità - che dovremmo custodire con mille precauzioni, e invece da mezzo secolo è lasciata senza difese, aggredita nelle sue parti più pregiate, chissenefrega di di paesaggi sconvolti e continuità ecologiche interrotte.

Passeremo per guastafeste se diciamo al Mondo del nostro primato nella presenza di servitù militari, e dei 450mila ettari di aree avvelenate? Sui rischi di ulteriori inutili usi e consumi del suolo ? Magari per fare altre case al mare o per produrre energia da esportare con eccessi devastanti. Mentre avanza lo spopolamento che mette a rischio la tenuta di tanti territori privati di presìdi.

È eccessiva questa versione ? Meglio una rappresentazione attenuata, un adattamento per i tour operator? Sarà più conveniente - credo - dire e dirci la verità. D'altra parte Expo 2015 chiama le comunità “a interrogarsi sulla sostenibilità dei modelli economici, sociali, produttivi e scientifici adottati nel lungo periodo”.

Se si guardasse all'Expo solo per vendere pacchetti vacanze, pure con trailer raffinati, il racconto della Sardegna sarebbe banale, troppo somigliante a quelli che non ci piacciono. Senza cautele storico-antropologiche presenteremmo i sardi della caricatura, con i panni che ci vorrebbero vedere addosso. Per parlare ad una platea internazionale, meglio senza travestimenti che disturbano il confronto e impediscono di guardare avanti.

Il manifesto, 10 febbraio 2015
In un certo senso è il mondo alla rove­scia. Fin­ché era­vamo gover­nati da un patto scel­le­rato tra il capo del governo (e della «sini­stra di governo») e il capo della destra con­dan­nato per frode fiscale, tutto sem­brava in ordine. Ora che, dopo un anno di bar­ba­rie poli­tica e isti­tu­zio­nale, qual­cosa è andato storto e quel con­tratto con­tro­na­tura e con­tro­ra­gione è entrato in sof­fe­renza, ecco che tutti s’interrogano feb­bril­mente su come andrà a finire que­sta sto­ria, se non anche la legi­sla­tura. È tutto quanto meno bizzarro.

Ma si spiega, natu­ral­mente. Il fatto è che nulla di quel che si diceva era vero e nulla di ciò che è vero veniva detto. Il governo è stato fidu­ciato da una mag­gio­ranza vir­tuale che aveva ben poco a che fare con la sua reale base politica.

In teo­ria aveva i numeri per navi­gare, solo che Renzi aveva in mente tutt’altre cose rispetto a quelle che aveva detto per sca­lare la segre­te­ria demo­cra­tica ed espu­gnare palazzo Chigi. Cose che, invece, anda­vano per­fet­ta­mente a genio al mece­nate delle olget­tine, col quale ha subito sti­pu­lato una fat­tiva intesa. A danno soprat­tutto di quella parte del Pd che – stando almeno ai pro­clami – avrebbe «fre­nato», cor­retto, posto con­di­zioni e strap­pato modi­fi­che. Dimo­do­ché per un anno siamo stati gover­nati da una mag­gio­ranza sor­retta dall’opposizione con­tro una parte della mag­gio­ranza tra­sfor­mata in oppo­si­zione. Bor­ges si congratulerebbe.

Poi è venuto lo scon­tro sul Qui­ri­nale. Forse Renzi ha avver­tito un peri­colo. Ha temuto che, se avesse con­cor­dato con Forza Ita­lia anche il nome del capo dello Stato, non avrebbe solo avuto pro­blemi den­tro il Pd. Sarebbe anche apparso, più che un alleato, il cava­lier ser­vente di Ber­lu­sconi. Con effetti rovi­nosi sul piano dell’immagine, che tanto gli sta a cuore. Ma è anche pos­si­bile che Renzi abbia deciso di usare la par­tita del Colle per sog­gio­gare la for­tuna, umi­liare il vec­chio boss e imporsi come uomo solo al comando. Fatto sta che siamo alla lite furiosa di que­ste ore, agli stracci che volano tra i due com­pari del Naza­reno, al divor­zio annunciato.

Ma è vera crisi? Vedremo. Se la poli­tica non fosse anche ricerca del con­senso, ci sarebbe di che dubi­tarne. Le «riforme» ren­ziane stanno a cuore al padrone delle tv almeno quanto al loro autore uffi­ciale. La distru­zione delle tutele del lavoro dipen­dente, la subor­di­na­zione orga­nica del par­la­mento al governo, l’attribuzione di una mag­gio­ranza schiac­ciante al vin­ci­tore delle ele­zioni, la depe­na­liz­za­zione delle frodi fiscali figu­rano tra i desi­de­rata del capo di Forza Ita­lia da sem­pre, dai bei tempi della P2. In più c’è che Renzi ha sin qui evi­tato anche solo di nomi­nare il con­flitto d’interessi: per­ché dun­que infran­gere l’idillio? Ma ha qual­che ragione pure chi nelle file ber­lu­sco­niane scal­pita e fa pre­sente che un par­tito ha anche esi­genze di visi­bi­lità. Da que­sto punto di vista la scelta del nuovo pre­si­dente è stata in effetti uno sfre­gio irri­ce­vi­bile. Di qui la sce­neg­giata della finta defe­ne­stra­zione di Bru­netta, Romani e Ver­dini. D’altra parte non è pen­sa­bile che Renzi adesso, a un tratto, ci ripensi. Torni sui pro­pri passi, disfi la tela e riscriva le sue pes­sime leggi. I voti for­zai­ta­lioti vanno rim­piaz­zati, sem­pre che non arri­vino comun­que. In che modo? Que­sto è il busil­lis. E, si può dire, il più bel regalo che la par­tita del Qui­ri­nale ci ha fatto sinora.

I gio­chi sono all’improvviso venuti al chiaro, inchio­dando cia­scuno alle pro­prie respon­sa­bi­lità. Se la destra, che pure le «riforme» le vuole e paventa la crisi, si sfila, è per­ché pre­vede che i pro­pri voti non saranno indi­spen­sa­bili. Se Renzi lascia che il patto con Ber­lu­sconi vada a ramengo è per­ché ritiene di non dipen­dere più dal suo soste­gno. La ragione evi­dente è che conta sul con­senso della cosid­detta sini­stra del Pd. Dun­que ora final­mente il destino del governo e della legi­sla­tura è nelle mani dell’ospite ingrato sulla scac­chiera ren­ziana, per neu­tra­liz­zare il quale Ber­lu­sconi venne coop­tato, di fatto, nella maggioranza.

Che cosa vuol dire tutto que­sto? Una sola cosa: che non ci sono mar­gini per altre mes­sin­scene. Finora, che la «sini­stra» demo­cra­tica votasse o meno le «riforme» era indif­fe­rente. Ciò ha reso il suo siste­ma­tico cedi­mento irri­le­vante, se non meno inde­cente. Adesso la musica è cam­biata. D’ora in poi la «sini­stra» del Pd può deci­dere se pun­tare i piedi, può otte­nere modi­fi­che reali (non le prese in giro sin qui sban­die­rate) o, in caso con­tra­rio, impe­dire l’approvazione delle leggi. Costrin­gendo il governo a muo­versi nella car­reg­giata defi­nita dal voto popo­lare di due anni fa.

Molti osser­va­tori pre­ve­dono che nulla di tutto ciò acca­drà. Pen­sano che la fronda interna, a comin­ciare dai suoi capi, sarà d’ora in avanti prona al padrone della «ditta», rite­nen­dosi appa­gata dalla scelta di Mat­ta­rella. Signi­fi­che­rebbe che, nono­stante mesi di minacce, insulti e mor­ti­fi­ca­zioni da parte del pre­si­dente del Con­si­glio, costoro non anda­vano in cerca che di un con­ten­tino per tor­nare docili all’ovile. E scon­giu­rare il rischio capi­tale di una crisi che potrebbe por­tare alla fine anti­ci­pata della legi­sla­tura, con tutti i suoi con­trac­colpi morali e soprat­tutto materiali.

È pos­si­bile che vada pro­prio così. Tanto più che i por­ta­voce del capo del governo hanno chiuso ogni spi­ra­glio chia­rendo che sulle «riforme» non c’è più nulla da discu­tere. Da mar­tedì sapremo. Si ripren­derà a votare sulla «riforma» costi­tu­zio­nale e sco­pri­remo se la «sini­stra» demo­cra­tica vuole dav­vero fer­mare il dise­gno auto­ri­ta­rio di Renzi, come giura e sper­giura. Oppure, indif­fe­rente alla sua peri­co­lo­sità, ha sin qui reci­tato sol­tanto una com­me­dia. Di certo il tempo è sca­duto. L’elezione del pre­si­dente della Repub­blica ha come squar­ciato un velo die­tro al quale tutti gli attori si sono como­da­mente celati fino ad oggi. Si direbbe un caso di ete­ro­ge­nesi dei fini, e del resto si sa che pre­ve­dere il futuro in poli­tica è al con­tempo neces­sa­rio e impossibile

Il rumoroso rimbalzo dell’inchiesta “Swissleaks” condotta dal network di giornalismo investigativo internazionale Icij e, per l’Italia, dall’ Espresso, sui correntisti della filiale ginevrina della HSBC inclusi nella cosiddetta “lista Falciani” - 100 mila clienti (7 mila dei quali italiani) e 20 mila società off-shore per 180,6 miliardi di depositi - documenta la resa del Fisco e delle politiche anti-evasione del nostro Paese di fronte alla più colossale scoperta di fondi illegalmente trasferiti all’estero nella storia repubblicana.

La notizia, infatti, è che a distanza di 5 anni dalla consegna da parte della magistratura e del ministero delle Finanze francesi di 7 mila nomi alla nostra Guardia di Finanza e alla Procura della Repubblica di Torino, i soli italiani a “pagare” per intero il prezzo dell’evasione sono stati 190 (101 dei quali sono risultati evasori totali). Statisticamente un topolino, se paragonati ai 3.600 puniti dal Fisco inglese. Di più: si scopre che, in cinque anni, le verifiche non hanno superato le 3276 posizioni e, di queste, 1264 sono state “chiuse” con l’adesione allo scudo fiscale Tremonti del 2009. Il che, a conti fatti - almeno se si sta ai dati diffusi ieri con un comunicato dal Comando generale della Finanza - ha consentito di accertare «redditi non dichiarati per 741 milioni di euro, Iva dovuta e non versata per 4 milioni 520 mila euro» e di «riscuotere» 30 milioni di euro. Una miseria se paragonata al miliardo e 669 milioni di euro che è stato riportato in Italia dai conti ginevrini della Hsbc soltanto con lo scudo.
Né va meglio se dal terreno tributario ci si sposta su quello penale. Le indagini per reati tributari aperte da 120 procure della Repubblica (in ragione della diversa competenza territoriale) su quei 7 mila nomi, hanno portato a una valanga di archiviazioni per prescrizione. Tanto per dire, a Torino, su 250 nomi segnalati, c’è stata una sola richiesta di rinvio a giudizio, mentre le indagini ancora in corso riguardano meno di una decina di posizioni. A Roma, dove i nomi erano 800, le citazioni dirette a giudizio sono state tre. Perché, anche qui, la prescrizione prevista per i reati tributari (6 anni), ha fatto morire il processo prima ancora che cominciasse.
E tutto questo fino alla pietra tombale che - è questione ormai di meno di un mese - su tutta la vicenda metterà il famigerato decreto fiscale sulla cosiddetta “modica evasione” (sotto il 3% del dichiarato). Poiché, tra le altre norme contenute nel provvedimento ce n’è una che cancella la possibilità - che oggi esiste - di raddoppiare i termini di prescrizione per l’accertamento tributario (da 5 a 10 anni), qualora la persona soggetta a controlli sia stata denunciata penalmente. Le nuove norme obbligano infatti alla denuncia penale entro il termine ordinario della prescrizione tributaria (5 anni dalla presunta evasione). E, nel caso dei correntisti della “lista Falciani”, quel termine è abbondantemente scaduto nel 2013. Dunque, game over. Qualunque nuova informazione dovesse emergere di qui in avanti.
Come è stato possibile?
Per quanto ne riferiscono gli addetti - magistrati e fonti qualificate della Finanza che hanno lavorato al dossier - «la fine era scritta». La “lista Falciani” contiene infatti informazioni che, al più tardi, si riferiscono al 2008-2009 e per le quali, dunque, già al momento dello svelamento (è il 2010), la nostra giustizia penale e tributaria è costretta a correre contro il tempo. Quel che è peggio, tra il 2010 e il 2011, la magistratura svizzera nega per altro ogni forma di collaborazione all’allora Procuratore di Torino Giancarlo Caselli sui nomi e le movimentazioni dei conti HSBC eccependo che la “lista Falciani” è oggetto di un reato per la legge elvetica, trattandosi di «informazioni sottratte “fraudolentemente” al segreto bancario». Vengono dunque a mancare informazioni cruciali per ricostruire e contestare eventuali reati tributari. A Torino, come altrove.
Né va meglio all’accertamento fiscale. Perché, a dire degli inquirenti, dei 7 mila nomi iniziali dell’elenco, in almeno duemila casi «è impossibile un’identificazione certa dei correntisti o l’importo in giacenza dei conti». Non tutti insomma si chiamano Flavio Briatore, Valentino Rossi, o Valentino Garavani (per stare ad alcuni dei “vip” inclusi nella lista). E, in alcuni casi, anche quando il nome è pure certo e “vip” — come nel caso di Elisabetta Gregoraci, interrogata dalla Procura di Roma — si scopre che il conto svizzero era alimentato da assegni regolati dal suo contratto di matrimonio con Briatore e in quanto tali «non reddito imponibile».
La divisione territoriale degli accertamenti sui 5 mila nomi che sopravvivono alla prima “scrematura” fa il resto. Tra il 2011 e il 2014 il lavoro dell’Agenzia delle Entrate è affidato agli uffici periferici (tanto che, ad oggi, la direzione centrale non dispone di un dato aggregato e promette una “ricognizione” di qui alle prossime settimane). Mentre le diverse Procure, come detto, si devono arrendere alla prescrizione. Anche perché quando la Procura di Torino interroga finalmente Falciani (è il 2014) coltivando la speranza di poter far ripartire l’inchiesta, le informazioni di cui l’uomo dispone si rivelano identiche a quelle avute dai francesi nel 2010.

muore nel Mediterraneo poiché è stata abbandonato Mare Nostrum, e la "troika" prosegue il tentativo di strangolare, con la Grecia, l'Europa della speranza. Articoli di P. Nerantzis, A.M.Merlo, R.Chiari. Il manifesto, 10 febbraio 2015

L'ALLERTA DI ATENE
di Pavlos Nerantzis,

Grecia. Tsipras spera in un «new deal» con l’Eurogruppo e conferma: «Rispetteremo le promesse elettorali». Rappresentante Ue della troika si incontra con il vicepremier nella capitale greca
Alle porte di un com­pro­messo sto­rico: è que­sta la situa­zione in cui sem­brano essere Atene e i suoi part­ner europei. Que­sto new deal che sarà messo domani sul tavolo delle trat­ta­tive nella riu­nione di emer­genza dell’Eurogruppo, sarà discusso il giorno dopo al ver­tice Ue e -se tutto va bene - sarà varato il 16 feb­braio alla riu­nione ordi­na­ria dell’ Euro­gruppo, garan­tendo la liqui­dità ad Atene con dei pres­sup­po­sti pre­cisi affin­ché - vale a dire entro il giu­gno pros­simo - Ale­xis Tsi­pras pre­senta il piano di risa­na­mento qua­drien­nale dell’ eco­no­mia greca senza sco­mo­dare ulte­rior­mente i part­ner euro­pei, ne i cor­ren­ti­sti tede­schi che secondo le fan­fa­lu­che di Schaeu­ble, «sono sem­pre loro a pagare per i greci».

Che ci tro­viamo a pochi passi da que­sto deal e non di fronte ad una rot­tura, come sostiene gran parte della stampa inter­na­zio­nale per fare pres­sing su Atene, si capi­sce da una let­tura attenta delle dichia­ra­zioni di diri­genti euro­pei, ma anche da fondi vicine al pre­mier greco che espri­mono ottimismo.

Il pre­mier Tsi­pras, sabato scorso ha pre­sen­tato le linee pro­gram­ma­ti­che del suo governo e ha escluso ogni pro­lun­ga­mento dell’attuale memo­ran­dum e del moni­to­rag­gio della troika, chie­dendo un nuovo accordo per rine­go­ziare il debito di Atene nell’ambito di una «intesa comune con i part­ner per l’ inte­resse di tutti».

Atene ha biso­gno di una mora­to­ria del paga­mento del debito, ovvero di un pro­gramma di tran­si­zione a breve sca­denza (accordo –ponte) per recu­pe­rare i fondi per la cre­scita e non un sal­va­tag­gio perenne tra­mite nuovi finan­zia­men­tii da parte della troika (Fmi, Ue, Bce).

Alla Bce, si è aggiunta la Spa­gna, tra­mite il suo pre­mier. Rajoy ha chia­rito ieri che «la Gre­cia o chiede un pro­lun­ga­mento dell’ attuale pro­gramma di risa­na­mento (ovvero una nuova auste­rity, ndr.) oppure niente». Alleata ai governi della euro­zona che non vogliono sen­tirne par­lare delle richie­ste di Atene l’agenzia Stan­dard and Poor’s che ha declas­sato il rating della Gre­cia da B a B-. Alla Fran­cia e all’ Ita­lia, invece, che pur alli­nean­dosi alla fine con la can­cel­liera tede­sca sulla linea della fer­mezza, non vedono di cat­tivo occhio le richie­ste gre­che — per­ché affron­tano pro­blemi simili (debito, ecc.)- si è aggiunta ieri l’ Austria. Il can­cel­liere austriaco, Wer­ner Fay­mann, con un ruolo da inter­me­dia­rio tra Ber­lino e Atene, dopo il suo incon­tro con Ale­xis Tsi­pras a Vienna, ha detto che «biso­gna tro­vare una solu­zione di com­pro­messo tra il vec­chio pro­gramma di risa­na­mento dell’ eco­no­mia greca e al pro­gramma del nuovo governo» greco.

