Sbilanciamoci.info, 10 febbraio 2015
La questione greca assume la valenza soprattutto politica di un banco di prova per le possibilità del progetto europeo di andare avanti o di tornare indietro. La “questione greca” emersa dopo le recenti elezioni vinte da Syriza richiama l’attenzione anche sulle relazioni tra economia e politica e fa capire che se negli ultimi anni la prima ha preso il sopravvento sulla seconda, la spiegazione non sta solo nell’egemonia assunta dal neoliberismo, ma anche nella minore capacità della politica di fare la propria parte.
Rispetto a quando si verificò la prima crisi greca, oggi l’Unione europea è finanziariamente molto più protetta da una rete di strumenti specifici ideati dalla tecnocrazia per sostenere i paesi in carenza di liquidità (i fondi ESM ed EFS, i prestiti a lungo termine LTRO della BCE, i suoi acquisti di titoli di stato OMT, le misure non convenzionali come il QE); ma, più in generale, è stata decisiva la forte presa di posizione espressa nel 2012 dal presidente della BCE Mario Draghi nel suo famoso discorso del “wathever it takes” (“la BCE è pronta a fare tutto il necessario per preservare l'euro. E credetemi, sarà sufficiente”). Tuttavia, a riprova delle cause strutturali della crisi che riguardano l’economia reale e l’assetto politico-istituzionale della costruzione europea, nei paesi dell’UE, e in particolare dell’Area Euro, persiste una grave condizione recessiva che ha ridotto non solo il reddito effettivo, ma anche quello potenziale. Le recenti previsioni di una pur modesta ripresa della crescita nel 2015 e nel 2016 sono labili e non più credibili di quelle sistematicamente smentite negli anni passati proprio perché gli organismi intergovernativi e i responsabili politici dell’Unione poco o nulla stanno facendo sul versante strutturale della crisi.
Tra le cause della specificità negativa dalla crisi in Europa e delle perplessità sulla sua evoluzione c’è il disegno politico della Germania di estendere a livello continentale il suo tradizionale modello di crescita guidato dall’austerità interna e dalle esportazioni che nei due passati decenni ha accentuato il perseguimento della competitività di prezzo, del contenimento dei salari, dei bassi consumi interni e dell’avanzo commerciale. Quel modello è miope poiché non valorizza l’innovazione e i connessi vantaggi comparati del sistema produttivo europeo storicamente fondati sulla conoscenza e sulle elevate condizioni sociali favorite dai nostri più sviluppati sistemi di welfare; i quali non sono un costo - come da qualche decennio viene sostenuto anche in Europa, cedendo politicamente alla vulgata neoliberista - ma uno strumento e una caratteristica del nostro sviluppo. Quel modello, oltre a peggiorare l’iniquità e le divisioni sociali connesse all’aggravarsi delle diseguaglianze degli ultimi decenni, diventerebbe ancor più insostenibile se esteso all’intera Unione: un persistente ed elevato avanzo commerciale dell’intera UE come da anni accade in Germania implicherebbe uno squilibrio nei rapporti internazionali più grave di quello che ha alimentato la crisi globale esplosa nel 2008.
Rispetto a questi problemi e alle prospettive incerte dell’UE, la “questione greca”, da un lato, ha dimensioni economiche relativamente molto modeste (il Pil greco è l’1,5% di quello dell’UE e il 2% di quello dell’Area Euro) e potrebbe indurre erroneamente a sottovalutarla; d’altro lato, assume la valenza soprattutto politica di un banco di prova per le possibilità del progetto europeo di andare avanti o di tornare indietro. Questo secondo aspetto è il più rilevante e lo diventa ancor più se si considera l’evoluzione in corso del contesto internazionale resa preoccupante dal confronto tra USA, paesi europei e Russia sui rapporti di quest’ultima con l’Ucraina; l’indebolimento della costruzione europea alimenterebbe la diversità degli interessi e delle singole posizioni nazionali e non aiuterebbe la stabilizzazione degli equilibri complessivi.
Finora il nuovo governo di Atene e la BCE hanno fatto ciascuno la propria parte seguendo percorsi non sorprendenti. Il primo ha opportunamente denunciato agli altri paesi dell’UE gli aspetti iniqui e controproducenti delle condizioni imposte alla Grecia per il suo cosiddetto salvataggio nella prima crisi, evidenziando anche l’incongruità istituzionale della Troika che non è certo un organismo dell’UE. Le richieste di ricontrattazione - non di ripudio - del debito e dei rapporti con i creditori sono coerenti con la più complessiva necessità di rivedere la visione politica dominante nell’Unione, una revisione che è indispensabile per la stessa sopravvivenza del progetto d’unificazione europea il quale è sempre stato e rimane l’obiettivo del neo capo di governo Tsipras.
D’altra parte, almeno negli ultimi tempi, la BCE ha spesso ricordato che con le funzioni di politica monetaria che le sono assegnate non può sopperire più di tanto alle responsabilità degli organismi politici dell’UE e dei governi dei paesi membri rispetto alla crescita e al consolidamento del progetto europeo. Il comunicato della BCE sull’incontro tra Draghi e Varoufakis, dopo aver specificato che non è nelle possibilità della banca rivedere un programma concordato dal precedente governo greco con i creditori internazionali, ha precisato che il Presidente “ha chiarito il mandato istituzionale della banca e sollecitato il nuovo Governo a confrontarsi in modo costruttivo e rapido con l’Eurogruppo per assicurare la continuazione della stabilità finanziaria”. Insomma, questa volta (anche se non sempre è stato così), a ciascuno le proprie funzioni e adesso la parola va alla politica con le riunioni previste nei prossimi quindici giorni dell’Eurogruppo, del Ecofin e del Consiglio europeo.
E’ giunto il momento che anche i responsabili delle decisioni politiche dicano e dimostrino con azioni concrete ed efficaci che vogliono e sapranno realizzare la costruzione dell’Unione europea “whatever it takes”, a cominciare dalla soluzione della questione greca che rappresenta un’occasione decisiva per gli organismi comunitari d’invertire le politiche controproducenti finora seguite e di non farsi travolgere dalle tattiche di contrattazione dei governi nazionali.
Il manifesto,12 febbraio 2015 (m.p.r.)
Dopo la strage dei gommoni, parlare di fatalità sarebbe osceno. Basta ricordare che dall’ottobre scorso si sono moltiplicati gli ammonimenti europei a salvare meno migranti possibile, soprattutto in aree lontane dai limiti dell’“Operazione Triton” (trenta miglia marine). Ha cominciato il governo Cameron, sostenendo che i salvataggi avrebbero incentivato l’immigrazione clandestina. Ha continuato a dicembre un capo operativo di Frontex, di nome Klaus Rosler, già dirigente della polizia bavarese (ma chi li sceglie questi tomi?), secondo il quale l’Italia è di manica troppo larga con gli stranieri che si avventurano in mare. L’Europa non vuole spendere per salvare vite umane e quindi migliaia e forse decine di migliaia di migranti potrebbero annegare con l’arrivo della buona stagione: questa è la banale verità, che contrasta con le affermazioni roboanti di Alfano, quanto l’operazione Triton (ma chi avrà escogitato un nome così idiota?) ha sostituito Mare Nostrum (altra bella siglia!), che era dotata di mezzi molto più consistenti.
Solo Cameron o un poliziotto bavarese può credere o far credere che la prospettiva di annegare convinca gente del Mali, del Pakistan, dell’Eritrea, o di altri cento luoghi in cui si muore di fame o di guerra, a restare ad agonizzare a casa loro. Solo una tremenda, colossale ottusità, o qualcosa di infinitamente peggiore, può motivare quest’atteggiamento di chiusura verso le ragioni di una minima umanità e delle leggi del mare. Noi immaginiamo la disperazione dei nostri marinai che si sono visti morire assiderati, accanto a sé, ragazzi che si sarebbero potuti salvare se solo l’operazione Triton avesse previsto l’invio di navi più grandi a occorrere i gommoni. Noi sappiamo, perché l’hanno detto a destra e manca, che i nostri pescatori e la nostra gente di mare non dorme la notte al pensiero di quelli che sono annegati, annegano e annegheranno al di là dei limiti previsti dall’agenzia Frontex e dall’operazione Triton, che Dio le maledica entrambe.
E qui si misura come l’ottusità e la miopia dell’Europa bottegaia si siano tramutate in delitti contro l’umanità. I sopravvissuti della strage dei gommoni hanno dichiarato che sono stati imbarcati sotto la minaccia delle armi dai miliziani in Libia. E questo non sorprende proprio, vista la situazione che il genio politico di Cameron, Sarkozy, Obama, per non tacere di Berlusconi hanno creato dalle parti di Tripoli, Derna e Bengasi. Ora, ignorare le conseguenze umane delle proprie insensate politiche è il principale tratto che accomuna l’accozzaglia di stati egoisti che va sotto il nome di Unione europea. Pensate solo alla povertà in Grecia, ai bambini senza latte, alla svendita delle infrastrutture di un intero paese che doveva essere punito per essersi indebitato. Un paese, la Grecia, il cui Pil rappresenta il 2 per cento di quello europeo e il cui debito potrebbe essere condonato senza danni per la Ue!
Ma dietro l’indifferenza per le sorti dei greci e dei migranti che si avvieranno verso la morte c’è ormai un disprezzo assoluto, conclamato, trionfale per il diritto che un tempo si sarebbe chiamato delle genti. I soldi europei devono restare nelle banche, e non spesi per salvare vite umane, questo è il messaggio di Frontex, di Cameron, della troika, di Merkel, di Herr Rosler e di tutti quelli che si inchinano davanti alle ragioni dei più forti e dei più ricchi.
Sarebbe questa la “civiltà europea” (parole di Renzi) per cui sono morte decine di milioni di esseri umani nella seconda guerra mondiale?
Il manifesto, 12 febbraio 2015 (m.p.r.)
Più che di ingegneria finanziaria, l’Eurogruppo straordinario di ieri sera era alla ricerca di un’ingegneria linguistica, per evitare a tutti i contendenti di perdere la faccia e far trionfare la ragione dopo quindici giorni di scontri verbali sempre più violenti. Nei fatti, si va verso un’accettazione da parte di Atene di un’«estensione tecnica» del piano attuale di «aiuti» fino a fine agosto, per preparare un «accordo olimpico» di 4 anni.
Ieri, è entrata in vigore la decisione della Bce, annunciata il 4 febbraio scorso, di chiudere uno dei rubinetti della liquidità per le banche greche (Francoforte non accetta più in «garanzia» le obbligazioni greche) e tra due settimane, cioè quando scade il secondo piano di aiuti alle Grecia (130 miliardi), Atene sarà di fronte allo spettro del Grexit e del default, in mancanza di un accordo: dovrebbe rimborsare 3 miliardi di euro all’Fmi a marzo e 7 miliardi alla Bce quest’estate. La Bce ha in mano l’arma atomica, perché, in caso di non accordo, potrebbe anche bloccare l’Ela alla Grecia, cioè la liquidità di emergenza.
L’obiettivo degli incontri di questi giorni - dopo l’Eurogruppo dei 19 dell’euro ieri, oggi c’è il Consiglio dei capi di stato e di governo Ue e lunedì 16 un altro Eurogruppo – è arrivare a un accordo-quadro che dia il tempo di trovare una via d’uscita per evitare che la Grecia vada contro un muro e che per l’euro si apra un periodo di pericolosa incertezza.
I contendenti sono arrivati a Bruxelles con posizioni decise: Alexis Tsipras, nel discorso della fiducia ad Atene martedì, ha affermato che la Grecia «non chiederà un prolungamento del piano di aiuti». La Germania, capofila degli ortodossi, ha ribattuto che «non ci sarà un nuovo programma» e, ha precisato il ministro delle finanze Wolfgang Schäuble, se la Grecia non accetta il versamento dell’ultima tranche (7,2 miliardi) nel quadro del programma di «aiuti» in corso, «è finita». Per la Germania, Atene deve comunque passare per la troika, che Tsipras non vuol più vedere all’orizzonte.
Pierre Moscivici, commissario agli Affari economici e monetari, non esclude una soluzione ponte: «La Grecia deve estendere il programma per avere il tempo di trovare una soluzione di ampio respiro». Per Schäuble il 16 è la deadline visto che il 28 scade il programma di aiuti e, se ci sarà un nuovo accordo, alcuni parlamenti lo dovranno votare (Germania, Finlandia). Il presidente dell’Eurogruppo, l’olandese Jeroen Dijsselbloem, ha ribadito che «eventuali modifiche devono essere in linea con gli accordi esistenti con i creditori internazionali di Atene».
Il piano presentato ieri dal ministro dell’economia Yanis Varoufakis è stato concepito con l’aiuto dell’Ocse. Il segretario generale, Angel Gurria ieri era ad Atene, e Tsipras potrebbe venire a Parigi ben presto. Ma Gurria ha un po’ gelato le speranze greche, precisando che non sarà l’Ocse «a verificare i conti», cioè che l’organizzazione non si sostituirà alla troika per «il monitoraggio».
Il piano in quattro punti di VAroufakis è un progetto di ingegneria finanziaria per alleggerire il peso del debito «insostenibile» (175% del Pil), la Grecia accetterebbe di applicare il 70% delle riforme imposte dalla troika, mentre il 30% restante, quelle definite «tossiche» da Varoufakis, saranno sostituite da un impegno concepito assieme all’Ocse, una decina di misure che comprendono la lotta all’evasione fiscale, alla corruzione e al clientelismo, che minano l’economia greca. La Grecia chiede poi una revisione al ribasso del diktat sull’avanzo primario dal 3% all’1,49%, per poter avere la possibilità di rispettare gli impegni elettorali presi con la popolazione, ed affrontare la «crisi umanitaria» con interventi contro la povertà. Per poter mettere in atto un «nuovo contratto» che deve ancora venire precisato e che permetta di uscire dall’austerità, Atene ha bisogno infine di un programma-ponte per evitare il default, che copra sei mesi, fino al 1° settembre. «Un errore», avverte Schäuble. La Grecia vorrebbe rinunciare ai 7,2 miliardi dell’ultima tranche per sfuggire alle grinfie della troika ma chiede di recuperare subito 1,9 miliardi dalla Bce a titolo di interessi maturati sulle obbligazioni greche. Inoltre, chiede anche che la Bce aumenti di 8 miliardi la capacità del paese ad emettere buoni del Tesoro, oltreché l’accesso a 11 miliardi del Fondo ellenico di stabilità finanziaria.
Ad avvelenare il clima ha contribuito la richiesta greca alla Germania di pagare «indennizzi di guerra», che la Corte dei conti greca valuta a 162 miliardi di euro. Subito è arrivato il nein tedesco (dopo l’accordo del ’53, nel ’60 c’è stato il versamento di 115 milioni di marchi alla Grecia e nel ’90 il trattato 2+4, approvato dalla Grecia, avrebbe chiuso il caso).
Tsipras gioca anche la carta russa (oggi è a Mosca il ministro degli esteri, Nikos Kotzias e Sergei Lavrov ha promesso «aiuti finanziari se tale richiesta arriverà», usando i problemi Atene nel confronto sull’Ucraina) e cinese (il premier Li Keqiang ha invitato Tsipras a Pechino).
La strage nel Mediterraneo prosegue. Pochi, nel Primo mondo, se ne fanno carico cominciando col ricordare le pesanti responsabilità degli USA e dell’Europa nel produrre e alimentare le la politica di saccheggio del Terzo mondo e, nei decenni più vicini, alla distruzione degli equilibri politici sella sponda meridionale del Mediterraneo: quindi le responsabilità che ne conseguono. Le stesse guerre che dilaniano i paesi della “Mezzaluna fertile sono il prodotto delle politiche degli stati del Nordatlantico. Noi siamo i principali colpevole, a noi tocca individuare le soluzioni appropriate, nel breve e nel lungo periodo.
Restaurare "Mare nostrum"
«Le notizie dal Mediterraneo sono tragiche: fra 300 e 400 morti, come nel 2013 a Lampedusa”, ha detto Barbara Spinelli intervenendo nella seduta plenaria di Strasburgo dedicata alla discussione sull’agenzia europea Frontex e sull’EASO.
«Ormai i fatti parlano da sé, afferma: la fine di “Mare Nostrum” produce ancora una volta disastri umanitari, e la missione Frontex che era stata descritta come risolutiva – mi riferisco a "Triton" – si rivela quella che è: una falsa sostituzione, e un fallimento radicale. È il motivo per cui non ritengo, nelle presenti circostanze, che Frontex debba ricevere ulteriori risorse: a dispetto di regolamenti troppo vaghi e non applicati, il suo compito è esclusivamente il pattugliamento delle frontiere, non la ricerca e il salvataggio di fuggitivi da guerre e caos che s’estendono anche per nostra responsabilità.
