La Repubblica, 26 marzo 2015 (m.p.r.)
Il mondo sta cambiando, il modo di approcciare il cibo e gli acquisti alimentari sta cambiando. E’ un dato di fatto incontrovertibile ancorché lento, progressivo e non esplosivo. In gran parte del mondo, Stati Uniti in testa, le persone si orientano ogni giorno di più verso consumi alimentari attenti alle produzioni locali di piccola scala, stagionali, organiche. A fronte di questo processo è significativo che la grande industria, che si vede minacciata da un radicale cambio di mentalità, risponda andando esattamente nella direzione opposta.
Grandi fusioni tra gruppi con fatturati a nove zeri creano a gran velocità pachidermi ansiosi di rispondere in qualche modo alle nuove tendenze che assottigliano margini e utili e creano i primi scricchiolii in Borsa. Ma gli accorpamenti mastodontici sono monodirezionali: l’obiettivo è ristrutturare le dinamiche produttive tagliando i costi e rendendo più efficienti i processi senza operare alcun miglioramento nella qualità del prodotto. La fusione tra Kraft e Heinz non porterà ad avere sugli scaffali dei supermercati salse più buone o con materie prime migliori, piuttosto servirà a risistemare nodi finanziari che sui mercati azionari non rendono quanto previsto dagli azionisti.
In sostanza siamo davanti a una grande operazione di carattere finanziario, che ben poco - o meglio nulla - ha a che fare con il cibo, che pure dovrebbe essere il fulcro dell’attività di entrambe le aziende che si uniscono.
Ma reazioni di questa portata nulla potranno per invertire il trend di un nuovo approccio al consumo di cibo che ormai è avviato e non accenna a fermarsi; al contrario, il pericolo è che a perdere e a rischiare di rimanere schiacciati siano, nel prossimo futuro, le piccole realtà industriali, che pure sanno spesso fare qualità oltre che occupazione.
Ci aspettano tempi interessanti, ma sul fatto che formaggi a latte crudo fatti in piccole quantità e venduti localmente così come conserve realizzate con frutta autoctona o microbirrifici di provincia continueranno a erodere piccole ma diffuse quote di mercato, e che non ci sia modo di invertire la corsa di questo treno non c’è dubbio.
La finanziarizzazione e la fusione di grandi gruppi è una risposta di corto respiro, buona per chiudere in positivo ancora qualche bilancio ma di certo incapace in alcun modo cambiare quello che innanzitutto è un processo di coscientizzazione e consapevolizzazione, in definitiva un lento cambiamento culturale dei consumatori, sempre più cittadini, sempre più coproduttori.
whistleblowing manca di una traduzione idonea forse dipende anche dal fatto che, pure giuridicamente, in Italia è ancora un significante privo di significato: sostanziarlo gioverebbe alla legalità, oltre che al lessico». Lavoce.info, 24 marzo 2015 (m.p.r.)
Non esiste una parola per tradurre “whistleblowing”, ma sarebbe uno strumento utile contro la corruzione. La legge in discussione potrebbe introdurre garanzia dell’anonimato, incentivi adeguati e una tutela più estesa per chi denuncia le illegalità.
Le parole per dirlo
La corruzione si insinua in modo capillare in ambiti politici, economici e istituzionali, grava sulle risorse nazionali e riduce l’attrattività dell’Italia. Basta guardare il posto che il nostro paese continua a occupare anno dopo anno nella classifica della corruzione “percepita”, per comprendere la necessità di strumenti che aiutino a contrastare il fenomeno. Più che nuove punizioni sancite da norme che si affastellano su quelle precedenti, servirebbero però strumenti che ne favoriscano l’emersione e abbiano al contempo una funzione deterrente, come il whistleblowing. Il termine non trova neanche una traduzione adeguata in italiano, perché manca il riconoscimento socio-culturale del concetto corrispondente, che in ambito internazionale viene invece valorizzato da tempo.
La
convenzione civile sulla corruzione del 1999 (ratificata con legge n. 112/2012) e la
convenzione Onu del 2003, ratificata con legge n. 116/2009, dispongono che gli stati aderenti si impegnino ad adottare misure di protezione a favore di chi, in buona fede e sulla base di ragionevoli sospetti, denunci casi di illegalità. Raccomandazioni di contenuto analogo provengono dal
Working group on bribery, incaricato del monitoraggio sull’attuazione della convenzione Ocse sulla lotta alla corruzione degli impiegati pubblici nelle operazioni economiche internazionali (1997, ratificata con legge n. 300/2000); dal
Groupe d’Etats contre la corruption, istituito dal Consiglio d’Europa per controllare l’adeguamento degli stati alle misure anti-corruzione previste in sede UE; nonché dal G-20
Anti-corruption working group, costituito in ambito Ocse, che ha predisposto i
Guiding principles for whistleblower protection legislation.
Nell’ordinamento giuridico nazionale, il
whistleblowing è stato introdotto solo di recente, con la legge n. 190/2012: l’articolo 54-bis legge n. 165/2001 ora tutela da licenziamento e ritorsioni il dipendente pubblico che segnali illeciti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro. La norma recepisce le prescrizioni delle convenzioni solo parzialmente e, per molti versi, in maniera inefficace, come evidenziato dagli stessi organismi internazionali: considera esclusivamente l’ambito pubblico, ignorando quello privato; salvaguarda il denunciante in modo insufficiente; ha carattere “piuttosto generico e non esaustivo”, specie per ciò che riguarda canali di segnalazione e dispositivi di protezione.
Come rendere conveniente l'onestà
I limiti della regolamentazione nazionale sviliscono il potenziale intrinseco dello strumento e si riflettono sul suo concreto utilizzo, come dimostra il dato rilevato dal Global corruption barometer 2013 (Transparency International): il 44 per cento degli italiani non sarebbe disposto a fare “soffiate”, soprattutto per l’assenza di tutele giuridiche adeguate. La disciplina infatti garantisce la privacy del segnalante solo se la conoscenza della sua identità non “sia assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato”. Questa soluzione, se pure volta a contemperare diritto di accesso ed esigenza di riserbo non incoraggia le segnalazioni; e sembra non legittimare quelle provenienti da fonti anonime. La “scarsa propensione alla denuncia” e di conseguenza la “rilevante difficoltà di emersione” di episodi di corruzione può imputarsi anche a un altro limite della normativa: la mancanza di fattori che incentivino adeguatamente i whistleblower. La tutela da licenziamento e da altre forme di discriminazione non basta a promuovere le segnalazioni: se si considerano i tempi della giustizia italiana, non vi è certezza che il denunciante non debba comunque sopportare costi “professionali”.
Se
l’onestà non paga, serve “aumentarne il rendimento per legge”, con una ricompensa tale da renderla conveniente. I risultati ottenuti negli Stati Uniti lo dimostrano: le somme rivenienti da “soffiate” consentono di dare a chi segnala premi che oscillano tra il 15 e il 30 per cento di quanto recuperato o dell’ammontare dei danni evitati. Il riconoscimento di una ricompensa, peraltro, conviene anche a chi la corrisponde perché il rischio che l’illecito venga “spifferato” può operare come deterrente. In Italia, misure premiali non sono mai state introdotte, ancorché siano state auspicate dalla commissione di studio al progetto normativo della legge n. 190/2012 e proposte in un successivo disegno di legge, poi decaduto.
Quanto alla inapplicabilità della disciplina al settore privato, la corruzione riveste comunque pubblica rilevanza: incide non solo sul patrimonio della singola azienda, ma anche sul sistema economico nel suo complesso, distorcendo i meccanismi di funzionamento del mercato. Il legislatore nazionale ha scelto di non interferire nelle relazioni fra dipendente e organizzazione di appartenenza, invece di privilegiare l’interesse collettivo all’emersione dell’illegalità in ogni settore, senza considerare che lo strumento avrebbe altresì garantito maggiore efficacia ai mezzi di prevenzione, monitoraggio e controllo dei rischi giuridici d’impresa di cui al decreto legislativo n. 231/2001.
La mancata applicazione all’ambito privato troverà a breve un parziale correttivo: il whistleblowing verrà disciplinato relativamente alle violazioni in materia di enti creditizi e intermediari finanziari, in forza dell’imminente recepimento della direttiva cosiddetta Crd IV (tramite testo unico bancario e testo unico della finanza). Banca d’Italia e Consob, secondo le rispettive competenze, riceveranno le segnalazioni, che saranno incentivate mediante eventuali diminuzioni delle sanzioni da irrogare ai whistleblower corresponsabili della violazione dichiarata (premialità da tempo prevista nei cosiddetti Leniency programs statunitensi). Inoltre, sempre in forza di regole di derivazione comunitaria (pacchetti Mad e Mifid II), nel 2016 lo strumento dovrà essere esteso alla denuncia di violazioni in materia di abusi di mercato e servizi di investimento.
I limiti della normativa italiana sembrano sottendere il pregiudizio culturale negativo, secondo cui il whistleblowing sarebbe equiparabile a un atto di delazione, non sempre mosso da nobili intenti: ciò ha forse indotto il legislatore a contenerne l’ambito di applicazione e a non stimolarne l’utilizzo. Tuttavia, considerato che è finalizzato a portare l’illegalità in superficie, la moralità dei motivi delle “soffiate” appare irrilevante, è necessario solo che riguardino fatti circostanziati e di pubblico interesse. Allo stesso tempo, la regolamentazione prevista non ha compiti educativi, tesi a indurre nei singoli un senso civico altrimenti carente, ma serve a fare in modo che il concorso individuale coadiuvi il contrasto del malaffare.
Il
disegno di legge in materia di corruzione in discussione in parlamento potrebbe costituire l’occasione per potenziare la disciplina dell’istituto, superando gli attuali limiti con garanzia dell’anonimato, incentivi adeguati e una tutela più estesa. Se il
whistleblowing manca di una traduzione idonea forse dipende anche dal fatto che, pure giuridicamente, in Italia è ancora un significante privo di significato: sostanziarlo gioverebbe alla legalità, oltre che al lessico nazionale.
Comune-info, 25 marzo 2015 (m.p.r.)
Nelle campagne di Borgagne, frazione del comune di Melendugno, provincia di Lecce, c’è un ulivo più antico del Colosseo e del Partenone, uno degli alberi più vecchi del pianeta. Come centinaia di migliaia di altre piante secolari (sì, avete letto bene il numero), molte delle quali secolari e millenarie, rischia di essere ucciso tra pochi giorni da un batterio assassino o da un pronunciamento – nel migliore dei casi irresponsabile – della Commissione Europea. Per questo
Peacelink ha invitato ieri, 23 marzo, il Commisssario Europeo alla Salute Vytenis Andriukaitis ad andare in fretta nel Salento per rendersi conto della guarigione di alcuni ulivi nelle zone indicate come fonte del focolaio della Xilella, il batterio incurabile precipitosamente indicato come il solo possibile responsabile di una strage peraltro annunciata da tempo. L’eradicazione di questi monumenti millenari alla vita sarebbe quasi certamente una soluzione sbagliata
Peacelink ha inviato oggi una lettera al Commissario Europeo alla Salute Vytenis Andriukaitis in merito alla vicenda della Xylella Fastidiosa e al paventato abbattimento di centinaia di migliaia di ulivi del Salento. Una misura che la Commissione ha indicato come necessaria per il contenimento del contagio del batterio, considerato come causa del disseccamento rapido degli ulivi. Peacelink, che parla a Bruxelles a nome delle associazioni del Salento e degli agricoltori riuniti intorno al “Comitato Spazi Popolari”, ha allertato la Commissione sul fatto chel’eradicazione degli ulivi è quasi certamente la soluzione sbagliata alla questione, visto che la Xylella potrebbe non essere la causa del disseccamento rapido degli ulivi e che il rapporto sull’audit di una missione in loco della stessa Commissione nel Febbraio 2014 afferma che alcune specie di funghi di tipo tracheomicotico possono causare singolarmente il disseccamento degli alberi. Test di patogenicità della Xylella sono ancora in corso, quindi non esiste una risposta scientifica alla domanda se la Xylella sia o meno la prima responsabile del disseccamento rapido degli ulivi.
Sembra, invece, che la malattia sia da attribuire innanzitutto alla proliferazione di questo tipo di funghi. Cosa tra l’altro verificata da centinaia di agricoltori ed esperti in loco. I funghi non hanno la stessa dinamica di diffusione della Xylella e quindi lo sradicamento degli alberi potrebbe essere inutile. Peacelink ha invitato il Commissario Andriukaitis a recarsi a visitare gli ulivi che sono guariti in vari punti della zona indicata come focolaio della Xylella, e ha chiesto che la politica europea in materia venga rivista alla luce di studi dell’Università di Foggia, dei riscontri negativi sulla presenza di Xylella avuti su molti alberi affetti dal disseccamento rapido e alla luce del successo che ha avuto la terapia applicata agli ulivi malati, terapia che mira alla eliminazione dei funghi con procedure di disinfezione tradizionale e non aggressiva.
«Medio Oriente, Nord Africa: i musulmani sono molto esposti a tensioni. Il caos non aiuta la moderazione. Siamo in un mondo multiculturale. Esistono tante forme di islamismo, quante di capitalismo. Solo proteggendo democrazia e società libera, la Jihad apparirà ai giovani come una chimera». La Repubblica, 24 marzo 2015
NESSUNO meglio di lui ha raccontato il disagio delle minoranze giovanili dentro le grandi capitali d’Occidente: Hanif Kureishi si è affermato vent’anni fa con un romanzo, Il Budda delle periferie, e un film, My beautiful laundrette , che oggi sembrano ancora attuali di fronte alle notizie dei musulmani britannici o di altri paesi in fuga verso la Siria allo scopo di arruolarsi nelle file del Califfato. E per il 60enne scrittore, sceneggiatore e regista inglese di origine pakistana la spiegazione è sempre la stessa.
«I giovani sono attirati da ideali romantici, desiderio d’avventura, speranza di cambiare il mondo», dice. «La risposta da dare all’estremismo dunque non è criminalizzare una religione o instaurare leggi speciali, ma proteggere la nostra società libera, democratica e multiculturale, affinché quei ragazzi si rendano conto che l’ideale del Califfato è solo una chimera». Sta facendo le valigie per Venezia, dove parteciperà con un intervento e come “scrittore residente” a Incroci di Civiltà, il festival internazionale di letteratura che si apre domani: «Sto scrivendo un adattamento per la Bbc di un romanzo del 1959 su un insegnante nero in una scuola dell’East End di Londra, una storia di tensioni razziali e intolleranze culturali, di violenza e dialogo inter-etnico», dice prima di partire. «Come vede, i tempi cambiano ma i problemi restano in fondo gli stessi».
Il problema del giorno è il dibattito che infuria in Gran Bretagna e in Europa su nuove leggi speciali, più severe, per combattere il terrorismo islamico. Cosa ne pensa?
«Sarebbe molto triste se rinunciassimo alla nostra democrazia o vi ponessimo dei limiti, delle restrizioni, nel tentativo di difenderci dalla minaccia terroristica. Se ciò accadesse, vorrebbe dire che il terrore ha vinto la sua guerra, ha reso l’Occidente più simile a se stesso, ha cambiato la nostra natura civile, tollerante e democratica. Naturalmente abbiamo bisogno di sentirci sicuri e di essere protetti, ma sarebbe un triste giorno quello in cui abbandoniamo le libertà civili per farlo».
Perché tanti giovani musulmani britannici ed europei vanno ad unirsi al Califfato Islamico in Siria, come le tre ragazzine scappate recentemente da Londra?