La neces­sità di tro­vare un new deal tra Atene e Ber­lino, è soste­nuta in un rap­porto dalla Com­merz­bank, la seconda banca tede­sca per gran­dezza e la stessa Gran Bre­ta­gna, prin­ci­pale part­ner com­mer­ciale dei paesi della zona euro. David Came­ron che teme l’effetto con­ta­gio sui mer­cati finan­ziari da una pos­si­bile uscita della Gre­cia dalla zona euro, ha con­vo­cato ieri una riu­nione per rie­sa­mi­nare i piani di emer­genza del suo governo nel caso di un Grexit.

Con­tra­ria a ogni forma di auste­rity irra­gio­ne­vole e rischiosa è la Casa Bianca che non incide sui fatti interni dell’ Ue, ma preme per una solu­zione visto che una rot­tura potrebbe avere riper­cus­sioni glo­bali. Per Atene Lon­dra e Washing­ton sono di fatto in que­sto momento alleati buoni.

Che tutte le parti, esclu­sione fatta per Ber­lino, si ren­dano conto che serve una solu­zione di com­pro­messo, si capi­sce dal viag­gio lampo ad Atene del capo dell’Euroworking group e del rap­pre­sen­tante dell’Ue alla troika che si sono incon­trati con il vice-premier e il mini­stro delle finanze greco per discu­tere le pro­po­ste che Atene sta pre­pa­rando per pre­sen­tarle domani alla riu­nione dell’ Euro­gruppo. Le pre­messe sono inco­rag­gianti, nono­stante «l’isolamento di Atene».

Intanto sta­sera si con­clude con il voto di fidu­cia al nuovo governo il dibat­tito par­la­men­tare sulle dichia­ra­zioni pro­gram­ma­ti­che di Ale­xis Tsi­pras, il quale tra l’altro ha annun­ciato un insieme di misure per far fronte alla crisi uma­ni­ta­ria: sala­rio minimo a 751 euro, assun­zione dei 3.500 dipen­denti pub­blici licen­ziati dalla troika, resti­tu­zione della tre­di­ces­sima ai pen­sio­nati. Ha deciso la sospen­sione dei pigno­ra­menti sulla prima casa, allog­gio, cibo e elet­tri­cità gra­tis per 300.000 fami­glie vit­time dell’ auste­rity, assi­stenza medica gra­tuita per i disoc­cu­pati, abro­ga­zione delle tasse supplementari alle case, vendita di uno dei tre aerei del premier e di 700 auto blu, di- mezzamentodel personale a Mega- ro Maximou, sede del governo, an- nullamento dei privilegi dei parla- mentari, riorganizzazione da zero della radiotelevisione pubblica, in- chiesta parlamentare su come si è arrivati al memorandum, conces- sione della cittadinanza ai figli di migranti nati in Grecia, disarmo dei poliziotti durante le manifesta- zioni, misure severe per combatte- re l’ evasione fiscale e la corruzio- ne, rivendicazione dei debiti di guerra da Berlino.

EURO E DEBITO

SETTIMANA CRUCIALE PER LA GRECIA
di Anna Maria Merlo

L'Eurogruppo vuole "un piano" preciso dalla Grecia e rappresentanti della trojka sono ad Atene. Londra soffia sul fuoco del Grexit ("solo questione di tempo" per Greenspan, ex Fed). Francia e Italia cercano di calmare il gioco. Padoan risponde a Varoufakis: il "contagio italiano è escluso". Per Gabriel (Spd, vice-cancelliere), ci sono probabilità "pari a zero" che la Germania prenda in considerazione la richiesta di riparazioni di guerra

Set­ti­mana cru­ciale per la Gre­cia e il suo debito inso­ste­ni­bile. L’Eurogruppo preme e pre­tende che Varou­fa­kis ”con­se­gni” alla riu­nione straor­di­na­ria di domani a Bru­xel­les il “piano” per uscire dalla crisi. C’è chi getta olio sul fuoco e chi cerca di cal­mare il gioco. In Gran Bre­ta­gna, David Came­ron ha con­vo­cato un ver­tice con il can­cel­liere dello scac­chiere, George Osborne, e dei rap­pre­sen­tanti della Bank of England, per pre­ve­nire il “con­ta­gio” nell’eventualità di un Gre­xit. Per l’ex capo della Fede­ral Reserve, Alan Green­span, difatti, l’uscita della Gre­cia dall’euro “è solo que­stione di tempo” (lo ha detto in un’intervista alla Bbc).

Hanno invece cer­cato di cal­mare il gioco, ieri, Fran­cia e Ita­lia. Il mini­stro delle Finanze, Michel Sapin, a Istam­bul per il G20, ha affer­mato che “biso­gna assi­cu­rare un finan­zia­mento” alla Gre­cia, per­ché in caso con­tra­rio il paese “sarà preda di una pos­si­bile situa­zione di panico sui mer­cati”. Ma, ha aggiunto Sapin, “non pos­siamo dire solo finan­ziamo, finan­ziamo, per­ché la con­tro­par­tita di que­sto soste­gno deve essere il rispetto delle regole euro­pee da parte di Atene”.
Parole di disten­sione sono venute anche da Pier Carlo Padoan, in rispo­sta all’attacco di Yanis Varou­fa­kis, che irri­tato dall’approvazione da parte di Renzi della deci­sione della Bce di mer­co­ledi’ scorso, ha affer­mato in tv che l’Italia rischia “il fal­li­mento” con un debito “inso­ste­ni­bile”. Padoan, dal G20, ha pre­ci­sato che il debito ita­liano “non è sul tavolo” e alla “parole fuori luogo” di Varou­fa­kis ha rispo­sto che “l’obiettivo è tro­vare una solu­zione con­di­visa per la Gre­cia a par­tire dall’Eurogruppo”. Padoan ha escluso un “rischio con­ta­gio” per l’Italia e ha riven­di­cato il nuovo corso dell’agenda euro­pea, con “cre­scita, occu­pa­zione e inve­sti­menti”. Intanto Padoan ha pre­sen­tato a Bru­xel­les un piano per un inter­vento pub­blico sulle ban­che e il pas­sivo accu­mu­lato, in vista di nuovi “stru­menti per gestire il pro­blema dei cre­diti dete­rio­rati” che non venga respinto dalla Ue come un aiuto sta­tale irregolare.

Il governo greco fa un discorso senza con­ces­sioni, ma non ha rotto i con­tatti con Bru­xel­les. Per pre­pa­rare l’Eurogruppo dell’11, che pre­cede di un giorno il ver­tice Ue che sarà il debutto di Tsi­pras a Bru­xel­les, Atene acco­glie dei rap­pre­sen­tanti dell’odiata tro­jka: da dome­nica sono in Gre­cia Declan Costello, rap­pre­sen­tante della Ue nella tro­jka, con Tho­mas Wie­ser, pre­si­dente dell’Euro Wor­king Group, che pre­para la riu­nione dell’Eurogruppo. La Bce, che mer­co­ledi’ ha chiuso un rubi­netto di finan­zia­mento alla Gre­cia, rifiu­tando dall’11 feb­braio pros­simo in garan­zia le obbli­ga­zioni di stato gre­che (valu­tate “spaz­za­tura” dalle agen­zie di rating, per S&P ormai la Gre­cia è scesa a B-), resta divisa sulla mossa di mer­co­ledi’ scorso. A causa del mec­ca­ni­smo di rota­zione nel voto al con­si­glio dei gover­na­tori, alcuni paesi non erano pre­senti al voto che ha deciso il colpo di mano di mer­co­ledi’: tra essi la Fran­cia (e anche Gre­cia e Cipro). E la pre­si­dente del con­si­glio di vigi­lanza dellz Bce, la fran­cese Danièle Nouy, ha affer­mato che “oggi le ban­che gre­che sono molto più solide”.

Dalla Ger­ma­nia è arri­vato un nuovo secco “nein” alla richie­sta delle ripa­ra­zioni di guerra da parte di Tsi­pras. Per Sig­mar Gabriel, Spd e vice-cancelliere, la “pro­ba­bi­lità è eguale a zero”. La que­stione “è stata risolta 25 anni fa, giu­ri­di­ca­mente con il trat­tato 2+4” del ’90 (le due Ger­ma­nie più gli Alleati), che hanno accet­tato la rinun­cia alle ripa­ra­zioni (e la Gre­cia l’aveva appro­vato). “Non serve a nulla pro­se­guire su que­sta strada” ha con­cluso Gabriel, al semi­na­rio Spd di Nauen. Per il por­ta­voce del mini­stero delle Finanze di Ber­lino, non c’è “nulla di nuovo” su que­sto fronte.

ATENE CHIAMA
FIOM IN PIAZZA
di Riccardo Chiari,

All'attivo toscano dei metalmeccanici Cgil, Maurizio Landini riepiloga i motivi della partecipazione alla manifestazione di sabato a Roma. Aderisce anche l'Arci, mentre in Corso Italia si sta discutendo sul che fare. Le minoranze Pd chiedono a Renzi di lavorare a un compromesso fra il governo greco e l'Ue.
Atene chiama, la Fiom ha già rispo­sto all’appello di piazza dell’Altra Europa, molti altri in que­ste ore ci stanno pen­sando su. “Abbiamo deciso di essere sabato a Roma – rie­pi­loga Mau­ri­zio Lan­dini – per­ché sia la Ces che la Fede­ra­zione euro­pea dell’industria, con note uffi­ciali, hanno detto che il piano pre­sen­tato da Tsi­pras e Varou­fa­kis può essere attuato. E se anche il debito pub­blico ita­liano fosse mutua­liz­zato, e a quel punto si pagasse 50 milioni di inte­ressi ogni anno invece dei 100 attuali, con gli altri a dispo­si­zione per gli inve­sti­menti e la difesa dei diritti e delle tutele dei lavo­ra­tori, cam­bie­rebbe o non cam­bie­rebbe la situa­zione nel nostro paese?”.

La rispo­sta è l’applauso dei 450 dele­gati metal­mec­ca­nici Cgil arri­vati da tutta la Toscana, nel veloce giro d’Italia che Lan­dini sta facendo in que­sti giorni con gli attivi regio­nali. Per fare il punto della situa­zione nelle fab­bri­che. Su che sta acca­dendo con il jobs act: “Non abbiamo mai vis­suto un pro­cesso del genere, che cam­bia la natura stessa delle rela­zioni sin­da­cali”. Sui con­tratti da rin­no­vare quando le con­tro­parti, dai ban­cari ai chi­mici, o li disdi­cono o pon­gono con­di­zioni cape­stro come la resti­tu­zione di parte del sala­rio. Poi sull’importanza di aumen­tare le iscri­zioni al primo sin­da­cato metal­mec­ca­nico, per pesare sem­pre più ai tavoli di trat­ta­tiva. Infine per riba­dire che lo scio­pero gene­rale di dicem­bre della Cgil è stato solo il primo passo di una mobi­li­ta­zione che deve andare avanti. E spie­gare che sì, si può fare.

Il ragio­na­mento del segre­ta­rio Fiom pro­cede passo passo. Molte argo­men­ta­zioni sono cono­sciute a chi mastica un po’ di poli­ti­che eco­no­mi­che e finan­zia­rie. Ma di fronte ai suoi iscritti Lan­dini ha — e sente — il dovere di spie­gare e rispie­gare il per­ché del pas­sag­gio poli­tico. Senza mai dimen­ti­care il suo punto di vista, quello del sin­da­ca­li­sta. “In tutta Europa – ricorda – è in atto una ope­ra­zione che punta a ridurre il ruolo dei sin­da­cati a sem­plici orga­niz­za­zioni azien­dali e cor­po­ra­tive. Il campo di gioco è quello, per la sem­plice ragione che ci sono 25 milioni di disoc­cu­pati nel con­ti­nente, sui quali si sta gio­cando per abbas­sare diritti e tutele a tutti gli altri. Dun­que non è un pro­blema solo ita­liano. Anche per­ché il governo ita­liano, come si dice dalle mie parti, comanda solo fino a mezzogiorno”.

Si gioca in Europa, ripete Lan­dini, per­ché dei 100 milioni di inte­ressi pagati ogni anno dall’Italia, una buona parte (“tra­mite la Bce”) fini­sce nelle casse della Bun­de­sbank tede­sca, che ha in pan­cia i titoli del debito ita­liano. “Se invece non paghi gli inte­ressi, soprat­tutto in que­sti anni di defla­zione, e resti­tui­sci il debito non in cin­que anni ma in trenta, non cre­dete che la situa­zione cambi parecchio?”.

I dele­gati toscani, ope­rai e impie­gati della fab­bri­che di una regione dove la Fiom ha con­qui­stato l’82% nei rin­novi delle Rsu, ascol­tano con atten­zione. Annui­scono. Applau­dono, quando il loro segre­ta­rio ricorda la let­tera della Bce del 5 ago­sto 2011: “C’era scritto che i ser­vizi pub­blici dove­vano essere pri­va­tiz­zati. Che salari e orari di lavoro dove­vano essere ‘rita­gliati’, azienda per azienda. Si doveva alzare l’età pen­sio­na­bile e abbas­sare gli asse­gni, ridurre il costo della pub­blica ammi­ni­stra­zione, dare ‘più libertà’ al mer­cato del lavoro, e ‘rifor­mare’ le isti­tu­zioni. Ebbene, sia Monti che Letta e ora Renzi hanno appli­cato tutto que­sto. Punto per punto”.

Non solo Fiom. Il comi­tato nazio­nale dell’Arci, per accla­ma­zione, ha dato l’adesione alla mani­fe­sta­zione di sabato. Anche den­tro la segre­te­ria Cgil si discute, più o meno infor­mal­mente, su che fare. E le mino­ranze del Pd hanno chie­sto a Renzi, Orfini e ai capi­gruppo Zanda e Spe­ranza di riu­nire le assem­blee par­la­men­tari e la dire­zione: “Per discu­tere della linea che il Pd terrà in occa­sione dei pros­simi appun­ta­menti euro­pei rela­tivi al caso Gre­cia”. Chia­mando al com­pro­messo, fra posi­zioni che fra loro restano oppo­ste, alla vigi­lia dell’Eurogruppo e dei ver­tice dei capi di governo Ue.

Intanto i metal­mec­ca­nici Cgil vanno avanti. Come treni. Al diret­tivo della con­fe­de­ra­zione del 18 feb­braio arri­verà la pro­po­sta di un pac­chetto di ore di scio­pero. Con­tro il jobs act e per modi­fi­care radi­cal­mente la legge For­nero. Si pensa ai ricorsi euro­pei, alle impu­gna­zioni dei licen­zia­menti, all’ipotesi di un refe­ren­dum abro­ga­tivo. “La nostra costi­tu­zione – ha ricor­dato Mau­ri­zio Lan­dini nella Casa del popolo di San Bar­tolo a Cin­toia – ci dà il prin­ci­pio di orga­niz­zarsi col­let­ti­va­mente, per discu­tere nelle aziende ma anche per con­tri­buire al miglio­ra­mento delle con­di­zioni sociali. Ebbene, non abbiamo mai avuto un governo come que­sto. Che non ha accet­tato un tavolo di discus­sione, men­tre appro­vava poli­ti­che con­tro i diritti dei lavoratori”

La Repubblica, 8 febbraio 2014 (m.p.r.)
Roma. Il 20 gennaio 1961 nel suo discorso inaugurale, John Kennedy disse: «Nessuno deve negoziare sotto la morsa della paura. E nessuno deve aver paura di negoziare». La frase l’aveva scritta John Kenneth Galbraith, l’economista che di Kennedy fu consigliere. Ce la ripete James Galbraith, che di Kenneth è il figlio ed è anch’egli un economista di primo piano, docente all’università del Texas dove è collega e grande amico di Yanis Varoufakis, neo-ministro delle Finanze greco, con il quale ha scritto il libro Modesta proposta per uscire dalla crisi dell’euro.

«Negli anni ’60 si parlava di guerra fredda», dice Galbraith. «Oggi è analogo l’acerrimo confronto sui debiti e la depressione che flagellano un Paese, la Grecia, che non merita di essere messo all’angolo. Dalla Merkel, da Draghi, da Bruxelles, da nessuno».

Domani c’è la fiducia a Tsipras. Lei ci sarà?
«Sto prendendo l’aereo per Atene. Sarò a fianco di Varoufakis e lo aiuterò a preparare il progetto per il negoziato: vi rendo noto che è una delle menti più lucide e brillanti dell’economia attuale. Come potevano pretendere, i capi europei, che già avesse pronto il contro-piano se le elezioni sono state convocate in tutta fretta alla fine del 2014? Non è possibile che venga isolato solo perché rompe gli schemi».
Quali schemi?
«In questi anni abbiamo visto decine di vertici paludati, in cui con reciproco compiacimento i capi dell’Europa prendevano atto della crisi e nominavano qualche comitato con l’impegno di “fare il punto” dopo uno o più mesi. Senza mettere in discussione il mantra reazionario del rientro dal debito quale unica priorità, l’unico modo per uscire dalla crisi. Intanto la Grecia affondava. Ma la signora Merkel c’è andata? Ha visto le condizioni in cui vive, anzi ormai sopravvive, la gente? Sento parlare di ripresa, di risultati conseguiti: ma quale ripresa? Quali risultati? Solo un intervento politico deciso, di rottura, di solidarietà, può restituire dignità all’Europa. Invece appena Tsipras pronuncia la parola “ristrutturazione del debito” che vuol dire allungare i tempi, aspettare la risalita del Pil per restituirli, forse concederne qualcuno nuovo, scatta la tagliola di opposizioni, di minacce, insomma la sindrome della paura. Si devono calmare gli animi per cominciare un negoziato vero. Ho sentito qualche capo europeo esasperato perché ad ogni cambio di governo greco si sentono fare proposte nuove e si deve ricominciare daccapo: scusate, ma allora le elezioni che si fanno a fare? Allora non le facciamo per niente e facciamo governare tutto alla Germania o alla Bce».
Propone qualcosa di simile all’intervento statale con cui l’America è uscita dalla recessione?
«L’intelligenza di Obama non è stata creare nuovi strumenti bensì valorizzare quelli esistenti: social security, Medicare, Medicaid, sussidi di disoccupazione. Accorgimenti di cui si dotano i Paesi evoluti per affrontare i momenti difficili. Anche in Europa ce n’erano: con l’ossessione dei debiti li state distruggendo tutti».