«Frontex mette addirittura in guardia il governo italiano, ricordando che i soccorsi da lei coordinati sono vietati oltre le 30 miglia dalla costa, ha continuato l’eurodeputata del GUE-NGL I naufragi di questi giorni sono tutti avvenuti in alto mare, presso le coste libiche. Dove appunto operava" Mare Nostrum". La verità è che “Mare Nostrum”, nonostante le dichiarazioni delle autorità europee e italiane, non è mai stato sostituito.
«Due cose dovremmo a questo punto chiedere, come Parlamento», ha concluso l’onorevole Spinelli. »Primo: che Frontex non opponga ostacoli, quando è chiamata a soccorrere oltre le 30 miglia. Secondo: che l’Europa si decida a sostenere finanziariamente la restaurazione di missioni come Mare Nostrum. Sia l’Alto Commissariato dell’Onu, sia il Consiglio d’Europa, hanno dichiarato che Triton ‘non è all’altezza’. Cosa aspettiamo per far sentire la nostra opinione? Ha detto il presidente del Senato italiano, Pietro Grasso: ‘Agire ora è già troppo tardi’».
Il manifesto, 11 febbraio 2015
A due settimane dalla vittoria elettorale di Syriza i termini dello scontro tra il nuovo Governo greco e l’Unione Europea si delineano con chiarezza. Non è solo scontro tra dottrine e politiche economiche diverse: una favorevole alla spesa pubblica, l’altra attaccata all’austerity. E meno che mai un confronto tra euro sì ed euro no. In questa vicenda l’economia ha ceduto il posto alla politica; anzi, a un puro rapporto di forze.
Non è nemmeno, anche se così ci avviciniamo al nucleo del contendere, un confronto tra una politica che mette al centro le persone e una politica incentrata sul denaro. In gioco c’è l’accettazione o il rifiuto del dominio incontrastato di chi ha il denaro su chi denaro non ne ha: quel dominio che Marx chiama Capitale, ben sapendo che esso è un rapporto sociale, le cui poste sono la ripartizione del reddito tra salari e profitti (nelle loro varie forme), modi e tempi del lavoro, accesso ai servizi sociali, appropriazione di tutto l’esistente: risorse naturali, vita associata, servizi pubblici, sapere, genoma, salute.
Il problema non è se la Grecia restituirà o no il debito che i suoi governanti hanno contratto per suo conto, come cercano di farci credere gli apologeti della finanza, spiegandoci che a pagare per i Greci rischiamo di essere noi. È chiaro che quel debito «i Greci» non lo pagheranno mai: non hanno il denaro per farlo ora; non lo avranno nemmeno in futuro; per almeno una generazione. Lo sanno tutti. Ma a chi tiene i cordoni della borsa questo non interessa: basta che quel debito sia registrato nelle scritture contabili e che tutti - creditori e debitori - si inchinino di fronte al suo potere. Perché è con quelle scritture contabili che gli «gnomi» della finanza possono mandare in rovina, in 24 ore, un intero popolo per diverse generazioni. Se e finché quel potere verrà loro riconosciuto. Ma disconoscerlo non è facile. E mette paura. Soprattutto se a disconoscerlo si rimane da soli.
Anche il confine tra creditori e debitori, peraltro, è tutt’altro che netto. Prendete l’Italia. Ufficialmente è creditrice della Grecia per 40 miliardi, prestati attraverso il, Bce, Fmi e Fondo salva-stati. Peccato che per prestare quel denaro alla Grecia con il Fondo salva-stati, il nostro paese si sia indebitato di altrettanti miliardi, andati ad aggiungersi alla montagna del suo debito pubblico: tanto grande da metterla a rischio di fare la stessa fine della Grecia. Ma è così per tutti: il debito è come una serie di scatole cinesi, una dentro l’altra, di cui, soprattutto in Europa - dove non esiste più una Banca centrale «prestatore di ultima istanza» - non si intravede la fine.
Chi detiene il debito dell’Italia? Banche, assicurazioni e fondi speculativi (più qualche piccolo risparmiatore). Ma banche e speculatori hanno acquistato quel debito facendo altri debiti. E questi chi li detiene? Altre banche, altri fondi, altri speculatori. E così di seguito, fino a che non si incappa in un pugno di riccastri (l’1 per cento - o forse per mille - della popolazione mondiale) che non sarebbero mai diventati tali senza essere ben inseriti in questo marchingegno; e in un esercito di polli pronti per essere spennati. Che, per svolgere normali attività di compravendita, o per garantirsi cure mediche, vecchiaia e istruzione, hanno affidato i loro risparmi a quegli operatori. I quali, grazie alla mancanza di controlli, riescono a moltiplicare quel denaro a loro esclusivo vantaggio. Sono loro, ora, i «prestatori di ultima istanza»: quelli che hanno il coltello dalla parte del manico. Ma è un sistema tanto più fragile quanto più è macchinoso. Un granello di sabbia potrebbe farlo cadere rovinosamente, come sette anni fa con il fallimento Lehman Brothers. Ma cadere da che parte? Verso un regime ancora più autoritario, o verso una società che impara a governarsi da sola?
Messa in questi termini, si capisce la durezza di governi e autorità europee contro il programma di Syriza. In gioco c’è proprio quel marchingegno, da cui dipende il destino dell’Europa così come è ora; e forse anche gran parte dei rapporti tra le classi sociali e tra la società e l’ambiente in tutto il mondo. Se il governo Greco riuscirà a «spuntarla» è perché mandarlo in malora rischia di far crollare il castello su cui è costruito il potere di tanti governi fattisi tramite degli interessi dell’alta finanza. E rischia di innescare un «effetto domino» capace di risucchiare dentro un grande buco nero tutti i paesi più fragili dell’Unione europea, per arrivare poi a coinvolgere, uno dietro l’altro anche quelli più solidi. Ma se il Governo greco la spunterà, sarà anche e soprattutto per l’appoggio che riceverà da una mobilitazione che può e deve coinvolgere l’Europa intera. Per questo è così importante la mobilitazione di sabato prossimo a sostegno del popolo e del governo greco!
Non sarebbe una vittoria da poco; sarebbe la dimostrazione pratica che l’autorganizzazione di base e il mutuo sostegno pagano: che le farmacie e gli ambulatori aperti dal volontariato, le mense popolari, le cooperative e i farmers market (i Gas), la televisione di Stato che ha continuato a trasmettere su basi volontarie dopo la sua chiusura, le fabbriche autogestite, le monete alternative locali, e tutte quelle iniziative appoggiando e promuovendo le quali Syriza è diventata maggioranza possono essere l’inizio di una riorganizzazione dei rapporti sociali: un’organizzazione incentrata non più sul potere del denaro, ma sui bisogni delle persone.
Questa è la vera posta in gioco dello scontro in atto. Le autorità europee non escludono certo nuove forme di «aiuto» finanziario per le casse esauste del governo e delle banche greche; a condizione, però, che venga rinnegato quel sostegno a una popolazione esausta, a un’occupazione ridotta ai minimi termini, ai bisogni più elementari della gente; cioè al programma che l’elettorato ha votato per far valere la propria dignità.
Concedere qualcosa in termini finanziari a un governo in crisi non costa molto: è solo un trasferimento di qualche posta da un capitolo all’altro dei bilanci delle parti in causa. Ma concedere qualcosa oggi alla Grecia che si è ribellata al giogo della finanza costerebbe molto: sarebbe il segno che, se si vogliono ricostituire le basi di una convivenza civile, si può e si deve fare a meno di «loro anche in ogni altro paese. Le premesse ci sono tutte e in Spagna con Podemos, o in Croazia con «Barriera umana», già si intravvedono forze che, ciascuna a modo suo, si sono messe sulla strada che ha portato Syriza al governo.
E in Italia? Premesse ce ne sono anche qui. Anzi, forse non c’è un altro paese europeo che abbia una ricchezza e una varietà di lotte, di movimenti, di comitati, di associazioni, di mobilitazioni, di iniziative grande come da noi. Ma in nessun altro paese la possibilità di queste forze di rappresentarsi politicamente è così compressa e dispersa. Soprattutto dal bisogno di autoperpetuarsi dei tanti partiti «di sinistra», incapaci di quel passo indietro che tante volte si sono impegnati a fare e che mai – nemmeno ora – sembrano capaci di attuare: per non perdere quei piccoli poteri che ricavano, soprattutto a livello locale, di una consolidata subalternità al Pd. Ma i tempi sono ormai maturi per la comparsa di una realtà nuova, mentre le responsabilità di chi impone questo stallo sono sempre più gravi.
La Nuova Sardegna, 10 febbraio 2015
Non c'era la Sardegna nel primo confuso elencone Verybello per Expo. È bastato un ritardo di poche ore - prima che comparissero alcune delle manifestazioni previste nell'isola durante l'estate - per suscitare un vespaio di rimostranze risentite. I soliti i bla bla sull' identità misconosciuta e l'orgoglio ferito dalla imperdonabile dimenticanza; per cui qualcuno è andato avanti con la presunzione, “deo so sardu”, la Sardegna che concorre alla bellezza italiana con un profilo distinto che ci dovrebbero ringraziare. Implicita la domanda sulla percezione dell'isola da parte dei forestieri consumatori; e dai sardi, il cui sguardo, è stato/ è molto distratto, anche omertoso sulla Sardegna com'è, e molto esitante sul futuro.
Ajò all'Expo: ma come ? La domanda non è di poco conto, dipende da come si pensa l'Expo, guai a confonderlo con la Borsa del Turismo (BIT) o con una delle grandi fiere enogastronomiche. Nelle Esposizioni Universali dai tempi del Crystal Palace, si trattano questioni ragguardevoli per l'umanità, e ogni Paese partecipante è chiamato a fornire la propria visione sul tema all'ordine del giorno. A mettere in vetrina idee, più che mercanzie in un'ottica bottegaia all'ingrosso. Il palcoscenico milanese è un'occasione per confrontarsi senza boria su emergenza alimentare e sprechi della terra.
Leggo su queste pagine il piano della Regione, l'idea di presentare “l'sola della qualità” attraverso la produzione agricola, le eccellenze naturali (con accenti su longevità e innovazione sostenibile). Il programma è solo delineato. E immagino che si assoceranno presto altri contributi, non solo semplici didascalie su cannonau e ballo tondo (e divagazioni su bandiere da rinnovare). Insomma non potrà mancare un apparato critico/ autocritico sul modello di sviluppo luogo per luogo, per ripensarlo come ha suggerito Francesco («Dio perdona sempre, l’uomo perdona a volte, la terra non perdona mai»), in sintonia con le attese di tanti credenti e miscredenti come me.
Il tema è il governo del territorio in una fase cruciale per la disorientata popolazione sarda. Nel 2006, un piano finalmente progredito è stato contrastato soprattutto per le scelte a difesa degli usi agricoli. Nei quali l'isola avrebbe potuto primeggiare se avesse creduto almeno un po' alla sua natura, al suolo fertile, all'aria buona, al sole generoso. La produzione agroalimentare conta su qualche prelibatezza, ma la Sardegna consuma otto prodotti su dieci importati, come scrive da un po' Giacomo Mameli preoccupato per le troppe ambiguità della produzione locale (torrone con ingredienti istranzi, bottarga fatta chissà dove, mirto da bacche non locali, ecc.) in danno di bravi artigiani.
La natura della Sardegna ha caratteri superstiti di primo livello - record di biodiversità - che dovremmo custodire con mille precauzioni, e invece da mezzo secolo è lasciata senza difese, aggredita nelle sue parti più pregiate, chissenefrega di di paesaggi sconvolti e continuità ecologiche interrotte.
Passeremo per guastafeste se diciamo al Mondo del nostro primato nella presenza di servitù militari, e dei 450mila ettari di aree avvelenate? Sui rischi di ulteriori inutili usi e consumi del suolo ? Magari per fare altre case al mare o per produrre energia da esportare con eccessi devastanti. Mentre avanza lo spopolamento che mette a rischio la tenuta di tanti territori privati di presìdi.
È eccessiva questa versione ? Meglio una rappresentazione attenuata, un adattamento per i tour operator? Sarà più conveniente - credo - dire e dirci la verità. D'altra parte Expo 2015 chiama le comunità “a interrogarsi sulla sostenibilità dei modelli economici, sociali, produttivi e scientifici adottati nel lungo periodo”.
Se si guardasse all'Expo solo per vendere pacchetti vacanze, pure con trailer raffinati, il racconto della Sardegna sarebbe banale, troppo somigliante a quelli che non ci piacciono. Senza cautele storico-antropologiche presenteremmo i sardi della caricatura, con i panni che ci vorrebbero vedere addosso. Per parlare ad una platea internazionale, meglio senza travestimenti che disturbano il confronto e impediscono di guardare avanti.
Il manifesto, 10 febbraio 2015
In un certo senso è il mondo alla rovescia. Finché eravamo governati da un patto scellerato tra il capo del governo (e della «sinistra di governo») e il capo della destra condannato per frode fiscale, tutto sembrava in ordine. Ora che, dopo un anno di barbarie politica e istituzionale, qualcosa è andato storto e quel contratto contronatura e controragione è entrato in sofferenza, ecco che tutti s’interrogano febbrilmente su come andrà a finire questa storia, se non anche la legislatura. È tutto quanto meno bizzarro.
Ma si spiega, naturalmente. Il fatto è che nulla di quel che si diceva era vero e nulla di ciò che è vero veniva detto. Il governo è stato fiduciato da una maggioranza virtuale che aveva ben poco a che fare con la sua reale base politica.
In teoria aveva i numeri per navigare, solo che Renzi aveva in mente tutt’altre cose rispetto a quelle che aveva detto per scalare la segreteria democratica ed espugnare palazzo Chigi. Cose che, invece, andavano perfettamente a genio al mecenate delle olgettine, col quale ha subito stipulato una fattiva intesa. A danno soprattutto di quella parte del Pd che – stando almeno ai proclami – avrebbe «frenato», corretto, posto condizioni e strappato modifiche. Dimodoché per un anno siamo stati governati da una maggioranza sorretta dall’opposizione contro una parte della maggioranza trasformata in opposizione. Borges si congratulerebbe.
Poi è venuto lo scontro sul Quirinale. Forse Renzi ha avvertito un pericolo. Ha temuto che, se avesse concordato con Forza Italia anche il nome del capo dello Stato, non avrebbe solo avuto problemi dentro il Pd. Sarebbe anche apparso, più che un alleato, il cavalier servente di Berlusconi. Con effetti rovinosi sul piano dell’immagine, che tanto gli sta a cuore. Ma è anche possibile che Renzi abbia deciso di usare la partita del Colle per soggiogare la fortuna, umiliare il vecchio boss e imporsi come uomo solo al comando. Fatto sta che siamo alla lite furiosa di queste ore, agli stracci che volano tra i due compari del Nazareno, al divorzio annunciato.
Ma è vera crisi? Vedremo. Se la politica non fosse anche ricerca del consenso, ci sarebbe di che dubitarne. Le «riforme» renziane stanno a cuore al padrone delle tv almeno quanto al loro autore ufficiale. La distruzione delle tutele del lavoro dipendente, la subordinazione organica del parlamento al governo, l’attribuzione di una maggioranza schiacciante al vincitore delle elezioni, la depenalizzazione delle frodi fiscali figurano tra i desiderata del capo di Forza Italia da sempre, dai bei tempi della P2. In più c’è che Renzi ha sin qui evitato anche solo di nominare il conflitto d’interessi: perché dunque infrangere l’idillio? Ma ha qualche ragione pure chi nelle file berlusconiane scalpita e fa presente che un partito ha anche esigenze di visibilità. Da questo punto di vista la scelta del nuovo presidente è stata in effetti uno sfregio irricevibile. Di qui la sceneggiata della finta defenestrazione di Brunetta, Romani e Verdini. D’altra parte non è pensabile che Renzi adesso, a un tratto, ci ripensi. Torni sui propri passi, disfi la tela e riscriva le sue pessime leggi. I voti forzaitalioti vanno rimpiazzati, sempre che non arrivino comunque. In che modo? Questo è il busillis. E, si può dire, il più bel regalo che la partita del Quirinale ci ha fatto sinora.