«I giovani sono sempre degli idealisti. Cambiano gli ideali, e dunque le circostanze, ma i giovani restano gli stessi. Desiderano grandi avventure, vogliono cambiare il mondo, sognano sfide romantiche. Quando ero giovane, a Londra molti miei amici erano maoisti, animati da un genuino fervore rivoluzionario, eccitati dall’idea di poter incidere sulla storia dell’umanità. In seguito abbiamo scoperto che quello di Mao in Cina non era un paradiso; e crescendo se ne sono convinti anche parecchi di quei miei amici. Con i giovani musulmani succede qualcosa di simile. Dobbiamo ricordarci che sono una esigua minoranza e che, oltre all’idealismo e al romanticismo, sono probabilmente persone più fragili, più sole, più frustrate della media. Questo spiega perché sono attirati dalla propaganda del Califfato».
A proposito di propaganda, c’è una disputa in corso in Inghilterra sul diritto dei predicatori islamici di fare discorsi nelle università. Alcuni vorrebbero metterli al bando per ragioni di sicurezza, altri difendono il diritto a diffondere idee, purché non incitino alla violenza, in nome della libertà di parola. Lei come la vede?
«Non sono favorevole a dare a quei predicatori una tribuna da cui parlare nelle nostre università. Ho sentito i discorsi che fanno nelle moschee di Londra, dove parlano regolarmente, e non mi piacciono per nulla. Non li lascerei parlare, nelle università e forse neppure nelle moschee, così come non lascerei parlare un fascista che si esprima a favore del fascismo. Forse non incitano esplicitamente ad azioni violente, ma diffondono odio e intolleranza verso chi non la pensa come loro, mentre il nostro paese, e l’Europa tutta, crede nella pace, nella tolleranza, nel dialogo».
È una questione che riguarda solo una piccola fascia estremista o è un problema dell’Islam in quanto tale?
«Esistono tante forme di Islam quante ne esistono di capitalismo. Viviamo in un mondo sempre più multiculturale, è evidente che è questo il nostro destino, e non possiamo criminalizzare una parte. L’Islam sta attraversando una transizione. È sottoposto a tante tensioni: il caos in Medio Oriente e Nord Africa, le conseguenze della guerra in Iraq, la guerra civile in Siria, il post-colonialismo. E il caos non aiuta mai a sviluppare democrazia e moderazione. Tuttavia la maggior parte dei musulmani che conosco qui in Inghilterra sono democratici e moderati quanto lo sarebbe il cristiano medio in Italia. Ci vuole del tempo e ci vuole stabilità perché questa sia la norma anche nel resto del mondo islamico ».
Come ha reagito davanti all’attacco contro la redazione di Charlie Hebdo a Parigi?
«Con un senso di amaro déjà vu.
Avevo già visto qualcosa di simile nel 1989, con la fatwa contro Salman Rushdie. Le accuse erano le stesse. La differenza è che a Parigi hanno fatto una strage. C’è anche un’altra differenza, per conto mio, cioè che il libro per cui Rushdie fu messo sotto accusa, I versi satanici, era un romanzo molto serio, mentre le vignette di Charlie Hebdo a me non sembravano affatto umoristiche. Non mi piacevano, per dirla tutta. Ma naturalmente difendo il diritto di qualsiasi disegnatore di fare le vignette che vuole, anche le più offensive, anche quelle che a me non piacciono. Sono uno scrittore. La libertà di espressione per me è sacra».
Si sente guardato diversamente, per il suo nome e il suo aspetto, nel clima che si è creato, nel quale un non bianco può venire automaticamente discriminato o sospettato?
«Non ho sentito discriminazioni simili nei miei confronti. Ma io sono fortunato. Passo la maggior parte del mio tempo a Londra, che a dispetto delle tensioni e delle polemiche su immigrazione e islamismo rimane un paradiso multiculturale. Londra è un luogo meraviglioso, liberato e tollerante di ogni diversità, e per questo dinamico, creativo, eccitante. Il modello da continuare a difendere per il mondo di oggi e per quello di domani».
CARO direttore, anche Gad Lerner si è messo l’elmetto? L’occasione è la strage al museo del Bardo di Tunisi. Il bersaglio è l’avanzata dello Stato islamico in Libia e in tutta l’Africa settentrionale. Spiace che quello che succede in Siria, in Libia, in Yemen — e prima ancora in Somalia, in Afghanistan, in Iraq — non insegni niente a Gad, della cui intelligenza sono un estimatore. Gad non dice — perché non sa — che cosa dovrebbe fare in Libia una missione militare (cioè una guerra) guidata dall’Italia, ancorché sotto ombrello Onu. Interventi di polizia internazionale ne abbiamo visti tanti e ogni volta hanno lasciato una situazione peggiore di quella precedente, sia per l’ordine internazionale, sia per le popolazioni che ne sono state vittime. Espansione ed efferatezza dello Stato islamico sono una conseguenza — come riconosciuto dallo stesso Obama — di tutti gli interventi che lo hanno preceduto.
Certo la cooperazione tra le sponde settentrionali e meridionali del Mediterraneo è vitale soprattutto per i Paesi dell’Europa meridionale, stretti tra due fuochi: a sud, disordine e belligeranza, conseguenze dell’insostenibilità dei “modelli di sviluppo” (o di governo dell’economia) — un’intera generazione, in gran parte istruita, disoccupata e senza futuro — che sta all’origine delle primavere arabe poi in gran parte soffocate. A nord, una politica cieca e sorda delle autorità dell’Unione Europea che avvicina sempre più l’Europa mediterranea alla situazione che ha provocato le rivolte dei suoi dirimpettai della sponda sud.
Ciò da cui siamo minacciati non è l’invasione delle armate dell’Is, ma — come rileva anche Gad — la moltiplicazione dei giovani indotti o costretti a farsi bombe umane, che possono agire ovunque senza che se ne possano prevenire le mosse, soprattutto perché crescono sempre più spesso proprio tra di noi, nelle situazioni di emarginazione o umiliazione, sia in Europa che nei Paesi arabi e in quelli islamici dell’ex impero sovietico. Contro quest’arma letale non c’è esercito, né intelligence, né guerra, né “missione umanitaria”, né “repulisti etnico” che abbia possibilità di successo. Dovremo abituarci a conviverci per molto tempo, lavorando per disseccare l’humus da cui nascono sia il terrorismo suicida che l’attrattiva dello Stato islamico o di Al Qaeda. Con una strategia fatta di lotte per l’eguaglianza e la parità dei diritti, cominciando da chi ne è più colpito, cioè i migranti di prima e seconda generazione (che sono anche una base sociale potenziale per una ricostruzione democratica dei Paesi da cui provengono), le minoranze etniche, i giovani senza futuro. Ma soprattutto, le donne, perché la vera posta di queste guerre è la conservazione o la restaurazione, nelle forme più brutali, del potere dell’uomo sulla donna.
Non c’è niente di religioso nell’Is o nel terrorismo di matrice islamica, come non ce n’è in chi difende la sostanza patriarcale delle radici giudaico-cristiane della nostra civiltà (e meno che mai in chi spaccia per liberazione la mercificazione ostentata e offensiva del corpo della donna). Ma la capacità delle donne di far valere il loro punto di vista e i loro diritti — ne sono un esempio luminoso le comuni del Rojava, che resistono da sole allo Stato islamico — è la vera arma che può minare alle sue basi sia le guerre scatenate da un falso Islam, sia il richiamo alla purezza etnica o culturale contro le invasioni di profughi e migranti di cui si alimentano in Europa gli imprenditori politici della paura. Gli interventi militari possono anche giustificarsi: le popolazioni esposte alle guerre spesso li invocano. Ma senza lotta contro discriminazioni e cultura patriarcale, senza fermare il traffico di armi, senza vie di uscita diplomatiche, non si fa altro che avvitarsi in un gorgo senza fondo.
Caro Guido Viale, anche al nostro indimenticabile comune amico Alexander Langer — quando Sa-rajevo era assediata e lui richiamava la necessità di un intervento armato — qualcuno disse che si era mes-so l’elmetto in testa. Caricatura facile di una necessità drammatica. Gente come noi con l’elmetto in testa a gri-dare “ armiamoci e partite”, risulterebbe assai improba-bile. Non mi paragono certo a Alex. Ma se le nostre forze armate si limitassero oggi a presidiare il nostro territo-rio ( quale?), un qualche problema di efficacia, e di co-scienza, me lo porrei.
(Gad Lerner)
Il manifesto, 24 marzo 2015 (m.p.r.)
Capirsi meglio, combattere gli stereotipi neo-nazionalisti, trovare soluzioni accettabili per tutti: la possibilità di un’intesa politica fra Alexis Tsipras e Angela Merkel parte da questi presupposti. Sottolineati con forza ieri, nella conferenza stampa seguita alla prima visita ufficiale del premier greco a Berlino. Al centro dell’incontro fra il leader di Syriza e la cancelliera ovviamente l’Europa, cioè la gestione europea della crisi greca, ma anche «le relazioni bilaterali fra i due Paesi», e cioè il contenzioso per le conseguenze dell’occupazione nazista durante la seconda guerra mondiale.
Due aspetti simbolicamente intrecciati, ma rigidamente separati nella rappresentazione ufficiale: con abilità diplomatica, Tsipras ha ribadito di fronte a Merkel il punto di vista greco sulla necessità di ottenere riparazioni per le devastazioni belliche, sottolineando a più riprese, però, che «questo tema non c’entra con la crisi attuale».
Il bilancio del vertice è, stando alle dichiarazioni, positivo per entrambi. Ma chi ha segnato un punto è certamente il premier greco. A differenza di altri (pseudo) leader dell’Europa meridionale che al cospetto della potente cancelliera non sanno far altro che scodinzolare ubbidienti, Tsipras ha colto l’occasione per ribadire urbi et orbi la posizione di Atene. Con fermezza, ma con parole pacate e sguardo disteso, a dispetto di chi dipinge la nuova dirigenza greca come «una banda di hooligans» (copyright Frankfurter Allgemeine Zeitung). Due i punti-chiave.
«Primo: abbiamo alle spalle 5 anni di un “programma di salvataggio” che per noi non è di successo, ma ha peggiorato la situazione: non ha raggiunto obiettivi di contenimento del debito e ha aumentato le diseguaglianze», ha argomentato il premier greco, citando uno studio della fondazione Hans Böckler, autorevolissimo istituto di ricerca tedesco. «Secondo: sarebbe una semplificazione dire che i problemi in Grecia sono responsabilità di altri e non nostra, pur non essendo esente da critiche il modo di funzionare dell’Unione europea», ha aggiunto Tsipras.
«Allora, se siamo d’accordo su questi due punti, siamo d’accordo anche sulla conclusione: bisogna migliorare ciò che non andava bene nelle politiche seguite sin qui, e quindi bisogna fare ciò che non hanno fatto i governi precedenti». Cioè: favorire la coesione sociale e combattere le ingiustizie. «Bisogna rispettare i trattati, ma anche la democrazia e le sovranità nazionali»: impossibile una cosa senza l’altra.
Merkel ha richiamato più volte l’accordo-quadro del 20 febbraio, sottolineando ciò che sta a cuore al suo governo: «Le cifre fornite dal governo greco devono essere vere». La paura di trovarsi nuovamente di fronte al gioco delle tre carte che fece il governo di Nea Demokratia prima dello scoppio della crisi c’è tutta. Ma dopo l’incontro di ieri sembra esserci maggiore fiducia verso Atene. Anche per la cancelliera «è importante che la Grecia si rafforzi, cresca, sconfigga la disoccupazione, in particolare quella giovanile». E, naturalmente, «che abbia un bilancio solido».
Un avvicinamento delle posizioni sembra esserci stato, dal momento che Merkel non ha insistito sugli accordi dell’epoca di Antonis Samaras, data evidentemente per superata in modo definitivo. Stando alle agenzie tedesche, la distensione deriverebbe anche da un pacchetto di misure che Tsipras avrebbe presentato in anteprima alla potente padrona di casa: vi sarebbero aumento dell’età pensionabile e privatizzazioni. Ma non ci sono riscontri che confermino queste voci. E la disinformacija dei media mainstream è sempre al lavoro, quando si tratta di Grecia.
Alle domande relative ai problemi di liquidità, il leader greco ha risposto senza perdere l’aplomb: «È una questione nota da tempo, che noi abbiamo ereditato e non abbiamo mai nascosto, e sulla quale non c’è nulla di nuovo da dire. Certo, io non sono venuto qua a chiedere alla cancelliera di pagare le pensioni dei greci». Merkel non si è sbilanciata, affermando che la competenza è dell’Eurogruppo, non sua. Parole prudenti, com’era inevitabile: la leader democristiana insiste sempre sul fatto di essere «alla pari degli altri», e quindi di non avere titolo per «dettare la linea».
L’eccezionalità tedesca è riconosciuta, invece, nel capitolo memoria storica: «Esamineremo le richieste della Grecia sulle riparazioni per la seconda guerra mondiale con la consapevolezza dei gravissimi crimini compiuti dai nazisti». Una «questione etica», ha ribadito Tsipras, che è stato durissimo nel criticare gli accostamenti impropri fra Terzo Reich e Germania attuale: «Anche il giornale del mio partito ha fatto errori su questo. Guai ad alimentare gli stereotipi, da ambo le parti».
Il manifesto, 22 marzo 2015
Ci sono giornate che hanno un valore simbolico alto, che meritano di essere ricordate a lungo. Quella di ieri, 21 marzo, è una di queste. Il motivo è il filo invisibile che ha legato tra loro le piazze gremite di Napoli e Bologna. Il filo è quello di una Chiesa ansiosa di rinnovare la sua missione, preoccupata in primo luogo di ottenere giustizia, tutelare diritti, lottare per i poveri.
A Bologna, Libera ha celebrato la «giornata contro le Mafie». Il suo fondatore, Don Ciotti, ha ripetuto, con quel consueto, candido e meraviglioso vigore della parola che è in lui già traccia visibile di una grande forza morale, il messaggio di sempre: di fronte a duecentomila persone accorse da tutta Italia, ha fatto notare con quanta velocità sia stata fatta approvare dal governo Renzi la legge sulla responsabilità civile dei magistrati e poi ha chiesto di scrivere leggi più «determinate» contro la corruzione, di chiudere le porte alla mafia, ma anche di introdurre il reddito di cittadinanza e di cancellare il vitalizio ai parlamentari condannati in via definitiva per mafia e corruzione.
Nelle stesse ore, nelle piazze di Napoli echeggiava, nel discorso del Papa, lo stesso identico messaggio: ha detto, il papa, che la corruzione «puzza», ha chiesto di non considerare i migranti cittadini di seconda classe e poi che la mancanza di lavoro «ci ruba la dignità».
Francesco ha, con quel linguaggio semplice, diretto e profetico che è una delle ragioni della sua immensa popolarità, raccontato la storia di una ragazza costretta a lavorare in nero 11 ore al giorno per 600 euro al mese. Schiavitù l’ha definita il papa, e ha ammonito tutti a non considerare cristiano quel datore di lavoro. Anche se pretendesse di essere tale. Anche, aggiungiamo noi, se fosse «in regola» con tutti i sacramenti, con tutti i certificati prodotti nel tempo dalla Chiesa. Resterebbe anche in quel caso un non cristiano.
Corruzione nella politica, ma anche corruzione nell’impresa, degrado sociale, abiezione morale, schiavismo, sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Nessuna legalità è davvero possibile se non c’è anche giustizia, se non c’è equità, se non c’è rispetto della dignità degli ultimi. Questo il senso del messaggio che proviene dalle parole di ieri di due preti decisamente fuori dal comune come Don Ciotti e Papa Francesco.