Il manifesto 7 febbraio2015

Con il pas­sag­gio ormai quasi com­pleto dei par­la­men­tari di Scelta civica nelle fila del Pd si rag­giunge una signi­fi­ca­tiva tappa nella navi­ga­zione del sistema poli­tico. Renzi ormai è una cala­mita attrat­tiva che assorbe un arco di forze ete­ro­ge­neo, che va da Ver­dini a Migliore. Dinanzi a que­sto vistoso scon­fi­na­mento, si tratta solo di chia­rire se è il Pd che si amplia, in virtù di una nuova voca­zione ege­mo­nica, o se non è invece Scelta civica che, pro­prio dile­guan­dosi, svela che il ren­zi­smo aiuta il defi­ni­tivo com­pi­mento della sua ori­gi­na­ria mis­sione di par­tito neo­pa­dro­nale. Crea­tura della flac­cida volontà di potenza di Monti, Scelta civica si insi­nuava nel solco delle for­ma­zioni poli­ti­che per­so­nali, così abbon­danti nel corso della seconda repub­blica. Con delle spe­ci­fi­che con­no­ta­zioni, però. La lista era il frutto della mani­fe­sta­zione di avi­dità poli­tica dei poteri forti che rinun­cia­vano alla loro tra­di­zio­nale tat­tica di influen­zare spez­zoni di diversi par­titi, senza però alle­stirne uno in pro­prio, con il rischio di raci­mo­lare solo magri frutti nel mer­cato elettorale.

Die­tro le armate di Monti si com­piva una bru­tale sem­pli­fi­ca­zione dell’antico cen­tro pre­si­diato con cura da Casini. Con le prove di sfon­da­mento con­dotte prima da Mon­te­ze­molo, e poi rin­sal­date con le ope­ra­zioni di occu­pa­zione gui­date da Monti, si ordi­nava la destrut­tu­ra­zione dell’area mode­rata. Il vec­chio cen­tro cat­to­lico non aveva più ragione di esi­stere nella sua auto­no­mia (con­tro di esso ven­nero non a caso get­tati in pista figure come Oli­ve­rio, Dal­lai, con l’avallo di alte o medie gerar­chie). Il mondo cat­to­lico era desti­nato a por­tare in dote i voti resi­dui al dise­gno dei poteri forti che in vista dell’appuntamento del 2013 entra­vano in ballo con una dop­pia bocca di fuoco: la prima a soste­gno della prova di bona­par­ti­smo tec­no­cra­tico ten­tata da Monti (prima va al potere, con gra­zia rice­vuta dal Colle, e poi va alla ricerca dei voti); la seconda, viste le insor­mon­ta­bili dif­fi­coltà espan­sive del boc­co­niano cavallo poco di razza, a dispo­si­zione di Grillo, cele­brato dai media per strap­pare deci­sive por­zioni di con­senso a Ber­sani e Ven­dola.

Il tec­nico e il comico erano le due figure spe­cu­lari che i poteri forti (il Cor­riere, Sky, la Sette) acca­rez­za­vano per deter­mi­nare un pareg­gio alle urne e sbar­rare così la strada ad una sini­stra scru­tata come troppo legata ai colori inquie­tanti del pas­sato. Il pro­getto è stato cen­trato in pieno. Non è un caso che figure come Men­tana o Galli della Log­gia siano pas­sati rapi­da­mente dalle sim­pa­tie per il comico geno­vese all’innamoramento totale verso Renzi. Quello che per loro con­tava era can­cel­lare ogni resi­dua trac­cia di rosso nella sto­ria repub­bli­cana. E lo sta­ti­sta nato sulle rive dell’Arno è la prov­vi­den­ziale con­giun­zione dei diversi sen­tieri che si erano aperti per abbat­tere le vel­leità di governo di una sini­stra «neosocialdemocratica».

Con la scon­fitta del 2013, il Pd ha subito una meta­mor­fosi com­pleta. Dalle vel­leità di ricol­lo­carsi in uno spa­zio più chia­ra­mente di sini­stra, deve acca­sarsi nelle paludi di un mode­ra­ti­smo dal volto neo­pa­dro­nale. Con Ichino, la Lan­zil­lotta rien­trano agli ordini del Naza­reno per­so­na­lità che erano fug­gite per­ché in disac­cordo con una virata a sini­stra mal dige­rita. L’operazione, gestita in per­fetto stile tra­sfor­mi­sta, trova però una giu­sti­fi­ca­zione sostan­ziale nell’operato del governo Renzi che ha, sul piano sociale e sin­da­cale, mostrato un’anima libe­ri­sta che tanto piace a Ichino ed altri pro­feti dell’abbattimento bru­tale del diritto del lavoro.

Con il soc­corso delle fre­sche truppe di Ichino e Migliore fini­sce anche la vel­leità della mino­ranza Pd di fic­care qual­che graf­fio nel volto sem­pre ridente del con­dot­tiero di Rignano. Con i ritro­vati del tra­sfor­mi­smo, Renzi diventa un capo par­la­men­tare che taglia e incolla i per­so­naggi ambi­gui, pronti a dare un soste­gno alla sua lea­der­ship. La mino­ranza del Pd viene così resa inof­fen­siva e paga le sue esi­ta­zioni stra­te­gi­che. Invece di andare all’assalto fron­tale quando il governo rom­peva la cul­tura dei diritti, strac­ciava il legame con il lavoro e sbef­feg­giava vol­gar­mente la Cgil, ha pre­fe­rito for­mu­lare fra­gili pro­po­ste di media­zione e infine alzare inno­cui segnali di fumo nella bat­ta­glia molto meno sim­bo­lica e diri­mente sul voto di pre­fe­renza. Un disastro.

Nei con­flitti poli­tici, chia­riva Locke, non si deve met­tere in campo una «fit­ti­zia resi­stenza», quella del tutto inno­cua di chi con timore chiede al nemico il «per­messo di col­pire». In ogni con­flitto, che «livella le parti», occorre una netta deter­mi­na­zione nel dare «colpi sulla testa e tagli sul viso». Al cospetto del boy scout spre­giu­di­cato che intro­ietta alla per­fe­zione le armi distrut­tive pre­di­spo­ste dal dia­bo­lico fra­zio­ni­smo demo­cri­stiano, la mino­ranza di sini­stra ha mostrato un disarmo pre­ven­tivo. E ora rischia di essere schiac­ciata dalle prove di lea­der­ship che si con­so­lida gra­zie alle risorse di un tra­sfor­mi­smo post­mo­derno che acchiappa ex gril­lini ed ex super­stiti dell’avventura di An.

Con gli spo­sta­menti di Scelta civica sono ormai quasi 200 i par­la­men­tari che hanno cam­biato casacca in meno di due anni. E que­sto, oltre che uno ste­rile pro­blema di deca­denza etico-politica, sol­leva anche que­stioni di ordine isti­tu­zio­nale. L’attuale geo­gra­fia del par­la­mento (fuga dal M5S e da Sel, disar­ti­co­la­zione di Forza Ita­lia, assor­bi­mento di Scelta civica) non cor­ri­sponde più alle pre­fe­renze elet­to­rali. Oltre che inco­sti­tu­zio­nale, il mec­ca­ni­smo elet­to­rale ha costruito un sistema non più rap­pre­sen­ta­tivo. Forse avviare le pra­ti­che per uno scio­gli­mento anti­ci­pato della legi­sla­tura non è poi una idea così malsana.

Sbilanciamoci.info, 6 febbraio 2015

Alexis Tsipras ha vinto le recenti elezioni in Grecia con un chiaro mandato elettorale: cancellare una parte significativa del debito pubblico e porre fine al programma di aiuti – e relativi piani di austerità e aggiustamenti strutturali – della troika. Ma entrambi gli obiettivi si stanno rivelando molto più difficili del previsto. Anche per la feroce opposizione dell’establishment europeo, come dimostra la recente decisione della Bce di chiudere i rubinetti alle banche greche. Per capire come siamo arrivati a questo punto, però, dobbiamo fare un passo indietro.

Il debito pubblico greco ammonta a 323 miliardi di euro, pari al 177% del Pil. Di questi, il 15% è detenuto dal settore privato, il 10% dal Fondo monetario internazionale e il 6% dalla Bce. Il grosso del debito – il 60% del totale, pari a 195 miliardi di euro – è in mano agli altri governi dell’eurozona. Di questi 195 miliardi, 142 miliardi sono arrivati alla Grecia attraverso l’Efsf, il Fondo europeo di stabilità finanziaria (più comunemente noto come “Fondo salva-stati”); 53 miliardi sono invece il frutto di prestiti bilaterali ricevuti dagli altri stati membri. I paesi più esposti al debito greco sono la Germania (56 miliardi), la Francia (42 miliardi), l’Italia (37 miliardi), la Spagna (24 miliardi) e l’Olanda (11 miliardi).

E qui sta il primo problema: un’eventuale ristrutturazione del debito greco ricadrebbe soprattutto sulle spalle degli altri governi europei, molti dei quali – in particolare Germania, Francia e Finlandia – hanno già categoricamente escluso l’ipotesi di un taglio del valore nominale del debito. Questi sanno di avere dalla loro una componente cruciale di qualunque negoziato: il tempo. Tsipras deve trovare un accordo in fretta se vuole fermare l’emorragia di capitali dalle banche greche (oltre 10 miliardi a gennaio, 4 miliardi a dicembre). E infatti il neoministro delle finanze greco, Yanis Varoufakis, ha recentemente annunciato un clamoroso cambio di strategia: niente più taglio del debito ma uno “swap” della porzione di debito attualmente in mano all’Efsf e alla Bce con nuovi titoli di stato. Questi sarebbero di due tipi: i titoli in mano all’Efsf sarebbero rimpiazzati con bond indicizzati al tasso di crescita del Pil (in sostanza il servizio del debito e le scadenze di rimborso aumenterebbero o diminuirebbero a seconda dello stato di salute dell’economia), mentre quelli in mano alla Bce sarebbero rimpiazzati con quelli che Varoufakis ha definito “obbligazioni perpetue” (titoli a interessi zero che la banca centrale terrebbe a bilancio in perpetuo, il che equivarrebbe di fatto alla monetizzazione di quella porzione di debito). Secondo uno studio dell’istituto Bruegel, questo potrebbe ridurre la spesa per interessi della Grecia di più del 15% del Pil.

Questo rappresenterebbe un passo indietro non da poco rispetto alla richiesta di “cancellazione della maggior parte del valore nominale del debito pubblico” contenuta nel programma elettorale di Syriza, ma permetterebbe comunque a Tsipras di rispettare la seconda parte della sua promessa elettorale: ridurre l’avanzo primario dal 4-5% previsto dal memorandum all’1-2% – allentando, anche se di poco, la stretta fiscale che negli ultimi anni ha soffocato l’economia greca, bruciando un quarto del reddito nazionale – e porre fine al programma di assistenza finanziaria della troika. Il governo greco, infatti, si rifiuta di accettare l’ultima tranche da 7 miliardi, ma senza di essa non sarà in grado di far fronte ai 6.5 miliardi che deve restituire alla Bce entro l’estate (se la banca centrale non dovesse accettare la proposta di cancellazione ufficiosa del debito). Pare che Atene abbia a malapena fondi a sufficienza per rimborsare i 4.3 miliardi dell’Fmi in scadenza il mese prossimo.

In alternativa – in attesa di trovare un accordo – il governo greco potrebbe raccogliere una decina di miliardi sui mercati emettendo buoni del Tesoro a breve termine; ma anche questo richiederebbe l’approvazione dell’Eurotower (poiché Atene ha già raggiunto il tetto di 15 miliardi di euro sull’emissione di t-bills fissato dalla Bce) e al momento non sembra che Francoforte abbia alcuna intenzione di dare il via libera all’operazione. Anche se Atene decidesse di andare avanti lo stesso, la Bce – in qualità di garante del nuovo meccanismo di vigilanza unico (Ssm) – potrebbe tranquillamente vietare alle banche greche di comprare i nuovi titoli di stato (poiché la Grecia sarebbe di fatto insolvente, come peraltro ha riconosciuto lo stesso Varoufakis) o semplicemente negargli la liquidità necessaria.

Un’altra fonte di finanziamento a breve termine potrebbe arrivare dai profitti guadagnati dalla Bce e dalle vari banche centrali nazionali con l’acquisto di bond greci in base al programma Smp (Securities Markets Programme) nel 2010. Nel 2012 l’Eurogruppo accettò infatti di girare questi soldi – che oggi ammontano a 1.9 miliardi di euro – alla Grecia, ma questo non si è mai verificato. E oggi sono in molti a ritenere che i governi dell’eurozona accetteranno di sbloccare i fondi solo se la Grecia si impegnerà a rispettare una serie di conditionalities molto stringenti (sostanzialmente in linea con i memorandum della troika). Anche far digerire questo accordo ai creditori, insomma, non sarà facile.

Questo sul fronte delle finanze pubbliche greche. Ma come già detto il vero problema per la Grecia in questo momento è un altro: la fuga di capitali dal paese e più in generale la fragilità del sistema bancario. Fino a pochi giorni fa le banche greche riuscivano ad approvvigionarsi di liquidità fornendo a garanzia titoli di stato che ufficialmente sono considerati “spazzatura”; un’eccezione concessa a quei paesi che sottostanno a un programma di assistenza della troika. Ma il 4 febbraio – lo stesso giorno in cui Varoufakis ha dichiarato di essere “il ministro delle finanze di un paese in bancarotta” – la Bce ha fatto sapere in una nota di aver deciso di escludere i bond greci dai titoli che possono essere usati dalle banche come collaterale “poiché al momento non è possibile presumere una conclusione positiva del processo di revisione del programma greco”.

Questo non rappresenta una minaccia immediata per le banche greche – le quattro banche principali, dopo la fuga dai depositi delle ultime settimane, sono già appese alla liquidità d’emergenza fornita da Francoforte tramite l’Ela (Emergency Liquidity Assistance) – ma è un chiaro strumento di pressione nei confronti governo greco. Il prossimo passo per la Bce potrebbe essere quello di chiudere anche il rubinetto dell’Ela, ma questo richiederebbe l’approvazione dei due terzi del Consiglio direttivo. In quel caso, la Grecia si vedrebbe quasi sicuramente costretta a istituire dei controlli di capitale, mettendo in moto una sequenza di eventi che potrebbe rapidamente sfuggire di mano.

Il manifesto, 7 febbraio 2015
Se si nutriva ancora qual­che dub­bio che l’Europa fosse più vit­tima delle pro­prie poli­ti­che che della crisi, gli acca­di­menti degli ultimi giorni hanno tolto ogni dub­bio. I mer­cati ave­vano assor­bito quasi con non­cha­lance il cam­bio di governo in Gre­cia; la Borsa di Atene aveva oscil­lato, ma riu­scendo sem­pre a ripren­dersi, fino a rag­giun­gere rialzi da record; il ter­ro­ri­smo psi­co­lo­gico che aveva pro­vo­cato un forte deflusso di capi­tali prima delle ele­zioni sem­brava un’arma spuntata.

Ma appena si è arri­vati al dun­que è scat­tato il ricatto della Bce. Eppure le richie­ste del nuovo governo greco erano più che ragio­ne­voli. Né Tsi­pras né Varou­fa­kis chie­de­vano un taglio netto del debito, ma sola­mente moda­lità e tempi diversi per pagarlo senza con­ti­nuare a distrug­gere l’economia e la società greca, come ave­vano fatto i loro pre­de­ces­sori. Dichia­ra­zioni e docu­menti di eco­no­mi­sti a livello mon­diale, com­presi diversi premi Nobel, si rin­cor­rono per dimo­strare che le solu­zioni pro­po­ste dal governo greco sono per­fet­ta­mente appli­ca­bili, anzi le uni­che effi­caci se si vuole sal­vare l’Europa, che sarebbe tra­sci­nata nella vora­gine di un con­ta­gio dai con­fini impre­ve­di­bili se la Gre­cia dovesse fal­lire e uscire dall’euro. Per­fino il pen­siero main­stream – Finan­cial Times in testa — si dimo­strava più che possibilista.

Può darsi, come anche Varou­fa­kis ha osser­vato, che la mossa di Dra­ghi serva per evi­den­ziare che la solu­zione è poli­tica e non tecnico-economica. Quindi ha but­tato la palla nel campo dell’imminente Euro­gruppo che si riu­nirà l’11 feb­braio. Il guaio è che la poli­tica euro­pea attuale è ancora peg­gio della ragione eco­no­mica. Basti leg­gere le dichia­ra­zioni di un Renzi, sdra­iato sul comu­ni­cato della Bce, o quelle di uno Schulz o di un Gabriel.