I giochi sono all’improvviso venuti al chiaro, inchiodando ciascuno alle proprie responsabilità. Se la destra, che pure le «riforme» le vuole e paventa la crisi, si sfila, è perché prevede che i propri voti non saranno indispensabili. Se Renzi lascia che il patto con Berlusconi vada a ramengo è perché ritiene di non dipendere più dal suo sostegno. La ragione evidente è che conta sul consenso della cosiddetta sinistra del Pd. Dunque ora finalmente il destino del governo e della legislatura è nelle mani dell’ospite ingrato sulla scacchiera renziana, per neutralizzare il quale Berlusconi venne cooptato, di fatto, nella maggioranza.
Che cosa vuol dire tutto questo? Una sola cosa: che non ci sono margini per altre messinscene. Finora, che la «sinistra» democratica votasse o meno le «riforme» era indifferente. Ciò ha reso il suo sistematico cedimento irrilevante, se non meno indecente. Adesso la musica è cambiata. D’ora in poi la «sinistra» del Pd può decidere se puntare i piedi, può ottenere modifiche reali (non le prese in giro sin qui sbandierate) o, in caso contrario, impedire l’approvazione delle leggi. Costringendo il governo a muoversi nella carreggiata definita dal voto popolare di due anni fa.
Molti osservatori prevedono che nulla di tutto ciò accadrà. Pensano che la fronda interna, a cominciare dai suoi capi, sarà d’ora in avanti prona al padrone della «ditta», ritenendosi appagata dalla scelta di Mattarella. Significherebbe che, nonostante mesi di minacce, insulti e mortificazioni da parte del presidente del Consiglio, costoro non andavano in cerca che di un contentino per tornare docili all’ovile. E scongiurare il rischio capitale di una crisi che potrebbe portare alla fine anticipata della legislatura, con tutti i suoi contraccolpi morali e soprattutto materiali.
È possibile che vada proprio così. Tanto più che i portavoce del capo del governo hanno chiuso ogni spiraglio chiarendo che sulle «riforme» non c’è più nulla da discutere. Da martedì sapremo. Si riprenderà a votare sulla «riforma» costituzionale e scopriremo se la «sinistra» democratica vuole davvero fermare il disegno autoritario di Renzi, come giura e spergiura. Oppure, indifferente alla sua pericolosità, ha sin qui recitato soltanto una commedia. Di certo il tempo è scaduto. L’elezione del presidente della Repubblica ha come squarciato un velo dietro al quale tutti gli attori si sono comodamente celati fino ad oggi. Si direbbe un caso di eterogenesi dei fini, e del resto si sa che prevedere il futuro in politica è al contempo necessario e impossibile
Il rumoroso rimbalzo dell’inchiesta “Swissleaks” condotta dal network di giornalismo investigativo internazionale Icij e, per l’Italia, dall’ Espresso, sui correntisti della filiale ginevrina della HSBC inclusi nella cosiddetta “lista Falciani” - 100 mila clienti (7 mila dei quali italiani) e 20 mila società off-shore per 180,6 miliardi di depositi - documenta la resa del Fisco e delle politiche anti-evasione del nostro Paese di fronte alla più colossale scoperta di fondi illegalmente trasferiti all’estero nella storia repubblicana.
muore nel Mediterraneo poiché è stata abbandonato Mare Nostrum, e la "troika" prosegue il tentativo di strangolare, con la Grecia, l'Europa della speranza. Articoli di P. Nerantzis, A.M.Merlo, R.Chiari. Il manifesto, 10 febbraio 2015
Grecia. Tsipras spera in un «new deal» con l’Eurogruppo e conferma: «Rispetteremo le promesse elettorali». Rappresentante Ue della troika si incontra con il vicepremier nella capitale greca
Alle porte di un compromesso storico: è questa la situazione in cui sembrano essere Atene e i suoi partner europei. Questo new deal che sarà messo domani sul tavolo delle trattative nella riunione di emergenza dell’Eurogruppo, sarà discusso il giorno dopo al vertice Ue e -se tutto va bene - sarà varato il 16 febbraio alla riunione ordinaria dell’ Eurogruppo, garantendo la liquidità ad Atene con dei pressupposti precisi affinché - vale a dire entro il giugno prossimo - Alexis Tsipras presenta il piano di risanamento quadriennale dell’ economia greca senza scomodare ulteriormente i partner europei, ne i correntisti tedeschi che secondo le fanfaluche di Schaeuble, «sono sempre loro a pagare per i greci».
Che ci troviamo a pochi passi da questo deal e non di fronte ad una rottura, come sostiene gran parte della stampa internazionale per fare pressing su Atene, si capisce da una lettura attenta delle dichiarazioni di dirigenti europei, ma anche da fondi vicine al premier greco che esprimono ottimismo.
Il premier Tsipras, sabato scorso ha presentato le linee programmatiche del suo governo e ha escluso ogni prolungamento dell’attuale memorandum e del monitoraggio della troika, chiedendo un nuovo accordo per rinegoziare il debito di Atene nell’ambito di una «intesa comune con i partner per l’ interesse di tutti».
Atene ha bisogno di una moratoria del pagamento del debito, ovvero di un programma di transizione a breve scadenza (accordo –ponte) per recuperare i fondi per la crescita e non un salvataggio perenne tramite nuovi finanziamentii da parte della troika (Fmi, Ue, Bce).
Alla Bce, si è aggiunta la Spagna, tramite il suo premier. Rajoy ha chiarito ieri che «la Grecia o chiede un prolungamento dell’ attuale programma di risanamento (ovvero una nuova austerity, ndr.) oppure niente». Alleata ai governi della eurozona che non vogliono sentirne parlare delle richieste di Atene l’agenzia Standard and Poor’s che ha declassato il rating della Grecia da B a B-. Alla Francia e all’ Italia, invece, che pur allineandosi alla fine con la cancelliera tedesca sulla linea della fermezza, non vedono di cattivo occhio le richieste greche — perché affrontano problemi simili (debito, ecc.)- si è aggiunta ieri l’ Austria. Il cancelliere austriaco, Werner Faymann, con un ruolo da intermediario tra Berlino e Atene, dopo il suo incontro con Alexis Tsipras a Vienna, ha detto che «bisogna trovare una soluzione di compromesso tra il vecchio programma di risanamento dell’ economia greca e al programma del nuovo governo» greco.
La necessità di trovare un new deal tra Atene e Berlino, è sostenuta in un rapporto dalla Commerzbank, la seconda banca tedesca per grandezza e la stessa Gran Bretagna, principale partner commerciale dei paesi della zona euro. David Cameron che teme l’effetto contagio sui mercati finanziari da una possibile uscita della Grecia dalla zona euro, ha convocato ieri una riunione per riesaminare i piani di emergenza del suo governo nel caso di un Grexit.
Contraria a ogni forma di austerity irragionevole e rischiosa è la Casa Bianca che non incide sui fatti interni dell’ Ue, ma preme per una soluzione visto che una rottura potrebbe avere ripercussioni globali. Per Atene Londra e Washington sono di fatto in questo momento alleati buoni.
Che tutte le parti, esclusione fatta per Berlino, si rendano conto che serve una soluzione di compromesso, si capisce dal viaggio lampo ad Atene del capo dell’Euroworking group e del rappresentante dell’Ue alla troika che si sono incontrati con il vice-premier e il ministro delle finanze greco per discutere le proposte che Atene sta preparando per presentarle domani alla riunione dell’ Eurogruppo. Le premesse sono incoraggianti, nonostante «l’isolamento di Atene».
Intanto stasera si conclude con il voto di fiducia al nuovo governo il dibattito parlamentare sulle dichiarazioni programmatiche di Alexis Tsipras, il quale tra l’altro ha annunciato un insieme di misure per far fronte alla crisi umanitaria: salario minimo a 751 euro, assunzione dei 3.500 dipendenti pubblici licenziati dalla troika, restituzione della tredicessima ai pensionati. Ha deciso la sospensione dei pignoramenti sulla prima casa, alloggio, cibo e elettricità gratis per 300.000 famiglie vittime dell’ austerity, assistenza medica gratuita per i disoccupati, abrogazione delle tasse supplementari alle case, vendita di uno dei tre aerei del premier e di 700 auto blu, di- mezzamentodel personale a Mega- ro Maximou, sede del governo, an- nullamento dei privilegi dei parla- mentari, riorganizzazione da zero della radiotelevisione pubblica, in- chiesta parlamentare su come si è arrivati al memorandum, conces- sione della cittadinanza ai figli di migranti nati in Grecia, disarmo dei poliziotti durante le manifesta- zioni, misure severe per combatte- re l’ evasione fiscale e la corruzio- ne, rivendicazione dei debiti di guerra da Berlino.
SETTIMANA CRUCIALE PER LA GRECIA
di Anna Maria Merlo
L'Eurogruppo vuole "un piano" preciso dalla Grecia e rappresentanti della trojka sono ad Atene. Londra soffia sul fuoco del Grexit ("solo questione di tempo" per Greenspan, ex Fed). Francia e Italia cercano di calmare il gioco. Padoan risponde a Varoufakis: il "contagio italiano è escluso". Per Gabriel (Spd, vice-cancelliere), ci sono probabilità "pari a zero" che la Germania prenda in considerazione la richiesta di riparazioni di guerra
Settimana cruciale per la Grecia e il suo debito insostenibile. L’Eurogruppo preme e pretende che Varoufakis ”consegni” alla riunione straordinaria di domani a Bruxelles il “piano” per uscire dalla crisi. C’è chi getta olio sul fuoco e chi cerca di calmare il gioco. In Gran Bretagna, David Cameron ha convocato un vertice con il cancelliere dello scacchiere, George Osborne, e dei rappresentanti della Bank of England, per prevenire il “contagio” nell’eventualità di un Grexit. Per l’ex capo della Federal Reserve, Alan Greenspan, difatti, l’uscita della Grecia dall’euro “è solo questione di tempo” (lo ha detto in un’intervista alla Bbc).
Il governo greco fa un discorso senza concessioni, ma non ha rotto i contatti con Bruxelles. Per preparare l’Eurogruppo dell’11, che precede di un giorno il vertice Ue che sarà il debutto di Tsipras a Bruxelles, Atene accoglie dei rappresentanti dell’odiata trojka: da domenica sono in Grecia Declan Costello, rappresentante della Ue nella trojka, con Thomas Wieser, presidente dell’Euro Working Group, che prepara la riunione dell’Eurogruppo. La Bce, che mercoledi’ ha chiuso un rubinetto di finanziamento alla Grecia, rifiutando dall’11 febbraio prossimo in garanzia le obbligazioni di stato greche (valutate “spazzatura” dalle agenzie di rating, per S&P ormai la Grecia è scesa a B-), resta divisa sulla mossa di mercoledi’ scorso. A causa del meccanismo di rotazione nel voto al consiglio dei governatori, alcuni paesi non erano presenti al voto che ha deciso il colpo di mano di mercoledi’: tra essi la Francia (e anche Grecia e Cipro). E la presidente del consiglio di vigilanza dellz Bce, la francese Danièle Nouy, ha affermato che “oggi le banche greche sono molto più solide”.
Dalla Germania è arrivato un nuovo secco “nein” alla richiesta delle riparazioni di guerra da parte di Tsipras. Per Sigmar Gabriel, Spd e vice-cancelliere, la “probabilità è eguale a zero”. La questione “è stata risolta 25 anni fa, giuridicamente con il trattato 2+4” del ’90 (le due Germanie più gli Alleati), che hanno accettato la rinuncia alle riparazioni (e la Grecia l’aveva approvato). “Non serve a nulla proseguire su questa strada” ha concluso Gabriel, al seminario Spd di Nauen. Per il portavoce del ministero delle Finanze di Berlino, non c’è “nulla di nuovo” su questo fronte.
La risposta è l’applauso dei 450 delegati metalmeccanici Cgil arrivati da tutta la Toscana, nel veloce giro d’Italia che Landini sta facendo in questi giorni con gli attivi regionali. Per fare il punto della situazione nelle fabbriche. Su che sta accadendo con il jobs act: “Non abbiamo mai vissuto un processo del genere, che cambia la natura stessa delle relazioni sindacali”. Sui contratti da rinnovare quando le controparti, dai bancari ai chimici, o li disdicono o pongono condizioni capestro come la restituzione di parte del salario. Poi sull’importanza di aumentare le iscrizioni al primo sindacato metalmeccanico, per pesare sempre più ai tavoli di trattativa. Infine per ribadire che lo sciopero generale di dicembre della Cgil è stato solo il primo passo di una mobilitazione che deve andare avanti. E spiegare che sì, si può fare.
Il ragionamento del segretario Fiom procede passo passo. Molte argomentazioni sono conosciute a chi mastica un po’ di politiche economiche e finanziarie. Ma di fronte ai suoi iscritti Landini ha — e sente — il dovere di spiegare e rispiegare il perché del passaggio politico. Senza mai dimenticare il suo punto di vista, quello del sindacalista. “In tutta Europa – ricorda – è in atto una operazione che punta a ridurre il ruolo dei sindacati a semplici organizzazioni aziendali e corporative. Il campo di gioco è quello, per la semplice ragione che ci sono 25 milioni di disoccupati nel continente, sui quali si sta giocando per abbassare diritti e tutele a tutti gli altri. Dunque non è un problema solo italiano. Anche perché il governo italiano, come si dice dalle mie parti, comanda solo fino a mezzogiorno”.
Si gioca in Europa, ripete Landini, perché dei 100 milioni di interessi pagati ogni anno dall’Italia, una buona parte (“tramite la Bce”) finisce nelle casse della Bundesbank tedesca, che ha in pancia i titoli del debito italiano. “Se invece non paghi gli interessi, soprattutto in questi anni di deflazione, e restituisci il debito non in cinque anni ma in trenta, non credete che la situazione cambi parecchio?”.
I delegati toscani, operai e impiegati della fabbriche di una regione dove la Fiom ha conquistato l’82% nei rinnovi delle Rsu, ascoltano con attenzione. Annuiscono. Applaudono, quando il loro segretario ricorda la lettera della Bce del 5 agosto 2011: “C’era scritto che i servizi pubblici dovevano essere privatizzati. Che salari e orari di lavoro dovevano essere ‘ritagliati’, azienda per azienda. Si doveva alzare l’età pensionabile e abbassare gli assegni, ridurre il costo della pubblica amministrazione, dare ‘più libertà’ al mercato del lavoro, e ‘riformare’ le istituzioni. Ebbene, sia Monti che Letta e ora Renzi hanno applicato tutto questo. Punto per punto”.
Non solo Fiom. Il comitato nazionale dell’Arci, per acclamazione, ha dato l’adesione alla manifestazione di sabato. Anche dentro la segreteria Cgil si discute, più o meno informalmente, su che fare. E le minoranze del Pd hanno chiesto a Renzi, Orfini e ai capigruppo Zanda e Speranza di riunire le assemblee parlamentari e la direzione: “Per discutere della linea che il Pd terrà in occasione dei prossimi appuntamenti europei relativi al caso Grecia”. Chiamando al compromesso, fra posizioni che fra loro restano opposte, alla vigilia dell’Eurogruppo e dei vertice dei capi di governo Ue.
Intanto i metalmeccanici Cgil vanno avanti. Come treni. Al direttivo della confederazione del 18 febbraio arriverà la proposta di un pacchetto di ore di sciopero. Contro il jobs act e per modificare radicalmente la legge Fornero. Si pensa ai ricorsi europei, alle impugnazioni dei licenziamenti, all’ipotesi di un referendum abrogativo. “La nostra costituzione – ha ricordato Maurizio Landini nella Casa del popolo di San Bartolo a Cintoia – ci dà il principio di organizzarsi collettivamente, per discutere nelle aziende ma anche per contribuire al miglioramento delle condizioni sociali. Ebbene, non abbiamo mai avuto un governo come questo. Che non ha accettato un tavolo di discussione, mentre approvava politiche contro i diritti dei lavoratori”
La Repubblica, 8 febbraio 2014 (m.p.r.)
Roma. Il 20 gennaio 1961 nel suo discorso inaugurale, John Kennedy disse: «Nessuno deve negoziare sotto la morsa della paura. E nessuno deve aver paura di negoziare». La frase l’aveva scritta John Kenneth Galbraith, l’economista che di Kennedy fu consigliere. Ce la ripete James Galbraith, che di Kenneth è il figlio ed è anch’egli un economista di primo piano, docente all’università del Texas dove è collega e grande amico di Yanis Varoufakis, neo-ministro delle Finanze greco, con il quale ha scritto il libro Modesta proposta per uscire dalla crisi dell’euro.