Luigi Ciotti le pronuncia da sempre parole come quelle, ma mai come prima il fondatore del Gruppo Abele si è trovato in una sintonia così perfetta con un capo della Chiesa. Ciotti è da tanto tempo una figura straordinaria del mondo cattolico, ma è anche sempre stato considerato decisamente eccentrico e marginale rispetto all’asse dominante nell’organizzazione. Si diceva in molti ambienti cattolici: «sì certo è un prete, ma un prete tutto singolare, addirittura un po’ strano, che non parla mai di chiesa e che è invece è ossessionato dai temi sociali, dai problemi dell’integrazione sociale dei tossici, degli sbandati, dei migranti. Per non parlare poi di quella stravagante sua passione per l’antimafia!».
Oggi invece, nel pontificato di Francesco che ha messo al centro proprio quei temi, Don Ciotti ci appare come il campione di un cattolicesimo civile e venuto a patti con la modernità, capace di usare la fede, senza bisogno di proclamarla mai, non per brandire croci o emettere divieti morali, non per rivendicare appartenenze ed esclusioni, ma per farne il sale della terra, per parlare a tutti di un messaggio universale di giustizia, un messaggio che sottolinea gli aspetti eversivi (rispetto al conformismo borghese) e forse utopici del Vangelo, la possibilità che esso divenga promotore del cambiamento sociale, della libertà e dell’equità tra gli esseri umani. La piazza di Libera era strapiena di laici ai quali nessuno ha chiesto di abiurare le proprie convinzioni religiose, ai quali nessuno ha chiesto di convertirsi, di annullare le salutari differenze di pensiero, di farsi corpo sociale omogeneo e compatto.
Il cattolicesimo discreto e implicito di Ciotti avanza e conquista il centro proprio mentre quello, urlato e imperialista di Lupi viene spinto ai margini. Per quasi quarant’anni, lungo tutti i pontificati di Giovanni Paolo e di Benedetto, è stato quello di Lupi e dei suoi amici il cattolicesimo più ortodosso, quello più allineato. Quel cattolicesimo che rispondeva puntuale alle chiamate alle armi del cardinali Ruini, che occupava all’istante i posti di responsabilità e di potere disponibili mettendoci sopra l’etichetta di «cattolico». E che però dei «valori del 21 marzo» ha fatto carta straccia. Finendo per rovinare sotto il peso del proprio cinismo

La Repubblica, 22 marzo 2015
Ha sempre perso, ma fa proseliti. È minoritario, ma viene da lontano, e minaccia di arrivare troppo vicino. Il paradosso del jihadismo secondo due profondi osservatori del mondo arabo: Bernardo Valli, grande inviato di Repubblica, e l’islamista Renzo Guolo, messi a confronto ieri sul palco di “Repubblica delle Idee” a Udine dalle domande di Fabrizio Gatti. Di là dal Mediterraneo è esercito del Califfo, di qua è sotterraneo letale citizen terrorism: meno lo capiamo, più ci spaventa?
Valli. «A un atteggiamento troppo pessimista vorrei opporre non l’ottimismo, ma la conoscenza dell’avversario. Cos’è la jihad? Il mondo arabo ha conosciuto molte esplosioni di violenza nella storia, come l’Occidente. Quello che chiamiamo jihadismo nasce quando fallisce il nazionalismo panarabista postcoloniale — il sogno di Nasser per capirci — umiliato dalle guerre con Israele, e fallendo lascia crepe dalle quali risale un sostrato religioso profondo».
Guolo. «Si può fissare una data di nascita: 1981, l’assassino di Sadat, dopo aver mitragliato la leadership egiziana, corre verso una telecamera (anche certe modalità non sono nate oggi...) e grida “ho ucciso il faraone!”. Da allora inizia una pratica, e anche una teoria, della violenza come “sesto pilastro dell’Islam”, della jihad non come sforzo di perfezionamento interiore ma come lotta armata. La cosa singolare è che, se facciamo un bilancio, a parte l’Afghanistan dove la resistenza islamista antisovietica fu sostenuta dagli occidentali, la jihad armata è sempre stata sconfitta, militarmente e politicamente, e tuttavia ha vinto ideologicamente: si impone ai media, fa proseliti. C’è una dimensione mitologica che va spiegata, che rischiamo di non capire».
Valli. «Quando morì Nasser vidi un funerale imponente. Dopo l’assassinio di Sadat al Cairo c’era il silenzio, non un pianto. Qualcosa era cambiato. Al di là del conflitto fra sciiti e sunniti, credo che il khomeinismo abbia avuto il suo ruolo. Rappresentò il ritorno di una cosa che per secoli non aveva più cittadinanza nell’islam: l’identità fra leader religiosi e politici. Il mondo occidentale non riuscì a capire che portata avesse questa resurrezione ».
Guolo . «Sono enormi gli errori di potenze globali come gli Usa, ma anche regionali come l’Arabia Saudita, che presupponevano di poter manovrare il fondamentalismo: ultimo caso, la rivolta siriana. Ora, io credo che alla fine lo Stato Islamico verrà battuto, se non altro perché ha coalizzato contro di sé un fronte troppo vasto. Ma è proprio sul dopo che in quel fronte non c’è la stessa visione, e questo rende tutto incerto. Se, in funzione anti-Is, la questione del nucleare iraniano si chiudesse con un accordo, non sarebbe più possibile impedire all’Iran di diventare un attore potente nell’area, cambierebbero tutti gli equilibri, si aprirebbe un altro contenzioso fatale, fra Iran e Arabia».
Valli. «Sì, il cuore della battaglia è nel mondo arabo. Semmai la domanda per noi è: quella tempesta è un pericolo per la nostra società? Il terrorismo jihadista in Europa spaventa, ma io credo sia il prodotto di una minoranza piccolissima, per quanto aggressiva. Qui l’integrazione va avanti, a fronte di pochi gruppi armati ci sono milioni di musulmani rispettosi delle leggi, in Francia ci sono poliziotti musulmani, magistrati, uomini d’affari musulmani...».
Guolo. «Tuttavia, la storia delle periferie francesi ci fa comprendere qualcosa. Alla fine degli anni ‘80 i sabati dei casseur che spaccavano le vetrine in centro erano una richiesta di accesso alla modernità attraverso l’espropriazione dei consumi. I casseur non volevano califfati, volevano le Nike. Anche la rivolta del 2005 attribuita agli islamisti nasceva dalla reazione alla promessa mancata della République: “Rinuncia ai particolarismi culturali e sarai come gli altri”. Oggi, passando magari attraverso le galere dopo quelle rivolte, è maturato un salto, dall’antagonismo ancora interno alla società occidentale all’estraneità assoluta. Il rapper arrabbiato diventa freddo militare. Ma questo accade perché la sua rivolta contro la rottura del patto integrazionista incontra un radicalismo che ha l’autonomia ideologica tipica di una dottrina politica».
Valli. «Ma la stessa cosa dimostra l’attacco alla Tunisia: dove il mondo arabo moderato è il primo obiettivo. Significa che non è scontro di civiltà o di religioni, ma di ideologie e progetti politici. Del resto, lo stesso mondo musulmano che porta in Europa piccole sacche di terrorismo ci porta soldi, acquista alberghi e squadre di calcio, compagnie aeree».
Guolo. «Anche gli imprenditori della xenofobia, i cantori dello scontro di civiltà sul pianerottolo, sanno che il miraggio della fortezza Europa non porta da nessuna parte. Ma cercheranno di sfruttare al massimo l’idea che non sia possibile alcuna convivenza. La cosa singolare è che i gruppi fondamentalisti in Europa dicono la stessa cosa. La debolezza dell’Italia è che, mentre tutti i paesi europei hanno almeno sperimentato possibili risposte — l’assimilazionismo, l’integrazionismo, la multiculturalità — da noi non esiste proprio nessun modello, si lascia fare al gioco del consumo e del mercato del lavoro. Il nostro è un assimilazionismo spontaneo e senza scambio: venite, lavorate, non avrete niente in cambio, né rappresentanza, né cittadinanza. È una risposta molto rischiosa».
Valli. «E questo mi porta a dire che l’unica difesa contro il fondamentalismo, in Europa come nei paesi arabi, è rendere più forte la società, non i raìs o i confini».
Il manifesto 21 marzo 2015
E’ stata una mossa giusta quella di Alexis Tsipras di cercare un confronto diretto con la leadership europea alla ricerca di uno sbocco politico alle complicazioni create dall’avvento della ex troika, ora Brussels Group, ad Atene una settimana fa. Il confronto politico favorisce il più debole da molti punti di vista:dal punto di vista dei trattati (tutti gli stati membri sono formalmente pari grado) ma anche dal punto di vista delle procedure, politiche e non certo tecniche.
Ieri mattina infatti è stata ottenuta un’interpretazione autentica di quanto era stato deciso all’eurogruppo il 20 febbraio: le riforme sono decise da Atene e l’impegno di nuove misure di austerità preso dal precedente governo di destra non è più in discussione.
Sembra una cosa da poco ma non lo è. Il problema era nato proprio dal modo di interpretare il compito “tecnico” assunto dai controllori della ex troika durante la loro visita ad Atene: in sostanza, si sono presentati con il vecchio elenco (licenziamenti di impiegati statali, nuovi tagli alle pensioni, privatizzazioni a ritmo forzato) e pretendevano impegni che i loro interlocutori, tecnocrati del ministero delle Finanze, ovviamente non avevano la possibilità di dare. Ecco perché si era scatenata a Bruxelles la tempesta calunniosa contro i greci «esperti in Che Guevara ma a digiuno di economia». Ecco perché un alto burocrate della Commissione si era permesso di definire le misure legislative per la catastrofe umanitaria un’azione «unilaterale». Con il presidente dell’eurogruppo che ha innocentemente ipotizzato una soluzione tipo Cipro anche per la Grecia, provocando la fuga dalle banche greche di qualche centinaio di milioni.
Nella riunione a otto della notte di giovedì, Tsipras ha avuto la possibilità di gestire a suo piacimento le contraddizioni che lacerano (in maniera sotterranea ma molto reale) la leadership europea. La Merkel ha capito che non poteva tirare oltre la corda e ha dovuto accettare l’offerta greca: riconoscere che nel paese c’è una crisi umanitaria che va affrontata e lasciare libera Atene di elaborare un piano completo delle riforme progettate, con previsioni di costi e ricavi. Alla fine il piano sarà valutato dall’eurogruppo e, se tutto va bene, la Grecia incasserà l’ultima tranche del finanziamento europeo di 7,2 miliardi e forse anche quei 1,9 miliardi che le spettano e che ora (inspiegabilmente) rimangono in mano alla Bce.
Tsipras ha assicurato che lo stato greco non rischia di sospendere i pagamenti, ma ha riconosciuto che c’è carenza di liquidità. Atene può ancora contare sul surplus primario ottenuto alla fine del 2014 e si è anche guadagnata la libertà di regolare il surplus per l’anno in corso «in base all’andamento dell’economia greca».
Ieri è entrata in vigore la legge che permette ai debitori verso il fisco di pagare fino a cento rate. I debiti ammontano a una novantina di miliardi ma il governo spera di incassarne da uno fino a una ventina, non di più. La maggioranza dei debitori debbono fino a 5.000 euro, mentre i debiti più consistenti gravano su una quarantina di aziende, tra le quali ci sono i mezzi d’informazione in mano agli oligarchi.
Nel piano di riforme elaborato da Varoufakis è prevista, com’è noto, anche una riforma fiscale, non particolarmente radicale: mira principalmente a colpire la diffusissima evasione dell’Iva. Sarebbe opportuno che il popolare ministro riflettesse su come far pagare le tasse agli oligarchi, anche gli armatori, senza subire il ricatto della delocalizzazione o della chiusura delle attività.
Rimane il fatto che la Grecia deve pagare in interessi e in saldo parziale del debito un totale di 29 miliardi entro quest’anno. La scadenza più importante è a fine giugno, quando scadono bond per circa 13 miliardi, una cifra insostenibile per le casse greche.
Ed ecco il problema dei problemi, il debito greco, che ancora non è stato affrontato. Oramai però abbiamo capito qual’è la strategia di Atene: definire in piena autonomia la sua politica economica e trattare con i creditori fino all’esaurimento. Archiviate le misure di austerità, l’obiettivo è evitare a tutti i costi un nuovo debito, affrontare al più presto il problema fiscale e riuscire infine a essere inseriti nel quantitative easing di Draghi.
La strada è piena di insidie. Per la destra liberista europea non è per niente facile permettere alla Grecia di cambiare strada. Ma non può fare altro che trattare.
«Costituzione. La rinuncia alla battaglia di principio ha portato alla sconfitta parlamentare. Senza un’idea forte e alternativa anche il referendum sarà un plebiscito per Renzi» . Il manifesto, 21 marzo 2015
Nel dibattito parlamentare sulla riforma costituzionale è emersa in tutta la sua drammatica evidenza l’impotenza delle opposizioni. L’epilogo del dibattito alla Camera appare, anche dal punto di vista simbolico, espressione della confusione e della debolezza delle forze che – a volte coraggiosamente, a volte meno – provano a contrastare la rivoluzione passiva del governo in carica. Tutti in balia ormai dei giochi e dei tatticismi che permettono al più abile tra i giocolieri di vincere a mani basse ogni partita, mentre le altre parti in causa non riescono neppure a far comprendere i motivi della propria sconfitta. Sfumano — sino a sparire – le ragioni del conflitto, rimangono in superficie solo i lamenti ovvero i sempre più inverosimili propositi di rivalsa.
Pensiamo alla vicenda dell’Aventino. Le opposizioni, a conclusione di una battaglia parlamentare confusa, dominata dalla forzatura di tutti gli strumenti procedurali, poste nelle condizioni di non poter far valere le proprie ragioni nel dibattito in assemblea, decidono di non partecipare più ai lavori. Un atto estremo, che vale a denunciare (se i comportamenti politici avessero ancora un senso) l’assoluta impraticabilità della via parlamentare. Non più solo radicale dissenso, bensì — ben oltre la pratica dell’ostruzionismo parlamentare — il disconoscimento definitivo del processo di riforma costituzionale in corso di svolgimento.
E, infatti, gran parte degli articoli della nuova costituzione sono stati votati in assenza delle opposizioni, in un aula tragicamente semi-vuota. Non so se l’Aventino sia stata una scelta opportuna – francamente non credo – ma quel che dimostra l’approssimazione dei comportamenti politici, anche di radicale contrasto, è stato il repentino ripensamento. Il ritorno in aula per la votazione finale rappresenta, infatti, una clamorosa confessione di errore.
Come si può spiegare altrimenti prima la rinuncia a opporsi nel merito per delegittimare le azioni parlamentari di una maggioranza arrogante, poi la rilegittimazione della stessa maggioranza nel momento della ratifica finale? Dov’è la logica politica, oltre che costituzionale, di un simile atteggiamento? Evidentemente quel che s’è cercato è stato l’effetto del momento, la polemica spicciola, la risonanza mediatica che un’azione plateale, ma vuota, avrebbe ottenuto. Poi, prodotto l’effetto, si può ricominciare a trattare, tornare, come se niente fosse, al tavolo da gioco. Un tavolo che, se non si voleva far saltare, non si doveva mai abbandonare. Un gioco – quello della democrazia parlamentare – che dovrebbe indurre ciascun giocatore a non uscire in nessun momento dal campo neppure di fronte all’arroganza del potere dei più forti. La sinistra, le opposizioni, non vinceranno mai se staranno più attente ai titoli dei telegiornali che non alla sostanza delle cose.
Ed anche guardando alla sostanza delle cose si percepiscono le difficoltà delle opposizioni a contrapporsi al disegno di riforma costituzionale del governo in carica. Infatti, solo in un momento s’è affacciata da parte delle opposizioni l’ipotesi di un’altra riforma costituzionale possibile: il cosiddetto progetto Chiti, che auspicava l’istituzione di un Senato delle garanzie. Non che questa fosse la migliore delle riforme possibili, ben più radicale e auspicabile sarebbe stata la proposta del monocameralismo accompagnato da una sistema elettorale proporzionale, che – non a caso — nessuno ha avanzato in sede parlamentare. Nondimeno s’è trattato almeno di un tentativo di far sentire un’altra voce e non solo la voce del padrone. Dopo di allora, incardinata la discussione sul progetto governativo, nessun altra proposta alternativa è stata avanzata, s’è provato solo – nei casi migliori – ad arginare gli eccessi di un disegno mai più rimesso in discussione nella sua filosofia di fondo, agendo unicamente di rimessa.