Non è la prima volta, d’altro canto, che la social­de­mo­cra­zia tede­sca vota i «cre­diti di guerra». [Il riferimento è alla posizione che assunsero le socialdemocrazie francese, inglese, austriaca,tedesca, belga, quando - violando la linea politica decisa dalla Seconda Internazionale comunista (guerra alla guerra) - nei rispettivi parlamenti votarono a favore el riarmo, passo decisivo, su entrambi i fronti, per lo scatenamento della prima guerra mondiale. - nota di e.]

L’analogia non è troppo esa­ge­rata. Che spie­ga­zione tro­vare per un simile acca­ni­mento con­tro un paese il cui Pil non supera il 2% e il cui debito il 3% di quelli com­ples­sivi dell’eurozona?

La ragione è duplice. Se passa la solu­zione greca appare chiaro che non esi­ste un’unica strada per abbat­tere il debito. Anzi ce n’è una alter­na­tiva con­cre­ta­mente pra­ti­ca­bile rispetto a quella del fiscal com­pact. Più effi­cace e assai meno deva­stante. Tale da pun­tare su un nuovo tipo di svi­luppo che valo­rizzi il lavoro, l’ambiente e la società, come appare dal pro­gramma di Salo­nicco su cui Syriza ha costruito e vinto la sua cam­pa­gna elet­to­rale. Sarebbe una scon­fitta sto­rica per il neo­li­be­ri­smo europeo.

Il secondo motivo riguarda gli assetti poli­tico isti­tu­zio­nali della Ue. Sap­piamo che i greci hanno giu­sta­mente rifiu­tato l’intervento della Troika. Ma è pur vero che per­fino Junc­ker ha dichia­rato che quest’ultima ha fatto il suo tempo. C’è allora qual­cosa di più impor­tante in gioco che la soprav­vi­venza di que­sto o quell’organismo.

Finora la Ue attra­verso gli stru­menti della sua gover­nance a-democratica aveva messo il naso nelle poli­ti­che interne di ogni paese, in qual­che caso det­tan­done per filo e per segno le scelte da fare. Così è acca­duto nel caso ita­liano con la famosa let­tera della Bce del 5 ago­sto del 2011. Dove non era arri­vato Ber­lu­sconi ave­vano prov­ve­duto Monti e ora Renzi a finire i com­piti a casa.
Ma si trat­tava pur sem­pre di un inter­vento su governi amici, che si fon­da­vano su mag­gio­ranze che ave­vano espli­ci­tato la loro pre­ven­tiva sot­to­mis­sione alla Troika. In Gre­cia siamo di fronte al ten­ta­tivo di impe­dire che la volontà popo­lare espres­sasi nelle ele­zioni in modo abbon­dante e ine­qui­vo­ca­bile possa tro­vare imple­men­ta­zione per­ché con­tra­ria alle attuali scelte della Ue. Qual­cosa che si avvi­cina a un colpo di stato in bianco (per ora). I neo­na­zi­sti di Alba Dorata ave­vano dichia­rato che Syriza avrebbe fal­lito e dopo sarebbe toc­cato a loro governare.

E’ que­sto che le medio­cri classi diri­genti euro­pee vogliono? Non sarebbe la prima volta.

Impe­dia­mo­glielo. Non solo con gli stru­menti pro­pri delle sedi par­la­men­tari per influire sul ver­tice dei capi di stato, ma soprat­tutto riem­piendo le piazze, come suc­cede ora in Gre­cia e come vogliamo accada anche in Ita­lia e nel resto d’Europa il pros­simo 14 feb­braio. Un San Valen­tino di pas­sione con il popolo greco.

Syloslabini.info, 3 febbraio 2015 (m.p.r.)

In questi giorni sono usciti molti articoli sul nuovo governo greco e in particolare su alcuni suoi componenti. La maggior parte di questi articoli si è concentrata su aspetti di costume e non sulla sostanza, ossia su quali politiche economiche potrà mettere in atto la nuova compagine governativa.

Abbiamo quindi intervistato Joseph Halevi, professore di economia presso l’Università di Sydney, che ben conosce Yanis Varoufakis, neo ministro delle finanze in Grecia, di cui è amico e con cui ha anche scritto un libro (insieme a Nicholas Theocarakis): Modern Political Economy: making sense of the post-2008 world (Routledge).

Noi Restiamo: ci dai un giudizio sul risultato delle recenti elezioni in Grecia?
Joseph Halevi: il mio giudizio è essenzialmente positivo. C’è ovviamente un problema dovuto al fatto che Syriza ha delle posizioni molto eterogenee. Però voglio dire che l’esigenza che nasceva dalla crisi del Pasok ovviamente ha trovato sbocco in Syriza. Non poteva trovare sbocco nel KKE (partito comunista greco), impossibile. Per scegliere il partito comunista greco bisognava essere ideologicamente strutturati, e la popolazione che usciva dalla crisi del Pasok non lo era. Quindi il mio giudizio è sostanzialmente positivo, anche se a me Syriza non piace moltissimo.

NR: ha dei limiti come impostazione del partito, ricorda un po’ SEL per certi punti di vista.
JH: sì, anche se ovviamente in modo più serio. La componente centrale, quella che l’ha fondata seriamente, sono i comunisti del partito comunista dell’interno, che erano gli euro-comunisti, che si sono scissi dal KKE teoricamente dopo l’intervento sovietico in Cecoslovacchia. Il KKE, comunque, negli ultimi 40/50 anni, non ha mai modificato la sua analisi sul sistema capitalistico, che è sempre quella sovietica: capitalismo monopolistico etc. Poi, sull’Unione Sovietica loro hanno riflettuto, e sono arrivati alla conclusione, basta andare sul loro sito per leggerlo, che l’Unione Sovietica è caduta perché hanno cercato di affrontare i problemi per via capitalistica. Se invece fossero rimasti all’interno dello schema socialista, non ci sarebbe stata questa crisi, questo crollo. Un approccio estremamente schematico: non analizza il perché il partito comunista sovietico sia andato in quella direzione, né un sacco di altri aspetti. Quindi anche se tendenzialmente hanno la mia simpatia, allo stesso tempo sono di un settarismo totale.

NR: Il problema principale di Syriza adesso è che, pur essendo partiti subito con una serie di proposte anche abbastanza interessanti, come l’aumento del salario minimo o il ripristino di una serie di condizioni di vita a livelli precedenti le impostazioni della Troika, si trovano in una posizione molto delicata per via del fardello del debito. Secondo te quanto spazio di manovra c’è per il nuovo governo greco?
JH: nessuno. E lo sanno. Quindi dovranno andare allo scontro. E lì si vedrà come agirà Syriza, al cui interno c’è la componente eurocomunista e non solo, c’è anche gente che ha lasciato il KKE successivamente. Questa componente è più possibilista sul debito, nel senso che sono per accettare dei compromessi invece che andare alla rottura. Questo potrebbe provocare problemi interni seri a Syriza.

NR: quando tu dici andare allo scontro cosa intendi?
JH: per scontro intendo la linea di Yanis Varoufakis. Quella è giustissima. Ossia fare default ma restando nell’eurozona.

NR: Quindi secondo Varoufakis è possibile fare default rimanendo nell’Eurozona?
JH: Certo, non paghi e basta. Mica devi uscire, nessuno ti obbliga ad uscire e loro non ti possono cacciare. Questo non lo capiscono coloro che parlano di “Grexit”, e nemmeno i Tedeschi che dicono: ah allora te ne vai. Nessuno può cacciare la Grecia, nessuno può cacciare nessun paese dalla zona euro. Quindi Yanis dice: va bene, se loro non vogliono accettare dei compromessi noi dichiariamo il default stando nella zona euro, vediamo un po’ che succede. L’ha scritto anche sul suo blog, spesso.

NR: Visto che lo abbiamo citato, in conclusione due battute sul nuovo governo. Tu conosci bene Varoufakis, con cui hai anche scritto un libro, ma ci sono anche altre figure interessanti, ad esempio Rania Antonopoulos dovrebbe occuparsi di lavoro.
JH – Sì, questo è un governo molto moderno, gente che veramente conosce il mondo, e non conosce il mondo dei banchieri. Tra l’altro la Grecia è molto meno provinciale dell’Italia, poiché in Grecia anche la borghesia è emigrata, non soltanto il popolo (diciamo il popolo delle isole, i contadini semi-analfabeti) degli anni Cinquanta. In Italia la borghesia è sempre stata stanziale: solo adesso la gente di origine middle-class si muove, emigra. La borghesia italiana è stata stanziale al massimo, provincialissima, magari perché ricca, sicura di sé; mentre in Grecia no, la borghesia parla molte lingue, nei dipartimenti delle facoltà universitarie greche c’è gente che si è formata in Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Germania, e anche in Russia. E’ gente che ha viaggiato vivendo in altri paesi, non vivendo da persone importanti – diciamo non come i Giavazzi, che vanno al MIT – ma dovendo cercare lavoro, vivendo veramente in altri paesi.

Però il punto centrale, la persona cruciale lì è proprio Yanis Varoufakis. Yanis ha sviluppato questo“algoritmo”: è inutile che gli andiamo a dire che usciamo dall’euro – che, secondo Yanis, potrebbe essere un ulteriore disastro – è inutile andare a chiedere di fare politiche keynesiane, tanto in Europa non ci sentono da questo orecchio. Bisogna partire da questo presupposto per fare delle proposte: una sulla questione della mutualizzazione di una parte del debito, la quota prevista da Maastricht, come più volte ha detto. L’altra sul fatto che si debbano attivare tutte quelle istituzioni che in Europa sono preposte alla spesa, come la Banca Europea degli investimenti. La devono sganciare dal fatto che ogni volta che la banca europea degli investimenti fa una spesa viene addebitata ad uno stato. E’ letta come spesa pubblica. Quindi questa è la sua idea: noi facciamo questa proposta, se si rifiutano sta a loro sostenere le conseguenze (ossia un default della Grecia).

NR: la maggior parte degli articoli usciti in questi giorni su Varoufakis hanno molto calcato la mano sull’aspetto, come dire, della personalità e della figura. Il “Manifesto” l’ha definito con entusiasmo un economista marxista. A noi francamente più che marxista Varoufakis sembra un keynesiano di sinistra, se vogliamo.
JH: Ma lui non è da questo punto di vista una persona semplice, non è accademicamente marxista, è – a mio avviso – strategicamente più leninista che marxista, perché sotto molti aspetti ha una concezione propria del giocare sui rapporti di forza. E di trovare i limiti degli avversari, da questo punto di vista ha molto assorbito la teoria dei giochi. Yanis viene da una famiglia resistenziale, il padre ha fatto anni di prigione, era già formato politicamente quando si è trasferito in Gran Bretagna. La Grecia è un paese come l’Italia, dove marxista significa essere militante, non puoi fare il marxista accademico e basta. Marxista è un sistema di idee che c’hai, poi fai altre cose, puoi anche fare il geometra.

Varoufakis ha fatto l’economista, studiando la teoria dei giochi. Gli piaceva, perchè prevedeva la possibilità del conflitto. Poi è arrivato ad una visione critica, e qui il suo contributo è molto importante. Ha una critica della teoria dei giochi che è tanto forte quanto la critica sraffiana alla teoria neoclassica. Inoltre lui è andato avanti epistemologicamente, al di là della caccia all’errore, che è insufficiente e anche sterile. Lui è andato alla radice, ossia ha fatto una critica dell’economia individualistica. Da questo punto di vista è molto più importante di quanto si creda. E lasciatemi dire che trovo veramente molto provinciale, piccolo-borghese che la maggior parte dei quotidiani italiani si sia concentrata su aspetti esteriori come il fatto che Varoufakis non porti la cravatta.
Anche la sua collaborazione con la Valve corporation è stata derubricata come consulenza ad una società che produce videogiochi. In realtà questa azienda si occupa di vendita di beni virtuali, Yanis era stato assunto per collaborare alla creazione di firewall che impedissero la nascita di bolle finanziarie virtuali, e questa esperienza gli ha dato una conoscenza di sistemi di moneta virtuale, su cui ha anche scritto, come “bitcoin” che gente come Visco o Padoan non potrà mai avere.

Il manifesto, 6 febbraio 2015

L’altolà di Dra­ghi al governo Tsi­pras mostra con duris­sima evi­denza lo stato di sospen­sione demo­cra­tica di que­sta “Europa reale”, e della Bce che ne costi­tui­sce un pila­stri. L’attacco di Dra­ghi e il pre­an­nun­cio di non garan­tire più per i bond greci mostra la volontà di stran­go­lare sul nascere il nuovo corso. Non si rico­no­sce il man­dato popo­lare rice­vuto da Tsi­pras, e non si capi­sce con quale auto­re­vo­lezza venga con­si­de­rato non atten­di­bile il piano pre­sen­tato dalla nuova com­pa­gine greca, da parte di chi ha par­te­ci­pato a misure, pre­vi­ste dal Memo­ran­dum, famose per aver fal­lito cla­mo­ro­sa­mente gli obiet­tivi dichiarati. La realtà è che le scelte sociali, eco­no­mi­che ed isti­tu­zio­nali, il non rico­no­sci­mento della Troika di Tsi­pras vanno in col­li­sione con la natura e i poteri dell’“Europa reale”, quelli finan­ziari, libe­ri­sti e della ege­mo­nia mer­ke­liana. Di que­sti poteri la Bce è un architrave.

Da tempo soste­niamo lo scan­dalo di un Par­la­mento euro­peo senza alcun potere d’influenza sulla Bce, un organo pre­teso tec­nico (25 per­sone, non elette), a cui i Trat­tati dell’Unione hanno affi­dato la piena respon­sa­bi­lità della poli­tica mone­ta­ria dell’Europa. Il fatto è che i nostri diri­genti hanno ade­rito al prin­ci­pio che la poli­tica mone­ta­ria e finan­zia­ria non debba essere più una fun­zione sovrana dei poteri pub­blici sta­tuali (nazio­nali ed euro­pei), ma il com­pito di sog­getti pri­vati poli­ti­ca­mente indi­pen­denti dalle isti­tu­zioni pubbliche. La Bce è il sog­getto chiave del Sistema euro­peo di ban­che cen­trali (Sebc) di cui fanno parte, oltre la Bce, le Ban­che cen­trali nazio­nali degli Stati che hanno adot­tato l’euro e for­mano l’Eurosistema. Suo com­pito prin­ci­pale è di attuare la poli­tica mone­ta­ria dell’Unione il cui l’obiettivo, fis­sato dai Trat­tati, è il man­te­ni­mento della sta­bi­lità dei prezzi, diven­tato l’imperativo mone­ta­rio dei paesi occidentali.

Il pro­blema nasce dal fatto che l’articolo 130 del Trat­tato sul Fun­zio­na­mento dell’Unione euro­pea (Tfue) sta­bi­li­sce il prin­ci­pio della totale indi­pen­denza poli­tica della Bce. Coe­ren­te­mente, il Trat­tato dispone l’obbligo per i governi degli Stati mem­bri e le isti­tu­zioni ed organi dell’Ue di aste­nersi da qual­siasi forma di inge­renza sulle atti­vità della Bce. Aver sti­pu­lato for­mal­mente l’indipendenza poli­tica alla Bce come prin­ci­pio costi­tu­zio­nale del Tfue ha creato una situa­zione giu­ri­dica, isti­tu­zio­nale e poli­tica, anomala. L’anomalia si esprime anzi­tutto rispetto alle ban­che cen­trali: la Bce è l’unica banca cen­trale al mondo ad essere poli­ti­ca­mente indi­pen­dente da ogni altra auto­rità. Le altre ban­che, com­presa la Fede­ral Reserve Bank (Usa) sono auto­nome. L’anomalia è però soprat­tutto rile­vante nell’assetto attuale dell’integrazione euro­pea. L’adozione dell’euro anche in assenza di uno Stato sovrano euro­peo, è avve­nuta in maniera con­tra­ria alle tesi costi­tu­zio­nali poli­ti­che che da sem­pre rico­no­scono che una moneta implica un governo, un potere sovrano, uno Stato.

Le ragioni per le quali i poteri forti euro­pei hanno creato una moneta senza Stato sono mol­te­plici. A nostro avviso, la più pre­gnante è di ordine ideo­lo­gico poli­tico: è l’idea che occorra stac­care l’economia dalla poli­tica ed affi­dare i com­piti di gestione dell’economia, in par­ti­co­lare della poli­tica mone­ta­ria, ad organi tec­nici “indi­pen­denti” dai governi pub­blici, capaci di dare fidu­cia ai mer­cati finanziari. Il com­pito della Bce non è di dare fidu­cia ai par­la­menti nazio­nali ed al par­la­mento euro­peo e di sal­va­guar­dare i diritti umani e sociali dei cit­ta­dini stessi. I suoi clienti, come si dice nel gergo domi­nante, sono i mer­cati finan­ziari, le ban­che e gli agenti finan­ziari spe­cu­la­tivi. La Bce è attual­mente il solo potere poli­tico sovra­na­zio­nale europeo.

L’indipendenza della Bce signi­fica prin­ci­pal­mente tre cose. Anzi­tutto, una misti­fi­ca­zione, deli­be­rata, per coprire legal­mente il fatto che essa non lo è ma che è sot­to­messa all’influenza degli inte­ressi dei poteri pub­blici (Stati) più forti dell’Ue sul piano mone­ta­rio e finan­zia­rio. Essa lo è nei con­fronti degli Stati più deboli come la Gre­cia, l’Irlanda, il Por­to­gallo .…ma non della Ger­ma­nia e del mondo finan­zia­rio rap­pre­sen­tato dal Lus­sem­burgo. In secondo luogo, una realtà effet­tiva nei con­fronti del Par­la­mento euro­peo e delle altre isti­tu­zioni dell’Ue. Il dia­logo eco­no­mico tra la Bce ed il Pe (per far cre­dere alla legit­ti­mità demo­cra­tica della Bce) e tra que­sta ed il Con­si­glio dei Mini­stri e la Com­mis­sione euro­pea (a dimo­stra­zione della respon­sa­bi­lità della prima nei con­fronti delle altre due) è un puro arram­pi­carsi sugli specchi.