Il manifesto 7 febbraio2015
Con il passaggio ormai quasi completo dei parlamentari di Scelta civica nelle fila del Pd si raggiunge una significativa tappa nella navigazione del sistema politico. Renzi ormai è una calamita attrattiva che assorbe un arco di forze eterogeneo, che va da Verdini a Migliore. Dinanzi a questo vistoso sconfinamento, si tratta solo di chiarire se è il Pd che si amplia, in virtù di una nuova vocazione egemonica, o se non è invece Scelta civica che, proprio dileguandosi, svela che il renzismo aiuta il definitivo compimento della sua originaria missione di partito neopadronale. Creatura della flaccida volontà di potenza di Monti, Scelta civica si insinuava nel solco delle formazioni politiche personali, così abbondanti nel corso della seconda repubblica. Con delle specifiche connotazioni, però. La lista era il frutto della manifestazione di avidità politica dei poteri forti che rinunciavano alla loro tradizionale tattica di influenzare spezzoni di diversi partiti, senza però allestirne uno in proprio, con il rischio di racimolare solo magri frutti nel mercato elettorale.
Dietro le armate di Monti si compiva una brutale semplificazione dell’antico centro presidiato con cura da Casini. Con le prove di sfondamento condotte prima da Montezemolo, e poi rinsaldate con le operazioni di occupazione guidate da Monti, si ordinava la destrutturazione dell’area moderata. Il vecchio centro cattolico non aveva più ragione di esistere nella sua autonomia (contro di esso vennero non a caso gettati in pista figure come Oliverio, Dallai, con l’avallo di alte o medie gerarchie). Il mondo cattolico era destinato a portare in dote i voti residui al disegno dei poteri forti che in vista dell’appuntamento del 2013 entravano in ballo con una doppia bocca di fuoco: la prima a sostegno della prova di bonapartismo tecnocratico tentata da Monti (prima va al potere, con grazia ricevuta dal Colle, e poi va alla ricerca dei voti); la seconda, viste le insormontabili difficoltà espansive del bocconiano cavallo poco di razza, a disposizione di Grillo, celebrato dai media per strappare decisive porzioni di consenso a Bersani e Vendola.
Il tecnico e il comico erano le due figure speculari che i poteri forti (il Corriere, Sky, la Sette) accarezzavano per determinare un pareggio alle urne e sbarrare così la strada ad una sinistra scrutata come troppo legata ai colori inquietanti del passato. Il progetto è stato centrato in pieno. Non è un caso che figure come Mentana o Galli della Loggia siano passati rapidamente dalle simpatie per il comico genovese all’innamoramento totale verso Renzi. Quello che per loro contava era cancellare ogni residua traccia di rosso nella storia repubblicana. E lo statista nato sulle rive dell’Arno è la provvidenziale congiunzione dei diversi sentieri che si erano aperti per abbattere le velleità di governo di una sinistra «neosocialdemocratica».
Con la sconfitta del 2013, il Pd ha subito una metamorfosi completa. Dalle velleità di ricollocarsi in uno spazio più chiaramente di sinistra, deve accasarsi nelle paludi di un moderatismo dal volto neopadronale. Con Ichino, la Lanzillotta rientrano agli ordini del Nazareno personalità che erano fuggite perché in disaccordo con una virata a sinistra mal digerita. L’operazione, gestita in perfetto stile trasformista, trova però una giustificazione sostanziale nell’operato del governo Renzi che ha, sul piano sociale e sindacale, mostrato un’anima liberista che tanto piace a Ichino ed altri profeti dell’abbattimento brutale del diritto del lavoro.
Con il soccorso delle fresche truppe di Ichino e Migliore finisce anche la velleità della minoranza Pd di ficcare qualche graffio nel volto sempre ridente del condottiero di Rignano. Con i ritrovati del trasformismo, Renzi diventa un capo parlamentare che taglia e incolla i personaggi ambigui, pronti a dare un sostegno alla sua leadership. La minoranza del Pd viene così resa inoffensiva e paga le sue esitazioni strategiche. Invece di andare all’assalto frontale quando il governo rompeva la cultura dei diritti, stracciava il legame con il lavoro e sbeffeggiava volgarmente la Cgil, ha preferito formulare fragili proposte di mediazione e infine alzare innocui segnali di fumo nella battaglia molto meno simbolica e dirimente sul voto di preferenza. Un disastro.
Nei conflitti politici, chiariva Locke, non si deve mettere in campo una «fittizia resistenza», quella del tutto innocua di chi con timore chiede al nemico il «permesso di colpire». In ogni conflitto, che «livella le parti», occorre una netta determinazione nel dare «colpi sulla testa e tagli sul viso». Al cospetto del boy scout spregiudicato che introietta alla perfezione le armi distruttive predisposte dal diabolico frazionismo democristiano, la minoranza di sinistra ha mostrato un disarmo preventivo. E ora rischia di essere schiacciata dalle prove di leadership che si consolida grazie alle risorse di un trasformismo postmoderno che acchiappa ex grillini ed ex superstiti dell’avventura di An.
Con gli spostamenti di Scelta civica sono ormai quasi 200 i parlamentari che hanno cambiato casacca in meno di due anni. E questo, oltre che uno sterile problema di decadenza etico-politica, solleva anche questioni di ordine istituzionale. L’attuale geografia del parlamento (fuga dal M5S e da Sel, disarticolazione di Forza Italia, assorbimento di Scelta civica) non corrisponde più alle preferenze elettorali. Oltre che incostituzionale, il meccanismo elettorale ha costruito un sistema non più rappresentativo. Forse avviare le pratiche per uno scioglimento anticipato della legislatura non è poi una idea così malsana.
Sbilanciamoci.info, 6 febbraio 2015
Alexis Tsipras ha vinto le recenti elezioni in Grecia con un chiaro mandato elettorale: cancellare una parte significativa del debito pubblico e porre fine al programma di aiuti – e relativi piani di austerità e aggiustamenti strutturali – della troika. Ma entrambi gli obiettivi si stanno rivelando molto più difficili del previsto. Anche per la feroce opposizione dell’establishment europeo, come dimostra la recente decisione della Bce di chiudere i rubinetti alle banche greche. Per capire come siamo arrivati a questo punto, però, dobbiamo fare un passo indietro.
Il debito pubblico greco ammonta a 323 miliardi di euro, pari al 177% del Pil. Di questi, il 15% è detenuto dal settore privato, il 10% dal Fondo monetario internazionale e il 6% dalla Bce. Il grosso del debito – il 60% del totale, pari a 195 miliardi di euro – è in mano agli altri governi dell’eurozona. Di questi 195 miliardi, 142 miliardi sono arrivati alla Grecia attraverso l’Efsf, il Fondo europeo di stabilità finanziaria (più comunemente noto come “Fondo salva-stati”); 53 miliardi sono invece il frutto di prestiti bilaterali ricevuti dagli altri stati membri. I paesi più esposti al debito greco sono la Germania (56 miliardi), la Francia (42 miliardi), l’Italia (37 miliardi), la Spagna (24 miliardi) e l’Olanda (11 miliardi).
E qui sta il primo problema: un’eventuale ristrutturazione del debito greco ricadrebbe soprattutto sulle spalle degli altri governi europei, molti dei quali – in particolare Germania, Francia e Finlandia – hanno già categoricamente escluso l’ipotesi di un taglio del valore nominale del debito. Questi sanno di avere dalla loro una componente cruciale di qualunque negoziato: il tempo. Tsipras deve trovare un accordo in fretta se vuole fermare l’emorragia di capitali dalle banche greche (oltre 10 miliardi a gennaio, 4 miliardi a dicembre). E infatti il neoministro delle finanze greco, Yanis Varoufakis, ha recentemente annunciato un clamoroso cambio di strategia: niente più taglio del debito ma uno “swap” della porzione di debito attualmente in mano all’Efsf e alla Bce con nuovi titoli di stato. Questi sarebbero di due tipi: i titoli in mano all’Efsf sarebbero rimpiazzati con bond indicizzati al tasso di crescita del Pil (in sostanza il servizio del debito e le scadenze di rimborso aumenterebbero o diminuirebbero a seconda dello stato di salute dell’economia), mentre quelli in mano alla Bce sarebbero rimpiazzati con quelli che Varoufakis ha definito “obbligazioni perpetue” (titoli a interessi zero che la banca centrale terrebbe a bilancio in perpetuo, il che equivarrebbe di fatto alla monetizzazione di quella porzione di debito). Secondo uno studio dell’istituto Bruegel, questo potrebbe ridurre la spesa per interessi della Grecia di più del 15% del Pil.
Questo rappresenterebbe un passo indietro non da poco rispetto alla richiesta di “cancellazione della maggior parte del valore nominale del debito pubblico” contenuta nel programma elettorale di Syriza, ma permetterebbe comunque a Tsipras di rispettare la seconda parte della sua promessa elettorale: ridurre l’avanzo primario dal 4-5% previsto dal memorandum all’1-2% – allentando, anche se di poco, la stretta fiscale che negli ultimi anni ha soffocato l’economia greca, bruciando un quarto del reddito nazionale – e porre fine al programma di assistenza finanziaria della troika. Il governo greco, infatti, si rifiuta di accettare l’ultima tranche da 7 miliardi, ma senza di essa non sarà in grado di far fronte ai 6.5 miliardi che deve restituire alla Bce entro l’estate (se la banca centrale non dovesse accettare la proposta di cancellazione ufficiosa del debito). Pare che Atene abbia a malapena fondi a sufficienza per rimborsare i 4.3 miliardi dell’Fmi in scadenza il mese prossimo.
In alternativa – in attesa di trovare un accordo – il governo greco potrebbe raccogliere una decina di miliardi sui mercati emettendo buoni del Tesoro a breve termine; ma anche questo richiederebbe l’approvazione dell’Eurotower (poiché Atene ha già raggiunto il tetto di 15 miliardi di euro sull’emissione di t-bills fissato dalla Bce) e al momento non sembra che Francoforte abbia alcuna intenzione di dare il via libera all’operazione. Anche se Atene decidesse di andare avanti lo stesso, la Bce – in qualità di garante del nuovo meccanismo di vigilanza unico (Ssm) – potrebbe tranquillamente vietare alle banche greche di comprare i nuovi titoli di stato (poiché la Grecia sarebbe di fatto insolvente, come peraltro ha riconosciuto lo stesso Varoufakis) o semplicemente negargli la liquidità necessaria.
Un’altra fonte di finanziamento a breve termine potrebbe arrivare dai profitti guadagnati dalla Bce e dalle vari banche centrali nazionali con l’acquisto di bond greci in base al programma Smp (Securities Markets Programme) nel 2010. Nel 2012 l’Eurogruppo accettò infatti di girare questi soldi – che oggi ammontano a 1.9 miliardi di euro – alla Grecia, ma questo non si è mai verificato. E oggi sono in molti a ritenere che i governi dell’eurozona accetteranno di sbloccare i fondi solo se la Grecia si impegnerà a rispettare una serie di conditionalities molto stringenti (sostanzialmente in linea con i memorandum della troika). Anche far digerire questo accordo ai creditori, insomma, non sarà facile.
Questo sul fronte delle finanze pubbliche greche. Ma come già detto il vero problema per la Grecia in questo momento è un altro: la fuga di capitali dal paese e più in generale la fragilità del sistema bancario. Fino a pochi giorni fa le banche greche riuscivano ad approvvigionarsi di liquidità fornendo a garanzia titoli di stato che ufficialmente sono considerati “spazzatura”; un’eccezione concessa a quei paesi che sottostanno a un programma di assistenza della troika. Ma il 4 febbraio – lo stesso giorno in cui Varoufakis ha dichiarato di essere “il ministro delle finanze di un paese in bancarotta” – la Bce ha fatto sapere in una nota di aver deciso di escludere i bond greci dai titoli che possono essere usati dalle banche come collaterale “poiché al momento non è possibile presumere una conclusione positiva del processo di revisione del programma greco”.
Il manifesto, 7 febbraio 2015
Se si nutriva ancora qualche dubbio che l’Europa fosse più vittima delle proprie politiche che della crisi, gli accadimenti degli ultimi giorni hanno tolto ogni dubbio. I mercati avevano assorbito quasi con nonchalance il cambio di governo in Grecia; la Borsa di Atene aveva oscillato, ma riuscendo sempre a riprendersi, fino a raggiungere rialzi da record; il terrorismo psicologico che aveva provocato un forte deflusso di capitali prima delle elezioni sembrava un’arma spuntata.
Ma appena si è arrivati al dunque è scattato il ricatto della Bce. Eppure le richieste del nuovo governo greco erano più che ragionevoli. Né Tsipras né Varoufakis chiedevano un taglio netto del debito, ma solamente modalità e tempi diversi per pagarlo senza continuare a distruggere l’economia e la società greca, come avevano fatto i loro predecessori. Dichiarazioni e documenti di economisti a livello mondiale, compresi diversi premi Nobel, si rincorrono per dimostrare che le soluzioni proposte dal governo greco sono perfettamente applicabili, anzi le uniche efficaci se si vuole salvare l’Europa, che sarebbe trascinata nella voragine di un contagio dai confini imprevedibili se la Grecia dovesse fallire e uscire dall’euro. Perfino il pensiero mainstream – Financial Times in testa — si dimostrava più che possibilista.
Può darsi, come anche Varoufakis ha osservato, che la mossa di Draghi serva per evidenziare che la soluzione è politica e non tecnico-economica. Quindi ha buttato la palla nel campo dell’imminente Eurogruppo che si riunirà l’11 febbraio. Il guaio è che la politica europea attuale è ancora peggio della ragione economica. Basti leggere le dichiarazioni di un Renzi, sdraiato sul comunicato della Bce, o quelle di uno Schulz o di un Gabriel.
Non è la prima volta, d’altro canto, che la socialdemocrazia tedesca vota i «crediti di guerra». [Il riferimento è alla posizione che assunsero le socialdemocrazie francese, inglese, austriaca,tedesca, belga, quando - violando la linea politica decisa dalla Seconda Internazionale comunista (guerra alla guerra) - nei rispettivi parlamenti votarono a favore el riarmo, passo decisivo, su entrambi i fronti, per lo scatenamento della prima guerra mondiale. - nota di e.]
La ragione è duplice. Se passa la soluzione greca appare chiaro che non esiste un’unica strada per abbattere il debito. Anzi ce n’è una alternativa concretamente praticabile rispetto a quella del fiscal compact. Più efficace e assai meno devastante. Tale da puntare su un nuovo tipo di sviluppo che valorizzi il lavoro, l’ambiente e la società, come appare dal programma di Salonicco su cui Syriza ha costruito e vinto la sua campagna elettorale. Sarebbe una sconfitta storica per il neoliberismo europeo.
Il secondo motivo riguarda gli assetti politico istituzionali della Ue. Sappiamo che i greci hanno giustamente rifiutato l’intervento della Troika. Ma è pur vero che perfino Juncker ha dichiarato che quest’ultima ha fatto il suo tempo. C’è allora qualcosa di più importante in gioco che la sopravvivenza di questo o quell’organismo.
E’ questo che le mediocri classi dirigenti europee vogliono? Non sarebbe la prima volta.
Syloslabini.info, 3 febbraio 2015 (m.p.r.)
Abbiamo quindi intervistato Joseph Halevi, professore di economia presso l’Università di Sydney, che ben conosce Yanis Varoufakis, neo ministro delle finanze in Grecia, di cui è amico e con cui ha anche scritto un libro (insieme a Nicholas Theocarakis): Modern Political Economy: making sense of the post-2008 world (Routledge).
Noi Restiamo: ci dai un giudizio sul risultato delle recenti elezioni in Grecia?
Joseph Halevi: il mio giudizio è essenzialmente positivo. C’è ovviamente un problema dovuto al fatto che Syriza ha delle posizioni molto eterogenee. Però voglio dire che l’esigenza che nasceva dalla crisi del Pasok ovviamente ha trovato sbocco in Syriza. Non poteva trovare sbocco nel KKE (partito comunista greco), impossibile. Per scegliere il partito comunista greco bisognava essere ideologicamente strutturati, e la popolazione che usciva dalla crisi del Pasok non lo era. Quindi il mio giudizio è sostanzialmente positivo, anche se a me Syriza non piace moltissimo.
NR: ha dei limiti come impostazione del partito, ricorda un po’ SEL per certi punti di vista.