Non credo che la miseria della cronaca possa spiegare l’afasia delle opposizioni. Sarà pur vero che il successo della riforma trova il proprio fondamento nei patti privati contratti in luoghi appartati (il “Nazareno”), che ha prosperato in forza delle minacce o delle blandizie ai singoli (l’incombente paura di una conclusione ravvicinata di una legislatura che terrorizza i più pavidi tra i nostri rappresentanti), che conta sul richiamo ai vincoli d’appartenenza (la lealtà al governo, la disciplina di partito). Tutti questi fatti, in caso, spiegano le meschinità cui si ricorre per imporre una riforma di Palazzo, ma non giustifica la mancanza di idee alternative forti da parte di chi aspira a ribaltare lo stato di cose presenti.
Mentre si è rinunciato a condurre battaglie di principio sulle questioni di fondo, la logica puramente emendativa al progetto di riforma del governo ha ottenuto alcuni risultati: qualche competenza in più ad un senato scombiccherato, un addolcimento delle modalità di voto sui provvedimenti che il governo potrà pur sempre imporre ad un parlamento recalcitrante, un illusorio rafforzamento delle modalità di elezione per le istituzioni di garanzia che potranno comunque essere conquistate dalle maggioranze parlamentari. È stata questa una condotta tesa a limitare i danni, ma anche la confessione di una debolezza strategica.
In verità, il quesito di fondo è un altro. Le opposizioni — anziché oscillare tra i più radicali rifiuti e le più dialoganti proposte emendative — si sarebbero dovute concentrare su pochi emendamenti tesi a ribaltare la prospettiva del governo. Perché non è stata chiesta con la necessaria energia la cancellazione di un Senato irrimediabilmente “dopolavoristico”, propugnando coraggiosamente un reale superamento del bicameralismo perfetto per garantire la riunificazione della rappresentanza politica reale? Perché non si è rivendicato il riequilibrio della forma di governo a favore del parlamento contro il dominio dell’esecutivo? Perché non si è voluto immaginare il rafforzamento delle istituzioni di garanzia costituzionale al fine di aumentare i controlli sui poteri governanti?
Perché tali proposte non avrebbero avuto nessuna possibilità di essere accolte, è la risposta di buon senso. Un eccesso di buon senso. In tal modo si finisce per scordare che il parlamento non serve solo a decidere, ma anche a rappresentare. È il luogo dove le diverse visioni politiche devono confrontarsi e che il dibattito in pubblico – nelle assemblee – è un modo privilegiato di formazione dell’opinione pubblica consapevole. In parlamento si dovrebbero più di frequente condurre battaglie di minoranza, senza possibilità di vittoria nell’immediato, ma con lo sguardo rivolto al prossimo futuro, quando si può sperare di riuscire a modificare gli equilibri politici del presente.
Se questo è vero sempre, nel caso delle riforme costituzionali è doveroso. Infatti, dopo le decisioni del parlamento c’è la possibilità di un referendum. Se non si sarà in grado di far emergere con forza un’altra idea di democrazia costituzionale, è assai probabile che l’appello al popolo si trasformerà in un plebiscito sul solo progetto proposto dall’unico attore rimasto sulla scena.
Ora la discussione alla Camera s’è chiusa. C’è poco da sperare che nei prossimi passaggi parlamentari possa riaprirsi qualche spazio per rimettere in discussione l’impianto complessivo di una riforma regressiva. Fuori dal Palazzo però le formazioni sociali – i partiti, i sindacati, le associazioni culturali, i ceti intellettuali, le coalizioni sociali – hanno un’ultima possibilità per cercare di proporre un’altra visione della politica e della costituzione. Oggi minoritaria, domani chissà.
La Repubblica, 21 aprile 2015
Maurizio Lupi non è più ministro delle Infrastrutture. Ma forse non lo è mai davvero stato. Lunedì a casa di Stefano Perrotti, l’asso pigliatutto da 15 anni delle direzioni dei lavori pubblici più ricchi, è stata trovata una bozza di lettera indirizzata a Luca Lotti della presidenza del Consiglio, su carta intestata del ministro, nella quale si sollecitava lo sblocco dei fondi per le Grandi Opere strategiche. Quelle che stavano a cuore, innanzitutto, non al Paese ma a Ercole Incalza e, appunto, al suo socio di fatto, Perrotti. Maurizio Lupi, insomma, ci metteva la faccia e l’abito. La sostanza — fosse il programma dell’Ncd, la risposta a una interpellanza parlamentare o, appunto, lo sblocco di fondi — era faccenda di cui si occupavano i veri padroni delle Grandi Opere. Che in trent’anni sono sempre stati gli stessi.
È storia di qualche settimana fa. Delle informative del febbraio scorso del Ros dei carabinieri. Di un passato che non passa, di cognomi antichi e zombie della Prima Repubblica. Signorile, Trane, Li Calzi, Pacini Battaglia. E storia, anche, di Anas, del «giro di mazzette» per il viadotto Scorciavacche crollato sulla Palermo-Agrigento.
Il ritorno di Signorile
Scrivono gli investigatori: «L’ex parlamentare socialista Claudio Signorile, come ministro dei Trasporti dal 1983 al 1987, ha avviato il progetto dell’Alta Velocità. Nel 1999 la Procura di Roma mandava a giudizio (conclusosi in primo grado per intervenuta prescrizione) per concorso in corruzione Rocco Trane, Claudio Signorile, Pierfrancesco Pacini Battaglia, Lorenzo Necci, Ercole Incalza ». Ebbene, cosa ne è, 15 anni dopo, di questi padri dell’Alta Velocità?
Ancora il Ros: «L’ex ministro Claudio Signorile e il figlio Jacopo, per vicende riguardati appalti pubblici, sono tuttora in rapporti, sia con Incalza che con Stefano Perotti ». Jacopo Signorile dirige la “Profert”, società di engineering ferroviario e stradale di cui è amministratore unico il padre, Claudio. E tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015, quando per altro Incalza è formalmente ormai fuori dal dificio. castero delle Infrastrutture, traffica per entrare insieme a Perotti nella direzione dei lavori per la realizzazione dell’autostrada Roma- Latina (2,8 miliardi di euro).
L’opera ha l’odore dell’affare in famiglia e non più tardi del novembre scorso l’Authority Anticorruzione guidata da Cantone raccoglie i rilievi sollevati dai costruttori di Roma e segnala anomalie per un’evidente limitazione della concorrenza tra imprese. Ma i due non mollano. Il 22 gennaio scorso Claudio Signorile chiama Incalza con il tono non solo di chi ha una vecchia consuetudine, ma faccende in piedi di cui occuparsi. «Ercole... è Claudio …(ride)... Sei un fetente perché ti sei completamente inabissato (ride) ». L’ex ministro fissa una cena per il 27 gennaio, in via Alessandria, a Roma, alle spalle del Ministero delle Infrastrutture, nel ristorante che, per cabala o ironia, evoca evangeliche “divisioni” e porta il nome di “ Pani e Pesci”. E non è un pasto conviviale. Si discute di appalti.
L'ANAS e le tangenti
C’è di più. Lavorando sui Signorile e aprendo la scatola “Profert”, il Ros incrocia la società “Intercons”, che la partecipa e di cui è stato amministratore Claudio Bucci. L’uomo è poi diventato responsabile per le costruzioni dell’Anas in Sicilia e nelle intercettazioni viene definito «il capro espiatorio » per il crollo, a Capodanno, del viadotto sulla Palermo-Agrigento inaugurato sette giorni prima. Ebbene, nel pozzo degli ascolti che apre il capitolo Anas, viene catturata una frase “piena di senso”. La scandisce Salvatore Adorisio, ad della Green Field System, la società di Incalza e Perotti. Dice Adorisio: «Hanno anticipato la consegna del viadotto di tre mesi così l’impresa e i dirigenti prendevano il premio. E quindi hanno fatto ‘sta porcata e senza collaudo.... Non si capisce l’emergenza quale era. Anche perché lì gli hanno detto di fare così... Era più che ovvio perché c’era un giro di bustarelle che fa paura... E’ ovvio che i soldi che prende l’impresa ritornano in Anas da qualche parte. Sono le solite porcate».
Pacini e Trane
Del resto, solo i gonzi sembrano ignorare che, uscito il 31 dicembre del 2014 dalla porta del ministero, Ercole Incalza ne è rientrato dalla finestra, sistemandosi con il suo braccio destro Sandro Pacella in un ufficio da consulente che, coincidenza, è in piazza della Croce Rossa, sede delle Ferrovie dello Stato. E portandosi dietro — come mormora al telefono un altro suo spicciafaccende — «la borsetta... quella rossa con tutti i codici segreti». Già, il Grande Mandarino, ancora un mese fa, non solo non ha mollato (il ministro Lupi lo chiama di continuo), ma non ha intenzione di farlo, utilizzando come schermo la Green Field System. Non stupisce così che, proprio con Perotti, si materializzi un altro fantasma della Prima Repubblica, Francesco Pacini Battaglia, interessato a un incontro. A Roma o in quel di Bientina, dove “Chicchi” risiede. Né è una coincidenza che il consulente legale con cui Perotti cerca di vincere l’arbitrato da 50 milioni di euro con Fiat per la tratta Alta Velocità Firenze-Bologna (quella per la quale ne hanno già incassati 70 «per non fare un cazzo», come dicono ridendo al telefono) sia Pasquale Trane. Figlio di Rocco, scomparso il 2012 a Rimini. Coincidenza, durante un meeting di Cl. Che, fino a ieri, aveva un ministro. Maurizio Lupi.
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Il manifesto, 20 marzo 2015
Nella capitale greca si sapeva a priori che lo scontro tra un governo delle sinistre e l’establishment europeo sarebbe stato inevitabile. Non tanto perché «l’altra Europa» a cui fa riferimento Syriza - gli Stati uniti d’Europa - va in una direzione diversa rispetto alla struttura attuale dell’Ue, basata sui Trattati di Maastricht e di Lisbona, dove la logica dei mercati prevale sulla politica, o meglio dominano le politiche neoliberiste.
L’alto livello di tensione tra Atene da una parte e Bruxelles e Berlino dall’altra, presentata come mancanza di fiducia, è inevitabile nel momento in cui Tsipras, pur presentandosi pragmatico e disposto ad applicare solo una parte del programma di Salonicco per far fronte alla crisi umanitaria greca, non é disposto a seguire le politiche precedenti, come vogliono i partner europei. La ristrutturazione del debito greco è la pietra angolare, l’elemento portante per il risanamento economico della Grecia e per una costruzione europea diversa dall’attuale.
Tutto ció era noto. Ma tutto sommato ad Atene speravano che l’«avversario», ovvero i creditori internazionali, avrebbero rispettato le regole del gioco. A distanza di un mese e mezzo dallo scrutinio del 25 gennaio, invece, ció che si registra é una lotta quasi accanita contro il governo di Alexis Tsipras, il quale rispetta i suoi impegni verso i creditori nonostante i gravi problemi di liquiditá. Visto che l’ aggiustamento di bilancio greco è stato piú pesante che altrove (i tagli di spesa e le misure fiscali hanno diminuito del 45% il reddito delle famiglie contro il 20% del Portogallo e il 15% di Italia e Irlanda), Atene vorrebbe una soluzione basata per il momento sull’accordo dell’Eurogruppo del 20 febbraio scorso. Quindi un negoziato a livello politico, un’apertura di trattativa come ha scritto pochi giorni fa il vice-premier Yannis Dragasakis sul Financial Times.
I partner europei, invece, non solo non sembrano disposti a dare tempo e spazio al neogoverno greco, ma sempre di piú c’è la netta impressione che vorrebbero la sua caduta, la messa in angolo di Syriza. E usano a questo proposito tutti i mezzi: la Bce che ha chiuso i rubinetti del finanziamento di emergenza (Ela) che tiene in piedi le banche greche; l’Euroworking group e l’Eurogruppo che chiede dati tecnici delle finanze greche — che guarda caso sono sempre negativi o mancanti — come pressuposto per un negoziato politico; e la stampa internazionale che, quando non mente, diventa perfino più realista del re.
A causa della mancanza di liquiditá nelle casse dello Stato ellenico tutti, o quasi, parlano del grexident, cioé di un default non voluto o di un grexit (Schaeuble addirittura ha detto a Varoufakis che Berlino sarebbe disposto ad aiutare l’ uscita della Grecia dall’eurozona); tutti sottolineano ad ogni occasione i benefici che hanno avuto i greci dagli aiuti finanziari pari a 240 miliardi di euro ottenuti nel maggio 2010 e nell’ ottobre 2011, ma pochi notano che soltanto il 10% di questo flusso di soldi é stato assorbito per i fabbisogni interni e veri del paese. Il resto é servito per ricapitalizzare le banche greche — le quali peró non prestano un euro alle imprese medie e piccole in stato di emergenza — e sopratutto per pagare gli interessi sui capitali dei prestiti ai creditori internazionali. Vale a dire che la Grecia prende in prestito sempre di più dai suoi partner (e questo vale per l’ Italia e tutti i paesi) per pagare debiti precedenti. Intanto decine di migliaia di greci fanno la fame, perdono i loro posti di lavoro, si ammalano, i piú giovani scelgono le vie di migrazione, ecc., ecc. Le vittime umane, lo sfacelo sociale, l’annientamento del welfare state e la perdita del 25% della richezza nazionale in Grecia sono considerate dall’establishment europeo perdite collaterali.
Chi viene beneficiato e chi guadagna con la crisi greca? In Germania ma anche nel resto d’Europa a sentire i media e parte del mondo politico - che non perdono occasione per disprezzare i Pigs, i paesi del sud - i contribuenti tedeschi pagano «di tasca loro» per i greci. Ma questi opinion makers - su cui Wolfang Schauble insiste sempre nei suoi discorsi - non dicono nulla del fatto che la Germania grazie alla crisi greca e in specifico alla differenza dei tassi d’interesse ha guadagnato dal 2009, secondo la London School of Economics, quasi 80 miliardi di euro.
L’economista americano Paul Krugman (premio Nobel) ha scritto sul New York Times che «i politici tedeschi non hanno mai spiegato ai loro cittadini “la matematica”, ma hanno scelto la via facile del moralismo per l’atteggiamento irresponsabile dei mutuati». Unica eccezione dalla Grande Koalition, Klauss Regling (Mes), che ha detto: «Finora i prestiti di salvataggio alla Grecia non sono costati un solo euro al contribuente tedesco».
Questa campagna diffamatoria piena di stereotipi («i greci pelandroni», promossa non solo dalla Bild ma anche da quotidiani «autorevoli» italiani) nasconde una realtá emersa recentemente dall’Office for National statistics britannico: i «pigri» greci lavorano molto di piú rispetto ai «disciplinati» tedeschi (42,2 ore settimanali i greci, 35,5 ore i tedeschi)». È questa campagna che alimenta il nazionalismo greco, fino alla minaccia dell’apertura dei confini perché i jihadisti invadano la Germania.
Mercoledì i «18» dell’Eurozona venivano descritti dalle agenzie internazionali come «irritati perché il governo di Tsipras si rifiuta di promuovere le riforme», vale a dire gli impegni presi dai governi precedenti. Costello Declan, il rappresentante della Commissione europea alle «istituzioni» è contrario (sic) al progetto di legge che facilita i contribuenti greci a pagare i loro debiti allo Stato, nonostante che non influenzi negativamente il bilancio dello Stato. E poi tutti sono contrari a Yanis Varoufakis, perció fanno di tutto per farlo allontanare dalla sua carica. Il video falso del ministro delle finanze greco che manda a quel paese con il dito alzato la Germania é solo l’ ultimo episodio di una lunga fila di menzogne.