Infine, la libertà dai poteri poli­tici pub­blici accor­data alla Bce è una tri­ste farsa politica. Lo stru­mento chiave del potere della Bce è l’intervento sul tasso di sconto (il costo del capi­tale) sulla moneta. Da anni que­sta fun­zione non appar­tiene più alle ban­che cen­trali (lo Stato) ma alle ban­che stesse (sog­getti pri­vati nella stra­grande mag­gio­ranza). La Bce, per suo pro­prio dire, si limita ad inter­ve­nire in rea­zione al tasso di sconto fis­sato dalle banche/mercati finan­ziari, abbas­san­dolo in caso di freddezza/stagnazione dell’economia o aumen­tan­dolo in caso di riscal­da­mento o ecci­ta­zione ele­vata dei mer­cati. Indi­pen­denza for­male, quindi, rispetto ai poteri poli­tici pub­blici ma dipen­denza chiara nei con­fronti dei mer­cati finanziari.

Cam­biare que­sto stato non è facile. Biso­gna ripor­tare la poli­tica mone­ta­ria euro­pea nel campo della demo­cra­zia effet­tiva, dando un governo poli­tico all’euro. Biso­gna abo­lire la dis­so­cia­zione tra poli­tica ed eco­no­mia ed eli­mi­nare il pri­mato dell’economia sulla poli­tica, per un pro­cesso costi­tuente europeo. Il par­la­mento euro­peo è l’istituzione più legit­tima per farlo, se lo vuole. E’ neces­sa­rio scar­di­nare il potere spe­cu­la­tivo e cri­mi­nale dei mer­cati finan­ziari, met­tendo fuori legge i para­disi fiscali, rego­la­men­tando i mer­cati dei deri­vati, le tran­sa­zioni finan­zia­rie ad alta fre­quenza e la finanza mobile, ripub­bli­ciz­zare le casse di rispar­mio ed il cre­dito alle col­let­ti­vità locali. E dichia­rare ille­gale le forme di com­pe­ti­ti­vità fiscale tra gli Stati.Terzo oltre che met­tere la finanza e la moneta in Europa al ser­vi­zio della giu­sti­zia e della soli­da­rietà umana e sociale e della giu­sti­zia ambien­tale. Tsi­pras ha aperto uno scon­tro duris­simo e cia­scuno di noi deve fare la sua parte.

La Repubblica, 5 febbraio 201

BCE NON ACCETTA PIÙ TITOLI GRECI
BANCHE A RISCHIO, L’EURO SCIVOLA

di Andrea Tarquini


«Noi vi proponiamo un piano radicale di lotta a sprechi evasione e corruzione, ma aiutateci a tenere la testa fuori dall’acqua, e sia la Francia a guidare l’emergenza», hanno detto ieri il nuovo premier greco Alexis Tsipras al presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e poi al capo dello Stato francese, François Hollande, e nelle stesse ore il suo ministro delle Finanze Yanis Varoufakis al presidente della Bce Mario Draghi. Anche se proprio l’Eurotower chiede impegni immediati: la Bce non accetterà oltre l’11 febbraio i titoli ellenici come garanzia, uno stop che aggraverebbe la crisi di liquidità delle banche. Solo un accordo politico con Bruxelles in una settimana può salvare la Grecia dall’uscita dall’euro.

All’annuncio dell’Eurotower, ieri sera l’euro è sceso sotto quota 1,1400 sul dollaro (1,394) La Germania chiede ad Atene di prendere le distanze dalle promesse elettorali, dice un documento governativo di Berlino secondo cui occorrono dalla Repubblica ellenica chiare promesse sulle riforme. E in ogni caso, fa sapere la cancelliera Angela Merkel, «abbiamo posizioni comuni con Hollande e Renzi». Come dire: siamo tutti contrari a sconti e rinvii.
Su questo sfondo Varoufakis si prepara domani al colloquio più difficile, quello a Berlino col collega tedesco Wolfgang Schaeuble. Con il documento riservato, la Bundesrepublik ha risposto nel modo più deciso all’offensiva mediatica (interviste, proposte di grandi piani, rivelazioni) lanciata da Tsipras e Varoufakis in giro per l’Europa.
Atene, dice la Germania, deve accettare la Troika, pagare i creditori come Bce, Fmi e fondo salva Stati, nonché i creditori bilaterali. Il nuovo governo deve inoltre riconoscere l’indipendenza della sua Banca centrale. Posizioni molto lontane da quelle di Tsipras, che vedendo Juncker e poi Hollande ha chiesto un “accordo provvisorio”: in sostanza dilazioni dei termini di pagamento in cambio dell’impegno ateniese a un “programma radicale” contro spreconi, corrotti, grandi evasori a casa. Tsipras sfoggia ottimismo, anche se «l’accordo non c’è ancora», e ribadisce l’intenzione di «rispettare le regole Ue», impegno chiesto anche dallo stesso presidente francese.
Rispetto delle regole, secondo il paper tedesco, vuol dire che Atene raggiunga un avanzo primario del 3% quest’anno e del 4,5 l’anno prossimo, che riduca di altre 150mila unità l’occupazione nel settore pubblico, tagli il salario minimo, àncori più strettamente le pensioni al pagamento dei contributi, acceleri le privatizzazioni e adatti le tariffe elettriche ai prezzi di mercato. E non a caso il presidente dell’esecutivo europeo, l’ex premier liberal polacco Donald Tusk, ha avvertito Tsipras che «i negoziati saranno difficili ».
Oggi, intanto, la Commissione europea renderà note le nuove previsioni economiche 2015 che per l’Italia confermerebbero una crescita dello 0,6% mentre si avvicinerebbero molto alle stime del governo sul deficit, visto al 2,6 invece dell’2,7% precedente. In salita la stima sull’occupazione: dal 12,6 al 12,8%.In tanta freddezza, è anche vero che l’Europa deve e vuole negoziare con Atene per scongiurare una bancarotta greca e un primo, pericolosissimo sfaldamento dell’Unione monetaria. E lo stesso premier greco sa bene che anche l’Europa dovrà fare concessioni importanti. Perché Tsipras è oggi l’unico, esile filo che tiene attaccata la Grecia all’Europa.

ASSE TRA BERLINO, ROMA E PARIGI
SU ATENE CALA IL GELO DEL RIGORE

di Andrea Bonanni

Il silenzio di Juncker e Draghi, il riserbo di Renzi, le smentite Fmi. E poi le scarne parole di Angela Merkel che suonano come una sentenza: «Ho parlato al telefono con il premier italiano e il presidente francese. Sulla Grecia le posizioni degli Stati membri non differiscono nella sostanza». L’offensiva diplomatica tra Roma, Bruxelles, Parigi e Francoforte di Alexis Tsipras ha prodotto un frastuono di dichiarazioni ottimistiche che però non ha trovato eco nei loro interlocutori. «I negoziati saranno difficili», ha detto il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, unica autorità comunitaria a rilasciare un commento dopo l’incontro con Tsipras.

Roma, Bruxelles, Francoforte e Parigi hanno mandato lo stesso messaggio, dunque: nessuna conferenza internazionale per rinegoziare il debito, nessuna cancellazione più o meno occulta dei 240 miliardi prestati, nessun trattamento di favore da parte di Fmi e Bce. L’unico tavolo negoziale al quale si devono rivolgere i nuovi governanti di Atene è quello dell’Eurogruppo. E devono farlo in fretta perché, senza un accordo dell’Eurogruppo, neppure la Bce sosterrà le banche greche già svenate dalla fuga di capitali.

Accolti dovunque con grandi sorrisi, baci, abbracci e pacche sulle spalle, Tsipras e Varoufakis sono tornati ieri sera ad Atene con ben poca farina nel sacco. E difficilmente se ne aggiungerà oggi, durante l’incontro che Varoufakis avrà a Berlino con il Finanzminister, Wolfgang Schauble. In una intervista a Repubblica, il ministro greco aveva annunciato di aver «avviato un negoziato» con il Fondo monetario internazionale per una dilazione del debito. Circostanza che l’Fmi ha smentito seccamente. In compenso si è saputo che Varoufakis ha incontrato nel week-end a Parigi il responsabile europeo del Fondo, che guardacaso è quel Poul Thomsen odiatissimo dai Greci perché per anni a capo della Troika e dei suoi ultimatum. I due, dice un breve e perfido comunicato Fmi, «hanno fatto conoscenza ed evocato le sfide a cui la Grecia deve far fronte».

Pure tra coloro che Tsipras considerava i suoi potenziali alleati, come Renzi, Hollande e il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, il leader greco ha trovato sorrisi, comprensione, ma anche una linea di demarcazione netta: la premessa per qualsiasi negoziato è che Atene si impegni a rispettare le regole europee e gli obblighi assunti. «Se la Grecia modifica unilateralmente gli accordi, l’altra parte non è più obbligata a rispettarli, pertanto lo Stato non sarà più in grado di finanziarsi», dice Schulz in una intervista a Handesblatt.

Intanto i tedeschi hanno fatto trapelare un loro “documento di lavoro” presentato agli altri governi dell’Eurozona in cui chiedono non solo che la Grecia garantisca di rimborsare il debito, ma che mantenga anche tutti gli impegni di tagli, riforme e privatizzazioni che i precedenti governi avevano concordato con la Troika. Ma questo, evidentemente, fa già parte della complicata partita negoziale che si aprirà oggi con l’incontro di Varoufakis e Schauble e che entrerà nel vivo l’11 febbraio alla riunione dell’Eurogruppo che precederà di un giorno il vertice dei capi di governo della Ue, quando finalmente Tsipras incontrerà la cancelliera Merkel.

Il manifesto, 5 febbraio 2015 (m.p.r.)

Occorre dav­vero far ricorso a tutte le risorse eti­che e razio­nali di cui dispo­niamo per non rele­gare un intero pezzo di mondo nelle tene­bre della bar­ba­rie più effe­rata e auspi­carne l’annientamento a qual­siasi costo, «danni col­la­te­rali» compresi. La ten­ta­zione è forte. All’orribile morte tra le fiamme di Moath al-Kasasbeh, decisa magari «dal basso» dagli umori infami del popolo jiha­di­sta con­sul­tato sulla rete, fa seguito la rea­zione squi­si­ta­mente kap­ple­riana della monar­chia di Amman, che fa imme­dia­ta­mente impic­care Sajida al-Rishawi, la ter­ro­ri­sta dete­nuta nelle car­ceri gior­dane dal 2005 e che la Gior­da­nia era dispo­sta fino a ieri a scam­biare con il suo pilota, e un altro dete­nuto qae­di­sta ira­cheno, Ziad al-Karbouli.

In realtà cir­co­lava voce che altri cin­que dete­nuti sareb­bero stati giu­sti­ziati, ma non è chiaro quale sia la pro­por­zione della rap­pre­sa­glia rite­nuta ade­guata dalla monar­chia hashe­mita. Ci augu­riamo infe­riore a quella delle Fosse Ardea­tine. Intanto da quel san­tua­rio di sag­gezza isla­mica «mode­rata» che è l’università cora­nica di Al Azhar si leva l’invito a «ucci­dere, cro­ci­fig­gere e muti­lare» i ter­ro­ri­sti. Que­sto Islam potrebbe pia­cere per­fino, per l’occasione, alla destra islamofoba.

Lasciando per un momento da parte ogni con­si­de­ra­zione geo­po­li­tica, ci tro­viamo di fronte tutti gli ele­menti di una «guerra inter­fa­sci­sta» (per usare l’espressione sug­ge­sti­va­mente appli­cata da Franco Berardi Bifo alla guerra in Ucraina). L’orrore abita diversi luo­ghi nel mondo, in pro­por­zioni nume­ri­che più o meno spa­ven­tose dal Paki­stan alla Nige­ria, per­vade legi­sla­zioni, forme poli­ti­che e sociali di molti regimi fidati alleati dell’Occidente.

In un luogo spe­ci­fico, però, quello mili­tar­mente occu­pato dall’Isis, l’orrore si è «fatto stato» senza diplo­ma­tici velami. Uno stato che eser­cita il suo potere in forme tanto feroci da far impal­li­dire l’Afghanistan cru­del­mente tri­bale e «tra­di­zio­na­li­sta» del Mul­lah Omar. Vi si bru­ciano libri ed esseri umani in stile più nazi­sta che «medioevale». Que­sto stato deve essere can­cel­lato dalla carta geo­gra­fica, pre­stando però molta atten­zione a che non se ne disper­dano le spore. Ma è que­sta una ragione per tol­le­rare la bar­ba­rie «mode­rata» che fre­quenta la city nel timore che possa diven­tare «estrema», pro­ba­bil­mente senza smet­tere di frequentarla?

Le ragioni eco­no­mi­che e geo­stra­te­gi­che non abbi­so­gnano, si sa, di giu­sti­fi­ca­zioni morali. Ma il discorso pub­blico e anche la reto­rica demo­cra­tica non pos­sono farne a meno. E tacere sui sistemi di bru­tale oppres­sione eser­ci­tati dagli alleati dell’Occidente in casa propria. E’ di ieri la con­danna all’ergastolo di cen­ti­naia di mili­tanti del movi­mento che spo­de­stò Muba­rak in Egitto.

Non si vedono in giro per il mondo car­telli e magliette con la scritta «Je suis Moath». Certo un pilota che bom­barda, tutt’altro che chi­rur­gi­ca­mente, i ter­ri­tori domi­nati dall’orrore è ben diverso da vignet­ti­sti assas­si­nati per le loro opi­nioni ed eletti a sim­bolo della libertà di espres­sione, seb­bene tutti vit­time della mede­sima bar­ba­rie. Le bombe, que­sto è certo, non sono parole. Eppure dovreb­bero esserci, nono­stante tutto, que­ste magliette e que­sti car­telli, per­ché la Con­ven­zione di Gine­vra, per non par­lare dei più ele­men­tari prin­cipi di uma­nità, con­tiene diritti non meno impor­tanti da difen­dere. E anche chi par­te­cipa a una guerra, una volta pri­gio­niero non può subire la sorte ter­ri­fi­cante toc­cata al pilota giordano.

C’è un pro­blema però. Anche le vit­time della rap­pre­sa­glia gior­dana, e cioè di una logica fasci­sta, meri­te­reb­bero la stessa atten­zione. Capi­sco quanto sarebbe imba­raz­zante indos­sare una maglietta con la scritta «Je suis Sajida», una fana­tica ter­ro­ri­sta che ha par­te­ci­pato a un atten­tato che ha pro­vo­cato 60 morti, ma nel momento in cui non è più in grado di nuo­cere e diventa la pedina inerme e tor­tu­rata di un mostruoso gioco di imma­gini, l’oggetto di una ven­detta al ser­vi­zio della pro­pa­ganda hashe­mita, forse biso­gne­rebbe avere il corag­gio e lo sto­maco di farlo.

Ma solo da quel momento in poi. Prima gli uomini dell’Isis, come già gli eser­citi nazio­nal­so­cia­li­sti, non pos­sono che essere com­bat­tuti con le armi e i loro com­plici «mode­rati» e silen­ziosi costretti a get­tare la maschera e a ren­dere conto delle pro­prie azioni.

La Repubblica, 4 febbraio 2015

A porte chiuse, di fronte agli investitori della City, Varoufakis l’altro giorno è stato persino più abrasivo del solito. Il ministro dell’Economia greco ha rispolverato le formule che hanno fatto di lui un blogger di successo. La banca centrale europea si sta comportando come uno hedge fund - ha detto - . Hanno approfittato di noi. Se vogliono possono spararci addosso, ma sarebbe un omicidio».

Lo stile del ministro può non aver conquistato i gessati grigi di Londra, ma le sue frecce sono scagliate con precisione chirurgica. Varoufakis centra in pieno una delle troppe ipocrisie che rendono la Grecia un rebus quasi insolubile e rischiano di farne una fonte di contagio politico in Europa, tanto quanto lo fu di contagio finanziario cinque anni fa.

L’ipocrisia attorno alla Bce si snoda così. Nel 2010 e 2011, la banca centrale ha comprato titoli greci per 27,7 miliardi di euro e solo quest’estate Atene dovrà rimborsarne sei (oltre a circa 8 al Fondo monetario internazionale). A quel punto l’Eurotower, grazie ad Atene, realizzerà una plusvalenza degna dei migliori speculatori perché nel 2010 e 2011 aveva comprato quella «spazzatura» con rendimenti a doppia cifra. A differenza degli hedge fund però la Bce non accetta rischi di perdite benché il rendimento dei titoli sia astronomico, e pretende di essere ripagata fino in fondo. Si realizza così un trasferimento di risorse dai contribuenti greci a Francoforte. In teoria quei guadagni dovrebbero essere di nuovo stornati alla Grecia, ma accadrà solo a condizione che il nuovo governo di Atene accetti i termini di un programma sotto il controllo dell’area euro.

Non è l’unica doppia verità di questa vicenda, ovviamente. È fin troppo facile il gioco di scoprirne in ciascuno dei protagonisti. Barack Obama per esempio accusa gli europei di voler “strizzare” la Grecia, ma gli Stati Uniti non hanno mai usato il loro potere di veto nel Fmi - di cui sono primi azionisti - per allentare le richieste del Fondo e della troika verso Atene; e anche per Obama è inconcepibile un’estensione delle scadenze sui crediti del Fmi alla Grecia, perché in gioco c’è anche la quota versata dalla sua amministrazione. Quanto a Angela Merkel, non ha mai spiegato ai suoi elettori che i pacchetti di denaro degli europei sono serviti anche a far uscire indenni le banche tedesche esposte in Grecia fino a 45 miliardi di dollari; senza quei salvataggi, i tedeschi probabilmente avrebbero dovuto pagare ancora di più per ricapitalizzare gli istituti in rovina del loro stesso Paese.