JH: sì, anche se ovviamente in modo più serio. La componente centrale, quella che l’ha fondata seriamente, sono i comunisti del partito comunista dell’interno, che erano gli euro-comunisti, che si sono scissi dal KKE teoricamente dopo l’intervento sovietico in Cecoslovacchia. Il KKE, comunque, negli ultimi 40/50 anni, non ha mai modificato la sua analisi sul sistema capitalistico, che è sempre quella sovietica: capitalismo monopolistico etc. Poi, sull’Unione Sovietica loro hanno riflettuto, e sono arrivati alla conclusione, basta andare sul loro sito per leggerlo, che l’Unione Sovietica è caduta perché hanno cercato di affrontare i problemi per via capitalistica. Se invece fossero rimasti all’interno dello schema socialista, non ci sarebbe stata questa crisi, questo crollo. Un approccio estremamente schematico: non analizza il perché il partito comunista sovietico sia andato in quella direzione, né un sacco di altri aspetti. Quindi anche se tendenzialmente hanno la mia simpatia, allo stesso tempo sono di un settarismo totale.
NR: Il problema principale di Syriza adesso è che, pur essendo partiti subito con una serie di proposte anche abbastanza interessanti, come l’aumento del salario minimo o il ripristino di una serie di condizioni di vita a livelli precedenti le impostazioni della Troika, si trovano in una posizione molto delicata per via del fardello del debito. Secondo te quanto spazio di manovra c’è per il nuovo governo greco?
JH: nessuno. E lo sanno. Quindi dovranno andare allo scontro. E lì si vedrà come agirà Syriza, al cui interno c’è la componente eurocomunista e non solo, c’è anche gente che ha lasciato il KKE successivamente. Questa componente è più possibilista sul debito, nel senso che sono per accettare dei compromessi invece che andare alla rottura. Questo potrebbe provocare problemi interni seri a Syriza.
NR: quando tu dici andare allo scontro cosa intendi?
JH: per scontro intendo la linea di Yanis Varoufakis. Quella è giustissima. Ossia fare default ma restando nell’eurozona.
NR: Quindi secondo Varoufakis è possibile fare default rimanendo nell’Eurozona?
JH: Certo, non paghi e basta. Mica devi uscire, nessuno ti obbliga ad uscire e loro non ti possono cacciare. Questo non lo capiscono coloro che parlano di “Grexit”, e nemmeno i Tedeschi che dicono: ah allora te ne vai. Nessuno può cacciare la Grecia, nessuno può cacciare nessun paese dalla zona euro. Quindi Yanis dice: va bene, se loro non vogliono accettare dei compromessi noi dichiariamo il default stando nella zona euro, vediamo un po’ che succede. L’ha scritto anche sul suo blog, spesso.
NR: Visto che lo abbiamo citato, in conclusione due battute sul nuovo governo. Tu conosci bene Varoufakis, con cui hai anche scritto un libro, ma ci sono anche altre figure interessanti, ad esempio Rania Antonopoulos dovrebbe occuparsi di lavoro.
JH – Sì, questo è un governo molto moderno, gente che veramente conosce il mondo, e non conosce il mondo dei banchieri. Tra l’altro la Grecia è molto meno provinciale dell’Italia, poiché in Grecia anche la borghesia è emigrata, non soltanto il popolo (diciamo il popolo delle isole, i contadini semi-analfabeti) degli anni Cinquanta. In Italia la borghesia è sempre stata stanziale: solo adesso la gente di origine middle-class si muove, emigra. La borghesia italiana è stata stanziale al massimo, provincialissima, magari perché ricca, sicura di sé; mentre in Grecia no, la borghesia parla molte lingue, nei dipartimenti delle facoltà universitarie greche c’è gente che si è formata in Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Germania, e anche in Russia. E’ gente che ha viaggiato vivendo in altri paesi, non vivendo da persone importanti – diciamo non come i Giavazzi, che vanno al MIT – ma dovendo cercare lavoro, vivendo veramente in altri paesi.
NR: la maggior parte degli articoli usciti in questi giorni su Varoufakis hanno molto calcato la mano sull’aspetto, come dire, della personalità e della figura. Il “Manifesto” l’ha definito con entusiasmo un economista marxista. A noi francamente più che marxista Varoufakis sembra un keynesiano di sinistra, se vogliamo.
JH: Ma lui non è da questo punto di vista una persona semplice, non è accademicamente marxista, è – a mio avviso – strategicamente più leninista che marxista, perché sotto molti aspetti ha una concezione propria del giocare sui rapporti di forza. E di trovare i limiti degli avversari, da questo punto di vista ha molto assorbito la teoria dei giochi. Yanis viene da una famiglia resistenziale, il padre ha fatto anni di prigione, era già formato politicamente quando si è trasferito in Gran Bretagna. La Grecia è un paese come l’Italia, dove marxista significa essere militante, non puoi fare il marxista accademico e basta. Marxista è un sistema di idee che c’hai, poi fai altre cose, puoi anche fare il geometra.
Il manifesto, 6 febbraio 2015
L’altolà di Draghi al governo Tsipras mostra con durissima evidenza lo stato di sospensione democratica di questa “Europa reale”, e della Bce che ne costituisce un pilastri. L’attacco di Draghi e il preannuncio di non garantire più per i bond greci mostra la volontà di strangolare sul nascere il nuovo corso. Non si riconosce il mandato popolare ricevuto da Tsipras, e non si capisce con quale autorevolezza venga considerato non attendibile il piano presentato dalla nuova compagine greca, da parte di chi ha partecipato a misure, previste dal Memorandum, famose per aver fallito clamorosamente gli obiettivi dichiarati. La realtà è che le scelte sociali, economiche ed istituzionali, il non riconoscimento della Troika di Tsipras vanno in collisione con la natura e i poteri dell’“Europa reale”, quelli finanziari, liberisti e della egemonia merkeliana. Di questi poteri la Bce è un architrave.
Da tempo sosteniamo lo scandalo di un Parlamento europeo senza alcun potere d’influenza sulla Bce, un organo preteso tecnico (25 persone, non elette), a cui i Trattati dell’Unione hanno affidato la piena responsabilità della politica monetaria dell’Europa. Il fatto è che i nostri dirigenti hanno aderito al principio che la politica monetaria e finanziaria non debba essere più una funzione sovrana dei poteri pubblici statuali (nazionali ed europei), ma il compito di soggetti privati politicamente indipendenti dalle istituzioni pubbliche. La Bce è il soggetto chiave del Sistema europeo di banche centrali (Sebc) di cui fanno parte, oltre la Bce, le Banche centrali nazionali degli Stati che hanno adottato l’euro e formano l’Eurosistema. Suo compito principale è di attuare la politica monetaria dell’Unione il cui l’obiettivo, fissato dai Trattati, è il mantenimento della stabilità dei prezzi, diventato l’imperativo monetario dei paesi occidentali.
Il problema nasce dal fatto che l’articolo 130 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (Tfue) stabilisce il principio della totale indipendenza politica della Bce. Coerentemente, il Trattato dispone l’obbligo per i governi degli Stati membri e le istituzioni ed organi dell’Ue di astenersi da qualsiasi forma di ingerenza sulle attività della Bce. Aver stipulato formalmente l’indipendenza politica alla Bce come principio costituzionale del Tfue ha creato una situazione giuridica, istituzionale e politica, anomala. L’anomalia si esprime anzitutto rispetto alle banche centrali: la Bce è l’unica banca centrale al mondo ad essere politicamente indipendente da ogni altra autorità. Le altre banche, compresa la Federal Reserve Bank (Usa) sono autonome. L’anomalia è però soprattutto rilevante nell’assetto attuale dell’integrazione europea. L’adozione dell’euro anche in assenza di uno Stato sovrano europeo, è avvenuta in maniera contraria alle tesi costituzionali politiche che da sempre riconoscono che una moneta implica un governo, un potere sovrano, uno Stato.
Le ragioni per le quali i poteri forti europei hanno creato una moneta senza Stato sono molteplici. A nostro avviso, la più pregnante è di ordine ideologico politico: è l’idea che occorra staccare l’economia dalla politica ed affidare i compiti di gestione dell’economia, in particolare della politica monetaria, ad organi tecnici “indipendenti” dai governi pubblici, capaci di dare fiducia ai mercati finanziari. Il compito della Bce non è di dare fiducia ai parlamenti nazionali ed al parlamento europeo e di salvaguardare i diritti umani e sociali dei cittadini stessi. I suoi clienti, come si dice nel gergo dominante, sono i mercati finanziari, le banche e gli agenti finanziari speculativi. La Bce è attualmente il solo potere politico sovranazionale europeo.
L’indipendenza della Bce significa principalmente tre cose. Anzitutto, una mistificazione, deliberata, per coprire legalmente il fatto che essa non lo è ma che è sottomessa all’influenza degli interessi dei poteri pubblici (Stati) più forti dell’Ue sul piano monetario e finanziario. Essa lo è nei confronti degli Stati più deboli come la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo .…ma non della Germania e del mondo finanziario rappresentato dal Lussemburgo. In secondo luogo, una realtà effettiva nei confronti del Parlamento europeo e delle altre istituzioni dell’Ue. Il dialogo economico tra la Bce ed il Pe (per far credere alla legittimità democratica della Bce) e tra questa ed il Consiglio dei Ministri e la Commissione europea (a dimostrazione della responsabilità della prima nei confronti delle altre due) è un puro arrampicarsi sugli specchi.
Infine, la libertà dai poteri politici pubblici accordata alla Bce è una triste farsa politica. Lo strumento chiave del potere della Bce è l’intervento sul tasso di sconto (il costo del capitale) sulla moneta. Da anni questa funzione non appartiene più alle banche centrali (lo Stato) ma alle banche stesse (soggetti privati nella stragrande maggioranza). La Bce, per suo proprio dire, si limita ad intervenire in reazione al tasso di sconto fissato dalle banche/mercati finanziari, abbassandolo in caso di freddezza/stagnazione dell’economia o aumentandolo in caso di riscaldamento o eccitazione elevata dei mercati. Indipendenza formale, quindi, rispetto ai poteri politici pubblici ma dipendenza chiara nei confronti dei mercati finanziari.
Cambiare questo stato non è facile. Bisogna riportare la politica monetaria europea nel campo della democrazia effettiva, dando un governo politico all’euro. Bisogna abolire la dissociazione tra politica ed economia ed eliminare il primato dell’economia sulla politica, per un processo costituente europeo. Il parlamento europeo è l’istituzione più legittima per farlo, se lo vuole. E’ necessario scardinare il potere speculativo e criminale dei mercati finanziari, mettendo fuori legge i paradisi fiscali, regolamentando i mercati dei derivati, le transazioni finanziarie ad alta frequenza e la finanza mobile, ripubblicizzare le casse di risparmio ed il credito alle collettività locali. E dichiarare illegale le forme di competitività fiscale tra gli Stati.Terzo oltre che mettere la finanza e la moneta in Europa al servizio della giustizia e della solidarietà umana e sociale e della giustizia ambientale. Tsipras ha aperto uno scontro durissimo e ciascuno di noi deve fare la sua parte.
La Repubblica, 5 febbraio 201
«Noi vi proponiamo un piano radicale di lotta a sprechi evasione e corruzione, ma aiutateci a tenere la testa fuori dall’acqua, e sia la Francia a guidare l’emergenza», hanno detto ieri il nuovo premier greco Alexis Tsipras al presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e poi al capo dello Stato francese, François Hollande, e nelle stesse ore il suo ministro delle Finanze Yanis Varoufakis al presidente della Bce Mario Draghi. Anche se proprio l’Eurotower chiede impegni immediati: la Bce non accetterà oltre l’11 febbraio i titoli ellenici come garanzia, uno stop che aggraverebbe la crisi di liquidità delle banche. Solo un accordo politico con Bruxelles in una settimana può salvare la Grecia dall’uscita dall’euro.
Il silenzio di Juncker e Draghi, il riserbo di Renzi, le smentite Fmi. E poi le scarne parole di Angela Merkel che suonano come una sentenza: «Ho parlato al telefono con il premier italiano e il presidente francese. Sulla Grecia le posizioni degli Stati membri non differiscono nella sostanza». L’offensiva diplomatica tra Roma, Bruxelles, Parigi e Francoforte di Alexis Tsipras ha prodotto un frastuono di dichiarazioni ottimistiche che però non ha trovato eco nei loro interlocutori. «I negoziati saranno difficili», ha detto il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, unica autorità comunitaria a rilasciare un commento dopo l’incontro con Tsipras.
Roma, Bruxelles, Francoforte e Parigi hanno mandato lo stesso messaggio, dunque: nessuna conferenza internazionale per rinegoziare il debito, nessuna cancellazione più o meno occulta dei 240 miliardi prestati, nessun trattamento di favore da parte di Fmi e Bce. L’unico tavolo negoziale al quale si devono rivolgere i nuovi governanti di Atene è quello dell’Eurogruppo. E devono farlo in fretta perché, senza un accordo dell’Eurogruppo, neppure la Bce sosterrà le banche greche già svenate dalla fuga di capitali.
Accolti dovunque con grandi sorrisi, baci, abbracci e pacche sulle spalle, Tsipras e Varoufakis sono tornati ieri sera ad Atene con ben poca farina nel sacco. E difficilmente se ne aggiungerà oggi, durante l’incontro che Varoufakis avrà a Berlino con il Finanzminister, Wolfgang Schauble. In una intervista a Repubblica, il ministro greco aveva annunciato di aver «avviato un negoziato» con il Fondo monetario internazionale per una dilazione del debito. Circostanza che l’Fmi ha smentito seccamente. In compenso si è saputo che Varoufakis ha incontrato nel week-end a Parigi il responsabile europeo del Fondo, che guardacaso è quel Poul Thomsen odiatissimo dai Greci perché per anni a capo della Troika e dei suoi ultimatum. I due, dice un breve e perfido comunicato Fmi, «hanno fatto conoscenza ed evocato le sfide a cui la Grecia deve far fronte».
Pure tra coloro che Tsipras considerava i suoi potenziali alleati, come Renzi, Hollande e il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, il leader greco ha trovato sorrisi, comprensione, ma anche una linea di demarcazione netta: la premessa per qualsiasi negoziato è che Atene si impegni a rispettare le regole europee e gli obblighi assunti. «Se la Grecia modifica unilateralmente gli accordi, l’altra parte non è più obbligata a rispettarli, pertanto lo Stato non sarà più in grado di finanziarsi», dice Schulz in una intervista a Handesblatt.
Intanto i tedeschi hanno fatto trapelare un loro “documento di lavoro” presentato agli altri governi dell’Eurozona in cui chiedono non solo che la Grecia garantisca di rimborsare il debito, ma che mantenga anche tutti gli impegni di tagli, riforme e privatizzazioni che i precedenti governi avevano concordato con la Troika. Ma questo, evidentemente, fa già parte della complicata partita negoziale che si aprirà oggi con l’incontro di Varoufakis e Schauble e che entrerà nel vivo l’11 febbraio alla riunione dell’Eurogruppo che precederà di un giorno il vertice dei capi di governo della Ue, quando finalmente Tsipras incontrerà la cancelliera Merkel.
Il manifesto, 5 febbraio 2015 (m.p.r.)
Occorre davvero far ricorso a tutte le risorse etiche e razionali di cui disponiamo per non relegare un intero pezzo di mondo nelle tenebre della barbarie più efferata e auspicarne l’annientamento a qualsiasi costo, «danni collaterali» compresi. La tentazione è forte. All’orribile morte tra le fiamme di Moath al-Kasasbeh, decisa magari «dal basso» dagli umori infami del popolo jihadista consultato sulla rete, fa seguito la reazione squisitamente kappleriana della monarchia di Amman, che fa immediatamente impiccare Sajida al-Rishawi, la terrorista detenuta nelle carceri giordane dal 2005 e che la Giordania era disposta fino a ieri a scambiare con il suo pilota, e un altro detenuto qaedista iracheno, Ziad al-Karbouli.
In realtà circolava voce che altri cinque detenuti sarebbero stati giustiziati, ma non è chiaro quale sia la proporzione della rappresaglia ritenuta adeguata dalla monarchia hashemita. Ci auguriamo inferiore a quella delle Fosse Ardeatine. Intanto da quel santuario di saggezza islamica «moderata» che è l’università coranica di Al Azhar si leva l’invito a «uccidere, crocifiggere e mutilare» i terroristi. Questo Islam potrebbe piacere perfino, per l’occasione, alla destra islamofoba.
Lasciando per un momento da parte ogni considerazione geopolitica, ci troviamo di fronte tutti gli elementi di una «guerra interfascista» (per usare l’espressione suggestivamente applicata da Franco Berardi Bifo alla guerra in Ucraina). L’orrore abita diversi luoghi nel mondo, in proporzioni numeriche più o meno spaventose dal Pakistan alla Nigeria, pervade legislazioni, forme politiche e sociali di molti regimi fidati alleati dell’Occidente.