Il viaggio di Tsipras a Berlino il 23 e l’incontro con i leader europei ai margini del summit di Bruxelles di ieri sera e probabilmente anche oggi, dovrebbe servire per distendere il clima, ma sará dura per premier greco.
«La guerra é la continuazione della politica con altri mezzi… é un atto di forza che ha lo scopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontá» scriveva Karl von Clausewitz. E Atene, secondo Berlino, deve sottomettersi alla volontá dei suoi partner. Clausewitz aveva notato per primo che «la prima vittima di ogni guerra è la veritá». Tante le cose scritte e dette su come la Grecia sia arrivata a questa crisi e su chi ne ha la responsabilitá. Una cosa è certa. La ricetta applicata dalla troika (Fmi, Ue, Bce) per il risanamento economico del Paese ha avuto conseguenze simili a quelle di una guerra. E la sensazione che «stiamo vivendo in condizioni di guerra» e di emergenza permanente ce l’hanno (quasi) tutti i greci.
La Repubblica, 20 marzo 2015
IL PARLAMENTO francese ha appena adottato una legge sul fine vita attraverso una “sedazione profonda e continua” di malati in fase terminale che avevano lasciato precise indicazioni in merito. In Italia se ne parla da tempo ma nulla si muove. Il riformismo renziano sembra infatti procedere con due diverse velocità. Sul piano istituzionale e su alcuni aspetti socioeconomici esprime una forza propulsiva molto forte. Anzi, a volte si muove a passo di carica, usando ogni accorgimento, dal canguro alla tagliola, pur di arrivare in tempi brevi alla approvazione. Sul piano dei diritti civili, invece, si sconta una certa sedentarietà.
Il matrimonio omosessuale, le adozioni monoparentali, un effettivo diritto all’interruzione di gravidanza, il fine vita, la libera somministrazione della pillola del giorno dopo (Ru486) e di cinque giorni dopo (EllaOne), il diritto di cittadinanza rimangono indietro. Soprattutto non hanno centralità nel dibattito politico. Anche la questione del divorzio breve, approvato al Senato alcuni giorni fa, ha scontato una resistenza passiva al limite dell’ostruzionismo da parte degli stessi esponenti del partito della maggioranza pur di evitare uno snellimento radicale delle procedure. La componente cattolica del Pd si è imputata a “difendere la famiglia”, utilizzando una espressione che si pensava appannaggio della destra tartufesca, quella che sfilava in piazza durante il family day, nonostante tutti i leader del centrodestra fossero divorziati. In questi casi viene invocata la libertà di coscienza, come se i diritti civili fossero un problema soggetto alla sensibilità etica. Ovviamente si possono avere opinioni diverse ma non le si può utilizzare per limitare i diritti di chi la pensa diversamente e chiede riconoscimenti che non violano la libertà di nessuno.
Il problema rimanda alla cultura politica prevalente nella classe politica nazionale e alla sua sintonia con l’opinione pubblica. Il caso Englaro fu una cartina di tornasole drammatica della distanza siderale che separava il “Paese legale da quello reale”, per usare una vecchia formula. In quella circostanza sembrava di essere tornati agli anni Settanta quando la Dc sfidava sicura e arrogante un tremebondo Pci sul referendum sul divorzio pensando di vivere in Paese ancora clericale. E invece, come allora, anche nella drammatica vicenda Englaro, la maggioranza degli italiani stava dalla parte di coloro che vennero definiti in pieno Parlamento “assassini”.
Quelle punte esasperate ora non risuonano più ma la maggioranza di governo — anche, ma non solo, per la presenza dell’Ncd — non sembra intenzionata ad imprimere un passo svelto a questa agenda. È di pochi giorni fa la restrizione imposta all’assunzione della cosiddetta pillola dei cinque giorni: mentre la Commissione europea ha dato il via libera all’acquisto senza prescrizione medica, il nostro ministro della Salute ha imposto l’obbligo della ricetta «per evitare effetti collaterali ». Ottima precauzione, ma chissà perché negli altri Paesi non la considerino necessaria.
Questo esempio, come gli altri ritardi — il 12 marzo il Parlamento europeo ha votato la relazione annuale sui diritti umani in cui si invitano tutti i Paesi, e quindi anche l’Italia, a riconoscere le unioni civili tra persone dello stesso sesso — dimostrano un perdurante deficit di cultura politica laica nel Parlamento. Del resto, il Pd non ha mai brillato per posizioni avanzate su questo terreno. Risente ancora del peso sulle ali depositato dalla tradizione cattolica, prudente e a volte neghittosa sul fronte dei diritti civili, soprattutto se connessi alla sfera della sessualità, e da quella comunista, anch’essa per lungo tempo estranea a questi temi.
Così, è rimasto poco spazio per la promozione dei civil rights . Non per nulla sono i sindaci più sbilanciati verso posizioni laiche, da Ignazio Marino a Giuliano Pisapia, ad aver sfidato l’inerzia legislativa celebrando nozze gay (e incorrendo nei fulmini del ministro dell’Interno Angelino Alfano). Eppure, proprio la nuova classe dirigente oggi al timone del Pd, essendo, virtualmente, più in linea con la modernità e la postmodernità, non dovrebbe aver timori o remore ad aprire le finestre. In fondo, il presidente del Consiglio ha tenuto un profilo “laico”: non è corso in Vaticano appena nominato premier, non ha ostentato frequentazioni con prelati, non ha mai fatto riferimenti impropri alla religione. Abbandoni allora timidezze e imponga un altro ritmo a tutto il carnet dormiente dei diritti civili.
Il manifesto, 20 marzo 2015
C’è attesa per i valori.Le dimissioni sono sopravvalutate. Non bisognerebbe considerarle la conclusione di uno scandalo, finale in gloria per chi (in questo caso Renzi) voleva i disonorati (in questo caso Lupi) fuori dal suo governo, ma non poteva dirlo ad alta voce. E non poteva perché rischiava di perdere l’appoggio degli alleati. Renzi lascia Lupi e si tiene stretto Alfano. Riceve applausi, quando dovrebbe chiedere scusa e spiegare perché ha scelto e confermato quel ministro. Lui, così attento alla narrazione positiva, ci raccomandava il «merito». Mentre attorno raccomandavano i figli.
Lupi non è indagato. Non fosse per il solito malloppo di intercettazioni sarebbe rimasto al suo posto, perfetta eccellenza italiana pronta per la prima fila dell’Expo. Non è sul rottamatore, è chiaro, che si poteva fare affidamento per ristabilire un minimo di correttezza e trasparenza. Del resto Grandi opere e leggi obiettivo non se ne vanno con Lupi. E a giudicare dai profondissimi silenzi prima delle dimissioni, e dagli eccessivi complimenti dopo, le abitudini dell’ex ministro non sono sconosciute alla compagnia che resta a reggere il governo.
Non se n’è andata la ministra Boschi, azionista di una banca in cui suo padre era vicepresidente e suo fratello dirigente, commissariata da Bankitalia che ha ragione di temere per i depositi dei correntisti. Non ha fatto una piega Renzi, quando si è saputo che il suo grande finanziatore Serra ha speculato sulle banche popolari, valorizzate da un decreto del governo. E ha tirato dritto quando è venuto fuori che alla sua cena elettorale da mille euro a testa c’era Buzzi, che i magistrati considerano il regista di Mafia Capitale. Anzi, si è rifiutato di fornire l’elenco di tutti i commensali per ragioni di privacy. E quanto a moralità, da presidente del Consiglio si trova adesso a dover sostenere la candidatura del condannato De Luca in Campania.
Tutto questo resta, oggi che Lupi se ne va. E se ne va da ministro, non da indispensabile alleato. Consegnate le dimissioni, discuterà con Alfano e Renzi quale altra poltrona assegnare a Ncd. Poi, informa un comunicato, parlerà ai giovani del suo partito di «idee e valori per il futuro dell’Italia». C’è attesa per i valori.

manifesto, 19 marzo 2015
Il prossimo 8 dicembre l’anno diventerà “santo”. Perché per quella data papa Francesco ha indetto un giubileo, che durerà fino al novembre del 2016. Giubileo è una parola di origine ebraica, indica una ricorrenza che cadeva ogni 50 anni in cui, nella Palestina di un tempo, il popolo di Israele condonava i debiti, liberava i servi e restituiva i beni ai proprietari che li avevano perduti. Papa Francesco ha indetto il prossimo giubileo (straordinario, perché cadrà a soli 16 anni dall’ultimo) nel segno della misericordia. Un’attitudine che a molti di noi dice poco; ma credo che sul giubileo si possa comunque aprire un confronto: non con “il mondo cattolico” — termine vuoto e finzione di bassa politica — ma con quei cattolici che credono veramente in quello che professano (una componente importante di coloro che si battono per un mondo diverso). E se avremo anche la benedizione del papa, tanto meglio.
Dobbiamo però attualizzare i contenuti del giubileo: in termini generali non è difficile farlo. Come restituire i beni perduti al suo proprietario originario? Riportando beni e servizi che sono stati oggetto di appropriazione privata alla loro origine o funzione di “beni comuni” - cioè di tutti - al servizio di coloro che ne sono stati espropriati dai processi di privatizzazione. E questo vale sia per i beni materiali quali suoli, edifici e risorse di base come acqua, cibo e abitazione, sia per i servizi – in particolare i servizi pubblici locali e quelli di pubblica utilità – sia per quei beni che vengono al mondo grazie al lavoro congiunto di milioni di persone, ma espropriati quasi contestualmente alla loro comparsa, come i saperi, la cultura, la socialità. E poi, chiudendo per sempre il capitolo delle Grandi Opere: uno spreco (abbinato a furti e malversazioni continue) di risorse comuni per devastare territori e comunità.
Quanto alla liberazione dei servi, oggi questa categoria di lavoratori non è più contemplata dai codici civili; ma è in atto un processo teso a ricondurre a una condizione servile il lavoro - sia quello salariato che quello autonomo, come peraltro lo è da sempre gran parte del lavoro di cura — attraverso lo smantellamento completo di quei diritti, conquistati con dure lotte e immensi sacrifici, che in una qualche misura lo proteggevano dall’arbitrio del “padrone” (oggi datore di lavoro, committente, o capofamiglia). Innanzitutto il giubileo che libera i servi non può coincidere per noi che con l’abrogazione del Jobs act e con la reintroduzione dell’Articolo 18. Ma poi, con molte altre cose che caratterizzano un lavoro libero, la cui premessa è un reddito universale garantito, condizione ineliminabile perché il lavoro non sia esposto a continui ricatti.
Che cosa significhi oggi, infine, remissione dei debiti non abbiamo bisogno di andare a cercarlo lontano; perché le vicende della Grecia e, ancor prima, quelle di casa nostra lo hanno messo al centro del dibattito politico. Il primo debito da cui dobbiamo essere liberati è quello da cui ciascuno di noi è gravato senza averlo mai sottoscritto, perché lo hanno contratto, a nome e per conto nostro, senza esserne autorizzati, i nostri Governi: e non nei confronti di un’entità pubblica come una banca centrale (il che, in ultima analisi, avrebbe voluto dire essere debitori verso se stessi); bensì nei confronti di istituzioni finanziarie come banche private, assicurazioni e ricchissimi speculatori, che hanno fatto del debito cosiddetto “sovrano” uno strumento di governo delle politiche pubbliche e messo nelle loro mani - nel loro esclusivo interesse - la vita di milioni di cittadini e di lavoratori.
Poi ciascuno di noi può anche essersi indebitato per far fronte a esigenze che il suo reddito non gli permetteva di soddisfare: mutui, ratei, fidi, carte di credito, “prestiti d’onore”. E dietro quei debiti ritroviamo le stesse istituzioni. Tutto ciò fa del cittadino delle società odierne un “uomo indebitato”: la condizione esistenziale permanente di un “soggetto” – nel senso di suddito – da cui si potrà indefinitamente estrarre valore e a cui si potrà sempre imporre sottomissione per il solo fatto che non sarà mai più nella condizione di liberarsi dal suo debito.
In nessun caso come questo la remissione del debito è la risposta irrinunciabile per restituire a un giubileo il suo senso autentico. Poi interverrà la necessità di articolare, modulare e scadenzare nel tempo questo obiettivo: un esercizio che vede attualmente impegnato il nuovo governo greco, solo contro tutti. Ma quando arriverà il giubileo si spera che il governo greco sia riuscito a resistere e che altri attori — governi, istituzioni, movimenti di massa, nuove coalizioni sociali - si affianchino ad esso per condurre insieme questa sacrosanta battaglia.
Ma c’è un altro debito gigantesco che incombe su tutti noi e al cui confronto i debiti pubblici di tutti gli Stati del mondo sottoposti ai capricci dell’alta finanza non sono che fuscelli trasportati dal vento della storia. E’ il debito che abbiamo contratto e continuiamo a contrarre nei confronti della Terra, del vivente, dell’ambiente che abitiamo e di cui siamo parte. E’ un debito che non merita e non rende possibile alcuna remissione, perché, come dice papa Francesco, Dio perdona sempre; l’uomo talvolta; ma la natura non pedona mai.
Quello che le è stato e continua a venirle tolto le va restituito in qualche modo, pena la scomparsa delle condizioni stesse della sopravvivenza: nostra, dei nostri figli, dei nostri nipoti; e di coloro che avranno la ventura di nascere dopo di loro. Dobbiamo restituire alla natura la possibilità di “funzionare”: di operare nel modo che ha permesso alla serie lunghissima dei nostri progenitori e dei nostri antenati di arrivare a metterci al mondo.
Ma questo immenso debito generale ha molte facce e molti modi per essere saldato. Un faccia, la principale, è quello di cominciare a comportarci, nei nostri consumi, nel nostro stile di vita, nelle nostre scelte politiche - ma anche, e soprattutto, nella misura del possibile, nel nostro lavoro — in modo da offenderla il meno possibile; in modo da aiutarla a riprendersi, a ricostituire poco per volta la purezza dell’atmosfera e dell’aria che respiriamo, quella dei mari e dell’acqua che beviamo, la fertilità del suolo che ci nutre e di quanto della biodiversità è ancora sopravvissuto. Un compito non da poco.
L’altra faccia è il debito ambientale che noi, cittadini del mondo occidentale di antica a consolidata industrializzazione, abbiamo contratto nei confronti degli abitanti del resto del mondo, occupando per oltre due secoli, con le nostre emissioni climalteranti, l’atmosfera terrestre, che è un bene comune, forse il più grande: aria e spirito, respiro e vita sono originariamente sinonimi. Se non vogliamo che il resto del mondo segua – come già sta facendo – la nostra stessa strada moltiplicando per tre, per cinque, per sette, l’occupazione dell’atmosfera con emissioni pro-capite altrettanto nefaste (e con scarichi e rifiuti inquinanti in ogni angolo del pianeta) fino a creare, nel giro di pochi anni, un’alterazione irreversibile del clima e un inquinamento della Terra che la sta rendendo invivibile, dobbiamo spartire lo “spazio carbonico” ancora disponibile tra la generazione attuale e quelle future, e, all’interno della generazione attuale, tra chi ha già consumato molto carbonio e chi ha appena cominciato a farlo. E comportarci in modo analogo con i prelievi di risorse e i rifiuti solidi e liquidi. Un altro obiettivo non da poco.