Neanche Alexis Tsipras, il nuovo premier ellenico, è esente da una buona dose di ambivalenza. Non ha mai riconosciuto che il deficit greco, falsificato per anni, aveva superato il 15% del prodotto lordo. Non ha restituito la scorta né ha mai speso una parola per Andreas Georgiou, l’attuale presidente dell’istituto statistico greco, che da tempo è bersaglio di minacce anonime ed è formalmente imputato per alto tradimento alla nazione dopo aver osato svelare le frodi nel bilancio dello Stato.

È quando la verità inizia ad avere questi doppi e tripli fondi - secondo convenienza - che capisci che questa non è più una questione di tecnica finanziaria. È una partita politica giocata contro il tempo, con scadenza in estate, nella quale tutti hanno moltissimo da perdere se finirà senza accordo. Una Grecia spinta fuori dall’euro da un caotico default sarebbe uno Stato-paria, capace di perdere il 10% del Pil in un solo anno. L’Italia, la Spagna e la Francia dovrebbero pagare tassi d’interessi molto più alti, non appena per i mercati l’uscita dall’euro diventasse un’opzione credibile. E Angela Merkel si lascebbe alle spalle un’eredità di discredito. A quel punto il contagio delle forze anti-sistema in Europa diventerebbe inarrestabile.

Basta questo per capire che tutti alla fine faranno il massimo per mettere da parte le ipocrisie e trovare un compromesso. Tecnicamente non è impossibile. La Bce può essere indennizzata dal fondo salvataggi europeo Esm. Il rimborso del debito di Atene verso gli Stati europei può essere parametrato alla crescita della Grecia, come qualcuno da tempo propone persino da Berlino. Tsipras può impegnarsi su un serio programma basato su una giusta misura di rigore di bilancio, sulla lotta alla corruzione e all’evasione e sull’idea (inedita ad Atene) che anche i ricchi pagano per il risanamento. E l’area euro può favorire e garantire ciò che finora non ha dimenticato di fare: un piano di ricostruzione economica e di investimenti esteri in un Paese che ha fallito la transizione verso la modernità.

Per arrivarci tutti i leader dovranno accettare costi politici. Deve farlo Tsipras, che ha già promesso troppo ed è partito sotto il segno dell’intransigenza. Ma devono muovere un passo indietro anche Merkel e il governo di Madrid, dove si teme che un successo di questa Grecia in Europa rimetta in discussione chi in Spagna ha accettato enormi sacrifici e ora è tornato a crescere a un ritmo di oltre il 2% all’anno.

In mezzo a questi campi di forza si trova da ieri Matteo Renzi, e ha capito che a lui spetta uno spazio intermedio. Non vuole allinearsi del tutto con Merkel. Ma non deve diventare l’avvocato di Tsipras in Europa, perché presto molti sospetterebbero (a torto) che l’Italia è come la Grecia. Rischia ancora di finire male per tutti. Ma in caso contrario, per una volta, il contagio partito da Atene può aprire la strada a un equilibrio più stabile in Europa.

Si attende dal Presidente qualche gesto che dimostri che la lettera e lo spirito della Costituzione esige che si rispetti quel suo articolo secondo il quale "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli". Il manifesto, 4 febbraio 2015

Dav­vero quello di ieri in Par­la­mento del pre­si­dente Ser­gio Mat­ta­rella è stato un discorso non reto­rico d’investitura. Così come del resto, il giorno prima, il gesto di straor­di­na­ria rile­vanza: appena nomi­nato pre­si­dente, «c’è Stato» a ren­dere omag­gio alle Fosse ardea­tine, il luogo testi­mone della vio­lenza dell’occupazione nazi­sta, della ver­go­gna del fasci­smo, della volontà di ribel­lione e riscatto della Resi­stenza. E soprat­tutto sim­bolo nella capi­tale d’Italia della tra­ge­dia san­gui­nosa rap­pre­sen­tata dalla guerra. Che, nella Seconda guerra mon­diale, ha pro­dotto un cimi­tero di 50milioni di morti, lo ster­mi­nio della Shoah, e che si è con­clusa con le «paci­fi­ste» ato­mi­che di Hiro­shima e Nagasaki.

Nell’asciutto e pre­ciso inter­vento rivolto dal Par­la­mento agli ita­liani, una affer­ma­zione è apparsa subito chiara risuo­nando come un monito: la garan­zia più forte della nostra Costi­tu­zione con­si­ste nella sua appli­ca­zione, «nel viverla ogni giorno». E garan­tire la Costi­tu­zione, signi­fica tra l’altro «ripu­diare la guerra e pro­muo­vere la pace»: eccolo l’articolo 11 nel suo primo enun­ciato. Dichia­ra­zione che, nello stile di chi dichiara di essere attento al quo­ti­diano, alle dif­fi­coltà reali dei «con­cit­ta­dini», è sem­brato tutt’altro che reto­rica. Soprat­tutto riven­di­cata nella sede isti­tu­zio­nale più alta, dopo tanti silenzi e ipocrisie.

Ma nel seguito delle sue parole e nell’accoglienza tra i par­la­men­tari, molte ambi­guità sulla que­stione della guerra riman­gono. Sia nell’affermazione: «…A livello inter­na­zio­nale la meri­to­ria e indi­spen­sa­bile azione di man­te­ni­mento della pace, che vede impe­gnati i nostri mili­tari in tante mis­sioni, deve con­so­li­darsi con un’azione di rico­stru­zione poli­tica, sociale e cul­tu­rale senza la quale ogni sforzo è desti­nato a vani­fi­carsi». Sia nel rin­gra­zia­mento «…alle forze armate, sem­pre più stru­mento di pace ed ele­mento essen­siale della nostra poli­tica estera e di sicu­rezza…». In quale crisi — nei Bal­cani, in Iraq, in Afgha­ni­stan o in Libia -, l’uso della forza e della guerra «uma­ni­ta­ria» con la pre­senza inter­ven­ti­sta dei nostri sol­dati ha aiu­tato a risol­vere quei con­flitti e non ha invece incan­cre­nito la situa­zione, anche con la co-responsabilità in stragi con tante, troppe vit­time civili e fughe di milioni di disperati?

Per­ché tutto, nel discorso del Pre­si­dente Mat­ta­rella — sia quello in Par­la­mento che dopo la visita alle Fosse ardea­tine -, viene inscritto comun­que nella neces­sità di rispon­dere al «ter­ro­ri­smo inter­na­zio­nale» e ai «pre­di­ca­tori di odio» che insi­diano la nostra sicu­rezza e i nostri valori. Senza inter­ro­garsi mai se l’uso della forza mili­tare, vale a dire della guerra, abbia fin qui aiu­tato a fer­mare il ter­ro­ri­smo e non piut­to­sto a semi­nare mag­giore odio. Non è forse l’uso della guerra a pre­giu­di­care la pace e per­fino gli sforzi di pace degli orga­ni­smi inter­na­zio­nali? Visto il modo in cui è stata presa la deci­sione di par­te­ci­pare a molti con­flitti, con­tro e oltre la volontà dell’Onu. E ancora, come si rifiuta la guerra se le Forze armate ven­gono pro­mosse al rango di «ele­mento essen­ziale della poli­tica estera» che invece dovrebbe essere pro­pria della diplo­ma­zia, di fatto ine­si­stente in Ita­lia e nell’Unione euro­pea? Se dopo l’89 e la Guerra fredda, si è aperta ricorda Mat­ta­rella, una sta­gione nuova in Europa, che ci stanno a fare 100 piloti ita­liani di cac­cia­bom­bar­dieri nei Paesi bal­tici al seguito della stra­te­gia di allar­ga­mento a est della Nato, peri­co­lo­sa­mente al con­fine della Rus­sia? Dav­vero que­sto aiu­terà la con­clu­sione della crisi ucraina o al con­tra­rio l’approfondirà verso un con­fronto pre-’89?

E tutto que­sto quanto ci costa, visti i magri bilanci tagliati per via della crisi? Per­ché, se pro­prio non vogliamo ripe­tere la frase a noi cara del Pre­si­dente San­dro Per­tini, «Si aprano i gra­nai si chiu­dano gli arse­nali di armi», almeno osser­viamo che dai dati uffi­ciali di Nato e Sipri, l’attuale spesa mili­tare dell’Italia si aggira tra 50 e 70 milioni di euro al giorno. Al giorno. Senza dimen­ti­care che gli F-35 dal costo miliar­da­rio, sono stru­mento d’offesa non di difesa.

Eppure l’articolo 11 della Costi­tu­zione ita­liana rifiuta la guerra pro­prio «come mezzo di riso­lu­zione delle crisi inter­na­zio­nali». Senza malin­ter­pre­tare il secondo comma dell’articolo (che mette a dispo­si­zione risorse per sod­di­sfare le richie­ste degli orga­ni­smi inter­na­zio­nali come l’Onu), come fosse un’autorizzazione a fare la guerra, magari agget­ti­vata con «uma­ni­ta­ria». Ma come può la seconda parte di un arti­co­lato costi­tu­zio­nale fon­da­tivo con­trad­dire e negare la prima parte? Altri­menti, che costi­tu­zione sarebbe. Pen­sate se l’ arti­colo 1 che fonda l’Italia sul lavoro, dichia­rasse nella sua seconda riga invece fon­da­tiva la disoc­cu­pa­zione. La guerra è espli­ci­ta­mente «rifiu­tata». Pur­troppo di que­sto rifiuto si è fatto uso e abuso, e vale la pena ricor­dare che l’avvio della fine della leva mili­tare pro­mosso dal mini­stro della difesa Mat­ta­rella, non ha decre­tato la fine della par­te­ci­pa­zione ita­liana alle guerre ma il con­tra­rio: a par­tire dal 1999, quando Mat­ta­rella era vice-premier, è comin­ciata una nuova sta­gione della Nato che, con la guerra di raid aerei sulla ex Jugo­sla­via, si è tra­sfor­mata da patto di difesa in trat­tato offen­sivo, pronto all’intervento mili­tare. Quel con­flitto è diven­tato il modello di altre avven­ture bel­li­che come in Iraq, Afgha­ni­stan, Libia, Siria» e via dicendo.

Così, alla fine dav­vero è suo­nata appro­priata la stan­ding ova­tion di tutto il Par­la­mento appena Mat­ta­rella ha nomi­nato i «due marò». Certo, con­cor­diamo anche noi che due anni e mezzo di deten­zione senza pro­cesso sono insop­por­ta­bili, in India e sotto ogni giu­ri­sdi­zione. Ma come dimen­ti­care che que­sta dram­ma­tica vicenda è nella scia della scel­le­rata deci­sione bipar­ti­san del Par­la­mento che ha auto­riz­zato i mili­tari dello Stato ita­liano a fare da scorta a navi­gli pri­vati in difesa dei «pirati»; così indi­scri­mi­nata e poco mirata che abbiamo spa­rato, ucci­dendo due dimen­ti­cati pesca­tori indiani, in un’area, le coste del Kerala, dove la pira­te­ria non c’è. Soprat­tutto Mat­ta­rella ha fatto bene a rin­gra­ziare i tanti mili­tari morti nell’adempimento del loro dovere. Quei tanti marò di cui nes­suno parla, malati ter­mi­nali o morti per l’uranio impoverito.

Ora se la pre­si­denza Mat­ta­rella «pro­muo­verà la pace», sarà anche il Pre­si­dente dei paci­fi­sti. E ci aiu­terà a tirare fuori lo sche­le­tro della guerra dall’armadio delle demo­cra­zie occidentali

Il manifesto, 3 febbraio

«Par­ti­ranno attivi regio­nali dei dele­gati in tutte le regioni. Ini­zia l’Emilia venerdì, lunedì la Toscana, mar­tedì Cam­pa­nia, poi Pie­monte e Lom­bar­dia. Con­fer­miamo il giu­di­zio nega­tivo sui prov­ve­di­menti del governo, sia sugli ammor­tiz­za­tori sociali sia sul jobs act. Per noi resta cen­trale una vera riforma del fisco, con la lotta all’evasione e alla cor­ru­zione e un inter­vento sulle pen­sione». Mau­ri­zio Lan­dini, lea­der Fiom, alla fine della dire­zione del suo sin­da­cato annun­cia che le mobi­li­ta­zioni vanno avanti. «Renzi affronta male il tema del lavoro».

Però Renzi si è com­mosso quando ha par­lato del rien­tro degli ope­rai nell’Ast di Terni.
All’Ast di Terni i lavo­ra­tori hanno scio­pe­rato ad oltranza per­ché ave­vano rifiu­tato e boc­ciato una pro­po­sta di media­zione avan­zata dal governo. A Terni l’accordo è stato fatto gra­zie alla lotta dei lavo­ra­tori. Eviti di met­tere il mar­chio del governo su cose che non sono state il frutto suo lavoro.

Ma il jobs act è stato appro­vato e i sui decreti il par­la­mento ha un ruolo mar­gi­nale. Che farete?
Il 27 e il 28 feb­braio faremo l’assemblea nazio­nale dei dele­gati Fiom. Ci muo­ve­remo sia sul piano giu­ri­dico che sui con­tratti. Con il jobs act si con­ferma un apar­theid dei gio­vani assunti: ci bat­te­remo per­ché dopo un certo tempo siano garan­titi gli stessi tutele delli altri. Nei con­tratti azien­dali e in quelli nazio­nali. Sul piano legale valu­te­remo tutto quello che c’è da fare. Non esclu­diamo nulla. Apri­remo una con­sul­ta­zione straor­di­na­ria delle lavo­ra­trici e dei lavo­ra­tori metal­mec­ca­nici. Non esclu­diamo nem­meno un refe­ren­dum. E visto che sono temi che non riguar­dano solo i metal­mec­ca­nici ma anche i pre­cari, chi il lavoro non ce l’ha e chi si batte per la giu­sti­zia sociale, cer­che­remo di coin­vol­gere tutte le per­sone e le asso­cia­zioni che non con­di­vi­dono le scelte del governo.

È la nascita di un luogo per aggre­gare la sini­stra sociale?
La sini­stra o è sociale o non è, ed infatti è sotto gli occhi di tutti la crisi della sini­stra. Ma quando penso a una con­sul­ta­zione aperta vado oltre la sini­stra clas­si­ca­mente intesa. C’è un governo che decide senza tener conto del parere delle per­sone, dei sin­da­cati, delle asso­cia­zioni. Oggi il pri­mato della poli­tica che ammazza qual­siasi rap­pre­sen­tanza sociale. È utile che si costrui­sca una rete di rap­pre­sen­tanza sociale che a par­tire dal lavoro, dai beni comuni, da un nuovo modello di svi­luppo, dalla lotta con­tro le mafie, che esprima un altro punto di vista. Lo dico da un punto di vista sin­da­cale, ma anche di chi pensa che la demo­cra­zia che non rico­no­sce la par­te­ci­pa­zione non è demo­cra­zia ma comando.

Farete nascere una rete sociale, non solo sindacale?
Io fac­cio il sin­da­ca­li­sta. Ma un paese ormai la mag­gio­ranza non va a votare dovrebbe essere un segnale pre­oc­cu­pante per tutti.

La ’sinistra-sinistra’ la set­ti­mana scorsa, a Milano, ha lan­ciato un coor­di­na­mento. La sua pro­po­sta ha a che vedere con questo?
Ho rispetto per quello che avviene nel mondo poli­tico, e se ci sono pro­cessi di riag­gre­ga­zione li guardo con rispetto. La mia idea non è alter­na­tiva, ma è un’altra cosa. Siamo arri­vati al terzo governo che non risponde a pro­grammi che i cit­ta­dini hanno cono­sciuto e votato. C’è un par­la­mento che, nella sua mag­gio­ranza, ha can­cel­lato lo sta­tuto dei lavo­ra­tori, che poi era l’applicazione della Costi­tu­zione, e del diritto di cit­ta­di­nanza. Per que­sto dico che i valori del lavoro e della Costi­tu­zione non sono rap­pre­sen­tati: è più rap­pre­sen­tata la Con­fin­du­stria e l’idea libe­ri­sta e dell’austerità che imper­versa in Europa e che ha creato 25 milioni di disoc­cu­pati e messo a rischio la tenuta demo­cra­tica. Il governo Renzi ha appli­cato alla let­tera della Bce, come già prima Monti e Letta. Rispetto i par­titi, ma noi — Fiom e Cgil e il mondo che si è mosso con noi in que­sti mesi — dob­biamo dare una rap­pre­sen­tanza a un mondo che oggi non è rappresentato.

Ha apprez­zato la scelta del nuovo pre­si­dente Mattarella?
Se fossi stato in par­la­mento l’avrei votato. È un rife­ri­mento impor­tante sul piano etico, in un paese così sfi­du­ciato. È utile che al suo posto ì sieda chi ha a cuore la piena appli­ca­zione dei prin­cipi costituzionali.

La sini­stra Pd spera che ora cambi qual­cosa in parlamento.

Sono cose diverse. Non mi pare che il governo voglia ripri­sti­nare l’art.18 o can­cel­lare il jobs act, o modi­fi­care la legge elet­to­rale.

La sini­stra Pd con­ti­nuerà a con­tare poco?
Fin qui in par­la­mento non sono pas­sate cose di sini­stra. E que­sti prov­ve­di­menti, alla fine, in buona parte li hanno votati.