In un luogo specifico, però, quello militarmente occupato dall’Isis, l’orrore si è «fatto stato» senza diplomatici velami. Uno stato che esercita il suo potere in forme tanto feroci da far impallidire l’Afghanistan crudelmente tribale e «tradizionalista» del Mullah Omar. Vi si bruciano libri ed esseri umani in stile più nazista che «medioevale». Questo stato deve essere cancellato dalla carta geografica, prestando però molta attenzione a che non se ne disperdano le spore. Ma è questa una ragione per tollerare la barbarie «moderata» che frequenta la city nel timore che possa diventare «estrema», probabilmente senza smettere di frequentarla?
Le ragioni economiche e geostrategiche non abbisognano, si sa, di giustificazioni morali. Ma il discorso pubblico e anche la retorica democratica non possono farne a meno. E tacere sui sistemi di brutale oppressione esercitati dagli alleati dell’Occidente in casa propria. E’ di ieri la condanna all’ergastolo di centinaia di militanti del movimento che spodestò Mubarak in Egitto.
Non si vedono in giro per il mondo cartelli e magliette con la scritta «Je suis Moath». Certo un pilota che bombarda, tutt’altro che chirurgicamente, i territori dominati dall’orrore è ben diverso da vignettisti assassinati per le loro opinioni ed eletti a simbolo della libertà di espressione, sebbene tutti vittime della medesima barbarie. Le bombe, questo è certo, non sono parole. Eppure dovrebbero esserci, nonostante tutto, queste magliette e questi cartelli, perché la Convenzione di Ginevra, per non parlare dei più elementari principi di umanità, contiene diritti non meno importanti da difendere. E anche chi partecipa a una guerra, una volta prigioniero non può subire la sorte terrificante toccata al pilota giordano.
C’è un problema però. Anche le vittime della rappresaglia giordana, e cioè di una logica fascista, meriterebbero la stessa attenzione. Capisco quanto sarebbe imbarazzante indossare una maglietta con la scritta «Je suis Sajida», una fanatica terrorista che ha partecipato a un attentato che ha provocato 60 morti, ma nel momento in cui non è più in grado di nuocere e diventa la pedina inerme e torturata di un mostruoso gioco di immagini, l’oggetto di una vendetta al servizio della propaganda hashemita, forse bisognerebbe avere il coraggio e lo stomaco di farlo.
Ma solo da quel momento in poi. Prima gli uomini dell’Isis, come già gli eserciti nazionalsocialisti, non possono che essere combattuti con le armi e i loro complici «moderati» e silenziosi costretti a gettare la maschera e a rendere conto delle proprie azioni.
La Repubblica, 4 febbraio 2015
A porte chiuse, di fronte agli investitori della City, Varoufakis l’altro giorno è stato persino più abrasivo del solito. Il ministro dell’Economia greco ha rispolverato le formule che hanno fatto di lui un blogger di successo. La banca centrale europea si sta comportando come uno hedge fund - ha detto - . Hanno approfittato di noi. Se vogliono possono spararci addosso, ma sarebbe un omicidio».
Lo stile del ministro può non aver conquistato i gessati grigi di Londra, ma le sue frecce sono scagliate con precisione chirurgica. Varoufakis centra in pieno una delle troppe ipocrisie che rendono la Grecia un rebus quasi insolubile e rischiano di farne una fonte di contagio politico in Europa, tanto quanto lo fu di contagio finanziario cinque anni fa.
L’ipocrisia attorno alla Bce si snoda così. Nel 2010 e 2011, la banca centrale ha comprato titoli greci per 27,7 miliardi di euro e solo quest’estate Atene dovrà rimborsarne sei (oltre a circa 8 al Fondo monetario internazionale). A quel punto l’Eurotower, grazie ad Atene, realizzerà una plusvalenza degna dei migliori speculatori perché nel 2010 e 2011 aveva comprato quella «spazzatura» con rendimenti a doppia cifra. A differenza degli hedge fund però la Bce non accetta rischi di perdite benché il rendimento dei titoli sia astronomico, e pretende di essere ripagata fino in fondo. Si realizza così un trasferimento di risorse dai contribuenti greci a Francoforte. In teoria quei guadagni dovrebbero essere di nuovo stornati alla Grecia, ma accadrà solo a condizione che il nuovo governo di Atene accetti i termini di un programma sotto il controllo dell’area euro.
Non è l’unica doppia verità di questa vicenda, ovviamente. È fin troppo facile il gioco di scoprirne in ciascuno dei protagonisti. Barack Obama per esempio accusa gli europei di voler “strizzare” la Grecia, ma gli Stati Uniti non hanno mai usato il loro potere di veto nel Fmi - di cui sono primi azionisti - per allentare le richieste del Fondo e della troika verso Atene; e anche per Obama è inconcepibile un’estensione delle scadenze sui crediti del Fmi alla Grecia, perché in gioco c’è anche la quota versata dalla sua amministrazione. Quanto a Angela Merkel, non ha mai spiegato ai suoi elettori che i pacchetti di denaro degli europei sono serviti anche a far uscire indenni le banche tedesche esposte in Grecia fino a 45 miliardi di dollari; senza quei salvataggi, i tedeschi probabilmente avrebbero dovuto pagare ancora di più per ricapitalizzare gli istituti in rovina del loro stesso Paese.
Neanche Alexis Tsipras, il nuovo premier ellenico, è esente da una buona dose di ambivalenza. Non ha mai riconosciuto che il deficit greco, falsificato per anni, aveva superato il 15% del prodotto lordo. Non ha restituito la scorta né ha mai speso una parola per Andreas Georgiou, l’attuale presidente dell’istituto statistico greco, che da tempo è bersaglio di minacce anonime ed è formalmente imputato per alto tradimento alla nazione dopo aver osato svelare le frodi nel bilancio dello Stato.
È quando la verità inizia ad avere questi doppi e tripli fondi - secondo convenienza - che capisci che questa non è più una questione di tecnica finanziaria. È una partita politica giocata contro il tempo, con scadenza in estate, nella quale tutti hanno moltissimo da perdere se finirà senza accordo. Una Grecia spinta fuori dall’euro da un caotico default sarebbe uno Stato-paria, capace di perdere il 10% del Pil in un solo anno. L’Italia, la Spagna e la Francia dovrebbero pagare tassi d’interessi molto più alti, non appena per i mercati l’uscita dall’euro diventasse un’opzione credibile. E Angela Merkel si lascebbe alle spalle un’eredità di discredito. A quel punto il contagio delle forze anti-sistema in Europa diventerebbe inarrestabile.
Basta questo per capire che tutti alla fine faranno il massimo per mettere da parte le ipocrisie e trovare un compromesso. Tecnicamente non è impossibile. La Bce può essere indennizzata dal fondo salvataggi europeo Esm. Il rimborso del debito di Atene verso gli Stati europei può essere parametrato alla crescita della Grecia, come qualcuno da tempo propone persino da Berlino. Tsipras può impegnarsi su un serio programma basato su una giusta misura di rigore di bilancio, sulla lotta alla corruzione e all’evasione e sull’idea (inedita ad Atene) che anche i ricchi pagano per il risanamento. E l’area euro può favorire e garantire ciò che finora non ha dimenticato di fare: un piano di ricostruzione economica e di investimenti esteri in un Paese che ha fallito la transizione verso la modernità.
Per arrivarci tutti i leader dovranno accettare costi politici. Deve farlo Tsipras, che ha già promesso troppo ed è partito sotto il segno dell’intransigenza. Ma devono muovere un passo indietro anche Merkel e il governo di Madrid, dove si teme che un successo di questa Grecia in Europa rimetta in discussione chi in Spagna ha accettato enormi sacrifici e ora è tornato a crescere a un ritmo di oltre il 2% all’anno.
In mezzo a questi campi di forza si trova da ieri Matteo Renzi, e ha capito che a lui spetta uno spazio intermedio. Non vuole allinearsi del tutto con Merkel. Ma non deve diventare l’avvocato di Tsipras in Europa, perché presto molti sospetterebbero (a torto) che l’Italia è come la Grecia. Rischia ancora di finire male per tutti. Ma in caso contrario, per una volta, il contagio partito da Atene può aprire la strada a un equilibrio più stabile in Europa.
Si attende dal Presidente qualche gesto che dimostri che la lettera e lo spirito della Costituzione esige che si rispetti quel suo articolo secondo il quale "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli". Il manifesto, 4 febbraio 2015
Nell’asciutto e preciso intervento rivolto dal Parlamento agli italiani, una affermazione è apparsa subito chiara risuonando come un monito: la garanzia più forte della nostra Costituzione consiste nella sua applicazione, «nel viverla ogni giorno». E garantire la Costituzione, significa tra l’altro «ripudiare la guerra e promuovere la pace»: eccolo l’articolo 11 nel suo primo enunciato. Dichiarazione che, nello stile di chi dichiara di essere attento al quotidiano, alle difficoltà reali dei «concittadini», è sembrato tutt’altro che retorica. Soprattutto rivendicata nella sede istituzionale più alta, dopo tanti silenzi e ipocrisie.
Ma nel seguito delle sue parole e nell’accoglienza tra i parlamentari, molte ambiguità sulla questione della guerra rimangono. Sia nell’affermazione: «…A livello internazionale la meritoria e indispensabile azione di mantenimento della pace, che vede impegnati i nostri militari in tante missioni, deve consolidarsi con un’azione di ricostruzione politica, sociale e culturale senza la quale ogni sforzo è destinato a vanificarsi». Sia nel ringraziamento «…alle forze armate, sempre più strumento di pace ed elemento essensiale della nostra politica estera e di sicurezza…». In quale crisi — nei Balcani, in Iraq, in Afghanistan o in Libia -, l’uso della forza e della guerra «umanitaria» con la presenza interventista dei nostri soldati ha aiutato a risolvere quei conflitti e non ha invece incancrenito la situazione, anche con la co-responsabilità in stragi con tante, troppe vittime civili e fughe di milioni di disperati?
Perché tutto, nel discorso del Presidente Mattarella — sia quello in Parlamento che dopo la visita alle Fosse ardeatine -, viene inscritto comunque nella necessità di rispondere al «terrorismo internazionale» e ai «predicatori di odio» che insidiano la nostra sicurezza e i nostri valori. Senza interrogarsi mai se l’uso della forza militare, vale a dire della guerra, abbia fin qui aiutato a fermare il terrorismo e non piuttosto a seminare maggiore odio. Non è forse l’uso della guerra a pregiudicare la pace e perfino gli sforzi di pace degli organismi internazionali? Visto il modo in cui è stata presa la decisione di partecipare a molti conflitti, contro e oltre la volontà dell’Onu. E ancora, come si rifiuta la guerra se le Forze armate vengono promosse al rango di «elemento essenziale della politica estera» che invece dovrebbe essere propria della diplomazia, di fatto inesistente in Italia e nell’Unione europea? Se dopo l’89 e la Guerra fredda, si è aperta ricorda Mattarella, una stagione nuova in Europa, che ci stanno a fare 100 piloti italiani di cacciabombardieri nei Paesi baltici al seguito della strategia di allargamento a est della Nato, pericolosamente al confine della Russia? Davvero questo aiuterà la conclusione della crisi ucraina o al contrario l’approfondirà verso un confronto pre-’89?
E tutto questo quanto ci costa, visti i magri bilanci tagliati per via della crisi? Perché, se proprio non vogliamo ripetere la frase a noi cara del Presidente Sandro Pertini, «Si aprano i granai si chiudano gli arsenali di armi», almeno osserviamo che dai dati ufficiali di Nato e Sipri, l’attuale spesa militare dell’Italia si aggira tra 50 e 70 milioni di euro al giorno. Al giorno. Senza dimenticare che gli F-35 dal costo miliardario, sono strumento d’offesa non di difesa.
Eppure l’articolo 11 della Costituzione italiana rifiuta la guerra proprio «come mezzo di risoluzione delle crisi internazionali». Senza malinterpretare il secondo comma dell’articolo (che mette a disposizione risorse per soddisfare le richieste degli organismi internazionali come l’Onu), come fosse un’autorizzazione a fare la guerra, magari aggettivata con «umanitaria». Ma come può la seconda parte di un articolato costituzionale fondativo contraddire e negare la prima parte? Altrimenti, che costituzione sarebbe. Pensate se l’ articolo 1 che fonda l’Italia sul lavoro, dichiarasse nella sua seconda riga invece fondativa la disoccupazione. La guerra è esplicitamente «rifiutata». Purtroppo di questo rifiuto si è fatto uso e abuso, e vale la pena ricordare che l’avvio della fine della leva militare promosso dal ministro della difesa Mattarella, non ha decretato la fine della partecipazione italiana alle guerre ma il contrario: a partire dal 1999, quando Mattarella era vice-premier, è cominciata una nuova stagione della Nato che, con la guerra di raid aerei sulla ex Jugoslavia, si è trasformata da patto di difesa in trattato offensivo, pronto all’intervento militare. Quel conflitto è diventato il modello di altre avventure belliche come in Iraq, Afghanistan, Libia, Siria» e via dicendo.
Così, alla fine davvero è suonata appropriata la standing ovation di tutto il Parlamento appena Mattarella ha nominato i «due marò». Certo, concordiamo anche noi che due anni e mezzo di detenzione senza processo sono insopportabili, in India e sotto ogni giurisdizione. Ma come dimenticare che questa drammatica vicenda è nella scia della scellerata decisione bipartisan del Parlamento che ha autorizzato i militari dello Stato italiano a fare da scorta a navigli privati in difesa dei «pirati»; così indiscriminata e poco mirata che abbiamo sparato, uccidendo due dimenticati pescatori indiani, in un’area, le coste del Kerala, dove la pirateria non c’è. Soprattutto Mattarella ha fatto bene a ringraziare i tanti militari morti nell’adempimento del loro dovere. Quei tanti marò di cui nessuno parla, malati terminali o morti per l’uranio impoverito.
Ora se la presidenza Mattarella «promuoverà la pace», sarà anche il Presidente dei pacifisti. E ci aiuterà a tirare fuori lo scheletro della guerra dall’armadio delle democrazie occidentali
Il manifesto, 3 febbraio
Però Renzi si è commosso quando ha parlato del rientro degli operai nell’Ast di Terni.
All’Ast di Terni i lavoratori hanno scioperato ad oltranza perché avevano rifiutato e bocciato una proposta di mediazione avanzata dal governo. A Terni l’accordo è stato fatto grazie alla lotta dei lavoratori. Eviti di mettere il marchio del governo su cose che non sono state il frutto suo lavoro.
Ma il jobs act è stato approvato e i sui decreti il parlamento ha un ruolo marginale. Che farete?
Il 27 e il 28 febbraio faremo l’assemblea nazionale dei delegati Fiom. Ci muoveremo sia sul piano giuridico che sui contratti. Con il jobs act si conferma un apartheid dei giovani assunti: ci batteremo perché dopo un certo tempo siano garantiti gli stessi tutele delli altri. Nei contratti aziendali e in quelli nazionali. Sul piano legale valuteremo tutto quello che c’è da fare. Non escludiamo nulla. Apriremo una consultazione straordinaria delle lavoratrici e dei lavoratori metalmeccanici. Non escludiamo nemmeno un referendum. E visto che sono temi che non riguardano solo i metalmeccanici ma anche i precari, chi il lavoro non ce l’ha e chi si batte per la giustizia sociale, cercheremo di coinvolgere tutte le persone e le associazioni che non condividono le scelte del governo.
È la nascita di un luogo per aggregare la sinistra sociale?
La sinistra o è sociale o non è, ed infatti è sotto gli occhi di tutti la crisi della sinistra. Ma quando penso a una consultazione aperta vado oltre la sinistra classicamente intesa. C’è un governo che decide senza tener conto del parere delle persone, dei sindacati, delle associazioni. Oggi il primato della politica che ammazza qualsiasi rappresentanza sociale. È utile che si costruisca una rete di rappresentanza sociale che a partire dal lavoro, dai beni comuni, da un nuovo modello di sviluppo, dalla lotta contro le mafie, che esprima un altro punto di vista. Lo dico da un punto di vista sindacale, ma anche di chi pensa che la democrazia che non riconosce la partecipazione non è democrazia ma comando.
Farete nascere una rete sociale, non solo sindacale?
Io faccio il sindacalista. Ma un paese ormai la maggioranza non va a votare dovrebbe essere un segnale preoccupante per tutti.
La ’sinistra-sinistra’ la settimana scorsa, a Milano, ha lanciato un coordinamento. La sua proposta ha a che vedere con questo?