La Repubblica, Genova, 19 marzo 2015
E mentre "Rete a sinistra", l'altra coalizione che tiene insieme dai civatiani del Pd a Sel, Rifondazione e parti di società civile, fa sapere che si prende ancora due o tre giorni di tempo, per avere un altro nome da proporre, il candidato Pagano raccoglie subito il via libera ufficiale di "Green Italia", gli ambientalisti che di lui sottolineano proprio l'attenzione per l'uso del territorio, dimostrata già quando era amministratore. Non solo. Sembra che tra chi abbia dato una mano a convincerlo ci sia Andrea Ranieri che è stato, tra le altro,responsabile nazionale della scuola e della formazione per il Pd in epoca pre-Renzi mentre il suo nome metterebbe d'accordo anche l'ala ex ds che in Paita proprio non si ritrova. Si va dal vice sindaco di Genova, Stefano Bernini a Ubaldo Benvenuti che è stato consigliere regionale all'ex senatore Graziano Mazzarello, ma si parla anche di Stefano Zara, come supporter. Nè si nasconde la speranza che "Rete a sinistra", alla fine, converga sul nome di Pagano, per poter opporre un fronte almeno unito, al Pd di Raffaella Paita.
Intanto ecco chi è Giorgio Pagano. Laureato in Filosofia, in realtà, è vissuto di politica: entra nel Pci, fino a essere l’ultimo segretario provinciale e il primo del Pds. Poi passa all’amministrazione pubblica, prima da assessore, poi da sindaco. E proprio quando guida la città, in silenzio ma con efficacia, la cambia in molti aspetti. A partire dal centro storico restaurato e di nuovo vivibile, a seguire con il Lia, museo d’arte donato alla Spezia che viene lanciato per come merita. E, ancora il lungomare di Porto Lotti. I dissidi con la sinistra in cui si è sempre riconosciuto, portano poi Giorgio Pagano a farsi da parte, a non aderire al Pd, a mostrare simpatie per Sel, ma, in generale, a seguire missioni più culturali come il progetto “Municipi senza frontiere”. Presiede anche l’associazione culturale Mediterranea che ha creato. Adesso, a sorpresa, ha deciso di accettare l’invito di don Farinella. e di schierarsi contro la sua ex fidata collaboratrice. Sarà un duello tutto spezzino, almeno per ora. E salvo altre sorprese made in Genova

«Se anche alla fine Lupi ci lascerà la pelliccia, niente cambierà davvero. Ci vuole un ben altro scatto di orgoglio, un orgoglio che passa per l'umiltà di riconoscere i propri errori». Proprio cosí. Ed è davvero difficile sperare che nei "senza terra" che ci governano e nel lupetto che li comanda quell'umiltà ci sia. La Repubblica, blog "Articolo 9", 18 marzo 2015
Può darsi che questa sia la volta buona che il Lupi perde il pelo: tenerselo avviticchiato alla betoniera sembra troppo anche per il balenottero bianco che presiede il governo. Ma la cosa veramente importante è che il governo perda il vizio di praticare e predicare il vangelo delle Grandi Opere e del Cemento.
È stato Maurizio Lupi a volere e a firmare la riforma più immediatamente devastante tra le varie imbastite dal Governo Renzi: lo Sblocca Italia. Una legge che ha destinato 2 miliardi e mezzo di euro alla inutile, ambientalmente distruttiva e clientelarissima Orte Mestre: che ha l'unico merito di essere promossa da Vito Bonsignore, già eurodeputato Pdl e poi passato nel partito di Lupi, il Nuovo Centro Destra. E non c'era bisogno di aspettare che la Procura di Firenze indagasse Bonsignore per sapere che finanziare quella autostrada era una pessima idea: l'aveva, per esempio, spiegato molto bene Luca Martinelli di Altreconomia, anche nel libro a più mani Rottama Italia (da cui viene anche questa vignetta di Tiziano Riversi).
Era stata invece la Banca d'Italia a dire – nell'audizione parlamentare preliminare alla conversione in legge dello Sblocca Italia – che quel decreto avrebbe prodotto corruzione: sorella inseparabile del cemento, e delle procedure di emergenza che invece di semplificare sensatamente la foresta normativa la aggirano.
Dunque, se anche alla fine Lupi ci lascerà la pelliccia, niente cambierà davvero. Ci vuole un ben altro scatto di orgoglio, un orgoglio che passa per l'umiltà di riconoscere i propri errori. In quel libro sullo Sblocca Italia, Carlo Petrini chiudeva così il suo contributo.
«C’è ancora una flebile speranza, una luce attorno alla quale sento ancora il bisogno di raccogliermi assieme ad altre persone: è la speranza di tutti quelli che credono strenuamente che un’altra idea di sviluppo sia possibile; è la speranza che questo modello conquisti l'intelligenza del premier e lo induca a riconsiderare quanto licenziato finora. Ai compagni di tante battaglie e all'intelligenza del Presidente del Consiglio chiedo dunque di fermare lo scempio dello Sblocca Italia, perché finalmente possa riprendere il cammino un'idea di legislazione davvero rispettosa del nostro passato e promettente per il suo futuro».
Ecco, se ora Renzi andasse in televisione ad annunciare che lo Sblocca Italia è stato un grave errore, e che il governo si impegna a cassarlo, vorrebbe dire che il governo non sta perdendo solo il pelo, ma anche il vizio. O non si era forse detto che si cambiava verso?
La Repubblica, 18 aprile 2015
Roma. Maurizio Lupi ha mentito. Il figlio Luca - come documentano ora almeno due diverse intercettazioni agli atti dell’inchiesta di Firenze - venne assunto da Stefano Perotti su richiesta esplicita del padre ministro.
I fatti. Nell’ordinanza depositata lunedì, la storia dell’assunzione del giovane Luca Lupi ha come apparente incipit i giorni compresi tra il 28 e il 30 gennaio del 2014, quando Stefano Perotti viene intercettato nel discutere di dove, come e quando «il figlio di Maurizio» comincerà a lavorare per lui, l’ingegnere che, da 15 anni, Ettore Incalza impone come direttore dei lavori ai general contractor delle Grandi Opere. Maurizio Lupi, che su quelle carte ha evidentemente modo di riflettere per lunghe ore, si accorge che alla storia raccontata dal gip di Firenze manca un pezzo. Il più importante. E che quel vuoto gli apre una via di uscita e la possibilità di offrire una “lettura alternativa” a quello che le carte pure sembrano già documentare in modo inequivocabile.
Decide dunque di muovere. Posando a padre cui «la politica fa pagare il prezzo alle persone che ami». Intervistato dal nostro Francesco Bei, dice: «Mio figlio si è laureato al Politecnico di Milano nel dicembre del 2013 con 110 e lode. Dopo sei mesi in America, presso uno studio di progettazione, gli hanno offerto un lavoro. Ci ha messo un anno, come tutti, ad avere il permesso di lavoro e da marzo di quest’anno lavora a New York. Lo scorso anno ha lavorato per lo studio Mor per 1.300 euro netti al mese in attesa di andare negli Usa». Bei insiste: «Il punto è: su sua richiesta? ». È il passaggio chiave. Il ministro risponde con enfasi: «Se avessi chiesto a Perotti di far lavorare mio figlio, o di sponsorizzarlo, sarebbe stato un gravissimo errore e presumo anche un reato. Non l’ho fatto. Ho sempre educato i miei figli a non cercare scorciatoie. Non ho mai chiesto favori per loro. Stefano Perotti conosceva mio figlio da quando, con altri studenti del Politecnico, andava a visitare i suoi cantieri. Sono amici. Così come lo sono le famiglie ».
La telefonata chiave. Ebbene, la storia raccontata da Maurizio Lupi sta in piedi come un castello di carte. E a farla venire giù sono due intercettazioni telefoniche che il ministro non conosce ma che fanno parte dell’inchiesta. Che le danno una sequenza logica e temporale. È il gennaio del 2014. Luca Lupi si è laureato da appena un mese. E, sappiamo già dall’ordinanza, che Stefano Perotti ha già provveduto a festeggiarlo, senza che il padre trovi nulla di sconveniente, con un Rolex da 10.350 euro. È un regalo che, evidentemente, non basta. Soprattutto che non seda l’ansia di un padre che ha urgenza di vederlo sistemato. Per questo, il ministro alza il telefono e, inconsapevole dei Ros all’ascolto, chiama Ercole Incalza, l’immarcescibile mandarino che governa la Struttura tecnica di missione del ministero (la stanza dei bottoni degli appalti per le Grandi Opere), il Kaiser Soze delle Infrastrutture.
«Deve venirti a trovare mio figlio », gli dice. E non c’è evidentemente da aggiungere altro. Perché quella visita ha un solo scopo. Di cui non è necessario parlare al telefono. Incalza riceve infatti il giovane Luca, sapendo già come provvederà a renderlo un ragazzo felice. E dopo averlo congedato, si mette a sua volta al telefono. Chiama Stefano Perotti, l’ingegnere che gli deve tutto e con cui è socio nella “Green Field System”, la società in cui la Procura di Firenze vuole confluiscano e vengano di fatto riciclati le centinaia di migliaia di euro che sono il prezzo della corruzione delle Grandi Opere (Incalza percepisce dalla Green field 697mila euro tra il ‘99 e il 2008. Mentre, solo tra il 2006 e il 2010, Perotti la alimenta con versamenti pari a 2 milioni e 400mila euro).
Anche questa conversazione tra Incalza e Perotti è intercettata dal Ros e fa parte degli atti dell’inchiesta. Anche di questa Lupi non può sapere leggendo l’ordinanza.Incalza informa Perotti: «C’è da incontrare il figlio di Maurizio ». Non c’è bisogno di aggiungere altro. Perché i due sanno evidentemente di cosa si tratta. Lo sanno a tal punto che, come ormai sappiamo, la cosa, «la triangolazione», come la chiama il genero di Perotti, Giorgio Mor, si fa. Luca Lupi si mette l’elmetto giallo da cantiere e va a lavorare al palazzo dell’Eni a san Donato Milanese. Sappiamo anche che non finirà qui. Che lo scorso febbraio, quando l’aria intorno a Incalza e Perotti comincia a farsi greve, si decide che è meglio per tutti che il ragazzo cambi aria. Perotti alza il telefono e chiama l’amico Tommaso Boralevi perché se lo prenda oltreoceano.
Frank e il Porto di Olbia. La si potrebbe chiudere qui. Ma nelle pieghe dell’ordinanza è possibile afferrare almeno un altro filo che racconta di qualche altra disinvoltura del ministro. Quello che porta al cantiere per il nuovo Porto di Olbia. Si legge nell’ordinanza: «Stefano Perotti interviene su Fedele Sanciu, commissario dell’Autorità portuale del Nord Sardegna e su Bastiano Deledda, responsabile unico del procedimento, per condizionare il bando di gara relativo alla progettazione definitiva e alla direzione dei lavori per la realizzazione del nuovo terminal». E per farlo «si avvale del ruolo decisivo di Francesco Cavallo».
Arrestato lunedì, Cavallo, milanese di 55 anni ancora da compiere, si fa chiamare “Frank”. Ed è un Figaro che con il ministro ha la confidenza del vecchio compagno di merende e, soprattutto, la comunione di fede e opere di Cl, di cui è creatura. Diciamo pure, che di Lupi, pur non avendo alcun rapporto formale con il ministero, è l’ambasciatore e lo spicciafaccende. Le sue mosse non sono mai dritte. Ha un curriculum in cui l’uso dell’inglese dissimula il suo vero mestiere di “problem solver” o “facilitatore”, se si preferisce. E di lui, Giulio Burchi, ex presidente di Italferr, al telefono con Giuseppe Cozza, già direttore generale della Metropolitana milanese, dice: «Cavallo? È l’uomo di Lupi. Bah.... Un personaggio... Bisogna prenderlo con le pinze».
Un personaggio che in due anni (2013-2014) riceve quasi 200mila euro dal consorzio La Cascina, il forziere di Cl, per “prestazioni professionali” di cui l’accusa non ha sin qui trovato riscontro. E che, ad Olbia, fino a quando le cose non si complicano appare decisivo. Grazie a una storia di vacanze in barca. «È Cavallo infatti - annotano i magistrati fiorentini - a prendere contatto con Sanciu e a ricordargli di averlo in passato incontrato in barca insieme al ministro ». Sanciu cucirà dunque il bando come un vestito su misura per Perotti e tutto filerebbe liscio, se non fosse che viene avvicendato nel ruolo di commissario. Perotti proverà inutilmente un ultimo intervento su Lupi. Anche se senza successo. «Mi aspetto qualcosa sull’isola», dice al genero Giorgio Mor. Quindi aggiunge: «Ho incontrato Luca. Pensavo avesse un messaggio da portare... Ma niente». Già, Luca. Il giovane ingegnere ridotto a staffetta carbonara e che il padre voleva assunto a sua insaputa.

«Non c’è più una dialettica politica che incrini il dominio della coalizione sociale che ha, quale suprema guida spirituale, la finanza e il grande capitale e, per suo docile esecutore materiale, il governo dei senza retroterra, selezionati perché in rapporti privati con influenti centri di potere». Il manifesto, 18 marzo 2015
Le carte della procura di Firenze sollecitano, per la politica, la domanda più classica. Chi comanda in Italia? È tutto nelle mani del premier che governa con le slide, fa il selfie con chi capita, scrive tweet a ritmo febbrile e interviene su ogni inezia del creato? Se la politica fosse solo comunicazione, Renzi avrebbe già risolto l’enigma del potere. È tutto nella sua stanza di palazzo Chigi, con la lampadina notturna sempre accesa in segno di permanente lavoro sulle scartoffie. Le scolaresche che cantano inni di giubilo in sua presenza sono la conferma dello scettro ritrovato.
Se, oltre la scintillante scena della rappresentazione, si osservano però altre variabili, il quadro del potere si complica. Il governo dei «senza retroterra», come è stato autorevolmente battezzato, ovvero l’esecutivo degli incompetenti, non riesce davvero a recuperare lo spazio della politica in un mondo che scivola sulla richiesta di neutralizzazione dei valori alternativi avanzata dalla tecnica e sull’espropriazione degli ambiti di democrazia ordinati dalle agenzie del capitale e della finanza.
I ministri che ignorano i risvolti delle grandi opere, si perdono nei labirinti dell’amministrazione, e anzi si vantano di aver portato al potere tutta la loro inesperienza, non allarmano perché decidono troppo. Inquietano perché decidono cose che ordinano loro dei poteri che non controllano. E sono proprio queste oscure agenzie, un misto tra pubblico e privato, impresa e grandi commessi di stato, funzionari e lobbisti, che hanno appiccicato i galloni sulle spalle agli statisti della porta accanto e sono pronti a strapparli alla prima occasione.
Renzi si vanta per aver imposto il suo decisionismo veloce. Ed esplicita la sua filosofia delle istituzioni in questi termini, molto semplificati: «Per il governo io ho in testa il modello di una giunta che funziona con un forte potere di indirizzo del sindaco». Se davvero fosse possibile tramutare il presidente del consiglio in sindaco e il governo in una giunta, sarebbe certificata la fine della politica, la sua riduzione ad amministrazione spicciola e l’ingresso in un mondo della favola, senza grandi conflitti sociali. Solo che, anche quando annuncia di avere concentrato tutto il potere in una stanza, Renzi inciampa in un ennesimo annuncio che è, come gli altri, inattendibile.
Nessun osservatore assennato è disposto a riconoscergli competenze reali nell’arte di governo. Improvvisa, esagera, ignora, semplifica, forza. E mostra tutta la sua fragilità nel ruolo di statista, quando dichiara che «vorrebbe Putin nella sua squadra» o celebra un re degli Emirati come «campione della libertà». Nel gioco della simulazione infinita, che è diventata l’opera di governo nell’età leggera del pubblico, il premier narra, si diverte tra telecamere amiche, viaggia servendosi dei simboli del potere e illustra le norme giuridiche con le slide. L’agenda però la scrivono altri. Non solo il governo privato (economisti e imprenditori amici, come l’ex amministratore delegato Guerra), ma la Confindustria, i poteri europei, le burocrazie inossidabili che resistono al mutar dei ministri.