Sie­dono in par­la­mento molti ex sin­da­ca­li­sti Cgil, e molti hanno votato il jobs act.
Di fronte a que­ste cose non ho parole. Ognuno rispon­derà alla sua coscienza.

Non le chiedo se lei è lo Tsi­pras ita­liano. Ma Renzi incon­tra Tsi­pras. Che dovrebbe dirgli?
Quella di Tsi­pras è una novità: per la prima volta in libere ele­zioni un popolo elegge chi chiede di cam­biare i vin­coli euro­pei. La Fiom ha fatto pro­po­ste su come rimuo­vere il debito. Dob­biamo andare verso una forma di mutua­liz­za­zione, come hanno fatto gli Usa. La Bce dovrebbe fare un’operazione più impe­gna­tiva per libe­rare risorse da desti­nare agli inve­sti­menti. Nes­suno chiede che qual­cun altro paghi il suo debito. Ma, fac­cio un esem­pio, se uno paga un mutuo in più anni e gli inte­ressi li inve­ste per rilan­ciare la domanda, e se la Bce si rifor­masse per garan­tire que­sto, sarebbe un’altra sto­ria. L’Italia deve bat­tersi per­ché in Europa si apra que­sta discus­sione. Ini­ziando con il togliere il pareg­gio di bilan­cio in Costituzione.

Tsi­pras non rico­no­sce la Troika come inter­lo­cu­tore. Bene?
Tsi­pras è stato eletto dai greci. La Troika no.

Lei è stato soli­dale con Ser­gio Cof­fe­rati che ha lasciato il Pd. Non da Tsi­pras ita­liano, ma da osser­va­tore spe­ciale delle cose ita­liane, crede dav­vero che la sini­stra possa riaggregarsi?
Ho un grande rispetto per Ser­gio, per quello che ha fatto dalla Cgil in avanti. E quando uno come lui decide di lasciare il suo par­tito per ragioni eti­che è un fatto grave. Non è un suo poblema per­so­nale. Quando ho detto che l’etica è un pro­blema in que­sto paese dal Pd mi è stato rispo­sto male, ma chi mi ha rispo­sto così, il pre­si­dente del Pd (Mat­teo Orfini, ndr) oggi è com­mis­sa­rio della fede­ra­zione di Roma del Pd: evi­dente qual­che pro­blema di one­stà c’è. Non so cosa avverrà a sini­stra. Ma sic­come la mag­gio­ranza del paese deve lavo­rare per vivere, parlo di lavo­ra­tori ma anche degli impren­di­tori seri, que­ste per­sone hanno diritto di sen­tirsi rap­pre­sen­tate e di partecipare.

Pensa a un par­tito del lavoro?

No, io penso fare il sin­da­ca­li­sta. Ma certo le forme tra­di­zio­nali della poli­tica sono in crisi. C’è biso­gno di pen­sare a forme nuove di par­te­ci­pa­zione. Ma que­sto riguarda anche noi: c’è biso­gno di una riforma radi­cale anche del movi­mento sin­da­cale, Fiom e Cgil.

Camusso, la segre­ta­ria Cgil, è stata ’grande elet­trice’ di Ber­sani. Guar­dando al pas­sato, può non aver gio­vato al sindacato?
I sin­da­ca­li­sti sono per­sone e hanno diritto a essere iscritti a un par­tito e a fare poli­tica se vogliono. In gene­rale uno dei pro­blemi di que­sti anni è stata la scarsa auto­no­mia del sin­da­cato, a volte l’abbiamo pagata. Ma in que­sta ultima fase abbiamo recu­pe­rato la nostra auto­no­mia, e si vede dal suc­cesso delle mani­fe­sta­zioni. Ripeto, c’è biso­gno di una riforma demo­cra­tica anche del sindacato.

Que­sto vuol dire che non la si vedrà più alle ini­zia­tive dei partiti?
Vado dove mi invi­tano, destra cen­tro e sini­stra. Da sem­pre. Non ho tes­sere di par­tito e non dichiaro chi voto, ma è una mia scelta, rispetto chi ne fa altre. Fin­ché sono segre­ta­rio della Fiom rispondo gli iscritti, e nes­suno di loro deve sospet­tare che uso il ruolo che ho per fini diversi dal fare il segre­ta­rio gene­rale della Fiom

Il Fatto quotidiano online, 3 febbraio 2015

Rivolgo un saluto rispettoso a questa assemblea, ai parlamentari che interpretano la sovranità del nostro popolo e le danno voce e alle Regioni qui rappresentate. Ringrazio la Presidente Laura Boldrini e la Vice Presidente Valeria Fedeli. Ringrazio tutti coloro che hanno preso parte al voto.

Un pensiero deferente ai miei predecessori, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano, che hanno svolto la loro funzione con impegno e dedizione esemplari. A loro va l’affettuosa riconoscenza degli italiani. Al Presidente Napolitano che, in un momento difficile, ha accettato l’onere di un secondo mandato, un ringraziamento particolarmente intenso. Rendo omaggio alla Corte Costituzionale organo di alta garanzia a tutela della nostra Carta fondamentale, al Consiglio Superiore della magistratura presidio dell’indipendenza e a tutte le magistrature.

Avverto pienamente la responsabilità del compito che mi è stato affidato. La responsabilità di rappresentare l’unità nazionale innanzitutto. L’unità che lega indissolubilmente i nostri territori, dal Nord al Mezzogiorno. Ma anche l’unità costituita dall’insieme delle attese e delle aspirazioni dei nostri concittadini. Questa unità, rischia di essere difficile, fragile, lontana.

L’impegno di tutti deve essere rivolto a superare le difficoltà degli italiani e a realizzare le loro speranze. La lunga crisi, prolungatasi oltre ogni limite, ha inferto ferite al tessuto sociale del nostro Paese e ha messo a dura prova la tenuta del suo sistema produttivo. Ha aumentato le ingiustizie. Ha generato nuove povertà. Ha prodotto emarginazione e solitudine. Le angosce si annidano in tante famiglie per le difficoltà che sottraggono il futuro alle ragazze e ai ragazzi. Il lavoro che manca per tanti giovani, specialmente nel Mezzogiorno, la perdita di occupazione, l’esclusione, le difficoltà che si incontrano nel garantire diritti e servizi sociali fondamentali.

Sono questi i punti dell’agenda esigente su cui sarà misurata la vicinanza delle istituzioni al popolo. Dobbiamo saper scongiurare il rischio che la crisi economica intacchi il rispetto di principi e valori su cui si fonda il patto sociale sancito dalla Costituzione. Per uscire dalla crisi, che ha fiaccato in modo grave l’economia nazionale e quella europea, va alimentata l’inversione del ciclo economico, da lungo tempo attesa. E’ indispensabile che al consolidamento finanziario si accompagni una robusta iniziativa di crescita, da articolare innanzitutto a livello europeo. Nel corso del semestre di Presidenza dell’Unione Europea appena conclusosi, il Governo – cui rivolgo un saluto e un augurio di buon lavoro – ha opportunamente perseguito questa strategia.

Sussiste oggi l’esigenza di confermare il patto costituzionale che mantiene unito il Paese e che riconosce a tutti i cittadini i diritti fondamentali e pari dignità sociale e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza. L’urgenza di riforme istituzionali, economiche e sociali deriva dal dovere di dare risposte efficaci alla nostra comunità, risposte adeguate alle sfide che abbiamo di fronte.

Esistono nel nostro Paese energie che attendono soltanto di trovare modo di esprimersi compiutamente. Penso ai giovani che coltivano i propri talenti e che vorrebbero vedere riconosciuto il merito. Penso alle imprese, piccole medie e grandi che, tra rilevanti difficoltà, trovano il coraggio di continuare a innovare e a competere sui mercati internazionali. Penso alla Pubblica Amministrazione che possiede competenze di valore ma che deve declinare i principi costituzionali, adeguandosi alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie e alle sensibilità dei cittadini, che chiedono partecipazione, trasparenza, semplicità degli adempimenti, coerenza nelle decisioni.

Non servono generiche esortazioni a guardare al futuro ma piuttosto la tenace mobilitazione di tutte le risorse della società italiana. Parlare di unità nazionale significa, allora, ridare al Paese un orizzonte di speranza. Perché questa speranza non rimanga un’evocazione astratta, occorre ricostruire quei legami che tengono insieme la società. A questa azione sono chiamate tutte le forze vive delle nostre comunità in Patria come all’estero.

Ai connazionali nel mondo va il mio saluto affettuoso. Un pensiero di amicizia rivolgo alle numerose comunità straniere presenti nel nostro Paese. La strada maestra di un Paese unito è quella che indica la nostra Costituzione, quando sottolinea il ruolo delle formazioni sociali, corollario di una piena partecipazione alla vita pubblica. La crisi di rappresentanza ha reso deboli o inefficaci gli strumenti tradizionali della partecipazione, mentre dalla società emergono, con forza, nuove modalità di espressione che hanno già prodotto risultati avvertibili nella politica e nei suoi soggetti.

Questo stesso Parlamento presenta elementi di novità e di cambiamento. La più alta percentuale di donne e tanti giovani parlamentari. Un risultato prezioso che troppe volte la politica stessa finisce per oscurare dietro polemiche e conflitti. I giovani parlamentari portano in queste aule le speranze e le attese dei propri coetanei. Rappresentano anche, con la capacità di critica, e persino di indignazione, la voglia di cambiare. A loro, in particolare, chiedo di dare un contributo positivo al nostro essere davvero comunità nazionale, non dimenticando mai l’essenza del mandato parlamentare.

L’idea, cioè, che in queste aule non si è espressione di un segmento della società o di interessi particolari, ma si è rappresentanti dell’intero popolo italiano e, tutti insieme, al servizio del Paese. Tutti sono chiamati ad assumere per intero questa responsabilità. Condizione primaria per riaccostare gli italiani alle istituzioni è intendere la politica come servizio al bene comune, patrimonio di ognuno e di tutti. E’ necessario ricollegare a esse quei tanti nostri concittadini che le avvertono lontane ed estranee.

La democrazia non è una conquista definitiva ma va inverata continuamente, individuando le formule più adeguate al mutamento dei tempi. E’ significativo che il mio giuramento sia avvenuto mentre sta per completarsi il percorso di un’ampia e incisiva riforma della seconda parte della Costituzione. Senza entrare nel merito delle singole soluzioni, che competono al Parlamento, nella sua sovranità, desidero esprimere l’auspicio che questo percorso sia portato a compimento con l’obiettivo di rendere più adeguata la nostra democrazia. Riformare la Costituzione per rafforzare il processo democratico.

Vi è anche la necessità di superare la logica della deroga costante alle forme ordinarie del processo legislativo, bilanciando l’esigenza di governo con il rispetto delle garanzie procedurali di una corretta dialettica parlamentare.

Come è stato più volte sollecitato dal Presidente Napolitano, un’altra priorità è costituita dall’approvazione di una nuova legge elettorale, tema sul quale è impegnato il Parlamento.

Nel linguaggio corrente si è soliti tradurre il compito del capo dello Stato nel ruolo di un arbitro, del garante della Costituzione. E’ una immagine efficace.All’arbitro compete la puntuale applicazione delle regole. L’arbitro deve essere – e sarà – imparziale. I giocatori lo aiutino con la loro correttezza.

Il Presidente della Repubblica è garante della Costituzione. La garanzia più forte della nostra Costituzione consiste, peraltro, nella sua applicazione. Nel viverla giorno per giorno. Garantire la Costituzione significa garantire il diritto allo studio dei nostri ragazzi in una scuola moderna in ambienti sicuri, garantire il loro diritto al futuro.

Significa riconoscere e rendere effettivo il diritto al lavoro. Significa promuovere la cultura diffusa e la ricerca di eccellenza, anche utilizzando le nuove tecnologie e superando il divario digitale. Significa amare i nostri tesori ambientali e artistici. Significa ripudiare la guerra e promuovere la pace. Significa garantire i diritti dei malati. Significa che ciascuno concorra, con lealtà, alle spese della comunità nazionale. Significa che si possa ottenere giustizia in tempi rapidi. Significa fare in modo che le donne non debbano avere paura di violenze e discriminazioni.

Significa rimuovere ogni barriera che limiti i diritti delle persone con disabilità. Significa sostenere la famiglia, risorsa della società. Significa garantire l’autonomia ed il pluralismo dell’informazione, presidio di democrazia. Significa ricordare la Resistenza e il sacrificio di tanti che settanta anni fa liberarono l’Italia dal nazifascismo.

Significa libertà. Libertà come pieno sviluppo dei diritti civili, nella sfera sociale come in quella economica, nella sfera personale e affettiva. Garantire la Costituzione significa affermare e diffondere un senso forte della legalità. La lotta alla mafia e quella alla corruzione sono priorità assolute.

La corruzione ha raggiunto un livello inaccettabile. Divora risorse che potrebbero essere destinate ai cittadini. Impedisce la corretta esplicazione delle regole del mercato. Favorisce le consorterie e penalizza gli onesti e i capaci. L’attuale Pontefice, Francesco, che ringrazio per il messaggio di auguri che ha voluto inviarmi, ha usato parole severe contro i corrotti: «Uomini di buone maniere, ma di cattive abitudini».

E’ allarmante la diffusione delle mafie, antiche e nuove, anche in aree geografiche storicamente immuni. Un cancro pervasivo, che distrugge speranze, impone gioghi e sopraffazioni, calpesta diritti. Dobbiamo incoraggiare l’azione determinata della magistratura e delle forze dell’ordine che, spesso a rischio della vita, si battono per contrastare la criminalità organizzata. Nella lotta alle mafie abbiamo avuto molti eroi. Penso tra gli altri a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per sconfiggere la mafia occorre una moltitudine di persone oneste, competenti, tenaci. E una dirigenza politica e amministrativa capace di compiere il proprio dovere.

Altri rischi minacciano la nostra convivenza. Il terrorismo internazionale ha lanciato la sua sfida sanguinosa, seminando lutti e tragedie in ogni parte del mondo e facendo vittime innocenti. Siamo inorriditi dalle barbare decapitazioni di ostaggi, dalle guerre e dagli eccidi in Medio Oriente e in Africa, fino ai tragici fatti di Parigi.

Il nostro Paese ha pagato, più volte, in un passato non troppo lontano, il prezzo dell’odio e dell’intolleranza. Voglio ricordare un solo nome: Stefano Taché, rimasto ucciso nel vile attacco terroristico alla Sinagoga di Roma nell’ottobre del 1982. Aveva solo due anni. Era un nostro bambino, un bambino italiano.

La pratica della violenza in nome della religione sembrava un capitolo da tempo chiuso dalla storia. Va condannato e combattuto chi strumentalizza a fini di dominio il proprio credo, violando il diritto fondamentale alla libertà religiosa. Considerare la sfida terribile del terrorismo fondamentalista nell’ottica dello scontro tra religioni o tra civiltà sarebbe un grave errore.

La minaccia è molto più profonda e più vasta. L’attacco è ai fondamenti di libertà, di democrazia, di tolleranza e di convivenza. Per minacce globali servono risposte globali. Un fenomeno così grave non si può combattere rinchiudendosi nel fortino degli Stati nazionali. I predicatori d’odio e coloro che reclutano assassini utilizzano internet e i mezzi di comunicazione più sofisticati, che sfuggono, per la loro stessa natura, a una dimensione territoriale.

La comunità internazionale deve mettere in campo tutte le sue risorse. Nel salutare il Corpo Diplomatico accreditato presso la Repubblica, esprimo un auspicio di intensa collaborazione anche in questa direzione. La lotta al terrorismo va condotta con fermezza, intelligenza, capacità di discernimento. Una lotta impegnativa che non può prescindere dalla sicurezza: lo Stato deve assicurare il diritto dei cittadini a una vita serena e libera dalla paura.

Il sentimento della speranza ha caratterizzato l’Europa nel dopoguerra e alla caduta del muro di Berlino. Speranza di libertà e di ripresa dopo la guerra, speranza di affermazione di valori di democrazia dopo il 1989. Nella nuova Europa l’Italia ha trovato l’affermazione della sua sovranità; un approdo sicuro ma soprattutto un luogo da cui ripartire per vincere le sfide globali. L’Unione Europea rappresenta oggi, ancora una volta, una frontiera di speranza e la prospettiva di una vera Unione politica va rilanciata, senza indugio.

L’affermazione dei diritti di cittadinanza rappresenta il consolidamento del grande spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia. Le guerre, gli attentati, le persecuzioni politiche, etniche e religiose, la miseria e le carestie generano ingenti masse di profughi. Milioni di individui e famiglie in fuga dalle proprie case che cercano salvezza e futuro proprio nell’Europa del diritto e della democrazia. E’ questa un’emergenza umanitaria, grave e dolorosa, che deve vedere l’Unione Europea più attenta, impegnata e solidale. L’Italia ha fatto e sta facendo bene la sua parte e siamo grati a tutti i nostri operatori, ai vari livelli, per l’impegno generoso con cui fronteggiano questo drammatico esodo.

A livello internazionale la meritoria e indispensabile azione di mantenimento della pace, che vede impegnati i nostri militari in tante missioni, ¬ deve essere consolidata con un’azione di ricostruzione politica, economica, sociale e culturale, senza la quale ogni sforzo è destinato a vanificarsi.

Alle Forze Armate, sempre più strumento di pace ed elemento essenziale della nostra politica estera e di sicurezza, rivolgo un sincero ringraziamento, ricordando quanti hanno perduto la loro vita nell’assolvimento del proprio dovere. Occorre continuare a dispiegare il massimo impegno affinché la delicata vicenda dei due nostri fucilieri di Marina, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, trovi al più presto una conclusione positiva, con il loro definitivo ritorno in Patria.