Ho rispetto per quello che avviene nel mondo politico, e se ci sono processi di riaggregazione li guardo con rispetto. La mia idea non è alternativa, ma è un’altra cosa. Siamo arrivati al terzo governo che non risponde a programmi che i cittadini hanno conosciuto e votato. C’è un parlamento che, nella sua maggioranza, ha cancellato lo statuto dei lavoratori, che poi era l’applicazione della Costituzione, e del diritto di cittadinanza. Per questo dico che i valori del lavoro e della Costituzione non sono rappresentati: è più rappresentata la Confindustria e l’idea liberista e dell’austerità che imperversa in Europa e che ha creato 25 milioni di disoccupati e messo a rischio la tenuta democratica. Il governo Renzi ha applicato alla lettera della Bce, come già prima Monti e Letta. Rispetto i partiti, ma noi — Fiom e Cgil e il mondo che si è mosso con noi in questi mesi — dobbiamo dare una rappresentanza a un mondo che oggi non è rappresentato.
Ha apprezzato la scelta del nuovo presidente Mattarella?
Se fossi stato in parlamento l’avrei votato. È un riferimento importante sul piano etico, in un paese così sfiduciato. È utile che al suo posto ì sieda chi ha a cuore la piena applicazione dei principi costituzionali.
La sinistra Pd spera che ora cambi qualcosa in parlamento.
Sono cose diverse. Non mi pare che il governo voglia ripristinare l’art.18 o cancellare il jobs act, o modificare la legge elettorale.
La sinistra Pd continuerà a contare poco?
Fin qui in parlamento non sono passate cose di sinistra. E questi provvedimenti, alla fine, in buona parte li hanno votati.
Siedono in parlamento molti ex sindacalisti Cgil, e molti hanno votato il jobs act.
Di fronte a queste cose non ho parole. Ognuno risponderà alla sua coscienza.
Non le chiedo se lei è lo Tsipras italiano. Ma Renzi incontra Tsipras. Che dovrebbe dirgli?
Quella di Tsipras è una novità: per la prima volta in libere elezioni un popolo elegge chi chiede di cambiare i vincoli europei. La Fiom ha fatto proposte su come rimuovere il debito. Dobbiamo andare verso una forma di mutualizzazione, come hanno fatto gli Usa. La Bce dovrebbe fare un’operazione più impegnativa per liberare risorse da destinare agli investimenti. Nessuno chiede che qualcun altro paghi il suo debito. Ma, faccio un esempio, se uno paga un mutuo in più anni e gli interessi li investe per rilanciare la domanda, e se la Bce si riformasse per garantire questo, sarebbe un’altra storia. L’Italia deve battersi perché in Europa si apra questa discussione. Iniziando con il togliere il pareggio di bilancio in Costituzione.
Tsipras non riconosce la Troika come interlocutore. Bene?
Tsipras è stato eletto dai greci. La Troika no.
Lei è stato solidale con Sergio Cofferati che ha lasciato il Pd. Non da Tsipras italiano, ma da osservatore speciale delle cose italiane, crede davvero che la sinistra possa riaggregarsi?
Ho un grande rispetto per Sergio, per quello che ha fatto dalla Cgil in avanti. E quando uno come lui decide di lasciare il suo partito per ragioni etiche è un fatto grave. Non è un suo poblema personale. Quando ho detto che l’etica è un problema in questo paese dal Pd mi è stato risposto male, ma chi mi ha risposto così, il presidente del Pd (Matteo Orfini, ndr) oggi è commissario della federazione di Roma del Pd: evidente qualche problema di onestà c’è. Non so cosa avverrà a sinistra. Ma siccome la maggioranza del paese deve lavorare per vivere, parlo di lavoratori ma anche degli imprenditori seri, queste persone hanno diritto di sentirsi rappresentate e di partecipare.
Pensa a un partito del lavoro?
No, io penso fare il sindacalista. Ma certo le forme tradizionali della politica sono in crisi. C’è bisogno di pensare a forme nuove di partecipazione. Ma questo riguarda anche noi: c’è bisogno di una riforma radicale anche del movimento sindacale, Fiom e Cgil.
Camusso, la segretaria Cgil, è stata ’grande elettrice’ di Bersani. Guardando al passato, può non aver giovato al sindacato?
I sindacalisti sono persone e hanno diritto a essere iscritti a un partito e a fare politica se vogliono. In generale uno dei problemi di questi anni è stata la scarsa autonomia del sindacato, a volte l’abbiamo pagata. Ma in questa ultima fase abbiamo recuperato la nostra autonomia, e si vede dal successo delle manifestazioni. Ripeto, c’è bisogno di una riforma democratica anche del sindacato.
Questo vuol dire che non la si vedrà più alle iniziative dei partiti?
Vado dove mi invitano, destra centro e sinistra. Da sempre. Non ho tessere di partito e non dichiaro chi voto, ma è una mia scelta, rispetto chi ne fa altre. Finché sono segretario della Fiom rispondo gli iscritti, e nessuno di loro deve sospettare che uso il ruolo che ho per fini diversi dal fare il segretario generale della Fiom
Il Fatto quotidiano online, 3 febbraio 2015
Un pensiero deferente ai miei predecessori, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano, che hanno svolto la loro funzione con impegno e dedizione esemplari. A loro va l’affettuosa riconoscenza degli italiani. Al Presidente Napolitano che, in un momento difficile, ha accettato l’onere di un secondo mandato, un ringraziamento particolarmente intenso. Rendo omaggio alla Corte Costituzionale organo di alta garanzia a tutela della nostra Carta fondamentale, al Consiglio Superiore della magistratura presidio dell’indipendenza e a tutte le magistrature.
Avverto pienamente la responsabilità del compito che mi è stato affidato. La responsabilità di rappresentare l’unità nazionale innanzitutto. L’unità che lega indissolubilmente i nostri territori, dal Nord al Mezzogiorno. Ma anche l’unità costituita dall’insieme delle attese e delle aspirazioni dei nostri concittadini. Questa unità, rischia di essere difficile, fragile, lontana.
L’impegno di tutti deve essere rivolto a superare le difficoltà degli italiani e a realizzare le loro speranze. La lunga crisi, prolungatasi oltre ogni limite, ha inferto ferite al tessuto sociale del nostro Paese e ha messo a dura prova la tenuta del suo sistema produttivo. Ha aumentato le ingiustizie. Ha generato nuove povertà. Ha prodotto emarginazione e solitudine. Le angosce si annidano in tante famiglie per le difficoltà che sottraggono il futuro alle ragazze e ai ragazzi. Il lavoro che manca per tanti giovani, specialmente nel Mezzogiorno, la perdita di occupazione, l’esclusione, le difficoltà che si incontrano nel garantire diritti e servizi sociali fondamentali.
Sono questi i punti dell’agenda esigente su cui sarà misurata la vicinanza delle istituzioni al popolo. Dobbiamo saper scongiurare il rischio che la crisi economica intacchi il rispetto di principi e valori su cui si fonda il patto sociale sancito dalla Costituzione. Per uscire dalla crisi, che ha fiaccato in modo grave l’economia nazionale e quella europea, va alimentata l’inversione del ciclo economico, da lungo tempo attesa. E’ indispensabile che al consolidamento finanziario si accompagni una robusta iniziativa di crescita, da articolare innanzitutto a livello europeo. Nel corso del semestre di Presidenza dell’Unione Europea appena conclusosi, il Governo – cui rivolgo un saluto e un augurio di buon lavoro – ha opportunamente perseguito questa strategia.
Sussiste oggi l’esigenza di confermare il patto costituzionale che mantiene unito il Paese e che riconosce a tutti i cittadini i diritti fondamentali e pari dignità sociale e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza. L’urgenza di riforme istituzionali, economiche e sociali deriva dal dovere di dare risposte efficaci alla nostra comunità, risposte adeguate alle sfide che abbiamo di fronte.
Esistono nel nostro Paese energie che attendono soltanto di trovare modo di esprimersi compiutamente. Penso ai giovani che coltivano i propri talenti e che vorrebbero vedere riconosciuto il merito. Penso alle imprese, piccole medie e grandi che, tra rilevanti difficoltà, trovano il coraggio di continuare a innovare e a competere sui mercati internazionali. Penso alla Pubblica Amministrazione che possiede competenze di valore ma che deve declinare i principi costituzionali, adeguandosi alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie e alle sensibilità dei cittadini, che chiedono partecipazione, trasparenza, semplicità degli adempimenti, coerenza nelle decisioni.
Non servono generiche esortazioni a guardare al futuro ma piuttosto la tenace mobilitazione di tutte le risorse della società italiana. Parlare di unità nazionale significa, allora, ridare al Paese un orizzonte di speranza. Perché questa speranza non rimanga un’evocazione astratta, occorre ricostruire quei legami che tengono insieme la società. A questa azione sono chiamate tutte le forze vive delle nostre comunità in Patria come all’estero.
Ai connazionali nel mondo va il mio saluto affettuoso. Un pensiero di amicizia rivolgo alle numerose comunità straniere presenti nel nostro Paese. La strada maestra di un Paese unito è quella che indica la nostra Costituzione, quando sottolinea il ruolo delle formazioni sociali, corollario di una piena partecipazione alla vita pubblica. La crisi di rappresentanza ha reso deboli o inefficaci gli strumenti tradizionali della partecipazione, mentre dalla società emergono, con forza, nuove modalità di espressione che hanno già prodotto risultati avvertibili nella politica e nei suoi soggetti.
Questo stesso Parlamento presenta elementi di novità e di cambiamento. La più alta percentuale di donne e tanti giovani parlamentari. Un risultato prezioso che troppe volte la politica stessa finisce per oscurare dietro polemiche e conflitti. I giovani parlamentari portano in queste aule le speranze e le attese dei propri coetanei. Rappresentano anche, con la capacità di critica, e persino di indignazione, la voglia di cambiare. A loro, in particolare, chiedo di dare un contributo positivo al nostro essere davvero comunità nazionale, non dimenticando mai l’essenza del mandato parlamentare.
L’idea, cioè, che in queste aule non si è espressione di un segmento della società o di interessi particolari, ma si è rappresentanti dell’intero popolo italiano e, tutti insieme, al servizio del Paese. Tutti sono chiamati ad assumere per intero questa responsabilità. Condizione primaria per riaccostare gli italiani alle istituzioni è intendere la politica come servizio al bene comune, patrimonio di ognuno e di tutti. E’ necessario ricollegare a esse quei tanti nostri concittadini che le avvertono lontane ed estranee.
La democrazia non è una conquista definitiva ma va inverata continuamente, individuando le formule più adeguate al mutamento dei tempi. E’ significativo che il mio giuramento sia avvenuto mentre sta per completarsi il percorso di un’ampia e incisiva riforma della seconda parte della Costituzione. Senza entrare nel merito delle singole soluzioni, che competono al Parlamento, nella sua sovranità, desidero esprimere l’auspicio che questo percorso sia portato a compimento con l’obiettivo di rendere più adeguata la nostra democrazia. Riformare la Costituzione per rafforzare il processo democratico.
Vi è anche la necessità di superare la logica della deroga costante alle forme ordinarie del processo legislativo, bilanciando l’esigenza di governo con il rispetto delle garanzie procedurali di una corretta dialettica parlamentare.
Come è stato più volte sollecitato dal Presidente Napolitano, un’altra priorità è costituita dall’approvazione di una nuova legge elettorale, tema sul quale è impegnato il Parlamento.
Nel linguaggio corrente si è soliti tradurre il compito del capo dello Stato nel ruolo di un arbitro, del garante della Costituzione. E’ una immagine efficace.All’arbitro compete la puntuale applicazione delle regole. L’arbitro deve essere – e sarà – imparziale. I giocatori lo aiutino con la loro correttezza.
Il Presidente della Repubblica è garante della Costituzione. La garanzia più forte della nostra Costituzione consiste, peraltro, nella sua applicazione. Nel viverla giorno per giorno. Garantire la Costituzione significa garantire il diritto allo studio dei nostri ragazzi in una scuola moderna in ambienti sicuri, garantire il loro diritto al futuro.
Significa riconoscere e rendere effettivo il diritto al lavoro. Significa promuovere la cultura diffusa e la ricerca di eccellenza, anche utilizzando le nuove tecnologie e superando il divario digitale. Significa amare i nostri tesori ambientali e artistici. Significa ripudiare la guerra e promuovere la pace. Significa garantire i diritti dei malati. Significa che ciascuno concorra, con lealtà, alle spese della comunità nazionale. Significa che si possa ottenere giustizia in tempi rapidi. Significa fare in modo che le donne non debbano avere paura di violenze e discriminazioni.
Significa rimuovere ogni barriera che limiti i diritti delle persone con disabilità. Significa sostenere la famiglia, risorsa della società. Significa garantire l’autonomia ed il pluralismo dell’informazione, presidio di democrazia. Significa ricordare la Resistenza e il sacrificio di tanti che settanta anni fa liberarono l’Italia dal nazifascismo.
Significa libertà. Libertà come pieno sviluppo dei diritti civili, nella sfera sociale come in quella economica, nella sfera personale e affettiva. Garantire la Costituzione significa affermare e diffondere un senso forte della legalità. La lotta alla mafia e quella alla corruzione sono priorità assolute.
La corruzione ha raggiunto un livello inaccettabile. Divora risorse che potrebbero essere destinate ai cittadini. Impedisce la corretta esplicazione delle regole del mercato. Favorisce le consorterie e penalizza gli onesti e i capaci. L’attuale Pontefice, Francesco, che ringrazio per il messaggio di auguri che ha voluto inviarmi, ha usato parole severe contro i corrotti: «Uomini di buone maniere, ma di cattive abitudini».
E’ allarmante la diffusione delle mafie, antiche e nuove, anche in aree geografiche storicamente immuni. Un cancro pervasivo, che distrugge speranze, impone gioghi e sopraffazioni, calpesta diritti. Dobbiamo incoraggiare l’azione determinata della magistratura e delle forze dell’ordine che, spesso a rischio della vita, si battono per contrastare la criminalità organizzata. Nella lotta alle mafie abbiamo avuto molti eroi. Penso tra gli altri a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per sconfiggere la mafia occorre una moltitudine di persone oneste, competenti, tenaci. E una dirigenza politica e amministrativa capace di compiere il proprio dovere.
Altri rischi minacciano la nostra convivenza. Il terrorismo internazionale ha lanciato la sua sfida sanguinosa, seminando lutti e tragedie in ogni parte del mondo e facendo vittime innocenti. Siamo inorriditi dalle barbare decapitazioni di ostaggi, dalle guerre e dagli eccidi in Medio Oriente e in Africa, fino ai tragici fatti di Parigi.
Il nostro Paese ha pagato, più volte, in un passato non troppo lontano, il prezzo dell’odio e dell’intolleranza. Voglio ricordare un solo nome: Stefano Taché, rimasto ucciso nel vile attacco terroristico alla Sinagoga di Roma nell’ottobre del 1982. Aveva solo due anni. Era un nostro bambino, un bambino italiano.
La pratica della violenza in nome della religione sembrava un capitolo da tempo chiuso dalla storia. Va condannato e combattuto chi strumentalizza a fini di dominio il proprio credo, violando il diritto fondamentale alla libertà religiosa. Considerare la sfida terribile del terrorismo fondamentalista nell’ottica dello scontro tra religioni o tra civiltà sarebbe un grave errore.
La minaccia è molto più profonda e più vasta. L’attacco è ai fondamenti di libertà, di democrazia, di tolleranza e di convivenza. Per minacce globali servono risposte globali. Un fenomeno così grave non si può combattere rinchiudendosi nel fortino degli Stati nazionali. I predicatori d’odio e coloro che reclutano assassini utilizzano internet e i mezzi di comunicazione più sofisticati, che sfuggono, per la loro stessa natura, a una dimensione territoriale.
La comunità internazionale deve mettere in campo tutte le sue risorse. Nel salutare il Corpo Diplomatico accreditato presso la Repubblica, esprimo un auspicio di intensa collaborazione anche in questa direzione. La lotta al terrorismo va condotta con fermezza, intelligenza, capacità di discernimento. Una lotta impegnativa che non può prescindere dalla sicurezza: lo Stato deve assicurare il diritto dei cittadini a una vita serena e libera dalla paura.
Il sentimento della speranza ha caratterizzato l’Europa nel dopoguerra e alla caduta del muro di Berlino. Speranza di libertà e di ripresa dopo la guerra, speranza di affermazione di valori di democrazia dopo il 1989. Nella nuova Europa l’Italia ha trovato l’affermazione della sua sovranità; un approdo sicuro ma soprattutto un luogo da cui ripartire per vincere le sfide globali. L’Unione Europea rappresenta oggi, ancora una volta, una frontiera di speranza e la prospettiva di una vera Unione politica va rilanciata, senza indugio.