Renzi è velocissimo quando si tratta di dare esecuzione agli ordini dei forti poteri che esigono la precarizzazione del lavoro ed è poi di un imbarazzante immobilismo nelle scelte (evasione fiscale, legge anti corruzione) che colpiscono gli interessi consolidati, i privilegi e le rendite di posizione. Il sociologo Luca Ricolfi ha effettuato sul Sole 24 Ore una radiografia dell’azione di governo certificando nel referto l’impossibile rinascita di una destra liberale. «Renzi - scrive - è già abbastanza di destra da lasciare ben poco spazio a un’opposizione dello stesso tipo».
E, in effetti, tutte le sue rapide scelte (dalla riforma costituzionale, al taglio dell’Irap per le imprese, dalla cancellazione dell’articolo 18 alla responsabilità civile dei giudici, dai tagli alla spesa pubblica al preside manager) sono «abbastanza di destra». Proprio sul solido terreno destrorso delle politiche pubbliche è possibile la nascita del partito unico della nazione che sposa gli interessi di potenze private che dettano i programmi e lasciano che il leader pseudo carismatico occupi la scena della rappresentazione con simulazioni di nuovo, velocità, simpatia.
In parlamento non c’è più una dialettica politica che incrini il dominio della coalizione sociale che ha, quale suprema guida spirituale, la finanza e il grande capitale e, per suo docile esecutore materiale, il governo dei senza retroterra, selezionati perché in rapporti privati con influenti centri di potere. Senza promuovere un’altra coalizione sociale legata al lavoro, l’autonomia della politica sfuma e anzi bisogna cestinarla nel novero delle grandi utopie. Le carte fiorentine svelano la trama affaristica del circolo governo-burocrazie-amministratori-imprese impegnato nel gran ballo dell’opulenza in un tempo di politica al tramonto
civil servants in direttori d'azienda. L'obiettivo non è più servire l'interesse collettivo ma accrescere il profitto. La configurazione del regime renziano si precisa smpre meglio. La Repubblica, 18 marzo 2015
IL GOVERNO ha in cantiere due riforme importanti, quella che ridisegna la Rai e quella che riorganizza la scuola. Due settori fondamentali, da anni maltrattati: la Rai a causa della legge Gasparri che sacrifica il pluralismo e la libertà di informazione sull’altare del duopolio Stato-Mediaset, e la scuola a causa dello stillicidio delle risorse al quale vari governi l’hanno condannata, mortificando l’educazione nel suo complesso: gli educatori e gli studenti. In un precedente articolo avevamo messo in dubbio alcune proposte, come quella della parziale detassazione della retta per chi iscrive i figli alle private parificate e quella del contributo del 5 per mille che i cittadini possono destinare, se lo vogliono, alle scuole, secondo una logica di scelta privata che è in contraddizione con il bene istruzione. Una critica in questo senso è venuta anche da Chiara Saraceno su questo giornale.
Comune ad entrambe queste due proposte di riforma vi è inoltre un tratto distintivo non ancora sottolineato e che merita attenzione: l’accentramento delle funzioni dirigenziali secondo il modello della «governance », una trasformazione non di poco conto dei sistemi di decisione nella gestione dei beni pubblici. Circa la nuova Rai, per esempio, si propone un cda eletto dal Parlamento con “il capo azienda” nominato dal presidente del Consiglio (con voto di conferma del cda). Circa la scuola, la figura dei presidi diventa simile a quella degli amministratori delegati nelle aziende private: formano la loro squadra (un vero e proprio cda) scegliendo da appositi albi territoriali costituiti dagli Uffici Scolastici Regionali i docenti che ritengono più adatti per realizzare i loro piani di offerta formativa.
Il successo di una governance nelle aziende private si misura con i profitti. Quale sarà il successo che convaliderà l’offerta formativa nel caso delle scuole statali, forse il numero dei diplomati o l’attrazione di studenti mediante la creazione di attività ricreative, come avviene negli Stati Uniti? Si sostiene che l’accentramento dei poteri nella mani di un preside e del suo consiglio consentirà di realizzare l’autonomia scolastica, di avere cioè maggiori strumenti per gestire risorse umane, tecnologiche e finanziarie. Autonomia di gestione per ottenere che cosa? La scuola statale deve mirare all’inclusione degli studenti nell’attività formativa (universale nel caso della scuola dell’obbligo), non a caso a partire dagli anni Settanta, lo Stato e gli enti locali hanno approntato risorse per gli insegnanti di sostegno e per il diritto allo studio (risorse che tutte le riforme hanno teso a ridurre fortemente). Ora, supponiamo che l’istituto pubblico A voglia competere con l’istituto pubblico B (per avere, si spera, gli studenti migliori). Che cosa metterà sul mercato della reputazione per diventare competitivo? Troverà davvero conveniente fare scelte che impiegano risorse per l’inclusione dei disagiati?
Il merito di uno studente portatore di handicap può implicare dover investire più risorse: siamo certi che nel mercato dell’autonomia competitiva questo si traduca in politiche giuste e in eguali opportunità? Certo, quasi tutto dipenderà dal preside e dalla “squadra” che sceglierà in base ai suoi obiettivi (e alle sue visioni) e che predisporrà piani triennali con grande autonomia decisionale (sentiti gli insegnanti, il consiglio di istituto e le realtà territoriali - organi che però danno pareri non vincolanti; del resto, nella struttura piramidale aziendalistica gli insegnanti diventano dei dipendenti del preside più che dei collaboratori).

La logica della governance è, come si sa, di tipo mono issue - la direzione amministrativa dell’impresa ha uno scopo unico intorno al quale tutto il resto ruota (dal servizio di chi lavora e all’oggetto prodotto): il profitto, non la coerenza a principi o a criteri di merito e di giustizia come dovrebbe essere nelle strutture amministrative che gestiscono i beni pubblici (certamente la scuola). Il perseguimento di un obiettivo quantificabile risponde a una logica che non è ispirata alle stesse condizioni normative di un’amministrazione pubblica; per questo, dovrebbe impensierire l’applicazione del modello-governance alla scuola, che non sforna automobili ma forma persone. I referenti della scuola sono i futuri adulti, persone che devono essere stimolate a sviluppare le loro potenzialità (secondo tempi che, nonostante tutto, non sono programmabili come quelli della fabbricazione di un’auto) - un lavoro che è un processo misurabile solo molto approssimativamente in termini quantitativi. Una domanda che il legislatore dovrebbe porsi nel valutare questa proposta di riforma è quindi la seguente: che cosa esattamente significa offerta formativa e successo di gestione nella scuola pubblica?

«Varoufakis viene spesso accusato di essere un ministro troppo accademico e non abbastanza “politico” e concreto. Niente di più lontano dalla realtà. Ciò di cui oggi abbiamo bisogno sono proprio i politici in grado di coniugare delle prospettive di ampio respiro con gli strumenti di intervento nel breve periodo». La Repubblica, 16 marzo 2015
IL PRINCIPALE problema dell’Europa, si sente spesso ripetere, è che l’unificazione monetaria non è stata accompagnata da una vera politica fiscale comunitaria. E che senza una vera “unione fiscale” sarà impossibile uscire dalla crisi. Per “unione fiscale” si intende però soprattutto la necessità di correggere le differenze tra i Paesi.
Ovvero tra quei Paesi (fiscalmente irresponsabili) a cui è stato consentito di spendere troppo, finire nei guai e incrementare il rapporto tra debito e Pil e gli altri Paesi (fiscalmente prudenti) che si sono comportati in maniera responsabile, stringendo la cinghia e rendendosi più competitivi. “Unione fiscale” vorrebbe dunque dire che i Paesi deboli (Italia, Grecia, e via dicendo) oggi dovrebbero tagliare le spese … e naturalmente i salari dei lavoratori. Una soluzione, come è stato spiegato questa settimana a Cernobbio da Richard Koo (capo economista di Nomura ndr), Yanis Varoufakis e dalla sottoscritta, molto lontana dalla realtà. Per diventare competitivi servono investimenti intelligenti, non tagli.
Senza violare le regole di confidenzialità della conferenza di Cernobbio, quelle che gli anglosassoni chiamano Chatham House rules , permettetemi di elencare alcuni dei ragionamenti che abbiamo ripetuto nei nostri lavori ed interventi degli ultimi anni prima di incontrarci nella magnifica Villa d’Este sul lago di Como. Le posizioni convergono sull’idea che quando il settore pubblico “stringe la cinghia” peggiora la crisi invece che risolverla sia nel breve periodo (quando le imprese ed i consumatori privati stanno risparmiando) che nel lungo periodo (quando la vera crescita ha bisogno di investimenti strategici in nuove tecnologie e capitale umano). Quello che fa la differenza è il modo e la intelligenza con cui i soldi vengono spesi.
Cominciamo dal breve periodo. Richard Koo afferma da tempo nei suoi scritti che l’Europa ha confuso i propri problemi strutturali con i suoi, ben più urgenti problemi di contabilità in bilancio. Koo si riferisce al fatto che, come accade puntualmente durante le crisi determinate da un eccessivo debito privato, le imprese tentano di ridurre la propria esposizione finanziaria e, per quanto i tassi di interesse scendano si rifiutano di investire. È quanto vediamo succedere oggi: nonostante tassi di interesse pari a zero gli investimenti e la domanda non crescono e tutto ciò genera deflazione. Se, contemporaneamente al settore privato, anche quello pubblico inizia a comportarsi pro-ciclicamente, cioè a “stringere la cinghia”, si trasforma una recessione in una vera e propria depressione. Ed è proprio ciò che è accaduto.
Koo sostiene da vari anni che l’Europa dovrebbe imparare dagli errori compiuti dal Giappone, durante la crisi degli anni ‘90, quando il governo, ha aumentato le tasse e tagliato le spese; così il deficit, a causa dell’imponente calo negli investimenti e nella domanda, invece di ridursi è cresciuto del 70%. Purtroppo l’Europa non ha ancora imparato la lezione: i governi nazionali continuano a tagliare e il piano di investimenti “Juncker” della UE si basa sulla speranza ridicola che 21 miliardi possano produrre un coefficiente di leva pari a quindici, trasformando come per magia la cifra iniziale in un investimento di oltre 300 miliardi di euro.
Invece gli Usa la lezione giapponese l’hanno un po’ imparata, subito dopo la crisi, accanto al quantitative easing, hanno anche speso 800 miliardi di dollari in un piano di investimenti e di innovazione nel campo dell’energia rinnovabile di cui ci ha parlato a Cernobbio il brillante economista di Princeton Alan Kruegher che è stato il consigliere economico di Obama durante quegli anni. Una scelta anticiclica che nell’immediato ha fatto crescere il loro deficit del 10% (e noi ci mettiamo a litigare per un aumento del 3%!) ma che oggi produce risultati: il Pil cresce, il rapporto fra debito e Pil cala e la divergenza tra la crescita americana e quella dell’Unione Europea continua ad aumentare.
Veniamo al lungo periodo. Oggi in Europa i Paesi che se la passano bene non sono quelli che hanno stretto la cinghia, bensì quelli che hanno investito e invefakis maggiormente in tutti quei settori ed aree in grado di determinare un incremento della produttività, come formazione del capitale umano, istruzione, ricerca e sviluppo, nonché nelle banche pubbliche e nelle agenzie che favoriscono le sinergie tra settori diversi ad esempio le collaborazioni tra mondo scientifico e imprese. Il problema dell’Italia non è il deficit eccessivo ma la mancata crescita, perché da almeno venti anni non si fanno investimenti di questo genere. Ciò che è mancato all’Europa quindi non è un piano comune di tagli ma un piano comune di innovazione e di investimenti. Che è ben diverso dal litigare sul fiscal compact.
È lo stesso piano di investimenti che Yanis Varoufakis teorizzava, prima di prestare la sua competenza di economista come ministro del governo greco. Varoufakis viene spesso accusato di essere un ministro troppo accademico e non abbastanza “politico” e concreto. Niente di più lontano dalla realtà. Ciò di cui oggi abbiamo bisogno sono proprio i politici in grado di coniugare delle prospettive di ampio respiro con gli strumenti di intervento nel breve periodo. Varoufakis lavora dal 2010 a quella che chiama una «modesta proposta per l’Europa» un piano di investimenti che ponga fine alle divergenze competitive che impediscono di uscire dall’attuale crisi. Se fosse stato ascoltato 5 anni fa, non saremmo di nuovo nei guai con i vari possibili “exit” dei prossimi anni (e non solo quello greco!). La sua proposta mirava alla creazione di denaro da destinare all’attività produttiva. L’idea era favorire una crescita trainata dalla Banca europea degli investimenti attraverso l’emissione di bond destinati all’investimento produttivo — con la Bce pronta ad acquistare quei bond, che avendo un rating tripla A sarebbero stati molto meno rischiosi dei bond nazionali. Finalmente l’Europa ha approvato un piano importante di quantitative easing, ma questo non basta, perché occorre dare una direzione al nuovo denaro creato, per evitare che finisca soltanto nelle casse delle banche le quali non necessariamente prestano denaro all’economia reale. Purtroppo, sino a quando la Germania non ammetterà che le differenze tra paesi forstono ti e paesi deboli sono dovute ai mancati investimenti strategici, finché non smetterà di proporre unicamente tagli ai bilanci nazionali, sarà difficile articolare una vera soluzione.
Per quante riforme strutturali si possano architettare, l’Europa non andrà da nessuna parte se non inizierà a programmare un futuro nuovo. Un futuro nel quale sia il settore pubblico che quello privato spendono di più nelle aree che favoriscono la crescita di breve e lungo termine. Proprio come su scala nazionale la Germania fa con il suo programma energiewende , che cerca di ottenere una vera trasformazione verde basata su nuove tecnologie e nuovi modelli di consumo e distribuzione. Insomma l’Europa dovrebbe fare come la Germania fa e non come la Germania predica ai Paesi europei in difficoltà. La «stagnazione secolare» non è affatto inevitabile, è un prodotto degli investimenti che decidiamo di fare o non fare. È ora di cambiare direzione, progettare, e creare, un progetto veramente comune.
La Repubblica, 16 marzo 2015
Se non è un trionfo poco ci manca, i seggi sono chiusi da poco più di un’ora e Felice Casson stappa già lo spumante alla «Casa Fortuna », a Mestre. Dieci anni dopo la sconfitta alle elezioni contro Massimo Cacciari, l’ex pm si prende un pezzo di rivincita alle primarie: un civatiano che spazza via due renziani, e così sarà lui il candidato sindaco di Venezia il prossimo 31 maggio. Con il 55,6 per cento dei voti ha battuto il giornalista della Nuova Venezia Nicola Pellicani, appoggiato dal Pd renziano (24,4 per cento); e l’ex consigliere comunale e avvocato Jacopo Molina (20%), renziano pure lui ma senza il grosso del partito alle spalle.
Per il senatore, 61 anni, era sì una vittoria attesa, con i sondaggi degli ultimi giorni (tutti ufficiosi) che lo davano in vantaggio, ma non con uno stacco così netto. L’impostazione legalitaria della sua campagna elettorale, in contrapposizione al cosiddetto «apparato», lo hanno premiato in una città ancora scossa dall’arresto, nel giugno scorso, del sindaco pd Giorgio Orsoni, rimasto invischiato nello scandalo legato al Mose. «Quella vicenda ha pesato molto sul voto — spiega un deluso Pellicani — un voto che comunque ha dato una indicazione netta. Peccato perché ho avuto poco tempo per far conoscere la mia proposta, adesso però guardiamo avanti, le nostre idee restano valide». E’ un voto che potrebbe dare un segnale anche a livello nazionale, visto che Casson (area Civati) ha avuto spesso una posizione di dissenso verso il governo di Matteo Renzi. E visto che a livello locale la sua candidatura ha trovato l’adesione di Sel, Rifondazione e ambientalisti, in antitesi rispetto alle dinamiche romane.