Desidero rivolgere un pensiero ai civili impegnati, in zone spesso rischiose, nella preziosa opera di cooperazione e di aiuto allo sviluppo. Di tre italiani, padre Paolo Dall’Oglio, Giovanni Lo Porto e Ignazio Scaravilli non si hanno notizie in terre difficili e martoriate. A loro e ai loro familiari va la solidarietà e la vicinanza di tutto il popolo italiano, insieme all’augurio di fare presto ritorno nelle loro case.

Onorevoli Parlamentari, Signori Delegati, Per la nostra gente, il volto della Repubblica è quello che si presenta nella vita di tutti i giorni: l’ospedale, il municipio, la scuola, il tribunale, il museo. Mi auguro che negli uffici pubblici e nelle istituzioni possano riflettersi, con fiducia, i volti degli italiani:il volto spensierato dei bambini, quello curioso dei ragazzi. I volti preoccupati degli anziani soli e in difficoltà il volto di chi soffre, dei malati, e delle loro famiglie, che portano sulle spalle carichi pesanti. Il volto dei giovani che cercano lavoro e quello di chi il lavoro lo ha perduto. Il volto di chi ha dovuto chiudere l’impresa a causa della congiuntura economica e quello di chi continua a investire nonostante la crisi.

Il volto di chi dona con generosità il proprio tempo agli altri. Il volto di chi non si arrende alla sopraffazione, di chi lotta contro le ingiustizie e quello di chi cerca una via di riscatto. Storie di donne e di uomini, di piccoli e di anziani, con differenti convinzioni politiche, culturali e religiose. Questi volti e queste storie raccontano di un popolo che vogliamo sempre più libero, sicuro e solidale. Un popolo che si senta davvero comunità e che cammini con una nuova speranza verso un futuro di serenità e di pace.

Viva la Repubblica, viva l’Italia!

«Mat­ta­rella dun­que interpreterà il suo ruolo di capo dello stato in base ai pro­pri sen­ti­menti, alla sua sen­si­bi­lità. Senza vin­coli di man­dato, né doveri di rico­no­scenza. Avrà un unico fon­da­men­tale obbligo: farsi garante della Costi­tu­zione». Il manifesto, 3 febbraio 2015

L’elezione di Ser­gio Mat­ta­rella alla pre­si­denza della Repub­blica può essere con­si­de­rata una spia della neces­sità di tor­nare alla nor­ma­lità costi­tu­zio­nale, dopo tante forzature. Nulla più di un segnale, poi­ché può essere solo il nuovo inqui­lino del Qui­ri­nale a dare il senso della pro­pria pre­si­denza, sin dal discorso «pro­gram­ma­tico» che svol­gerà tra poche ore, il 3 feb­braio, al momento del giu­ra­mento, e poi nel corso della sua atti­vità per i pros­simi sette anni.

Cio­no­no­stante, sin d’ora, non pos­sono essere tra­scu­rati tre dati: il signi­fi­cato della scelta di una per­sona estra­nea alla più con­vulsa fase poli­tica domi­nata da con­ti­nue disin­vol­ture costi­tu­zio­nali; la fama di garante intran­si­gente della lega­lità costi­tu­zio­nale del pre­scelto; il venir meno della opzione Nazareno.

Sino a pochi giorni addie­tro si stava seguendo una strada molto diversa nella scelta del capo dello stato. Si era alla ricerca di una per­so­na­lità che garan­tisse i sog­getti poli­tici: il can­di­dato del Naza­reno, frutto dell’accordo tra Ber­lu­sconi e Renzi, ovvero, in alter­na­tiva a que­sto, una per­so­na­lità che ras­si­cu­rasse altre mag­gio­ranze pos­si­bili. S’era anche molto enfa­tiz­zata la neces­sità che il nuovo pre­si­dente fosse per­sona che potesse favo­rire i pro­fondi pro­cessi di riforma costi­tu­zio­nale, isti­tu­zio­nale e sociale in corso. Nulla di più lon­tano dallo spi­rito della costi­tu­zione, che esclude un capo dello stato al ser­vi­zio di una stra­te­gia poli­tica ovvero fau­tore del cam­bia­mento istituzionale.

Le stesse moda­lità adot­tate lascia­vano assai per­plessi. Quella sorta di con­sul­ta­zioni tra tutte le forze poli­ti­che svolte dal pre­si­dente del Con­si­glio presso la sede del par­tito di cui è segre­ta­rio, che rice­veva in rapida suc­ces­sione tutte le dele­ga­zioni dei par­titi, riflet­te­vano un’immagine sba­gliata: evo­ca­vano la prassi della nomina dei governi. Con una con­fu­sione dei ruoli tra pre­si­dente del Con­si­glio e della Repub­blica che rischiava di com­pro­met­tere la stessa legit­ti­ma­zione della scelta del futuro presidente.

Per for­tuna non è andata così. Mat­ta­rella non è uomo di garan­zia per nes­sun lea­der e non è legato a nes­suna for­mula poli­tica; men­tre le «con­sul­ta­zioni» dei gruppi par­la­men­tari e delle forze poli­ti­che si sono rive­late sostan­zial­mente inin­fluenti, puro spettacolo.

Non v’è dub­bio che l’artefice della scelta sia stato Mat­teo Renzi. Il quale ha ope­rato in base a valu­ta­zioni di natura stret­ta­mente poli­tica e con moda­lità del tutto infor­mali. Ognuno potrà valu­tare sul piano poli­tico o etico il com­por­ta­mento tenuto dal lea­der del Pd, quel che si vuole qui rile­vare sono due par­ti­co­lari aspetti.

Se si ha in mente il sistema d’elezione del capo dello stato (un organo di garan­zia che non viene scelto in base ad un pro­gramma, bensì intuitu per­so­nae) si com­prende che da sem­pre è la capa­cità di creare un gra­di­mento dif­fuso tra i grandi elet­tori l’arma vin­cente, non invece l’accordo tra lea­der. In fondo, la sto­ria dei 101 sta li a dimo­strarlo. Se ci si volge al più lon­tano pas­sato si con­ferma che la regola aurea delle ele­zioni pre­si­den­ziali sia stata costan­te­mente quella del con­senso otte­nuto dalla più estesa mag­gio­ranza par­la­men­tare pos­si­bile, al di là di ogni schie­ra­mento pre­de­fi­nito. In fondo, quando il pre­si­dente è stato eletto in prima bat­tuta con le più ele­vate mag­gio­ranze pre­vi­ste in costi­tu­zione (nei casi di Cos­siga e Ciampi) gli arte­fici del suc­cesso furono i due lea­der del par­tito di mag­gio­ranza rela­tiva del tempo (rispet­ti­va­mente De Mita e Vel­troni), i quali ope­ra­rono anch’essi in modo infor­male e in base alla logica del con­senso diffuso.

Oggi è stato Mat­teo Renzi a farsi pro­mo­tore dell’elezione del pre­si­dente. Un suo per­so­nale suc­cesso poli­tico, non avrebbe senso negarlo. Quel che però deve anche esser detto - il secondo aspetto che si vuole rile­vare - è che que­sto è stato reso pos­si­bile solo per­ché è stata scelta una per­so­na­lità che non è parte del sistema poli­tico e di potere del segre­ta­rio del par­tito di mag­gio­ranza rela­tiva, tan­to­meno della sua cer­chia. Anche que­sto fa parte del gioco. Nei casi pre­ce­den­te­mente richia­mati, né Cos­siga era demi­tiano, né Ciampi era vel­tro­niano. Di più, una volta eletti, entrambi i pre­si­denti hanno ope­rato non certo per sal­va­guar­dare le poli­ti­che dei loro king­ma­ker, ma in rap­pre­sen­tanza dell’unità nazio­nale (tra­la­sciamo qui l’anomalia dell’ultimo bien­nio di Cos­siga, per non com­pli­care il discorso). La rinun­cia a pro­porre una per­so­na­lità esclu­si­va­mente gra­dita alla pro­pria parte si rivela, per­tanto, come la con­di­zione del suc­cesso, da ultimo anche per Renzi.

Mat­ta­rella dun­que inter­pre­terà il suo ruolo di capo dello stato in base ai pro­pri sen­ti­menti, alla sua sen­si­bi­lità. Senza vin­coli di man­dato, né doveri di rico­no­scenza. Avrà un unico fon­da­men­tale obbligo: farsi garante della costi­tu­zione. Una costi­tu­zione spesso disin­vol­ta­mente disat­tesa dal sistema poli­tico. Ed è per que­sto che oggi avremmo un gran biso­gno di un custode riser­vato nei modi e intran­si­gente nella sostanza.

Tra poche ore pren­derà la parola di fronte al Par­la­mento. Auguri a noi. Auguri Presidente.

La Repubblica, 3 febbraio 2015

PARAFRASANDO Marshall McLuhan: il “look” è il messaggio. Lo hanno capito il premier greco Alexis Tsipras e il suo ministro delle Finanze Yanis Varoufakis. Nella loro tournée europea hanno attirato l’attenzione anche per il guardaroba casual. Varoufakis senza cravatta, la camicia fuori dai pantaloni e il giaccone a Downing Street, di fronte al collega inglese molto formale, la dice lunga sulla volontà greca di non rispettare nessuna convenzione.

È un metodo già padroneggiato da Marchionne (golf in mezzo agli smoking), da Renzi (camicia sbottonata), e prima di loro dagli americani: Mark Zuckerberg con le sue T-shirt da surfista sintetizza lo spirito della Silicon Valley; Barack Obama con le sue corse in salita sulla scaletta dell’Air Force One incarna il salutismo per una generazione di maratoneti.

Dietro lo scompiglio dell’etichetta ce n’è uno più sostanziale. Oggi Tsipras arriva in Italia in una giornata particolare, con il discorso inaugurale del nuovo presidente della Repubblica. Guai però se passasse inosservato il premier greco: indossi pure bretelle rosse e All Star se serve ad attirare l’attenzione. Sullo scenario “Grexit” — la possibile uscita della Grecia dall’unione monetaria — si sta giocando una partita delicatissima. E fin qui sottovalutata. Annegata fra i tecnicismi sulla rinegoziazione dei debiti di Atene, i diktat della troika (Commissione Ue, Bce, Fondo monetario) e le condizioni di Draghi per erogare liquidità d’emergenza.

Un acuto osservatore tedesco come Wolfgang Munchau sul Financial Times descrive il pericolo che incombe sull’eurozona. La Germania si è convinta che Tsipras può essere snobbato, «perché un’uscita della Grecia dall’euro sarebbe una calamità per la Grecia, uno shock minore per l’eurozona, e un non-evento per l’economia globale». Poiché la storia è piena di incidenti imprevisti, il rischio è che si stia ripetendo l’errore-Lehman che fu all’origine del crac sistemico nel 2008. La Lehman Brothers era una banca relativamente piccola, lasciarla fallire poteva essere una lezione salutare per le altre, senza conseguenze per l’economia. Le cose sono andate diversamente. La banca era piccola, sì, ma legata da mille fili invisibili che risucchiarono la finanza mondiale verso il baratro. L’errore di calcolo costò caro. Di fronte alla noncuranza tedesca, sembra più lucido il cancelliere dello Scacchiere inglese, quello che portava la cravatta all’incontro con Varoufakis: la tensione fra Atene e l’eurozona secondo lui «è il più grave rischio che oggi fronteggia l’economia globale».

Dietro il look scapigliato dei suoi nuovi dirigenti, la piccola Grecia ha tanti difetti ma anche un grosso merito. Il difetto più grave è l’assenza di un patto di cittadinanza, di un contratto sociale rispettato, di una cultura delle regole: se nel 2011 i parlamentari di Atene fecero notizia perché trasferivano i risparmi in Svizzera, due settimane fa la vittoria elettorale di Syriza è stata preceduta da un’evasione fiscale in massa, un segnale di “liberi tutti” che lascia sgomento lo scrupoloso contribuente tedesco. Ma il governo Tsipras ha messo la lotta all’evasione in testa alla sua agenda e ha diritto a un’apertura di credito. Il suo merito maggiore: si presenterà anche scravattato, ma sta dicendo che il Re, che si crede elegantissimo, è nudo (o la Regina Merkel). Quando Varoufakis chiede ai partner europei se vogliono «una Grecia riformata oppure deformata » dalle terapie mortali dell’austerity, parla lo stesso linguaggio di Obama. Il presidente americano in un’intervista alla Cnn ha detto che la Grecia «ha bisogno di una strategia di crescita», dopo anni di tagli e salassi che hanno amputato del 25% il suo reddito nazionale. «La nostra esperienza americana — ha detto Obama — insegna che la via maestra per ridurre i deficit e risanare i conti pubblici, è la crescita». Dall’alto di cinque anni e mezzo di ripresa, può permettersi di darci questa lezione.

È sconcertante la deriva fondamentalista del pensiero economico nelle capitali europee che contano: Berlino, Bruxelles. Gli ayatollah dell’austerity non hanno bisogno di confrontarsi con i fatti — che dimostrano la follia delle loro ricette — proprio come i sacerdoti di una religione ottusa e feroce. A nulla è servito che l’America abbia fatto l’esatto contrario, con effetti benefici. Ben vengano le provocazioni greche, di stile e di sostanza, se dovessero svegliare un continente dal torpore mortale.

Il Fatto Quotidiano, 2 febbraio 2015 (m.p.r.)

Questo controllo del voto adottato dai partiti è un esempio di cattiva politica. Sulla scheda si dovrebbe scrivere solo il cognome del ”candidato”. Il giorno dopo l’elezione di Sergio Mattarella, il professor Gianfranco Pasquino, politologo ed ex senatore dei Ds, condanna il fenomeno dei voti cifrati, che sabato l’ha fatta da padrone nel conteggio delle schede. Voti “firmati” in cui si sono contati i partiti e le correnti al loro interno, come i giovani turchi del Pd. Ma anche i consensi azzurri giunti in soccorso al nuovo capo dello Stato.


Professore, ha visto: “Mattarella”, “Sergio Mattarella”, “Mattarella S.”, ecc…?
Paradossalmente le dico che, visti i famosi 101 traditori di Romano Prodi, forse è meglio così. Per lo meno c’è più trasparenza. In realtà, il fatto che i partiti e i parlamentari usino questo sistema per controllarsi a vicenda è sgradevole e poco edificante. Lo accetto, ma prendo atto dell’incapacità dei parlamentari di assumersi le loro responsabilità. È una brutta politica che, però, in questo caso ha dato buoni frutti, perché Mattarella è il miglior presidente possibile nelle circostanze date.

Il fenomeno dei voti riconoscibili non vìola la Costituzione, che parla di voto segreto?
Si dovrebbe cambiare il regolamento e obbligare a scrivere solo il cognome. Detto questo, non vìola la Costituzione perché il voto non è riconducibile al singolo parlamentare, ma al massimo a gruppi di deputati o senatori.

È giusto su alcune votazioni mantenere il voto segreto?
Assolutamente sì, perché va difesa la libertà del parlamentare, che deve poter votare secondo coscienza. In questo caso difendo il diritto dei forzisti di dare il voto a Mattarella contro l’indicazione di Berlusconi. Inoltre, il voto segreto tutela il votante nei confronti del votato. Il quale, una volta eletto, e dalla sua posizione di potere, potrebbe in qualche modo vendicarsi. Ma le voglio raccontare un aneddoto.

Prego.
Nel 1994, quando ero senatore, a Palazzo Madama si doveva eleggere il presidente. Carlo Scognamiglio prevalse per un voto su Giovanni Spadolini, con una scheda contestata in cui c’era scritto “ScognaMIGLIO”. Tra l’altro, senatore all’epoca era anche il professor Gianfranco Miglio. Era chiaramente una scheda “firmata”. Che fu ritenuta valida permettendo a Scognamiglio di essere eletto.

Parliamo dell’elezione. Forza Italia ha contestato il metodo di Renzi…
Il metodo è stato assolutamente trasparente. Sia da parte di Renzi, che ha indicato Mattarella. Sia da parte di Berlusconi, che ha scelto di votare scheda bianca. Le obiezioni del leader di Forza Italia sono fuori luogo. Se il premier avesse proposto una rosa di nomi, avrebbe concesso all’ex Cavaliere, che sta all’opposizione, di scegliere il capo dello Stato. Le sembra giusto?

Dopo l’elezione di Mattarella, il patto del Nazareno continuerà?
Innanzitutto credo che il patto non contenesse il nome del capo dello Stato, ma il fatto di discuterne. Il Nazareno è al capolinea non per i fatti di questi giorni, ma perché ha già dato tutto quello che doveva dare: le riforme istituzionali e la legge elettorale. Si è, come dire, esaurito.

L’Italicum arriverà a breve al vaglio del Quirinale...
Oltre ad avere la solida cultura politica della sinistra diccì, Mattarella dà garanzia di autonomia e indipendenza, anche rispetto a Renzi. Quando dovrà dire dei no, lì dirà, ma non in maniera rumorosa e senza rompere il delicato equilibrio tra le istituzioni. Vedremo come si comporterà nel giudicare una legge elettorale nettamente inferiore alla sua.

Quanto durerà la ritrovata unità nel Pd?
Il premier ha fatto bene a ricompattare il partito su una scelta importante come quella del capo dello Stato. Ora dipenderà dalle scelte del governo. Non credo che le diverse minoranze del Pd faranno sconti a Renzi perché è stato eletto Mattarella…

Professore, il suo giudizio su Renzi è migliorato?

Io rimango antropologicamente anti renziano. Non mi piace il suo modo di fare e non mi piace il lessico mediocre. Ho sempre apprezzato, invece, la sua sfida alla vecchia classe dirigente del Pd. Alla cosiddetta “ditta”. Il premier è un abile equilibrista. Bisogna però dargli atto che finora è riuscito a ottenere tutto quello che voleva e ha inanellato una serie di successi non marginali. Tra cui l’elezione di Mattarella.
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