L’affermazione dei diritti di cittadinanza rappresenta il consolidamento del grande spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia. Le guerre, gli attentati, le persecuzioni politiche, etniche e religiose, la miseria e le carestie generano ingenti masse di profughi. Milioni di individui e famiglie in fuga dalle proprie case che cercano salvezza e futuro proprio nell’Europa del diritto e della democrazia. E’ questa un’emergenza umanitaria, grave e dolorosa, che deve vedere l’Unione Europea più attenta, impegnata e solidale. L’Italia ha fatto e sta facendo bene la sua parte e siamo grati a tutti i nostri operatori, ai vari livelli, per l’impegno generoso con cui fronteggiano questo drammatico esodo.
A livello internazionale la meritoria e indispensabile azione di mantenimento della pace, che vede impegnati i nostri militari in tante missioni, ¬ deve essere consolidata con un’azione di ricostruzione politica, economica, sociale e culturale, senza la quale ogni sforzo è destinato a vanificarsi.
Alle Forze Armate, sempre più strumento di pace ed elemento essenziale della nostra politica estera e di sicurezza, rivolgo un sincero ringraziamento, ricordando quanti hanno perduto la loro vita nell’assolvimento del proprio dovere. Occorre continuare a dispiegare il massimo impegno affinché la delicata vicenda dei due nostri fucilieri di Marina, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, trovi al più presto una conclusione positiva, con il loro definitivo ritorno in Patria.
Desidero rivolgere un pensiero ai civili impegnati, in zone spesso rischiose, nella preziosa opera di cooperazione e di aiuto allo sviluppo. Di tre italiani, padre Paolo Dall’Oglio, Giovanni Lo Porto e Ignazio Scaravilli non si hanno notizie in terre difficili e martoriate. A loro e ai loro familiari va la solidarietà e la vicinanza di tutto il popolo italiano, insieme all’augurio di fare presto ritorno nelle loro case.
Onorevoli Parlamentari, Signori Delegati, Per la nostra gente, il volto della Repubblica è quello che si presenta nella vita di tutti i giorni: l’ospedale, il municipio, la scuola, il tribunale, il museo. Mi auguro che negli uffici pubblici e nelle istituzioni possano riflettersi, con fiducia, i volti degli italiani:il volto spensierato dei bambini, quello curioso dei ragazzi. I volti preoccupati degli anziani soli e in difficoltà il volto di chi soffre, dei malati, e delle loro famiglie, che portano sulle spalle carichi pesanti. Il volto dei giovani che cercano lavoro e quello di chi il lavoro lo ha perduto. Il volto di chi ha dovuto chiudere l’impresa a causa della congiuntura economica e quello di chi continua a investire nonostante la crisi.
Il volto di chi dona con generosità il proprio tempo agli altri. Il volto di chi non si arrende alla sopraffazione, di chi lotta contro le ingiustizie e quello di chi cerca una via di riscatto. Storie di donne e di uomini, di piccoli e di anziani, con differenti convinzioni politiche, culturali e religiose. Questi volti e queste storie raccontano di un popolo che vogliamo sempre più libero, sicuro e solidale. Un popolo che si senta davvero comunità e che cammini con una nuova speranza verso un futuro di serenità e di pace.
Viva la Repubblica, viva l’Italia!
«Mattarella dunque interpreterà il suo ruolo di capo dello stato in base ai propri sentimenti, alla sua sensibilità. Senza vincoli di mandato, né doveri di riconoscenza. Avrà un unico fondamentale obbligo: farsi garante della Costituzione». Il manifesto, 3 febbraio 2015
L’elezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica può essere considerata una spia della necessità di tornare alla normalità costituzionale, dopo tante forzature. Nulla più di un segnale, poiché può essere solo il nuovo inquilino del Quirinale a dare il senso della propria presidenza, sin dal discorso «programmatico» che svolgerà tra poche ore, il 3 febbraio, al momento del giuramento, e poi nel corso della sua attività per i prossimi sette anni.
Ciononostante, sin d’ora, non possono essere trascurati tre dati: il significato della scelta di una persona estranea alla più convulsa fase politica dominata da continue disinvolture costituzionali; la fama di garante intransigente della legalità costituzionale del prescelto; il venir meno della opzione Nazareno.
Sino a pochi giorni addietro si stava seguendo una strada molto diversa nella scelta del capo dello stato. Si era alla ricerca di una personalità che garantisse i soggetti politici: il candidato del Nazareno, frutto dell’accordo tra Berlusconi e Renzi, ovvero, in alternativa a questo, una personalità che rassicurasse altre maggioranze possibili. S’era anche molto enfatizzata la necessità che il nuovo presidente fosse persona che potesse favorire i profondi processi di riforma costituzionale, istituzionale e sociale in corso. Nulla di più lontano dallo spirito della costituzione, che esclude un capo dello stato al servizio di una strategia politica ovvero fautore del cambiamento istituzionale.
Le stesse modalità adottate lasciavano assai perplessi. Quella sorta di consultazioni tra tutte le forze politiche svolte dal presidente del Consiglio presso la sede del partito di cui è segretario, che riceveva in rapida successione tutte le delegazioni dei partiti, riflettevano un’immagine sbagliata: evocavano la prassi della nomina dei governi. Con una confusione dei ruoli tra presidente del Consiglio e della Repubblica che rischiava di compromettere la stessa legittimazione della scelta del futuro presidente.
Per fortuna non è andata così. Mattarella non è uomo di garanzia per nessun leader e non è legato a nessuna formula politica; mentre le «consultazioni» dei gruppi parlamentari e delle forze politiche si sono rivelate sostanzialmente ininfluenti, puro spettacolo.
Non v’è dubbio che l’artefice della scelta sia stato Matteo Renzi. Il quale ha operato in base a valutazioni di natura strettamente politica e con modalità del tutto informali. Ognuno potrà valutare sul piano politico o etico il comportamento tenuto dal leader del Pd, quel che si vuole qui rilevare sono due particolari aspetti.
Se si ha in mente il sistema d’elezione del capo dello stato (un organo di garanzia che non viene scelto in base ad un programma, bensì intuitu personae) si comprende che da sempre è la capacità di creare un gradimento diffuso tra i grandi elettori l’arma vincente, non invece l’accordo tra leader. In fondo, la storia dei 101 sta li a dimostrarlo. Se ci si volge al più lontano passato si conferma che la regola aurea delle elezioni presidenziali sia stata costantemente quella del consenso ottenuto dalla più estesa maggioranza parlamentare possibile, al di là di ogni schieramento predefinito. In fondo, quando il presidente è stato eletto in prima battuta con le più elevate maggioranze previste in costituzione (nei casi di Cossiga e Ciampi) gli artefici del successo furono i due leader del partito di maggioranza relativa del tempo (rispettivamente De Mita e Veltroni), i quali operarono anch’essi in modo informale e in base alla logica del consenso diffuso.
Oggi è stato Matteo Renzi a farsi promotore dell’elezione del presidente. Un suo personale successo politico, non avrebbe senso negarlo. Quel che però deve anche esser detto - il secondo aspetto che si vuole rilevare - è che questo è stato reso possibile solo perché è stata scelta una personalità che non è parte del sistema politico e di potere del segretario del partito di maggioranza relativa, tantomeno della sua cerchia. Anche questo fa parte del gioco. Nei casi precedentemente richiamati, né Cossiga era demitiano, né Ciampi era veltroniano. Di più, una volta eletti, entrambi i presidenti hanno operato non certo per salvaguardare le politiche dei loro kingmaker, ma in rappresentanza dell’unità nazionale (tralasciamo qui l’anomalia dell’ultimo biennio di Cossiga, per non complicare il discorso). La rinuncia a proporre una personalità esclusivamente gradita alla propria parte si rivela, pertanto, come la condizione del successo, da ultimo anche per Renzi.
Mattarella dunque interpreterà il suo ruolo di capo dello stato in base ai propri sentimenti, alla sua sensibilità. Senza vincoli di mandato, né doveri di riconoscenza. Avrà un unico fondamentale obbligo: farsi garante della costituzione. Una costituzione spesso disinvoltamente disattesa dal sistema politico. Ed è per questo che oggi avremmo un gran bisogno di un custode riservato nei modi e intransigente nella sostanza.
Tra poche ore prenderà la parola di fronte al Parlamento. Auguri a noi. Auguri Presidente.
La Repubblica, 3 febbraio 2015
PARAFRASANDO Marshall McLuhan: il “look” è il messaggio. Lo hanno capito il premier greco Alexis Tsipras e il suo ministro delle Finanze Yanis Varoufakis. Nella loro tournée europea hanno attirato l’attenzione anche per il guardaroba casual. Varoufakis senza cravatta, la camicia fuori dai pantaloni e il giaccone a Downing Street, di fronte al collega inglese molto formale, la dice lunga sulla volontà greca di non rispettare nessuna convenzione.
È un metodo già padroneggiato da Marchionne (golf in mezzo agli smoking), da Renzi (camicia sbottonata), e prima di loro dagli americani: Mark Zuckerberg con le sue T-shirt da surfista sintetizza lo spirito della Silicon Valley; Barack Obama con le sue corse in salita sulla scaletta dell’Air Force One incarna il salutismo per una generazione di maratoneti.
Dietro lo scompiglio dell’etichetta ce n’è uno più sostanziale. Oggi Tsipras arriva in Italia in una giornata particolare, con il discorso inaugurale del nuovo presidente della Repubblica. Guai però se passasse inosservato il premier greco: indossi pure bretelle rosse e All Star se serve ad attirare l’attenzione. Sullo scenario “Grexit” — la possibile uscita della Grecia dall’unione monetaria — si sta giocando una partita delicatissima. E fin qui sottovalutata. Annegata fra i tecnicismi sulla rinegoziazione dei debiti di Atene, i diktat della troika (Commissione Ue, Bce, Fondo monetario) e le condizioni di Draghi per erogare liquidità d’emergenza.
Un acuto osservatore tedesco come Wolfgang Munchau sul Financial Times descrive il pericolo che incombe sull’eurozona. La Germania si è convinta che Tsipras può essere snobbato, «perché un’uscita della Grecia dall’euro sarebbe una calamità per la Grecia, uno shock minore per l’eurozona, e un non-evento per l’economia globale». Poiché la storia è piena di incidenti imprevisti, il rischio è che si stia ripetendo l’errore-Lehman che fu all’origine del crac sistemico nel 2008. La Lehman Brothers era una banca relativamente piccola, lasciarla fallire poteva essere una lezione salutare per le altre, senza conseguenze per l’economia. Le cose sono andate diversamente. La banca era piccola, sì, ma legata da mille fili invisibili che risucchiarono la finanza mondiale verso il baratro. L’errore di calcolo costò caro. Di fronte alla noncuranza tedesca, sembra più lucido il cancelliere dello Scacchiere inglese, quello che portava la cravatta all’incontro con Varoufakis: la tensione fra Atene e l’eurozona secondo lui «è il più grave rischio che oggi fronteggia l’economia globale».
Dietro il look scapigliato dei suoi nuovi dirigenti, la piccola Grecia ha tanti difetti ma anche un grosso merito. Il difetto più grave è l’assenza di un patto di cittadinanza, di un contratto sociale rispettato, di una cultura delle regole: se nel 2011 i parlamentari di Atene fecero notizia perché trasferivano i risparmi in Svizzera, due settimane fa la vittoria elettorale di Syriza è stata preceduta da un’evasione fiscale in massa, un segnale di “liberi tutti” che lascia sgomento lo scrupoloso contribuente tedesco. Ma il governo Tsipras ha messo la lotta all’evasione in testa alla sua agenda e ha diritto a un’apertura di credito. Il suo merito maggiore: si presenterà anche scravattato, ma sta dicendo che il Re, che si crede elegantissimo, è nudo (o la Regina Merkel). Quando Varoufakis chiede ai partner europei se vogliono «una Grecia riformata oppure deformata » dalle terapie mortali dell’austerity, parla lo stesso linguaggio di Obama. Il presidente americano in un’intervista alla Cnn ha detto che la Grecia «ha bisogno di una strategia di crescita», dopo anni di tagli e salassi che hanno amputato del 25% il suo reddito nazionale. «La nostra esperienza americana — ha detto Obama — insegna che la via maestra per ridurre i deficit e risanare i conti pubblici, è la crescita». Dall’alto di cinque anni e mezzo di ripresa, può permettersi di darci questa lezione.
È sconcertante la deriva fondamentalista del pensiero economico nelle capitali europee che contano: Berlino, Bruxelles. Gli ayatollah dell’austerity non hanno bisogno di confrontarsi con i fatti — che dimostrano la follia delle loro ricette — proprio come i sacerdoti di una religione ottusa e feroce. A nulla è servito che l’America abbia fatto l’esatto contrario, con effetti benefici. Ben vengano le provocazioni greche, di stile e di sostanza, se dovessero svegliare un continente dal torpore mortale.
Il Fatto Quotidiano, 2 febbraio 2015 (m.p.r.)
Questo controllo del voto adottato dai partiti è un esempio di cattiva politica. Sulla scheda si dovrebbe scrivere solo il cognome del ”candidato”. Il giorno dopo l’elezione di Sergio Mattarella, il professor Gianfranco Pasquino, politologo ed ex senatore dei Ds, condanna il fenomeno dei voti cifrati, che sabato l’ha fatta da padrone nel conteggio delle schede. Voti “firmati” in cui si sono contati i partiti e le correnti al loro interno, come i giovani turchi del Pd. Ma anche i consensi azzurri giunti in soccorso al nuovo capo dello Stato.
Il fenomeno dei voti riconoscibili non vìola la Costituzione, che parla di voto segreto?
Si dovrebbe cambiare il regolamento e obbligare a scrivere solo il cognome. Detto questo, non vìola la Costituzione perché il voto non è riconducibile al singolo parlamentare, ma al massimo a gruppi di deputati o senatori.
È giusto su alcune votazioni mantenere il voto segreto?
Assolutamente sì, perché va difesa la libertà del parlamentare, che deve poter votare secondo coscienza. In questo caso difendo il diritto dei forzisti di dare il voto a Mattarella contro l’indicazione di Berlusconi. Inoltre, il voto segreto tutela il votante nei confronti del votato. Il quale, una volta eletto, e dalla sua posizione di potere, potrebbe in qualche modo vendicarsi. Ma le voglio raccontare un aneddoto.
Prego.
Nel 1994, quando ero senatore, a Palazzo Madama si doveva eleggere il presidente. Carlo Scognamiglio prevalse per un voto su Giovanni Spadolini, con una scheda contestata in cui c’era scritto “ScognaMIGLIO”. Tra l’altro, senatore all’epoca era anche il professor Gianfranco Miglio. Era chiaramente una scheda “firmata”. Che fu ritenuta valida permettendo a Scognamiglio di essere eletto.
Parliamo dell’elezione. Forza Italia ha contestato il metodo di Renzi…
Il metodo è stato assolutamente trasparente. Sia da parte di Renzi, che ha indicato Mattarella. Sia da parte di Berlusconi, che ha scelto di votare scheda bianca. Le obiezioni del leader di Forza Italia sono fuori luogo. Se il premier avesse proposto una rosa di nomi, avrebbe concesso all’ex Cavaliere, che sta all’opposizione, di scegliere il capo dello Stato. Le sembra giusto?
Dopo l’elezione di Mattarella, il patto del Nazareno continuerà?
Innanzitutto credo che il patto non contenesse il nome del capo dello Stato, ma il fatto di discuterne. Il Nazareno è al capolinea non per i fatti di questi giorni, ma perché ha già dato tutto quello che doveva dare: le riforme istituzionali e la legge elettorale. Si è, come dire, esaurito.
L’Italicum arriverà a breve al vaglio del Quirinale...
Oltre ad avere la solida cultura politica della sinistra diccì, Mattarella dà garanzia di autonomia e indipendenza, anche rispetto a Renzi. Quando dovrà dire dei no, lì dirà, ma non in maniera rumorosa e senza rompere il delicato equilibrio tra le istituzioni. Vedremo come si comporterà nel giudicare una legge elettorale nettamente inferiore alla sua.
Quanto durerà la ritrovata unità nel Pd?
Il premier ha fatto bene a ricompattare il partito su una scelta importante come quella del capo dello Stato. Ora dipenderà dalle scelte del governo. Non credo che le diverse minoranze del Pd faranno sconti a Renzi perché è stato eletto Mattarella…
Professore, il suo giudizio su Renzi è migliorato?