Scontri interni a parte, il centrosinistra può comunque dirsi soddisfatto: nonostante gli scandali dei mesi passati, la partecipazione è stata buona. Nei 36 seggi dislocati tra Venezia, Mestre e Marghera sono andati a votare circa 13mila cittadini, addirittura qualche decina in più rispetto al precedente del 2010, quello in cui prevalse proprio Orsoni. Le votazioni erano aperte anche agli stranieri (trecento elettori in tutto) e agli under 18: ma solo diciotto minorenni si sono recati alle urne, numero abbastanza deludente. Nessun problema ai seggi, al massimo un po’ di fila nel centro storico della laguna. Unica nota movimentata di una giornata sonnacchiosa e di attesa, le Sentinelle in piedi in piazza a Mestre; una cinquantina di persone scortate dai carabinieri, con i militanti dei centri sociali a fronteggiarli.
Adesso lo sguardo è proiettato alle elezioni vere e proprie, e Casson potrebbe vedersela con Francesca Zaccariotto, ex leghista ed ex presidente della Provincia. Ma con il centrodestra diviso in più rivoli e il M5S in via di implosione, in una città storicamente «rossa», il risultato potrebbe sembrare a portata di mano. Lo stesso Casson ostenta sicurezza. Anche se nessuno può sapere se davvero per il centrosinistra i postumi dell’affare Mose siano finiti qui.
“Ora legalità e trasparenza per cambiare la città ma non sono il Signor No”
“Ora legalità e trasparenza per cambiare la città ma non sono il Signor No”
intervista di Matteo Pucciarelli a Felice Casson
Felice Casson viene accolto dai militanti in piazza Ferretto. Gli squilla il telefono in continuazione.
Chi è, Renzi?
«No, no, ma qualcuno da Roma ha già chiamato, non si preoccupi, non sono isolato come dicevano. Dai capigruppo alle Camere al vicesegretario. Ora mi ha appena scritto un esponente dell’Udc, me lo devo conservare questo messaggino».
Questo voto ha un valore nazionale?
«Non credo, è figlio di quello che è accaduto in questi mesi. Il nostro popolo ha chiesto di voltare pagina con forza, nel nome della trasparenza, della legalità e dell’etica. Un segnale importante, ha vinto tutta Venezia».
Cacciari non la sosteneva, cosa starà pensando adesso?
«Chi se ne importa, davvero. Quando giorni fa ha fatto una conferenza stampa per dire che sosteneva Pellicani mi sono detto: è andata, sono alla disperazione completa. Ora comincia una nuova era».
Per lei è comunque una rivincita, a distanza di dieci anni.
«Era un’epoca fa, ma c’è una differenza rispetto ad allora: stiamo messi molto peggio».
E’ fiducioso per le elezioni «vere»?
«Se il centrosinistra resta unito vinciamo senza alcun problema, chiunque si candidi dall’altra parte».
Perché dice «se»?
«E’ un’ipotetica delle realtà del terzo tipo, diciamo. Spero che nessuno voglia pensare ad altro...».
I suoi avversari dicono che lei è l’uomo dei no...
«Sono per una politica pulita, trasparente, di controllo. So benissimo che non possiamo limitarci a dire sempre no bloccando le attività territoriali, economiche, commerciali, imprenditoriali e così via che ci sono sul porto e sulle grandi navi. Ma dobbiamo essere in grado, e sono certo che lo saremo, di mettere in pratica proposte credibili e attuabili da contrapporre a chi vuole arricchirsi con il malaffare, a chi anzi lo ha fatto negli anni passati».
Senta, ma alla fine si farà questo Mose?
«Ormai i lavori sono arrivati a oltre l’80 per cento e se tutto va bene dovrebbe entrare in funzionamento a metà 2017. La grande questione sarà coprire i costi di gestione e manutenzione dell’opera. Servirà rinegoziare con il governo il patto di stabilità».
Privatizzerà il Casinò, se diventerà sindaco?
«No, vendere i gioielli di famiglia è una strategia miope» ( m. p.)

Il Fatto Quotidiano, 13 marzo 2015, con postilla
Non è un sottosegretario qualsiasi quello indagato a Catania, secondo l’anticipazione – non smentita e non confermata dalla Procura – del quotidiano La Sicilia. E non è un appalto qualsiasi quello che, secondo l’ipotesi dell’accusa, sarebbe stato truccato. Il sottosegretario Giuseppe Castiglione è nell’ordine: l’uomo forte del Ncd, l’asse portante del governo Renzi e il grande sponsor dell’elezione al Quirinale di Sergio Mattarella. L’appalto incriminato invece è invece quello da 98,7 milioni (triennale e assegnato prima in via provvisoria nel 2011 e poi definitivamente nel 2014) del centro di assistenza ai rifugiati più grande di Europa: il Cara (Centro di accoglienza per i richiedenti asilo) di Mineo (Catania), con i suoi 4 mila ospiti. Castiglione è stato soggetto attuatore, in qualità di presidente della Provincia di Catania, nella fase di emergenza per diventare presidente del Consorzio Calatino Terra di Accoglienza, composto dagli enti locali, per gestire il centro. Quando è stato eletto deputato nel 2013 e poi nominato sottosegretario all’Agricoltura da Enrico Letta e da Renzi, Castiglione ha lasciato il posto al sindaco Ncd di Mineo Anna Aloisi.
Le indagini per l’abuso d’ufficio e la turbativa d’asta della Procura di Catania, guidata da Giovanni Salvi e della Procura di Caltagirone, guidata da Giuseppe Verzera, erano in corso da mesi. Gli indagati sarebbero secondo le indiscrezioni ben undici. Un’accelerazione decisiva è arrivata quando l’Autorità nazionale anticorruzione ha spedito alla Procura di Catania il parere n.15 firmato da Raffaele Cantone e depositato il 3 marzo del 2015. La questione è giudiziaria ma anche politica. Sul Cara di Mineo si regge l’economia e il consenso elettorale della zona. «All’inizio non volevano il centro adesso se provi a levarglielo te ammazzano perché... 350 persone ci lavorano. Ma scherzi? Meglio dell’Ilva», chiosava Luca Odevaine nelle conversazioni intercettate dal Ros dei carabinieri per Mafia Capitale.
Odevaine, prima consulente e poi dal giugno 2014 collaboratore a tempo determinato, pagato 12 mila e 872 euro all’anno del Consorzio, era membro influente della commissione del Consorzio che ha assegnato questo appalto prima in via provvisoria e poi in via definitiva nel 2014 con la gara da 97,8 milioni di euro ora contestata. Al suo commercialista spiegava : «Tornerò per la commissione per aggiudicarla però diciamo che è abbastanza blindato insomma, sarà difficile che se lo possa aggiudicare qualcun altro, vabbè, no vabbè dai, è quasi impossibile». Nel suo atto Cantone spiega perché: la scelta di mettere insieme lavori, servizi e forniture eterogenei, già gestiti dal soggetto che in via provvisoria si era aggiudicato il Cara di Mineo, impediva ai concorrenti di entrare in gara davvero.
L’inchiesta è un colpo al cuore del Ncd che a Mineo prende il 39 per cento. Odevaine spiegava al suo commercialista che Castiglione sarebbe stato il vero dominus dell’assegnazione dell’appalto iniziale del 2011 (poi confermato dalla gara del 2014) a un consorzio che include il Consorzio Sisifo, una cooperativa rossa della Legacoop, e le coop bianche vicine a La Cascina e a Comunione e Liberazione più il Consorzio Sol Calatino (privato) che ha un nome simile a quello del Consorzio Calatino Terra di Accoglienza, guidato un tempo da Castiglione, stazione appaltante.
Cantone, lo sceriffo nominato da Renzi, ha avviato la sua azione contro il feudo del Ncd di Alfano su istanza della Cot società cooperativa: l’unica partecipante alla gara oltre all’associazione delle imprese (vicine a Castiglione e a Odevaine) uscenti e vincenti. Nel suo parere, Cantone scrive: «L’assenza di concorrenza e di convenienza per la stazione appaltante è dimostrata dal fatto che, oltre all’istante (Cot cooperativa, ndr) v’è stato un solo concorrente che ha partecipato alla procedura – il gestore uscente – cui è stato aggiudicato l’appalto con un ribasso molto ridotto pari al 1,00671 per cento». Odevaine spiegava così al suo commercialista Stefano Bravo l’inizio della storia nel 2011: «Mi è venuto a prendere lui (Castiglione, ndr) all’aeroporto, mi ha portato a pranzo, arriviamo al tavolo... c’era pure un’altra sedia vuota... dico eh “chi?”. E praticamente arrivai a capi’ che quello che veniva a pranzo con noi era quello che avrebbe dovuto vincere la gara (ride)».
Odevaine, poi arrestato con l’accusa di associazione mafiosa per altri fatti, non fa il nome del “predestinato” che sarebbe stato invitato a pranzo da Castiglione. I membri della cordata vincente che gestiscono oggi il Cara grazie alla gara da 97,8 milioni, oggetto dell’inchiesta catanese, sono gli stessi di allora: una coop rossa (Sisifo), una serie di coop bianche legate alla Cascina e il Consorzio Sol Calatino guidato da Paolo Ragusa, uomo vicino a Castiglione. «Se la vicinanza vuol dire amicizia, allora dico a chiare lettere che sono veramente onorato e orgoglioso di avere un amico come Giuseppe Castiglione, persona per bene che ha sempre avuto a cuore lo sviluppo del territorio» scriveva Ragusa sul sito del Sol Calatino, senza nascondere di avere appoggiato il progetto dell’Ncd.
Odevaine inserisce la storia del Cara di Mineo nel contesto politico nazionale che presiede ai governi Letta e Renzi: “Perché loro adesso... Castiglione si è avvicinato molto a Comunione e liberazione, insieme ad Alfano e adesso Comunione e liberazione di fatto sostiene strutturalmente tutta questa roba di Alfano e del centrodestra... Castiglione. Sono tra i principali finanziatori di tutta questa roba sì... sta dentro Lupi e infatti è il ministro delle Infrastrutture eh... e Castiglione fa il sottosegretario... all’Agricoltura ed è il loro principale referente in Sicilia... cioè quello che poi gli porta i voti, ce li hanno tutti in Sicilia”. Effettivamente il vero azionista di riferimento del Ncd non è Angelino Alfano o Maurizio Lupi, bensì proprio Castiglione: Ncd ha ottenuto il 9,1 nella circoscrizione isole e il più votato, con 56.446 voti, è stato Giovanni La Via, proprietario, “a sua insaputa”, della sede del consorzio che gestisce il Cara di Mineo, sostenuto alle elezioni proprio da Castiglione. Il ministro Maurizio Lupi si è fermato a 46.414 preferenze. I numeri parlano da soli.
Postilla
L'attuale sottosegretario all'agricoltura del governo Renzi Giuseppe Castiglione, già presidente della provincia di Catania, vicepresidente della regione e parlamentare europeo di Forza Italia, quindi coordinatore regionale Pdl, era stato arrestato e condannato in 1° grado (poi assolto) proprio per turbativa d'asta (appalti dell'ospedale Garibaldi a Catania). È il suocero di Pino Firrarello, già sindaco di Bronte (Dc, andreottiano, poi Forza Italia), come lui condannato per corruzione e turbativa d'asta e prosciolto per prescrizione, a sua volta cugino del noto Vito Bonsignore (per capirci, quello della Ragusa-Catania e adesso, con la benedizione del ministro Lupi, della Orte-Mestre), nonché, per gli interessati, storico cementificatore del parco dell'Etna. Visto che le intercettazioni che riguardano questo signore sono di pubblico dominio da mesi, c'è da domandarsi come mai nessuno ne abbia chiesto subito le dimissioni. Forse in attesa della Cassazione, o di qualche prescrizione?

La Repubblica, 14 marzo 2015
Seduti al tavolo di Maurizio Landini oggi a Roma ci saranno gli altri due soggetti che insieme alla Fiom si preparano a sorreggere l’esperimento della “Coalizione sociale” anti-Renzi: Emergency e Libera. Con loro, pezzi di Arci, Libertà e Giustizia, sigle studentesche come Rete della Conoscenza e Uds e poi il mondo dei centri sociali, quelli meno radicali. Ma non i partiti come Sel o Prc; su quelli c’è quasi il veto, tanto che ad alcune delle associazioni che parteciperanno al vertice è stato fatto notare che le strade sono due: o si sta nel “campo” delle formazioni politiche oppure si sceglie la via del sindacato delle tute blu. La convocazione è arrivata con una lettera firmata da Landini in cui si legge che «la politica non è proprietà privata ». Per questo serve «promuovere la partecipazione», «superando il frazionamento».
Dall’antimafia ai precari, dagli operai al volontariato. Sono mondi diversi tra loro, uniti dalla mancanza di un referente politico di peso. L’idea è dare il via a un cantiere che sul medio termine (unodue anni di gestazione) punti a diventare un soggetto politico. Per ora ci si limita ad essere “l’associazione delle associazioni”. Landini si muove con i piedi di piombo, teme molto di bruciarsi. «Prima di ogni cosa occorre ricreare un terreno favorevole, anche come mobilitazione e movimento» ripetono gli uomini più vicini a lui. Giorni fa Gino Strada, parlando ai delegati sindacali via telefono dal Sierra Leone, è stato chiaro: «Per un polo di aggregazione impegnato su diritti, pace e uguaglianza io ci sono, per quel che posso fare». E anche il legame personale del sindacalista emiliano con il fondatore di Libera don Luigi Ciotti — che ha presentato una proposta di legge per il reddito minimo, allargando quindi la propria sfera di interesse — è ben saldo.
La “Coalizione sociale” — ragionano in Corso Trieste — avrebbe un’autorevolezza che per certi versi le sigle della sinistra radicale non hanno più. L’assenza di Landini alla Human Factor di Sel a Milano è stata vissuta male da Nichi Vendola. Mentre poche settimane fa Stefano Rodotà, intellettuale vicino al leader dei metalmeccanico, in un’intervista su Micro-Mega definì quei partiti «zavorre ».
I riferimenti sono più che altro europei. In ottobre, al comizio di chiusura del festival dei giovani di Syriza ad Atene, erano in tre sul palco: il padrone di casa Alexis Tsipras, il leader degli spagnoli di Podemos Pablo Iglesias e proprio Landini. Non a caso il segretario della Fiom ha in testa una via di mezzo tra i due esperimenti vincenti della sinistra radicale europea: coniugando il mutualismo dei greci con l’idea molto “indignados” di imporsi nel dibattito bypassando i partiti. La riflessione parte da un dato di fatto: nei paesi europei a suo tempo denominati “Pigs”, complice la crisi che ha impoverito molti, si stanno aprendo insperate praterie a sinistra. Italia a parte.
Copiare modelli stranieri è impossibile ma importare alcune pratiche e discorsi sì. E difatti il linguaggio di Landini è cambiato molto negli ultimi mesi. Il continuo riferimento alla necessità di «unire i soggetti che il governo (o “il neoliberismo”) ha diviso», è una frase-chiave del sindacalista ma pure un must di Tsipras. Così come nel concetto di ambire alla “maggioranza” — cioè conquistare il consenso andando oltre il bacino della sinistra radicale, oltre ai confini della fabbrica — si intravedono le parole e il piglio di Iglesias.
Ora la prima vera tappa è la manifestazione del 28 marzo a Roma. C’è solo una possibile variante al disegno di Landini. Cioè il sogno, mai abbandonato, di guidare un giorno tutta la Cgil.